Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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(pagine) GIANGRANDE LIBRI
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NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA
IL DELITTO
DI BREMBATE
DI ANTONIO GIANGRANDE
YARA GAMBIRASIO
MASSIMO BOSSETTI COLPEVOLE PER ANTONOMASIA
QUELLO CHE NON SI OSA DIRE
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
SOMMARIO
INTRODUZIONE
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A BREMBATE YARA GAMBIRASIO NON C'E' PIU': ROMANZO NERO IN VAL SERIANA.
IN TEMA DI GIUSTIZIA E DI INFORMAZIONE CHI SBAGLIA PAGA?
GOGNA MEDIATICA E PROCESSI IN TV. QUANDO LA DEONTOLOGIA E LA LEGALITA’ VANNO A FARSI FOTTERE.
UNA CALIBRO 38 PER I PAROLAI E GLI SCRIBACCHINI.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
TUTTI DENTRO CAZZO!
VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
IL SUD TARTASSATO.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
BREMBATE SOPRA: QUANDO GLI ALTRI SIAMO NOI. IL DELITTO DI YARA GAMBIRASIO.
VI RACCONTO DON CORINNO SCOTTI: IL PARROCO DI YARA.
CASO YARA GAMBIRASIO: RESOCONTO.
MOHAMED FIKRI: LA PRIMA VITTIMA DI ERRORE GIUDIZIARIO DEL PROCEDIMENTO.
ANATOMIA DI UN PROCESSO.
3 LUGLIO 2015: INIZIA IL PROCESSO.
17 LUGLIO 2015: SECONDA UDIENZA.
11 SETTEMBRE 2015: TERZA UDIENZA. PARLANO I GENITORI, MAURA PANARESE E FULVIO GAMBIRASIO, E LA ZIA, NICLA GAMBIRASIO, E L’INSEGNANTE DI GINNASTICA, DANIELA ROSSI, E LE AMICHE ED IL COMPAGNO DI CLASSE DI YARA.
18 SETTEMBRE 2015: QUARTA UDIENZA. PARLANO LA SORELLA KEBA, FABRIZIO FRANCESE, SANTINO GARRO, ILARIO SCOTTI, MATTEO EPIFANI E GIUSEPPE DE ZANI.
23 SETTEMBRE 2015: QUINTA UDIENZA. PARLA MICHELE LORUSSO.
2 OTTOBRE 2015: SESTA UDIENZA. PARLANO GIANPAOLO BONAFINI E DARIO REDAELLI.
7 OTTOBRE 2015: SETTIMA UDIENZA. PARLA CRISTINA CATTANEO.
9 OTTOBRE 2015: OTTAVA UDIENZA. PARLANO DALILA RANALLETTA E GIOVANNI SCIUSCO.
16 OTTOBRE 2015: NONA UDIENZA. PARLA GIUSEPPE GATTI E RICCARDO PONZONE.
21-23-30 OTTOBRE 2015: DECIMA, UNDICESIMA E DODICESIMA UDIENZA. PARLA GIAMPIETRO LAGO.
6 NOVEMBRE 2015. TREDICESIMA UDIENZA. PARLANO FABIANO GENTILE E NICOLA STAITI.
13 NOVEMBRE 2015. QUATTORDICESIMA UDIENZA. PARLANO PAOLA ASILI E ROBERTO GIUFFRIDA.
18 NOVEMBRE 2015. QUINDICESIMA UDIENZA. PARLANO ANDREA PICCININI ED EMILIO GIARDINA.
20 NOVEMBRE 2015. SEDICESIMA UDIENZA. PARLANO CARLO PREVIDERE’ E PIERANGELA GRIGNANI.
27 NOVEMBRE 2015. DICIASSETTESIMA UDIENZA. PARLANO GIANCARLO BONACINA, CINZIA CORNALI, FILIPPO LAURINO, PRIMINA LOCATELLI, STEFANIA CAROZZA, GIUSEPPE COLOMBI, MARCO BRIOSCHI, ALESSANDRO DONADONI, SIMONA ARZUFFI E QUATTRO DIPENDENTI DI DUE CENTRI ESTETICI.
5 DICEMBRE 2015. DEPOSITO DATI GREZZI.
11 DICEMBRE 2015. DICIOTTESIMA UDIENZA. SCHERMAGLIE SUI DATI GREZZI.
16 DICEMBRE 2015. DICIANNOVESIMA UDIENZA. PARLA ANDREA PINTON.
18 DICEMBRE 2015. VENTESIMA UDIENZA. PARLANO GLI IVECO DAILY PEOPLE ED I DELATORI DELLA FINTA MALATTIA.
8-15 GENNAIO 2016. VENTUNESIMA E VENTIDUESIMA UDIENZA. PARLA RUDY CASLINI ED EZIO DENTI.
20 GENNAIO 2016. VENTITREESIMA UDIENZA. PARLANO I RIS SULLE FIBRE DEL FURGONE.
29 GENNAIO 2016. VENTIQUATTRESIMA UDIENZA. PARLA VITTORIO CIANCI ED IL RIS MATTEO DONGHI.
3 E 12 FEBBRAIO 2016. VENTICINQUESIMA E VENTISEIESIMA UDIENZA. PARLANO I GENETISTI GIORGIO PORTERA, MARZIO CAPRA E SARAH GINO.
19 FEBBRAIO 2016. VENTISETTESIMA UDIENZA. PARLANO GIUSEPPE SPECCHIO E RUDI D’AGUANNO, DANIELE APOSTOLI E NICOLA MAZZINI.
24 FEBBRAIO 2016. VENTOTTESIMA UDIENZA. PARLANO ALMA AZZOLIN, RODOLFO LOCATELLI, ESTER ZUFFI, MARITA COMI, FABIO BOSSETTI, OSVALDO MAZZOLENI.
26 FEBBRAIO 2016. VENTINOVESIMA UDIENZA. A 5 ANNI DAL RITROVAMENTO DEL CORPO DI YARA. PARLANO NADIA ARRIGONI, MONICA E LUISELLA MAGGIONI.
4, 11 e 16 MARZO 2016. TRENTESIMA, TRENTUNESIMA E TRENTADUESIMA UDIENZA. PARLA MASSIMO BOSSETTI. PARLANO GIOVANNI BASSETTI E LUIGI NICOTERA. RIPARLANO GIUSEPPE SPECCHIO E RUDI D’AGUANNO, DANIELE APOSTOLI E NICOLA MAZZINI, GIOVANNI RUGGIERI, GIOVANNI TERZI, MAURO ROTA, DOMINIC SALSAROLA.
18 MARZO 2016. TRENTATREESIMA UDIENZA. PARLA CINZIA FUMAGALLI, WALTER BREMBILLA.
30 MARZO 2016. TRENTAQUATTRESIMA UDIENZA. PARLA GIOVANNI BASSETTI, SABRINA RIGAMONTI ED ALTRI 15.
1 APRILE 2016. TRENTACINQUESIMA UDIENZA. PARLANO ALTRI 15 TESTIMONI A DISCARICO.
15 APRILE 2016. TRENTASEIESIMA UDIENZA. PARLANO LUIGI NICOTERA, NICHOLAS BOSSETTI E LA FISIOTERAPISTA.
22 APRILE 2016. TRENTASETTESIMA UDIENZA. LA DECISIONE SULLE RICHIESTE DI PERIZIE E LETTERE HARD.
13 e 18 MAGGIO 2016. TRENTOTTESIMA E TRENTANOVESIMA UDIENZA. REQUISITORIA DELL'ACCUSA.
20 MAGGIO 2016. QUARANTESIMA UDIENZA. ARRINGHE DELLE PARTI CIVILI.
27 MAGGIO, 10 GIUGNO 2016. QUARANTUNESIMA E QUARANTADUESIMA UDIENZA. ARRINGHE DELLA DIFESA.
17 GIUGNO 2016. QUARANTATREESIMA UDIENZA. LE REPLICHE.
1 LUGLIO 2016. QUARANTAQUATTRESIMA UDIENZA. LA SENTENZA.
28 SETTEMBRE 2016: LE MOTIVAZIONI.
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.
Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.
La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868)
Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.
27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia.
11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta".
15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura.
27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia.
30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani.
31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare.
2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo.
17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio.
10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.
21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore".
1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”.
1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.
8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia.
15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)
1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera.
1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta.
1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi.
1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc.
4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola.
Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6: “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.
Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.
Perché leggere Antonio Giangrande?
Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente”, ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri. Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.
Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)
Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,
La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.
Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.
Mentre gli occhi seguono la salda carena,
la nave austera e ardita.
Ma o cuore, cuore, cuore,
O stillanti gocce rosse
Dove sul ponte giace il mio Capitano.
Caduto freddo e morto.
O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.
Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;
Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;
Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.
Qui Capitano, caro padre,
Questo mio braccio sotto la tua testa;
È un sogno che qui sopra il ponte
Tu giaccia freddo e morto.
Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;
Il mio padre non sente il mio braccio,
Non ha polso, né volontà;
La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.
Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,
Esultino le sponde e suonino le campane!
Ma io con passo dolorante
Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.
Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.
Chi sa: scrive, fa, insegna.
Chi non sa: parla e decide.
Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?
Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.
La calunnia è un venticello
un’auretta assai gentile
che insensibile sottile
leggermente dolcemente
incomincia a sussurrar.
Piano piano terra terra
sotto voce sibillando
va scorrendo, va ronzando,
nelle orecchie della gente
s’introduce destramente,
e le teste ed i cervelli
fa stordire e fa gonfiar.
Dalla bocca fuori uscendo
lo schiamazzo va crescendo:
prende forza a poco a poco,
scorre già di loco in loco,
sembra il tuono, la tempesta
che nel sen della foresta,
va fischiando, brontolando,
e ti fa d’orror gelar.
Alla fin trabocca, e scoppia,
si propaga si raddoppia
e produce un’esplosione
come un colpo di cannone,
un tremuoto, un temporale,
un tumulto generale
che fa l’aria rimbombar.
E il meschino calunniato
avvilito, calpestato
sotto il pubblico flagello
per gran sorte va a crepar.
E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò
La coscienza
Volevo sapere che cos'è questa coscienza
che spesso ho sentito nominare.
Voglio esserne a conoscenza,
spiegatemi, che cosa significa.
Ho chiesto ad un professore dell'università
il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si,
ma tanto tempo fa.
Ora la coscienza si è disintegrata,
pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,
vivendo con onore e dignità.
Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.
Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande,
il gigante, quelli che sanno rubare.
Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?
Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare.
L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere,
la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.
Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle,
se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere.
E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,
mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.
Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)
perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,
adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare.
Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare,
la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,
vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)
A BREMBATE YARA GAMBIRASIO NON C'E' PIU': ROMANZO NERO IN VAL SERIANA.
Brembate Yara Gambirasio non c’è più, scrive Susanna Schimperna su "Il Garantista" il 27 dicembre 2014. A Brembate di sopra, provincia di Bergamo, vivono quasi 8.000 persone, un numero che i sociologi considerano perfetto per una comunità. Un numero abbastanza limitato da permettere lo stabilirsi di rapporti solidi e indurre un sentimento di appartenenza, ma allo stesso tempo non così angusto da provocare un senso di soffocamento. A Brembate di sopra non si conoscono direttamente tutti, ma tutti conoscono qualcuno che è legato a chi non si conosce. Così, quando il 26 novembre del 2010 una ragazzina di tredici anni non torna a casa dopo la palestra, il primo pensiero non è “qualcuno del nostro paese le avrà fatto del male”, ma “si è certo sentita male per la strada”. Solo alcuni pessimisti si permettono sospetti terribili, e sono sullo straniero, l’alieno, un uomo certamente venuto da fuori, perché ci sarà pure il web che ci collega al mondo, ma al di là dei 4 chilometri quadrati su cui si sviluppa il paese, si hanno altre facce, altri costumi, si è “diversi”. È sempre stato così, soprattutto nelle regioni montane o circondate, come Brembate, dai monti. Niente di strano. Quando le ricerche non approdano a nulla e il primo fermato è Mohamed Fikri, muratore, si pensa al peggio ma sembra quasi scontato, che ad aver fatto del male alla ragazzina non sia un brembatese. Invece Mohamed, che stava per imbarcarsi su una nave diretta a Tangeri, dimostra subito che lui con Yara Gambirasio non c’entra niente, che non stava scappando ma solo partendo per una vacanza programmata da tempo, e che, soprattutto, la frase che gli imputano “Allah perdonami, non l’ho uccisa”, registrata attraverso un’intercettazione ambientale, nella lingua in cui l’ha pronunciata vuol dire tutt’altro: la traduzione è stata fatta male. Siamo al 5 dicembre. Una settimana più tardi, spunta l’ipotesi del rapimento consumato perché la ditta di papà Gambirasio avrebbe rapporti con la camorra. Ritorsione, avvertimento, estorsione? No. Sfuma anche questa pista. Intanto gli investigatori, fin dai primissimi giorni, lavorano sui dna. Ne raccolgono tantissimi campioni, la gente si presenta spontaneamente, solidale, unita. Presto la ricerca si estende oltre Brembàt sura, come viene chiamato lì il paese, in un’indagine di proporzioni mai viste: ad oggi sono 18 mila i campioni raccolti ed esaminati. Da una parte la scienza, dall’altra la parapsicologia: una veggente racconta di aver sognato Yara distesa in un corso d’acqua, e le ricerche si spostano a Udine, nel comune di Socchiena. Non si trascura nulla, ma il corpo viene trovato soltanto a febbraio, a tre mesi esatti dalla scomparsa: il giorno 26. Il luogo del ritrovamento è a pochi chilometri da Brembate, a Chignolo d’Isola. Yara è stata colpita alla testa e accoltellata più volte, poi lasciata morire di freddo. Uccisa sul posto? Sembra di sì. Sembra. Ai funerali al Palazzetto dello sport, il 28 maggio, ci saranno migliaia di persone. Arriviamo a metà giugno: viene isolata una traccia di dna maschile sugli slip della ragazza, ma non è tra i profili già raccolti. Per trovare un dna compatibile bisogna aspettare fino a settembre 2012, quando il dna che si ricerca viene estratto da una marca da bollo su una vecchia patente di Giuseppe Guerinoni, di professione autista. Ormai, però, Guerinoni non esiste più. È morto a 61 anni, nel 1999. Le indagini sul dna del suo nucleo familiare non danno alcun esito e quindi si pensa a un figlio illegittimo. Chi, dove, di quale madre? Il figlio illegittimo viene individuato in Massimo Giuseppe Bossetti, non a caso, si dice, munito come secondo nome del nome del vero padre. Massimo Giuseppe nulla sa, crede di essere figlio di Giovanni Bossetti e di Ester Arzuffi, e la sua stessa madre, Ester, 67enne signora di cui ogni paesano è pronto a decantare la bellezza, l’eleganza e la dedizione con cui sta vicino al marito claudicante più vecchio di lei, nega e ancora nega, sostenendo di non aver avuto mai una relazione intima col Guerinoni e di aver concepito Massimo con il suo legittimo marito. La levata di scudi di Ester a difesa della propria vita privata va di pari passo con quella di amici, vicini, familiari tutti di Massimo, compresa la sorella gemella e la splendida moglie; levata di scudi, questa, che riguarda una questione molto più importante dell’onore”, cioè la possibilità che Massimo abbia ucciso Yara: ma nessuno sembra avere un dubbio, un tentennamento, niente. Marito esemplare, lavoratore su cui non c’è nulla da dire, padre di tre figli che ama molto. I pubblici processi che gli vengono fatti in tv e sui giornali mettono l’accento sui capelli e le sopracciglia troppo biondi, sull’abbronzatura troppo accesa. Ma più di questo, che dire? Il 16 giugno di quest’anno, Massimo Bossetti viene arrestato con l’accusa di omicidio volontario. Lo interrogano, tace. La Vodafone smonta un indizio: si pensava che lui avesse spento il cellulare alle 17.45, proprio nel momento in cui agganciava la cella telefonica di Mapello cui si collegava il cellulare di Yara, invece no, perché l’ultimo sms Yara lo spedì alle 18.49, poi il cellulare fu spento alle 18.55, ed era collegato non col ripetitore di Mapello, ma con quello di Brembate. Ulteriore colpo di scena. Il 6 agosto, il pm Letizia Ruggeri rivolge a bruciapelo questa domanda a Bossetti: “Ma lei lo sa che anche suo fratello non è figlio di Giovanni Bossetti?”. Il pm si riferisce al fratello minore, nato cinque anni dopo Massimo e la gemella. Risposta, calma: “Non ci credo”. Oggi, a quattro anni dalla scomparsa di Yara, gli avvocati difensori di Bossetti denunciano inaccettabili pressioni «anche da parte di coloro a cui è affidata la custodia di Bossetti e persino del cappellano del carcere» per spingere il loro assistito a confessare, mentre la moglie Marita ad essere dalla sua parte, la madre è ferma nel negare di aver avuto sia i gemelli che l’ultimo figlio da altri uomini, Bossetti non smette di avvalersi della facoltà di non rispondere. Però ha fatto sapere che in carcere prega. Per i suoi figli e per Yara.
L'omicidio di Yara, romanzo nero in Val Seriana. Silenzi, omissioni, reticenze. Nei paesi scenario dell'omicidio della ragazzina di Brembate Sopra, nel bergamasco, tutti si conoscono. Ma solo la tenacia di un maresciallo è riuscita a scalfire il muro del silenzio, scrive Gigi Riva su "L'Espresso". Me no. Io no. Per una frase così breve, pronome personale e negazione, è comprensibile anche l’ostico dialetto bergamasco. «Me no» è il ritornello secco, definitivo, quasi ostile che è stato colonna sonora delle ricerche dell’assassino di Yara Gambirasio. Almeno per le orecchie di un maresciallo che si è scontrato, giorno dopo giorno, porta dopo porta, per mille e più porte, con quella che in Sicilia chiameremmo omertà e che, salendo la latitudine, si addolcisce nella più accettabile “riservatezza”. «Me no» è stata la risposta standard opposta alla perenne domanda, declinata in tante sfumature, “sai qualcosa?”. Finché lentamente, colpo dopo colpo, si è aperta una breccia nel muro della diffidenza. Va bene la scienza, il Dna, le compatibilità genetiche, l’allele raro, i laboratori, ma, parallelamente, per venirne a capo, ci sono voluti il sudore artigianale, le scarpe consumate, la pazienza, l’ostinazione. Insomma l’indagine vecchio stile sul territorio, quella basata sulle confidenze, le mezze ammissioni, le connessioni da interpretare, le tessere di un mosaico che si incastrano e vanno al posto giusto. Per raccontare questo lato meno noto dell’indagine bisogna tornare all’ottobre scorso. Yara è stata uccisa da quasi tre anni. Da uno gli inquirenti sanno chi è il padre dell’assassino. Ci sono arrivati grazie a un mix di tenacia e fortuna. Isolata una traccia di Dna maschile (battezzata “Ignoto 1”) sugli slip e sui leggings della tredicenne hanno disposto il più esteso screening di massa della storia italiana, 18 mila campioni raccolti. Compresi quelli dei frequentatori della discoteca “Sabbie Mobili” di Chignolo d’Isola, che si trova accanto al campo dove è stato rinvenuto il cadavere. Sorpresa: un cliente del locale da ballo, Damiano Guerinoni, innocente, bene precisarlo subito, condivide con “Ignoto 1” il ceppo familiare per via paterna. Di parente in parente sono risaliti allo zio, Giuseppe Guerinoni, di Gorno, autista di autobus, morto nel 1999 a 60 anni, sposato con due figli, pure completamente estranei. Eppure è lui, per la scienza, il padre del presunto killer al 99,99999987 per cento. Un figlio illegittimo, è il sospetto. Corroborato da quanto affermato da Vincenzo Bigoni, collega di Guerinoni: «Mi confidò che aveva messo nei guai una ragazza di San Lorenzo di Rovetta. Sarà stato all’inizio degli anni Sessanta». Verità nella sostanza, ma alcuni dettagli sbagliati, il periodo, il luogo, allontanano la soluzione. Torniamo all’ottobre scorso. Gli inquirenti, più che brancolare nel buio, sono appesi a una provetta. Quasi peggio, psicologicamente: sei a un passo e non procedi mai. Chignolo d’Isola, Brembate Sopra (il paese di Yara), sono all’inizio della pianura bergamasca a ridosso del capoluogo. Gorno, San Lorenzo di Rovetta, una cinquantina di chilometri più su, Alta Valle Seriana, dintorni di Clusone. È là che viene custodito il mistero. Là bisogna vincere il muro di gomma. Letizia Ruggeri, il pm, ha nella sua squadra di polizia giudiziaria. A 20 anni, vinto un concorso alle poste, si è spostato a Varese. Vita impiegatizia? Non faceva per lui. Sente la vocazione della divisa, entra nell’Arma e prende servizio proprio a Clusone, inizio degli anni Ottanta. Lì ancora abita e fa la spola con Bergamo. Chi meglio di lui, una faccia nota, rassicurante, per penetrare nei segreti di questa “Twin Peaks” orobica, con molte similitudini con la famosa serie tv americana di David Lynch? Anche qui c’è l’omicidio di una ragazza, seppur avvenuto altrove, anche qui c’è da far affiorare il lato oscuro di una comunità di montagna. E l’agente speciale Dale Cooper è un signore dall’aria paciosa, giacca cravatta, capelli e barba bianchi: Mocerino appunto. Il maresciallo ha un nucleo forte dal quale partire, Giuseppe Guerinoni. Da quel centro irradia le ricerche. I congiunti, i colleghi, gli amici, i passeggeri dell’autobus. Il suo è un viaggio a ritroso nel tempo, nell’Alta Valle Seriana degli anni Sessanta - Settanta, in quel mondo che usciva dalla miseria ed entrava, a pieno titolo, nel boom con le fabbriche cresciute attorno al fiume Serio per alimentare, oltre al benessere, il mito della laboriosità bergamasca. Ma si scontra con quella sequela infinita e scoraggiante di «me no». Un’indisponibilità per timore di violare la privacy e rovinare famiglie che finisce per equiparare, nel tetragono mutismo, un adulterio a un omicidio. Però va avanti, Mocerino, convinto che non ci possa essere segreto così impenetrabile da resistere alla sua cocciutaggine. Diverse volte crede di esserci arrivato per una coincidenza di indizi: donna, dell’età giusta, della zona giusta, e con un figlio illegittimo. Ma è il laboratorio di genetica a smontare l’illusione, a strozzare in gola un urlo di vittoria che un Paese intero attende. Perché Yara è uno di quei casi di cronaca nera che eccedono se stessi e diventano metafora della capacità di uno Stato di esercitare la giustizia. Tanto più ora che la tecnologia mette a disposizione strumenti prima impensabili. Tanto più ora che si è arrivati “a tanto così” e non si può subire l’onta di una beffa. Passa però l’autunno 2013. Si entra nel quarto anno dal delitto e niente succede. L’inverno copre di neve i monti delle Orobie e il maresciallo non molla. Va di bar in bar, di casa in casa, offre e si fa offrire caffè. Scende a Bergamo per riferire a Letizia Ruggeri. Niente. Solo un congruo numero di corna scoperte e che erano state cristianamente sepolte nell’oblio. Tornano verdi i prati dell’altopiano di Clusone, fiorisce la primavera e, quando diventa tardiva, ecco la svolta. Per sublimare la quale bisogna lasciare la fiction di “Twin Peaks” e scomodare la grande letteratura per le assonanze con “La lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne (nella trama, un adulterio) e soprattutto con “La lettera rubata” di Edgar Allan Poe, quel documento che stava sotto gli occhi degli investigatori ma che nessuno vedeva. Perché, come scopriremo, la madre del presunto killer che tutti cercavano era la vicina di casa del padre biologico. E il testimone chiave il vicino di casa del nostro maresciallo. Siamo ai primi di giugno, dunque, e Mocerino si rimette per l’ennesima volta faccia a faccia con Antonio Negroni, il vicino appunto, nonché un anziano autista come Guerinoni. Esce, da quel colloquio, il nome di Ester Arzuffi. È il precipitare verso l’epilogo. L’Arzuffi era stata censita tra le 584 donne che erano entrate in contatto, a qualunque titolo, con Giuseppe Guerinoni, tanto che già nel 2012 era stata sottoposta al test del Dna. Qui due versioni opposte entrano in collisione. Una vuole che quel campione fosse tra i 4 mila (su 18 mila) ancora da analizzare, l’altra che fosse stato vagliato ma sia stato commesso un errore. In ogni caso il 13 giugno i laboratori danno il responso: è la madre di “Ignoto 1”. Due giorni dopo suo figlio Massimo Giuseppe Bossetti, 43 anni, muratore, viene fermato per un controllo stradale e sottoposto all’etilometro, lo stratagemma escogitato per prendergli il Dna. Arriva il responso atteso: è lui. E viene incarcerato, 16 giugno, con l’accusa di essere l’assassino di Yara Gambirasio. Non si capisce tanta fretta se non coniugandola alla lunga attesa. Per irrobustire l’apparato accusatorio (in aula il Dna non basta) si poteva mettere sotto controllo il telefono, fargli capire che era braccato, aspettare il passo falso. È sempre facile, a posteriori, riprendere il filo degli indizi e rammaricarsi degli sbagli, del tempo perso. In questo caso con qualche ragione decisiva, scritta nelle biografie degli amanti di allora, Ester Arzuffi e Giuseppe Guerinoni. Lei, classe 1947, è originaria di Villa D’Ogna, a ridosso di Clusone, un paese che al censimento del 1971 denuncia 1727 anime, dove tutti si conoscono e dove non passa certo inosservata l’intrigante Ester con gli occhi color del cielo. Non ha ancora 20 anni, nel 1967, quando si sposa con Giovanni Bossetti e va con lui ad abitare a Ponte Selva, frazione di Parre, grumo di case sul ciglio di alcuni tornanti in salita. Il vicino di casa è proprio Giuseppe Guerinoni, l’autista, al quale l’ingenuo marito affida il compito di portare tutte le mattine la moglie al lavoro alla manifattura “Festi-Rasini” di Villa d’Ogna, distante cinque chilometri, e che a quell’epoca impiegava centinaia di operaie. Davanti alla fabbrica c’era (c’è ancora) un bar dove si attardava la trentina di autisti in attesa della fine dei turni e dove capitava spesso che quei conducenti e quelle ragazze si mischiassero per una canzone al jukebox, l’accenno di un ballo. Giuseppe Guerinoni ha otto anni più di Ester, è «ö bel òm», un bell’uomo anche nel ricordo attuale di chi lo conobbe e quanto duri quel legame è impossibile sapere dato che lui non c’è più e che lei lo nega contro l’evidenza scientifica. Di certo alcune centinaia di persone potevano sospettare della liaison su quel fazzoletto di terra dove ognuno si fa gli affari propri anche se tutti conoscono gli affari degli altri. Sono ancora vive e in salute molte delle operaie della “Festi-Rasini” che li vedevano comparire insieme, tutte le mattine per almeno un paio d’anni. E poi Vincenzo Bigoni. Ricordate? È l’autista che sbaglia la data e il luogo, ma è amico di tutti e tre, lei, lui e l’altro. E di cui adesso gli inquirenti dicono: «Speriamo che davvero lo abbia tradito la memoria...». Comunque sia, nel 1969 Ester e il marito Giovanni Bossetti lasciano la Val Seriana, lui si è stancato del lavoro alla “Pozzi”, hanno deciso di prendere l’auto e di fermarsi dove troverà una nuova occupazione, allora funzionava così: sarà la“Philco” di Brembate Sopra. Si sono trasferiti da un anno, è l’autunno del 1970, quando nascono due gemelli, Massimo, l’incriminato per l’omicidio, e Laura, riconosciuti dal Bossetti ma figli naturali dell’autista di Gorno per il Dna. E si può dunque dedurre che la storia fedifraga sia continuata almeno un po’. Il segreto di Ester sarebbe stato inespugnabile se le tracce genetiche del figlio non fossero finite sugli slip di Yara provocando il terremoto in una società abituata ai silenzi del monte Presolana e a chiudere le imposte se passa un forestiero, magari per spiarlo da dietro le persiane. Finiranno le dirette tv, i parroci non dovranno più invitare, come fanno in questi giorni, a «pregare e non parlare». Anche se tacere è un’omissione. Chi scrive è della Val Seriana. Nel cortile della mia infanzia abitava una ragazza madre. A chiunque le chiedesse chi fosse il padre rispondeva: «Ön òm coi braghe», un uomo coi pantaloni. Si è portata quel nome nella tomba. Fiera di quel suo essere così bergamasca e così fedele a un giuramento. Ma copriva la sua storia, non un omicidio.
IN TEMA DI GIUSTIZIA E DI INFORMAZIONE CHI SBAGLIA PAGA?
Con le motivazioni Knox-Sollecito la Cassazione mostra i pugni a chi privo di professionalità lavora nel sistema giustizia e sbaglia anche a causa dei media, scrive Massimo Prati su “Albatros-Volando ControVento”. Sembra fatto apposta e forse... Da poco si è chiuso il secondo processo farsa contro Sabrina Misseri e tra poco inizieranno ufficialmente quelli contro Massimo Bossetti, Veronica Panarello e altri che si proclamano innocenti e finalmente i giudici di Cassazione mostrano i pugni e motivano una sentenza usando la logica del codice penale lasciando da parte le suggestioni e i pregiudizi che sparge chi si sente intoccabile, chi per convincere il popolo della propria tesi, anche assurda, usufruisce degli aiuti mass-mediatici, quelli che ogni volta sfociano nello scoop colpevolista che porta il convincimento popolare a credere che le procure abbiano ragione a prescindere da quanto di più fantasioso e incredibile scrivano su atti che Gip e Gup di riferimento accettano acriticamente e ad occhi chiusi. Finalmente la Cassazione non ha dato la solita carota ai condannati e col bastone della vera Giustizia ha bacchettato gli investigatori e i procuratori che abusano del loro potere e che, indagando male e in maniera superficiale, senza avere nulla di serio in mano (né prove, né veri indizi concordanti, né ricostruzioni valide, né moventi plausibili) dapprima incarcerano e poi portano a processo i loro colpevoli preferiti. Ma non c'è solo questo, perché finalmente la Cassazione ha anche apertamente ammesso che i media hanno un ruolo determinante nella conduzione di indagini che proprio a causa della pressione mediatica, che invoglia a far tutto di fretta, finiscono con l'essere spasmodiche e di conseguenza mal-fatte e approssimative. Ma ancora non basta, perché ha finalmente bacchettato anche chi ha lavorato e ancora lavora nel ramo scientifico, in quella istituzione supportata e venerata sia dalle procure che dagli opinionisti televisivi, in quella istituzione che nel caso in questione (che farà da pietra di paragone per altri casi da trattare) ha mal-repertato e mal-conservato i reperti e non ha usato la giusta professionalità nelle analisi. In ultimo, ma non per ultimo, ha finalmente bacchettato anche i giudici che l'hanno preceduta nei giudizi. Giudici che invece di assolvere per come voleva la legge hanno condannato o rinviato ad altra sede basandosi su pregiudizi personali senza minimamente considerare la logica e il codice penale. Leggendo quanto scritto sulle motivazioni si scopre che la Cassazione punta il dito sugli investigatori e sui procuratori di Perugia a cui doveva essere chiara sin da subito l'assurdità della loro tesi accusatoria, tesi mancante di qualsivoglia appoggio solido. Per quanto attiene l'ultimo movente ipotizzato dalla procura (i dissapori fra le coinquiline acuiti dal fatto che - secondo i procuratori - a Meredith Kercher non stava bene che la Knox avesse fatto entrare Rudy Guede nel loro bagno) la bacchettata è forte e fa rumore, dato che nelle motivazioni si legge che non solo un simile movente è assurdo, ma che è anche poco rispettoso della realtà processuale. Inoltre, la Cassazione si chiede con quale logica i procuratori abbiano potuto pensare che Amanda Knox e Raffaele Sollecito avessero ripulito selettivamente la scena del crimine, cancellando quindi solo le tracce della loro presenza nella stanza di Meredith Kercher, lasciando però in bella vista altre tracce facilmente pulibili all'interno del bagno. Ed anche: come sia stato possibile pensare che i due ragazzi avessero simulato un furto (i vetri della finestra si trovavano all'interno, sotto i vestiti e i mobili) quando fu lo stesso Sollecito al suo ingresso nella casa a far notare alla Polizia Postale l'anomalia della situazione, dato che nulla sembrava essere stato asportato da quella stanza. E assurdo è anche pensare che i cellulari siano stati portati via e poi gettati per non farli squillare anzitempo, visto che bastava spegnerli per ottenere lo stesso risultato. No, la Cassazione stavolta non le ha mandate a dire a nessuno e si è assunta quel ruolo che le spetta di diritto anche citando il lavoro degli analisti. Ha tirato in ballo la dottoressa Patrizia Stefanoni e parlando del gancetto del reggiseno ha riportato la sua dichiarazione a processo. Dichiarazione in cui la dottoressa della Polizia Scientifica affermava di non aver repertato inizialmente il gancetto perché non ritenuto importante in quanto già aveva repertato il reggiseno della vittima. Naturalmente la Cassazione l'ha cassata, visto che i reggiseni vengono chiusi e aperti tramite il gancetto che si mostra dunque essere la parte più importante da analizzare. Nello stesso tempo ha puntato il dito sulla mancata ripetizione delle analisi che per ritenersi affidabili e valide si devono fare almeno due volte, questo pretende la legge e questo ha asserito a processo anche il perito nominato dalla corte (che fra l'altro lavora nella stessa Polizia Scientifica). In pratica, dalle analisi svolte non si è trovata alcuna prova valida da portare a processo e, vista la mancata ripetizione, le risultanze dai giudici non erano da considerare neppure indizi. E qui la Cassazione ha ribadito il concetto che se il materiale da analizzare non è deperibile, anche quando manca la possibilità di rifare le analisi perché il materiale repertato è scarso i risultati ottenuti a processo sono da considerare nulli e privi di valore probatorio o indiziario. Questo pur se le analisi si sono eseguite nel rispetto della legge con la formula dell'accertamento irripetibile. Ma la Cassazione non si è fermata e ha ammonito anche quei giudici che invece di essere imparziali colmano i vuoti investigativi usando una loro personale logica. Per capire meglio pensate alla sentenza del giudice Marina Tommolini, caso Parolisi, che per condannare il caporalmaggiore stravolse le risultanze investigative cambiando a suo piacimento sia il modus operandi che il movente portati dall'accusa. La Cassazione dice che c'è una regola da rispettare, regola che alcuni giudici non rispettano, regola che la Cassazione pone in primo piano scrivendo sulle motivazioni che la ricostruzione prescelta (se quella portata dalla procura), anche se conforme alla logica ordinaria, deve, pur sempre, essere aderente alla realtà processuale e porsi come precipua risultante di un processo di valutazione critica dei dati probatori ritualmente acquisiti. Insomma, il ricorso alla logica e all'intuizione (del giudice) non può in alcun modo supplire a carenze probatorie o ad inefficienze investigative. A fronte di una prova mancante, insufficiente o contraddittoria il giudice deve limitarsi a prenderne atto ed emettere sentenza di proscioglimento, ai sensi dell'art. 530 comma 2 codice procedura penale, seppur se animato da autentico convincimento morale della colpevolezza dell'imputato. In pratica, la Cassazione ha espresso un concetto chiaro che non va interpretato ma messo in atto. Se chi porta avanti le indagini le sbaglia e non è in grado di provare la colpevolezza in tribunale, gli imputati vanno assolti e il giudice è obbligato ad assolverli. Se si vuol risultare professionali si facciano indagini migliori che portino a risultati migliori e alla possibilità di condannare o scagionare a ragion veduta. Quanto sopra è solo una minima parte di ciò che hanno scritto i giudici di Cassazione. Minima parte che però ci fa capire i motivi per cui Amanda Knox e Raffaele Sollecito siano stati assolti e perché abbiano subito per troppi anni il carcere ingiusto. Finalmente sappiamo che anche per la Cassazione la colpa è della malagiustizia italiana e deriva dal lavoro sbagliato svolto da un'insieme di persone poco professionali. E visto che gli stessi giudici di Cassazione hanno puntato il dito sulla pressione dei media che non aiuta le buone indagini, ora tutti dovrebbero capire che gli assembramenti televisivi che si accalcano sui luoghi dei crimini alla ricerca di scoop sono deleteri per gli investigatori, per i procuratori e per le loro indagini. Deleteri perché i pool investigativi sono comunque composti da persone non abituate ai riflettori, persone che trovandosi nella condizione di massima visibilità potrebbero sentirsi obbligate a cercare un colpevole al più presto e a tutti i costi. Quindi nella condizione che più porta a commettere errori e a perseverarli. Insomma, il quadro descritto è desolante e solo chi è mentalmente cieco non vede che troppo spesso siamo costretti ad assistere allo show di una giustizia inutile, poco professionale e soprattutto dannosa, supportata e presentata al pubblico, in pompa magna, dagli zerbini dell'informazione (quelli che per trenta denari si stendono sotto i piedi di chi offre lo scoop) che la osannano quale verità assoluta ancor prima che esistano indagati e processi. E la Cassazione ha scritto qualcosa anche a proposito di questo, affermando che non si possono accettare testimoni che a posteriori, dopo essere stati martellati dai media, accusano gli imputati. Una cosa logica che troppo spesso viene dimenticata (vedi i testimoni contro Sabrina Misseri e Cosima Serrano che solo dopo mesi e mesi di martellamento mediatico hanno cambiato versione). Ma che importa a quegli zerbini che alleati all'accusa si mostrano in video e con faccia saccente catturano la pubblica opinione, i nuovi testimoni e i nuovi giudici popolari grazie alla carta moschicida del pregiudizio? Carta stesa a più mani da famosi esperti, da opinionisti attaccati alla poltrona o creati per l'occasione e da pennivendoli specializzati in bufale? Persone che senza aver letto e vagliato nulla si accodano al potere costituito e ripetendo a pappagallo quanto si vuole che ripetano restano aggrappati al carro colpevolista fin quando il carro è in auge? Fin quando è in auge perché se cambia il vento, incuranti dei danni già procurati alla mente del popolo, gli stessi colpevolisti per qualche giorno cambiano il modo di esporre le opinioni. Le loro facce restano imperterrite sui video, e chi le schioda, ma si modificano e per l'occasione diventando bronzee. Naturalmente fra loro c'è chi le motivazioni neppure le legge e chi non capendoci nulla si trova spiazzato dal voltafaccia momentaneo dei colleghi, ma da buon camaleonte mediatico si adegua alle nuove parole di circostanza. Naturalmente c'è anche chi finge di non aver fatto nulla in passato e con nonchalance sale momentaneamente sull'altro carro come se mai avesse accusato apertamente qualche indagato... certo che la memoria umana sia troppo scarsa e abbia perso il ricordo delle sue vecchie parole. Per capire prendiamo Enrico Fedocci, l'inviato di Mediaset che nei mesi passati ha puntato sulla forza delle indiscrezioni per convincere il suo pubblico della colpevolezza di Massimo Bossetti. Lui nei mesi successivi all'arresto ha portato sugli schermi i filmati del furgone e le intercettazioni telefoniche fra madre e figlio (robe che a suo dire incastravano il muratore).Eppure, dopo le motivazioni si è auto-smentito e ieri in un servizio andato in onda su Studio Aperto ha ammesso che quanto scritto dai giudici di Cassazione per motivare l'assoluzione della Knox e del Sollecito potrebbe influire sui processi che stanno per iniziare, perché in nessuno di questi ci sono prove certe e indizi decisivi buoni a condannare gli imputati. Ma come? Fino a ieri l'altro Bossetti non aveva scampo perché le prove erano granitiche, ed oggi neppure su di lui ci sono certezze in grado di fargli prendere l'ergastolo? Qual vento hanno lanciato i seri Giudici di Cassazione? Sarà in grado di pulire il cielo? No, non pulirà nulla perché, vento o non vento, state sicuri che il buonismo ipocrita in mancanza di condanne esemplari a quegli editori che permettono ai loro dipendenti di stuprare la legge e gli indagati (parlo di milioni e milioni di euro) non durerà dato che a livello economico essere garantisti in tivù e sui giornali, in termine di vendite non rende. Per guadagnare occorre entrare a piedi uniti nella falla della nave giustizia e continuare a proporre titoloni morbosi in grado di oscurare la parte sana del cervello umano, occorre suonare il flauto magico e obbligare la pubblica opinione a seguirne la melodia. Questo si fa da anni e questo si farà ancora. Perché anche se la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha motivato e bacchettato in maniera seria per cercare di chiudere, almeno in parte, la falla che da troppi decenni sta affondando la Giustizia italiana, poco durerà il rattoppo se al giusto codice penale non si adegueranno tutti gli altri giudici. Ad iniziare dai troppi Gip che invece di seguire la legge da tanto tempo preferiscono le favole e come i topolini di Hamein seguire il suono del flauto del pregiudizio in cui soffia l'accusa...
Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità e mentire spudoratamente? Scrive Massimo Prati su “Albatros Volando Contro Vento”. America - 1880 (milleottocentoottanta) - a una cena di giornalisti all’American Press Association c'è anche John Swinton, un editorialista del New York Sun che invitato a brindare alla stampa indipendente dice: "In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che anche scrivendole non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattrore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Sono passati 135 anni da quel discorso e da noi, in Italia, a dire il vero qualcosa è cambiato. Ora da noi la stampa non si inchina più solo al volere degli uomini ricchi, a chi detiene il potere maggiore di uno stato, ora si inchina anche agli "uomini del potere locale". Vi siete mai chiesti perché ci sono giornalisti sportivi a cui è vietato entrare nella sala stampa del"loro" stadio? Semplicemente perché hanno criticato la squadra di cui scrivono o chi la guida a livello dirigenziale. Vi siete mai chiesti cosa accade quando un giornalista non allineato non può entrare in una sala stampa e non può intervistare i calciatori? Semplice. Leggeremo sempre notizie buoniste di un certo tipo che mai porteranno critiche serie. Ed anche se l'esempio sembra stupido perché si parla di sport, quindi di una informazione minore, in effetti stupido non è perché rapportandolo a qualsiasi altro argomento, dalla politica alla giustizia, fa capire quali siano i rapporti che si vogliono obbligatoriamente far intercorrere fra chi informa e chi, in pratica, comanda. I giornalisti politici, ad esempio, devono seguire una linea editoriale di parte per "partito preso". Per cui occorre, a prescindere, criticare ciò che fa o dice lo schieramento opposto... anche se sinteticamente identico a quanto dice o fa il proprio. Vi siete mai chiesti chi è che sparge il pregiudizio? Per forza di cose chi ci informa, chi sparla additando a colpevole chi una procura vuole colpevole. Magari non ci sono prove. Magari neppure ci sono indizi seri. Ma a forza di insistere su un argomento si crea una convinzione (un meme). E la convinzione fa sembrare prova e indizio anche la più inutile delle banalità Banalità che sparsa ai quattro venti dall'informazione e dagli opinionisti che la cavalcano, verrà metabolizzata dall'opinione pubblica e creduta di una importanza vitale. Ed ecco che così facendo si fa credere ai lettori che la verità è quella scritta sugli atti giudiziari e non sui ricorsi dei difensori. Questo accade, anche se in realtà sugli atti si legge tutt'altra cosa. Ma il fatto che in pochi abbiano accesso ai verbali di interrogatorio agevola chi scrive articoli "mirati" a cui nessuno fa da contraltare. Anche perché, dopo l'iniziale assembramento, è la stampa locale che fornisce la maggior parte delle informazioni a quella nazionale. E dove le prende le informazioni se non in procura? Quale giornalista moderno rischierebbe di diventare "ospite sgradito", ad esempio criticando una linea investigativa o un arresto immotivato, sapendo che le porte di "certi uffici" gli si potrebbero chiudere in faccia? Tutti vogliono lavorare e guadagnare. E chi scrive di cronaca nera da troppi anni si nutre grazie all'accondiscendenza di alcuni. Quella che permette a certi giornaluncoli di nascere e sviluppare grazie a scoop creati ad arte con frasi "ad hoc" estrapolate in maniera unilaterale da un verbale o da una intercettazione secretata. E quasi tutti sono contenti. Contenta è la procura che vede aumentare la sua credibilità, l'editore che vede aumentare i profitti e il giornalista che si ritrova famoso perché catapultato sotto i riflettori per quanto ha scritto e si è usato per più puntate nei talk show dell'orrore. Gli unici scontenti sono gli indagati, i loro familiari e, quando ce ne sono, i loro figli minori che dalla valanga di notizie gettate a pioggia, che inevitabilmente bagneranno anche il loro ambiente sociale, verranno demoliti psicologicamente. A nessuno importa spargere la verità assoluta, quella che deriva solo dalla logica impossibile da alterare. L'informazione da tanto non fa cernite, da tanto non vaglia con critica la "velina" che arriva dagli uffici a cui attinge a piene mani. Chi li informa sa che per i media è facile amalgamare l'opinione pubblica alla linea voluta. Basta sbatterle in faccia la solita domanda: "Perché i procuratori dovrebbero, se non ci sono motivi, accusare una persona a caso?". La risposta potrebbe essere facile, visto che non esiste l'investigatore infallibile e gli errori giudiziari sono ormai una regola che annualmente costa tanti denari pubblici. Ed è logico che se non è l'informazione a ribadire questa ovvietà, si finisce sempre nel solito imbuto. Quindi a credere che quanto dice la difesa è falso, perché le indagini sbattute sui video per anni dicono il contrario e i difensori per luogo comune farebbero di tutto pur di salvare il dietro al loro assistito, mentre quanto afferma l'accusa è più che vero. Anche se la sua ricostruzione appare incredibile e illogica. Così facendo si distrugge la vera informazione, quella parte di giornalisti che racconta solo la verità e critica chi va contro le giuste regole, e si finisce per dover accettare una serie infinita di compromessi. Forse qualcuno ancora non lo sa, ma il compromesso è l'inizio della fine perché chi accetta il primo non potrà rifiutare il secondo e neppure il terzo e il quarto e così via. Facendo così la fine di quei delinquenti che una volta entrati nell'organizzazione malavitosa non hanno più modo di uscirne... se non da morti. Come disse John Swinton? "Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Forse Swinton è stato anche troppo drastico coi suoi colleghi, forse nei giornalisti non c'è quella intenzione convinta di distruggere la verità... ma troppi esperimenti mentali si son fatti nell'ultimo secolo da non sapere che una volta plasmata l'idea altrui nessuno leggerà più usando la logica e nessuno si accorgerà di aver letto o ascoltato, e mentalmente accettato anche per anni, articoli o parole di una stupidità eclatante. Chi di voi sa cos'è il meme? Per restare nell'orbita semplice e non inserirsi in spiegazioni difficili da comprendere, il meme moderno si può paragonare a un tormentone che viene lanciato in grande stile e condiviso da più menti così da unificarle e farle diventare parte integrante di una grande mente che funge e prende il posto della mente individuale. Se parliamo di internet, si può paragonare alla foto del momento che postata su facebook viene condivisa da migliaia di persone. Pare nulla, una cosa poco pericolosa, ma così non è dato che se i media lanciano e danno per vero un meme falso, e qui comprendo anche il campo giustizia, la mente lo elaborerà facendolo proprio come fosse vero. E più se ne lanciano, e più se ne elaborano, e più si corre il rischio di non riuscire a capire che la realtà non è quella che si crede vera. E più si corre il rischio di far crescere una specie di tumore, un virus (da qui la parola "virale" usata quando prende piede la moda del momento grazie a un meme) che impossessandosi del nostro cervello lo porterà a fare ragionamenti mirati che una mente libera troverebbe ridicoli e privi di validità. Ci si può salvare da un virus che pare ormai essersi propagato a dismisura e che con l'avvento di internet ha attecchito e si è espanso grazie anche ai copia-incolla che duplicano all'infinito la notizia del momento? Certo che sì. Basterebbe che i media invadessero l'etere di notizie vere in grado di delegittimare quelle false. Ma in Italia, in questo periodo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Scrivere ciò che si pensa non si può. I giornalisti devono obbedire, oggi come 135 anni fa. In caso contrario qualcuno smetterà di fornire loro informazioni, qualcun altro smetterà di invitarli in certe trasmissioni e l'editore li manderà a scrivere i necrologi. Motivo per cui, per non soccombere ognuno di noi deve cercarsi una cura su misura che possa contribuire anche alla demolizione del virus. Ad esempio, si potrebbe iniziare a spegnere la televisione quando in tivù c'è chi il virus lo spande a piene mani e si potrebbe iniziare a far marcire in edicola quei settimanali che il virus lo mostrano già in copertina. Così facendo gli editori capirebbero che il filone si sta prosciugando, che il pubblico pagante sta guarendo e che tenere in piedi un carrozzone solo per pochi intimi economicamente non conviene. Solo toccando loro le tasche e i portafogli si può sperare di risolvere una situazione altrimenti irrisolvibile. Certo, in questo modo si risolverebbe solo una delle piaghe. Ne rimarrebbero ancora tante da sistemare, ad iniziare dal rapporto che da secoli si è instaurato fra i media e la politica. Ma forse è troppo tardi ormai e quello è, e grazie al meme continuo rimarrà, un male incurabile...
Caso Bossetti - una realtà mediatica da Grande Fratello che potrebbe capitare ad ognuno di noi...Di Gilberto Migliorini su “Albatros-Volando ControVento”. Mai tale locuzione, prova scientifica, si è usata con tanta leggerezza e utilizzata come specchietto per le allodole per un pubblico educato a programmi di scienza spettacolo, alle fiction e ai reality. Per quale arcano motivo è stata rifiutata la ripetizione del test del DNA? Si è consumato tutto il materiale biologico e il test non è più ripetibile? Si tratta di un reperto fantasmatico ormai dissolto nelle diluizioni e bruciato negli incubatori a forza di procedure analitiche? Con la ripetizione del test (con la stranissima aporia del DNA mitocondriale), si sarebbero evidenziate troppe anomalie e omissioni? Cane non mangia cane. La casta si accinge a condannare Massimo Bossetti in ogni caso? Troppi interessi e carriere in gioco? Un coro angelico di colpevolisti e forcaioli ha fatto da supporto - come opinione pubblica - a un’indagine dalla spesa colossale e dagli esiti che potrebbero alla fine risultare inconsistenti: un cumulo di illazioni e congetture che della prova hanno soltanto l’effetto fantasmatico? Un incensurato e la sua famiglia coinvolti e esposti al pubblico ludibrio sulla base di prove evanescenti? Tutte da dimostrare in un contraddittorio dove a parlare saranno anche la difesa e i suoi periti. E poi quello strano Dna (una macchia) che dura mesi alle intemperie invernali, fresco come una rosa, con il sentore di un Beaujolais nouveau (appellation d'origine contrôlée). Un castello di elementi fondati su suggestioni mediatiche e su indizi che hanno più che altro il sapore dell’escamotage? Sempre che sia vero che il furgone di Bossetti transita qualche volta nei pressi della palestra... cosa ci sarebbe di strano in quello che era il solito itinerario verso una casa distante un paio di chilometri? Un target entusiasta - con veri e propri cori da stadio a ogni notizia (anche la più banale) che regolarmente avrebbe dovuto inchiodare il muratore - ha dato supporto a uno stile investigativo fondato sul Dna. L’audience ha fatto da cassa di risonanza a opinionisti che popolano in pianta stabile i vari format televisivi. Cacciatori di nucleotidi - come gli entomologi di farfalle - hanno ravanato nell’acido desossiribonucleico in un gigantesco consumo di risorse per levare dal cappello una bufala colossale? Quelli che fiutano l’aria, gli opinionisti meteorologi hanno fatto da supporter e da interpreti entusiasti di 'una indagine da manuale'... ancorché futuristica. Passeranno con la rapidità del vento da un colpevolismo senza se e senza ma a un improvviso garantismo ruffiano se il barometro con le ultime notizie cambiasse le previsioni del tempo? Pillole del giorno dopo, profonde elucubrazioni criminologiche col senno di poi, inversioni e ribaltamenti dei contorsionisti dell’etere che da tanti anni la nostra televisione ci elargisce a piene mani. Il popolo della TV è stato variamente educato e ammaestrato da personaggi che con supponente alterigia e borioso sussiego di depositari del verbo ‘scientifichese’ almanaccano come Sibille Cumane, con quei toni da deus ex machina della scienza criminologica. Esperti sempre pronti a elargire alla massa sprovveduta il viatico di certezze distillate un po’ in provetta e un po’ con quelle belle figure retoriche che fanno tanta presa sul popolo dei teleutenti, che da sempre pendono dalle labbra di conduttori serafici del copia e incolla, e da tecnologi che vanno in tv e sui rotocalchi a sponsorizzarsi come un oracolo di Delfi. Un sistema mediatico-investigativo-forense, sulla base di reperti esotici, un po’ come la goccia d’ambra del film di Stephen Spielberg, ha relegato il padre legale di Massimo Bossetti, il signor Giovanni, a mera comparsa della sceneggiatura, sullo sfondo come un pezzo d’arredamento, mentre il povero Guerinoni ha dovuto reggere la scena anche da morto, tirato in mezzo per via di una marca da bollo e di un ardito metodo investigativo che l’ha prima portato nei laboratori come reperto osseo e poi ridotto in fosfati di calcio. Refuso troppo ingombrante per reggere il ruolo che gli era stato proditoriamente assegnato? I media, che tutto possono fare e dire, dichiarano in modo perentorio che tutta la famiglia Bossetti è una accozzaglia di contaballe. Peccato che per quanto se ne sa, nessuna comparazione genetica è ufficialmente stata fatta con il padre legale perché gli esperti della provetta hanno già decretato la paternità Guerinoni. Una elementare controprova (con tutti i crismi di un test di paternità), a fronte di migliaia di reperti già analizzati, è considerata dalla Procura del tutto superflua e irrilevante? Per l’opinione pubblica educata alle notizie senza ulteriori riscontri il caso è assodato, il povero Massimo Bossetti è figlio adulterato. Caso davvero strano che una prova di paternità si faccia prima su una marca da bollo e poi su un cadavere, entrambi reperti vecchi di quasi tre lustri. Strano che - se proprio non si vuole semplicemente guardare delle foto - che la dicono più lunga di polimeri e monomeri - non si provveda almeno a un confronto con il Dna del padre legale, giusto per precauzione (non si può mai dire). Strano il modus operandi di una Procura che con sicumera è andata avanti come se dovesse dimostrare di aver sempre ragione e non verificasse anche le eventuali possibilità a favore dell’indagato, giusto per cautela. Ma si sa, come qualche tecnologo ci informa con un’aria da pedagogo del vogo analfabeta, la scienza non sbaglia e dunque sono inutili ulteriori verifiche. E il popolo dei teleutenti annuisce deferente e ammirato, come folgorato sulla via di Damasco, ai toni altisonanti che sciorinano di genomi e cromosomi, che gridano all’eteroplasmia e discettano biosinteticamente...I media, appiattiti su una tesi di colpevolezza che fa sempre molta audience, hanno fatto e fanno da cassa di risonanza, montando e mantecando il soufflé Massimo Bossetti dando credito alle quisquiglie, alle bagatelle e alle pinzillacchere gridate ad ogni piè sospinto e confezionate con savoir-faire: la radiografia della vita del muratore passata allo scanner ha prodotto risultati di rilievo, una quantità di indizi impressionante come lampade solari, passaggi da Brembate sulla via di casa, qualche bevuta in birreria e altri elementi di tal fatta che inchioderebbero il carpentiere di Mapello... comprese le fibre dei sedili presenti un po’ ovunque su veicoli pubblici e privati. Ormai il battage mediatico è in grado di far credere qualunque cosa, se la retorica è quella giusta e la propaganda è sufficientemente martellante. La signora Ester Arzuffi in modo perentorio ha escluso di aver mai avuto alcuna relazione con il Guerinoni, eppure la stampa e le televisioni l’hanno fatta passare per una bugiarda, un’adultera… con tutto il sarcasmo e la tracotanza di chi considera le persone come oggetti di un esperimento mediatico, cose da rivoltare come guanti, solo personaggi da far recitare in una soap opera e senza che venga fatta una prova ufficiale sul padre legale, come sarebbe logico e auspicabile. Se almeno il Bossetti fosse stato scarcerato in attesa del completamento delle indagini, molto avrebbe potuto essere chiarito evitando un'eventuale figura meschina all'Italia che agli occhi di altri paesi, democraticamente più maturi, appare ormai un posto dove la tortura non fa scandalo (vedi i fatti di Genova), un luogo assai pericoloso per soggiornarvi (vedi il caso Amanda e Raffaele), soprattutto per chi non faccia parte della Penisola dei famosi, quei colletti bianchi, soprattutto di rango e prestigio, per i quali scattano non solo le garanzie costituzionali, ma anche trattamenti di impunità, decadenza dei termini, non luogo a procedere... Lunghe carcerazioni preventive, magari con prove opinabili, sono riservate ai paria, quelli che i verdetti l’attendono pazientemente e fiduciosamente in galera anche quando gli elementi che inchiodano sono per lo più indizi generici (o tirati per i capelli) o il solito Dna che è l’ingrediente paragonabile al prezzemolo. I muratori, le casalinghe, i sottoufficiali… gli anonimi nessuno, incensurati e negletti, possono restare relegati in prigione per anni, magari fino a quando la Cassazione non faccia le pulci ai due gradi di giudizio rilevando contraddizioni e incongruenze e tirando le orecchie a sentenze diciamo un po’ garibaldine. E in galera ci si può finire per anni anche perché da una macchiolina si è rilevato qualcosa di compatibile. Un mero dato tutto da interpretare diventa prova, in quel passaggio ardito come tra il dire e il fare dove c’è di mezzo un mare di indeterminazioni, se è vero che anche i Ris hanno dichiarato che sul Dna di Bossetti sono impossibili prove certe. Nemmeno i molti ricorsi presentati dall’avvocato difensore sono serviti ad aprire gli occhi, a impedire che si arrivi allo sputtanamento di tutto il sistema giudiziario... nel caso che alla fine dei tre gradi di giudizio ci sia l’assoluzione di un innocente tenuto per anni a marcire in galera. È pur vero che la palude mediatica dimentica in fretta… Un’intera nazione ha chiuso gli occhi e si è lasciata accecare da quell’acronimo, Dna, che viene pronunciato come una sorta di abracadabra, un test effettuato al di fuori delle elementari regole e garanzie, senza falsificatori, senza controprove, solo con quella hybris declamata ai quattro venti che la scienza non sbaglia, nonostante che per mesi il cadavere della povera Yara fosse rimasto in balia di chiunque ed esposto alle intemperie rendendo i reperti del tutto inaffidabili. E se davvero di ottima qualità avrebbero dovuto mettere sull'avviso che qualche errore o inquinamento (non si sa se volontario o involontario) ne avesse alterato la sostanza. Nessun dubbio circa l’impossibilità che in quelle condizioni estreme nel campo di Chignolo quella macchia non avrebbe più dovuto dare un Dna nuclerare, tanto era dilavata o comunque alterata dalla neve e dalla pioggia? Siamo al di là di qualsiasi garanzia costituzionale per il povero Massimo Bossetti? Un sistema giudiziario senza regole certe e senza tutele per un indagato tenuto in carcere grazie a un Dna che rimane integro per mesi sotto le intemperie? Esiste come unico fatto realmente rilevante e incontrovertibile, salvo i soliti pettegolezzi e le immagini di un furgone in transito per le vie di Brembate, una palese contraddizione nell'analisi del Dna (nucleare vs mitocondriale) rilevata anche da altri genetisti che con obiettività hanno manifestato le loro perplessità. Eppure gli esperti criminologi sugli schermi della tv hanno pontificato di nucleare e mitocondriale, di alleli e di polimeri… con certezze apodittiche. Tutti epistemologi in una situazione in cui uno dei pilastri scientifici non c’è proprio. Parlo della situazione controllata. Non quella del laboratorio, ma quella di una infinità di variabili assolutamente fuori controllo sulla scena del crimine. Un campo dove il cadavere della povera vittima sarebbe rimasto per mesi (senza che nessuno dei moltissimi frequentatori se ne fosse accorto), un francobollo leccato non si sa bene da chi… e una macchia con un Dna nucleare stranamente di ottima qualità che sarebbe stato per un’intera stagione esposto alle intemperie. Tutto un copione più simile a una fiction. Milioni spesi a centrifugare e agitare polimeri e molecole, un lavorio instancabile per approdare a una indagine che ricorda il teatro dell’assurdo. Aspettando Godot ne è l’epigrafe, l’emblema di una giustizia italiana embricata sui formalismi in un crescendo di non sensi, in una pervicacia di procedure cervellotiche e con un linguaggio involuto e incomprensibile perfino agli addetti ai lavori. Un danno colossale non solo per la genealogia Bossetti, dai genitori - messi in piazza come i reprobi e bugiardi - fino alla sorella, alla moglie e ai figli che soffrono un accanimento mediatico persecutorio. Una macchina gigantesca che produce una mole di faldoni, 60.000 pagine non si sa quanto emblematiche e che potrebbe partorire topolini nati morti o mostruosità alla Jurassick park. Quei personaggi televisivi che giornalmente vanno a brucare la loro razione di gloria continueranno imperterriti il loro lavoro di opinionisti, a dissertare del nulla come Vladimiro ed Estragone? Discorsi con dei Didi e Gogo che discettano di banalità in un legame arbitrario tra le parole e le cose, in un linguaggio narcisistico e autoreferenziale fatto di luoghi comuni, stereotipi e pregiudizi. Una televisione che replica all’infinito un copione dove i suoi protagonisti, come i personaggi di Beckett, vorrebbero muoversi, ma non possono o non lo sanno fare, e dunque si continua a replicare un copione dove l’audience trova sicurezza e protezione in un eterno immobilismo e in un rassicurante bla-bla. Il topos, la scienza non sbaglia, declamato da tante cariatidi, in barba alla epistemologia contemporanea, è la considerazione dogmatica che molti tecnologi hanno del metodo scientifico, un’immagine della scienza che ricorda il vecchio positivismo mandato in pensione. Tutto il progresso scientifico è sempre avvenuto per congetture e confutazioni e l’errore è stato uno dei suoi propulsori più importanti. Affidarsi solo a dei dati (il Dna), confondere dei dati con una prova, può portare a dei qui pro quo e a delle cantonate colossali. Un uomo e la sua famiglia prima ancora di un processo sono stati messi alla gogna, perfino nella sala colloqui e nei loro momenti di intimità, con i dialoghi decontestualizzati e poi tramessi ai media come per un reality dal vivo, con la corrispondenza epistolare non solo aperta, ma messa in piazza prima ancora di un verdetto di colpevolezza. Le fasi dell’arresto del povero Bossetti sono state registrare puntualmente e mandate in onda a dimostrazione di una giustizia spettacolo che confonde perfino lo stupore di un innocente, ammanettato e immobilizzato come un animale da mandare al macello per un immaginario tentativo di fuga dalla sommità di un immobile in costruzione. Un uomo già definito e chiamato assassino prima ancora non solo di una sentenza ma anche semplicemente di averlo ascoltato in un contraddittorio. In che paese viviamo? Dove sono finite le garanzie elementari di uno stato di diritto? Un Bel Paese da far impallidire il 1984 orwelliano. Altro che 25 aprile, festa della liberazione e dei diritti civili. Un Grande Fratello in versione nazional-popolare e in spregio ai principi costituzionali (ormai da tempo in disarmo e rottamazione) del rispetto della persona umana. Qualcosa che ricorda certi campi di lavoro dove all'ingresso troneggia quel "Arbeit macht frei". Tutto nella più totale indifferenza delle istituzioni, nel silenzio assordante anche di molta stampa cosiddetta progressista che se ne è lavata le mani. Mentre l’Italia viene condannata per tortura, occorre dire che il signor Massimo Bossetti è stato esposto a un trattamento mediatico e giudiziario che ricorda la misteriosa stanza 101 del romanzo orwelliano. Non i topi ma il topos di un sistematico linciaggio morale fatto di pinzillacchere trasformate in elementi che inchiodano, di banalità quotidiane propagandate come prove. Un supplizio dove nanogrammi di materiale genetico contraddittorio hanno consentito di costruire un copione fatto di presunte certezze. La bella Italia è diventato il paese per antonomasia del disprezzo dei diritti civili. Mancano solo le cimici nel culo, l’eye trecking, le neuroimaging, o un trojan che navighi nelle arterie cerebrali, il poligrafo o il test di risonanza magnetica, tutto l’armamentario neopositivista della profezia che si autoadempie, della psichiatrizzazione del crimine, del software da remoto e di tutti quei presunti captatori del nostro io (ci stiamo arrivando per gradi). È l’occhio del Grande Fratello. Ma a fronte del carpentiere (emblema della gente comune senza santi in paradiso) la corruzione imperversa, e nella penisola dei famosi, quella che conta politicamente e socialmente, si tratta invece di garanzie di impunità, di decadenza dei termini, di cavilli e di lungaggini… di un sistema legislativo ad uso e consumo di chi conta, regole ritagliate come abiti su misura per chi sa come muoversi nella giungla di leggi, leggine, codicilli, glosse e pandette. Da troppo tempo nei tribunali si sente l’influenza di un sistema mediatico che invece di agire come controllore funge da angelo sterminatore nei confronti di chiunque gli capita a tiro e promuova le vendite dei suoi prodotti editoriali. Una televisione che asseconda e aizza una marea di forcaioli che cercano di sfogare frustrazioni e delusioni sul malcapitato di turno, nel contesto di una società sempre più in crisi di valori culturali. Un sistema mediatico che però in genere è sempre molto riguardoso (per non dire adulatore, servile e leccaculo) nei confronti di tutti quei potenti che sanno come muoversi nella giungla legislativa e distribuire prebende a parassiti e clientele agitando se occorre la minaccia di querela per diffamazione. Quella che sta emergendo è una verità terribile e sconvolgente che le persone dotate ancora di razionalità guardano con orrore: siamo ormai dentro a un gigantesco reality frutto di un paese dove un’informazione asservita al potere e una professionalità approssimativa e superficiale sta obnubilando le coscienze di milioni di persone, persuadendo un target sempre più vasto di possedere le chiavi del bene e del giusto. Criminologi, psichiatri, mediologi, tuttologi…. ci hanno raccontato con dovizia di particolari una storia che ha appassionato milioni di lettori e telespettatori. I confini tra reale e virtuale sono diventati sempre più incerti e approssimativi. Ormai siamo davvero all’interno di un gigantesco Truman Show. I meccanismi mediatici e gli orrori di istituzioni sempre più in preda agli automatismi di procedure obsolete sono da tempo fuori controllo. Un potere arbitrario e senza più ratio si sta frantumando in potentati in antagonismo, dove i corrotti la fanno franca quasi sistematicamente (con qualche eccezione che non conferma la regola) e dunque si orienta l’attenzione mediaticamente su qualche disgraziato a far da capro espiatorio per dare alla palude mediatica - quel target sistematicamente disinformato e di una ingenuità disarmante - l’illusione di una giustizia produttiva e all’avanguardia. Il Grande Fratello ormai interiorizzato nelle coscienze, agisce nel solco di una cultura dello spettacolo fine a se stesso con persone vere ridotte a personaggi; uomini e donne trasformate in cose da rivoltare e prillare, attori e comparse su un palcoscenico virtuale. L’audience come al solito si beve tutto con una dabbenaggine che ormai non ha più confini, si fa menare per il naso convinta di aver capito tutto, quando invece fa soltanto da zimbello. Molti, troppi, non riescono a vedere né ad immaginare che quanto accaduto a Bossetti e a tanti altri potrebbe capitare anche a loro, a tutti noi. Ma forse neanche questo importa. The show must go on…
Caso Bossetti: tutto quello che avreste voluto sapere su come cucinare un colpevole e non avete mai osato chiedere... continua Gilberto Migliorini. Da Wikipedia. La parola soufflé è il participio passato del verbo francese souffler, che vuol dire soffiare: è un po' la descrizione di cosa accade al composto messo a cuocere in forno nell'apposito stampo, generalmente realizzato in ceramica. Certo le dosi sono importanti, ma senza gli ingredienti giusti col cavolo che la ricetta vien bene. Intanto occorre dire che il Dna è l’ingrediente più importante, senza quello è come pretendere di fare unsoufflé senza albumi. Le uova dovrebbero essere di giornata, ma se anche hanno qualche settimana (o qualche mese) secondo alcuni van bene lo stesso. Però, parlando di mass-media, forse gli ingredienti sono altri, non di natura culinaria, per quanto si tratti pur sempre di montare e mantecare…Il primo ingrediente che non ammette surrogati di sorta, è quel raggruppamento (associative clustering) con il quale si mettono insieme le cose mediante rapporti di causa ed effetto, in base alla prossimità nel tempo e nello spazio, o in base alla similarità fisica: “ha l’aria di uno che ha commesso il delitto” oppure a una similarità morale “è un bugiardo e dunque è un assassino”. Ovviamente per dare un aiutino e perché la cottura venga bene occorrono buone inquadrature fotografiche, istantanee dove il nostro aspirante colpevole abbia possibilmente un’aria truce, uno sguardo di traverso, una posa rigida e inespressiva. Il buon fotografo sa scegliere gli scatti migliori, ovviamente, magari con qualche ritocchino sulla foto (dissolvenze, primi piani, selfie…) per renderla più aderente a quello che si vuole come protagonista del reality. Si tratta solo di una premessa, l’antipatia del personaggio, di pancia, fa solo da esordio a quegli approfondimenti che preludono a una influenza sui nostri giudizi di valore e sulle nostre reazioni emotive. I bugiardi non piacciono a nessuno, ovvio, e se qualcuno viene chiamato favola dai suoi compagni di lavoro, perché è un mattacchione e gli piace scherzare, basta davvero poco, qualche inversione figura-sfondo o qualche sottolineatura, un qui pro quo, un’interpretazione un po’ sopra le righe… per trasformare un giocherellone in un bugiardo matricolato, un burlone in un mentitore spudorato. La chiacchiera e l’equivoco conferiscono al personaggio un’aura ambigua, basta perfino un cenno, una parola, un epiteto… per dare impronta a un personaggio, tratteggiarlo proprio come nella commedia dell’arte, una maschera stilizzata, un demonio iconografico, uno Zanni malevolo. L’amplificazione costituisce il modo per rendere visivamente e emblematicamente un personaggio come perverso e inaffidabile, basta poi l’accostamento fotografico reiterato tra il presunto colpevole e la vittima, e la prossimità diviene elemento di prova, associazione necessaria e indefettibile. La percezione di causalità tra eventi spesso prescinde dai rapporti oggettivi ma si fonda per così dire sui nessi emotivi e simpatetici, su accostamenti allusivi. Le azioni di chi è già stato presentato come antipatico verranno derubricate come volgari e sospette. Insomma le nostre conoscenze di causa ed effetto vengono organizzate in base a similarità, prossimità e verosimiglianza che i media sanno sfruttare al meglio nell'ambito di una cultura con tutti i suoi preconcetti e le sue idiosincrasie... e soprattutto con quell'addestramento mediatico a dare giudizi sull'onda della spettacolarizzazione, dell'allusione, della frivolezza e della approssimazione. Il primo ingrediente è l’aspetto esteriore che serve più che altro per predisporre la nostra preparazione culinaria. Un po' come il burro per creare l’ambiente ben lubrificato per il nostro soufflé. Basta un poco di zucchero e la pillola va giù, come dice la canzone. Per qualcuno la premessa già basta e avanza, e senza indugi è già pronto a tirare i remi in barca e dichiarare senza mezzi termini che con quella faccia non ci vuole molto a capire che è lui l’assassino. Per chi invece è un po' più esigente e vuole conoscere a fondo la ricetta, occorre procedere nella preparazione gastronomica seguendo con accortezza tempi e modi nei quali gli ingredienti vengono aggiunti e calibrati con le indicazioni dello chef (o cuoco - detto più volgarmente). Nell'epoca della navigazione on-line c'è una facilità davvero intrigante a formare generalizzazioni, il rapporto parte-tutto nella percezione visiva e "olfattiva". Un elemento singolo può essere percepito come rilevante per approdare a una certa conclusione, lo stesso elemento considerato in un altro contesto appare trascurabile. Le pagine visitate da un comune navigante sul web nel corso degli anni sono innumerevoli, analizzandole a dovere si trova per chiunque qualche riferimento sospetto. Sulla base di un teorema qualunque elemento può fungere da verifica, tanto più se il navigante è prolifico. Il contesto decide cosa deve essere considerato per contrasto e cosa per assimilazione. Analizzando le navigazioni on-line di un individuo sospetto e, viceversa, di un buon padre di famiglia, anche in assenza di differenze significative alcuni siti per il primo risalteranno come indizio mentre per il secondo risulteranno solo essere delle normali curiosità. Il pregiudizio colora e dà forma alle nostre percezioni, con quei meccanismi sottostanti che i media sanno usare con dovizia e accortezza. Lo slogan ripetuto (frequenza) ha buona probabilità di successo. Se poi è gridato (intensità) è ancora più efficace e se è movimentato come una insegna al neon (animato) attira l’attenzione più di una normale scritta statica. Perfino i comportamenti più insignificanti sotto la lente di ingrandimento del sospetto (e della gran cassa mediatica) possono apparire come emblematici, perversi e rivelatori. Fatti inconsistenti e banali, presentati con la idonea risonanza emozionale, risaltano nell'opinione pubblica come prove che inchiodano. In un contesto in cui un individuo viene ritenuto autore di un delitto, perfino gli elementi a discarico vengono interpretati come aggravanti, come capacità perversa a dissimulare, fingere e inquinare. È il noto meccanismo della dissonanza cognitiva. Qualunque nuova informazione dissonante rispetto al nostro corredo di credenze verrà interpretata in modo da attenuare o annullare la dissonanza cognitiva ed emozionale. I cambiamenti comportano sempre qualche forma di conflitto con il nostro bisogno di stabilità. Si può distorcere la percezione delle informazioni dissonanti per renderle idonee al nostro sistema cognitivo, almeno fin quando diventa ineluttabile la necessità di una modifica, non senza passare attraverso una fase frustrante e talora dolorosa di riorientamento. Se mi sono convinto che mister X è colpevole (o innocente) di un delitto, anche le nuove informazioni verranno corrette alla luce del mio sistema di credenze. Quello che è dissonante verrà reinterpretato per renderlo congruo e adatto a non mettere in crisi le mie convinzioni, fino al punto di rendermi volontariamente cieco di fronte alle evidenze, per non dover affrontare l’onere e lo stress di un cambiamento. Le difese che riguardano la dissonanza cognitiva hanno anche un carattere preventivo: nel caso dell’influenza mediatica è la tendenza dello spettatore a esporsi selettivamente a quei messaggi che confermano le sue convinzioni e a sottrarsi a quelli che possano mettere in crisi il suo sistema di valori già ben strutturati. Del caso Bossetti, con tutti gli interventi mediatici, ne hanno fatto un caso emblematico di come agisce l’influenza sociale, di quali meccanismi sono in grado di cucinare un colpevole. Pochi ingredienti calibrati, nelle dosi giuste e opportunamente mescolati tra loro per una presentazione ottimale, fanno il miracolo di sfornare il soufflé, un piatto dove la componente dell’aria renda il composto soffice e gonfio Certo, c'è sempre il rischio che si afflosci come una gomma bucata…Il personaggio Bossetti (non l’uomo Bossetti reale) è il prodotto di una informazione che costruisce a tavolino un Dna di sintesi proprio come Dolly. Si tratta di un prodotto clonato usando tutti gli stratagemmi tipici di una ingegneria mediatica che riesce a estrarre dal cilindro un coniglio virtuale (personaggio magari in senescenza prematura, come l'ovino, se il soufflé non riesce bene). Comunque, a detta dei più entusiasti sostenitori ed estimatori, si tratterebbe di un nuovo modello di strategia riproduttiva, di avanzata metodologia investigativa e… di marketing e televendita delle opinioni. Inutile esemplificare con gli ingredienti. Un soufflé dolce o salato si può fare praticamente con un po' di tutto (dai cavolini di Bruxelles fino alla Nutella), l’importante è montare sempre bene. E se la materia prima scarseggia si può ovviare mantecando e gonfiando perfino le bazzecole, le bagatelle e le pinzillacchere per ottenere un cuore morbido e spumoso, proprio quello che piace a un'audience di bocca buona: L'aria, il recitar cantando. Ce la suonano e ce la cantano per rendere il soufflé turgido e cremoso. In realtà, e a denti stretti, bisogna però ammettere che tolto un Dna che sembra un Beaujolais nouveau più che un Cabernet-sauvignon da invecchiamento, nel nostro caso rimane solo uno stampo imburrato e spolverato con il pangrattato. Un polimero montato a neve e tanta tanta aria fritta.
Massimo Bossetti. Nuvole e orologi...Saggio di Gilberto Migliorini. “La natura, così come oggi siamo in grado di capirla, si comporta in modo tale che risulta fondamentalmente impossibile prevedere esattamente cosa succederà in un dato esperimento. È una cosa orribile. Infatti i filosofi avevano stabilito come uno dei requisiti fondamentali della scienza che nelle stesse condizioni debba verificarsi la stessa cosa. Questo è semplicemente falso: non si tratta di una condizione fondamentale della scienza. Il fatto è che non succede la stessa cosa, e possiamo trovare solo una media dei risultati, con metodi statistici. Ciò nonostante, la scienza non è completamente crollata.” - Richard Feynman. Quanti sono i casi Bossetti? Quanti i più eclatanti finiti con condanne senza la ben che minima prova di colpevolezza, ma solo con un sistema teorematico basato su indizi veri o presunti? Nel Bel Paese si è inventato un nuovo tipo di processo, quello indiziario con le prove che si formerebbero in dibattimento, la nuova epistemologia giuridica per la quale esiste un processo magia dove anche in assenza di prove, shakerando a dovere quelli che ormai vengono definitiindizi (talvolta con molta fantasia), salterebbe fuori il nome del colpevole. Con quel topos della prova scientifica, una locuzione richiamata più volte in tutte le salse, si può davvero fare il miracolo. Ma un conto è giostrare con alambicchi e provette, usare qualche algoritmo e formula matematica, magari un database dal quale far saltar fuori per magia il nome del colpevole (qualche volta l’incantesimo riesce, ma non sempre), e un conto essere consapevoli dei limiti e delle condizioni nelle quali un enunciato abbia uno statuto di scientificità e un indizio non sia tale solo perché istituisca dei nessi suggestivi. Mi rifarò alla epistemologia contemporanea - dal momento che molti sembrano tenere in grande considerazione la cosiddetta prova scientifica. Basta il nome e al grande pubblico è come somministrare un placebo, o fargli bere dello spumante con le bollicine: l’effetto è senz'altro inebriante. La magia è di quelle dove basta proferire la parola scienza, un po’ come dire abracadabra, per suscitare un consenso immediato e unanime. Si cita qualcosa che ha valore nella condizione controllata del laboratorio, sovente si tratta di un dato da considerare tutt'al più come elemento all'interno di un sistema di inferenze (possibilmente deduttive e non induttive). In Italia la parola scienza ha assunto per molti quel carattere magico, lo slogan che rende tutto più facile, più persuasivo e coerente. Come dire che se sull’etichetta c’è il suo logo, il marchio di fabbrica, allora possiamo star certi che il contenuto è proprio quello indicato, con tanto di dosi e ingredienti assunti magari come un farmaco dell’anima. Nel caso Bossetti il tema è il Dna, un acronimo evocativo di certezze…Occorre avere una competenza in campo biologico per decidere la rilevanza della prova addotta? Direi proprio di no. Non occorre che un magistrato sappia di acido desossiribonucleico o di mitocondriale e nucleare. Il primo spunto narrativo è appunto quella confusione che salta all'occhio, una sorta di melassa argomentativa spesso al solo scopo di nascondere incoerenze e contraddizioni dietro alla cortina fumogena fatta di parole in libertà, e con in più quel verbo genetista e biologista che incanta la palude mediatica e le fa gridare inenarrabili supplizi all'indirizzo del signor Bossetti per via di quei microgrammi di ottima qualità e che purtroppo sembra siano andati esauriti, consunti o dilapidati nel decifrarne origine e proprietà. Il medium è quel collegamento tra fatti che offre loro rilevanza e visibilità, talora amplificandoli al punto da renderli vistosi ed eclatanti. Si tratta della confusione (ormai cronica e costitutiva) tra dato e prova (ma anche tradato e indizio). Una confusione che crea le premesse (mediatiche) di un’audience che vive la giustizia come un colossale tiro al bersaglio. Quando Karl Popper pubblicava la sua opera, l’epistemologia aveva già conosciuto pezzi da novanta per restare negli ultimi due secoli come Mach e Heisenberg. In seguito altri avrebbero promosso una riflessione critica sul metodo. E solo per citare alcuni nomi, scienziati come Feynman (padre delle nanotecnologie e ispiratore del computer quantistico) Prigogine premio Nobel per la chimica recentemente scomparso o Richard Lewontin - per restare in ambito genetico con l’opera famosa The dream of the Human Genome and Other Illusions. Le certezze illusorie della fisica newtoniana, semplificazioni artificiose della realtà, sono entrate in crisi nel novecento (declino della teoria newtoniana come episteme con l’elaborazione della teoria della relatività diEinstein). È soprattutto nella crisi dell’epistemologia di orientamento positivista e con l’opera di Thomas S. Kuhn - “La struttura delle rivoluzioni scientifiche” - che si è affrontato il tema della distinzione tra scienza normale (quella dei ragionieri della scienza, i meri esecutori) e scienza straordinaria, dove avvengono le vere e proprie rivoluzioni scientifiche. La distinzione richiama alla mente per il caso Bossetti l’affermazione proditoria fatta da qualche operatore in ambito scientifico che la scienza non sbaglia. Al contrario possiamo affermare in tutta sicurezza che nella storia della scienza proprio l’errore ne ha sempre promosso gli sviluppi e che proprio l’errore è al centro di tutte le rivoluzioni scientifiche, come Kuhn ha osservato nella sua opera. Nella rivoluzione scientifica si vanno affermando nuovi paradigmi (attrezzature intellettuali e manipolative) per far fronte alle “anomalie” che richiedono un ripensamento delle modalità teoriche e procedurali di una determinata disciplina e che preludono appunto a una rivoluzione concettuale in ambito scientifico. Nel 1934, Karl Popper aveva pubblicato la sua “Logica della scoperta scientifica” seguita poi da Congetture e Confutazioni e il Poscritto (per citare solo le opere più famose) che al di là delle prese di posizione dell’epistemologia più recente rimane sicuramente l’opera più importante e significativa sui limiti del metodo scientifico e sui criteri di validità della sua metodologia (ovviamente non come presa di posizione contro, ma al contrario come contributo a chiarire la logica della scienza e le sue eventuali fallacie e illusioni). L’input più significativo dell’opera di Popper riguarda l’induzione (o inferenza induttiva) che normalmente viene usata nei tribunali come procedimento in grado di trasformare gli indizi in elementi di prova. La conclusione di Popper è invece categorica: l’induzione non esiste (non esiste nessun metodo basato sulla routine) e questo, occorre dire, in completo contrasto con il senso comune per il quale è facile passare da alcune osservazioni, per induzione, a delle categorizzazioni di tipo universale. Popper distingue due tipi di induzione:
a) una induzione ripetitiva o per enumerazione (osservazioni ripetute che dovrebbero fondare delle generalizzazioni);
b) induzione per eliminazione.
a - Induzione ripetitiva per enumerazione: Popper osserva che nessun numero di osservazioni di cigni bianchi riesce a stabilire che tutti i cigni sono bianchi (esiste sempre la possibilità che un cigno sia nero o di altro colore); nessun numero di spettri di atomi di idrogeno potrà stabilire che tutti gli atomi di idrogeno emettano gli stessi spettri. Nessun numero di osservazioni sul comportamento di un assassino, aggiungo io, potranno mai stabilire che in certe circostanze l’assassino si comporti sempre allo stesso modo: nessun numero di osservazioni di persone può fondare generalizzazioni del tipo “tutti gli uomini”. La conclusione popperiana è che l’induzione ripetitiva - o per enumerazione - non è fondante di un criterio di scientificità. Si sente spesso nel caso di un omicidio indicare gli scenari possibili, come se tolti quelli sia esaurita la casistica delle possibilità. In realtà i casi possibili sono solo quelli che riusciamo a immaginare sulla base della nostra esperienza e dei nostri pregiudizi. La realtà è sempre più complessa e imprevedibile di quanto riusciamo a immaginare. Un paio di scarpe si possono macchiare di sangue se qualcuno cammina sul luogo del delitto, ma non è detto che in certe condizioni di umidità e temperatura (difficilmente ripetibili) ciò accada necessariamente. Magari perché il sangue si è già coagulato e/o perché la successiva camminata sull'erba bagnata le ha ripulite. Immaginare scenari è lecito, ritenere che quello che riusciamo a immaginare limiti le possibilità reali è un errore di chi pretende di esaurire il campo delle possibilità in quello che considera logicamente plausibile sulla scorta di quanto conosce o della casistica che ha preso in esame. Sulla base del noto e dell’esperienza sensibile la scienza non avrebbe mai conosciuto né il principio d’inerzia galileiano e né quello della caduta dei gravi. Per non parlare delle teorie completamente anti intuitive come la relatività o il principio di indeterminazione: la scienza per sua natura diffida del principio di induzione (che fa capo al senso comune) che ne minerebbe qualunque possibilità di sviluppo riducendo le sue conclusioni al noto e senza mai prendere in esame quelle discrepanze e quelle ‘eresie’ che invece la sollecitano a nuovi sviluppi. Possiamo senz'altro dire che tutta l’impresa scientifica esplora un campo di possibilità che tende ad espandersi e non già a conchiudersi in una routine predefinita e in un sistema di significati predeterminati. Per sua natura l’impresa scientifica è sempre aperta e pronta a riconsiderare le sue conclusioni sulla base di nuove osservazioni e alla luce di nuovi paradigmi concettuali qualora questi si dimostrino più fecondi e promettenti. La via della scienza è un percorso stretto tra il determinismo di leggi ferree (che in realtà sono solo approssimazioni) e il caos e l'arbitrio dell'indeterminismo.
b - L’induzione per eliminazione (o esclusione) si basa sulla eliminazione e confutazione delle teorie false (Bacone e Stuart Mill credevano che eliminando tutte le teorie false potesse emergere la teoria vera). L’operazione è impossibile perché il numero delle teorie false è indeterminato, potenzialmente infinito, semplicemente crediamo di averne definito la quantità e rappresentato tutti gli elementi. Nel caso di un omicidio si sente spesso parlare di formule che hanno la pretesa di eliminare qualunque altro scenario perché prese in esame alcune possibilità si ritiene di averne esaurito il numero. In realtà in una situazione reale nessuno è in grado di formulare tutti i casi realmente possibili, perché fattualmente la realtà presenta sempre situazioni imprevedibili e del tutto ignote: la logica induttiva non può nemmeno definire una probabilità mancando un numero reale sul quale applicarsi. Le regolarità e i cicli iterativi non sono applicabili a quei numeri primi (che in certo senso rappresentano la realtà nelle sue indeterminazioni) che nonostante il crescere della potenza dei computer risultano del tutto refrattari a un calcolo predittivo. Un conto è la situazione del laboratorio, dove tutte le variabili sono controllate e si può stabilire un nesso certo tra variabili (dipendenti e indipendenti), e un conto una situazione reale dove entrano in gioco inquinamenti di varia natura e dove, come in un omicidio, non sempre è possibile cristallizzare la scena del crimine (come nel caso di un corpo lasciato per mesi alla mercé di chiunque). Le formule spesso usate per utilizzare l’induzione sono quelle che poi possono essere clamorosamente smentite: Chi se non lui? Come altrimenti? Quale altro scenario è possibile? Confondendo il piano logico con quello fattuale. Un delitto non è un gioco di ruolo con risposte chiuse tolte le quali non ne esistono altre. Una criminologia come scienza induttiva che faccia riferimento vuoi a una casistica e vuoi a una supposto criterio testato mediante procedure di esclusione (eliminare tutte le ipotesi impossibili), andrebbe necessariamente incontro, secondo l’epistemologia contemporanea (e il buon senso), ad esiti deludenti e fallaci. Per eliminare tutte le teorie false occorrerebbe conoscerne il numero e la consistenza e, di fatto, poter definire la situazione reale come possibile e definire l’impossibilità con dei criteri che possano dirimerla dal possibile. Se ciò fosse vero, il detective sarebbe una mente onnisciente. Pescare poi in un database nel quale trovare spunti e analogie può essere utile come fonte di suggerimenti, non già come il libro dove estrarre la formula magica con la quale restringere preventivamente un campo di ricerca prima ancora di aver esperito l’ampiezza del campo di indagine; ampiezza che occorre dire può restringersi, ma anche allargarsi qualora altri indizi modifichino l’ambito della ricerca stessa. La conclusione di Popper è perentoria: per qualsiasi problema esiste sempre una infinità di soluzioni logicamente possibili e dunque qualsiasi metodo basato sulla routine risulta inadeguato per dimostrare la sua natura infallibile o per poter essere considerato scientifico. D’altro lato se l’induzione fosse valida scientificamente potremmo evitare di celebrare processi e usare per l’appunto una casistica come criterio di colpevolezza fondando generalizzazioni dal particolare all’universale (che costituisce appunto l’induzione o sillogismo induttivo). Aristotele si era occupato anticamente di definire il sillogismo induttivo con il celebre: L’uomo il cavallo e il mulo sono animali senza bile - L’uomo il cavallo e il mulo sono longevi - (quindi) Tutti gli animali senza bile sono longevi. Per cui qualche moderno criminologo potrebbe usare una formula analoga del tipo: Antonio, Aldo e Gianni sono bugiardi - Antonio, Aldo e Gianni sono assassini - (quindi) Tutti i bugiardi sono assassini. Per qualcuno si tratta di un sillogismo probabile, ma per altri di uno pseudo-sillogismo (più correttamente un sillogismo non scientifico). Naturalmente per Aristotele il vero sillogismo era quello deduttivo (o scientifico), non dal particolare al generale ma dal generale al particolare: es: Tutti gli uomini sono mortali - Socrate è un uomo - Socrate è mortale: ricavando poi le 4 figure del sillogismo. Già Bertrand Russell col tacchino induttivista aveva bollato l’illusorietà dell'induttivismo. Occorre dire che la posizione ingenua di certo scientismo si sta ormai affermando. Soprattutto in certi programmi televisivi che ci offrono un surrogato di epistemologia da salotto, dove le tautologie rappresentano la forma tipica di ragionamento. Popper ci offre una metafora caustica e illuminante, quella degli orologi e delle nuvole. Il senso comune suddivide gli eventi in due tipologie - quelli prevedibili (gli orologi) e quelli imprevedibili (le nuvole) - e pone l'accento sulle differenze quantitative e di complessità tra i due tipi di oggetti poiché "il comportamento delle nuvole sarebbe altrettanto prevedibile di quello degli orologi, qualora conoscessimo delle nuvole tanto quanto conosciamo degli orologi". Popper controbatte che (imprevedibilmente) la categoria degli orologi (assimilabili a nubi di molecole) può invece avvicinarsi a quella delle nuvole e che le teorie scientifiche, in quanto invenzioni umane, non sono strumenti perfetti. Sono invece strumenti di continua approssimazione alla realtà, reti progettate per catturare il mondo le cui maglie divengono sempre più fitte mano a mano che procede la conoscenza, ma costituisce una trama pur sempre troppo larga, mancando misure assolute, da non lasciare abbastanza spazio per l'indeterminismo. Non occorre per un magistrato sapere di genetica per capire che in quel campo di Chignolo dove è stata trovato il cadavere della piccola Yara l’indeterminismo la fa da padrone, che niente in quello scenario ci riporta a una situazione da laboratorio rappresentativa di un orologio (peraltro con tutti i limiti di precisione di qualsiasi orologio, tutti invariabilmente nuvole di molecole - perfino quelli a scansione atomica sono testati su un tempo con margini di imprecisione), a meno di considerare l’oggetto in questione una pura astrazione, utile per formulare ipotesi, idonea a immaginare scenari, suscettibile di approfondimenti ma lontano davvero da quel senso comune o da certo scientismo che pretende di considerare la prova scientifica (che nella fattispecie è solo un dato) come una sorta di abracadabra. Un orologio insomma che, per quanto ci dicano che il Dna non sbaglia, è solo una nuvola di incertezza con quadrante, lancette e meccanismi di un orologio lasciati sotto la pioggia, sotto la neve e nel fango così a lungo da supporre che ormai non si sa più se le sfere vanno avanti o indietro o se indicano un tempo attendibile o inattendibile. Per non parlare poi del fatto sicuro che un orologio può essere manipolato volontariamente o involontariamente (se non si trova nelle idonee condizioni dove ogni variabile è tenuta sotto controllo) in modo che poi rilevi un tempo che non è assoluto e neppure relativistico: è solo un tempo immaginario o, magari, taroccato (ovviamente quella dell’orologio è solo una metafora). Ciò che colpisce in tanta nostrana criminologia è quella iper-semplificazione che rende banalmente semplice quello che invece è complesso. Non si tratta di un albo a fumetti dove l’assassino assume sembianze prevedibili efantozziane. Il povero Bossetti secondo la vulgata criminologica girerebbe ossessivamente con un camion attorno alla palestra per far cosa? Per intercettare Yara che, sempre stando ai detective, già conosceva? E magari rischiando di non vederla se fosse uscita quando si fosse trovato dalla parte opposta? La logica vorrebbe che, se lo scenario fosse vero, Bossetti avrebbe più semplicemente parcheggiato il camion in attesa della ragazza. Oppure che sarebbe sceso dal mezzo posizionandosi all'ingresso della palestra per vederla uscire. O anche che fosse entrato nell'edificio per localizzarla. Per quale motivo, per il criminologo moderno, l'astuto muratore avrebbe continuato a girare in tondo senza mai fermarsi? La ricostruzione ha un effetto comico, ma è solo un’immagine fantasiosa e suggestiva, una di quelle induzioni che dovrebbero fornire un criterio di verosimiglianza e che invece danno la sensazione di un cartoon buono per un'audience abituata alle fiction e agli sceneggiati. Già Ernst Mach aveva osservato che le teorie scientifiche finiscono per occultare i dati empirici, per nascondere i fenomeni, insomma che la metafisica si nasconde nelle pieghe stesse delle teorie scientifiche: come ad esempio la meccanica classica (galileiano-newtoniana) e come quegli illusori concetti di tempo assoluto e spazio assoluto. In quel campo di Chignolo si è fatto uso di concetti assoluti (Dna, giorno e ora della morte) senza disporre di alcun riferimento certo, solo postulando scenari senza disporre di elementi inconfutabili. Si è dato per buono un Dna che mai avrebbe potuto sopravvivere integro per più di due settimane alle intemperie, si è dato per certo che nessuno per mesi abbia potuto contaminare la scena del crimine e il cadavere, non si è considerata la contraddittorietà degli elementi raccolti (nucleare-mitocondriale) che pongono più di un ragionevole dubbio e non si è considerato che, alla fin fine, non esiste neppure più il reperto che inchioderebbe l’assassino. Ce ne sarebbe abbastanza per ritenere che Massimo Bossetti non solo non dovrebbe trovarsi in carcere, ma nemmeno essere imputabile di un delitto. In un’indagine è del tutto legittimo immaginare uno scenario sulla base di un pre-giudizio (una ipotesi di partenza), cercare riscontri e indizi. Altra cosa perseverare in una certa direzione anche quando le aspettative vanno deluse e i riscontri contraddicono l’ipotesi di partenza. Questo ci porta al cuore dell’epistemologia contemporanea, a quel criterio di falsificazione che costituisce l’elemento che contraddice il senso comune e tutta quella pletora di opinionisti che fanno della prova il leitmotiv di uno scientismo ingenuo. L’ingenuità consiste nell'usare la verifica come criterio di controllo. Una teoria per essere provata deve poter essere falsificabile per via empirica e l’insieme dei potenziali falsificatori non deve essere vuoto: la scientificità di una teoria comporta la possibilità di estrarre conseguenze passibili di controllo fattuale. Nelle parole di Popper: “Da un sistema scientifico non esigerò che sia capace di essere scelto, in senso positivo, una volta per tutte; ma esigerò che la sua forma logica sia tale che possa essere messo in evidenza, per mezzo di controlli empirici, in senso negativo: un sistema empirico deve poter essere confutato dall’esperienza” - un sistema teorico è scientifico solo se può risultare in conflitto con certi dati dell’esperienza. Se cerchiamo conferme è facile ottenere conferme e verifiche per ogni teoria, cercando appunto ciò che conferma e non ciò che contraddice fattualmente la mia teoria: solo indicando quali eventi sarebbero incompatibili con la mia teoria mi espongo al rischio della confutazione, ma è proprio in questo che consiste la scientificità.
- Una teoria scientifica è una proibizione, esclude l’accadimento di certi fatti. Quante più cose essa preclude e tanto è migliore e tanto più si espone al rischio della smentita.
- Se una teoria non può essere in alcun modo confutata (non ha potenziali falsificatori) non può dirsi scientifica. L’inconfutabilità è un difetto.
- Controllare la scientificità di una teoria significa tentare di falsificarla (confutarla): la conferma della teoria non è altro che il tentativo fallito di falsificarla.
Esiste però anche la possibilità di sostenere delle teorie che si sono rivelate false introducendo ad hoc qualche assunzione ausiliaria, modificandone alcuni aspetti e reinterpretandola. Sono quelli che Popper chiama Mosse o Stratagemmi Convenzionalistici che salvano la teoria dalla confutazione ma ne distruggono il suo statuto scientifico sottraendola al criterio di falsificabilità. I sistemi metafisici sono sempre verificabili (utilizzano quei fatti che confermano) e mai smentibili. Se oggi dico domani pioverà o non pioverà (non può essere confutata) non faccio una asserzione empirica perché quanto ho detto trova sempre conferma. Se invece dico solo domani pioverà, faccio una asserzione empirica (falsificabile). In un sistema giudiziario se una prova è irripetibile la controparte dovrebbe essere informata per poter effettuare i controlli, altrimenti siamo nuovamente in un sistema senza falsificatori potenziali. La scienza non è un atto di fede, solo gli asserti empirici (la possibilità che un esperimento possa essere riprodotto per un controllo) possono essere falsificati e dunque sottoposti ad eventuale confutazione. Questo fatto comporta che una teoria con maggior contenuto informativo e predittivo è anche la meno probabile (maggior informazione e complessità=maggior probabilità di sbagliare - la teoria più controllabile è anche l’ipotesi più improbabile). In altri termini la scientificità è data dal fatto che una teoria espone sempre il fianco a dei controlli empirici che possono confutare le sue conclusioni. Il rapporto tra verificazione e falsificazione è dunque asimmetrico. Migliaia di conferme non rendono certa una teoria (tutti pezzi di legno galleggiano), perché un solo fatto negativo falsifica dal punto di vista logico la teoria stessa (questo pezzo di ebano non galleggia). A complicare ulteriormente il criterio di scientificità Popper introduce la distinzione tra falsificazione logica e falsificazione metodologica.
Falsificazione logica: se una ipotesi viene falsificata allora la teoria risulta falsificata: se T è vera allora sarà vera anche C (conseguenza); ma se C è falsa anche T è falsa (dalla falsità di una conseguenza si passa alla falsità della premessa). Nella fisica aristotelica la velocità di caduta di un corpo è proporzionale al suo peso. Non si sa se Galileo, martire della scienza, sia mai salito sulla torre pendente per effettuare l’esperimento della caduta dei gravi che confuta la fisica aristotelica. Ma anche in questo caso non tutto è così semplice. Per falsificare un’ipotesi ho bisogno di ipotesi ausiliarie (che mi consentano di estrarre da queste conseguenze osservabili) e in seguito proprio quelle ipotesi ausiliarie potrebbero rivelarsi sbagliate (e dunque responsabili di una scorretta falsificazione): l’esperienza non può mai falsificare un’ipotesi isolata ma soltanto un insieme teorico. In altri termini, potrebbe darsi che in seguito risulti falsa non l’ipotesi sotto controllo ma gli asserti usati per falsificarla (cioè strumenti, procedure e modelli utilizzati). Se faccio cadere degli oggetti senza tener conto della resistenza dell’aria posso essere indotto a credere che la fisica galileiana sia scorretta. Dunque la falsificazione logica è sempre corretta e conclusiva, ma non sempre metodologicamente corretta e conclusiva. Insomma, una teoria è scientifica solo se in linea di principio e di fatto può essere smentita (deve possedere dei falsificatori potenziali). Se non esistono falsificatori si tratta di metafisica o di fede. Lo spazio einsteiniano che si incurva in prossimità delle grandi masse stellari è una previsione che contraddice la fisica classica e comporta il rischio della smentita (l’assunzione di tale rischio determina la scientificità della teoria). Torniamo a quel campo di Chignolo e al Dna per vedere se il criterio di falsificazione risulta soddisfatto, individuando quali potrebbero essere le potenziali conseguenze che falsifichino l’imputazione di omicidio a carico di Massimo Bossetti. Intanto occorre dire che l’uso del termine prova scientifica, usato ad ogni piè sospinto, è del tutto improprio, illusorio e fuori luogo. La prova è sempre deduttiva e implica semmai l’utilizzo di dati. Il termine prova scientifica può riferirsi, come nella teoria einsteiniana, semplicemente a una costruzione teorica con carta e penna (equazioni) e senza l’ausilio di alcuno strumento se non concettuale. Gli strumenti (telescopi, radiotelescopi, ecc) servono semmai come procedure di controllo (nell'infruttuoso tentativo di falsificarla). La prova scientifica non è altro che un sistema deduttivo nel quale poste alcune premesse ne seguono di necessita determinate conclusioni (ma nel caso specifico indicando sempre quali fatti empirici sarebbero in grado di falsificare tali premesse). Nel caso in oggetto (caso Yara) c’è una grande quantità di elementi che rendono aleatoria, per non dire immaginaria, la prova scientifica: mancano del tutto i falsificatori. Nel dettaglio:
A – Non viene indicato quando un reperto biologico non è più utilizzabile (quanto tempo deve trascorrere per considerarlo inattendibile).
B – Non viene indicato quando un reperto biologico sottoposto a stress ambientale (intemperie e parassiti) non possa più essere considerato valido.
C – Non viene indicato quale deve essere il limite per il quale il luogo del crimine deve considerarsi non contaminato e alterato. Quale deve essere l’attendibilità di un reperto esposto per un tempo X in un contesto aperto a chiunque e dunque in una situazione non controllata.
D – Non viene quantificato il grado di attendibilità del reperto, se non con frasi discorsive e interpretabili a piacere (da “ottimo stato di conservazione” fino a “cattivo stato di conservazione”, “esiti non sempre ben interpretabili”, “elevato livello di degradazione”, “modificazione morfologica e cromaticità”.. alla faccia dei metodi quantitativi).
E – Non viene indicato quale sia l’evidenza che si tratta di sangue, saliva, urina, sperma o magari invece touch Dna. Si sa che una traccia di Dna ancora leggibile (se esposta ad agenti di degradazione chimica e ambientale) è di circa due settimane (vedi articolo di Annika in questo blog). Passato questo termine le ricerche pubblicate su prestigiose riviste scientifiche mondiali ci dicono che la degradazione non potrà ricondurlo al soggetto di provenienza. In pratica, se dopo quel lasso di tempo è ancora di ottima qualità (e nel caso in questione le settimane trascorse non sono solo due ma ben dodici) significa che è subentrata qualche contaminazione... non necessariamente volontaria.
F – Non è più possibile una verifica sul reperto di attribuzione di identità essendo esaurito.
G – Non viene indicata una spiegazione plausibile della contraddizione tra mitocondriale e nucleare.
Perciò, in base all'epistemologia contemporanea non esistono falsificatori e dunque non ci troviamo di fronte a un procedimento scientifico (in merito alla dimostrazione di colpevolezza). Il fatto poi che un reperto venga analizzato da un laboratorio ha come risultato solo un insieme di dati sicuramente attendibili, elaborati con precisione e competenza, ma pur sempre e solo un insieme di dati (elaborazione con metodi quantitativi di un reperto), non certo della prova di un delitto che richiede un procedimento logico che istituisca nessi tra altri fatti. Per quanto le analisi di un reperto possano risultare attendibili, sono altri e ben più complessi i riferimenti al contorno (il contesto) che possono rendere delle conclusioni completamente aleatorie.
Processo mediatico tra gioco e reality - l'esperimento Massimo Bossetti, continua Gilberto Migliorini. Parafrasando l’incipit del Manifesto di Marx ed Engels possiamo dire che c’è uno spettro che si aggira per l’Italia: lo spettro dell’esperimento mediatico. Ormai i cold case più eclatanti hanno quel corollario televisivo dove una pletora di opinionisti, criminologi, magistrati, psicologi, psichiatri, tuttologi, astromanti… si calano nello spazio dell’etere per un esperimento che coinvolge milioni di telespettatori, quel target invisibile e fantasmatico che in genere ha la sua rappresentanza simbolica in uno studio televisivo, con una claque che si vuole rappresentativa (figurativamente) di tutta l’utenza dell’etere, sia pure suddivisa in più canali e fasce orarie. È quella massa atomizzata, rappresentata numericamente dallo share, che dalle sue postazioni domestiche, disperse sul territorio, si forma, come si dice, le opinioni. Si tratta di quel tutt'uno che vibra all’unisono come una sorta di encefalo collettivo e che con enfasi sociometrica viene tout court indicato come opinione pubblica. Una opinione collettiva plasmata non solo dalla pubblicità o dalla propaganda, non solo dalle voci che corrono, ma anche dai sondaggi e rilevamenti demoscopici che, proprio come nel principio di indeterminazione, costituiscono un procedimento di influenza delle opinioni nell'atto stesso della rilevazione statistica. Il concetto di opinione pubblica è ormai largamente usato sia per indicare gli strumenti ‘obiettivi’ di registrazione dei dati di ascolto, ma anche come profezia che si autoadempie, come indicatore che influenza l’opinione pubblica, e non solo come foto istantanea che ne registra gli umori. L’atto della misurazione sociometrica modifica la realtà sperimentale. L’influenza non è solo quella della notizia, ma anche quella nella quale viene ‘pesato’ e ‘misurato’ il suo impatto sull'audience. Proprio come nella meccanica quantistica la misurazione introduce una nuova variabile… e va a modificare la realtà osservata. Il teleutente (contemporaneamente vivo o morto senza ancora gli indici di ascolto) è come il gatto di Schrödinger, con il dato demoscopico acquisisce (finalmente) lo stato determinato di share…I casi in parola, quelli per intenderci che fanno notizia, sono importanti per il potere, non solo mediatico, in tutte le sue forme e le sue occorrenze. I cold case costituiscono una straordinaria opportunità per testare dei modelli di comunicazione e affinare quelle retoriche del consenso con le quali poi si potrà orientare il consumatore e l’elettore, e creare le formule narrative più efficaci e pervasive per costruire e assemblare il target in quanto speculum e cavia sperimentale. Le tecniche di persuasione vengono approntate per modulare le risposte emotive, verificare l’efficienza dei percorsi narrativi, utilizzando non solo l’inossidabile schema stimolo-risposta ma anche tutti quegli input in grado di generare atteggiamenti e nella formazione di quella opinione che si suppone misurabile oggettivamente mediante criteri quantitativi.
Il target di comunicazione (e di marketing), viene fornito di:
a) di un’agenda setting (notizie notiziabili, scelte ad hoc) da parte dei grandi gruppi mediatici e non già dei piccoli blog dove esiste l’effettiva possibilità di scegliere e non di essere scelti - che è invece tipica di una televisione generalista. L’Italia trovandosi agli ultimi posti nell'uso della rete informatica è rimasta un paese dove la televisione sviluppa ancora il massimo di influenza con il minimo sforzo e senza una significativa concorrenza di altri media (monopolio della televendita delle opinioni);
b) di competenze e conoscenze opportunamente implementate attraverso i vari apparati informativi (e scenografici) il più possibile circoscritte in formulari e schemi ripetitivi e inferenze standardizzate sotto forma di percorsi mentali tipicizzati (quegli stereotipi così prevedibili in un target non solo poco acculturato ma, soprattutto, poco aduso all'argomentazione razionale, abituato alle risposte di pancia sulla base delle suggestioni e del sentito dire: nel nostro caso indipendentemente dall'età e dal grado di scolarizzazione in un progressivo analfabetismo di ritorno.
La sfida dei persuasori è quella di valutare l’incidenza della narrazione mediatica, l’efficienza dei costrutti metaforici, l’efficacia dei procedimenti logico-argomentativi attraverso vari stili comunicativi e utilizzando tutti gli strumenti offerti dai percorsi di intrattenimento (format). Molta stampa impegnata è ancora convinta che i cold case vengano utilizzati dal sistema politico-istituzionale per agire sulla mentalità e sulle idee della massa condizionandola e distraendola tramite notizie di poca importanza (vedi il film Quarto potere di Orson Welles) dove la cronaca nera e eventi sociali marginali, rispetto ai grandi temi politici e alle controversie ideologiche solleciterebbero l’interesse morboso e disimpegnato dell’opinione pubblica persa dietro a romanzetti banali e notizie di cronaca nera (un po’ come i prolet orwelliani nel romanzo 1984). Il gatekeeping e le strategie di marketing vengono considerate come cernita di quello che si deve filtrare, selezione di notizie a scopo commerciale, in una prospettiva di disimpegno e con il conseguente consenso verso il potere in tutte le sue forme, culturali, economiche e politiche. La prospettiva presuppone una selezione degli input informativi, funzionale ai persuasori e ai loro interessi più o meno occulti, prassi preventiva di condizionamento (nello schema classico del condizionamento pavloviano). In realtà da un bel pezzo le cose non stanno così, anche se è evidente che il gatekeeper (l’esperto, l’opinionista) può essere più o meno consapevole di far parte di un esperimento mediatico di cui è sia mentore e complice, sia strumento e ingranaggio. La pianificazione di molti programmi nazional-popolari, ma anche di quelli che hanno pretese di approfondimento, in realtà segue uno schema diverso, potremmo dire sperimentale. Il modello è quello del condizionamento operante skinneriano (da Burrhus F. Skinner lo psicologo comportamentista americano). I cold case rappresentano una situazione formidabile per testare modelli sociologici in cui il pubblico è all'interno di un esperimento mediatico predisposto a tavolino, oggetto di un test collettivo non diverso da certi esperimenti da laboratorio resi famosi dalla psicologia sociale (esperimento Milgram, esperimento Asch, prigione di Stanford, profezia che si autoadempie ecc.). Gli ‘innocenti’ programmi pomeridiani e serali nei quali si alternano opinionisti e cronisti per descrivere i casi mediatici (soprattutto delitti ed eventi sociali di impatto emotivo) rappresentano una operazione atta non solo a ‘pesare’ le risposte dell’opinione pubblica (diremmo le modalità di intrattenimento in ragione del successo editoriale e della ricaduta sugli ascolti), ma a testare strategie narrative, stili retorici e forme argomentative. Il contenitore mediatico (il format) è in ragione della sua efficacia nel produrre risposte appropriate da parte del pubblico, e nel valutare quali percorsi narrativi e quali stimoli abbiano maggiore presa, e nel misurare poi le risposte in termini di reazione (apprezzamento o disapprovazione) del target di riferimento. Se una strategia comunicativa o narrazione mediatica, e ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale, è in grado di dimostrare mediaticamente che una persona è colpevole di un delitto, si può ben dire che il modello è quanto mai efficace, riesce operativamente a orientare l’opinione pubblica servendosi di tutto quell'armamentario retorico, argomentativo e suggestivo non solo in grado di condizionare con stimoli appropriati le risposte del pubblico, ma di poter predisporre un esperimento mediologico per promuovere comportamenti e atteggiamenti idonei a formattare l’audience. Si utilizzano i cold case per testare delle strategie comunicative, un laboratorio nel vivo del paese modulando e perfezionando quei modelli di comunicazione (in campo pubblicitario e propagandistico) attraverso lo studio analitico dell’audience che di fatto risulta il vero soggetto sperimentale e di indagine. L’imputato di un delitto rappresenta soltanto il pretesto o l’occasione con la quale condurre l’esperimento e le relative misurazioni delle risposte dei soggetti sperimentali (la pubblica opinione e le sue articolazioni sociali e culturali). Un laboratorio nel corpo stesso di una nazione è un formidabile test per mettere a punto modelli e strategie manipolative che potranno poi essere applicati agli ambiti più disparati fornendo dati e riferimenti in merito agli atteggiamenti e alle idiosincrasie dell’opinione pubblica e alle modalità operative di condizionamento e formattazione dei comportamenti dell’utenza. Gli strumenti mediologici vengono messi a punto e affinati nel corso di spregiudicati ‘giochi mediatici’ e ‘reality criminologici’ che in dispregio alle persone coinvolte hanno come unico obiettivo il risultato sperimentale (proprio come nell'esperimento Milgram, l’ignaro soggetto sperimentale assegnava delle scosse elettriche, poco importa che fossero puramente simulate, dal momento che per chi le somministrava erano vere). Una sorta di “isola dei famosi” che ha per teatro l’intera penisola e per partecipanti…tutti gli ignari naufraghi del Bel Paese. Predisporre un ambiente mediatico con relativi opinionisti ed esperti non ha tanto lo scopo di influenzare le risposte relativamente a un caso specifico (che in quanto tale è solo un pretesto anche quando viene scelto come emblematico) quanto di testare l’efficacia di un modello comunicativo e le più idonee modalità di approccio all'audience. Nel caso del signor Bossetti la sfida non è tanto dimostrare che perfino una persona completamente estranea a un delitto e senza uno straccio di vera prova che lo coinvolga può essere additato come assassino, quanto di testare in quale misura, sotto quali condizioni e attraverso quali strumenti un battage mediatico può condizionare un target con gli opportuni input orientandolo ed educandolo operativamente, e predisponendo gli opportuni rinforzi e le idonee strategie. Il caso Bossetti in questo senso è emblematico di un sistema mediatico dove non si tratta più di un persuasore occulto riguardo a un ipotetico caso X, ma di un esperimento di psicologia sociale per metter alla prova una strategia comunicativa, un esperimento al di fuori del laboratorio e utilizzando un delitto, emblematico per il clamore che suscita, in un procedimento di ingegneria sociale finalizzata a elaborare strategie comunicative, affinare e testare modelli di persuasione da applicare poi anche in altri contesti (sociali e politici). Nello specifico si possono individuare alcuni espedienti narrativi e ricorsività metodologiche che influenzano ‘positivamente’ l’opinione pubblica. In particolare, sia sul versante cognitivo sia su quello emotivo. Si utilizzano le classiche fallacie della sofistica e eristica greca, tecniche che nonostante la società dei consumi costituiscono a tutt'oggi le migliori forme e modalità di persuasione. Alcuni esempi:
a) - fallacia compositionis: cioè tenere insieme cose che logicamente andrebbero disgiunte: Esempio offerto da Platone: Eutidemo prova al giovane Ctesippo che egli ha picchiato suo padre: “Egli ha picchiato il suo cane che, avendo avuto i piccoli da una cagna, è padre, e che al tempo stesso appartenendo a Ctesippo è suo, da cui per associazione suo padre”. Prima di sorridere vediamo nel caso Bossetti come viene presentato il tema del furgone. Una serie di immagini e filmati ci dicono che il furgone immortalato dalle telecamere è quello di Bossetti. La diatriba sul furgone e sulla sua effettiva identità nei vari pedinamenti delle telecamere sembra avere più che altro lo scopo di rinforzare l’idea di una relazione dell’automezzo con il delitto. Non so se sia vero che si tratti sempre del furgone di Bossetti, probabilmente no. Quello che importa è che si tratta di un gioco di prestigio, l’insistenza ha l’unico scopo di attirare l’attenzione su qualcosa di cui non esiste alcuna prova che intrattenga qualche relazione con Yara. Semplicemente, con una fallacia compositionis si postula, o meglio si sottintende, senza evidenze e in assenza di fatti, che Yara sia salita su quel furgone. L’insistenza sul furgone alla fine ottiene come risultato l’attenzione su qualcosa che si da per scontato abbia attinenza con il delitto e il rapimento. Si tratta solo di un gioco allusivo, ontologicamente inconsistente, ma in grado di sollecitare fantasie inconsce e scenari immaginifici. Analogamente si procede con le microscopiche fibre di tessuto trovate sul cadavere che potrebbero appartenere a migliaia di tessuti identici di altrettanti veicoli dove quel tipo di fibra costituisce un materiale diffusissimo. La fallacia compositionis costituisce un modello pervasivo con il quale l’opinione pubblica può essere distrattaproprio come in un gioco di prestigio nel quale la mano dell’illusionista attira l’attenzione creando relazioni apparenti allo scopo di abbagliare circa la sua rilevanza. Il procedimento è in gran parte inconsapevole, proprio come certi automatismi per i quali siamo presi al laccio e siamo convinti che esista una qualche relazione - anche se non ne abbiamo prova - solo per il fatto che di tale connubio siamo stati persuasi surrettiziamente e inconsciamente. Il modello mediatico è poi applicabile a tutta una serie di situazioni analoghe dove l’immaginario è in grado di suscitare consenso e approvazione anche se si tratta soltanto di un miraggio cognitivo.
b) - La fallacia divisionis. (disgiunzione di termini che andrebbero congiunti) nel caso in parola la troviamo ogni volta che qualche elemento favorevole all'imputato viene tenuto separato per non creare dissonanza cognitiva rispetto all'assunto di colpevolezza che costituisce premessa tutta da dimostrare.
c) – fallacia di accentazione (parole chiaramente diverse, es: àncora e ancòra, che vengono accentate e usate in modo mirato così da portare il telespettatore alle conclusioni volute); nella fattispecie è da intendersi metaforicamente come l’enfasi con la quale si sottolineano alcuni fatti, anche i più insignificanti che per effetto suggestivo acquistano rilevanza di indizio. La natura dell’indizio infatti è la sua totipotenza, ubiquità e indeterminatezza, è tale in un contesto di relazioni che spesso si appoggiano le une alle altre come in un castello di carte dove tolta l’una tutto il sistema crolla. In altri termini, l’indizio ha uno statuto puramente soggettivo e arbitrario se non è supportato da un elemento di concretezza e di realtà. Ma anche qui la latitudine interpretativa è piuttosto arbitraria dal momento che al di fuori di un teorema spesso gli indizi sono semplicemente fatti di nessuna rilevanza che acquistano importanza nel momento in cui esiste un sospetto che ne amplifichi la portata facendoli risaltare in una inversione figura-sfondo. Nella Storia della colonna infame (opera geniale che vale più di un trattato di criminologia) il Manzoni ce ne dà uno splendido esempio: l’andar rasente un muro diventa l’indizio che si tratta di un untore e la stessa opinione pubblica vede i muri unti laddove si tratta di un lerciume che è lì da sempre (la suggestione mediatica purtroppo non è invenzione di oggi). Spesso i fatti più banali assumono un rilievo semplicemente perché vengono segnalati e sotto la lente d’ingrandimento, amplificati col pregiudizio, acquistano lo statuto di indizi. La navigazione in siti pornografici in sé è un fatto banale e non costituisce neppure violazione di qualche norma giuridica (in un paese bacchettone come il nostro però acquista un rilievo moralistico in grado di innescare preconcetti), in certe condizioni allusivamente diviene una sorta di macchia che diffonde un alone di diffidenza e pregiudizio. I comportamenti più banali, allo stesso modo, possono, mediante enfasi e accentuazione e accentazione, creare attorno a un personaggio un’aura di sospetto che diviene ambiente nutritivo di effimere induzioni e falsi sillogismi.
d) – esistono poi le fallacie estranee al linguaggio, quelle che confutano una tesi o mettono in bocca all'interlocutore un significato diverso dalle sue intenzioni - o forzandone il senso o introducendo il classico passepartout psicanalitico del significato inconscio, ritorno del rimosso, riaffiorare della verità nascosta.Insomma, i classici paralogismi e psicologismi che van bene in tutte le salse. Nel caso Bossetti ogni parola è stata spaccata in quattro, ogni frase del muratore radiografata, non già in un tentativo obiettivo di cogliere semplicemente la volontà di affermare la sua innocenza (perlomeno di ascoltare quello che l’imputato ha da dire nel tentativo di discolpa), ma nell'intento di individuare, comunque, presunte contraddizioni ed elementi di colpevolezza con un pregiudizio che colora qualsiasi cosa l’uomo dica o faccia, anche la più insignificante e banale, come un indizio di quello che si vuole dimostrare. Il gioco del significato latente di parole e gesti del quotidiano può alla fine metter capo ad alcuni perversi meccanismi proiettivi quali:
d1 - la mistificazione dell’io: attribuire all'interlocutore bisogni, desideri, stati d’animo, motivazioni e pulsioni che in realtà non ha espresso.
d2 - la risposta tangenziale che ha per effetto la disconferma. Avviene quando a un’osservazione dell’interlocutoresi risponde filando via per la tangente, cioè omettendo di prendere in considerazione (o facendolo solo all'apparenza) le sue istanze e i suoi vissuti.
d3 - il doppio legame: nell'ingiunzione paradossale sii spontaneo oppure dì quello che sai, confessa dove il processo di ascolto è viziato da un pre-giudizio che costituisce il contenitore nel quale qualunque comunicazione viene formattata in base a un significato preordinato (ad esempio di colpevolezza). Nel caso Bossetti c’è però un elemento aggiuntivo che colora tutto il procedimento mediatico e che costituisce la peculiarità dell’esperimento in questione: la semplificazione e l’omissione.
Il tema è quello del Dna. Leggendo nei vari blog e nei commenti dei lettori nei quotidiani on-line o ascoltando programmi televisivi dedicati al caso in parola, ciò che stupisce è da un lato l’accuratezza terminologica relativamente agli aspetti biologici e genetici della questione (all'apparenza tutti esperti genetisti), dall'altro, anche in questo caso e in un certo senso come per il furgone, la dimenticanza che il corpo della povera ragazza è rimasto per mesi in balia di chiunque, che nessun Dna può conservare integre le sue informazioni dopo essere rimasto per mesi all'addiaccio, e infine che le analisi dei reperti sono contraddittorie. La semplificazione e l’omissione sono un tratto ormai caratteristico di una forma mentis mediatica che fa dell’apparenza e della semplificazione il suo valore e la sua finalità. Un utente ed elettore di bocca buona, assuefatto a non riflettere troppo, fa piacere a un sistema politico-istituzionale che predilige un target addomesticato e indottrinato.
Il caso Bossetti è ben più di un cold case, è l’anatomia di una società dalle risposte emozionali, incapace di valutare i fatti svincolandoli dalle suggestioni mediatiche, predisposta a tutti i livelli e in tutti gli ambiti a dare spiegazioni standard, soggiogata dagli strumenti retorici che essa stessa ha creato e che le si ergono contro dominandola. Un Bel Paese sempre più incapace di comprendere le tensioni e le contraddizioni che lo caratterizzano a tutti i livelli compresi quelli istituzionali. L’opinione pubblica, formula evocativa di una ipostasi mediologica, da tanto tempo ha perso qualunque orientamento e vive il carpe diem - come un day-time - la realtà virtuale di un monitor nel quale si forma un mondo ideativo e immaginario; un reality di pregiudizi e stereotipi. Il caso Bossetti (‘esperimento’ forse destinato ad entrare nei manuali di psicologia sociale) rappresenta la radiografia e il Dna di una società che ha smarrito ogni valore e ogni certezza sostituendoli cinicamente con cliché e decalcomanie. Vivaddio, siamo il paese encomiabile delle garanzie quando si tratta di ex Presidenti del Consiglio, parlamentari, magistrati, industriali, comandanti, notabili, insomma di quel reality dell’isola dei famosi. Quando invece si tratta degli anonimi naufraghi della penisola (muratori, carpentieri, contadine, casalinghe, disoccupati, sottufficiali…) allora le garanzie hanno - come dire - una défaillance, una caduta imputabile forse allo share. Ma in fondo, si tratta solo di un gatto, vivo o morto che sia all'apertura della scatola del famoso esperimento Schrödinger, di un volgarissimo felix catus domesticus…
Da anni sugli schermi italiani si proietta il nuovo romanzo mediatico - "Massimo Bossetti. Il killer che perde sangue e rapisce col furgoncino..." di Gilberto Migliorini. In una storia di fantasia c’è sempre un po’ di verosimiglianza. I romanzi per piacere ai lettori devono intrattenere elementi anche di realtà - per quanto infarcita di immagini e suggestioni. La miscellanea crea appunto l’illusione del verosimile o del simil-vero. Perfino quando si tratta di polpettoni e intrugli indigeribili, bizzarrie senza capo né coda, fa capolino qualche elemento di concretezza, magari accentuato e deformato quanto basta per far sognare, inorridire, immaginare, dedurre… costruire un’immagine convenzionale dei personaggi con quella mise travestita da storia plausibile. Per quanto alle volte gli attori appaiano inamidati e rigidi come baccalà, in abiti di cartapesta e irretiti in ruoli sopra le righe, conservano però il fascino dello status da protagonista che è stato loro proditoriamente assegnato da un romanziere. Santi, poeti e navigatori, ma anche assassini pedofili e… poveri Cristi. Se si dice eroe, eroe dev'essere - anche se il gaglioffo non sembra proprio appartenere alla schiatta dei prodi e valorosi. Se si dice assassino, assassino dev'essere - anche se magari si tratta di un povero diavolo tirato in ballo per qualche brutto scherzo del destino. L’etichetta, per il grande pubblico, è davvero importante, come se davanti a un barattolo con della polvere bianca si potesse scambiare il sale per lo zucchero o non so per quale altra sostanza. Il popolo mediologico ha bisogno di sapere cosa c’è nel barattolo, e se gli fanno credere che è zucchero, anche se è sale, zucchero dev'essere. In fondo le papille gustative si possono addestrare a comando, magari si storce un po’ la bocca, e l’espressione dell’assaggiatore non è propriamente delle migliori, però ci si abitua e alla fine si è tutti concordi: si tratta proprio di saccarosio - e l’espressione sembra perfino trasmutare, diventa estatica e mielosa, segno che la suggestione può davvero fare il miracolo. L’effetto placebo in fondo serve anche a quello, a trovare il farmaco dell’anima più adatto a farci star bene e, qualche volta, perfino sognare. Tutta la società dello spettacolo si regge su quel sistema di etichette con le quali si dà indicazione circa contenuti e contenitori. Basta davvero poco per orientare il target. L’importante è però fargli credere che alle conclusioni ci arrivi lui - in perfetta autonomia - e che il romanzo sia proprio lo spettatore a scriverlo, senza imbeccate e senza quelle suggestioni che lo rendano così disponibile a collaborare alzando lo share nel day-time. La verosimiglianza consiste nel trovare gli ingredienti adatti che poi saranno miscelati a dovere e accostati nelle giuste tonalità. Viene costruita una storia e imbastito un personaggio che abbia una parvenza di realtà. Magari si calca su qualche elemento caratteriale, si corregge un profilo inadatto e non del tutto coerente con la trama, si accentuano gli aspetti in sintonia con l’intreccio lavorando un po’ di taglia e incolla. Occorre arricchire e sostenere la narrazione con qualche escamotage, omettendo dove è d’uopo e aggiungendo dove conviene per creare una storia attrattiva che sia coerente in rapporto al personaggio che si vuole creare. Si tratta appunto di scrivere un romanzo mediatico, con tutto quel sistema di simboli e di elementi evocativi che diano spessore e ‘realtà’ a un protagonista altrimenti votato ad essere solo un uomo qualunque, un attore senza neppure il privilegio e l’eccellenza del sospetto perché troppo banalmente innocente. I media non amano l’anonimato e se il personaggio prescelto non ha tutti i requisiti si lavora di cesello. Così i fatti banali vengono rivitalizzati, nobilitati con un risvolto ambiguo e perverso, colti da prospettive inquietanti, resi emblematici con il gusto dell’iperbole. I protagonisti diventano icone ed emblemi, ruotati e pirlati in 3D e all'occorrenza gonfiati e pompati come camere d’aria. Si tratta appunto di scrivere un copione che abbia il fascino del thrilling trasformando il quotidiano nell'estemporaneo, la normalità nel capzioso e nel difforme. È così che una ciambella diviene un canotto e un palloncino una mongolfiera. La potenza del medium può perfino beatificare o demonizzare, trasformare un personaggio anonimo in un santo o in assassino. La teatralità trasfigura, il pettegolezzo diviene un potente afrodisiaco per un’audience folgorata sulla via di Damasco. Potenza di un sistema mediatico che ha il potere alchemico di trasformare il metallo vile in carati luccicanti e di rendersi invisibile con l’elitropia. Il Calandrino mediatico sembra davvero convinto di essere immune all'abile regia del palinsesto, del tutto persuaso di aver raggiunto le sue conclusioni in perfetta autonomia, come un bravo detective armato solo della sua perspicacia. L’innocenza nella società mediatica, a parte l’eccezione che non conferma mai la regola, è un disvalore, un qualcosa che non può mai assurgere alla gloria del colpevole in quanto capro espiatorio. Soprattutto quando un indagato proclama la sua estraneità rispetto a un delitto e a dispetto di un copione che invece prevede che sia proprio proprio lui il protagonista del cold case. I prodotti editoriali di un giornalismo da scoop, non di quello che voglia disvelare i raggiri e le metamorfosi del potere, hanno per l’appunto quel sapore di artificio... talvolta perfino confezionato con l’accortezza del cuoco che ti sforna un piatto cotto a puntino e lo presenta come conviene. Il caso Bossetti è forse il più emblematico tra i romanzi mediatici. Costruito un po’ a tavolino e un po’ per caso da quella naturale vocazione che il nostro sistema informativo (ma talvolta anche giudiziario) ha nell'assemblare storie con estro fantasioso, in modo eclettico e col gusto per 'l’improvvisazione’...Un elemento caratteristico del romanzo è sempre il dettaglio. Di un personaggio che dev'essere colpevole, prima ancora di presentare i cosiddetti elementi di prova (ma oggidì gli indizi bastano e avanzano) si costruiscono tutti quei fatti al contorno che lo rendano abbastanza antipatico, bugiardo, inattendibile, controverso, contraddittorio, inverecondo: insomma, l’antieroe che prepari il terreno per rendere il protagonista perlomeno moralmente idoneo come colpevole di un delitto. Con le giuste credenziali perfino un camioncino (sia o non sia di Bossetti) che transita sulle strade di Brembate basta e avanza per farne un colpevole. Come se solo il muratore di Mapello, sempre ammesso che sui filmati ci sia lui e sempre solo lui, quella sera transitasse nelle strade del paese Bergamasco. Come se solo quella sera, e non per una sorta di abitudine, percorresse quel tragitto per tornarsene a casa. La relazione col delitto, per quanto omessa, ha come corollario un legame in un immaginario latente, implicito, quell'inconscio collettivo che non ha bisogno d’altro se non di allusioni. Un evento del tutto banale e senza ulteriori riferimenti a un crimine, diviene rilevante perché il personaggio è già stato presentato con tutti i crismi e le qualità adatte a inferire che protagonista del romanzo è proprio lui, è proprio il muratore di Mapello. Identificare il protagonista significa già essere a metà dell’opera, non come in certi romanzi dove occorre qualche pagina per capire dove l’autore andrà a parare. Ce l’hanno confermato in tutte le salse partendo da lontano, da un Dna che rileva una ‘falsa’ paternità e da un Dnache dice che sul cadavere della povera Yara c’è il marchio dell’assassino. Quest’ultimo parrebbe per certo un elemento reale, il solo che poi butta una luce sinistra su qualunque azione che abbia compiuto il signor Bossetti, anche la più banale e insignificante, la più ordinaria ed insulsa, quel quotidiano mestiere di vivere che altrimenti sarebbe senza alcun interesse. Tutto può servire in un teorema, perfino le dimostrazioni per assurdo. Quel Dna infatti aggiunge il sospetto su qualunque cacata Bossetti abbia fatto o detto, in un crescendo dove il romanzo acquista le tonalità del thrilling con la scoperta di indizi che piace descrivere come gravi e concordanti (e la formula è già scodellata bell'e pronta). La latitudine interpretativa - riguardo al concetto di indizio - è sempre piuttosto soggettiva. In fondo l’indizio è l’elemento ubiquitario per eccellenza, sempre in grado di produrre inferenze sic et non. Sul piano logico non è altro che un insieme di relazioni basate su quel sistema induttivo messo più volte alla berlina dall'epistemologia contemporanea... che però è sempre stato in auge nel sistema inquisitorio. Il computer di Bossetti diviene una cornucopia dove salta fuori quello che probabilmente si trova più o meno in milioni di computer. Ma grazie all'induzione creata in precedenza acquista l’enfasi di elemento indiziario che evidenzia con forza e gravità criminologica ciò che in un contesto normale sarebbe solo una bazzecola. Gli eventuali alti e bassi coniugali sono quelli della normale vita domestica della famiglia media italiana, ma nel caso diventano pulsione e movente di un delitto. I rapporti con i colleghi, quelli che normalmente sono rappresentativi del modus vivendi di tanti lavoratori, costituiscono forma mentis e anomala prerogativa comportamentale. Il sospetto, per quel Dna, trasforma ogni evento normale, naturale, banale (compreso il transitare per le strade di Brembate con il camioncino), in elementi significanti, in indizi (parola evocativa e suggestiva che poi assurge come per magia ad elemento di prova). Si misura la lunghezza del cassone dell’automezzo come se quello fosse indizio (di che?). Diciamolo apertamente, se il mezzo che transitava per le strade di Brembate fosse o non fosse del Bossetti non costituisce né indizio né prova. A meno che il Bossetti abitasse in altra città e quella non fosse una solita e normale percorrenza del muratore. Al di là dunque di un romanzo, per quanto suggestivo e avvincente (per chi si accontenta di uno stile prolisso e improbabile), rimane solo quel Dna a indicare che sul luogo del delitto, sul cadavere, c’è davvero il marchio dell’assassino. A indicare che il protagonista è davvero il signor Massimo Bossetti. Eppure anche in quel punto la storia appare evanescente, senza mordente e senza spessore. E non solo perché la macchiolina ormai non c’è più, consunta e svanita, non solo per la contraddizione logica tra mitocondriale e nucleare, non solo per l’impossibilità che una sostanza biologica si mantenga integra per mesi alle intemperie, non solo perché il cadavere della povera ragazza è rimasto in balia di chiunque per un’intera stagione… Gli ingredienti del romanzo per un caso mediatico di eccezionale interesse ci sono dunque tutti. L’opinione pubblica è stata preparata minuziosamente con trasmissioni dedicate, predisposta a una lettura colpevolista. Il muratore di Mapello ce l’hanno presentato con tutti i crismi sgradevoli e con, in più, quella patina da bugiardo che fa in modo che qualunque cosa dica sia solo aria fritta o, al più, il solito modo per imbastire scuse o alibi improbabili. Ad esempio, ci hanno raccontato che diceva di avere un cancro per evitare i lavori pesanti... ma non è che chi ha fatto la confidenza sulle balle raccontate dal muratore ha omesso di dire che si trattava solo di un gioco, di uno scherzo per sopportare la noia e la stanchezza di una giornata di lavoro pesante? Non è che la storia è stata presa alla lettera perché faceva comodo creare un vero contaballe? Non è che un Bossetti inattendibile serve come l'humus per preparare il terreno, serve come la tempera per fare un ritratto del protagonista che paia certo e serva all'uopo? La vita privata del carpentiere viene continuamente scannerizzata con intenti non proprio filologici. Troppo facile decontestualizzare e amplificare fatti banali, scherzi, aneddoti, défaillance, momenti di crisi, di euforia o di disagio. Momenti che esistono in qualsiasi famiglia e in qualsiasi vivere quotidiano. Per quanto riguarda la navigazione on line sembra che nel computer del muratore ci siano prove di straordinaria gravità, come la scritta: “ragazze di giovane età che eseguono esercizi di danza”. In effetti vedere ragazzine col tutù che eseguono qualche figura (a volte si vedono anche in tv) è un fatto che non può lasciare indifferenti. Un allongé o un aplomb, un pass chassé o un piqué sono davvero fatti sconvolgente. Non parliamo poi di una pirouette. La stampa davvero zelante ci informa inoltre che nel computer del muratore ci sono immagini "riconducibili a mappe satellitari delle zone ovest della Provincia di Bergamo". Trattasi di notizia che scava in profondità e che fa pensare a una pianificazione dettagliata, una sorta di piano bellico o magari un indagine satellitare per un delitto (a proposito quale sarebbe la zona ovest?). Chi non l'aveva capito ora lo sa che avere Google Maps sul computer può risultare davvero compromettente. Ma, fatto davvero sconvolgente, è che sembra sul computer ci sia scritto, udite udite… “notizie di cronaca riguardanti minori”. Si tratta di uno scoop che può davvero lasciare sconcertati e far pensare male anche del giornale quotidiano che ricevo on-line, dove talvolta ci sono notizie di cronaca riguardanti i minori. Per quanto sia prudente non mi sono mai accorto della pericolosità degli argomenti di tal fatta. E qui non siamo nemmeno più al processo alle intenzioni, siamo a costruire un personaggio con scrupolo sartoriale, dove il ridicolo diviene grottesco e dove piace vincere facile. Per il capitolo pornografia di solito ci si affida a Google. Basta digitare sex e immagini e così, d'emblée, ti trovi a navigare in quello che un paese ipocrita considera il peccato capitale. Non importa che noi si viva in uno degli stati più corrotti al mondo, importa che ci si scandalizzi per immagini di sesso (considerando poi che viviamo in una realtà dove l’educazione sessuale è considerata cosa demoniaca). Per quanto concerne la pedofilia, la frase tredicenni vergini (rosse o bionde che siano) digitata su un computer di casa Bossetti, sembra un tantino azzardata come prova. Insomma, attorno al muratore hanno imbastito un abito su misura e sembra quasi che ci sia lo zampino di uno stilista di moda che ha assemblato per benino e coordinato i dettagli di abbigliamento e tutti gli accessori annessi e connessi. Ah, dimenticavo le sue frequentazioni in birreria e (sembra documentata almeno una volta) dello stesso supermercato dove andava la povera Yara (ma forse chi ce lo dice finge di non sapere che Brembate e Mapello sono praticamente due paesi attaccati). Certamente dimentico qualcosa e mi scuso, ma purtroppo non sono aggiornato sugli ultimi indizi, visto che piovono a cascata con tanto di menù di degustazione presentato in ceramiche e posate smaglianti. Un opinionista, credo sia un magistrato, in televisione ci ha informato che molti indizi fanno prova. Beh, se gli indizi sono quelli che ci vengono propinati giornalmente c’è da constatare che qualsiasi cosa abbia detto o fatto il povero Bossetti può essere usata contro di lui. Che le bazzecole e le pinzillacchere più insulse vengono presentate come se in tavola si portasse del caviale. Però bisogna ammetterlo, per quanto il piatto sia vuoto la presentazione è davvero d’effetto. Sembra di trovarsi alla prova del cuoco. Ma si sa, il pubblico è di bocca buona e se il piatto piange si può sempre fargli credere che dentro ci sia un antipasto di crudità. Ed è ovvio che perfino cercare di difendersi da un accusa di omicidio, sforzarsi di dimostrare la propria innocenza, si può ritorcere contro il malcapitato. Cosa dire riguardo ai fatti e non alle illazioni, alle congetture e alle correlazioni più o meno arbitrarie? Cosa dire di un Dna invecchiato, quasi come fosse un barolo d’annata, alle intemperie di quel di Chignolo. Di un Dna invecchiato e di ottima qualità di cui però non è rimasta neppure la bottiglia... perché l'hanno scolato tutto senza lasciarne neppure un goccino? Cosa dire di un reperto, di una macchia che gli stessi Ris hanno derubricato come non sempre ben interpretabile “in ragione dell'elevato livello di degradazione biologica”? Cosa dire di un furgonato, di un camioncino immortalato per le strade di Brembate (indizio davvero eclatante per uno che di lì ci passava quotidianamente) che i ben informati dicono sia di Bossetti, per quanto non si veda né targa né conducente? Per parlare del resto bisogna affidarsi alla Divina Provvidenza. Il reale è tutto in quelle tre domande e non si capisce come possa bastare per tenere in carcere il muratore e mandarlo a processo. È possibile che in un paese civile non esista un habeas corpus e che la maggioranza della popolazione neppure si renda conto che quello che sta accadendo al muratore potrebbe accadere a chiunque? Possibile che ormai i media siano solo emanazione di poteri forti senza più autonomia e intenti morali, mossi solo dalla logica del profitto editoriale? Possibile che la gente non si renda conto di essere menata per il naso? Sì, possibile, purtroppo… Nonostante l’opinione pubblica sia ormai persuasa della colpevolezza del carpentiere, ben addestrata da una stampa di regime, ci sono tutti gli ingredienti perché il processo possa trasformarsi in una pessima figura per la giustizia italiana. Per quanto riguarda i media il problema non si pone e non esiste. Siamo da tempo in un sistema informativo di tipo orwelliano e comunque andrà a finire la storia, la cosa certa è che se sarà necessario nel giro di ventiquattro ore cambierà lo scenario mediatico. E tutti saranno persuasi che nulla è cambiato, che ci avevano visto giusto e che la nuova versione che ci daranno era anche quella di ieri e dell'altro ieri… Il caso di Massimo Bossetti è davvero l’anatomia di una società senza più orientamento morale, senza più consapevolezza e preda solo di meccanismi mediologici...
Il Caso Bossetti e la profezia che si autoadempie Di Gilberto Migliorini. In psicologia sociale esiste una teoria che cerca di spiegare quei processi di influenza sociale per i quali le aspettative costituiscono un potente motore di scelte e determinano dei fenomeni che vanno sotto il nome di “profezia che si autoadempie” o, anche, “effetto Pigmalione” (dal nome dello scultore immaginato da Ovidio che si innamora a tal punto di una statua che raffigura una donna da implorare Afrodite di darle vita). Il fenomeno, studiato in vari ambiti (economico, educativo, politico, medico), seppure sia stato variamente esemplificato nella sfera dei diversi comportamenti individuali e collettivi (e articolato secondo vari modelli di riferimento), risulta sempre arricchito da qualche nuova esemplificazione e da più articolate interpretazioni. La profezia che si autoadempie è anche un espediente narrativo in grado di dare linfa ai paradossi temporali, alle coincidenze e a quel tema del destino e del mito che si intreccia con quelle previsioni che paradossalmente si realizzano proprio nel tentativo di sottrarvisi. La profezia che si autorealizza è sicuramente uno dei fenomeni più studiati in psicologia sociale. Il modello risulta sempre in grado di offrire nuovi spunti interpretativi e di produrre ulteriori elementi di riflessione per chi studia i comportamenti collettivi negli ambiti più disparati (anche in campo matematico nella teoria dei giochi). Il caso Bossetti, come qualche altro capitato negli ultimi anni, rappresenta un modello particolarmente significativo in un ambito, quello investigativo, nel quale le aspettative giocano un ruolo talora determinante nel costruire veri e propri teoremi fondati essenzialmente su input iniziali che orientano un’indagine. Intuizioni e convinzioni possono influenzare una filiera di indagine con interpretazioni a cascata, influenzate dalle aspettative che via via ne orientano la direzione investigativa. L’effetto Pigmalione (o effetto Rosenthal dal nome dello psicologo tedesco) studiato soprattutto nella realtà educativa è particolarmente emblematico. Si tratta di quelle aspettative che gli insegnanti assumono nei confronti di un alunno. Tali aspettative determinano l’evoluzione del suo rapporto con il discente e ne influenzano positivamente o negativamente i comportamenti. In un circolo vizioso il bambino si adeguerà all’immagine che l’insegnante avrà interiorizzato. Tali aspettative avranno inoltre una influenza al contorno (compagni e genitori) in un processo di rinforzo positivo o negativo dei comportamenti. La profezia che si autoadempie riguarda anche l’evoluzione del concetto di sé in rapporto all’influenza sociale, sulla percezione delle risposte degli altri e in particolare sulla valutazione (positiva o negativa) in grado di influenzare l’immagine che un individuo o un gruppo sociale ha di se stesso. Il fenomeno intrattiene inoltre relazioni significative con la teoria della dissonanza cognitiva. Quanto sopra parrebbe non avere alcuna relazione con il caso Bossetti e in particolare con l’indagine che lo vede coinvolto. In realtà l’oggetto in questo caso non è il signor Massimo Bossetti, ma l’indagine sull’omicidio della piccola Yara in quanto determinata da una serie di aspettative e di deduzioni in grado di orientarne lo sviluppo in modo più o meno coerente. La profezia che si autoadempie sviluppa tutta le sue potenzialità determinando comportamenti individuali e collettivi in base ad automatismi sociali più o meno razionali, in grado di determinare talora dei miraggi cognitivi e dei labirinti nelle dinamiche di gruppo e nella autorealizzazione delle predizioni. Nemmeno un sistema investigativo - che per sua natura dovrebbe basarsi su solidi impianti deduttivi e su una smaliziata capacità di distanziarsi dalle proprie intuizioni - riesce sempre a sottrarsi alle trappole della profezia che si autoadempie, relativizzando le sue premesse e tornando sulle proprie conclusioni provvisorie per le opportune verifiche. Un’indagine che non sappia tornare sui propri passi per verificare che le aspettative non abbiano per caso portato su una pista sbagliata, ingenerando poi una catena di deduzioni del tutto fuorvianti e decettive, può andare incontro a degli esiti deludenti, in qualche caso a dei clamorosi errori di valutazione. La profezia che si autoadempie nell’ambito sociale riguarda i comportamenti collettivi in funzione di aspettative che coinvolgono le persone sul piano emotivo e cognitivo influenzandone i giudizi e le scelte in processi che sovente sono in relazione a un contesto mediatico. Il modello è: prevedo un fatto X e la mia profezia è in grado di produrre davvero l’evento in una circolarità nella quale l’aspettativa (previsione) genera il fatto previsto che a sua volta funge da verifica. Il caso classico che viene presentato è quello di una (falsa) diceria di una banca che si trova sull'orlo del fallimento. Tutti i correntisti accorrono allora agli sportelli per ritirare i loro risparmi e di fatto la banca si trova veramente in difficoltà e rischia davvero il fallimento. Insomma, il concetto di realtà non è solo quello di entità oggettiva, ma anche quello della valutazione soggettiva (aspettative) che in quanto tale determina delle conseguenze. Anche in fisica, perlomeno quella subatomica, vale il concetto dell’osservatore che modifica la realtà nell’atto di osservarla in quel processo definito come equivalenza onda-corpuscolo e principio di indeterminazione. In psicologia sociale, nella teoria della dissonanza cognitiva, ad esempio, il ruolo delle aspettative è determinato da un sistema di credenze già strutturato che è in grado di relativizzare qualunque ulteriore informazione aggiuntiva integrandone il senso, la portata e il significato all’interno di quella configurazione di convinzioni che funge da frame o sistema di riferimento. Nel caso di un’indagine su un omicidio, nel momento in cui mi convinco che X sia il responsabile del delitto andrò a interpretare qualsiasi suo comportamento integrandolo in un sistema cognitivo che ritengo coerente con l’assunto di colpevolezza. E’ evidente che con tale premessa si può andare incontro a dei veri e propri abbagli. Le aspettative e le suggestioni in certi casi possono influenzare non solo i processi cognitivi, ma talora perfino la percezione creando deformazioni sensoriali. Le convinzioni e le aspettative possono insomma influenzare i giudizi e promuovere comportamenti non sempre coerenti e consequenziali. Nell’effetto placebo la suggestione può essere usata per potenziare l’effetto di un farmaco o addirittura per crearne l’illusione, a dimostrazione di come le aspettative possano avere una influenza reale, dove il concetto di realtà diviene problematico e relativo a un punto di vista che si ritenga privilegiato. Nel caso Bossetti riprendendo l’articolo di Massimo Prati - “E se Massimo Bossetti fosse conosciuto dachi indagava sin dal duemilaundici? E se il Dna, come ammette il Ris inperizia, non fosse davvero inequivocabile?” - parrebbe evidente che l’imprinting di chi ha creduto che fosse il furgone di Bossetti a girovagare per un’ora attorno alla palestra scambiando sempre il mezzo per quello del muratore di Mapello (e se anche fosse non proverebbe di per sé ancora niente), può davvero aver convinto gli investigatori di avere trovato il bandolo della matassa. Tutto quello che è venuto in seguito, comunque lo si voglia valutare, potrebbe allora essere frutto di un gigantesco qui pro quo che ha portato ad interpretare una serie di fatti, di elementi e di circostanze in ragione di quelle aspettative che hanno promosso un’indagine sulla base di un convincimento fondato probabilmente su un errore all’origine. Alla luce di tale convincimento e di tale aspettativa, ogni elemento raccolto (perfino la supposta navigazione in siti pornografici e altri fatti altrimenti insignificanti) è stato integrato organicamente in un sistema di deduzioni apparenti. Il Dna - come è rilevato nell’articolo di Massimo Prati - che i Ris ritenevano di dubbia interpretazione quando scrissero in perizia: “Alla luce delle premesse anzidette, una logica prettamente scientifica che tenga conto dei non pochi parametri che si è tentato di sviscerare in questa sede non consente di diagnosticare in maniera inequivoca le tracce lasciate da Ignoto1 sui vestiti di Yara”, è stato poi derubricato disinvoltamente come materiale di ottima qualità nonostante che, come rilevato nell'articolo di Annika, una permanenza di tre mesi alle intemperie invernali rendesse impossibile la conservazione e una idonea lettura del reperto. L’augurio è per un ripensamento di chi ha condotto le indagini, perché riconoscere un eventuale errore di valutazione è sempre dimostrazione di coraggio e lungimiranza.
GOGNA MEDIATICA E PROCESSI IN TV. QUANDO LA DEONTOLOGIA E LA LEGALITA’ VANNO A FARSI FOTTERE.
Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione.
Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!
La stampa di Taranto e i corrispondenti locali di testate nazionali, salvo qualche rara eccezione in provincia, sono stati il megafono della procura di Taranto, sposandone in toto la strategia giudiziaria. Sono stati i primi a denigrare Avetrana; i primi a condannare senza processo i protagonisti della vicenda, iniziando proprio dalla vittima: da Sarah Scazzi. Mai una critica ai magistrati su come sono state svolte ricerche ed indagini. Critiche devolute addirittura dal supremo organo di giustizia. Poco spazio alle difese, salvo che non fossero quelle dedicate “alla ricerca della verità” (attività, questa, però, propria della magistratura). Sin dall’inizio vi sono state indiscrezioni a danno degli indagati, frutto di fughe di notizie. Nessuno come i giornalisti tarantini hanno violato la deontologia. Si impari da Maria Corbi de “La Stampa” come si redigono i servizi asettici e cos’è la coerenza. Ella non usa e getta. La vicenda di Sarah Scazzi culmina con la gogna mediatica dell’arresto di Cosima Serrano, con claque a seguito, in concomitanza con la chiusura dei salotti in tv. L’arresto preannunciato per dare tempo alle troupe televisive di ritornare ad Avetrana e stazionare in via Deledda per riprendere in diretta Cosima in manette. Evento atteso da mesi. Anche i mostri, quando sono tali, meritano il dovuto rispetto. Avetrana non è quella latrante contro Cosima. Avetrana è quella che pretende giusta pena in giusto processo, senza gogna mediatica, né tintinnar di manette.
L´intervista di “Positano News” a l´associazione Scienza per Amore perseguitata perchè impegnata in un progetto umanitario? Il“Bits of Future: Food for All”, promosso dall'associazione Scienza per Amore, hanno già aderito sette Paesi Africani, ha ricevuto il plauso e l'interesse della Presidenza della Repubblica Italiana e di importanti istituzioni e organizzazioni estere (FAO, IFAD, Banca Mondiale e Banca Africana di Sviluppo), il fine del Progetto è la concessione in comodato d'uso gratuito delle installazioni Hyst ai Paesi africani". Patrizia Vitale, dell'associazione Scienza per Amore, è entusiasta di Bits of Future.
Cos'è la tecnologia Hyst…
«La tecnologia
Hyst produce, attraverso il trattamento di biomasse di scarto e residui
agricoli, diversi prodotti
da destinare all'alimentazione umana, zootecnica e alla produzione di
biocarburanti. I risultati delle applicazioni della Hyst sono stati analizzati
dall'Università di Milano e riconosciuti dai Ministeri preposti (Ministero della
Salute, Ministero delle Politiche Agricole) e da altre Università italiane tra
cui La Sapienza di Roma».
Sembra tutto molto interessante, purtroppo...
«Questo progetto sta subendo da oltre 4 anni una continua persecuzione attraverso parole di fango che cercano di contrastare la realtà dei fatti che è comprovata da certezze scientifiche. L'associazione e tutti noi, quasi duecento membri. Siamo stati oggetto di una pesante gogna mediatica. Una situazione che ha causato danni materiali e morali, non solo a noi, ma a tutti coloro che hanno aderito al Progetto, a partire dai Paesi Africani che, con l'uso della Hyst, in questi 4 anni avrebbero potuto far fronte ai gravi problemi di carenza alimentare ed energetica che li affliggono».
Cosa è successo?
«Accuse partite nel mese di luglio del 2009, inizialmente a carico del primo promotore del progetto (ed allora presidente della ex-associazione R.E. Maya), poi anche verso alcuni soci che si sono adoperati per il progetto, a Danilo Speranza sono stati attribuiti reati di riduzione in schiavitù dei soci della ex- R.E. Maya, che è stata definita una “setta” con a capo un “guru”, Danilo Speranza, secondo i denuncianti, aveva inventato l'esistenza di uno scienziato, di una tecnologia e di un progetto umanitario con il fine di arricchirsi tramite i contributi volontari estorti agli associati».
E che altro?
«A suo carico sono giunte simultaneamente anche accuse di violenza sessuale da parte di due ragazze minorenni, figlie di due associate, tutte le prove scientifiche lo scagionano completamente da queste accuse. Le varie denunce sono state depositate stranamente il giorno prima della firma che sanciva l’acquisizione della tecnologia da parte dell'Associazione. Sarebbe dovuto essere un momento storico per tutta l'Associazione, ma così non è stato. Dopo più di tre anni di indagini, le accuse non sono state supportate da alcun riscontro scientifico né da alcuna prova concreta, ma hanno solo rallentato l'avvio del progetto umanitario, forse nella speranza di una rinuncia da parte dell'Associazione a far valere i propri diritti. Sono stati aperti quindi due procedimenti: uno a Tivoli per abusi e uno a Roma per truffa. Gli stessi inquirenti hanno collegato tali procedimenti consegnando ai due tribunali la stessa documentazione. Le accuse, che si basano su “tesi mutanti”, inizialmente mettevano in dubbio l'esistenza stessa della tecnologia. Quando invece è stata dimostrata l'esistenza degli impianti e quindi della Hyst, le accuse, depositate a più riprese, sono modificate dichiarando che “la tecnologia produce veleni”. Ovviamente menzogne. Inoltre, la consulenza tecnica della ASL disposta dal P.M. non ha trovato traccia di alcun veleno; e la stessa ha anche confermato i risultati positivi relativi ai prodotti Hyst così come già rilevato dall'Università di Milano. La consulenza disposta dal P.M. è stata gravemente manipolata. Le indagini relative al caso da qualche mese sono state affidate a un altro procuratore poiché il precedente PM è stato arrestato. Ora la chiusura delle indagini - "Notificata la chiusura delle indagini", con art. 415 bis cpp, nella quale compaiono 17 indagati: persone che, come me, hanno dedicato parte della loro vita ad un Progetto Umanitario. La chiusura delle indagini del procedimento a Roma ha dato il via ad una nuova gogna mediatica, da parte di alcuni giornalisti, disonesti intellettualmente, incapaci di condurre un'inchiesta seria. Noi siamo tutti in attesa che qualcuno ci ascolti e che la magistratura esamini le certificazioni e le prove scientifiche. La nostra speranza è quella di vedere il prima possibile un impianto Hyst in funzione in uno di quei Paesi africani in cui sarebbe così utile. I Paesi in Via di Sviluppo hanno compreso la vitale importanza della Hyst e ce la stanno chiedendo a gran voce».
Siete molto preoccupati?
«Saremmo dei marziani se non fosse così».
Le baby squillo dei Parioli e l'ultima gogna giudiziaria. Per una settimana un dirigente della banca d'Italia è stato indicato come uno dei clienti pedofili. Tutto falso, era un errore. Ma non è ora di finirla? Si chiede Maurizio Tortorella su “Panorama”. La gogna mediatico-giudiziaria, crudele istituzione italiana, torna a fare danni irreparabili. Per oltre una settimana il vicecapo del Dipartimento d'informatica della Banca d'Italia, Andrea Cividini, 58 anni, è stato descritto dalle cronache nazionali come uno dei clienti delle due ragazzine «parioline» di 14 e 15 anni, che si prostituivano a Roma. I giornali, evidentemente attingendo a informazioni in mano agli inquirenti romani, hanno scritto e ri-scritto che il telefono di Cividini era tra i 40/50 che si collegavano con maggiore assiduità a quello delle due squillo minorenni. Le cronache sono state severe, indignate; e i commenti anche peggio: Gad Lerner è stato tra i più duri. Ecco che cosa ha scritto venerdì 14 marzo: «Escono con il contagocce, sempre per via delle speciali reticenze loro concesse dal nostro turbamento, i nomi dei clienti delle baby-prostitute dei Parioli. Definirli pedofili? Macché, il marchio non si applica se la “merce-corpo” desiderata e comprata ha apparenze maggiorenni: credevo avesse 19 anni come scriveva nella sua vetrina sul web… Dopo Mauro Floriani, il fascista-maiale marito della fascista col nome famoso, che ha infine ammesso ciò che prima tentò di negare, da oggi conosciamo anche il nome di un dirigente della Banca d’Italia: è Andrea Cividini, 58 anni...». Vicenda davvero paradossale: perché nel suo scritto Lerner critica quasi come una indebita, vergognosa autocensura la «reticenza» dei giornali sui nomi dei futuri, potenziali indagati. È invece bastato aspettare sei giorni e si è scoperto che Cividini non c'entrava nulla. Perché il cellulare «incriminato» non era suo, ma apparteneva alla Banca d'Italia, e l'ente non lo aveva dato in uso a lui, bensì a un collega (il cui nome per fortuna viene ora un po' più accortamente coperto dal segreto, forse per paura di nuovi, possibili, disastrosi errori di persona...). Il punto è che, mentre in prima battuta il nome di Cividini veniva scritto nei sommari degli articoli ed esposto nemmeno fosse una preda, nel momento in cui s'è capito che era stato accusato ingiustamente tutto è stato nascosto nel corpo degli articoli. Uno si domanda come debba sentirsi il malcapitato, o che cosa debba avere patito lui, la sua famiglia. Viene da domandarsi anche se Cividini abbia figli, e che cosa sia accaduto loro a scuola... Ma sono problemi che evidentemente non sfiorano quanti sono convinti che garanzie e tutele degli indagati, ma un po' anche la prudenza, siano soltanto una «speciale reticenza». Purtroppo sono in tanti.
La gogna di Maurizio Tortorella. Casa editrice: Boroli. Data pubblicazione: luglio 2011. Come i processi mediatici e di piazza hanno ucciso il garantismo in Italia. Quando i processi si trasferiscono dalle aule di giustizia ai mezzi d'informazione, con pressanti campagne di stampa, vi è il rischio che risulti compromesso il principio costituzionale della presunzione d'innocenza, e che i “processi mediatici” si trasformino in un anticipo di condanna, senza possibilità di appello. Calogero Mannino, il ministro "mafioso", e il suo calvario durato quasi due decenni. Guido Bertolaso, condannato sui giornali ancora prima che il processo abbia avuto inizio. Silvio Scaglia, l'imprenditore sbattuto in cella e distrutto per una maxifrode fiscale da 2 miliardi di euro che, di fatto, non esiste. Giuseppe Roteili, il "re delle cliniche private" accusato per quattro anni di un'odiosa truffa sanitaria, ma poi assolto quasi in silenzio. Ottaviano Del Turco, il governatore abruzzese azzoppato per una tangente di cui ancora non c'è traccia. Antonio Saladino e le folli follie dell'inchiesta Why Not. Alfredo Romeo, gli assessori e la mezza bolla di sapone del caso "Magnanapoli". Sette recenti casi giudiziari, sette storie di grande attualità raccontate attraverso le carte processuali e le relative cronache giornalistiche trasformate in condanne preventive. Calogero Mannino, il ministro «mafioso», e il suo calvario durato 18 anni. Guido Bertolaso, condannato sui giornali ancora prima che il processo avesse inizio. Silvio Scaglia, l’imprenditore sbattuto in cella e distrutto per una maxi-frode fiscale da 2 miliardi di euro che, di fatto, non esiste. Giuseppe Rotelli, il «re delle cliniche private» accusato per quattro anni di un’odiosa truffa sanitaria, ma poi assolto in totale silenzio. Ottaviano Del Turco, il governatore abruzzese azzoppato per una tangente di cui ancora non c’è traccia. Antonio Saladino e le folli follie dell’inchiesta Why Not dell’ex pm Luigi De Magistris. Alfredo Romeo, gli assessori e la mezza bolla di sapone del caso Magnanapoli. Racconta le loro vicende «La Gogna» (Boroli editore, 160 pagine, 14 euro), il libro scritto dal vicedirettore del settimanale «Panorama», Maurizio Tortorella. Sette recenti casi giudiziari, sette storie esemplari che raccontano i perché della morte del garantismo in Italia. In realtà, è dai tempi di Mani pulite, quando parte dei tribunali e delle redazioni cominciarono a piegarsi alla strumentalizzazione politica, che la gogna non ha mai smesso di funzionare: da allora, reclama sempre nuove vittime. E anche con la pubblicazione di migliaia d’intercettazioni la cronaca giudiziaria, che dovrebbe esercitare anche un qualche controllo sull’attività inquisitoria, si è trasformata in strumento, se non in megafono, delle procure. Ogni inchiesta, quando se ne appropriano i mass media, si trasforma in un massacro senza salvezza, anche per il più saldo degli indagati. Vincono sempre le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il mostro che si nasconde nell’espressione «opinione pubblica», portato al guinzaglio da chi ne sa condizionare le pulsioni, reagisce sempre allo stesso modo di fronte all’apertura di un’indagine: ogni volta prevale una presunzione di colpevolezza che è l’esatto contrario del precetto costituzionale. Per questo «La Gogna» è un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura e pezzi dell’informazione. Tortorella, come inviato speciale di «Panorama», dai primi anni Novanta, ha seguito tutte le grandi inchieste di Mani pulite e i processi che ne sono derivati. È coautore di «L’ultimo dei Gucci» (1995, MarcoTropea Editore e 2002, Mondadori) e di «Rapita dalla giustizia» (2009, Rizzoli).
Scrive Giulia De Matteo per "Il Foglio”. La perp walk italiana comincia con un avviso di garanzia e interminabili chilometri di carta in cui ci si sbizzarrisce a interpretare ogni parola strappata alle intercettazioni, in cui si costruiscono teoremi fatti di parole d'ordine ("cricca", "la rete di relazioni", "appaltopoli", "l'affare") da cui si ricavano accuse vaghe ma efficaci a relegare l'indagato nell'angolo dei cattivi. Il cammino è destinato a concludersi nella dimenticanza generale, a luci spente, tra l'indifferenza dei quotidiani e delle televisioni, animatori inferociti alla partenza. Maurizio Tortorella ha raccolto le storie più eclatanti di questa dinamica nel libro "La Gogna" (Boroli Editori), in cui smonta fase per fase la catena di montaggio della diffamazione che prelude i processi ai personaggi pubblici, attraverso un'analisi a freddo delle storie su cui ormai si sono spenti i bollori mediatici e si è fatta strada la verità processuale. C'è per esempio la vicenda di Guido Bertolaso, ex capo della Protezione civile, raggiunto dall'accusa di corruzione negli appalti sui lavori straordinari per il G8 sull'isola della Maddalena (poi spostato a L'Aquila) il 10 febbraio 2010. Tortorella racconta i giorni seguenti l'apertura delle indagini attraverso i titoli dei giornali e le ricostruzioni della vicenda. Così tra le intercettazioni pubblicate sui giornali quella in cui Bertolaso racconta il piacere suscitato da un certo massaggio fattogli da una tal Francesca diventa l'indizio che alimenta il sospetto del coinvolgimento di Bertolaso in un giro di escort usate a mo' di tangente nel giro di favori fra i potenti dei grandi appalti. Quando si scopre che Francesca è una fisioterapista professionista di quarantadue anni è troppo tardi. Soprattutto non interessa più: gli untori degli scandali hanno già impresso il loro sigillo (quello che conta per l'opinione pubblica). Il 5 aprile 2010 si è aperto il procedimento che tratta degli abusi edilizi e da allora non una riga è stata più scritta. Difficile dire quando questo selvaggio rito giudiziario sia iniziato in Italia, sicuramente la sua massima celebrazione è stata Tangentopoli: l'età della presunzione di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Dalla caduta della Prima Repubblica, è sorta la Seconda e i nuovi decisori, scampati al tritacarne giustizialista, hanno riscritto l'articolo 111 della Costituzione, ispirandosi ai principi di tutela dell'indagato e dell'imputato delle carte europee, adeguato il codice penale ai principi del giusto processo e adottato il modello accusatorio. Ma poco di questa mano di vernice garantista è riuscita a incidere sulla mentalità comune. Soprattutto non ha impregnato il sistema mediatico che ha continuato a riversare, con il sostegno dei gestori dei processi, il solito appannaggio culturale collaudato durante Mani pulite. L'apertura di un'indagine, a cui segue in automatico la carcerazione preventiva, giustificata da un uso pervertito dell'articolo 56 del codice di procedure penale, è il vero fulcro della vicenda processuale. I dati citati da Tortorella parlano di 37.591 condannati definitivi su un totale di 67.000 detenuti in carcere: 43 detenuti su 100 sono in cella senza che sia stata ancora pronunciata una sentenza di condanna definitiva. E' questa fase che dà il via a fiumi di inchiostro, ad approfondimenti televisivi in cui si alimenta lo scandalo con gli indizi raccolti nella indagini. La ricerca della verità è secondaria rispetto alla foga di emettere un verdetto di popolo. Tutto questo dura fino al rinvio a giudizio. Poi i riflettori si spengono e la farraginosa, lenta e poco accessibile ai non addetti ai lavori macchina processuale comincia. "La Gogna" come un occhio di bue ha seguito alcuni figuranti del circuito mediatico-giudiziario prima e dopo il rinvio a giudizio, ricostruendo le vicende giudiziarie di Alfredo Romeo, Ottaviano Del Turco, Calogero Mannino, Silvio Scaglia, Antonio Saladino (al centro dell'operazione "Why Not"). Leggete le loro storie e capirete meglio in che senso Tortorella usa la parola gogna.
Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).
Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?
«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».
Perché si è modificata la procedura penale?
«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».
La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?
«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».
Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?
«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».
La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?
«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.
Come nell’affaire Formigoni?
«Sì. Fa parte dello stesso gioco».
Tutto questo nonostante il potere mediatico si sia dato una parvenza di legalità. Naturalmente intervento inattuato!!
Codice Tv e Giustizia. Agcom: stop ai processi show in tv. I diritti inviolabili della persona pietra angolare del lavoro giornalistico. Così scrive Franco Abruzzo. Ordine dei giornalisti, Fnsi, Rai, Mediaset ed emittenti radio tv hanno firmato il CODICE DI AUTOREGOLAMENTAZIONE in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive. Il Codice trova fondamento nei diritti - garantiti dalla Costituzione - di libertà di espressione del pensiero da un lato e di rispetto dei diritti della persona dall’altro, riconoscendo la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. L'informazione sulle vicende giudiziarie in corso dovrà rispettare i diritti inviolabili della persona, rendere chiare le differenze fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra accusa e difesa, e adottare modalità che consentano un'adeguata comprensione. Sarà l'Authority a irrogare le sanzioni nei confronti delle emittenti radiotelevisive, che a loro volta potranno rivalersi sui presunti responsabili (registi, programmisti registi, autori testi, presentatori, conduttori, showman, ecc.) che fino ad oggi la passavano franca. In caso di trasgressione da parte dei giornalisti le eventuali sanzioni resteranno, invece, affidate esclusivamente al giudizio dell'Ordine regionale territorialmente competente.
Roma, 21 maggio 2009. Stop a i processi scimmiottati in tv o trasferiti impropriamente dalle aule di giustizia al piccolo schermo: l'informazione sulle vicende giudiziarie in corso dovrà rispettare i diritti inviolabili della persona, rendere chiare le differenze fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra accusa e difesa, e adottare modalità che consentano un'adeguata comprensione. E' stato siglato ieri pomeriggio a Roma, nella sede dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, il Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive. A sottoscrivere l'intesa sono state le principali emittenti nazionali (Rai, Mediaset, T.I. Media), la Federazione Radio Televisioni, l'Aeranti-Corallo, l'Ordine nazionale dei giornalisti, la Federazione nazionale della Stampa e l'Agcom. Il Codice, che esegue un atto di indirizzo dell’Agcom del gennaio 2008 e che è frutto di 18 mesi di paziente lavoro intorno ad un tavolo comune cui hanno partecipato tra gli altri i Presidenti emeriti della Corte Costituzionale Riccardo Chieppa e Cesare Ruperto, autorevoli giuristi e rappresentanti del Csm, entrerà in vigore entro il 30 giugno 2009 dopo la costituzione di Comitato di controllo cui spetterà il compito di accertare eventuali violazioni e proporre le misure del caso. Sarà poi l'Authority a irrogare le sanzioni nei confronti delle emittenti radiotelevisive, che a loro volta potranno rivalersi sui presunti responsabili (registi, programmisti registi, autori testi, presentatori, conduttori, showman, ecc.) che fino ad oggi la passavano franca. In caso di trasgressione da parte dei giornalisti le eventuali sanzioni resteranno, invece, affidate esclusivamente al giudizio dell'Ordine regionale territorialmente competente. E’ stato così finalmente attuato quanto più volte sollecitato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano “contro il rischio di un sovrapporsi della televisione alla funzione della giustizia attraverso la tecnica della spettacolarizzazione dei processi e la suggestione di teoremi giudiziari alternativi". Oltre al Presidente Agcom, Corrado Calabrò, erano presenti il Presidente della Rai Paolo Garimberti, il Presidente Mediaset Fedele Confalonieri, il Vice Presidente RTI Gina Nieri, l’Amministratore delegato di Telecom Italia Media Mauro Nanni, il Presidente FRT-Federazione Radio Televisioni Filippo Rebecchini, il Presidente Aeranti-Corallo Marco Rossignoli, il Presidente della Federazione Nazionale della Stampa, Roberto Natale e il consigliere Pierluigi Roesler Franz per l’Ordine nazionale dei giornalisti. «E' una svolta nella comunicazione – ha detto il Presidente dell'Agcom, Corrado Calabrò, presente alla firma in veste di "notaio" - Non si vuole assolutamente limitare la libertà d'informazione, ma bisogna rispettare i diritti fondamentali della persona, evitando rappresentazioni dei processi che possono distorcere, come è accaduto più di una volta, la reale comprensione dei fatti. Vedere che tutte le emittenti hanno aderito, anche a costo di rinunciare a qualche punto di share, è positivo per tutta la società civile». Garimberti ha parlato di «opera meritoria», Confalonieri e Nanni hanno evidenziato il «valore dell'autoregolamentazione». Natale ha detto: «Oggi firmiamo e insieme traiamo nuovo impulso nella determinazione ad opporci a norme che tendono a limitare il diritto di cronaca, come il ddl intercettazioni». Il Codice trova fondamento nei diritti - garantiti dalla Costituzione - di libertà di espressione del pensiero da un lato e di rispetto dei diritti della persona dall’altro, riconoscendo la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. Con tale atto le parti s’impegnano ad osservare le seguenti regole nelle trasmissioni televisive che abbiano ad oggetto la rappresentazione di vicende giudiziarie in corso:
a) curare che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi;
b) diffondere un’informazione che, attenendosi alla presunzione di non colpevolezza dell’indagato e dell’imputato, soddisfi comunque l’interesse pubblico alla conoscenza immediata di fatti di grande rilievo sociale quali la perpetrazione di gravi reati;
c) adottare modalità espressive e tecniche comunicative che consentano al telespettatore un’adeguata comprensione della vicenda, attraverso la rappresentazione e la illustrazione delle diverse posizioni delle parti in contesa, tenendo ponderatamente conto dell’effetto divulgativo ed esplicativo del mezzo televisivo che, pur ampliando la dialettica fra i soggetti processuali, può indurre il rischio di alterare la percezione dei fatti;
d) rispettare complessivamente il principio del contraddittorio delle tesi, assicurando la presenza e la pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti che le sostengono – comunque diversi dalle parti che si confrontano nel processo - e rispettando il principio di buona fede e continenza nella corretta ricostruzione degli avvenimenti;
e) controllare, nell’esercizio del diritto di cronaca, la verità dei fatti narrati mediante accurata verifica delle fonti, avvertendo o comunque rendendo chiaro che le persone indagate o accusate si presumono non colpevoli fino alla sentenza irrevocabile di condanna e che pertanto la veridicità delle notizie concernenti ipotesi investigative o accusatorie attiene al fatto che le ipotesi sono state formulate come tali dagli organi competenti nel corso delle indagini e del processo e non anche alla sussistenza della responsabilità degli indagati o degli imputati;
f) non rivelare dati sensibili, o che ledano la riservatezza, la dignità e il decoro altrui, ed in special modo della vittima o di altri soggetti non indagati, la cui diffusione sia inidonea a soddisfare alcuno specifico interesse pubblico.
ALLEGATO A
CODICE DI AUTOREGOLAMENTAZIONE IN MATERIA DI RAPPRESENTAZIONE DI VICENDE GIUDIZIARIE NELLE TRASMISSIONI RADIOTELEVISIVE
Le emittenti radiotelevisive pubblica e private, nazionali e locali e i fornitori di contenuti radiotelevisivi firmatari o aderenti alle associazioni firmatarie, l’Ordine nazionale dei giornalisti, la Federazione nazionale della stampa italiana, d’ora in avanti indicate come parti
VISTI gli articoli 2, 3, 10, 11, 15, 21, 24, 25, 27, 101, 102 e 111 della Costituzione italiana e gli articoli 1, 7, 11, 47, 48 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea;
VISTO l’articolo 3 del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, recante “Testo unico della radiotelevisione”, secondo il quale sono principi fondamentali del sistema radiotelevisivo la garanzia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione radiotelevisiva, la tutela della libertà di espressione di ogni individuo, inclusa la libertà di opinione e quella di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza limiti di frontiere, l’obiettività, la completezza, la lealtà e l’imparzialità dell’informazione, l’apertura alle diverse opinioni e tendenze politiche, sociali, culturali e religiose e la salvaguardia delle diversità etniche e culturali, nel rispetto delle libertà e dei diritti fondamentali della persona, in particolare della dignità della persona e dell’armonico sviluppo fisico, psichico e morale del minore, garantiti dalla Costituzione, dal diritto comunitario, dalle norme internazionali e dalle leggi statali e regionali;
CONSIDERATO che ai sensi dell’articolo 2 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, istitutiva dell’Ordine dei giornalisti “E’ diritto insopprimibile dei giornalisti la libertà di informazione e di critica, limitata dall’osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui ed è loro obbligo inderogabile il rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”;
CONSIDERATO che ai sensi dell’art. 471, comma 1, del codice di procedura penale “l’udienza è pubblica a pena di nullità”, e che l’art. 147 del decreto legislativo 28 luglio 1989 n. 271, nel consentire la ripresa e la diffusione dei dibattimenti processuali, ne esplicita ed accentua la naturale destinazione alla pubblica conoscenza;
VISTA la Raccomandazione approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 10 luglio 2003 (R(2003)13) relativa all’informazione fornita dai media rispetto a procedimenti penali, la quale, nel ricordare i principi fondamentali in materia quali il diritto alla libera manifestazione del pensiero, il diritto di rettifica o di replica, il diritto al giusto processo, la tutela della dignità della persona e della vita privata e familiare, elenca i principi ispiratori dell’attività giornalistica in rapporto ai procedimenti penali e invita gli Stati membri a promuovere, anche attraverso gli organi di autodisciplina, il rispetto da parte dei media dei citati principi; nonché il Protocollo n. 11 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta fondamentali;
VISTA la Carta dei Doveri dei Giornalisti sottoscritta da CNOG e FNSI l’8 luglio 1993, la Carta di Treviso del 5 ottobre 1990, il Vademecum Carta di Treviso del 25 novembre 1995, la Carta dell’informazione e della programmazione a garanzia degli operatori del Servizio Pubblico Televisivo, il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, il Codice di autoregolamentazione Tv e Minori approvato il 29 gennaio 2002 e il Codice Etico approvato dal Consiglio di Amministrazione della Rai;
VISTO l’“Atto di indirizzo sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive” approvato dall’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni con delibera n. 13/08/CSP, il quale, nel declinare i principi e i criteri relativi alle trasmissioni che hanno ad oggetto la rappresentazione di vicende e fatti costituenti materia di procedimenti giudiziari in corso, invita i soggetti interessati a redigere un codice di autoregolamentazione al fine di individuare regole di autodisciplina idonee a dare concreta attuazione ai predetti principi e criteri;
CONSIDERATO che il principio costituzionale secondo cui la giustizia è amministrata in nome del popolo titolare della sovranità, che può anche direttamente parteciparvi, esige che la collettività in cui il popolo consiste sia informata nel modo più ampio possibile dei fatti attinenti a vicende giudiziarie nonché dell’andamento delle medesime e dei modi in cui in relazione ad esse la giustizia sia in concreto amministrata in suo nome;
CONSIDERATO altresì che l’esigenza informativa è assolta primariamente dai mezzi di comunicazione di massa che, a norma dell’art. 21 della Costituzione come interpretato dalla giurisprudenza costituzionale e ordinaria, concorrono a fornire alla pubblica opinione un’informazione completa, obiettiva, imparziale e pluralistica;
RILEVATO che l’attività professionale dei giornalisti e in genere degli operatori dell’informazione, in quanto comporta la necessità di raccogliere e valutare fatti ed indizi, vagliarne l’attendibilità, organizzarli secondo logica e assumerli o rifiutarli come elementi di convincimento per l’espressione del proprio pensiero in forma assimilabile al giudizio, il quale ultimo però si svolge secondo puntuali regole procedurali e trova parametri valutativi prefissati in precise norme, che tuttavia sono suscettibili di interpretazione al pari dei fatti ai quali esse vanno applicate, lasciando dunque inevitabili margini di opinabilità che comportano una relazione solo presuntiva di corrispondenza tra il giudicato e la verità dei fatti stessi.
RILEVATO, ancora, che l’attività informativa in forma di cronaca e critica giudiziaria su fatti oggetto di accertamento giurisdizionale si svolge inevitabilmente in stretto parallelismo con questo, solo così potendo assicurare il raggiungimento dello scopo suo proprio, che è quello di rendere edotta la comunità mediante la formazione della pubblica opinione sugli eventi e sulle persone nei cui confronti, in suo nome, la giustizia è amministrata;
CONSIDERATO che tale andamento parallelo determina le condizioni di un circuito virtuoso potendo, in particolare, dare impulso ad iniziative processuali della difesa e degli stessi organi giudicanti nella prospettiva dell’espansione degli spazi di garanzia degli indagati e degli imputati, della completezza delle indagini e della maturazione del libero convincimento dei giudici;
CONSIDERATO che l’essenziale funzione di informazione accompagna ma non sostituisce la funzione giurisdizionale, rispettando l’esigenza di evitare la celebrazione in sede impropria, in forma libera e a fini anticipatori i processi in corso;
CONSIDERATA la necessità costituzionale di preservare la libertà di manifestazione del pensiero degli operatori dell’informazione e dei mezzi di comunicazione di massa da ogni forma di pressione o censura, anche a garanzia del diritto dei consociati a ricevere informazioni complete, veritiere e pluralistiche;
CONSIDERATO altresì l’inderogabile dovere di rispettare, nell’esercizio di tale libertà, i diritti inviolabili alla dignità, alla onorabilità e alla riservatezza, specificamente tutelati dalla presunzione di non colpevolezza sancita dall’art. 27 Cost., delle persone, specie se soggetti deboli in ragione dell’età minore o per altre cause, a qualunque titolo aventi parte in vicende giudiziarie o che, pur a queste estranee, possano in qualsiasi modo con esse trovarsi in occasionale rapporto di connessione; dovere da valutare, quanto alla esigibilità del suo corretto adempimento, in connessione con l’interesse pubblico alla conoscenza immediata di fatti di grande rilievo sociale quali la perpetrazione di gravi reati;
PRESO ATTO che la peculiarità del mezzo radiotelevisivo, destinato alla narrazione per immagini in movimento, implica la modalità espressiva della rappresentazione scenica – comune peraltro agli aspetti “liturgici” della celebrazione processuale - la quale, se non contenuta in ragionevoli limiti di proporzionalità, può trascendere in forme espressive suscettibili di alterare la reale figura dell’indagato o imputato e di altri soggetti processuali o estranei al processo;
CONDIVIDENDO l’esigenza segnalata nella delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni n. 13/08/CSP di disciplinare le modalità di rappresentazione televisiva delle vicende giudiziarie in corso, attraverso una scelta di autoregolamentazione da parte dei soggetti titolari del diritto costituzionale di liberamente manifestare il pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, anche a garanzia della formazione di una libera e consapevole opinione pubblica quale fondamento del sistema democratico;
IN CONTINUITÀ con un’autonoma tradizione di autodisciplina, ispirata al comune intendimento di assicurare il massimo grado possibile di effettività ai valori costituzionali sopra richiamati che, a partire dalla Carta di Treviso e dalla Carta dei doveri del giornalista, ha consolidato nel tempo l’acquisizione e l’attuazione dei criteri di un ponderato bilanciamento tra diritto-dovere dell’informazione, i diritti alla dignità, all’onore, alla reputazione e alla riservatezza della persona umana e i principi del giusto processo;
dopo ampio confronto in sede di “tavolo tecnico” istituito con la citata delibera AGCOM e ricevuta dalla Autorità per le garanzie nelle comunicazioni l’attestazione che il testo elaborato risponde compiutamente ed in modo satisfattivo alle indicazioni da essa ivi formulate, che ne rimangono pertanto attuate
ADOTTANO
il presente Codice di autoregolamentazione di seguito denominato “Codice in materia di rappresentazione delle vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive”.
Articolo 1
1. Le parti, ferma la salvaguardia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione in sé e a garanzia del diritto dei cittadini ad essere tempestivamente e compiutamente informati, e ferma altresì la tutela della libertà individuale di manifestazione del pensiero, che implica quella di ricercare, acquisire, ricevere, comunicare e diffondere informazioni e si esprime segnatamente nelle forme della cronaca, dell’opinione e della critica anche in riferimento all’organizzazione, al funzionamento e agli atti dei pubblici poteri incluso l’Ordine giurisdizionale, si impegnano ad adottare nelle trasmissioni televisive che abbiano ad oggetto la rappresentazione di vicende giudiziarie in corso le misure atte ad assicurare l’osservanza dei principi di obiettività, completezza, e imparzialità, rapportati ai fatti e agli atti risultanti dallo stato in cui si trova il procedimento nel momento in cui ha luogo la trasmissione, e a rispettare i diritti alla dignità, all’onore, alla reputazione e alla riservatezza costituzionalmente garantiti alle persone direttamente, indirettamente od occasionalmente coinvolte nelle indagini e nel processo.
2. Ai fini di cui al comma 1, nelle trasmissioni radiotelevisive che abbiano ad oggetto la rappresentazione di vicende giudiziarie, le parti si impegnano a:
a) curare che risultino chiare le differenze fra documentazione e rappresentazione, fra cronaca e commento, fra indagato, imputato e condannato, fra pubblico ministero e giudice, fra accusa e difesa, fra carattere non definitivo e definitivo dei provvedimenti e delle decisioni nell’evoluzione delle fasi e dei gradi dei procedimenti e dei giudizi;
b) diffondere un’informazione che, attenendosi alla presunzione di non colpevolezza dell’indagato e dell’imputato, soddisfi comunque l’interesse pubblico alla conoscenza immediata di fatti di grande rilievo sociale quali la perpetrazione di gravi reati;
c) adottare modalità espressive e tecniche comunicative che consentano al telespettatore una adeguata comprensione della vicenda, attraverso la rappresentazione e la illustrazione delle diverse posizioni delle parti in contesa, tenendo ponderatamente conto dell’effetto divulgativo ed esplicativo del mezzo televisivo che, pur ampliando la dialettica fra i soggetti processuali, può indurre il rischio di alterare la percezione dei fatti;
d) rispettare complessivamente il principio del contraddittorio delle tesi, assicurando la presenza e la pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti che le sostengono – comunque diversi dalle parti che si confrontano nel processo - e rispettando il principio di buona fede e continenza nella corretta ricostruzione degli avvenimenti;
e) controllare, nell’esercizio del diritto di cronaca, la verità dei fatti narrati mediante accurata verifica delle fonti, avvertendo o comunque rendendo chiaro che le persone indagate o accusate si presumono non colpevoli fino alla sentenza irrevocabile di condanna e che pertanto la veridicità delle notizie concernenti ipotesi investigative o accusatorie attiene al fatto che le ipotesi sono state formulate come tali dagli organi competenti nel corso delle indagini e del processo e non anche alla sussistenza della responsabilità degli indagati o degli imputati;
f) non rivelare dati sensibili o che ledano la riservatezza, la dignità e il decoro altrui, ed in special modo della vittima o di altri soggetti non indagati, la cui diffusione sia inidonea a soddisfare alcuno specifico interesse pubblico.
Articolo 2
1. L’accertamento delle violazioni del presente Codice, comprensivo delle indicazioni formulate con la citata delibera dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, alle quali esso compiutamente risponde, e l’adozione delle eventuali misure correttive sono riservati alla competenza di un apposito Comitato che le parti sottoscrittrici ed aderenti si impegnano a costituire entro il 30 giugno 2009.
2. In ogni caso per i giornalisti eventualmente coinvolti la competenza resta riservata all’Ordine professionale.
Articolo 3
1. Il presente Codice è aperto all'adesione da parte di altri soggetti iscritti al ROC presso l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e a loro associazioni e consorzi.
2. L’adesione comporta la piena accettazione del presente Codice.
Articolo 4
Il presente Codice entra in vigore all’atto di costituzione del Comitato di cui all’art. 2.
Roma, 21 maggio 2009
Per Rai – Radiotelevisione Italiana Spa: Dott. Paolo Garimberti, Presidente; Prof. Mauro Masi, Direttore Generale
Per RTI – Reti Televisive Italiane Spa: Dott. Fedele Confalonieri, Presidente Mediaset; D.ssa Gina Nieri, Vice Presidente R.T.I.
Per Telecom Italia Media Spa: Dott. Mauro Nanni, Amministratore Delegato
Per l’Associazione Aeranti – Corallo: Avv. Marco Rossignoli, Presidente e Coordinatore Aeranti – Corallo
Per l’Associazione FRT – Federazione Radio e Televisioni: Dott. Filippo Rebecchini, Presidente
Per l’Ordine Nazionale dei Giornalisti: Dott. Pierluigi Roesler Franz, Consigliere Nazionale
Per la Federazione Nazionale della Stampa: Dott. Roberto Natale, Presidente
ALLEGATO B
Gazzetta Ufficiale N. 39 del 15 Febbraio 2008 AUTORITA' PER LE GARANZIE NELLE COMUNICAZIONI DELIBERAZIONE 31 gennaio 2008. Atto di indirizzo sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive. (Deliberazione n. 13/08/CSP).
L'AUTORITA'
Nella riunione della Commissione per i servizi ed i prodotti del 31 gennaio 2008;
Visti gli articoli 2, 3, 21, 24, 25, 27, 101 e 111 della Costituzione italiana;
Visti gli articoli 1, 7, 11, 47, 48 e 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea;
Vista la legge 31 luglio 1997, n. 249, pubblicata nel supplemento ordinario n. 154/L alla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 177 del 31 luglio 1997, ed in particolare l'art. 1, comma 6, lettera b), n. 6;
Visto il decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177, recante «Testo unico della radiotelevisione», pubblicato nel Supplemento Ordinario n. 150/L alla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 208 del 7 settembre 2006, ed in particolare i suoi articoli 3, 4 e 34, che delineano quali fondamentali principi dell'informazione, tra gli altri, quelli della lealtà ed imparzialità, della salvaguardia dei diritti fondamentali e della dignità della persona, della tutela dei minori;
Visto l'Atto di indirizzo sulle garanzie del pluralismo nel servizio pubblico radiotelevisivo approvato dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi nella seduta dell'11 marzo 2003, secondo il quale, in particolare:
«1. Tutte le trasmissioni di informazione - dai telegiornali ai programmi di approfondimento - devono rispettare rigorosamente, con la completezza dell'informazione, la pluralità dei punti di vista e la necessità del contraddittorio; ai direttori, ai conduttori, a tutti i giornalisti che operano nell'azienda concessionaria del servizio pubblico, si chiede di orientare la loro attività al rispetto dell'imparzialità, avendo come unico criterio quello di fornire ai cittadini utenti il massimo di informazioni, verificate e fondate, con il massimo della chiarezza... .... omissis.... 4. Considerato che la legge garantisce agli imputati e alla loro difesa di tacere quando loro può nuocere; considerati altresì i vincoli ai quali la legge obbliga i magistrati, sia requirenti che giudicanti nel rapporto con i mezzi di informazione, in tutte le fasi del giudizio; nei programmi della concessionaria del servizio pubblico aventi ad oggetto procedimenti giudiziari in corso, l'esercizio del diritto di cronaca, come l'obbligatorio confronto tra le diverse tesi dovrà essere garantito da soggetti diversi dalle parti che sono coinvolte e si confrontano nel processo. La scelta di questi soggetti - la cui delicatezza è evidente – appartiene esclusivamente alle decisioni dei responsabili dei programmi»;
Visti i codici di autoregolamentazione applicabili alla comunicazione radiotelevisiva, e, in particolare, la «Carta di Treviso sul rapporto Informazione-Minori» del 5 ottobre 1990 e il suo addendum del 25 novembre 1995, la «Carta dei doveri del giornalista «sottoscritta dal Consiglio nazionale dell'ordine dei giornalisti e dalla Federazione nazionale della Stampa italiana in data 8 luglio 1993, la «Carta dell'informazione e della programmazione a garanzia degli utenti e degli operatori del servizio pubblico - RAI» del dicembre 1995, il «Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell'esercizio dell'attivita' giornalistica» (allegato A1 del codice in materia di protezione dei dati personali approvato con decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196);
Considerato quanto segue:
1. Alcuni programmi televisivi mostrano la tendenza a trasmettere in forma spettacolare vere e proprie ricostruzioni di vicende giudiziarie in corso, impossessandosi di schemi, riti e tesi tipicamente processuali che vengono riprodotti, peraltro, con i tempi, le modalità e il linguaggio propri del mezzo televisivo, i quali si sostituiscono a quelli, ben diversi, del procedimento giurisdizionale. Si crea cosi' un foro «mediatico» alternativo alla sede naturale del processo, dove non si svolge semplicemente un dibattito equilibrato tra le opposte tesi, ma si assiste a una sorta di rappresentazione paraprocessuale, che giunge a volte perfino all'esame analitico e ricapitolativo del materiale probatorio, cosi' da pervenire, con l'immediatezza propria della comunicazione televisiva, ad una sorta di convincimento pubblico, in apparenza degno di fede, sulla fondatezza o meno di una certa ipotesi accusatoria. Tanto più accreditato risulta tale convincimento quanto più, nella percezione di massa, la comunicazione televisiva svolge una sorta di funzione di validazione della realtà. In tal modo la televisione rischia seriamente di sovrapporsi alla funzione della giustizia: e può accadere che effetti «coloriti» o «teoremi giudiziari alternativi» o rappresentazioni suggestive (a volte persino con l'utilizzazione di figuranti) prevalgano sull'obiettiva e comprovata informazione, con il concreto rischio di precostituire presso l'opinione pubblica un preciso giudizio sul caso concreto, basato su una «verità virtuale» che può influire, se non prevalere, sulla «verità processuale», destinata per sua natura ad emergere solo da una laboriosa verifica che richiede tempi più lunghi, portando addirittura, in casi deteriori, a un giustizialismo emotivo e sbrigativo, talora non alieno da tratti morbosi.
2. La tecnica della spettacolarizzazione dei processi, che le trasmissioni televisive utilizzano a fini di audience, amplifica a dismisura la risonanza di iniziative giudiziarie che, per il loro carattere spesso semplicemente prodromico e cautelare, potrebbero nel prosieguo del processo anche rivelarsi infondate e risultare quindi superate, con il rischio della degenerazione della trasmissione in una sorta di «gogna mediatica» a scapito della presunzione di non colpevolezza dell'imputato e, in ultima analisi, della tutela della dignità umana e del diritto al «giusto processo», garantiti dalla nostra Costituzione e dai principi comunitari. E la «gogna mediatica» può diventare già essa stessa una condanna preventiva, inappellabile e indelebile.
3. Il livello di civiltà di uno Stato si misura innanzitutto dal rispetto per la giustizia. E da un sistema giudiziario indipendente ed efficiente. Tuttavia, non si può supplire ai tempi troppo lunghi della giustizia trasferendo il giudizio dalle aule giudiziarie alla televisione, in violazione del canone della centralità del processo, quello vero, quale unica sede deputata dall'ordinamento alla ricerca e all'accertamento della «verità». La cronaca può indubbiamente riferire del processo, ma non può spingersi a crearne un surrogato che, nella pretesa di ricostruire la vicenda delittuosa, ne amplifichi a dismisura e - in un certo senso - ne rinnovi e incrudisca gli effetti lesivi. Il processo deve essere svolto dal giudice competente, l'accusa va sostenuta dal pubblico ministero, la difesa va fatta da avvocati che conoscano il diritto e gli incartamenti processuali: il tutto secondo regole che garantiscano il regolare e appropriato svolgimento del processo e i diritti fondamentali della persona. Non e' pertanto ammissibile - e contrasta con gli indirizzi dettati dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi sul pluralismo informativo - che il ruolo di giudici, accusatori e difensori sia svolto da giornalisti o conduttori televisivi o, comunque, da soggetti estranei, senza quelle garanzie che nella cultura giuridica del Paese rappresentano un caposaldo dello Stato di diritto.
4. L'attenzione distorta, insistente e talora parossistica dedicata a taluni pur gravi fatti delittuosi comporta notevoli rischi di alterazione, anche perché l'estremizzazione mediatica dell'indagine nel suo farsi processo da un lato inevitabilmente amplifica le sofferenze della vittima e dei suoi congiunti (trasformando il dolore della persona in spettacolo pubblico, in contrasto con elementari istanze di tutela della persona), e dall'altro enfatizza, spettacolarizzandolo, il ruolo dell'imputato, che esce dall'anonimato per venire oggettivamente proposto come un vero e proprio protagonista della vita sociale «mediatica», con risultati abnormi e talora aberranti, vuoi sul versante della deturpazione dell'immagine vuoi sul versante di un'enfatizzata notorietà che regala a protagonisti negativi una celebrità distorsiva dei valori di una società civile.
5. Né è da escludere o da sottovalutare il pericolo che una siffatta rappresentazione «mediatica» del processo - ispirata più dall'amore per l'audience che dall'amore per la verità in programmi delle principali emittenti televisive che occupano con grande ascolto la prima e la seconda serata - possa influenzare indebitamente il regolare e sereno esercizio della funzione di giustizia. Esiste, in particolare, il pericolo dell'identificazione dell'organo giurisdizionale con la «platea dei telespettatori» che rischia di mettere a repentaglio l'indipendenza psicologica del giudicante (anch'essa valore costituzionalmente rilevante), facendo risentire la pressione di un processo di piazza dei nostri tempi sul processo nella sede giudiziaria. Con la conseguenza che, quando il processo reale approderà al suo esito giudiziario, la sentenza, se conforme all'esito della rappresentazione televisiva, appaia nient'altro che la tardiva rimasticatura di quell'esito tempestivamente raggiunto e, se difforme, venga contaminata dal sospetto di una distorsione dal giusto esito che, per frange non trascurabili del pubblico, rimane quello del processo celebrato in TV, impressosi ormai nella memoria dei telespettatori. Per altro verso, un'attenzione sproporzionata a un certo «caso» può determinare una «personalizzazione» delle indagini che competono al giudice, esponendo così il singolo magistrato a tentazioni di protagonismo mediatico (oltre che a rischi personali) e sottoponendolo ad una sovra-pressione che può mettere a repentaglio la correttezza delle dinamiche di funzionamento del processo.
6. La problematica rappresentata, nei suoi molteplici risvolti, e' di estrema delicatezza, in quanto in essa confluisce la considerazione di plurimi valori costituzionalmente garantiti: in sintesi, da un lato la libertà di espressione e di opinione, il diritto di informare e di ricevere e comunicare informazioni - comprensivo anche del diritto di cronaca - che costituiscono estrinsecazione della libertà di manifestazione del pensiero affermata dall'art. 21 della Costituzione; dall'altra la salvaguardia delle libertà individuali e della tutela della dignità umana e dei diritti inviolabili della persona (art. 2 Cost.), nonché il diritto al «giusto processo» tutelato dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (art. 6) e dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (art. 47). Il compito di contemperare i contrapposti interessi in gioco e' difficile e sfuggente, dovendosi ben ponderare, nella loro relazione reciproca, valori ciascuno di per sé meritevole di considerazione, di rispetto e di tutela.
7. La vigente disciplina delle riprese audiovisive dei dibattimenti (art. 147 decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271) già fornisce una misura - ed un caveat sulla necessità - di contemperamento degli interessi in gioco: garanzia del diritto di cronaca, ma anche salvaguardia delle personalità individuali. Omologo al diritto di cronaca e' il principio della pubblicità delle udienze, immediatamente riconducibile al disposto dell'art. 101 della Costituzione: in un sistema democratico che garantisce la sovranità popolare, e nel quale la giustizia e' amministrata in nome del popolo, devono esistere meccanismi di controllo sui modi di esercizio della giurisdizione. Dall'altra parte vi sono però i valori connessi al rispetto di alcune importanti prerogative dell'individuo, tra cui l'onore e la riservatezza. La norma dianzi citata prevede che ai fini dell'esercizio del diritto di cronaca il giudice, se le parti consentono, può autorizzare in tutto o in parte la ripresa audiovisiva del dibattimento, purchè non ne derivi un pregiudizio al regolare svolgimento dell'udienza o della decisione. L'autorizzazione può essere data pure senza il consenso delle parti «quando esiste un interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento». Anche quando autorizza la trasmissione, il presidente vieta la ripresa delle immagini di parti e testimoni, periti, consulenti ed altri soggetti presenti, se i medesimi non vi consentono. Infine, non possono essere autorizzate le trasmissioni di processi che si svolgono a «porte chiuse». Secondo autorevole dottrina, la norma testè esaminata non ha fugato i dubbi che il dibattito sulla «cronaca giudiziaria» ha sollevato. Come vi e' un interesse sociale alla conoscenza del dibattimento, infatti, vi e' anche un interesse generale a non turbare lo svolgimento del processo.
8. La vigente normativa sul sistema radiotelevisivo pone tra i principi fondamentali del settore la garanzia della libertà e del pluralismo dei mezzi di comunicazione, la tutela della libertà di espressione di ogni individuo (inclusa la libertà di opinione e quella di ricevere o di comunicare informazioni), l'obiettività, la completezza, la lealtà e l'imparzialità dell'informazione, nel rispetto delle libertà e dei diritti, in particolare della dignità della persona e dell'armonico sviluppo dei minori, garantiti dalla Costituzione, dalle regole di base dell'Unione europea, dalle norme e convenzioni internazionali e dalle leggi nazionali. Ne deriva che nell'ordinamento della comunicazione i principi rappresentati dalla libertà di espressione, di opinione e di ricevere e comunicare informazioni - comprensivi certo anche del diritto di cronaca, costituzionalmente garantito, - devono pur sempre conciliarsi con il rispetto delle libertà e dei diritti, e in particolare della dignità della persona; ne discende che a tale rispetto non e' possibile derogare neanche nel caso in cui la persona sia sottoposta a procedimento giudiziario o sia stata condannata con sentenza definitiva.
9. Ferma la necessità di evitare ogni menomazione ed ogni ingiustificato limite al diritto di informazione, si ritiene, pertanto, che la rappresentazione in televisione di temi di cronaca giudiziaria non possa reputarsi totalmente esente da regole, ma debba osservare una serie di limiti modali, riconducibili in primis all'ambito della deontologia professionale, tali da evitare il rischio che attraverso la spettacolarizzazione di vicende delittuose e giudiziarie vengano compromessi i principi di correttezza, lealtà, equità e completezza dell'informazione, nonchè i valori del rispetto della dignità umana e del diritto al «giusto processo».
Considerato che ai sensi dell'art. 7 del «Testo unico della radiotelevisione» l'attività di informazione radiotelevisiva, da qualunque emittente o fornitore di contenuti esercitata, costituisce un servizio di interesse generale e deve garantire il rispetto dei principi ivi recati, la cui osservanza e' resa effettiva dall'Autorità attraverso le regole dalla stessa stabilite.
Ritenuta la necessità che - in considerazione della delicatezza e degli aspetti marginali di opinabilità del problema - al soddisfacimento delle esigenze di correttezza della rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive si proceda attraverso un'opportuna e responsabile scelta di autoregolamentazione degli operatori interessati, in considerazione del valore costituzionalmente garantito della libertà di espressione del pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, valore che si traduce nell'esigenza che la democrazia sia basata su una libera opinione pubblica. Ravvisata, pertanto, l'utilità dell'istituzione di un apposito tavolo tecnico presso l'Autorità con l'obiettivo di promuovere la redazione, da parte degli operatori, di un corpo di regole di autodisciplina in tale materia.
Ritenuta, peraltro, necessaria al corretto dispiegarsi delle dinamiche autoregolamentari l'individuazione di criteri a presidio degli interessi tutelati dalle norme vigenti nella materia.
Ritenuta, pertanto, l'opportunità di adottare in questa sede un apposito atto di indirizzo sui criteri relativi alle corrette modalità di rappresentazione della materia delle indagini e dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive, anche in vista del successivo impegno autoregolamentare dei soggetti interessati. Udita la relazione dei Commissari Giancarlo Innocenzi Botti e Michele Lauria, relatori ai sensi dell'art. 29 del regolamento concernente l'organizzazione ed il funzionamento dell'Autorità.
Delibera:
Art. 1. Criteri sulle corrette modalità di rappresentazione dei procedimenti giudiziari nelle trasmissioni radiotelevisive.
1. Le emittenti radiotelevisive pubbliche e private, nazionali e locali, e i fornitori di contenuti radiotelevisivi su frequenze terrestri, via satellite e via cavo - ferme la garanzia della libertà d'informazione e del pluralismo dei mezzi di comunicazione nonchè la salvaguardia della libertà di espressione di ogni individuo, inclusa la libertà di opinione e quella di ricevere o comunicare informazioni - sono tenuti a garantire l'osservanza dei principi normativi di obiettività, completezza, lealtà e imparzialità dell'informazione, rispetto delle libertà e dei diritti individuali, ed in particolare della dignità della persona e della tutela dei minori, in tutte le trasmissioni che hanno ad oggetto la rappresentazione di vicende e fatti costituenti materia di procedimenti giudiziari in corso, quale che sia la fase in cui gli stessi si trovino.
2. I soggetti di cui al comma 1, al fine di garantire l'osservanza dei suddetti principi, si attengono, in particolare, ai seguenti criteri:
a) va evitata un'esposizione mediatica sproporzionata, eccessiva e/o artificiosamente suggestiva, anche per le modalità adoperate, delle vicende di giustizia, che non possono in alcun modo divenire oggetto di «processi» condotti fuori dal processo. In particolare vanno evitati «processi mediatici», che, perseguendo il fine di un incremento di audience, rendano difficile al telespettatore l'appropriata comprensione della vicenda e che potrebbero andare a detrimento dei diritti individuali tutelati dalla Costituzione e delle garanzie del «giusto processo;
b) l'informazione, fermo restando il diritto di cronaca, deve fornire notizie con modalità tali da mettere in luce la valenza centrale del processo, celebrato nella sede sua propria, quale luogo deputato alla ricerca e all'accertamento della «verità»: dovranno pertanto essere seguite modalità tali da tenere conto della presunzione di innocenza dell'imputato e dei vari gradi esperibili di giudizio, evitando in particolare che una misura cautelare o una comunicazione di «garanzia» possano rivestire presso l'opinione pubblica un significato e una concludenza che per legge non hanno;
c) la cronaca giudiziaria deve sempre rispettare i principi di obiettività, completezza, correttezza e imparzialità dell'informazione e di tutela della dignità umana, evitando tra l'altro di trasformare il dolore privato in uno spettacolo pubblico che amplifichi le sofferenze delle vittime e rifuggendo da aspetti di spettacolarizzazione suscettibili di portare a qualsivoglia forma di «divizzazione» dell'indagato, dell'imputato o di altri soggetti del processo; deve inoltre porre sempre in essere una tutela rafforzata quando sono coinvolti minori, dei quali va salvaguardato lo sviluppo fisico, psichico e morale;
d) restando salva la facoltà di sviluppare sui temi in esame dibattiti tra soggetti diversi dalle parti del processo nel rispetto del principio del contraddittorio ed assicurando pari opportunità nel confronto dialettico tra i soggetti intervenienti, vanno evitate le manipolazioni tese a rappresentare una realtà virtuale del processo tale da ingenerare suggestione o confusione nel telespettatore con nocumento dei principi di lealtà, obiettività e buona fede nella corretta ricostruzione degli avvenimenti;
e) quando la trasmissione possa inferire sui diritti della persona, l'informazione sulle vicende processuali deve svolgersi in aderenza a principi di «proporzionalità», accordando pertanto alle informative e alle analisi uno spazio equilibratamente commisurato alla presenza e all'entità dell'interesse pubblico leso e raccordando la comunicazione al grado di sviluppo dell'iter giudiziario, e quindi al livello di attendibilità delle indicazioni disponibili sulla verità dei fatti.
Art. 2. Codice di autoregolamentazione
1. I soggetti di cui all'art. 1, comma 1, singolarmente o attraverso le proprie associazioni rappresentative, sono invitati a redigere un codice di autoregolamentazione, con il concorso dell'Ordine dei Giornalisti e delle organizzazioni rappresentative delle professionalità della stampa, al fine di individuare regole di autodisciplina idonee a dare concreta attuazione ai principi e ai criteri individuati nel presente atto di indirizzo.
2. L'Autorità, con separato provvedimento, provvederà ad istituire un tavolo tecnico in funzione di promozione ed ausilio rispetto alla elaborazione del codice e alla definizione delle modalità della sua redazione e sottoscrizione.
3. L'Autorità, nell'ambito della propria competenza, uniformerà la propria attività di vigilanza in materia al rispetto delle norme e dei principi richiamati, avendo specifico riguardo alle disposizione del codice di autoregolamentazione.
La presente delibera e' pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e nel Bollettino ufficiale e sul sito web dell'Autorità ed e' trasmessa alla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi.
Napoli, 31 gennaio 2008
Il presidente Calabro'. I commissari relatori Innocenzi Botti – Lauria
Pierluigi Franz replica al presidente dei cronisti Guido Columba: “Il Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive trova fondamento nei diritti, garantiti dalla Costituzione, di libertà di espressione del pensiero, da un lato, e di rispetto dei diritti dei cittadini, dall’altro. “Il codice riconosce la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare, nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. E soprattutto di riaffermare il principio costituzionalmente garantito della presunzione di innocenza delle persone indagate, evitando la celebrazione in sede impropria, in forma libera e a fini anticipatori, dei processi in corso”.
Caro Presidente, sono rimasto assolutamente sconcertato dal Tuo farneticante comunicato odierno: "Processi Tv: da Fnsi e Ordine nuovo cappio alla cronaca. - Hanno sottoscritto il Codice di autoregolamentazione Agcom - Soltanto lo scorso febbraio avevano formalmente deciso esattamente l'opposto" (Allegato A). E mi meraviglio che un cronista bravo ed esperto come Te sia riuscito a mettere insieme così tante inesattezze e imprecisioni senza neppure leggere l'ampio ed articolato preambolo al Codice, ricco di citazioni di numerose norme in vigore che soprattutto i giornalisti devono comunque conoscere e rispettare. Ad esempio, quando affermi nel titolo che "Fnsi e Ordine hanno sottoscritto il Codice di autoregolamentazione Agcom, mentre soltanto nello scorso febbraio avevano formalmente deciso esattamente l'opposto" dimentichi un particolare tutt'altro che trascurabile. Difatti, successivamente - anche grazie al mio modesto contributo - il testo del Codice é stato del tutto modificato su un passaggio chiave per i giornalisti iscritti all'Albo. Si tratta in particolare dell'art. 2, secondo comma, che prevede testualmente che "In ogni caso per i giornalisti eventualmente coinvolti la competenza resta riservata all'Ordine professionale". Di conseguenza mentre fino a febbraio scorso concordavo pienamente con te e con i colleghi del Consiglio nazionale contrari all'approvazione di quella prima Bozza del Codice perché non potevano essere varate nuove regole a carico dei giornalisti in aggiunta a tutte quelle già esistenti (Costituzione della Repubblica, Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, Raccomandazione approvata dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 10 luglio 2003 (R(2003)13 -relativa all’informazione fornita dai media rispetto a procedimenti penali - nonché il Protocollo n. 11 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta fondamentali, codice penale, codice di procedura penale, codice civile, legge sulla stampa del 1948, legge n. 69 del 1963, Carta dei doveri, Carta di Treviso, Codice della Privacy, Testo unico della radiotelevisione, Carta dell’informazione e della programmazione a garanzia degli operatori del Servizio Pubblico Televisivo, il Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica, il Codice di autoregolamentazione Tv e Minori approvato il 29 gennaio 2002 e il Codice Etico approvato dal Consiglio di Amministrazione della Rai; ecc.), la nuova formulazione accolta dal tavolo tecnico e dal Presidente dell'Authority Corrado Calabrò ha ovviamente ribaltato la situazione perché mantiene l'esclusiva competenza degli Ordini regionali territorialmente competenti così come era già avvenuto per il Codice di autoregolamentazione dell'informazione sportiva "Codice media e sport". E nell'ultima seduta del Cnog del 6-7 maggio 2009 se ne é preso atto, come delle dichiarazioni anch'esse favorevoli del Presidente della Fnsi Roberto Natale. Appare quindi del tutto inverosimile e fuorviante il sottotitolo "biforcuta" (come, cioé, se l'Ordine nazionale dei giornalisti e la Fnsi avessero la lingua biforcuta di indiana memoria) al Tuo comunicato "Processi Tv: da Fnsi e Ordine nuovo cappio alla cronaca" quando dovresti sapere che non é affatto vero, anzi é l'esatto contrario. E te lo dice uno come me come ha trascorso più di 30 anni in Cassazione, che si é letto una montagna di Gazzette Ufficiali e circa 600 mila sentenze della Suprema Corte e della Consulta, e che conosce circa 220mila tra leggi, codici e Trattati internazionali. A mio parere il Codice di autoregolamentazione in materia di rappresentazione di vicende giudiziarie nelle trasmissioni radiotelevisive, cui hanno lavorato tra gli altri due ex Presidenti della Corte Costituzionale Riccardo Chieppa e Cesare Ruperto, fa, invece, finalmente chiarezza su una materia delicatissima che era stata più volte al centro di discussioni e polemiche. Mi limito solo a ricordarTi che:
1) il 30 gennaio scorso il Primo Presidente della Cassazione Vincenzo Carbone nella sua relazione sull'amministrazione della giustizia nella cerimonia di inaugurazione dell'anno giudiziario 2009 al "Palazzaccio" di piazza Cavour a Roma aveva sottolineato la necessità di "evitare la realizzazione di veri e propri processi mediatici, simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre é ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali. La giustizia deve essere trasparente, ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria";
2) il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo intervento dello scorso anno al Consiglio Superiore della Magistratura si era richiamato ai principi affermati dalla nostra Costituzione e insiti sia nell'ordinamento nazionale, sia in quello comunitario, osservando che l'indirizzo rivolto il 31 gennaio 2008 dal Presidente dell'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni Calabrò costituisce "un atto puntuale e fermo contro il rischio di un sovrapporsi della televisione alla funzione della giustizia attraverso la tecnica della spettacolarizzazione dei processi e la suggestione di teoremi giudiziari alternativi";
3) il Presidente dell'Agcom, Corrado Calabrò, presente ieri alla firma in veste di "notaio" ha ribadito che il Codice rappresenta «una svolta nella comunicazione. Non si vuole assolutamente limitare la libertà d'informazione, ma bisogna rispettare i diritti fondamentali della persona, evitando rappresentazioni dei processi che possono distorcere, come è accaduto più di una volta, la reale comprensione dei fatti. Vedere che tutte le emittenti hanno aderito, anche a costo di rinunciare a qualche punto di share, è positivo per tutta la società civile»;
4) Il presidente della Rai Paolo Garimberti ha parlato di «opera meritoria», il Presidente di Mediaset Fedele Confalonieri e l’Amministratore delegato di Telecom Italia Media Mauro Nanni hanno evidenziato il «valore dell'autoregolamentazione», mentre Roberto Natale ha detto: «Oggi firmiamo e insieme traiamo nuovo impulso nella determinazione ad opporci a norme che tendono a limitare il diritto di cronaca, come il ddl intercettazioni».
In conclusione ti ricordo che contrariamente a quanto affermi nel Tuo comunicato il Codice trova fondamento nei diritti, garantiti dalla Costituzione, di libertà di espressione del pensiero, da un lato, e di rispetto dei diritti dei cittadini, dall’altro, riconoscendo la necessità di piena esplicazione del diritto di cronaca degli operatori dell’informazione e, nello stesso tempo, l’inderogabile dovere di rispettare nell’esercizio di tale funzione informativa, i diritti alla dignità, all’onorabilità e alla riservatezza delle persone. E soprattutto di riaffermare il principio costituzionalmente garantito della presunzione di innocenza delle persone indagate, evitando la celebrazione, in sede impropria, in forma libera e a fini anticipatori, dei processi in corso. Ti sarei molto grato se volessi rendere nota questa mia richiesta di rettifica del Tuo comunicato, essendo gravemente lesivo della mia onorabilità. Cordialmente. Pierluigi Roesler Franz, Consigliere nazionale dell'Ordine dei Giornalisti.
Invece....nel 2015.
Caso Yara, Bossetti: “Sono innocente, basta accanirsi contro di me”, scrive “Il Garantista”. “Sono innocente, sono un padre di famiglia, perché il pm si accanisce contro di me?”. Con queste parole Massimo Giuseppe Bossetti, accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio, prende per la prima volta la parola in aula e di fronte ai giudici del Riesame di Brescia si difende. Parole rivolte puntando lo sguardo fisso verso Letizia Ruggeri, titolare dell’inchiesta della procura di Bergamo, che lo scorso 16 giugno ha chiesto l’arresto del 44enne muratore ritenuto il responsabile dell’omicidio della 13enne Yara Gambirasio, scomparsa il 26 novembre 2010 da Brembate di Sopra (Bergamo). Bossetti, spiega il suo avvocato Claudio Salvagni davanti alle telecamere di RaiNews 24, “ha ribadito la sua innocenza, ha detto in maniera molto serena che lui non ha mai conosciuto questa ragazza, che è un padre di famiglia normalissimo, che è innocente”. Poi rivolgendosi al pubblico ministero – tanto che i giudici lo hanno dovuto richiamare perché non si rivolgeva ai togati – “ha detto come mai tanto accanimento nei confronti della mia persona. Sono innocente -riferisce ancora il legale – e continuerò a gridarlo”. L’udienza, durata circa 90 minuti, ha visto al centro del confronto tra accusa a difesa le novità emerse dalle analisi del Dna riportate nella consulenza tecnica della procura firmata da Carlo Previderè rispetto alla traccia mista (Yara – Ignoto 1) trovata sugli slip e i leggings della vittima. I giudici del Riesame si sono riservati sulla richiesta di scarcerazione avanzata dall’avvocato di Bossetti. Si tratta del secondo ricorso davanti al tribunale della Libertà, dopo il no dell’ottobre scorso, il doppio rigetto alla scarcerazione deciso dal gip di Bergamo e la più recente bocciatura della Cassazione.
Il muratore avrebbe tentato di impiccarsi con una cintura. Salvato dal tempestivo intervento di un agente penitenziario. Ma la polizia penitenziaria smentisce…scrive “Oggi”. Massimo Bossetti, l’unico imputato per il delitto di Yara Gambirasio, avrebbe tentato di impiccarsi in carcere: si sarebbe legato una cintura al collo, e solo il pronto intervento di un agente penitenziario avrebbe evitato il peggio. L’episodio sarebbe avvenuto lo scorso sabato scorso, all’indomani della seconda udienza a suo carico. Ma è rimasto a livello di indiscrezione, di voce che correva intorno al carcere di via Gleno a Bergamo: non è stato riferito ufficialmente al pubblico ministero e Bossetti non è stato portato in ospedale. A confermare il tentativo di suicidio sono stati uno dei legali di Bossetti, Claudio Salvagni, e la moglie del muratore, Marita Comi. Ma la polizia penitenziaria smentisce per bocca del sindacalista Donato Capece: “È tutto falso”. Bossetti è detenuto dal 16 giugno del 2014 per l’omicidio della 13enne Yara Gambirasio. Il gesto autolesionistico sarebbe stato una conseguenza del “disastro” della seconda udienza, che ha visto respingere tutte le eccezioni preliminari della difesa di Bossetti.
Se Massimo Bossetti ha tentato il suicidio è perché i giornalisti da cani da guardia della democrazia si son trasformati in belanti pecorelle disposte a far tutto ciò che ordina il pastore di turno...scrive Massimo Prati su “Albbatros-Volando Controvento”. Massimo Bossetti, al ritorno in carcere dopo l'udienza del processo celebrata venerdì scorso, ha tentato di farsi del male. Probabilmente un tentativo di suicidio. Quel suicidio che più volte gli è balenato per la testa, come ha riferito alla sua consulente, la psicologa con cui ha parlato un paio d'ore la settimana scorsa, la dottoressa Casale. Ma chi l'ha portato a quel tentativo? I fattori che scatenano in un uomo la voglia di farla finita sono tanti. Parlando in tutta sincerità, ognuno di noi ha pensato almeno una volta di chiudere il discorso con la vita. E se il pensiero insano si presenta quando l'uomo è libero, figuriamoci se non è sempre presente quando viene chiuso in gabbia da innocente. Capire il dolore che prova chi viene preso di peso e portato in carcere con accuse infamanti non è facile. Io ho provato a trasportarlo in un libro quel dolore, ne La Legge del Disprezzo, un libro scritto assieme a un uomo, un vero uomo, che per nove anni ha subito la forza delle istituzioni italiane vedendosi rovinato psichicamente ed economicamente. Parlo di Federico Focherini che venne arrestato e portato in carcere perché accusato di essere il responsabile della morte della sua fidanzata Claudia Bianchi. Dopo quella carcerazione riuscì solo a sopravvivere, mai più a vivere veramente, e dopo essere stato incredibilmente condannato in assise dal giudice Elena Natoli, che probabilmente non è in grado di fare il giudice e andrebbe tolta dalle aule dei tribunali, rinunciò alla prescrizione che lo liberava da ogni guaio, rischiando di andare in carcere in caso di condanna, pur di venire assolto con formula piena. Voleva girare a testa alta Federico. Dopo essere stato additato per anni voleva che una assoluzione lo reintegrasse nella società. E venne assolto! Non c'era nulla contro di lui, nessuna prova e pochissimi indizi interpretabili in vari modi, eppure i "migliori" procuratori di Roma (parlo della dottoressa Diana De Martino e del dottor Italo Ormanni) coadiuvati da famosi investigatori italiani, avevano chiesto e ottenuto la sua custodia cautelare in carcere in quanto soggetto altamente pericoloso e perfido. Non c'era nulla, ma se parlassimo di come si fecero le indagini cadremmo nel baratro investigativo, visto che i bravi investigatori avevano indagato in maniera non solo unilaterale ma anche pessima (per non dire sporca viste le intercettazioni trascritte sempre "a modo" o addirittura ignorate quando erano palesemente favorevoli a Federico). Oggi tanti uomini che si dichiarano innocenti sono in custodia cautelare. Uno è rinchiuso nel carcere di Bergamo e da 14 mesi è tartassato dagli investigatori, dai magistrati e dai media. Leggiamo cosa provò Federico Focherini e cerchiamo di capire cosa prova Massimo Bossetti e quali voglie lo pervadano.
(Estratto da La Legge del Disprezzo)
- Alle 18.20 precise, ammanettato e accompagnato da quattro appuntati, varcai da prigioniero la soglia del carcere Sant’Anna di Modena. La mia mente andò in tilt. Tutto mi colse alla sprovvista: non ero in grado né di connettere e capire, né di difendermi in alcun modo. In balia di un’ordinanza emessa per motivi che non conoscevo, dopo aver sbrigato le formalità di rito fui sistemato in una piccola cella fredda, buia, con le pareti ricoperte di ritagli di giornale e immagini pornografiche che si alternavano a icone religiose. In un qualsiasi altro luogo gli stridenti accostamenti avrebbero suscitato una mia reazione forte e indignata, ma ero in carcere e l'indignazione l’avevo lasciata all’ingresso, dove, con le manette ai polsi e due guardie ai lati che mi bloccavano le braccia, sentii il sangue svanirmi dal cuore quando l’enorme portone cigolante, sbattendo, si chiuse alle mie spalle. Quando in uno sgabuzzino fui costretto a spogliarmi e a farmi toccare in ogni dove. Non sapevo cosa fare. Ero un essere inerme rimasto senza voce, un essere che nessuno voleva ascoltare. Ero un innocente che piangeva, si disperava e non aveva reazioni. Mi sentivo morire dentro e stavo perdendo la voglia di lottare. Avrei voluto parlare subito al procuratore e al giudice che aveva firmato e avallato la richiesta di arresto; poco ci voleva per far capir loro che sbagliavano, che non meritavo di stare in carcere. Ma intorno a me regnava il silenzio assoluto. Mi sentivo instabile. Tutto era inquietante e il tempo passava lentamente, troppo lentamente, immergendomi in un’allucinazione da cui credevo di non riemergere più. A minuti fissi due occhi mi osservavano. Capii che quanto stava accadendo mi avrebbe potuto portare al suicidio. Ma non avevo il tempo per elaborarlo né modo di fare gesti insensati, perché la mente mi obbligava a lottare col solo pensiero fissatosi a cemento. Mi chiedevo di continuo per quale assurdo motivo mi avessero rinchiuso. No, mi ucciderò domani, pensai, quando avrò metabolizzato e capito il perché dell’infame accusa di omicidio. Omicidio significa assassinio. Quindi, qualcuno credeva che io fossi un assassino. E non un assassino qualunque, addirittura chi aveva tolto la vita alla donna che amava! La donna che sentivo di avere accanto anche quando non era con me, che stuzzicava i miei pensieri, che mi ingelosiva, che mi mancava perché abitava lontano, che andavo a trovare per farci l’amore.
Non avevo tempo di pensare ad altro, perché altro da pensare non c’era. Gli spiriti che gironzolano nell’aria fredda della cella mi pugnalavano con le loro urla inquietanti, mi rimandavano le immagini del funerale di Claudia e approfittavano del mio pianto continuo per infierire. Gli occhi di una guardia entrarono di nuovo in quella che era ormai la mia gabbia. Forse a lei sembravo solo, ma in realtà in quei quattro metri quadrati eravamo in tanti. C’erano i fantasmi delle mie paure e del mio orgoglio che mi circondavano, che mi ferivano al pensiero di essere additato come un assassino. Quando quegli occhi tornarono per l’ennesima volta, cercai di dire qualcosa. Volevo parlare a qualcuno, fosse anche una guardia carceraria che nulla poteva fare per aiutarmi. Ma in quella cella maledetta la voce cadeva nel vuoto e si rompeva, come il mio corpo che si rifiutava di reagire, come il mio stomaco che aveva deciso di bruciare, come la mia vescica che sentivo scoppiare e come la mia mente che non trovava risposte. In quella cella maledetta mi sentivo inerme e privo della forza necessaria a creare una briciola di speranza. Stavo davvero molto male e andavo continuamente in bagno, sebbene non avessi con me neppure una bottiglietta d’acqua e non potessi bere; mi guardavo attorno spaesato come se mi trovassi all’estero, in una grande piazza fra migliaia di persone sconosciute. Ma non c’era nulla attorno a me, solo muri umidi e scaffali costruiti con pacchetti di sigarette incollati tra loro. Mi resi conto che da quando ero entrato, non avevo neppure fatto un passo e che fra le mani tenevo ancora quanto consegnatomi all’ingresso dalle guardie: una coperta ruvida, un pacco marrone con un lenzuolo di carta velina piegato all’interno, due gavette per il cibo, un sapone inodore e un rotolo di carta igienica. Nient’altro, giacché le mie cose erano finite in una scatola e non mi avevano concesso di tenere nulla, neppure la custodia degli occhiali e i lacci delle scarpe.
Ho sempre odiato camminare senza lacci, però camminai e appoggiai il tutto sulla brandina. Gli occhi che mi fissavano scomparvero e mi venne voglia di sbattere la testa contro il muro. Riuscii a trattenermi e sulla parete sbattei solo i pugni. Gli occhi tornarono. Mi girai e appoggiai le spalle al muro. Poi mi voltai, sperando di trovare, assieme agli occhi, anche due orecchie cui ribadire la mia innocenza. Fu in quel preciso istante che vidi uno strano oggetto appoggiato su una mensola. Lo presi in mano e capii che era un piccolo crocefisso ortodosso di plastica bianca… era sporco, molto sporco. Decisi di lavarlo e tenerlo con me: forse mi avrebbe aiutato a capire l’animo di chi mi aveva sbattuto in carcere, quali pensieri e sicurezze l’avessero convinto di avere a che fare con un assassino. Ma via, com’era possibile credere che fossi un assassino? Che diavolo c’entravo con la morte di Claudia? Chi erano gli incapaci che mi accusavano?
I primi giorni di carcere tolsero la luce ai miei occhi e la vita al mio corpo. Mi sentivo uno straccio e non vedevo futuro. L’unico sollievo era Alba, la mia amica avvocato che non mi fece mai mancare la sua presenza e addolciva la mia rabbia con un cioccolatino. Aspettavo con ansia che mi chiamassero in procura per interrogarmi, ma i giorni passavano e nulla accadeva. Perso in un incubo delirante, pensavo a mia madre e speravo che almeno lei non subisse le conseguenze del mio arresto. Non sapevo che i giornalisti avevano già alzato il tiro e coi loro cannoni carichi d’inchiostro cercavano di affondarmi. Ero in carcere da quattro giorni, quando sul quotidiano La Repubblica, cronaca di Roma di venerdì 7 ottobre 2005, si materializzò un articolo su di me, scritto da una tale che si firmava Anna Maria Liguori. Lei sostiene di essere una giornalista, ma vi posso dimostrare che nel suo modo di scrivere di giornalistico non c’è nulla. Il titolo, a caratteri cubitali, annunciava l’articolo: «L’ha iniziata al doping e l’ha pompata fino a ucciderla». E già qui le falsità balzano agli occhi, facendo capire come la Liguori sia solo una sorta di imbonitrice, la cartomante di turno, dotata di sparacazzate per convincere l’opinione pubblica e portarla sulla tesi della procura. È bene sapere che lo sparacazzate è l’arma in dotazione a quasi tutti i giornalisti accucciati nei corridoi delle procure, quelli che senza l’elemosina dei magistrati dovrebbero inginocchiarsi nei pressi del portone di una chiesa. È un’arma micidiale, a lunga gittata, può arrivare ovunque e uccidere la mente di ogni lettore. Lettore che una volta colpito perde autonomia di pensiero. A quel punto, più le cazzate sono grandi più diventano credibili. Garantisco che le tantissime bugie della Liguori, forse studiate a tavolino con qualche suo “amico” coinvolto nelle indagini, erano davvero enormi e per questo capaci di lasciare il segno in qualsiasi lettore.
Lei stessa scrisse sul giornale: «Pochi mesi prima di morire la giovane donna denunciò il suo compagno per maltrattamenti». Oddio, questo è vero. Claudia denunciò il suo compagno per maltrattamenti, peccato che nell’articolo manchi l’avverbio ex, dato che Claudia denunciò per maltrattamenti il suo “ex compagno”. Non me. Da ciò si evince che la credibilità della Liguori è pari a zero (...) Quando si scrive di fatti reali, il personaggio viene materializzato tanto che il lettore può riconoscerlo mentre cammina per strada, offenderlo o sputargli addosso, perché è lui l’assassino. È scritto sul giornale! Ma è anche colpa dell’uomo comune se una falsa notizia si allarga a macchia d’olio e passando di bocca in bocca diventa credibile. Il concime capace di fertilizzare le menti del popolo nasce dai pregiudizi, dalle invidie, dalle paure, dall’autocommiserazione e dal desiderio di cibarsi delle miserie altrui. I giornalisti sanno che scrivendo in una certa maniera, l’opinione pubblica s’infervorerà fino a mordere; sanno come lisciare il pelo alla massa coalizzata che seguirà la corrente mediatica, favorendo l’audience, gli introiti pubblicitari e la loro carriera. Per questo molti non hanno scrupoli e soddisfano il bisogno di sangue del cittadino frustrato, pur sapendo che la distruzione dell’indagato causerà dolore anche alla sua famiglia e a chi gli vuole bene. Nel mio caso, il mondo mi è crollato addosso. Che poteva importare ad Anna Maria Liguori, ai carabinieri, ai procuratori, della sofferenza mia e di mia madre? Che importava loro del buon nome della famiglia Focherini, del fatto che per sostenere le spese legali, conseguenti all’indagine, mi sarei rovinato economicamente, come puntualmente accadde quando fui costretto a vendere la mia quota di palestra e la casa. La realtà dei fatti mi scagionava e mi dava ragione. Eppure fui attaccato dai media e dai procuratori come fossi stato il peggiore dei mafiosi in circolazione. Eppure, senza motivo, mi spedirono in carcere dopo essere rientrato in Italia proveniente dall’Arizona (...)
È stato mostruoso. Avrei dovuto soggiornare in Italia per una decina di giorni, non di più, giusto il tempo necessario per depositare al Consolato Americano i documenti del mio permesso di soggiorno oltre oceano. Invece, a causa d’indagini portate avanti da incapaci, ho perso tutto. Nei primi quattordici giorni di carcere sono dimagrito undici chili. Nei primi tre giorni non ho mangiato perché avevo perso ogni ragione per vivere. Piangevo, ero rabbioso e non riuscivo a ingerire nulla. Poi, appena uscito dall’isolamento, ho seguito i consigli di altri detenuti e ho iniziato a capire come si fa a sopravvivere in galera. Il segreto è annullarsi e rimanere calmi. Non pensare a nulla, non pensare a nessuna persona cara. Non pensare alla libertà e galleggiare, autoeliminarsi senza guardare la finestra con le doppie inferriate, senza guardare la porta a sbarre con la grata da dove ti passano il cibo due volte al giorno (una sola la domenica), perché se la fissi troppo a lungo, dopo essere rimasto al chiuso per quindici ore consecutive impazzisci come impazziscono gli animali selvatici stivati in anguste gabbiette. Non guardare da nessuna parte. Non ascoltare le urla o i pianti che squarciano la notte, le risate sguaiate e le bestemmie che non ti consentono di prendere sonno e ti fanno realizzare dove sei, lontano dai tuoi affetti più cari. Non ascoltare le preghiere dei maghrebini, una litania, un mantra in grado di rapire la ragione e convincerla a seguire la musicalità anche quando sei assorto nella più completa solitudine dei tuoi pensieri.
Ecco il punto: i guai nascono dai pensieri. In me il pensiero della morte diventò talmente insistente, che a volte lo cercavo e lo focalizzavo nella mente come fosse l’unico sollievo. Dopo averlo localizzato lo fissavo, come il pilota di un caccia blocca nel mirino un aereo da abbattere, e alla fine: Bingo! Ecco il momento della mia unica evasione cerebrale. Pensare di morire mi lasciava una sensazione di quiete e tranquillità. Federico è ora un uomo libero. Lo è soprattutto grazie al lavoro e alla passione del suo avvocato Alessandro Sivelli e del pool che lo ha affiancato quando si è scontrato con procuratori privi di scrupoli e coscienza che già avevano deciso che il Fochero andava condannato. Massimo Bossetti, invece, al momento è un uomo in gabbia con tutti i pensieri neri che gli balenano nella mente. La procura di Bergamo lo vuole colpevole e non lesina colpi bassi pur di farlo figurare pedofilo. Non ha nulla di serio in mano, eppure si getta contro la sua famiglia fregandosene dei suoi figli e del male che loro padre prova quando questo avviene. Con indagini unilaterali cerca di affossarlo definitivamente non perché voglia la verità, ma perché a tutti gli italiani venga imposta la "loro verità". E visto che non tutti sono stati convinti, ai procuratori farebbe molto comodo un suicidio che chiuda il caso e gli accertamenti. Dovrebbero essere i media a vigilare affinché l'evento suicidio non si realizzi. Dovrebbero essere i giornalisti, gli unici che possono fungere a cani da guardia della democrazia pronti ad abbaiare e a mordere quando qualcuno non si comporta nel rispetto delle regole. Ma da tempo i giornalisti italiani si sono trasformati in pecorelle pronte ad ubbidire al pastore di turno. Infatti lo schieramento anti-Bossetti è imponente è lo spinge al suicidio tramite scoop mirati in grado di colpirlo a morte nel profondo della sua sfera psichica più intima. E la pubblica opinione se ne frega di quanto ora capita a un altro, anche se un domani potrebbe capitare a chiunque, acquista il Giallo e sbava ad ogni accusa come se ci fossero tonnellate di prove anziché nanogrammi di pseudo-indizi. Come scrive Gilberto Migliorini nel suo ultimo articolo, pare quasi che i media stiano facendo un servizio di stato. Pare quasi che le pecorelle dell'informazione servano solo a testare le risposte degli italiani per capire se la cura usata negli ultimi decenni è riuscita ad addomesticarli, a farli reagire in maniera positiva agli stimoli negativi che chi detiene il potere lancia ad ogni ora del giorno e della notte per impedire un autonomo pensiero e trasformare un popolo in gregge...
Le dichiarazioni esclusive che Marita fa al nostro giornale contrastano con quelle degli inquirenti. E il processo è sempre più vicino…Intervista esclusiva a Marita Comi, moglie di Massimo Giuseppe Bossetti su Oggi. «Massi era sorvegliato già due mesi prima che fosse arrestato. Di notte e di giorno. Attorno a casa, nei campi sul retro della palazzina o all’imbocco della strada che dalla Provinciale porta nel nostro cortile c’erano spesso due persone che chiacchieravano o fumavano…», racconta la moglie dell’uomo accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio. «Eravamo preoccupati, ne abbiamo parlato, ci siamo chiesti chi potessero essere, cosa facessero, cosa volessero. Abbiamo pensato a dei ladri. Mai avremmo immaginato quello che è successo due mesi dopo. Chissà perché dal 16 giugno 2014, il giorno dell’arresto di mio marito, quei due sono spariti… Più visti» Una convinzione, quella di Marita Comi, che contrasta con le spiegazioni degli inquirenti, secondo i quali la certezza che la mamma di Ignoto 1 fosse Esther Arzuffi è stata raggiunta solo il 14 di giugno, 48 ore prima dell’arresto. Massimo Bossetti era nel mirino degli inquirenti due mesi prima della scenografica cattura nel cantiere di Seriate? Marita Comi non vuole dare risposte e sul processo che sta per aprirsi a Bergamo dice: «Mio marito è innocente ma io ho ugualmente tanta paura». Infine, sulle lettere anonime giunte proprio a Oggi che delineano un diverso scenario del delitto (Yara uccisa da un muratore polacco alla presenza di Bossetti), dice: «Se Massi avesse solo assistito a quello che si racconta in questi fogli prima o poi me l’avrebbe confidato. Non è capace di tenere un segreto così pesante. Non avrebbe dormito di notte. Massi non è un duro. È un sentimentale tenero.
Cara Marita, ti spiego perché tuo marito non può aver ucciso Yara...Lettera aperta di Annika a Marita Comi su "Albatros Volando Controvento". Cara Marita Comi, spero che tu segua il blog di Massimo o che qualcuno ti informi di quanto sto per scriverti. Mi chiamo Annika e mi occupo di scienze forensi. Ho seguito con grande interesse il caso di Salvatore Parolisi, in cui ho notato che molti degli elementi fatti passare per scientifici, addirittura nelle carte ufficiali, di scientifico non avevano, e tuttora non hanno, proprio nulla. Melania è morta molto dopo i tempi che ci sono stati raccontati e suo marito è assolutamente innocente. Ho anche seguito il caso di Yara Gambirasio. All'inizio con interesse appena superficiale, poi qualcosa mi ha fatto tirare su le antenne e scattare l'allarme. Così, come per Melania sapevo che Parolisi era solo il capro espiatorio prescelto - per via della Semenogelina (lunga storia) - allo stesso tempo, dall'istante dell'annuncio del ritrovamento di DNA estraneo sul corpo della piccola vittima, ho capito che nel caso Gambirasio qualcosa non andava proprio per come doveva andare. Ma procediamo con calma. Innanzi tutto permettimi di spendere due parole sull'incessante tamburo battente di intercettazioni tra te e tuo marito, dalle quali si percepirebbero i tuoi presunti dubbi sulla sua innocenza e blah blah blah... I media quando ci si mettono sono come ogni altro branco - sia formato da bulli o da cani randagi - e si eccitano tra loro. Sai che goduria rotolarsi nella melma del loro stesso gossip? Ma tuo marito è innocente, Marita: lo sai tu e in questo blog lo sappiamo in tanti. Dammi cinque minuti e te lo confermo. Allora, come ti dicevo ho sgamato il PMI di Melania Rea in un batter d'occhio per via della Semenogelina. Ma di semenogelina, a meno che tu non segua questo o altri blog di utenti che leggono e commentano i casi ambigui di cronaca nera, non avrai mai sentito parlare. In pratica, la semenogelina ci dice che Melania, ancora viva, ha avuto un rapporto sessuale, non consenziente visto il conseguente omicidio, dopo i tempi del suo presunto decesso, solo ufficialmente avvenuto il 18 aprile. E poco importa che non si siano trovate tracce di stupro sul suo corpo, perché la droga da stupro non me la invento io e in Italia si trova in ogni ceto sociale (per capirlo basta scrivere sulla barra di ricerca di google: arrestato con droga da stupro). I media una storia del genere non la racconteranno mai: sia perché dovrebbero puntare il dito dove non si vuole che punti, sia perché scagionerebbe immediatamente l'assassino prescelto. Insomma, niente semenogelina per la massa già da mesi e anni imboccata a cucchiaiate di borse gialle, occhiali, chioschi, imbuti e, naturalmente, DNA da "ultimo bacio"! Parliamo di DNA. La relazione autoptica di Tagliabracci conferma la presenza del DNA di Parolisi sia sul labbro di Melania che all'interno della sua bocca, nell'arcata dentaria. Proprio come nel caso del DNA di Ignoto 1 su Yara, il DNA sulla e nella bocca di Melania Rea, stando alle carte, avrebbe un donatore certo (Salvatore Parolisi) ma un'origine incerta: forse saliva, forse touch DNA, forse chissà... E infatti, se tu avrai modo di accedere alle carte del caso Gambirasio, scoprirai che anche il DNA di Ignoto 1 apparterrebbe (nota il condizionale!) a Massimo Bossetti, ma avrebbe natura incerta. Nonostante la si sia cercata in lungo e in largo. Sarà sangue o forse touch DNA, saliva oppure urina o sperma? Mistero! Ora, torniamo a Melania. Ricorderai sicuramente il tam tam mediatico del Bacio della Morte, bacio che Salvatore avrebbe dato a Melania moribonda (per via dei tempi altrimenti impossibili, le carte ci raccontano che lui la abbandona a Ripe dove lei, in fin di vita, spirerà alcune decine di minuti più tardi). Ora, Marita, la verità è che il DNA di Parolisi non poteva in alcun modo essere rilevato in corso di autopsia, né sulla arcata e meno che mai nella bocca di Melania, per via della scarsissima resistenza del DNA - di qualunque natura - una volta a contatto con la saliva del corpo ricevente. E a dimostrarlo non c'è solo l'alpha amilase che distrugge e digerisce quasi istantaneamente una qualsivoglia traccia estranea di qualsivoglia origine, ma c'è anche, incredibilmente, proprio il perito della parte civile. La Dott.ssa Baldi ha svolto una serie di esperimenti empirici di French kissing & mouth touching (esperimenti per fortuna ripetuti da Kamodiova et al, 2012, in una ricerca seria documentata in double blind fuori Italia da un team assolutamente estraneo al caso Rea). In parole povere, ora è certo che la saliva maschile resiste nella bocca femminile non più di una manciata di secondi, e se anche fosse stato Parolisi ad aver ucciso Melania, e se anche l'avesse baciata o solo toccato la sua bocca prima di abbandonarla sanguinante, quel DNA si sarebbe dissolto entro 45-60 secondi al massimo, e sarebbe sparito del tutto prima ancora che lui avesse aperto la portiera della macchina per rimettersi presumibilmente in moto verso Colle San Marco. Ma nonostante i tempi di persistenza del DNA estraneo sulla e nella bocca siano ormai ben conosciuti anche alla parte civile, oltre che alla procura, ai giudici e al resto del mondo (grazie allo studio internazionale di cui sopra), nessuno ha mai ritrattato o rettificato la balla di dimensioni cosmiche del DNA di Salvatore rimasto sulla moglie. Solo due possibilità scientificamente provabili permettevano a quel DNA di trovarsi realmente sulla bocca di Melania:
Prima: "O a Salvatore Parolisi è stato permesso di baciare Melania durante l'autopsia (giudica tu...)";
Seconda: "O quel DNA, magari prelevato o rubato a Salvatore a sua insaputa, lì ci è stato messo apposta da 'qualcuno'..."
Scegli tu. Non sto quindi dicendo che il DNA di Salvatore non fosse sulla e nella bocca di Melania, tra l'altro misto al DNA di Melania: non sto accusando Tagliabracci di un falso colossale. Sto dicendo piuttosto che, se realmente quel DNA è stato rilevato, registrato (campioni 4493 e 4494), isolato da quello di Melania e identificato come appartenente a Salvatore Parolisi, come da relazione autoptica con tanto di firma dell'anatomopatologo, allora su Melania ci è arrivato solo tramite una delle due soluzioni qui sopra menzionate. E data l'impossibilità di accertarne la natura (salivare, epiteliale, ecc), qualcosa mi dice che quel DNA potesse non avere un RNA perché, altrimenti, la sua natura sarebbe certa e nota da anni. Comunque sia, ciò farebbe poca o nessuna differenza, dato che se realmente Salvatore avesse baciato la moglie in fase autoptica, il suo DNA sulla bocca della moglie non proverebbe la sua colpevolezza. Quindi, se delle uniche due ipotesi possibili escludiamo la prima...Lasciamo il caso Rea-Parolisi e passiamo ora a tuo marito, a Massimo Bossetti, o meglio ancora passiamo al DNA di Ignoto 1 rilevato dagli slip/leggings di Yara. Qui davanti a me ho2 papers aperte, una più ufficiale dell'altra ed entrambe datate 2011, che continuo a sfogliare mentre ti scrivo - e altre ne ho nel mio ufficio, nel mio lab, nello studio di casa mia. Tutte queste papers riguardano la persistenza di tracce di DNA estraneo su cadavere in un ventaglio di condizioni (in acqua, su terreno, al chiuso, all'aperto, al caldo, al freddo, sotto la pioggia). Ebbene, la durata massima di una traccia di DNA tale da rendere il DNA ancora leggibile, in condizioni ottimali è al massimo di due settimane. Ripeto Marita: DUE (2) SETTIMANE = 14 GIORNI. Oltre questo tempo il DNA sarà forse ancora presente, ma talmente degradato da non essere più riconducibile al soggetto da cui proviene. Dato che però il RNA ha una persistenza circa 8-10X (8-10 volte) maggiore del DNA, e che il RNA fornisce la natura della traccia (sangue, saliva, urina, sperma, touch DNA) laddove altri test non riescano o non diano risposte conclusive, passate le prime due settimane qualunque resto di traccia di DNA servirà non tanto all'attribuzione a un soggetto, quanto piuttosto ad accertare la natura della traccia (es saliva) proprio grazie al RNA in esso ancora presente e ancora leggibile. Nel caso di Ignoto 1 sappiamo dalle carte che non si è riusciti ad accertare l'origine della traccia, che si è solo presunto si trattasse di sangue. Se di sangue si trattasse, il RSID-Bloodlo confermerebbe tutt'oggi al 100%, ma comunque è sorprende che nel 2011 - o dopo - non si sia confermata la natura del DNA di Ignoto 1 tramite l'analisi del suo RNA, sicuramente ancora presente e certamente ben leggibile nella traccia a 3 mesi dal presunto deposito. Soprattutto se, come dicono, il DNA stesso presentava uno straordinario stato di conservazione...Quello che però sorprende ancora di più, e sorprende fortemente, è che un team di esperti di scienze forensi di fronte a un corpo presumibilmente rimasto a Chignolo d'Isola immobileper ben 3 mesi, abbia preso per buona la presenza di una traccia di DNA estraneo a presunte 14 SETTIMANE dal decesso! Cosa IMPOSSIBILE per via di due fattori altamente provati e risaputi:
1. degradazione ambientale
2. degradazione chimica
Senza voler entrare nei meandri di un discorso complesso, riassumo in pillole che non solo a Chignolo pioveva (ergo pH, ecc) e faceva freddo, entrambi fattori acceleranti, ma che anche sul suo terreno ci sono quelle bestie voraci dei batteri del suolo. Se hanno ridotto il corpo di Yara nello stato in cui l'hanno ridotto, figuriamoci in che insignificante manciata di nanosecondi hanno fatto fuori qualunque traccia estranea. Infine c'è la scoperta non nuova (solo una conferma in realtà avvenuta per ricerca datata proprio 2011) che, come si pensava da tempo, sono i liquidi corporei stessi a disfare definitivamente qualunque traccia rimanente di DNA estraneo su pelle o vestiti. E non parlo solo di liquidi corporei che escono da cavità e orefizi, ma soprattutto di quelli prodotti dalla putrefazione dell'intero corpo. Ed ecco che l'alta acidità putrefattiva dell'intero cadavere spiega i tempi di max 2 settimane di persistenza e rilevabilità di tracce estranee di DNA. Ma allora, il DNA di Ignoto 1 come lo si spiega? Lo si spiega esattamente come il DNA di Salvatore Parolisi sulla e nella bocca di Melania: ovvero prendendo i dati scientifici a nostra disposizione e traendo le uniche due conclusioni scientificamente possibili:
Prima: "O Massimo Bossetti ha toccato e, data la posizione del DNA, per forza di cose spostato il cadavere di Yara una decina di giorni al massimo prima del ritrovamento".
Seconda: "O il DNA di Massimo Bossetti lì ci è stato messo - più o meno apposta - da qualcuno..."
Nuovamente, non sto dicendo che quel DNA proprio non ci fosse. Sto dicendo che dove è stato trovato... hai voglia a inventarti che era nascosto dall'elastico con Yara ben putrificata a dovere: sai gli acidi del corpo come lo avrebbero trovato? Non so se hai visto lo stato dei leggings. E dato che il cadavere era più o meno intero, ovvero non si trattava di pezzi di cadavere riassemblati post spostamento di un corpo trovato dopo 3 mesi grazie all'aiuto di brandelli di vestiti (il che sarebbe saltato subito all'occhio), direi che quel DNA, se realmente presente laddove le carte dicono che è stato rilevato, per forza di cose ci è arrivato tramite terzi. Infatti Marita, basta ricordare quel DNA nucleare ma non mitocondriale... et voilà, cominciamo a parlare di un modello genetico pret-a porter semi-vintage modificato su misura per le esigenze della moda attuale, conservato manco fosse nuovo, ma stranamente incompleto di mRNA e pure di provenienza da soggetto unico...! Un vero cocktail. E allora si che, proprio come nel caso del DNA di Salvatore Parolisi, potrebbe essere che: chissà quando - chissà dove - e soprattutto - chissà perché qualcuno potrebbe aver rubato DNA a tuo marito, ad esempio da una bottiglia di acqua minerale, e, chissà come, potrebbe averlo passato ad altri...Concludendo Marita, i tempi delle scienze forensi sono quelli che sono e non c'è nessuno in grado di plasmarli a proprio uso e consumo. Sebbene la polemica su tua suocera, Ester Arzuffi, sia di uno squallore perfido, in realtà è irrilevante di chi sia figlio tuo marito ed è anche irrilevante scoprire se il DNA di Ignoto 1 sia realmente riconducibile a lui. Infatti, proprio come per quello di Salvatore Parolisi sono pronta a scommettere che, solo in partebada bene, sia proprio riconducibile a Massimo... ma solo in parte, ripeto, e magari una parte sottrattagli a sua totale insaputa un anno e mezzo fa o giù di lì. Insomma, grazie ai tempi della permanenza delle tracce estranee di DNA e RNA su cadavere, è irrilevante che il DNA di Ignoto 1 sia anche solo in parte di tuo marito, come è irrilevante che lui sia figlio o meno di Guerinoni perché, in ogni caso è - e resta - INNOCENTE. Un affettuoso saluto, Annika.
Bossetti minacciò il suicidio per i tradimenti della moglie. Piangeva al cantiere, lamentava l'infedeltà di Marita, si racconta negli atti. Per gli inquirenti il rapporto con la moglie ha un peso nei motivi per cui avrebbe ucciso Yara, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Massimo Bossetti aveva minacciato il suicidio. In uno dei periodi di crisi con la moglie Marita Comi era scoppiato a piangere in cantiere e parlava di buttarsi giù dal ponte di Sedrina. Gli altri muratori all’inizio pensavano fosse una delle sue solite favole, ma dopo un po’, terrorizzati, avevano chiamato l’impresario che era arrivato di corsa per scongiurare il peggio. C’è molto del rapporto tra marito e moglie negli atti ufficiali a chiusura dell’indagine sull’omicidio di Yara Gambirasio, per la stessa ragione per la quale non viene risparmiata la vita privata di mamma Ester e l’adolescenza incupita di Massimo. Per gli inquirenti, il rapporto tra Bossetti e Marita, caratterizzato da “periodi di particolare criticità”, rientra a pieno titolo nel “contesto predisponente” alla commissione del reato, cioè un tentativo di spiegazione del perché possa avere commesso un delitto a sfondo sessuale su una ragazza di tredici anni. Gli investigatori lo mettono nero su bianco e specificano che nel periodo in cui Bossetti avrebbe ucciso Yara, la coppia viveva un momento di estrema criticità. Lo testimonia il silenzio insolito tra i telefoni di marito e moglie, con una totale assenza di conversazione tra i due nel periodo tra il 21 e 28 novembre 2010, proprio a cavallo della scomparsa di Yara, quando normalmente i contatti avevano cadenza quotidiana. Un buco che non può non essere notato. Come non può non essere evidenziato l’atteggiamento di Bossetti nei periodi di crisi con Marita. In uno di questi racconta al lavoro che tutte le sere deve andare via un’ora prima per passare dai Carabinieri di Ponte San Pietro a firmare perché ha picchiato la moglie. Certo, lo chiamano ilFavola perché racconta fesserie con facilità estrema. Ma in quei giorni del 2008 lo trovano in lacrime dentro un container, racconta i sospetti sull’infedeltà di Marita e dice di averla beccata. Diversi testimoni, che rientrano nella sua sfera privata e non lavorativa, confermano la crisi tra marito e moglie, tanto che lui per un periodo era tornato a vivere nella casa dei genitori. Scrivono gli inquirenti che l’attività di “reperire tracce di situazioni legate al rapporto di coppia” è importante perché può “spiegare il movente latamente sessuale del delitto”. Ecco perché non vengono risparmiati i tradimenti di Marita Comi, che sono parte integrante degli atti, con nomi e cognomi degli amanti, luoghi degli incontri, date precise, ricevute dei motel, e perfino la descrizione del tipo di attività sessuale.
Caso Yara, due uomini ai giudici: “Eravamo amanti della moglie di Massimo Giuseppe Bossetti”. Ma lei smentisce, scrive “Oggi”. La vita privata dei coniugi sotto la lente degli inquirenti: e spuntano due presunti amanti di Marita Comi, la moglie di Massimo Giuseppe Bossetti. Lei, tramite gli avvocati, smentisce. Ma resta ancora da chiarire come la testimonianza dei due uomini possa integrarsi alle indagini… Massimo Giuseppe Bossetti è in carcere da 65 giorni con l’accusa di aver ucciso la 13enne di Brembate di Sopra. E mentre gli inquirenti continuano le indagini e gli interrogatori, spunta la testimonianza di due uomini che sarebbero stati amanti della moglie del muratore di Mapello, Marita Comi: uno nel 2009, l’altro in tempi più recenti. E per gli investigatori la loro testimonianza sarebbe credibile. Anche se la donna assicura: “Mai avuto amanti”. I due uomini si sarebbero fatti avanti da soli e avrebbero raccontato di aver avuto una liason con la moglie del presunto omicida. Senza nessuna pressione da parte degli inquirenti, avrebbero reso una testimonianza spontanea. Un fatto che fa propendere per una dichiarazione veritiera e che, a quanto pare, potrebbe avere una relazione con le indagini sulla morte di Yara Gambirasio, scomparsa il 26 novembre 2010 e il cui corpo è stato trovato tre mesi dopo in un campo a pochi chilometri da casa. La Comi, attraverso i suoi legali, ha negato i fatti e ha ribadito di “non aver mai avuto amanti”. Perché gli inquirenti si stiano concentrando con tanta attenzione sulla vita privata dei coniugi Bossetti è ancora da chiarire. Quello che inchioda il 44enne, per ora, è la prova del Dna con tracce trovate sugli indumenti di Yara Gambirasio. Ma agli inquirenti non basta, mancano ancora degli anelli alla ricostruzione della scomparsa della giovane atleta e un perché alla sua morte. E la sfera privata sembra avere sempre più rilevanza nell’indagine. Il pm Letizia Ruggeri ha chiesto dettagli al muratore di Mapello sulla relazione con la moglie durante l’interrogatorio del 6 agosto. La stessa cosa ha fatto durante l’audizione della moglie, che però, dopo l’intervista rilasciata ad un settimanale, si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Il confine tra inchiesta e vita privata è molto sottile. E lo dimostrerebbe anche il fatto che, durante l’ultima perquisizione nella casa di Bossetti e della Comi, gli investigatori abbiano sequestrato un biglietto d’amore scritto da Marita al marito per San Valentino, una fotografia di famiglia e il dvd con le foto del matrimonio. Non solo. Anche alla suocera del presunto omicida, gli inquirenti avrebbero chiesto particolari della vita dei due coniugi. Sotto la lente è l’apparente normalità della vita di Massimo Giuseppe Bossetti e della moglie Marita Comi. Una coppia solida e con rapporto rose e fiori o con qualche crepa? E lui, un uomo tutto lavoro, casa e famiglia? O forse nasconde una doppia personalità o particolari tendenze sessuali e perversioni? Cosa cerchino gli investigatori è ancora un mistero.
Le cronache, sempre pronte a descrivere con enfasi dettagli ininfluenti di ogni fatto, ci avevano informato tempo fa che la moglie di Massimo Bossetti (presunto assassino di Yara), Marita Comi, non disdegnasse qualche avventura amorosa, ovviamente fuori dal matrimonio, il che avrebbe creato in famiglia un clima poco idilliaco, scrive Vittorio Feltri su il Giornale”. Poi delle fuitine della signora non si è più parlato per un pezzo. Ma negli ultimi giorni, avviato il processo in Corte d'assise, i pettegolezzi pruriginosi sono tornati a bomba. È accaduto quando la pubblica accusa ha chiesto di ascoltare quali testimoni gli uomini con i quali Marita avrebbe avuto relazioni. Meno male che la giuria ha respinto in parte la proposta, per cui all'imputato e alla consorte si spera sarà risparmiata l'umiliazione di lavare i panni sporchi in un'aula di giustizia. Ciò nonostante, non siamo soddisfatti. Rimane lo stupore (l'indignazione) suscitato dai pubblici ministeri con la loro pretesa di discutere di corna nell'ambito di un dibattimento incentrato su un omicidio. Se Bossetti ha ucciso una ragazzina (e bisogna dimostrarlo) che c'entra la sua sposa, per nulla coinvolta nell'assassinio? Si è arrivati a sostenere che i tradimenti (veri o no) di Marita avrebbero influito negativamente sull'equilibrio psicologico di Massimo, portandolo ad ammazzare l'adolescente. Una tesi talmente sgangherata da meritare, questa sì, l'intervento della psichiatria. In realtà, si è scoperto che gli episodi di infedeltà della signora sarebbero avvenuti dopo (non prima) la morte di Yara, pertanto è da scartare che abbiano inciso sul delitto attribuito a Bossetti. Di qui l'assurdità dell'audizione degli amanti. D'altronde ci mancava solo, in simile vicenda torbida, una discettazione sull'adulterio quale propellente di atti criminali. Il punto però è un altro. Se un'indagine e un processo riguardano un omicidio compiuto da un uomo, che senso ha tirarne in ballo la consorte e frugare nelle pieghe riservate del suo comportamento privato? Ammesso e non concesso che Marita abbia deciso di abbandonarsi a qualche distrazione, sono casi suoi e non casi giudiziari. I peccati della carne non sono reati, e gli investigatori, nonché i magistrati, dovrebbero disinteressarsene per rispetto delle persone che li hanno commessi, ma anche del codice penale che non persegue le effusioni extraconiugali. Come si fa a introdurre il gossip più basso nelle istruttorie? D'accordo che da parecchi anni le procure sono indaffarate ad ascoltare intercettazioni telefoniche e non cassano le più piccanti che, di conseguenza, finiscono sui giornali, comprese quelle penalmente irrilevanti; ma c'è un limite oltre cui non è lecito andare. Nella fattispecie, della reputazione di Marita è stato fatto strame con grave danno per l'intera famiglia. Il rischio è che quelli di Bossetti, nelle chiacchiere popolari, siano definiti non soltanto figli di un assassino, ma anche figli di una poco di buono, la quale, mentre il marito era in galera con l'infamante accusa di aver tolto la vita a una ragazzina, si consolava abbracciando altri uomini. Un pericolo da evitare e, invece, ingigantito da metodi investigativi indegni di una nazione civile. Tra l'altro, risulta che la signora Comi abbia sempre amorevolmente assistito Massimo, dal giorno dell'arresto a oggi. Inoltre, ha provveduto in proprio alla prole, confermando di essere una donna responsabile. Cosa le si poteva chiedere di più? Sarebbe ora, infine, di giudicare ogni individuo tenendo conto che il cuore e il cervello di ciascuno di noi sono separati nettamente da quanto abbiamo (giudici inclusi) dalla cintola in giù.
Ormai l'opinione pubblica ha emesso la condanna per Massimo Bossetti, scrive Stefano Zecchi su “Il Giornale”. Eppure lui non ha mai avuto un cedimento: si è sempre dichiarato innocente né, pare, abbia avuto momenti di sconforto nonostante su di lui penda un'accusa pesante come un macigno. Veniamo adesso a sapere che forse ha tentato di suicidarsi, e il motivo che l'avrebbe spinto a questo gesto sarebbe stata la conoscenza del tradimento di sua moglie, avvenuto nel periodo che intercorre tra il presunto omicidio di Yara e l'arresto. Ora, soltanto per un istante, s'immagini, in via del tutto astratta, una bilancia che, su un piatto tenga lo stupro di una ragazzina minorenne, sull'altro il tradimento della propria moglie. Chiunque, proprio in un istante, vede il peso spaventoso del reato di stupro, mentre il tradimento muliebre per quanto possa essere fastidioso e umiliante appare di una gravità irrilevante rispetto alla violenza su una minorenne. Eppure è proprio questo fatto irrilevante, nella proporzione ora immaginata, che avrebbe potuto annientare le resistenze psicologiche di Bossetti al punto da fargli tentare il suicidio. Insomma, l'Italia lo considera un mostro, ma lui non fa vedere crepe nella sua resistenza emotiva di fronte all'accusa; il tradimento della moglie invece lo distrugge. Sembra inconcepibile, eppure questo accade perché il modo in cui viviamo le emozioni, i sentimenti, le passioni hanno caratteristiche così soggettive che possono sorprendere soltanto se supponiamo che quegli stati d'animo dovrebbero essere uguali per tutti. E invece il nostro senso della moralità ha certamente una base comune, costruita da convenzioni sociali e da credenze religiose quando ci sono, ma poi c'è tutto un insieme di altri fattori come l'educazione ricevuta, l'ambiente in cui si vive con le sue usanze, i suoi pregiudizi, il tipo di cultura, anche se limitata, di cui si dispone, che finiscono per essere più determinanti nella formazione della propria moralità rispetto a quei valori che sono un patrimonio (piccolo) condiviso da tutti. E così ciò che a qualcuno può apparire moralmente inaccettabile, a qualcun altro quell'inaccettabilità può essere sempre considerata tale, ma non ritenuta tanto grave a confronto di altri comportamenti immorali. Bossetti potrebbe aver ritenuto evidentemente più grave il fatto che la gente lo possa considerare un cornuto piuttosto che uno stupratore. Questo modo di pensare è davvero una cosa così strana ed eccezionale? Gli episodi di stupro sono drammaticamente all'ordine del giorno. Si provi a ricordare le dichiarazioni dei criminali dopo aver commesso quell'orribile reato: spesso avanzano giustificazioni e non è raro cogliere, senza mistero, il loro compiacimento per la bravata. E, allora, appare ancora tanto strano che per queste persone - le quali arrivano a distruggere l'integrità di un altro essere umano, talvolta di una ragazzina, andando magari dopo a vantarsi con gli amici al bar - il tradimento della loro donna sia considerato un crimine peggiore di quello commesso da loro?
Anche l’imputato Bossetti ha diritto al diritto, scrive Astolfo Di Amato su "Il Garantista". Prima di riflettere sulla notizia, immaginate di stare una intera settimana senza poter scambiare parole, sentimenti, sfoghi con nessuno. C’è da impazzire! Per Bossetti le settimane sono state 19. Oltre quattro mesi. Un tempo certamente reso ancora più pesante dal dover far fronte alla accusa che lo sovrasta. In molti stati degli USA la possibilità di isolamento in carcere è stata bandita come una forma di detenzione crudele e di tortura, contraria ai diritti umani, alla dignità della persona e al valore rieducativo della pena. E’ noto e documentato clinicamente il rischio di crollo psicologico, specialmente per le persone incensurate, durante i primi giorni di detenzione, con la comparsa di gravi forme di autolesionismo fino al suicidio. Né la circostanza che si tratti di carcerazione preventiva muta la sostanza degli effetti dell’isolamento in carcere. Anzi, lo stato di incertezza che caratterizza la carcerazione preventiva, ogni carcerazione preventiva, rende ancora più difficile reggere, sul piano psicologico, la condizione di isolamento. Che, è inutile girarci intorno, finisce con l’essere, oggettivamente, una forma di tortura, al di là delle intenzioni e delle motivazioni che l’hanno determinata. È finita, dunque, per Bossetti la tortura costituita dall’isolamento in carcere, pur continuando quella costituita dalla carcerazione preventiva. Va fatto, allora, un bilancio di questo tempo passato. Indubbiamente si tratta di un tema reso estremamente delicato dalla odiosità del delitto per il quale Bossetti è indagato e dalla circostanza che gli inquirenti hanno in mano un elemento di accusa estremamente pesante: la presenza del Dna di Bossetti sugli indumenti della povera Yara. Detto questo, vi sono due considerazioni da fare. La prima è che non può escludersi che il Dna sia giunto sugli indumenti di Yara non per contatto diretto, ma perché portato da un oggetto (Bossetti ha dichiarato di perdere abitualmente sangue dal naso). La seconda è che la odiosità del reato, proprio perché implica una pena maggiore, dovrebbe far aumentare e non diminuire le garanzie. Fatte queste premesse, diventa inevitabile registrare alcuni dati di fatto. Il primo è che Bossetti ha retto alla tortura dell’isolamento. Non può, certo, questa essere una prova di innocenza. Ma la debolezza psicologica in cui l’isolamento fa sprofondare, associata al senso di colpa, costituisce di regola una molla potentissima per la confessione. Tanto potente che, in questi casi, si rischia che vi sia la confessione anche di ciò che non è stato commesso. Il secondo è che, nonostante la meticolosità con cui le indagini sono portate avanti, non sono emersi elementi ulteriori di prova a carico di Bossetti, idonei a vivificare e confermare l’elemento costituito dalla presenza del Dna. Anzi, come ha messo in evidenza su questo giornale Tiziana Maiolo, con una analisi esemplare per lucidità e rigore, si è assistito allo stillicidio di notizie su presunti indizi, poi ogni volta smentiti dai fatti. Colpisce, in particolare, che non si siano trovati riscontri né con riguardo all’omicidio in sé, né con riguardo alla personalità deviata che avrebbe dovuto avere Bossetti per commettere quel reato. E allora? Innanzi tutto le ragioni della carcerazione preventiva, come da tempo sta sottolineando Tiziana Maiolo, perdono consistenza ogni giorno che passa. Poi, l’orrore per il delitto bestiale di cui si di- scute non può e non deve impedire che si guardi al giudizio con la pacatezza della ragione. Il rischio di un errore, in un senso o nell’altro, è altissimo.
«Perché continuano a picchiare la gemella di Bossetti?», scrive Antonello Micali su “Il Garantista”. Che cosa c’è dietro le misteriose aggressioni, tre in pochi mesi, subite da Laura Letizia Bossetti, sorella (gemella) di Massimo Giuseppe Bossetti, l’uomo in carcere da giugno con l’accusa di essere l’assassino della tredicenne Yara Gambirasio? La domanda, forse inevitabilmente dietrologica, ma irrinunciabile visto il legame con il muratore 44enne di Mapello, dopo l’ultima aggressione denunciata dalla donna, sorge spontanea. La donna ha denunciato di essere stata aggredita mentre stava ritirando la posta: bloccata, nell’androne del palazzo dei suoi genitori che era andata a trovare a Terno d’Isola, sotto la minaccia di un coltello da due uomini incappucciati, che alla fine l’hanno massacrata di botte, spingendola a calci e pugni fino all’ascensore (dove è stata spogliata degli stivali e del giubbino) e trascinata nelle cantine dello stabile, dove poi avrebbe perso i sensi a causa delle percosse. Testimoni riferiscono che quando l’ambulanza l’ha portata via era ancora priva di conoscenza. Giunta in ospedale, i sanitari le hanno diagnosticato, oltre a un brutto trauma cranico, tre costole rotte ed alcune incrinate, un’emorragia ad un occhio ed ecchimosi varie per una prognosi di trenta giorni. A trovarla esanime negli scantinati e a soccorrerla insieme ad un vicino sarebbe stata la stessa madre della donna, Ester Arzuffi, già nota ai media suo malgrado per la vicenda delle indagini sul dna, per la quale secondo le risultanze della Procura avrebbe avuto i figli gemelli dalla relazione segreta con un autista oggi scomparso che sarebbe poi il padre di Ignoto 1, alias Giuseppe Bossetti, ovvero l’uomo che avrebbe lasciato tracce dl proprio dna (nucleare ma non mitocondriale, l’anomalia su cui si basano molte delle speranze della difesa) sui leggins della piccola vittima. Secondo quanto si apprende, la sorella gemella del presunto killer della ragazzina di Brembate negli ultimi tempi sarebbe stata presa di mira altre volte da alcuni sconosciuti; in un paio di casi solo con degli insulti e minacce di morte e a settembre sarebbe già stata picchiata, mentre in un’altra occasione, l’ultima prima del pestaggio, lo scorso 10 febbraio, avrebbe trovato al suo rientro la casa a soqquadro. Il legale di Laura Letizia, Maria Bonomo, ha reso noto che si era già rivolto ad un’agenzia di sicurezza per cercare di tutelare la sicurezza della sua cliente. Ma presidi di sicurezza a parte, il passaggio destinato principalmente a tutelare l’incolumità della donna rimane l’indagine avviata, al momento a carico di ignoti, per tali al momento incomprensibili aggressioni. Ed ora sono comunque in molti quelli che si domandano se non vi sia un legame tra questi agguati e la vicenda del fratello, che tra l’altro continua a proclamarsi innocente dal carcere. Ci sarebbe una frase, pronunciata dal muratore, che farebbe pensare e il cui senso sarebbe (farebbe parte di un’intercettazione ambientale in carcere trascritta negli atti dell’inchiesta e non nella disponibilità della difesa): «Non confesso per la mia famiglia …», da alcuni interpretata come un modo per giustificarsi da una parte, continuando a nascondere qualcosa di cui sarebbe però a conoscenza ma che non può riferire; forse perché Bossetti deve coprire qualcuno? Da un legale, quello della sorella di Bossetti, che ora si preoccupa di proteggerla, ad un altro avvocato, Claudio Salvagni, il difensore del presunto assassino ieri impegnato a preparare l’udienza del ricorso di oggi in Cassazione per l’istanza di scarcerazione di Bossetti. Salvagni su quella che ad oggi rimane comunque poco più che una suggestione dà la sua personale chiave di lettura: «Non posso entrare nel merito delle aggressioni subite dalla sorella del mio assistito non essendo il suo legale ma posso, oltre a rammaricarmi umanamente per quanto accaduto, far notare che prima di questa inchiesta quella signora non aveva mai subito nulla del genere. Si può forse mettere tutto ciò in relazione all’esposizione e all’odio mediatico cui è stato sottoposto Bossetti e naturalmente la sua famiglia in un’inchiesta che lo ha processato e condannato prima del processo. In relazione alla presunta frase attribuita a Massimo, a maggior ragione, siamo ancora una volta in presenza di una grave violazione delle regole processuali, dando in pasto ai media una frase che è stata estrapolata e della quale al momento questa difesa non ha nessuna contezza. Il pensiero del mio cliente è stato sempre questo: “Non sposso prendermi colpe che non sono mie”, ed è a questo che credo e su cui faccio fede: Bossetti non confessa, perché non ha fatto nulla. Vuole solo dimostrare la sua innocenza».
Le immagini barbare rubate in galera, scrive Astolfo Di Amato su "Il Garantista". Di Bossetti sappiamo ormai tutto. Non solo quale è stata la vita sua e di tutta la sua famiglia. Ma anche cosa pensa, come si muove, cosa fa quando si sveglia, etc. L’unica cosa che non sappiamo è se ha ucciso la povera Yara. E, anzi, più sappiamo di lui e più la verità si allontana e il suo coinvolgimento appare sempre meno giustificato. Oggi veniamo a sapere, perché addirittura trasmessi in televisione, che ci sono i video dei suoi colloqui con la moglie in carcere. Spiato, dunque, per cogliere anche i momenti più intimi della sua esistenza. Una barbarie. La quale trova spiegazione, oltre che in una evidente percezione attenuata del valore delle dignità che spetta a qualsiasi uomo, anche il più indegno, anche nella circostanza che l’accusa si scopre debole. La famosa prova di un Dna scomposto in due parti tra loro incompatibili finisce con l’essere troppo fragile; la devastazione della vita privata del muratore non ha portato risultati apprezzabili; l’esito negativo della ricerca di tracce biologiche di Yara nel furgone è diventata una prova importante a favore di Bossetti. Se, poi, dal caso di Yara si passa a guardare gli altri casi non risolti o non risolti in modo chiaro (basta citare tra gli ultimi il caso Meredith, il caso Scazzi, il caso Poggi, il caso Loris) si deve rilevare un comune denominatore: la inadeguatezza della attività investigativa. Spesso compensata da una vera e propria brutalità nell’uso della carcerazione preventiva e degli altri mezzi di costrizione e dalla pretesa di compensare l’assenza di prove con la fede nelle proprie intuizioni. In alcuni casi, leggendo le decisioni, si ha addirittura l’impressione che chi scrive la motivazione in realtà riversi sul caso, inverandole, alcune proprie pulsioni profonde, che sono sotto controllo e che la necessità di dare un senso alla condotta degli altri consente di fare emergere. Tutto questo ha una spiegazione. Il codice di procedura penale del 1989 ha dato risposta ad una antica e, per molti versi legittima, richiesta della magistratura. Quella di mettere la Polizia Giudiziaria alla diretta dipendenza delle Procure della Repubblica, in modo da evitare che poteri estranei all’ordine giudiziario potessero influire sulle indagini. È così accaduto che il Pubblico Ministero non è più solo il titolare dell’azione penale e, cioè, colui che porta avanti l’accusa, ma anche il capo degli investigatori. Mentre in precedenza riceveva dalla polizia giudiziaria una proposta di accusa e la vagliava per decidere se portarla avanti o no, oggi è colui che guida la polizia giudiziaria, ipotizza l’accusa e decide se portarla avanti. Il sistema, perciò, finisce con l’essere caratterizzato da due profili di criticità. Innanzi tutto ha perso un filtro: prima il pm operava una valutazione di correttezza e di attendibilità della attività della Polizia Giudiziaria. Oggi ne è il capo ed è il protagonista dell’indagine, con la quale si identifica. Non svolge più, dunque, quel ruolo di filtro. In secondo luogo, una attività complessa, quale quella investigativa, è stata affidata a degli incompetenti. Il magistrato è, per formazione, un giurista. Non ha, perciò, gli strumenti concettuali e le categorie logiche necessari per svolgere una attività complessa e specifica come quella investigativa. E, ciononostante, è colui che la dirige, che prende le decisioni, che ne assume la responsabilità. Si tratta di una incongruenza che non sarebbe accettata in nessun altro ambito organizzativo. E’, difatti, di palmare evidenza la inadeguatezza che ne può facilmente derivare, l’incremento dei margini di errore, l’incapacità di leggere appropriatamente i fatti. Si tratta, poi, di una inadeguatezza ancora più accentuata dalla mancanza di separazione tra giudici e pubblici ministeri. Può, difatti accadere (ed accade) che un magistrato che sino al giorno prima ha prestato servizio come giudice civile, il giorno dopo si trovi a svolgere le funzioni di Pubblico Ministero ed a guidare le indagini. È facile immaginare con quanta competenza!
Ecco, allora, come può spiegarsi il ricorso ossessivo a strumenti invasivi della libertà e della vita intima: forme di tortura volte ad ottenere la confessione ed a spiare, se possibile, l’anima. Ecco, ancora, come si spiega la fiducia cieca nei risultati delle indagini scientifiche. Nel momento in cui la filosofia della scienza è unanime nel ripudiare la scienza come fonte di certezze, in sede giudiziaria ci si ostina ad affidare alla scienza, ed alla sola scienza, la soluzione di molti casi. Le incertezze di questo modo di procedere sono sotto gli occhi di tutti. Ed impongono che, tra i tanti problemi che affliggono la giustizia, sia messo all’ordine del giorno anche il recupero di una professionalità investigativa a monte del processo penale.
Tortura e linciaggio a mezzo stampa: così sperano di far confessare Bossetti, scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista”. Massimo Bossetti è in carcere da 126 giorni in custodia cautelare, senza rinvio a giudizio, senza processo. E’ in isolamento, subisce minacce insieme alla sua famiglia, i cui componenti corrono anche il rischio di aggressioni. Se il giudice respingerà nuovamente la richiesta di scarcerazione, vorrà dire che siamo all’interno di un sistema barbaro, che tortura le persone per ottenerne la confessione. Come ai tempi dei processi alle streghe. Poco importa che l’accusato sia innocente o colpevole, quel che conta è che confessi: quel che ha fatto o quel che non ha fatto. Massimo Bossetti, indagato per l’omicidio di Yara Gambirasio, è già vittima: dello Stato che lo tiene prigioniero senza processo, ma anche del circo mediatico-giudiziario che unisce l’antico costume del “velinismo” (giornalisti servili alla Pubblica Accusa) a quello più sofisticato del “voyerismo” (con il sesso si vendono più giornali). Prendi nelle mani il mostro e strizzalo ben bene, lui, sua moglie, sua madre e i parenti di sei generazioni: questa la parola d’ordine che ha guidato in questi mesi grandi e piccoli organi d’informazione. Un’altra forma di tortura, che si aggiunge a quella del carcere (una delle poche eccezioni, la bella intervista di Luca Telese a Marita Bossetti su Matrix). Il capolavoro è arrivato pochi giorni fa, sotto il titolo “Ecco perché Bossetti è colpevole”: Il mistero di una lettera anonima con minacce di morte nei confronti di Bossetti. La lettera è precedente alla sparizione di Yara, e Bossetti ha fatto regolare denuncia. Non c’entra con le indagini, ma intanto la si spara in prima pagina. Il giorno della sparizione di Yara Bossetti era chiuso in un silenzio anomalo. Doveva esserci un carabiniere nascosto in casa sua a controllare il suo umore. C’è un vuoto di giorni nelle telefonate e nei messaggi tra Bossetti e la moglie. Molto sospetto se i coniugi non si scambiano quotidiani bacetti. Il balletto di finte notizie (l’unica seria è quella sul dna di Bossetti, di cui ci sarebbero tracce sui leggins e sugli slip di Yara) ha costellato tutti i 126 giorni, da quel 16 giugno in cui Bossetti fu arrestato. Sull’arresto: Bossetti non ha reagito, è rimasto immobile e muto. Il che è sospetto. Bossetti ha tentato la fuga al momento dell’arresto. Mettetevi d’accordo. E prima ancora, dopo il ritrovamento del corpo di Yara: Bossetti andò nel campo del delitto. C’era mezza provincia di Bergamo in quel campo, in quei giorni. Banale turismo macabro. Una fattura dimostra che Bossetti comprò della sabbia in quella zona. Dal solito fornitore, il che è molto sospetto. Che cosa è successo il giorno del rapimento di Yara: Bossetti andò a lavorare al cantiere e per tornare fece la strada più lunga. Bossetti non andò al cantiere il giorno dell’omicidio di Yara. Spuntano testimoni come funghi. La supertestimone: «L’ho sentita urlare “Lasciami”». I colleghi: Bossetti spesso si assentava dal lavoro. C’è un secondo uomo, forse scappato all’estero. I titolari di centri estetici di Curno, Mapello e Brembate si contendono la presenza di Bossetti nei loro centri abbronzanti. Si dà la sensazione che il carpentiere sia un uomo vanitoso, abbronzato e troppo biondo, sicuramente tinto. Tutti indizi di indole violenta, da killer. Uomo con doppia vita. Bossetti non è l’uomo casa e lavoro che dice di essere. Frequentava locali e aveva una relazione con la conduttrice di un ristorante. Ce n’è anche per sua moglie: Marita Bossetti aveva due amanti. Le testimonianze. E per sua madre: Anche il terzo figlio di Ester Arzuffi non è del marito. La madre di Massimo Bossetti sospettava del figlio. Ampia è la casistica, un vero balletto che riguarda l’auto, il furgone e il computer. Sue questi due argomenti si è scritto di tutto e del suo contrario. Il fratellino: Yara aveva paura di un signore, cicciottello, con una lunga auto grigia. Auto e signore cicciottello presto spariscono dalle indagini. Il furgone girava intorno alla palestra. Il furgone girava intorno alla casa di Yara. Ma nessuno parla della cosa più importante: poiché furgone e auto di Massimo Bossetti sono stati da subito sequestrati e sottoposti a perizia, c’erano tracce del dna di Yara all’interno? Il computer: risulta aver cliccato su notizie relative a Yara (notizia smentita). Risulta un accesso a un sito pedopornografico (notizia smentita). Ha cliccato sia la parola “sesso” che “tredicenni”. Sarebbe accaduto un mese prima dell’arresto, quindi quattro anni dopo il rapimento e la morte di Yara. Se Bossetti fosse colpevole e se queste fossero le “prove” (quella del dna da sola non è sufficiente), ci sarebbe presto un colpevole assolto. Se invece è innocente, qualcuno dovrà pagare per queste torture indegne di un paese civile.
Massimo Bossetti: lo hanno già condannato, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. L’ Italia il 16 giugno di un anno fa si è divisa in due: da una parte chi ha goduto nel vedere le manette ai polsi di Massimo Bossetti, un’altra – piccola, minuscola – che ha lanciato un urlo di orrore: un presunto assassino dato in pasto alla pubblica gogna con l’avallo del ministro dell’Interno. Angelino Alfano infatti, forse forzando anche il volere della procura di Bergamo, disse con gioia, ma contro la Costituzione: «Abbiamo preso l’assassino di Yara». E’ per questa ragione che il processo, che prende il via oggi contro Bossetti, nasce sotto una cattiva stella. La cattiva stella di chi, fin dal primo momento, ha deciso che lui fosse l’assassino, senza presunzione di innocenza, senza nessun rispetto per lo Stato di diritto. Da quel momento in poi, niente è più stato come doveva essere. La vita di Bossetti è stata racchiusa in quelle manette: manette di condanna, manette che hanno esposto la sua vita nella pubblica piazza. I media, in questi dodici mesi, non hanno risparmiato quasi nessuno o quasi nulla della sua sfera privata, travolgendo la moglie, i figli, la madre, la sorella, la quale – non dimentichiamolo – è finita diverse volte in ospedale perché presa di mira da orde giustizialiste. Sarà difficile corregge il tiro, trovare quella serenità e obiettività che il giudice deve avere per affrontare un caso così complesso. Gli occhi dell’Italia che esultano per le manette sono lì che aspettano di vedere Bossetti crollare, di vedere la sua esistenza fatta a pezzettini. Ma c’è anche quell’altra Italia, quella che ha lanciato un urlo di orrore. È una parte piccola, minoritaria, che però esiste e che deve vigilare perché il processo si svolga nel migliore dei modi. È l’Italia che non si vuole sostituirsi ai giudici, ma che pretende che tutto venga fatto secondo giustizia. Oggi, la sfida, che si combatte è anche questa. Quella per un giusto processo nei confronti di Bossetti e in generale per una giustizia che non rinneghi i suoi principi fondamentali. Si è innocenti fino al terzo grado di giudizio. Non se ne dimentichi la pubblica accusa, non lo dimentichi l’opinione pubblica, non lo dimentichino i giornalisti. Ps: Ci piacerebbe che almeno questa volta l’Ordine dei giornalisti vigilasse sul rispetto del codice deontologico da parte dei suoi iscritti.
Il Garante: «Incivile la gogna mediatica allestita per Bossetti», scrive Alfredo Barbato su “Il Garantista”. Due vittime della giustizia da baraccone: Silvio Berlusconi e Massimo Bossetti. Due imputati molto particolari e assai diversi tra loro. Sia per il ruolo che hanno avuto sulla scena pubblica sia per le accuse loro rivolte. Ad accostarli, per il trattamento che l’ex premier e il presunto assassino di Yara hanno subito da parte dei media, è il Garante della Privacy Antonello Soro. Il suo intervento al talk show KlausCondicio, che il giornalista Klaus Davi mette in onda su You Tube, è di quelli destinati a suscitare nuove polemiche. Anche considerato che il tema delle intercettazioni, sollevato dal presidente dell’Authority in particolare per Berlusconi, è di nuovo scomparso dal dibattito pubblico, dopo un breve ritorno di fiamma seguito al caso dell’ex ministro Lupi. «Premesso che non conosco il complesso delle indagini nei confronti di Berlusconi, mi rendo conto però che l’uso delle intercettazioni nei confronti dell’ex premier è stato assolutamente devastante», dice Soro. «Mi riferisco anche a quelle più recenti riversate sui giornali, che non avevano nessun interesse dal punto di vista penale. E, aggiungo, anche ai fini dell’individuazione di un particolare comportamento nei riguardi di un uomo che non riveste alcun ruolo parlamentare, non mi sembravano significative. In Italia esiste un esasperato ricorso alla pubblicazione delle intercettazioni, che considero un aspetto non esaltante del giornalismo di inchiesta», è l’attacco del Garante. A suo giudizio i media dovrebbero piuttosto «filtrare» le intercettazioni «rilevanti e di interesse pubblico» da quelle che invece «non lo sono. Va trovato un punto di equilibrio tra il diritto dei magistrati a intercettare e la pubblicazione delle intercettazioni rilevanti», osserva Soro. Molto severe anche le considerazioni relative al video dell’arresto di Bossetti, reso disponibile dagli inquirenti proprio in coincidenza con l’udienza preliminare, che ha visto il muratore rinviato a giudizio come presunto autore dell’omicidio di Yara Gambirasio: «Prima ancora dell’avvio del vero e proprio processo, il cittadino Bossetti è stato trattato in modo incivile e rappresentato come un mostro in prima pagina. Non spetta ai giornalisti emettere la sentenza usando i ferri di campagna, come accadeva una volta, prima che un processo di civilizzazione avesse trovato una norma che esplicitamente lo vietasse». Resterà difficile da dimenticare quel «cittadino Bossetti», espressione che forse per la prima volta viene pronunciata da un rappresentante delle istituzioni da quando il carpentiere bergamasco è stato arrestato. Antonello Soro risponde anche a una domanda sul rischio che a intercettare le conversazioni private non sia solo la magistratura ma anche la criminalità organizzata: «Mi meraviglierei del contrario, e cioè che la ’ndrangheta non fosse in grado di intercettare mail e telefonate. La criminalità informatica ha assunto dimensioni globali assolutamente straordinarie rispetto solo a quattro anni fa. E, quando la criminalità organizzata trova un filone ricco, è la prima che individua il modo di sfruttarlo», dice il presidente dell’Autorità Garante della Privacy. Che ricorda: «Le organizzazioni criminali utilizzano un’infinità di tecnologie per praticare anche il furto di identità, usandolo come grimaldello per spostare risorse economiche o per demolire il profilo delle persone».
UNA CALIBRO 38 PER I PAROLAI E GLI SCRIBACCHINI.
Era proprio necessario sbattere in prima pagina le vicende della famiglia dell’uomo accusato dell’omicidio di Yara? Oggi nell’era di WikiLeaks la privatezza non esiste più. E i panni sporchi si lavano in televisione, scrive Umbereto Eco su “L’Espresso”. La Bustina scorsa avevo commentato cosa accade in un universo in cui è scomparsa la privatezza e tutti possono sapere che cosa facciamo. Ne avevo concluso che sembra inutile che ci si batta per conservare zone di riserbo quando la tendenza generale sembra essere quella di voler essere visti e sentiti ad ogni costo per avere la sensazione di esistere. La gente non vuole la privatezza, anche se l’invoca. Ora nel caso Yara è accaduto qualcosa di diverso. Qualcuno - e se non gli inquirenti, la stampa o qualche altra fonte - non solo ha detto che il colpevole era Bossetti (il quale, mentre scrivo, è ancora soltanto un “presunto” colpevole), e che la sua colpevolezza era stata scoperta grazie alla prova del Dna, ma che per questa via si era dimostrato che era figlio illegittimo di un tale, che con questo tale la sua signora mamma aveva avuto decenni fa una relazione adulterina, che il marito della mamma non l’aveva mai saputo, aveva allevato Bossetti come figlio suo, e adesso manifestava un’ira furibonda, eccetera eccetera. Subito, dopo la prima eccitazione, si sono levate voci di sdegno: va bene arrestare un colpevole, ma era necessario proclamare col megafono tutto quello che era successo nella sua famiglia, facendo fare una figura sgradevolissima sia alla mamma sia al non-papà, rovinando di fatto una unione coniugale, tirando in ballo ed esponendo alla pubblica gogna persone che col delitto non c’entravano e avrebbero avuto diritto di non vedere esposti in pubblico i soliti panni sporchi? Mea culpa a catena, stampa compresa, che chiedeva scusa di quello che aveva allegramente contribuito a provocare, e ipocriti cenni di consenso da una pubblica opinione che celebrava il trionfo della cosiddetta “schadenfreude” e cioè della libidinosa soddisfazione per la sfortuna o il dolore altrui. Ma ora facciamo una riflessione. Poniamo che gli inquirenti avessero detto che avevano scoperto il colpevole (presunto, ancora al momento in cui scrivo) e che la sua colpa era certificata dalla prova del Dna. E basta. Allora stampa e pubblica opinione avrebbero chiesto come si era arrivati a Bossetti tra le migliaia di persone che vivevano nei dintorni. E poniamo che gli inquirenti avessero risposto: “Questo non ve lo diciamo, almeno sino al processo, se ci sarà.” È facile immaginare che cosa sarebbe successo. Ci saremmo domandati cosa ci celavano magistratura e forze dell’ordine: chi ci diceva che avessero agito bene (o, come si suol dire, “con professionalità”)? L’opinione pubblica, si sarebbe gridato, ha diritto di sapere! È che il pubblico si è abituato con WikiLeaks e con le rivelazioni di Snowden, al fatto che tutto, ma davvero tutto, deve essere pubblico. Il che è giusto sino a un certo punto: certe marachelle pubbliche o private vanno svelate e denunciate ma in principio, perché una macchina statale possa funzionare, i rapporti d’ambasciata e vari documenti governativi debbono poter essere riservati. Immaginatevi se la polizia fosse obbligata a dire: stiamo cercando l’assassino, forse l’abbiamo individuato, lo pediniamo per coglierlo in fallo, si chiama Pinco Pallino e abita in via tale. Pinco Pallino si darebbe alla fuga e non verrebbe mai arrestato. Alcuni progetti devono rimanere segreti, almeno sino a che è essenziale alla loro riuscita (che può essere virtuosa). Ma la perdita della privatezza, specie dopo i fatti WikiLeaks e Snowden, è stata elevata a principio etico e tutti sentono il bisogno che tutto venga detto, sempre, in ogni caso. Pertanto guai se le tristi vicende dei parenti di Bossetti fossero state taciute, si sarebbero accusati gli inquirenti di sordido complotto. E allora di che ci lamentiamo? La mamma di Bossetti, e quello che sino a ieri era ritenuto suo padre, debbono ormai prendere atto che i panni sporchi si lavano in televisione, durante la pubblicità delle lavatrici. Se la perdita della privatezza è arrivata (giustamente) nelle latebre del Dna, non può che trionfare sempre e ovunque. Che ci piaccia o no.
L’avvocato di Bossetti: «Basta sciocchezze tv, così rovinate un uomo», scrive Antonello Micali su "Il Garantista”. A sentire Claudio Salvagni, l’avvocato di Massimo Giuseppe Bossetti, muratore 44enne e padre di tre figli e finora unico accusato dell’uccisione della tredicenne Yara Gambirasio, ogni qualvolta la difesa mette a segno un colpo a suo favore, ecco uscire nuove notizie spacciate come prove o indizi mirabolanti che puntualmente incastrano ulteriormente il proprio assistito e che poi, alla fine, sarebbero meno che indizi. Non un fatto personale della Procura certo, ma il risultato dell’effetto perverso della spettacolarizzazione di queste notizie. Il classico corto circuito media-giustizia tanto dibattuto in questi giorni di ira dello stesso presidente dell’Ordine dei giornalisti Enzo Iacopino, che annuncia misure e contromisure, che tende a celebrare i processi soprattutto in tv, innescando nell’opinione pubblica e forse anche negli stessi inquirenti, anche inconsapevolmente, una pressione che un tempo non c’era. Come non c’erano tutti quei moderni presidi della scienza e della tecnologia che consentono è vero riscontri prima inimmaginabili, ma che si portano appresso anche tutti i limiti di indagini che non dovrebbero mai rinunciare anche ai modelli investigativi classici fatte dalle persone, gli inquirenti, con le persone, gli indagati.
Avvocato, sicuramente lei si riferisce anche all’ultima notizia che vorrebbe che il furgone immortalato nelle telecamere intorno al centro sportivo di Brembate Sopra il giorno della scomparsa di Yara Gambirasio sarebbe proprio quello di Giuseppe Massimo Bossetti. Le perizie della procura che, hanno scomodato pure Iveco, non ci mettono nemmeno il dubbio.
"E cosa proverebbe? A parte il ribadire che io sono ancora della scuola di chi pensa che le prove si formano in dibattimento, il mio assistito ha sempre dichiarato che passava da quelle parti e per vari motivi… insomma ci passava, lo ha ammesso sempre. Insomma era di strada per lui."
Sì ma gli investigatori dicono anche che, a differenza di quanto detto da Bossetti che era passato solo per acquistare delle figurine per i figli, quel giorno avrebbe gironzolato per 50 minuti nella zona…
"Anche questo lo vedremo in tribunale; certo è che se lo dicono avendo a disposizione solo due immagini la vedo difficile. Vede tutti questi casi che finiscono nei talk show hanno in comune che molto spesso vengono veicolate giorno dopo giorno nei vari polpettoni di informazione, elementi che il più delle volte sono destituiti da ogni minimo fondamento, oppure vengono interpretati a favore, di volta in volta dell’accusa (più spesso) o della difesa (si veda ad esempio nel caso del piccolo Loris Stival le notizie che nei primo giorni davano per assodato che il piccole fosse stato oggetto di abusi e che non era vero, ndr). E tutto ciò, sempre prima che questo avvenga nei luoghi deputati dalla legge. E poi spesso non si tratta nemmeno di indizi. D’altronde se non fosse davvero così credo che la procura avrebbe già rinviato a giudizio, e questo non è ancora avvenuto… Ci sarà un perché… Non si è lesinato in tutti questi mesi, con grave danno della tranquillità e dell’immagine di una famiglia ora distrutta, che si aggiunge a quella cui va tutto il mio rispetto della piccola vittima, a spacciare, come prove o scoop che fossero il fatto che Bossetti si facesse le lampade o che nel suo pc si fossero trovate le parole “sesso” o tredicenni”, senza spiegare che è impossibile contestualizzare la ricerca a ritroso; ovvero se i due termini siano stati digitati nel motore di ricerca insieme, in un lasso di tempo enorme tra l’altro… E soprattutto anche da chi… Come anche che sui veicoli in uso al mio cliente non è stato trovato nulla che rimandi alla povera Yara."
Quindi alla fine l’unica prova regina rimane al momento quella del dna rinvenuto sui leggins della povera ragazzina che gli esami hanno detto appartenere a Bossetti?
"Vede anche nel caso del Dna, se si avesse una visione meno distorta e amplificata del caso, si dovrebbe parlare di indizio tuttalpiù. Perché quando ci sono alcuni elementi di dubbio sullo stesso tema come quello avanzato dagli stessi tecnici del Ris non viene data nessuna eco dai media? Mi spiego meglio, non ci sarebbe dubbio sull’appartenenza, ma sul fatto che in un contesto di devastazione (il corpo della ragazza) quella traccia di dna, per quanto piccolissima e unica, sarebbe invece contraddittoriamente “meravigliosa”, perfetta ed abbondante…Quantomeno un’anomalia e che rimanda a certi pensieri… Tipo che la scienza non basta a tutto. E mi auguro che il modello di questa indagine (per i cui sofisticati accertamenti genetici sono stati spesi oltre 7 milioni di euro) non diventi, come auspicato in questi giorni da molti addetti ai lavori, un modello investigativo addirittura europeo… Certo il giro d’affari non mancherebbe. E sarebbe milionario. E guardi che sono uno che non ama la dietrologia."
Beh così si torna al caposaldo finora della vostra difesa sull’argomento: le ipotesi del complotto e della contaminazione del dna per trasporto…. E chi ce l’avrebbe trasportato?
"Al momento non posso dirle altro, sennò dovrei rimangiarmi quanto detto prima, che le prove si formano al processo, fatto in cui credo fermamente e, perché no, anche un possibile effetto “sorpresa”. Il mio compito non è quello di scoprire il colpevole, quello spetta alla procura, bensì quello, nel difendere il mio cliente, di insinuare dubbi al fine di scoprire la verità, qualunque essa sia. Insomma, dopo secoli di civiltà giuridica mi trovo a disagio a dover considerare relativo quello che per noi è un capofermo: l’onere della prova, che secondo la legge è un principio generale secondo il quale chi vuole dimostrare l’esistenza di un fatto ha l’obbligo di fornire le prove per l’esistenza del fatto stesso. Prove, non indizi (anche se molti e supportati dalle moderne tecnologie e dalle esigenze del mainstream mediatico) e spesso nemmeno quelli."
L'avvocato di Massimo Bossetti: "Mi viene voglia di usare la calibro 38", scrive ancora “Libero Quotidiano”. "Che pattumiera, che disinformazione. Pennivendoli, come dice qualcuno. Si parla del nulla dando voce ad emeriti ignoranti (purtroppo per loro ignorano) nonostante qualcuno affermi di aver letto le 60 mila pagine. Disinformazione all’ennesima potenza. Mi viene voglia di usare la calibro 38”. Parole pesantissime, quelle che l'avvocato difensore di Massimo Bossetti, Claudio Salvagni, scrive sulla sua pagina facebook. Le minacce sono rivolte contro il direttore del settimanale Giallo Andrea Biavardi, la criminologa Roberta Bruzzone, Alessandro Dell'Orto di Libero e Giovanni Terzi de Il Giornale. "Che cosa vuol dire, infatti, invocare la calibro 38? Forse l’avvocato Salvagni vuole spararci per farci tacere? La P38, tra l’altro, è diventata tristemente nota negli anni ’70 come l’arma dei terroristi. È proprio con la P38 che furono gambizzati giornalisti e dirigenti aziendali", scrive il direttore di Giallo che ha dato notizia delle minacce sul numero in edicola questa settimana. E continua: "Questo uso delle parole, che viene da un legale, è un vero incitamento all’odio e alla violenza: se qualcuno lo prendesse sul serio? Ecco perché abbiamo deciso di querelare l’avvocato Claudio Salvagni e contemporaneamente di presentare un esposto all’ordine degli Avvocati. A far infuriare il legale, la puntata condotta da Salvo Sottile in cui di parlata della lettera indirizzata da Bossetti a un suo amico. "Come direttore di Giallo ho citato le numerose contraddizioni in cui è caduto il muratore nel corso degli interrogatori, tutte documentate nei corposi faldoni dell’inchiesta, in tutto 60, per un totale di quasi 60 mila pagine. Siamo in possesso, naturalmente, di questo materiale, diventato disponibile da quando è stata chiusa l’indagine e avviato il processo, che riprenderà l’11 settembre prossimo. Leggerle è stato un lavoro lungo e complesso, ma e lo imponeva il dovere di cronisti. Come si può parlare di un caso di cronaca così importante senza “conoscere le carte”? È qui che si parla delle analisi sul Dna, del furgone di Bossetti che viene visto passare dalle parti della palestra, della compatibilità delle fibre del furgone e di una coperta con quelle ritrovate sul corpo della povera Yara.Tanto che sulla base di queste carte per ben otto volte i giudici hanno respinto la richiesta di carcerazione di Bossetti. Ebbene, secondo la difesa di Bossetti pubblicare e citare queste carte è fare disinformazione, da zittire con una calibro 38".
«Mi viene voglia di usare la calibro 38». L’avvocato di Bossetti scatena la polemica. «Che pattumiera, che disinformazione. Pennivendoli, come dice qualcuno. Si parla del nulla dando voce ad emeriti ignoranti (purtroppo per loro ignorano) nonostante qualcuno affermi di aver letto le 60 mila pagine. Disinformazione all’ennesima potenza. Mi viene voglia di usare la calibro 38». Parole pesantissime, quelle che l’avvocato difensore di Massimo Bossetti, Claudio Salvagni, scrive sulla sua pagina Facebook., scrive ”L’Eco di Bergamo”. Parole rivolte contro il direttore del settimanale Giallo Andrea Biavardi, la criminologa Roberta Bruzzone, Alessandro dell’Orto di Libero e Giovanni Terzi de Il Giornale. «Che cosa vuol dire, infatti, invocare la calibro 38? Forse l’avvocato Salvagni vuole spararci per farci tacere? La P38, tra l’altro, è diventata tristemente nota negli anni ’70 come l’arma dei terroristi. È proprio con la P38 che furono gambizzati giornalisti e dirigenti aziendali», scrive il direttore di Giallo che ha dato notizia delle minacce sul numero in edicola questa settimana. E continua: «Questo uso delle parole, che viene da un legale, è un vero incitamento all’odio e alla violenza: se qualcuno lo prendesse sul serio? Ecco perché abbiamo deciso di querelare l’avvocato Claudio Salvagni e contemporaneamente di presentare un esposto all’ordine degli Avvocati». A far infuriare il legale, la puntata condotta da Salvo Sottile in cui si parla della lettera indirizzata da Bossetti a un suo amico. «Come direttore di Giallo ho citato le numerose contraddizioni in cui è caduto il muratore nel corso degli interrogatori, tutte documentate nei corposi faldoni dell’inchiesta, in tutto 60, per un totale di quasi 60 mila pagine. Siamo in possesso, naturalmente, di questo materiale, diventato disponibile da quando è stata chiusa l’indagine e avviato il processo, che riprenderà l’11 settembre prossimo. Leggerle è stato un lavoro lungo e complesso, ma e lo imponeva il dovere di cronisti. Come si può parlare di un caso di cronaca così importante senza “conoscere le carte”? È qui che si parla delle analisi sul Dna, del furgone di Bossetti che viene visto passare dalle parti della palestra, della compatibilità delle fibre del furgone e di una coperta con quelle ritrovate sul corpo della povera Yara. Tanto che sulla base di queste carte per ben otto volte i giudici hanno respinto la richiesta di scarcerazione di Bossetti. Ebbene, secondo la difesa di Bossetti pubblicare e citare queste carte è fare disinformazione, da zittire con una calibro 38» conclude Andrea Biavardi. E Salvagni ribatte via Fb: «Una provocazione espressa sulla mia pagina personale ripresa da organi di (dis)informazione. La si vuole buttare in cacciare (caciara, ndr)... qualcuno comincia ad accorgersi che gli argomenti sono finiti... Facciamo parlare gli scienziati, quelli veri... ancora un po’ di pazienza. Per il resto, grazie della pubblicità... che si sappia l’avv. Salvagni per i suoi assistiti non risparmia certo energie».
Yara, avvocato lascia la difesa di Bossetti: «Posizioni inconciliabili», scrive “Il Mattino”. Uno degli avvocati di Massimo Bossetti, Silvia Gazzetti, indicata d'ufficio il giorno dell'arresto del carpentiere in cella per l'omicidio di Yara Gambirasio, oggi ha rimesso il mandato. I motivi della scelta - si legge tra l'altro in un comunicato stampa - sono le «inconciliabili posizioni rispetto a quelle espresse dal collega» comasco Claudio Salvagni in merito alle scelte difensive. «Preso atto delle inconciliabili posizioni di questo difensore rispetto a quelle espresse dal collega nell'ambito del collegio difensivo del signor Massimo Bossetti - si legge nella nota -, in ordine all'adeguata condotta e alla linea difensiva da sostenere nella piena tutela degli interessi dell'indagato, alla luce delle quali appare ragionevole ritenere non più sussistenti le condizioni idonee a proseguire oltre lo svolgimento di un efficace, proficuo, e sereno patrocinio difensivo e tenuto altresì conto dell'approssimarsi di importanti scadenze processuali, lo scrivente avvocato Silvia Gazzetti ha oggi inteso rimettere il proprio mandato difensivo». Dalle parole usate dalla Gazzetti si evince chiaramente l'esistenza di dissensi non conciliabili con il collega comasco Claudio Salvagni in merito alle scelte difensive nel caso Bossetti.
La calibro 38 dell'avvocato Salvagni fa pensare ma è innocua, la penna e la bocca di giornalai e opinionisti che disinformando massacrano chi ancora deve essere processato è invece letale... eliminiamoli (metaforicamente parlando), scrive Massimo Prati su “Albatros-Volando Controvento”. Occhio ragazzi che in Italia volano diffide e querele a go go. Occhio a come parlate e scrivete, occhio a come usate le metafore e a chi quelle metafore le dovrebbe capire in un modo e invece le interpreta in un altro. Occhio perché se la metafora si riferisce a quei personaggi pubblici che troppo spesso le sparano grosse sugli schermi, per ogni frase detta o scritta ci sarà sempre qualcuno disposto a farvi le pulci, a tradurla per come meglio gli aggrada pur di apparire "il più bello del reame" di fronte alla pubblica opinione. Perché, dovete sapere, se i qualcuno che dalla metafora vengono colpiti sono i giornalisti del facile scoop che pagano una quota al sindacato che li rappresenta, in men che non si dica sui giornali si pubblicherà una nota di protesta in cui sarete dipinti quali "nuovi mostri istigatori". Perché in Italia è così che funziona. Da noi esiste l'ordine dei giornalisti, roba che non si trova in nessun altro paese europeo, roba che da decenni si cerca di chiudere senza però riuscirvi, che in pratica è una lobby di potere che non controlla nulla e salta di palo in frasca a seconda del vento che tira e di chi vi si rivolge. Parlare per parlare, sempre bene (come fa il presidente Iacopino) ma senza far nulla, sono capaci tutti. E infatti del tanto parlare e dei tanti rimproveri ai propri "assistiti" alla fine non se ne fa nulla, dato che nessuno punisce gli sproloqui di tanti iscritti, di chi paga al medesimo ordine una quota annuale, dato che solo a voce si tutela la pubblica opinione, dato che in realtà nessuno fa qualcosa per i lettori e i telespettatori che da tanti giornalisti vengono trattati come animali da allevamento: sempre esposti alla luce artificiale e sempre ingrassati col mangime "raccomandato dai dati d'ascolto e dalle vendite". Nessun controllo equivale a nessuna tutela, a nessuna garanzia di usufruire di quella giusta informazione che da troppi anni è solo un'utopia, una chimera sacrificata sull'altare dell'audience e del facile guadagno. E pensare che basta davvero poco a capire che se in una trasmissione televisiva partecipano quattro colpevolisti e un solo garantista, la "giusta e seria informazione" va a farsi benedire da altre parti. Inoltre, si può dire che sia serio un Ordine che nei comunicati si affida a luoghi comuni obsoleti e li pubblica senza verificare i motivi che hanno portato "qualcuno" a scrivere certe frasi e metafore? Un Ordine che si attorciglia su se stesso ed è capace solo di scrivere fregnacce sapendo bene che col sistema informativo attuale non c'è modo di smentire nulla di quanto vien detto e scritto dai soliti noti? Un Ordine capace di scrivere che se qualcuno chiama pennivendolo un giornalista lo fa perché non sa come ribattere a quanto portato dal giornalista stesso? Ma quale voce tombale o tavolo a tre piedi ha suggerito allo scrivente (che neppure si è firmato) che non si sa come ribattere a quanto dicono i pennivendoli suoi colleghi? Alle frottole non basta forse contrapporre la verità? Oppure vige la legge del "chi urla più forte e si associa al gruppo ha sempre ragione"? No cari signori dell'Ordine, il problema che impedisce di ridicolizzare troppi pennivendoli iscritti al vostro sindacato viene dalla casta che si è formata nei decenni che non permette al cane di mangiar cane. Che non permette di contraddire, usando i giusti tempi e le giuste informazioni, nel momento esatto in cui lo sproloquio viene pronunciato. E' quello l'unico momento in cui si può far capire che il pennivendolo è davvero un pennivendolo perché non racconta la storia per come va raccontata ma per come vuole raccontarla (o per come gli han detto di raccontarla). Voi non fate nulla per salvaguardare la legge e lasciate che tanti vostri associati se ne freghino della presunzione di innocenza e delle persone che massacrano per lucro e non per amor di verità... e questo si che è sconvolgente! Che i giornalisti di partito seguano il colore della loro corrente politica è risaputo. Ma questo in fondo non comporta stravolgimenti mentali dato che ogni italiano è libero di scegliere lo schieramento e il giornale che preferisce, sia di destra che di centro che di sinistra. Ciò che invece stravolge la mente della casalinga o del pensionato che potrebbero finire a fare i giudici popolari in un processo, e appare imbarazzante il fatto che il fenomeno sia in aumento, è che ci siano giornalai che sguazzano fra la cronaca nera come fossero su un lago di gossip e oltre a non fornire giuste informazioni si ergono prima a detective, poi a pubblici ministeri e infine a giudici (popolari e togati) come se avessero il diritto di rovinare chi più gli pare, come se avessero il diritto di presiedere un processo e sentenziare a favore di una colpevolezza da provare solo in un vero tribunale da veri giudici non informati da fonti mediatiche unilaterali. Il tutto in barba alla legge che vuole l'imputato non colpevole fino a sentenza definitiva e in barba alla deontologia che predica, ma non impone a suon di multe, il loro stesso ordine sindacale. Ciò che fa specie è che chi dovrebbe intervenire in pratica non interviene preferendo parlare e poi mettere la testa sotto la sabbia, preferendo pubblicare comunicati prestampati e lasciare che il pus mediatico allarghi la ferita e aumenti l'infezione. Ciò che fa specie è che chi dovrebbe fermare l'emorragia che infetta l'opinione pubblica resta immobile, forse infettato a sua volta, così facendo credere al pubblico che gli intoccabili degli schermi e dei giornaletti siano imparziali e giusti, quando di imparziale non hanno nulla e di giusto hanno solo un buon conto in banca che ad ogni ospitata cresce. Loro, dicono, hanno letto tutti gli atti e maturato un convincimento personale che esprimono pubblicamente. Peccato che ad ogni critica si alterino e si coalizzino per darsi manforte. Peccato che se vengono attaccati, oltre a dimostrare quanto poco ci capiscano della lingua italiana dimostrino anche di avere la coda di paglia. Perché mai quei fenomeni si sentono tirati in ballo quando un avvocato, che non ci sta a subire le angherie dei media senza reagire, professionalmente squalifica i pennivendoli inserendo una metafora sul proprio profilo facebook? Parlo dell'avvocato Claudio Salvagni che dopo alcuni interventi televisivi dei soliti noti ha scritto un post in cui, come da sua abitudine, non si è nascosto dietro il dito dell'ipocrisia ma ha attaccato chi strapazza la cronaca nera dimostrandosi scarso e non preparato per un argomento così delicato. Cosa ha scritto l'avvocato di Massimo Bossetti? Leggiamolo insieme quanto riportato dai giornali: "Che pattumiera, che disinformazione. Pennivendoli, come dice qualcuno. Si parla del nulla dando voce ad emeriti ignoranti (purtroppo per loro ignorano) nonostante qualcuno affermi di aver letto le 60 mila pagine. Disinformazione all'ennesima potenza. Mi viene voglia di usare la calibro 38". A queste affermazioni si sono annunciate querele e denunce e si è squarciato il cielo tirando in ballo i giornalisti gambizzati o uccisi negli anni di piombo (ma quelli erano davvero giornalisti e il paragone con gli attuali pennivendoli che monopolizzano gli schermi per guadagnare trenta denari in più non regge). In pratica, come sono soliti fare in tanti anche in altri ambiti e istituzioni statali, i giornalai della nera si sono nascosti all'ombra dei veri giornalisti che hanno subito la ferocia della storia italiana (senza vergognarsi di paragonarsi a loro) per far credere alla pubblica opinione di avere a che fare con una persona pericolosa, l'avvocato Salvagni, che con le sue parole istiga il pazzo di turno alla violenza quando, invece, i pazzi sono chiaramente quelli che alla frase del legale, frase che avrebbe letto solo chi lo segue su facebook, hanno fatto da eco. Quindi, semmai, le persone pericolose sono gli stessi giornalai per quanto hanno deciso di divulgare a trombe spianate. Loro sono i pazzi che per aumentare lo spessore della notizia e catturare più lettori hanno tradotto la metafora sulla calibro 38 nella maniera pubblicitaria più conveniente, quando la stessa frase si può leggere anche in un modo più soft e convincente. I privi di coda di paglia, i giornalisti seri, poco ci han messo a capire che la calibro 38dell'avvocato, vista la pattumiera in premessa, vista la denuncia sull'ignoranza di tanti pennivendoli e sulla disinformazione, non è stata inserita perché si volevano morti i giornalai e gli opinionisti incapaci. Che metaforicamente serviva solo a far capire che è giunto il momento di eliminare le menti ignoranti e disinformate da una scena mediatica che non meritano. In pratica, certi personaggi andrebbero emarginati dagli editori. Questa la traduzione che più si addice alla personalità dell'avvocato Salvagni, alla metafora che ha esternato e che i soliti noti con la coda di paglia si son sentiti cucire addosso. L'avranno capita secondo voi? No, visto che sentendosi parte in causa hanno preferito non cercare un altro mestiere (per alcuni sarebbe più consono aprire un bar - in società - con un palo al centro dove si possano fare qualche struscio di lap dance e tante chiacchiere) e dare un senso diverso a una frase che se ignorata sarebbe rimasta in ombra e mai entrata nel circuito mediatico. Ma alla calibro 38 si doveva dare massima visibilità per poter continuare a fare quanto i soliti noti sono abituati a fare: "vendere la loro verità un tanto al chilo". Infatti il settimanale della Cairo Editore ha postato la "notizia" in copertina sotto la scritta "sconvolgente". Sconvolgenti sono altre cose molto più gravi. Sconvolgente è il mestiere che rovina la vita altrui e che alcuni per guadagnare più denari si sono inventati. Sconvolgente è vendere l'informazione che non è informazione pubblicizzandola come fosse Zimil... senza però dire che il prodotto non contiene lattosio. Faccio un esempio di come venga stravolta una non notizia e pubblicizzata per essere venduta un tanto al chilo. Per farlo mi baso sul settimanale che ritocca i personaggi con Photoshop. Parlo del settimanale che in copertina dice una cosa, la copertina la vedono tutti quelli che passano accanto a un'edicola (anche chi non compra nulla), mentre al suo interno ne scrive un'altra. Parlo del settimanale che chiama gli imputati col nome di battesimo, quasi che sia nata un'amicizia fra il massacrato e il director Andrea Biavardi - l'uomo messo dal presidente del Torino Calcio a dirigere un settimanale di cronaca nera dopo avergli fatto fare esperienze cartacee appropriate con mensili del calibro di Men's Healt, For Men Magazine, In Viaggio, Natural Style, Airone... ed esperienze televisive con apparizioni in "Il Campionato dei Campioni" (in cui giornalisti tifosi discutono di partite di calcio). A ferragosto bastava una rapida occhiata alla copertina per venire a sapere che tutti in Italia sono colpevoli a prescindere dai processi ancora da celebrare e, anche, dalle accuse ancora da formalizzare. Ad esempio:
1) Sulla copertina era scritto che altre due telecamere di Santa Croce Camerina accusavano Veronica Panarello.
2) che Michele Buoninconti aveva aggredito le guardie penitenziarie in carcere.
3) che il marito di Eligia Ardita, la donna incinta di otto mesi morta a Siracusa, era indagato per la morte della moglie.
La copertina l'ho vista di fronte a un'edicola mentre passeggiavo sul lungomare di Rimini. Era in bella vista e ha attirato la mia attenzione e quella di tanti altri. Quando son tornato a casa ho verificato le notizie notando quanto pesasse in termini pubblicitari.
1) Delle altre due telecamere di Santa Croce che accusano Veronica Panarello non si sa nulla. Se si parla di due nuove telecamere occorre dire quali siano e dove siano. Occorre dire quali orari sono stati visionati... perché nell'articolo di questi particolari non se ne parla?
2) Come sarebbe a dire che Michele Buoninconti ha aggredito le guardie penitenziarie in carcere, se nell'articolo dello stesso settimanale è scritto che "i poliziotti hanno segnalato una serie di frasi offensive e comportamenti scorretti che il detenuto avrebbe tenuto nei loro confronti. I reati che gli vengono contestati, nello specifico, sono oltraggio a pubblico ufficiale e resistenza (e non l'aggressione). Gli insulti agli agenti sarebbero scattati in particolare quando Michele ha visto che ad attenderlo all'uscita del tribunale c’erano molti fotografi e telecamere. Secondo le indiscrezioni (di chi?), Buoninconti avrebbe accusato gli uomini della Polizia Penitenziaria di avergli teso una trappola (quindi il fatto non è accaduto neppure in carcere ma all'uscita del tribunale)".
3) La notizia è stata pubblicata ad agosto, come fosse nuova, ma il marito di Eligia Ardita era iscritto sul registro degli indagati già da giugno. Perché evidenziare una notizia vecchia come se fosse nuova? Cosa si è cercato di fare?
Insomma, come si evince facilmente la copertina pesa più degli articoli. Da qui le notizie un tanto al chilo, dato che un settimanale lo si acquista non per quello che è scritto al suo interno ma per quanto si vede in copertina. E se la copertina pesa molto, poco di meno pesano la seconda e la terza pagina, quelle più facili da sfogliare all'acquisto. In queste si trovano anche le lettere spedite dai lettori. E a mio parere sarebbe bello che la signora Marina Bareggia di Monza si facesse viva per dimostrare la sua identità o che la redazione del settimanale ci mostrasse la busta, con il relativo francobollo timbrato, che conteneva la sua lettera. Perché lei è la persona che a pagina tre si è lamentata di chi difende gli assassini (tutti colpevoli anche a parer suo in Italia), ma allo stesso tempo pare essere un fantasma spuntato dal nulla, dato che a Monza esiste un paese che si chiama Bareggia ma non vi risiedono persone che di cognome fanno Bareggia (cognome sconosciuto in tutta Italia). Naturalmente c'è anche la possibilità che chi lavora per quel settimanale sia poco professionale. Sia chi scrive sia chi controlla gli scritti. Che qualcuno abbia sbagliato a digitare e che la signora Marisa viva a Bareggia, in provincia di Monza, ma abbia un cognome completamente diverso. Non si può escludere dato che nello stesso numero la dottoressa Vera Slepoj a pagina due risulta essere una psicanalista. Ma che importa la professionalità. Che valore ha di fronte al dio denaro che ha voluto far vincere a Massimo Bossetti il premio fedeltà della truppa di Biavardi e Cairo? Infatti il carpentiere nel 2015 è apparso sulla copertina (pesante) del settimanale in ben trenta pubblicazioni su trentacinque. Pur di vendere il prodotto, su di lui e sulla sua famiglia si è scritto di tutto e questi scritti orrendi hanno generato profitti in gran quantità all'editore. Oramai la mente di chi vi lavora si è modificata e mai cambieranno il loro stile di pensare. Per cui è impossibile far capir loro che esistono le metafore, come la calibro 38 usata dall'avvocato e di sicuro intesa a far cambiare lavoro a chi per guadagnare in copertina spara "palle" che uccidono l'informazione. Urbano Cairo, l'editore del settimanale, parlando dei dieci anni di presidenza del Torino Calcio oggi ha ammesso che nel passato ha sbagliato a fare certe scelte, ad acquistare certi giocatori (famosi ma che si son mostrati solo figurine) e ad allontanare certi allenatori per assumerne altri. Purtroppo sbagliando le scelte ha gettato soldi al vento... ed è uno parsimonioso il signor Cairo. La Terra come si dice è tonda... e chissà, magari fra qualche anno le cose cambieranno e ci sarà qualche innocente assolto in cassazione che querelerà tutti i pennivendoli e gli opinionisti che l'hanno massacrato e tutte le case editrici che hanno permesso il massacro. A partire da Mediaset per finire alla Rai e arrivare al signor Cairo, al suo direttore e ai suoi collaboratori. Chissà, magari ci sarà anche un giudice che imporrà alla Cairo Editore di pagare cinquanta o cento milioni di euro per quanto di orrendo scritto negli anni. E chissà... forse in quei giorni i denari perduti faranno venir la voglia, al signor Cairo e a tanti altri editori, di usare la metafora della calibro 38 usata anche dall'avvocato Salvagni...
Massimo Bossetti. Come lanciare nuovi stimoli mediatici e testare le risposte della pubblica opinione così da farle fare quel che si vuole quando si vuole..., scrive Gilberto Migliorini su “Albatros Volando Controvento”. Secondo una certa giustizia sarebbe spettacolarizzazione quella di un sistema video audio che documenta le fasi di un processo (che consentirebbe a tutti di verificare la rispondenza degli atti con le regole formali e le garanzie del testo costituzionale). Strano paese il nostro che sembra aver dimenticato le regole nate dall’antifascismo e vorrebbe mettere il bavaglio all’informazione documentale, dove non si tratta di opinioni magari mantecate con tanta aria fritta e invenzioni dell’ultima ora spacciate per scoop, ma di fornire hic et nunc quello che accade in un processo. Una notifica dove tutti possano verificare che non c’è trucco e non c’è inganno, e che tutto si svolge alla luce del sole, secondo quei criteri dove la logica la faccia da padrone e non le suggestioni spacciate per indizi, non l’emotività che è in grado di obnubilare la mente di un’opinione pubblica assuefatta agli slogan e alle veline. La protesta dei cronisti per le riprese come diritto all'informazione non solo è sacrosanta, ma è il minimo per poter dire che siamo ancora in uno stato di diritto, considerando poi che sul caso in questione molta stampa si è sbizzarrita in acrobazie dal sapore surreale, con invenzioni e resoconti giornalieri che avrebbero dovuto come al solito inchiodare l’imputato. Neppure nella vedova di Norimberga c’erano tanti chiodi quanti quelli che sarebbero stati inflitti al muratore di Mapello e che per inciso sembrano più che altro bullette da calzolaio spacciate per chiodi da carpentiere...Nel Bel Paese sembra essere in atto un tentativo autoritario, uno di quelli che nella storia italiana ricorrono a cadenza regolare soprattutto quando avvengono trasformazioni che incidono in profondità nel tessuto sociale, momenti di crisi di identità e travaglio nei valori, nelle scelte e soprattutto nei modelli socio-economici, quando il politico di turno più che da rappresentante eletto la fa da padrone, quel dux al quale noi italiani siamo assuefatti e del quale ci sentiamo spesso perfino lusingati, sia che si tratti di un capo politico o religioso, sia che rappresenti un’autorità scientifica e culturale con tutti i crismi del dogma o del verbo infallibile… Le istituzioni come al solito si stringono attorno ai privilegi di quei pochi che tirano le fila e vorrebbero che il Paese fosse soltanto un esercito di zombi ben addestrati a fornire sempre la risposta appropriata e a credere al ritratto immaginario, instillato mediaticamente, di popolo sagace, dismagato e aggiornato. Si lusinga l’italiano, quello bene (dis)informato, che ha capito tutto e che nessuno mena per il naso… anche quando vien preso regolarmente per i fondelli. Il processo a un muratore diventa per alcuni un tentativo per imprimere una svolta ‘autorevole’ alla società rivendicando la propria egemonia e un potere discrezionale senza contraddittorio, considerando la democrazia come puro formalismo per allocchi, la bella retorica per gonzi da proporre come carnevale con coriandoli e stelle filanti. È una kermesse con tanta retorica e colpevoli da dare in pasto all’opinione pubblica, un po’ come quei giochi circensi con i gladiatori e le bestie feroci: e una plebe che evade (mentalmente) tra la partita della squadra del cuore, il gossip su letterine e subrettine con l’articolo a tergo (lato b) e il classico colpevole a fare da valvola di sfogo per la frustrazione e la delusione di un paese sull’orlo di una crisi di nervi. La Grecia è vicina, e forse è il caso di cominciare a preparare i nuovi modelli comunicativi, testandone l’efficienza argomentativa e modulandoli secondo una retorica sperimentata sul campo. Si tratta anche di conoscere i fiancheggiatori più fedelmente addomesticati, sui quali si possa contare alle bisogna, che sappiano tirare di fioretto (e con la clava se serve). L’obiettivo è una informazione ben congegnata, al passo coi tempi e per meglio addormentare gli ignavi che fanno da popolo bue. Però nel Bel Paese nonostante quel conformismo tipicamente da cervelli nella vasca, sta anche montando la consapevolezza riguardo al caso Bossetti che la vicenda puzza, sì fieramente, di persecuzione nei confronti di un uomo che ha come unica colpa di essere fin troppo normale, lavoratore e buon padre di famiglia, uno preso a far da attore principale nella fiction, anche se non sembra avere proprio il ‘physique du rôle’. Nell’opinione pubblica, palude che 'l gran puzzo spira - solitamente più distratta dal gossip e dallo stereotipo evasivo - sta crescendo il sospetto e la consapevolezza che sia in atto un palese tentativo di trasformare il carpentiere di Mapello in un capro espiatorio, comodo per annacquare altre problematiche e mettere una pezza a errori madornali e inconfessabili. L’uso della stampa di regime è così smaccatamente di parte nell’utilizzo di informazioni taroccate - e nel fare da cassa di risonanza alle stronzate più assurde e inverosimili - che perfino molti colpevolisti cominciano ad avere un conato di vomito proprio all’apice del piacere (sembra che il disturbo talvolta accada anche in fase di orgasmo). È il dubbio che si sia un po’ esagerato nel copione, con una retorica da trombe e tromboni, e che la trama alla fine ricordi un romanzo di Victor Hugo o di Alexandre Dumas. Che si tratti di Jean Valjean o di Edmond Dantès, insomma si comincia a realizzare che il troppo storpia e che hanno esagerato montando quisquiglie e pinzillacchere e tirando in ballo adulteri e tradimenti come se si trattasse non di un delitto, ma del sequel dell’ultima telenovela televisiva, una di quelle dove i personaggi sembrano cavati fuori da un album dei fumetti, da un romanzo da cappa e spada, o addirittura da una slapstick comedy dove si scivola su una buccia di banana e si sbatacchia. È stata costruita una pseudo-commedia dell’arte con tante arlecchinate che perfino il pubblico di bocca buona le comincia a considerare di cattivo gusto. Si è allestito un copione alla Buster Keaton e alla Harold Lloyd, una sceneggiatura alla Chaplin e alla Stanlio e Ollio, unoscript alla Ridolini dove la gag finisce con quelli delle torte in faccia. Può sembrare assurdo, ma a fronte del tragico e orrendo omicidio di una povera ragazza si è costruita - a proposito del muratore di Mapello - una storia inverosimile che sembra più umoristica e caricaturale che tragicamente orribile. Anche quelli che di solito non fanno una piega quando si tratta di dargli all’untore e gridare al linciaggio, cominciano a chiedersi se il confine del tragico si sia a tal punto superato da cadere prima nel grottesco e poi nel comico. La storia ricostruita dalla procura con l’aiuto di tanta stampa servizievole e ben istruita sembra quella di un personaggio fantozziano alla Paolo Villaggio, messo di fronte alle traversie più assurde e inverosimili, surreali come giustamente si è espresso l’imputato che assiste impotente alle proprie avversità. Perfino i più accaniti cominciano a interrogarsi se per caso non ci sia una bella regia e che proprio a loro tocchi il ruolo di comparse, di quelli che vanno a gridare sotto al patibolo già eretto e virtualmente collaudato. A fronte delle inefficienze e dello sperpero di denaro pubblico in un’indagine senza capo né coda e dalle conclusioni campate in aria, il caso Bossetti serve anche come diversivo e surrogato per quella parte dell’opinione pubblica che è più sensibile all’informazione addomesticata da tanti media spazzatura. Si scommette su una audience incapace di vedere e riconoscere i giochi di prestigio di un’informazione abilmente pilotata. Il potere si traveste da giustiziere per dimostrare che fa sul serio nel riportare il paese in carreggiata. È il segno di una svolta autoritaria, di un sistema di controlli sempre più invasivi su tutti quelli che non sono abbastanza omologati? Un modello istituzionale dai formalismi inespugnabili e che fa della democrazia un semplice gioco di ruolo? I banali casi giudiziari non sono mai da sottovalutare, sono sempre la cartina al tornasole della salute di un sistema, delle sue storture e dei suoi inganni. Lo è stato il caso di Gino Girolimoni in epoca fascista, lo è stato il caso Tortora (e altri di minore impatto mediatico) e lo è il caso Bossetti che forse entrerà nella storia del nostro Paese con risvolti e implicazioni che ancora non siamo in grado di valutare in tutta la loro rilevanza e in tutte le loro implicazioni sociali, culturali e politiche. Per certo il caso del muratore è una radiografia dello stato del Paese - dal punto di vista dell’epistemologia giuridica - e rappresenta perfino una sorta di proiezione rappresentativa di come saremo, del ruolo sempre più importante che l’informazione concretizza nel plasmare credenze, valori e atteggiamenti di una società sempre più indottrinata e pianificata scientificamente. Il caso in parola è in certo senso un esperimento dove trova posto quella capacità del sistema di assegnare quei rinforzi positivi e negativi atti a orientare l’opinione pubblica con il condizionamento operante skinneriano. Il caso Bossetti, nonostante molti storcano il naso per l’eccessivo clamore dato alla vicenda, rappresenterà comunque un indirizzo per il futuro del nostro paese e le sue istituzioni. C’è da augurarsi nel senso di una maggiore consapevolezza da parte dell’opinione pubblica dei meccanismi occulti che ne influenzano le scelte e i valori.
Il super-Pm sbotta: «Giudici, ora basta», scrive l'11 maggio 2015 Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Lo sapete tutti che nei manuali di giornalismo c’è scritto che una notizia è notizia quando l’uomo morde il cane, e non viceversa. Beh, stavolta è ancora più notizia: è il magistrato che morde il magistrato. Cosa mai vista, finora. E il magistrato in questione non è un tizio qualunque, ma è il Procuratore di Torino Armando Spataro, anni 67, carriera lunghissima, sempre impegnato in indagini molto delicate, prima la lotta al terrorismo di sinistra, nei primi anni ottanta, poi l’antimafia. Spataro è un’icona di coloro che amano i Pm. Duro, rigoroso, burbero, cattivo, non sorride mai. Uno sceriffo. E uno che parla chiaro, non si nasconde, te le grida in faccia. A occhio non è proprio il tipo del magistrato garantista. Ed è difficile trovare qualche sua frase di simpatia per i garantisti. Beh, ieri Spataro è andato a parlare nella tana del nemico, e cioè a un convegno organizzato dalla camere penali del Piemonte, e ha pronunciato una requisitoria delle sue, ma stavolta contro i suoi colleghi. Spataro ha tuonato contro i magistrati protagonisti, i magistrati presunti “eroi”, i magistrati moralisti, i magistrati maestri di storia, i magistrati faziosi, i magistrati narcisi eccetera eccetera. Ha messo nel mirino (senza mai nominarli) Ilda Boccassini, Vittorio Teresi, Antonio Ingroia, Antonio Di Pietro (ma anche Borelli, D’Ambrosio e Colombo) forse anche Pignatone, sicuramente, e con durezza, il ministro Alfano. E poi ha disintegrato l’immagine dei giornalisti giudiziari, accusandoli di pigrizia e scarsa professionalità (ma anche un po’ di servilismo…). Ha pronunciato un discorso simile agli articoli che su questo giornale scrive Tiziana Maiolo…I casi sono due. O prendiamo questo sfogo di Armando Spataro come una boutade (o come semplice espressione della lotta interna tra le correnti della magistratura); oppure lo prendiamo sul serio ed esaminiamo una a una le cose che lui ha detto e immaginiamo che forse si è arrivati – nella vicenda del potere sempre più grande in mano alla magistratura – a quel punto di rottura che provoca reazioni, discussioni, dubbi, e che forse può portare a una inversione di tendenza. Speriamo. Naturalmente è chiaro che alcuni degli attacchi di Spataro possono essere effettivamente letti all’interno della lotta tra correnti della magistratura. Spataro ce l’ha sempre avuta con “Magistratura Democratica” e oggi gli tira un po’ di frecce avvelenate. Così come è noto che Spataro non ha mai amato la Boccassini, che addirittura una volta fece pedinare degli indagati sui quali stava indagando, appunto, Spataro, che la prese molto male. Ed è anche noto che Spataro non ama il ministro Alfano e perciò – come vedrete – lo espone a impietosi paragoni con ministri dell’Interno del passato (Virginio Rognoni, in particolare) e lo maltratta in tutti i modi. Detto ciò, vediamo quali sono i sassolini che Spataro si toglie dalla scarpa. Trascrivendo pari pari le frasi che ha pronunciato a Torini, senza cambiare una virgola. «E’ una fortuna che sia finita l’era di mani pulite e l’era di Di Pietro. Rammento i giornalisti a frotte dietro i pubblici ministeri nei corridoi, e devo dire che alla fine qualche collega era più convinto dell’importanza della notizia in prima pagina che non dell’esito del processo…«Badate che non sto contestando il diritto e il dovere del magistrato di intervenire nel dibattito civile. E’ giusto che intervenga. Senza però dare alcun segnale di dipendenza o vicinanza politica…«Vi faccio qualche esempio di protagonismo non virtuoso: c’è un magistrato che a Palermo, dopo aver letto una sentenza che disattendeva le sue conclusioni, disse che se lui fosse stato un professore avrebbe dato quattro meno al giudice che aveva fatto quella sentenza (e qui si riferisce al dottor Vittorio Teresi, coordinatore del pool antimafia della Procura di Palermo, il quale pronunciò quella frase infelice commentando la sentenza del processo Mori, ndr); poi c’è chi ha detto che il Csm avrebbe dovuto valutare, al fine di designare il nuovo procuratore capo di Palermo, il grado di condivisione dei candidati con l’impostazione del processo sulla trattativa Stato mafia (e qui si riferisce ancora a Teresi, ma anche a Ingroia e più in generale a tutti i Pm che fanno capo all’ex Procuratore di Palermo De Matteo, ndr). Mi sembra una impostazione inaccettabile». «Poi c’è il caso di quei pubblici ministeri che a distanza di 20 anni dall’inizio dei processi di mafia al Nord, dicono: “Finalmente arrivo io e indago sulle infiltrazioni di mafia al Nord”, oppure che continuamente fanno riferimenti a entità esterne, ai poteri forti…Il vizio più pesante della magistratura è la tendenza a porsi come moralisti, come storici, cioè pensare che tocca ai magistrati moralizzare la società e ricostruire un pezzo di storia». «Non sopporto più i colleghi che si propongono come gli unici eroi che lottano per il bene, mentre tutto attorno c’è male, e loro sono una sorta di Giovanna D’Arco, e sono alla continua denuncia dell’isolamento nel quale si trovano. Ma l’isolamento del magistrato non ha niente di eccezionale, è una condizione tipica del nostro lavoro. Non sopporto quelli che vanno in piazza per raccogliere firme di solidarietà». «Se si dovesse fare una riforma della Costituzione, vorrei che fosse inserita una norma che prevede l’indipendenza della stampa dal potere politico. Anni fa feci un viaggio negli Stati Uniti e chiesi al Procuratore federale di Chicago come facessero a mantenere l’indipendenza visto che sono nominati dal presidente degli Stati Uniti. Lui mi rispose: «Ma qui c’è la stampa», alludendo al ruolo della stampa e alla sua assoluta indipendenza. In Italia invece abbiamo degenerazioni di ogni tipo: magistrati che sfruttano il processo famoso per curare la propria icona, avvocati che tendono a trasferire il processo in Tv per auto-promuoversi, giornalisti che non cercano riscontri ma inseguono misteri, e ministri che inseguono slogan e telecamere. «Quando arrestammo Mario Moretti, il capo delle Br, non potrò mai scordarmi che mi telefonò l’allora ministro dell’Interno (Virginio Rognoni ). Avevo 31 anni, mi emozionai ( in verità ne aveva 33…anche lui bada un po’ alla sua immagine e si cala l’età…peccato veniale…, ndr). Il ministro mi chiamò per dirmi: “lei sa quanto è importante per noi diffondere la notizia dell’arresto di Moretti, ma deve essere lei a dirmi che posso farlo, perché prima vengono le indagini”. Oggi avviene esattamente il contrario: notizie di operazioni contro il terrorismo internazionale vengono diffuse prima ancora che si realizzino, abbiamo notizie che vengono riprese senza alcun potere critico da parte della stampa, ad esempio quella sui terroristi che arrivano sui barconi dei migranti in Sicilia. Veicolare questa informazione interessa alla politica: possibile che non ci sia nessun giornalista che scriva che questa cosa non sta né in cielo né in terra?…» Questa è la sintesi del discorso di Spataro. Non mi è mai capitato di parlare bene di Spataro…Però questi suoi ragionamenti, se fossero ripresi da qualche altro Pm, potrebbero essere un punto di partenza per una discussione seria, no? Del resto sono convinto che la possibilità di fermare l’aggressività politica della magistratura (e del patto di ferro tra magistratura e giornalismo) , oggi esiste solo se la critica parte dall’interno della magistratura.
Gherardo Colombo: "Io, magistrato pentito, non credo più nella punizione". Il modello possibile della giustizia riparativa. Rispetto a un sistema che non riconosce le vittime e che crea solo inutile sofferenza. Rendendo più insicura la società. Ma i politici hanno un solo cruccio: aumentare le pene. Come nel caso - "fuori luogo" - dell'omicidio stradale. Parla il grande giudice e pm, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Gherardo Colombo: «Questa donna ha ragione. E va ascoltata. Perché se oggi il carcere svolge una funzione, è la vendetta». Prima giudice, poi pubblico ministero in inchieste che hanno fatto la storia d’Italia come la Loggia P2 o Mani Pulite, Gherardo Colombo ha messo profondamente in discussione le sue idee: «Ero uno che le mandava le persone in prigione, convinto fosse utile. Ma da almeno quindici anni ho iniziato un percorso che mi porta a ritenere errata quella convinzione».
Da uomo di legge, la sua è una posizione tanto netta quanto sorprendente.
«È concreta. I penitenziari sono inefficaci, se non dannosi per la società. Anziché aumentare la sicurezza, la diminuiscono, restituendo uomini più fragili o più pericolosi, privando le persone della libertà senza dare loro quella possibilità di recupero sancita dalla Costituzione. Esistono esempi positivi, come il reparto “La Nave” per i tossicodipendenti a San Vittore, o il carcere di Bollate, ma sono minimi».
Molti dati mostrano la debolezza della rieducazione nei nostri penitenziari. Ma perché parlare addirittura di vendetta?
«Credo sia così. Pensiamo alle vittime: cosa riconosce la giustizia italiana alla vittima di un reato? Nulla. Niente; se vuole un risarcimento deve pagarsi l’avvocato. Così non gli resta che una sola compensazione: la vendetta, sapere che chi ha offeso sta soffrendo. La nostra è infatti una giustizia retributiva: che retribuisce cioè chi ha subito il danno con la sofferenza di chi gli ha fatto male».
Esistono esperienze alternative?
«Sì. In molti Paesi europei sono sperimentate da tempo le strade della “giustizia riparativa”, che cerca di compensare la vittima e far assumere al condannato la piena responsabilità del proprio gesto. Sono percorsi difficili, spesso più duri dei pomeriggi in cella. Ma dai risultati molto positivi».
Se questa possibilità è tracciata in Europa, perché un governo come quello attuale, così impegnato nelle riforme, non guarda anche alle carceri?
«Nei discorsi ufficiali sono tutti impegnati piuttosto ad aumentare le pene, a sostenere “condanne esemplari”, come sta succedendo per la legge sull’omicidio stradale - una prospettiva che trovo quasi fuori luogo: quale effetto deterrente avrebbe su un delitto colposo? Ma al di là del caso particolare, il problema è che i politici rispondono alla cultura dei loro elettori. Il pensiero comune è che al reato debba corrispondere una punizione, che è giusto consista nella sofferenza. Me ne accorgo quando parlo nelle scuole del mio libro, “Il perdono responsabile”: l’idea per cui chi ha sbagliato deve pagare è un assioma granitico, che solo attraverso un dialogo approfondito i ragazzi, al contrario di tanti adulti, riescono a superare. D’altronde il carcere è una risposta alla paura, e la paura è irrazionale, per cui è difficile discuterne».
È una paura comprensibile, però. Parliamo di persone che hanno rubato, spacciato, ucciso, corrotto.
«Ovviamente chi è pericoloso deve stare da un’altra parte, nel rispetto delle condizioni di dignità spesso disattese nei nostri penitenziari. Ma solo chi è pericoloso. Ed è invece necessario pensare fin da subito, per tutti, alla riabilitazione. Anche perché queste persone, scontata la condanna, torneranno all’interno di quella società che li respinge».
Luigi Manconi: "Aboliamo il carcere". Inefficace, costoso e violento. Per questo il sistema penitenziario va cambiato. Le proposte in un libro appena uscito, continua Francesca Sironi. Primo: il carcere È inutile, perché sette detenuti su dieci tornano a compiere reati. Secondo: le galere non esistono da sempre. Terzo: le celle sono violente. Cambiare l’esecuzione della pena in Italia è l’obiettivo di un libro implacabile scritto da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, appena pubblicato da Chiarelettere con il titolo: «Abolire il carcere, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini». Il volume raccoglie dati, storie e notizie su torture, recidiva, costi assurdi, sbagli e omissioni di un sistema che restituisce alla collettività criminali peggiori di quelli che aveva rinchiuso. Da questa analisi, scrive Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, emerge come «la pena si mostri in carcere nella sua essenzialità quale vera e propria vendetta. E in quanto tale priva di qualunque effetto razionale e totalmente estranea a quel fine che la Costituzione indica nella rieducazione del condannato». Per questo gli autori propongono dieci riforme possibili. A partire dall’idea che «il carcere da regola dovrebbe diventare eccezione, extrema ratio», come sostiene il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nella postfazione.
E l'ex procuratore disse: "Basta con la gogna". Piero Tony, per 45 anni magistrato (e dichiaratamente di sinistra), scrive un libro che è un durissimo j’accuse contro il populismo giudiziario, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. «Non ce la facevo più. Non potevo andare avanti in un mondo divenuto surreale, dove ogni giorno vedevo cose che non avrei mai voluto vedere. Così nel luglio 2014 ho preferito andarmene, a 73 anni, due in anticipo sulla pensione. E ora lancio questo tricche-tracche, un mortaretto in piccionaia». Sorride, Piero Tony. Ma non è un sorriso rassicurante. Per 45 anni magistrato, da ultimo procuratore della Repubblica a Prato, Tony ha appena pubblicato un libro, Io non posso tacere (Einaudi, 125 pagine, 16 euro) e non è affatto un mortaretto: anzi, è una bomba atomica. Che in nome di un ineccepibile garantismo devasta, spiana, annienta tutte le parole d’ordine del populismo giudiziario. È tanto più potente, la bomba, in quanto a lanciarla è un serissimo, autorevolissimo ex procuratore che per di più è stato a volte definito «uomo di sinistra estrema»: per intenderci, uno che nei primi anni Ottanta s’è iscritto a Magistratura democratica e non ne è mai uscito.
Qualche frase del libro?
«È ovvio che molti magistrati giochino spesso con i giornalisti amici per amplificare gli effetti del processo: purtroppo, quando un pm è politicizzato, può utilizzare questo strumento in maniera anomala. Funziona così, negarlo sarebbe ipocrisia».
Ancora?
«Con la Legge Severino la politica ha delegato all’autorità giudiziaria il compito, anche retroattivamente, di decidere chi è candidabile e chi no a un’elezione». Continuiamo? «L’obbligatorietà dell’azione penale è una simpatica barzelletta». Non vi basta? «Spesso si sceglie di mandare in gattabuia qualcuno, evitando altre misure cautelari, per far sì che paghi comunque e a prescindere».
Dottor Tony, lei lo sa che non gliela perdoneranno, vero?
«Il libro è intenzionalmente provocatorio. Perché vorrei sollecitare la discussione su una situazione che con tanti altri ritengo insostenibile, ma di cui si parla solo in certe paraconventicole. Nei miei 45 anni di professione ho visto una giustizia che è andata sempre più peggiorando: mi riferisco ai frequenti eccessi di custodia cautelare, ai rapporti troppo familiari tra alcuni pm e i mass media, e alla conseguente gogna, sempre più diffusa e intollerabile».
Lo sa che rischia attacchi feroci, vero?
«Amo troppo la magistratura per avere paura di rischiare. E poi qualcuno deve pur dirlo che non è accettabile quella parte della giustizia che opera disinvoltamente rinvii di anni; che spiffera ai quattro venti le intercettazioni; che pubblica atti e carte in barba a tutti i divieti; che lancia inchieste fini a se stesse, che partono in quarta per poi sgonfiarsi; che anticipa le pene con misure cautelari «mediatizzate»».
Lei scrive che le correnti sono come partiti, e che «nel Csm si fa carriera soprattutto per meriti politici». Ma si rende conto di quel che rischia?
«Certo che me ne rendo conto, ma è così: le correnti oggi non sono lontane dalla compromissione politica. Sarebbe molto meglio che i membri togati del Csm fossero scelti per sorteggio. Qui ormai si fa carriera quasi solo con l’appartenenza, con criteri di parte. Io non riesco a criticare chi sostiene che con una magistratura così esista il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. Ed è un dramma, negarlo sarebbe follia».
Lo dice lei, per una vita iscritto a Magistratura democratica?
«Nei primi anni Ottanta, almeno lì dentro, si respirava garantismo. Ahimé durò poco: oggi non faccio fatica a dire, purtroppo, che il garantismo è estraneo anche a Md. Perché garantismo e sospetti non sono compatibili. E nemmeno Md sa rinunciare al sospetto».
Il sospetto: è il tema tipico del concorso esterno in associazione mafiosa. Lei ne scrive che è «uno degli obbrobri del nostro sistema giudiziario».
«Peggio. Non è nel nostro sistema normativo: e fino a quando non interverrà il legislatore, come auspicato da tutti, è un vero mostro giuridico. Sono sicuro che se invece che a Zara fossi nato a Napoli, dove da giovane vissi per qualche anno, avrei corso il rischio di finire in una foto con un criminale. Ma un po’ per dolo, un po’ per sciatteria, in certe Procure c’è chi si accontenta di qualche prova anche rarefatta per accusare e per avviare un processo».
La Corte di Strasburgo ha da poco stabilito che Bruno Contrada fu condannato indebitamente per concorso esterno. Che ne dice?
«Non ho letto gli atti del suo processo, ma è notorio che negli anni Cinquanta e Sessanta il capo di una Squadra mobile aveva rapporti ambigui, spesso pericolosamente diretti e negoziatori, con la criminalità: rapporti che non di rado si prestavano a essere, quantomeno formalmente, d’interesse penale. Oggi Strasburgo ci fa fare un passo avanti nella civiltà giuridica: s’invoca il principio della irretroattività, nessuno può essere condannato per fatti compiuti prima che siano considerati reato. In questo caso, visto che il reato colpevolmente non è mai stato tipizzato dal legislatore, si dice che Contrada non poteva essere condannato per fatti compiuti prima che la Cassazione avesse stabilito bene che cosa fosse il concorso esterno, nel 1994».
Passiamo alle intercettazioni?
«Temo che restrizioni della nostra privacy saranno sempre più necessarie: non se ne può fare a meno, in una società atomizzata e nel contempo globalizzata. Ma è l’applicazione mediatica delle intercettazioni che in Italia è vergognosa, così come leggere sui giornali la frase di due intercettati che dicono, per esempio: «Il tal sottosegretario ha strane abitudini sessuali». E quello non c’entra nulla con le indagini. È ciò che io chiamo «il bignè»».
Il bignè?
«Ma sì: l’ottimo bignè con la crema, regalato da certi pm ai giornalisti. E più sono i bignè offerti, più saranno i titoli sui giornali: quindi l’inchiesta sarà apprezzata dall’opinione pubblica, il pm diventerà famoso e l’indagato, o chiunque sia coinvolto, verrà seppellito dal fango. Non si può vivere in questo modo. La dignità umana è un diritto fondamentale, forse il primo».
Ha visto che ora alcuni suoi colleghi, da Edmondo Bruti Liberati a Giuseppe Pignatone, propongono una «stretta» nell’utilizzo delle intercettazioni?
«È sempre inutile aumentare le pene, visto che si delinque con la convinzione di farla franca, e vista anche la diffusa mancanza d’effettività della pena».
Qual è la sua soluzione, allora?
«Quando arrivai a Prato, nel 2006, prescrissi, anzi pregai i miei sostituti di fare un «riassunto» delle intercettazioni per qualsiasi richiesta di provvedimento, evitando ogni inserimento testuale delle trascrizioni. È il riassunto la soluzione: così i terzi indebitamente coinvolti restano automaticamente protetti, e nessuno, per restare all’esempio, conoscerà mai le «strane abitudini sessuali» del sottosegretario. Il fatto è che così il pm dovrebbe fare più fatica. Quindi preferisce il maledetto taglia-e-incolla. A parte i miei sostituti pratesi, ovviamente… E troppo spesso il taglia-e-incolla si trasforma in un ferro incandescente».
Ma è soltanto sciatteria?
«In genere sì. Solo le mele marce lo fanno con intenti sanzionatori o per motivi loro, che nulla hanno a che fare con la Giustizia, quella con la g maiuscola».
Cambierà qualcosa con la nuova responsabilità civile dei magistrati?
«La levata di scudi della categoria contro la riforma, in febbraio, è stata penosa. Sostenere che ora tutti i magistrati avranno paura d’incorrere in decurtazioni di stipendio, e per questo non lavoreranno più come una volta, è assurdo. Paralizzante sarebbe quindi il pericolo di una riduzione dello stipendio, e non piuttosto quello di danneggiare illegalmente un indagato, per dolo o per colpa grave? Ma di che cosa parlano?»
Che cosa si aspetta, ora che il suo libro è uscito?
«Spero che se ne discuta serenamente. Temo una sola cosa: l’incatalogabilità».
Cioè?
«Purtroppo, prima di elaborare un giudizio, sempre più ci si chiede: ma è un discorso di destra o di sinistra? E quello che ho scritto sicuramente non è allineato, anzi è eretico da qualsiasi parte lo si guardi. Ecco, in molti potrebbero avere paura di dare un giudizio perché, da destra come da sinistra, non riusciranno a catalogarmi. Io mi sono sempre ritenuto, e sono sempre stato ritenuto, di sinistra; anzi, sono praticamente «certificato» come tale. Questo non m’impedisce di pensare tutto quel che ho scritto, che è poi alla base delle garanzie della persona, dell’individuo. E non sono il solo».
Resta il fatto che il «populismo giudiziario», che lei avversa, oggi stia soprattutto a sinistra. O no?
«È di destra o di sinistra pensare che nessuna ragione al mondo può giustificare il sacrificio di diritti fondamentali di una persona, se non nei limiti stabiliti dalla legge democratica? È per questo che chi crede davvero nella civiltà giuridica non può accettare le troppe disfunzioni della giustizia italiana. Ed è per questo che io non potevo più tacere».
Soro, Garante della privacy: «Stop ai processi mediatici, ne va della vita delle persone», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. C’è una parola che Antonello Soro non si stanca di ripetere: «Dignità». A un certo punto tocca chiedergli: presidente, ma com’è possibile che non riusciamo a tenercela stretta, la dignità? Che abbiamo ridotto il processo penale a un rodeo in cui la persona è continuamente sbalzata per aria? E lui, che presiede l’Autorità garante della Privacy, può rispondere solo in un modo: siete pregati di scendere dalla giostra. La giostra del processo mediatico, s’intende. «È una degenerazione del sistema che può essere fermata in un modo: se ciascuna delle parti, stampa, magistrati, avvocati, evita di dare un’interpretazione un po’ radicale delle proprie funzioni. C’è un nuovo integralismo, attorno al processo, da cui bisogna affrancarsi. Anche perché la giustizia propriamente intesa si fonda sulla presunzione d’innocenza. Quella mediatica ha come stella polare la presunzione di colpevolezza».
Senta presidente Soro, ma non è che il processo mediatico è una droga di cui non possiamo più fare a meno, magari anche per alleviare i disagi di una condizione generale del Paese ancora non del tutto risollevata?
«Non credo che per spiegare le esasperazioni dell’incrocio tra media e giustizia sia necessario arrivare a una lettura del genere. Siamo in una fase, che ormai dura da molto, in cui prevale un nuovo integralismo, anche rispetto alla preminenza che ciascuno attribuisce al proprio ruolo. Succede in tutti gli ambiti, compreso quello giudiziario. Ciascuna delle parti si mostra poco disponibile ad affrontare le criticità del fenomeno che chiamiamo processo mediatico».
Be’, lei descrive una tendenza che brutalmente potremmo definire isteria forcaiola.
«È il risultato di atteggiamenti – che pure non rappresentano la norma – sviluppatisi tra i giornalisti e anche tra i magistrati, persino tra gli avvocati. Ciascuna di queste componenti finisce in alcuni casi per deformare la propria missione. Il tema è sicuramente complesso, io mi permetto sempre di suggerire che si lascino da parte i toni ultimativi, quando si affronta la questione. Lo sforzo che va fatto è proprio quello di trattenersi dall’esaltare la propria indispensabile funzione. Esaltare la propria si traduce fatalmente nel trascurare la funzione degli altri».
È una situazione di squilibrio in cui parecchi sembrano trovarsi a loro agio, tanto da difenderla. È il caso delle intercettazioni.
«Nessuna persona ragionevole può mettere in discussione l’utilità delle intercettazioni e il diritto dei cittadini all’informazione. Due elementi di rango differente ma ugualmente imprescindibili. Nessuno pensa di rinunciare né alle intercettazioni né all’informazione. Si tratta di valutare con il giusto spirito critico la funzione di entrambe».
E non dovrebbe volerci uno sforzo così grande, no?
«No. Però cosa abbiamo davanti? Paginate intere di intercettazioni, avvisi di garanzia anticipati ai giornali, interrogatori di indagati in stato detentivo di cui apprendiamo integralmente il contenuto, immagini di imputati in manette, processi che sembrano celebrarsi sui giornali più che nelle aule giudiziarie. E in più c’è una variabile moltiplicatrice».
Quale?
«La rete. E’ un tema tutt’altro che secondario. La diffusione in rete delle informazioni e della produzione giornalistica non è neppure specificamente disciplinata dal codice deontologico dei giornalisti, che risale al 1998, quando il peso oggi acquisito dal web non era ancora stimabile».
Qual è l’aspetto più pericoloso, da questo punto di vista?
«Basta riflettere su una differenza, quella tra archivi cartacei e risorse della rete. Su quest’ultima la notizia diviene eterna, non ha limiti temporali, ha la forza di produrre condizionamenti irreparabili nella vita delle persone».
La gogna della rete costituisce insomma un fine pena mai a prescindere da come finisce un processo.
«È uno degli aspetti che contribuiscono a rendere molto complesso il fenomeno dei processi mediatici. Tutto può essere riequilibrato, ma ora vedo scarsa attenzione per tutto quanto riguardi il bilanciamento tra i diritti fondamentali in gioco. Un bilanciamento che invece ritengo indispensabile quando riguarda la dignità delle persone».
È un principio di civiltà così elementare, presidente, che il fatto stesso di doverlo invocare fa venire i brividi. Di paura.
«Nel nostro sistema giuridico anche chi è condannato deve veder riconosciuta la propria dignità. Basterebbe recuperare questo principio. Che nella nostra Costituzione è centrale. Una comunità che rinuncia a questo presidio di civiltà ha qualche problema».
Com’è possibile che abbiamo rinunciato?
«Ripeto: stiamo dicendo per caso che dobbiamo eliminare l’uso delle tecnologie più sofisticate nelle indagini? No. Si pretende di negare il diritto all’informazione? Neppure. Si dovrebbe solo coniugare questi aspetti con la dignità delle persone, anche con riguardo alla loro vita privata. La privacy non è un lusso. Il fondamento della privacy è sempre la dignità della persona».
Se si prova a toccare le intercettazioni parte subito la retorica del bavaglio.
«Al giudice, in una prima fase, spetta la decisione sull’acquisizione delle intercettazioni rilevanti ai fini del procedimento, mentre al giornalista spetta, in seconda battuta, la scelta di quelle da pubblicare perché di interesse pubblico. Non è detto che il giornalista debba pubblicare tutti gli atti che ha raccolto compresi quelli irrilevanti ai fini del processo».
Spesso quelli irrilevanti sul piano penale sono i più succosi da servire al lettore.
«Guardi, è plausibile che alcune intercettazioni contengano elementi utili per la ricostruzione dei fatti penalmente rilevanti anche se non riguardano la persona indagata. Può avere senso che elementi del genere vengano resi pubblici. Ma altri che non hanno utilità ai fini del processo andrebbero vagliati con particolare rigore in funzione di un vero interesse pubblico. Prescinderei dai singoli episodi. Ma ricorderei due princìpi abbastanza trascurati. Da una parte, la conoscenza anche di un dettaglio della vita privata di un personaggio che riveste funzioni pubbliche può essere opportuna, se quel fatto rischia di condizionarne l’esercizio della funzione. È giusto che il cittadino conosca cose del genere».
Ad esempio, il fatto che Berlusconi ospitasse a casa sua molte giovani donne, alcune delle quali erano prostitute e lui neppure lo sapeva.
«Sì, però poi i dettagli sulle attività erotiche di un leader politico, tanto per dire, possono alimentare curiosità, ma è difficile riconoscerne il senso, in termini di diritto all’informazione. In altre parole: può essere utile sapere che quel leader, in momenti in cui esercita la propria funzione pubblica, compie atti che, ad esempio, lo espongono al ricatto; ma riportare atti giudiziari che entrano morbosamente nel dettaglio, diciamo così, va al di là di quell’informazione utile di cui sopra. A meno che non riferiscano comportamenti che costituiscono reato».
Negli ultimi anni l’inopportunità di certe divulgazioni spesso è emersa quand’era troppo tardi.
«E in proposito mi preoccupa ancor di più il dramma vissuto da privati cittadini casualmente intercettati ed esposti a una gogna molto pesante. E la gogna mediatica è una pena inappellabile, a prescindere da come finisce in tribunale. Ho segnalato più volte la situazione del cittadino Massimo Bossetti. Nel suo caso sono stati divulgati i dati genetici di tutta famiglia, i comportamenti del figlio minore e di tutti familiari, fino al filmato dell’arresto, all’ audio dell’interrogatorio e al colloquio con la moglie in carcere: tutto questo contrasta la legge sul diritto alla riservatezza. Che rappresenta una garanzia per i cittadini e che però viene travolta da una furia iconoclasta, funzionale al processo mediatico. Nel processo propriamente inteso vige la presunzione di innocenza, in quello mediatico si impone la presunzione di colpevolezza».
Come se ne esce?
«Tutti, magistrati, giornalisti, avvocati, cittadini, debbono cercare il punto di equilibrio più alto. E smetterla di pensare che qualche diritto debba essere cancellato. Anche perché oltre alla dignità delle persone è in gioco anche la terzietà del giudice».
Cosa intende?
«Chi siede in una Corte viene ‘inondato’ da una valanga di informazioni dei media che finiscono per costruire un senso comune. In un ordinamento in cui esistono anche i giudici popolari c’è il rischio che questi non formino la loro convinzione in base alla lettura degli atti ma in base al processo mediatico, che ha deciso la condanna molto tempo prima, e non nella sede dovuta. Intercettazioni, atti e immagini divulgati dai media, non solo costituiscono uno stigma perenne per la persona, ma rischiano di condizionare anche l’esercizio della giurisdizione in condizioni di terzietà».
Ma non è che i magistrati alla fine spingono il processo mediatico perché pensano di acquisire in quel modo maggiore consenso?
«Guardi, quando un singolo magistrato ricerca il consenso può casomai far calare un po’ il consenso dell’intera magistratura. E questo lo hanno affermato negli ultimi tempi autorevoli magistrati, che hanno usato parole molto eloquenti nel criticare gli abusi di singoli colleghi. Mi riferisco in particolare al procuratore capo di Torino Armando Spataro quando dice che durante Mani pulite, per esempio, alcuni magistrati sembravano più preoccupati della formazione della notizia da prima pagina che della conclusione del processo. Ecco, la legittimazione che ha il magistrato viene messa in discussione proprio da quei comportamenti impropri. La ricerca del consenso non è propria della funzione del magistrato. Chi ha da decidere della giustizia ha un compito che da solo gratifica e impegna la vita. Io ho una grandissima considerazione di questo compito e credo vada preservato».
Nordio agita i colleghi in toga: "Niente multe, via i pm scarsi". Il procuratore di Venezia critica la scelta del governo sulla responsabilità civile: "Inutile, paga l'assicurazione", scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. I magistrati hanno una gran fretta: per denunciare davanti alla Consulta l'incostituzionalità della legge sulla responsabilità civile, varata solo a febbraio, non hanno aspettato che un cittadino chiedesse i danni a uno di loro. Hanno giocato d'anticipo. Per il giudice civile Massimo Vaccari del tribunale di Verona basta il timore di un giudizio di responsabilità per condizionare l'autonomia e l'indipendenza della toga, ledere i suoi diritti e privarla della necessaria serenità nel suo lavoro. Così, il 12 maggio ha inviato alla Corte costituzionale 17 pagine di ricorso, che sostengono contrasti con diversi articoli della Carta. La notizia arriva proprio mentre il Matteo Renzi ricorda su Twitter l'anniversario della morte di Enzo Tortora, sottolineando che da allora, e grazie a lui, le cose sono cambiate. «Ventisette anni dopo la morte di Tortora - scrive il premier-, abbiamo la legge sulla responsabilità civile dei giudici e una normativa diversa sulla custodia cautelare #lavoltabuona». Nella stessa giornata e proprio partendo dal tempestivo ricorso del giudice veronese, su Il Messaggero il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio firma un editoriale che certo non farà piacere ai suoi colleghi. Basta il titolo: «Il magistrato che sbaglia va rimosso più che multato». Mentre le toghe, con l'Anm in testa, protestano aspramente per la legge, minacciano lo sciopero e si organizzano perché la Consulta la faccia a pezzi, Nordio sostiene dunque che le nuove norme sono troppo deboli e non risolvono i problemi, cioè le cause degli errori giudiziari: dall'«irresponsabile potere dei pm» a quello dei giudici di «riprocessare e condannare un cittadino assolto», con una «catena di sentenze». Il magistrato accusa governo e Parlamento di aver «risposto in modo emotivo» alle richieste dell'opinione pubblica, puntando sull'«effetto intimidatorio delle sanzioni, privilegiando peraltro quelle pecuniarie». Così, per Nordio, hanno fatto «una scelta inutile, perché ci penserà l'assicurazione; e irragionevole, perché la toga inetta o ignorante non va multata, va destituita». Denunciando davanti all'Alta corte, sostiene il pm, «la parte più ambigua della legge, quella che consente, o pare consentire, di far causa allo Stato prima che la causa sia definitivamente conclusa», paralizzando i processi, se ne otterrà forse una parziale abrogazione. E «i magistrati impreparati o inetti tireranno un sospiro di sollievo». Vedremo se andrà proprio così. Intanto, il ricorso a bocce ferme del giudice veronese deve superare il giudizio di ammissibilità. Vaccari cita un precedente simile contro la legge del 1989, ma non è affatto detto che riesca nel suo intento. I magistrati, però, si sono organizzati da un pezzo per ricorsi singoli o collettivi e, se questo verrà bloccato, di certo alla Consulta ne arriveranno molti altri. L'ultima parola sarà anche stavolta dei giudici costituzionali.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene. C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”. Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.
"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».
Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione.
Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte. Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita. Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».
Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.
«E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;
l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:
per febbre aguta gittan tanto leppo».
Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.
Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.
Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.
Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.
Mamma l’italiani, canzone del 2010 di Après La Class
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
nei secoli dei secoli girando per il mondo
nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo
non viene dalla Cina non è neppure americano
se vedi uno spaccone è solamente un italiano
l'italiano fuori si distingue dalla massa
sporco di farina o di sangue di carcassa
passa incontrollato lui conosce tutti
fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
a suon di mandolino nascondeva illegalmente
whisky e sigarette chiaramente per la mente
oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso
non smercia sigarette ma giochetti per il sesso
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
l'Italia agli italiani e alla sua gente
è lo stile che fa la differenza chiaramente
genialità questa è la regola
con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia
l'Italia e la sua nomina e un alta carica
un eredità scomoda
oggi la visione italica è che
viaggiamo tatuati con la firma della mafia
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
vacanze di piacere per giovani settantenni
all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni
pagano pesante ragazze intraprendenti
se questa compagnia viene presa con i denti
l'italiano è sempre stato un popolo emigrato
che guardava avanti con la mente nel passato
chi non lo capiva lui lo rispiegava
chi gli andava contro è saltato pure in a...
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
spara la famiglia del pentito che ha cantato
lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato
nominato e condannato nel suo nome hanno sparato
e ricontare le sue anime non si può più
risponde la famiglia del pentito che ha cantato
difendendosi compare tutti giorni più incazzato
sarà guerra tra famiglie
sangue e rabbia tra le griglie
con la fama come foglie che ti tradirà
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
mafia mafia mafia
non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica
aria aria aria
la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani
Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);
L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);
La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);
L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);
La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);
L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);
L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).
Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.
Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti. Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.
I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.
Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.
In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.
In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.
“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?
Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.
La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.
Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.
La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.
Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.
La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.
Parlare di legge, bene o male, ogni leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.
Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.
La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.
Essa vien da lontano.
E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.
La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.
Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.
Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.
Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.
Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.
Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.
"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…
- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le giuro…
- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."
A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?
Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.
Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate.
Chi siamo noi?
Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.
Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.
Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.
Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.
Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.
Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.
E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie.
Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».
A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.
La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.
Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla.
Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).
Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).
La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.
Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.
Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.
In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.
I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.
Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.
L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.
L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.
L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.
L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40% dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.
L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.
L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.
Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.
Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.
Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.
I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.
E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.
Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.
Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.
Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?
Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.
Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?
E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?
La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”
Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.
Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.
Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.
E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.
Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.
Ma chi e quando le cose cambieranno?
Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".
Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.
Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.
"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere. «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.
"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".
Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.
Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».
Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.
«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps. «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.
Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".
"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.
Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.
La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».
Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?
«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».
E come si spiega?
«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».
Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?
«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».
Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.
«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».
Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?
«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».
Quali dati?
«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».
Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?
«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».
Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!
«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».
E com'è andata, questa legge?
«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».
Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?
«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».
TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.
MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.
Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.
Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.
La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola.
Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.
“Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.
A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".
Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.
“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!»
VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.
D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri. Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.
L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.
E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.
La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.
Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.
Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:
1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!
2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;
3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.
Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.
Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil.
Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.
Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode.
Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.
Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.
Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.
Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.
E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.
Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.
Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista.
Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.
Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.
Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).
Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.
''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.
D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.
Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.
Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.
"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta, Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario". Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".
Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".
Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.
LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.
Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».
Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".
La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier di partecipare all’udienza del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri. Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".
Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?
Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».
Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.
Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it, è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali. Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.
“VADA A BORDO, CAZZO!!”.
E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia. Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.
De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?
Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»
De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»
Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»
De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».
Schettino: «Comandante le dico una cosa...»
De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».
Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».
De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.
Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:
« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».
« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».
Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).
Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo. Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.
Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.
In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”
Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.
E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.
Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.
Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile. Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.
Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono: “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.
Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".
I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».
«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.
L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.
Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.
C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.
Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.
Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.
Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è di nove anni e quattro mesi di reclusione per aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici. Spaccarotella era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.
Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.
Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.
Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.
Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.
Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle, accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.
Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.
Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.
Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori nei confronti della comunità romena di San Gregorio.
All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.
Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.
«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.
Taranto, Milano, l’Italia.
“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.
Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.
«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.
Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.
Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela: una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri.
Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.
Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.
Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?
Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?
Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.
Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).
Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.
Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.
Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.
Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.
VADEMECUM DEL CONCORSO TRUCCATO.
INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.
COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.
I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.
LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.
LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.
MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo». «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio, presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.
IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.
LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:
• apertura della busta grande contenente gli elaborati;
• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;
• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;
• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;
• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;
• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;
• redazione del verbale.
Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.
La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».
Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?
In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.
Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.
Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.
Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.
Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.
In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.
GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.
TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.
TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.
Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?
In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.
Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.
Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.
In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.
C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.
Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.
E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.
E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.
Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.
Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.
Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.
La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.
La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.
Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.
L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.
La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.
La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.
Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.
Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.
Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.
Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.
La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.
Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.
Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.
I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.
In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.
113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.
E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».
Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio».
A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.
Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.
Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.
Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi. La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».
La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.
TOGHE ROSA
Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".
È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.
Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini - ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».
Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».
Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".
Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.
Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.
Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.
Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.
Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?
Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?
Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.
Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.
Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.
Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.
A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.
A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula.
La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti.
Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.
Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.
Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali".
Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».
Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».
Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.
Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.
Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.
E poi giudice donna è per il processo………
E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».
Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?
Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.
L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa, tracciando un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.
Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?
Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.
PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.
Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".
Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?
«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».
Ti pesa ancora la bocciatura?
«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».
Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.
«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».
Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...
«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».
Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.
«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».
Mai più rifatto?
«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».
Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?
«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».
Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.
Bene. L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri) e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.
Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.
Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.
Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.
Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie». Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso. Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.
Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.
Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.
Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.
Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.
Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.
Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).
Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.
Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.
Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.
Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).
Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.
Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.
Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.
Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.
Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.
Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.
Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.
Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.
Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).
Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.
Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.
Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.
Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.
Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.
Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.
Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?
«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.
«Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».
Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini Il Giornale E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».
Ieri come oggi la farsa continua.
Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.
«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».
Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?
Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali?
Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".
Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.
Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.
Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.
Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.
Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa, ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente, non può guardare in faccia i giudici di quella che si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.
Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.
Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.
Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!
E la stampa censura pure…..
Pensavo di averle viste tutte.
La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.
La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.
Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.
Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.
I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre.
«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».
«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».
«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio».
Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".
Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».
Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.
Cosa????
Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.
Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Quando la tv criminalizza un territorio.
7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”
In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».
Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.
In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.
Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.
Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:
L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;
L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.
Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.
Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?
Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.
La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.
Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.
Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.
Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".
Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?
Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano - senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.
Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”
Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.
La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.
Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.
Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).
Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.
“Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.
Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.
Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.
Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.
Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.
Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.
MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.
C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.
Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.
Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare. Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".
«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.
Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.
Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».
Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?
«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».
Con le sue parole?
«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».
Strategia dei contenuti.
«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».
Il potere ha proprio l'oro in bocca.
«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».
Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?
«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».
Abbiamo perso anche questa occasione.
«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».
Ma era anche un invito a sognare.
«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».
In che senso?
«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».
E di cosa?
«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».
Ci faccia un esempio.
«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».
Cosa otterrà?
«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».
Sono passati un bel po' di anni.
«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».
La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.
STATO DI DIRITTO?
Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo. Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica. Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti. Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi. Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe. È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno. Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista. Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica. Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.»
Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.
«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.
Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei.
Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.
Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?
Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.
Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?
Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.
Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.
E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.
Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».
Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note. I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.
Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
CHI E’ IL POLITICO?
Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.
L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.
L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.
Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.
CHI E’ L’AVVOCATO?
Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.
O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.
“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.
La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.
Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.
Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.
La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.
L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.
I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.
Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).
“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.
L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.
Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.
Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.
Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.
Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.
Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.
La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).
Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.
“Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.
Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.
Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.
Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.
Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.
Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.
L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
CHI E’ IL MAGISTRATO?
"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)». Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".
«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso.
Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta.
Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.
L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.
LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.
Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.
Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.
Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .
Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.
Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.
“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”
Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.
«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»
Continua Antonio Giangrande.
«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"
“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.
“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”. Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.
Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.
Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie.
Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.
Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.
La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.
Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.
Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.
Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.
Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip».
Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».
Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.
Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.
Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.
I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.
Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.
a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;
b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;
c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;
d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;
e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.
Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.
Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.
La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).
Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.
LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.
LA FAMIGLIA ESPOSITO
Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto, su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.
Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.
Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!
Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.
LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.
La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.
LA FAMIGLIA BORRELLI.
Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.
ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.
Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.
Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.
Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari. Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.
Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.
Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?
Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori.
Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.
Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.
Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».
Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo?
E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.
Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».
Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.
A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.
COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.
IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.
LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.
LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.
IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.
IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.
IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.
IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.
Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.
Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".
Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".
Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.
E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".
Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.
Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".
Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria".
Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".
"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.
Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".
FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.
Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».
La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.
2,30 del mattino, Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".
9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.
Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.
Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.
11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00.
Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.
13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri. “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”. Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.
La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.
Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.
Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza.
Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".
ITALIA DA VERGOGNA.
Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.
È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.
ITALIA BARONALE.
I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.
Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.
L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.
È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.
Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.
CASA ITALIA.
Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».
Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.
Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.
L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?
Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.
Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.
E gli alloggi di proprietà?
Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.
23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.
23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.
L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.
In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.
Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.
La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!
"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.
Cosa ha veramente la Cassazione?
L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.
Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.
La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Condotta e dolo specifico.
L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).
Flagranza e procedibilità d'ufficio.
Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).
L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.
Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).
Come agire?
Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.
Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.
L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.
L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.
L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.
L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.
A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.
L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
Ma come sono cari (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.
Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.
“LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...
Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?
«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»
Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...
«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»
Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.
«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»
Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..
«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»
Ma Libera non è una struttura indipendente?
«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»
Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...
«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:
1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?
2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.
3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.
4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»
Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?
«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»
Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?
«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»
Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?
«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»
Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...
«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»
Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?
«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»
In che senso “grande illusione”?
«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»
Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.
«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»
Ma allora Libera...
«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»
Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...
«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»
Ma siete gli unici a dire queste cose?
«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»
Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...
«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»
Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?
«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»
Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?
«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»
ITALIA: PAESE ZOPPO.
Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.
Che cosa c’è di nuovo in questo libro?
«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»
Filo conduttore?
«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»
Si parte dalla Conferenza di Versailles...
«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»
E l’Italia?
«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»
Che si affacciò al balcone...
«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»
Partiti dilanianti e latitanti?
«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»
Sarebbe a dire?
«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»
E gli italiani non se ne accorgono?
«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»
Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?
«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»
Come si chiama questa malattia?
«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»
La cura?
«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»
E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?
«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»
Beppe Grillo?
«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»
Enrico Letta?
«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»
Matteo Renzi?
«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»
Veltroni?
«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»
Pier Luigi Bersani?
«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»
Massimo D’Alema?
«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»
Silvio Berlusconi?
«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»
Giorgio Napolitano?
«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»
Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè, quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007. Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio. Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.
«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.
E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.
Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.
Ed Ancora. Tre agenti di
polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della
Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di
soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione
falsificata.
Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.
Ecc. Ecc. Ecc.
G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.
La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.
Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.
Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”. Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di alcuni agenti. Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.
Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico. Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.
Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!
Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?
Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.
Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.
Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.
“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”
E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.
Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.
Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?
Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?
Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:
1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti. Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?
2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.
Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».
Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».
3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.
Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»
La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.
E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.
Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.
Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.
Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?
Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.
Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.
Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.
C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.
Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.
E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.
Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".
Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.
Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.
Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.
Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".
Ha deciso di rientrare in Italia, subito.
«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».
Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?
«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».
Subito in carcere?
«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».
Quale è la privazione più dura?
«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».
Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.
«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».
Cosa le resta addosso, di quell'anno?
«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».
Cosa pensa della giustizia, oggi?
«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».
Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?
«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».
Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?
«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».
Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?
«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».
Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».
Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.
Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.
Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.
Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista. Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.
La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?
«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.
E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.
Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.
Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.
A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.
Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?
Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).
E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.
E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».
Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.
Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?
Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.
Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.
Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari. Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente, che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.
Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere». E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».
Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.
Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).
«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.»
La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....". Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni. Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso annuncia con tono routinario, quasi fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise". Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E' l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".
Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".
Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...
Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.
In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».
Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle successive torture dell’imam Abu Omar, non si è presentato mai al processo, non ha mai confessato alcunché, non si è mai pentito del gesto, non ha chiesto scusa a nessuno, non ha mai scontato un giorno di carcere e per la giustizia italiana era un latitante al pari del superboss Matteo Messina Denaro. La grazia giunse dal Colle dopo appena 7 mesi dalla pronuncia definitiva della Cassazione e con il parere contrario dei magistrati. C’è ancora qualche anima bella o dannata disposta a sostenere la tesi che il presidente della Repubblica non poteva adottare lo stesso metodo nei confronti di Silvio Berlusconi? Chiamiamo le cose con il loro nome: è mancato il coraggio per concedere la grazia. Il provvedimento avrebbe aperto una fase nuova nella storia di questo Paese, sarebbe stato l’atto di non ritorno verso la pacificazione dopo vent’anni di guerra combattuta nel nome dell’eliminazione per via giudiziaria del Cavaliere il quale, statene certi, avrebbe abbandonato la politica attiva. Il capo dello Stato ha avuto l’opportunità di consegnarsi alla storia e non l’ha fatto. E solo quando giungerà quel famoso giorno in cui gli avvenimenti di oggi potranno essere riletti senza veli e senza partigianerie capiremo se al suo mancato gesto dovremo aggiungere i caratteri poco commendevoli del cinismo, della pavidità o del calcolo politico. Nel quadro tenebroso dell’oggi trova un posto nitido Enrico Letta, il presidente del Consiglio che ha conferito a questo Paese una stabilità degna di un cimitero, come ha giustamente notato il Wall Street Journal. Incapace di avviare le riforme oramai improcrastinabili per l’Italia, Letta non è stato neppure capace di imporre il più impercettibile distinguo sulla giustizia (settima anomalia) ed è rimasto avvinghiato al doroteismo stucchevole di una linea che voleva tenere distinte la vicenda di Berlusconi e le sorti dell’esecutivo quando anche un bambino ne coglieva l’intimo intreccio. Ma i bambini, si sa, hanno la vista lunga. E ora tutti sanno, anche quelli dell’asilo, che l’unico orizzonte di Letta non è quello di varare le riforme, giustizia compresa, ma quello di mantenere il potere. E infatti eccoci all’ottava anomalia, Angelino Alfano: ha mollato il Pdl per fondare il Nuovo centrodestra, che al momento si distingue solo per la fedeltà interessata al governo. Sarebbe toccato proprio ad Angelino costringere Napolitano e Letta a guardare la realtà, a spalancare gli occhi sullo scempio del diritto che si stava consumando, a denunciare con argomenti solidi e di verità l’inganno di una procedura interpretata in maniera torbida e manigolda. Come quella della retroattività della legge Severino sulla decadenza (nona anomalia), che una pletora di giuristi e politici di buon senso non affini ma certamente lontani dal mondo berlusconiano voleva affidare al vaglio della Corte costituzionale per un’interpretazione autentica. Anche per questo motivo il luogotenente del Cav avrebbe dovuto elevare il caso B a caso internazionale, avrebbe dovuto sfidare in campo aperto i satrapi dell’informazione truccata. E invece ha preferito chinarsi sulla propria poltroncina, talmente affascinato, e impaurito di perderla, da consumare lo strappo di ogni linea politica e di ogni rapporto umano con il proprio leader. Napolitano, Letta, Alfano: in questo triangolo delle Bermude, che si autoalimenta nel nome dello status quo e di un governo fatto solo di tasse e bugie, c’è finito Silvio Berlusconi. E la conclusione della storia è stata ovvia: l’hanno inghiottito, macinato ed espulso senza tanti complimenti. Neppure il colpo di reni finale hanno sfruttato i tre del triangolo mortale, quello offerto dalle nuove prove squadernate dall’ex premier per chiedere la revisione del processo. Un percorso perfettamente legalitario, quello del Cav, condotto all’interno del perimetro disegnato dal Codice di procedura penale e che avrebbe dovuto fermare la mannaia dell’espulsione dal Senato. Per mille motivi, ma soprattutto per una possibile e atroce beffa: se la Corte d’appello darà ragione al Cavaliere e lo proscioglierà, lui si troverà già fuori da Palazzo Madama. E nessuno potrà dirgli: «Prego, ci scusi, si accomodi e riprenda il suo posto». Con il corollario non secondario che, senza lo scudo da senatore, i picadores in toga potranno infilzare il Cav e compiere l’ultimo sfregio: l’arresto (decima anomalia). In questa cornice assai triste tocca togliersi il cappello di fronte al coraggio di Francesco Boccia, deputato del Pd di prima fila (almeno fino al 9 dicembre, quando Matteo «Kermit» si presenterà sul palco della segreteria del partito) che martedì 26 novembre, dopo aver visto gli elementi esposti da Berlusconi, ha dichiarato: «Se fosse così mi aspetto una revisione del processo come per qualsiasi altro cittadino». E ancora: «In un Paese normale si sarebbe aspettata la delibera della Corte costituzionale sull’interpretazione della legge Severino». Un Paese normale questo? È una battutona, ditelo a Matteo «Kermit», che magari se la rivende. Dovrà fare in fretta, però. Perché adesso inizia un’altra faida, che lo metterà contro Letta e Napolitano. I tre non possono convivere: i loro interessi non sono convergenti, i loro orizzonti non corrispondono. Per questo, già prima dell’8 dicembre, ne vedremo delle belle. Sarà il seguito della politica da avanspettacolo che ci hanno rifilato negli ultimi mesi. Successe più o meno la stessa cosa ai tempi di monsieur de Robespierre e dei giacobini. Fatto fuori il re, si illusero di avere la Francia in pugno. Manco per niente. Iniziarono a scannarsi l’un l’altro. Fin quando un giorno accompagnarono Robespierre, l’Incorruttibile, al patibolo. Gli gridavano dietro: «Morte al tiranno». Avete capito la storia?
Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.
Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.
L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.
A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».
"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".
Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 - che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
DELINQUENTE A CHI?
“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.
CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!
"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.
"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".
"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.
E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.
E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.
Parcheggi abusivi, applausi abusivi,
Villette abusive, abusi sessuali abusivi;
Tanta voglia di ricominciare abusiva.
Appalti truccati, trapianti truccati,
Motorini truccati che scippano donne truccate;
Il visagista delle dive è truccatissimo.
Papaveri e papi, la donna cannolo,
Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.
Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.
Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.
Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:
C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.
Commando sì, commando no, commando omicida.
Commando pam, commando prapapapam,
Ma se c'è la partita
Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,
Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.
Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.
Primario sì, primario dai, primario fantasma.
Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;
Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:
"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.
Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".
Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh
Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.
Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.
Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.
Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.
Squerellerellesh, cataraparupai,
Italia perfetta, perepepè nainananai.
Una pizza in compagnia, una pizza da solo;
In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.
Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.
Italia sì: uè.
Italia no, spereffere fellecche.
Uè, uè, uè, uè,uè.
Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.
«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».
Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.
La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.
"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.
Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".
L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.
È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto».
"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".
Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".
La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.
Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.
Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.
Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.
L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.
La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.
La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.
La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.
Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.
Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".
Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”
Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».
La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.
«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso. Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica. La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».
Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».
Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».
Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.
L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.
“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.
Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.
E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.
La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.
Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.
E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...
I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.
Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.
Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.
Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.
''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.
In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.
Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.
Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.
Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.
Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.
Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.
Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.
Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.
Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.
Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".
E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".
Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".
Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".
Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.
I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).
Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.
"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa classifica. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).
Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??
Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.
Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.
Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….
Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.
Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.
E che dire delle leggi?
Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.
La redazione degli atti deve essere:
chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;
semplice, concisa, esente da elementi superflui;
precisa, priva di indeterminatezze.
Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:
l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;
la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.
Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...
Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.
Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.
GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.
L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".
Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."
Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."
Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.
L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.
L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".
Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?
Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:
- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.
- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.
- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.
Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:
- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;
- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);
- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;
- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);
- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.
- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.
Si ha incompetenza assoluta
quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra
amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza
assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le
cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che
sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le
conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica
in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di
giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza
dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è
imprescrittibile.
Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.
1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:
a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;
b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;
c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;
d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;
e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.
2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.
a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:
- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;
- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;
- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.
b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.
c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.
La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).
E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.
Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che, in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.
Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento illegittimo, quindi fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel fatto che si suole farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti avvertono come un’applicazione così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.
Ve ne riporto alcune:
“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.
“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.
“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”
“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”
“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”
“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).
Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero, l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni, dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.
Il Parlamento abusivo
rischia l'arresto.
Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti
a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio
Signorini su “Il Giornale”. Illegittimo il sistema elettorale che ha portato
quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che,
più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo
un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo
ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e,
più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di
Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per
tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato
illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in
tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte
costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista
a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica,
la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un
Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi
sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non
sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge
incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta.
I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti
individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la
carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei
provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote
Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la
questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a
una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di
Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese,
ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a
questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che
alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante
la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi -
regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima
legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è
illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno
vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè
che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se
succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro.
Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato
politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare),
ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi
capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul
capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda
allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi.
Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa.
Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la
Consulta - eletto con una legge illegittima.
Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.
Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali. Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?
Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.
Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.
Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.
Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.
Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica. A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.
«Abusivi». Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre, amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.
Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».
Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?
«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».
Quali, avvocato?
«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».
E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?
«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».
E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?
«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».
Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?
«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».
Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?
«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».
Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?
«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».
Al loro posto chi dovrebbe subentrare?
«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».
Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.
«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».
Che pericoli vede all’orizzonte?
«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».
Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?
«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?
Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?
Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato; si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».
Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.
In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.
Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.
LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.
Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:
a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);
b) situazioni di povertà:
c) situazioni di reddito medio – basso.
Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?
Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!
Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?
«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»
Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.
«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?” La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».
Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.
Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.
Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.
All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».
“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.
Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.
Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.
«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.
FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa. Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.
«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».
Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?
Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».
Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».
Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».
Alberto Stasi: «Io sono innocente».
Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.
Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?
Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?
Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".
Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.
Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.
Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.
I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...
Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.
Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?
Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»
C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)
Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.
Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale
Vengo anch'io? No tu no
Per vedere come stanno le bestie feroci
e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera
Vengo anch'io? No tu no
Con la bella sottobraccio a parlare d'amore
e scoprire che va sempre a finire che piove
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore
Vengo anch'io? No tu no
Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano
un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale
Vengo anch'io? No tu no
per vedere se la gente poi piange davvero
e scoprire che è per tutti una cosa normale
e vedere di nascosto l'effetto che fa
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Vengo anch'io? No tu no
Ma perché? Perché no
No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.
NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?
Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.
«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:
- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.
- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.
- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.
- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.
- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.
- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.
- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.
- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.
E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.
Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.
Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»
Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.
«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI
PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO
“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.
E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.
L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo.
Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.
Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”
NON VI REGGO PIU’.
Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.
"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.
A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:
" E allora amore mio ti amo
Che bella sei
Vali per sei
Ci giurerei. "
È uno sfottò come un altro per
dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone
non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è
Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno
solo canzoni d'amore..". Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di
diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica,
Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori
super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti
presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni.
Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche
spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di
spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore
Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada
e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae
più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla
breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno
indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a
Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà
con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio
dopo quarantaquattro anni.
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè (nun te reggae più)
Abbasso e Alè con le canzoni
senza patria o soluzioni
La castità (Nun te reggae più)
La verginità (Nun te reggae più)
La sposa in bianco, il maschio forte,
i ministri puliti, i buffoni di corte
..Ladri di polli
Super-pensioni (Nun te reggae più)
Ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori,
diete politicizzate,
Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)
Auto blu, sangue blu,
cieli blu, amori blu,
Rock & blues (Nun te reggae più!)
Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)
DC-PSI (Nun te reggae più)
DC-PCI (Nun te reggae più)
PCI-PSI, PLI-PRI
DC-PCI, DC DC DC DC
Cazzaniga, (nun te reggae più)
avvocato Agnelli,
Umberto Agnelli,
Susanna Agnelli, Monti Pirelli,
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)
..Gianni Brera,
Bearzot, (nun te reggae più)
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,
Villaggio, Raffà e Guccini..
Onorevole eccellenza
Cavaliere senatore
nobildonna, eminenza
monsignore, vossia
cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)
Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)
abbasso e alè!
Il numero cinque sta in panchina
si e' alzato male stamattina
– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)
Il nostro è un partito serio.. (certo!)
disponibile al confronto (..d'accordo)
nella misura in cui
alternativo
alieno a ogni compromess..
Ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
si sarà la ress
Se quest'estate andremo al mare
soli soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore
che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia...
Dove sei tu? Non m'ami più?
Dove sei tu? Io voglio, tu
Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)
Uè paisà (..Nun te reggae più)
il bricolage,
il '15-18, il prosciutto cotto,
il '48, il '68, le P38
sulla spiaggia di Capo Cotta
(Cardin Cartier Gucci)
Portobello, illusioni,
lotteria, trecento milioni,
mentre il popolo si gratta,
a dama c'è chi fa la patta
a sette e mezzo c'ho la matta..
mentre vedo tanta gente
che non ha l'acqua corrente
e nun c'ha niente
ma chi me sente? ma chi me sente?
E allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
vale per sei
ci giurerei
sei meglio tu
nun te reg più
che bella si
che bella no
nun te reg più!
NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...
LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Vorrei essere libero come un uomo.
Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura
e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,
sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,
incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia
e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,
che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare
e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Vorrei essere libero, libero come un uomo.
Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza
e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,
con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo
e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche un gesto o un’invenzione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche il volo di un moscone,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):
“Noi fummo da secoli
calpesti, derisi,
perché non siam popolo,
perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:
di fonderci insieme
già l’ora suonò.”
e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci”
Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!
IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980
Io se fossi Dio
E io potrei anche esserlo
Se no non vedo chi.
Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente
Non sarei mica un dilettante
Sarei sempre presente
Sarei davvero in ogni luogo a spiare
O meglio ancora a criticare, appunto
Cosa fa la gente.
Per esempio il cosiddetto uomo comune
Com'è noioso
Non commette mai peccati grossi
Non è mai intensamente peccaminoso.
Del resto poverino è troppo misero e meschino
E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto
Lui pensa che l'errore piccolino
Non lo veda o non lo conti affatto.
Per questo io se fossi Dio
Preferirei il secolo passato
Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico
Dove si amava, e poi si odiava
E si ammazzava il nemico.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Non sarei mica stato a risparmiare
Avrei fatto un uomo migliore.
Si, vabbè, lo ammetto
non mi è venuto tanto bene
ed è per questo, per predicare il giusto
che io ogni tanto mando giù qualcuno
ma poi alla gente piace interpretare
e fa ancora più casino.
Io se fossi Dio
Non avrei fatto gli errori di mio figlio
E specialmente sull'amore
Mi sarei spiegato un po' meglio.
Infatti voi uomini mortali per le cose banali
Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti
Ci avete proprio una bontà
Da vecchi un po' rincoglioniti.
Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate
E tutti che ostentate la vostra carità.
Per le foreste, per i delfini e i cani
Per le piantine e per i canarini
Un uomo oggi ha tanto amore di riserva
Che neanche se lo sogna
Che vien da dire
Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.
Io se fossi Dio
Direi che la mia rabbia più bestiale
Che mi fa male e che mi porta alla pazzia
È il vostro finto impegno
È la vostra ipocrisia.
Ce l'ho che per salvare la faccia
Per darsi un tono da cittadini giusti e umani
Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani
E tante altre attenzioni
Per handicappati sordomuti e nani.
E in queste grandi città
Che scoppiano nel caos e nella merda
Fa molto effetto un pezzettino d'erba
E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.
Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti
Che usate gli infelici con gran prosopopea
Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare
Dalla rupe Tarpea.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti
Che certamente non sono brave persone
E dove cogli, cogli sempre bene.
Signori giornalisti, avete troppa sete
E non sapete approfittare della libertà che avete
Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate
E in cambio pretendete
La libertà di scrivere
E di fotografare.
Immagini geniali e interessanti
Di presidenti solidali e di mamme piangenti
E in questo mondo pieno di sgomento
Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:
Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti
E si direbbe proprio compiaciuti
Voi vi buttate sul disastro umano
Col gusto della lacrima
In primo piano.
Si, vabbè, lo ammetto
La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia
Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza
Non avrei certo la superstizione
Della democrazia.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.
Nel regno dei cieli non vorrei ministri
Né gente di partito tra le palle
Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.
E tutti quelli che fanno questo gioco
Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso
Come la febbre e il tifo
E tutti quelli che fanno questo gioco
C' hanno certe facce
Che a vederle fanno schifo.
Io se fossi Dio dall'alto del mio trono
Direi che la politica è un mestiere osceno
E vorrei dire, mi pare a Platone
Che il politico è sempre meno filosofo
E sempre più coglione.
È un uomo a tutto tondo
Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo
Che scivola sulle parole
E poi se le rigira come lui vuole.
Signori dei partiti
O altri gregari imparentati
Non ho nessuna voglia di parlarvi
Con toni risentiti.
Ormai le indignazioni son cose da tromboni
Da guitti un po' stonati.
Quello che dite e fate
Quello che veramente siete
Non merita commenti, non se ne può parlare
Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.
Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli
Sarebbe come scendere ai vostri livelli
Un gioco così basso, così atroce
Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.
Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto
E mi dispiace ma non son proprio capace
Di tacere del tutto.
Ci son delle cose
Così tremende, luride e schifose
Che non è affatto strano
Che anche un Dio
Si lasci prendere la mano.
Io se fossi Dio preferirei essere truffato
E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato
Preferirei la più tragica disgrazia
Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.
Signori magistrati
Un tempo così schivi e riservati
Ed ora con la smania di essere popolari
Come cantanti come calciatori.
Vi vedo così audaci che siete anche capaci
Di metter persino la mamma in galera
Per la vostra carriera.
Io se fossi Dio
Direi che è anche abbastanza normale
Che la giustizia si amministri male
Ma non si tratta solo
Di corruzioni vecchie e nuove
È proprio un elefante che non si muove
Che giustamente nasce
Sotto un segno zodiacale un po' pesante
E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.
Io se fossi Dio
Direi che la giustizia è una macchina infernale
È la follia, la perversione più totale
A meno che non si tratti di poveri ma brutti
Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.
Io se fossi Dio
Io direi come si fa a non essere incazzati
Che in ospedale si fa morir la gente
Accatastata tra gli sputi.
E intanto nel palazzo comunale
C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti
In modo tale che in questa messa in scena
Tutto si addolcisca, tutto si confonda
In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale
È una schifosa facciata immonda.
Ma io non sono ancora nel regno dei cieli
Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.
Io se fossi Dio
Vedrei dall'alto come una macchia nera
Una specie di paura che forse è peggio della guerra
Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti
È la camorra.
È l'impero degli invisibili avvoltoi
Dei pescecani che non si sazian mai
Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi
È l'impero dei mafiosi.
Io se fossi Dio
Io griderei che in questo momento
Son proprio loro il nostro sgomento.
Uomini seri e rispettati
Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati
Così sicuri dentro i loro imperi
Una carezza ai figli, una carezza al cane
Che se non guardi bene ti sembrano persone
Persone buone che quotidianamente
Ammazzano la gente con una tal freddezza
Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.
Io se fossi Dio
Urlerei che questi terribili bubboni
Ormai son dentro le nostre istituzioni
E anzi, il marciume che ho citato
È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri
Alla Camera e allo Senato.
Io se fossi Dio
Direi che siamo complici oppure deficienti
Che questi delinquenti, queste ignobili carogne
Non nascondono neanche le loro vergogne
E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi
E mostrano sorridenti le maschere di cera
E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.
Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato
Perché la macchia nera
È lo Stato.
E allora io se fossi Dio
Direi che ci son tutte le premesse
Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.
Con una deliziosa indifferenza
E la mia solita distanza
Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente
Sprofondare lentamente nel niente.
Forse io come Dio, come Creatore
Queste cose non le dovrei nemmeno dire
Io come Padreterno non mi dovrei occupare
Né di violenza né di orrori né di guerra
Né di tutta l'idiozia di questa Terra
E cose simili.
Peccato che anche Dio
Ha il proprio inferno
Che è questo amore eterno
Per gli uomini.
IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista
sono sensibile e altruista
orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista
da un po’ di tempo ambientalista
qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.
Io sono un uomo nuovo
per carità lo dico in senso letterale
sono progressista al tempo stesso liberista
antirazzista e sono molto buono
sono animalista
non sono più assistenzialista
ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.
Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso
e vive nel suo paradiso.
Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,
il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza
è un animale assai comune che vive di parole da conversazione
di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori
il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo
e farsi largo galleggiando
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario
sono femminista
son disponibile e ottimista
europeista
non alzo mai la voce
sono pacifista
ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.
Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone
il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione
è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie
poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato
vive e questo già gli basta e devo dire che oramai
somiglia molto a tutti noi
il conformista
il conformista.
Io sono un uomo nuovo
talmente nuovo che si vede a prima vista
sono il nuovo conformista.
Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.
Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.
Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:
“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,
il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa
è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani
e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire
forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”
La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.
LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997
Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.
DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001
Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.
La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
tutti i films che fanno oggi son di destra
se annoiano son di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po' di destra
ma portarle tutte sporche e un po' slacciate
è da scemi più che di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po' di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze è più che mai di destra
la pisciata in compagnia è di sinistra
il cesso è sempre in fondo a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po' di destra
mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione, l'ossessione
della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa, dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera è di destra
la Nutella è ancora di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il pensiero liberale è di destra
ora è buono anche per la sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po' degli anni '20, un po' romano
è da stronzi oltre che di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
L'ideologia, l'ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare
un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c'è
se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.
Tutto il vecchio moralismo è di sinistra
la mancanza di morale è a destra
anche il Papa ultimamente
è un po' a sinistra
è il demonio che ora è andato a destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è di destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po' più di destra
ma un figone resta sempre un'attrazione
che va bene per sinistra e destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Destra-sinistra
Basta!
IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003
La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.
TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:
Io G. G. sono nato e vivo a Milano.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
non è per colpa mia
ma questa nostra Patria
non so che cosa sia.
Può darsi che mi sbagli
che sia una bella idea
ma temo che diventi
una brutta poesia.
Mi scusi Presidente
non sento un gran bisogno
dell'inno nazionale
di cui un po' mi vergogno.
In quanto ai calciatori
non voglio giudicare
i nostri non lo sanno
o hanno più pudore.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
se arrivo all'impudenza
di dire che non sento
alcuna appartenenza.
E tranne Garibaldi
e altri eroi gloriosi
non vedo alcun motivo
per essere orgogliosi.
Mi scusi Presidente
ma ho in mente il fanatismo
delle camicie nere
al tempo del fascismo.
Da cui un bel giorno nacque
questa democrazia
che a farle i complimenti
ci vuole fantasia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
pieno di poesia
ha tante pretese
ma nel nostro mondo occidentale
è la periferia.
Mi scusi Presidente
ma questo nostro Stato
che voi rappresentate
mi sembra un po' sfasciato.
E' anche troppo chiaro
agli occhi della gente
che tutto è calcolato
e non funziona niente.
Sarà che gli italiani
per lunga tradizione
son troppo appassionati
di ogni discussione.
Persino in parlamento
c'è un'aria incandescente
si scannano su tutto
e poi non cambia niente.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Mi scusi Presidente
dovete convenire
che i limiti che abbiamo
ce li dobbiamo dire.
Ma a parte il disfattismo
noi siamo quel che siamo
e abbiamo anche un passato
che non dimentichiamo.
Mi scusi Presidente
ma forse noi italiani
per gli altri siamo solo
spaghetti e mandolini.
Allora qui mi incazzo
son fiero e me ne vanto
gli sbatto sulla faccia
cos'è il Rinascimento.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Questo bel Paese
forse è poco saggio
ha le idee confuse
ma se fossi nato in altri luoghi
poteva andarmi peggio.
Mi scusi Presidente
ormai ne ho dette tante
c'è un'altra osservazione
che credo sia importante.
Rispetto agli stranieri
noi ci crediamo meno
ma forse abbiam capito
che il mondo è un teatrino.
Mi scusi Presidente
lo so che non gioite
se il grido "Italia, Italia"
c'è solo alle partite.
Ma un po' per non morire
o forse un po' per celia
abbiam fatto l'Europa
facciamo anche l'Italia.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo lo sono.
Io non mi sento italiano
ma per fortuna o purtroppo
per fortuna o purtroppo
per fortuna
per fortuna lo sono.
Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.
Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.
E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.
Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano). Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.
Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.
Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio. Ecco uno stralcio delle intercettazioni:
LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».
GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».
LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».
GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».
LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».
GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.
Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.
PRINCIPI COSTITUZIONALI
L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.
I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.
LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.
E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.
LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.
IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.
LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.
E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.
L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.
IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.
I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.
GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.
LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.
IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.
I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.
I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.
IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.
LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.
Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.
L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.
« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)
Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.
Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".
Non solo legisti.....
Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.
ADDIO AL SUD.
"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano' del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.
Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:
«Finita la guerra prenderò congedo
e solo allora dirò a mia figlia
e solo allora dirò a mio figlio:
tu questo sei.
Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.
Adesso anche tu vieni da Sud».
Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.
Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».
Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.
La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.
QUALCHE PROVERBIO AFORISMO
Amico beneficato, nemico dichiarato.
Avuta la grazia, gabbato lo santo.
Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.
Chi non dà a Cristo, dà al fisco.
Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.
Comun servizio ingratitudine rende.
Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.
Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.
Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.
Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.
Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.
L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.
L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.
L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.
L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.
L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.
Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.
Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.
Non far mai bene, non avrai mai male.
Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.
Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.
Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.
Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.
Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi
Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.
In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.
Philippe Gerfaut
L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.
Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)
Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.
Karl Kraus, Di notte, 1918
Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.
Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.
Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.
Luciano di Samosata, Scritti, II sec.
Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.
Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.
Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.
Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:
non sapere;
essere in una posizione subordinata di "potere";
fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;
disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;
vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.
Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.
Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012. Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000.
E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.
Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.
Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.
Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.
"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.
Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”. Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.
Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.
Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.
Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.
“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.
L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.
"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.
Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.
Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.
Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.
Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.
La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.
Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.
Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.
SE NASCI IN ITALIA…
Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.
Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui, con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.
Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.
Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.
A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.
Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.
Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.
A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.
La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.
Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.
Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………
Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.
Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…
Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.
Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.
Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!
Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.
Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.
In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….
Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.
Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.
Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.
Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.
«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».
Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.
Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.
Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?
Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.
Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.
Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)
La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.
Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.
Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.
Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).
Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.
Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.
Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!
Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).
Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?
«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».
Perché si è modificata la procedura penale?
«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».
La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?
«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».
Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?
«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».
La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?
«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.
Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.
Di che ci stupiamo?
Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore della provincia di Bergamo, sposato e padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio 2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno ancora stato messo sotto processo come inequivocabilmente colpevole.
Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.
Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.
Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…
Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...
Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.
Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?
«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».
Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?
«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».
I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?
«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».
L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?
«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».
Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?
«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».
Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?
«Spero di scoprirlo presto».
In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.
«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».
Di fronte a tale affermazione come ha reagito?
«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».
In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…
«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».
Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?
«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».
Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…
«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».
Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?
«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».
Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?
«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».
Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?
«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».
Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.
Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.
Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruo – scrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….
La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.
Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.
Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.
"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.
Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?
«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».
Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?
«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».
Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?
«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».
Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.
«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».
Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?
«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».
Ma all'inaudito non c'è mai fine....
Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.
IL SUD TARTASSATO.
Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.
C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.
Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io...
Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.
(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)
Lasciatemi votare
con un salmone in mano
vi salverò il paese
io sono un norvegese…
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere.
Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;
2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.
L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.
BREMBATE SOPRA: QUANDO GLI ALTRI SIAMO NOI. IL DELITTO DI YARA GAMBIRASIO.
L'omicidio di Yara, romanzo nero in Val Seriana. Silenzi, omissioni, reticenze. Nei paesi scenario dell'omicidio della ragazzina di Brembate Sopra, nel bergamasco, tutti si conoscono. Ma solo la tenacia di un maresciallo è riusciata a scalfire il muro del silenzio, scrive Gigi Riva su “L’Espresso”. Me no. Io no. Per una frase così breve, pronome personale e negazione, è comprensibile anche l’ostico dialetto bergamasco. «Me no» è il ritornello secco, definitivo, quasi ostile che è stato colonna sonora delle ricerche dell’assassino di Yara Gambirasio. Almeno per le orecchie di un maresciallo che si è scontrato, giorno dopo giorno, porta dopo porta, per mille e più porte, con quella che in Sicilia chiameremmo omertà e che, salendo la latitudine, si addolcisce nella più accettabile “riservatezza”. «Me no» è stata la risposta standard opposta alla perenne domanda, declinata in tante sfumature, “sai qualcosa?”. Finché lentamente, colpo dopo colpo, si è aperta una breccia nel muro della diffidenza. Va bene la scienza, il Dna, le compatibilità genetiche, l’allele raro, i laboratori, ma, parallelamente, per venirne a capo, ci sono voluti il sudore artigianale, le scarpe consumate, la pazienza, l’ostinazione. Insomma l’indagine vecchio stile sul territorio, quella basata sulle confidenze, le mezze ammissioni, le connessioni da interpretare, le tessere di un mosaico che si incastrano e vanno al posto giusto. Per raccontare questo lato meno noto dell’indagine bisogna tornare all’ottobre scorso. Yara è stata uccisa da quasi tre anni. Da uno gli inquirenti sanno chi è il padre dell’assassino. Ci sono arrivati grazie a un mix di tenacia e fortuna. Isolata una traccia di Dna maschile (battezzata “Ignoto 1”) sugli slip e sui leggings della tredicenne hanno disposto il più esteso screening di massa della storia italiana, 18 mila campioni raccolti. Compresi quelli dei frequentatori della discoteca “Sabbie Mobili” di Chignolo d’Isola, che si trova accanto al campo dove è stato rinvenuto il cadavere. Sorpresa: un cliente del locale da ballo, Damiano Guerinoni, innocente, bene precisarlo subito, condivide con “Ignoto 1” il ceppo familiare per via paterna. Di parente in parente sono risaliti allo zio, Giuseppe Guerinoni, di Gorno, autista di autobus, morto nel 1999 a 60 anni, sposato con due figli, pure completamente estranei. Eppure è lui, per la scienza, il padre del presunto killer al 99,99999987 per cento. Un figlio illegittimo, è il sospetto. Corroborato da quanto affermato da Vincenzo Bigoni, collega di Guerinoni: «Mi confidò che aveva messo nei guai una ragazza di San Lorenzo di Rovetta. Sarà stato all’inizio degli anni Sessanta». Verità nella sostanza, ma alcuni dettagli sbagliati, il periodo, il luogo, allontanano la soluzione. Torniamo all’ottobre 2013 scorso. Gli inquirenti, più che brancolare nel buio, sono appesi a una provetta. Quasi peggio, psicologicamente: sei a un passo e non procedi mai. Chignolo d’Isola, Brembate Sopra (il paese di Yara), sono all’inizio della pianura bergamasca a ridosso del capoluogo. Gorno, San Lorenzo di Rovetta, una cinquantina di chilometri più su, Alta Valle Seriana, dintorni di Clusone. È là che viene custodito il mistero. Là bisogna vincere il muro di gomma. Letizia Ruggeri, il pm, ha nella sua squadra di polizia giudiziaria un maresciallo dei carabinieri, Giovanni Mocerino, 58 anni, originario di Afragola (Napoli). A 20 anni, vinto un concorso alle poste, si è spostato a Varese. Vita impiegatizia? Non faceva per lui. Sente la vocazione della divisa, entra nell’Arma e prende servizio proprio a Clusone, inizio degli anni Ottanta. Lì ancora abita e fa la spola con Bergamo. Chi meglio di lui, una faccia nota, rassicurante, per penetrare nei segreti di questa “Twin Peaks” orobica, con molte similitudini con la famosa serie tv americana di David Lynch? Anche qui c’è l’omicidio di una ragazza, seppur avvenuto altrove, anche qui c’è da far affiorare il lato oscuro di una comunità di montagna. E l’agente speciale Dale Cooper è un signore dall’aria paciosa, giacca cravatta, capelli e barba bianchi: Mocerino appunto. Il maresciallo ha un nucleo forte dal quale partire, Giuseppe Guerinoni. Da quel centro irradia le ricerche. I congiunti, i colleghi, gli amici, i passeggeri dell’autobus. Il suo è un viaggio a ritroso nel tempo, nell’Alta Valle Seriana degli anni Sessanta - Settanta, in quel mondo che usciva dalla miseria ed entrava, a pieno titolo, nel boom con le fabbriche cresciute attorno al fiume Serio per alimentare, oltre al benessere, il mito della laboriosità bergamasca. Ma si scontra con quella sequela infinita e scoraggiante di «me no». Un’indisponibilità per timore di violare la privacy e rovinare famiglie che finisce per equiparare, nel tetragono mutismo, un adulterio a un omicidio. Però va avanti, Mocerino, convinto che non ci possa essere segreto così impenetrabile da resistere alla sua cocciutaggine. Diverse volte crede di esserci arrivato per una coincidenza di indizi: donna, dell’età giusta, della zona giusta, e con un figlio illegittimo. Ma è il laboratorio di genetica a smontare l’illusione, a strozzare in gola un urlo di vittoria che un Paese intero attende. Perché Yara è uno di quei casi di cronaca nera che eccedono se stessi e diventano metafora della capacità di uno Stato di esercitare la giustizia. Tanto più ora che la tecnologia mette a disposizione strumenti prima impensabili. Tanto più ora che si è arrivati “a tanto così” e non si può subire l’onta di una beffa. Passa però l’autunno 2013. Si entra nel quarto anno dal delitto e niente succede. L’inverno copre di neve i monti delle Orobie e il maresciallo non molla. Va di bar in bar, di casa in casa, offre e si fa offrire caffè. Scende a Bergamo per riferire a Letizia Ruggeri. Niente. Solo un congruo numero di corna scoperte e che erano state cristianamente sepolte nell’oblio. Tornano verdi i prati dell’altopiano di Clusone, fiorisce la primavera e, quando diventa tardiva, ecco la svolta. Per sublimare la quale bisogna lasciare la fiction di “Twin Peaks” e scomodare la grande letteratura per le assonanze con “La lettera scarlatta” di Nathaniel Hawthorne (nella trama, un adulterio) e soprattutto con “La lettera rubata” di Edgar Allan Poe, quel documento che stava sotto gli occhi degli investigatori ma che nessuno vedeva. Perché, come scopriremo, la madre del presunto killer che tutti cercavano era la vicina di casa del padre biologico. E il testimone chiave il vicino di casa del nostro maresciallo. Siamo ai primi di giugno, dunque, e Mocerino si rimette per l’ennesima volta faccia a faccia con Antonio Negroni, il vicino appunto, nonché un anziano autista come Guerinoni. Esce, da quel colloquio, il nome di Ester Arzuffi. È il precipitare verso l’epilogo. L’Arzuffi era stata censita tra le 584 donne che erano entrate in contatto, a qualunque titolo, con Giuseppe Guerinoni, tanto che già nel 2012 era stata sottoposta al test del Dna. Qui due versioni opposte entrano in collisione. Una vuole che quel campione fosse tra i 4 mila (su 18 mila) ancora da analizzare, l’altra che fosse stato vagliato ma sia stato commesso un errore. In ogni caso il 13 giugno i laboratori danno il responso: è la madre di “Ignoto 1”. Due giorni dopo suo figlio Massimo Giuseppe Bossetti, 43 anni, muratore, viene fermato per un controllo stradale e sottoposto all’etilometro, lo stratagemma escogitato per prendergli il Dna. Arriva il responso atteso: è lui. E viene incarcerato, 16 giugno, con l’accusa di essere l’assassino di Yara Gambirasio. Non si capisce tanta fretta se non coniugandola alla lunga attesa. Per irrobustire l’apparato accusatorio (in aula il Dna non basta) si poteva mettere sotto controllo il telefono, fargli capire che era braccato, aspettare il passo falso. È sempre facile, a posteriori, riprendere il filo degli indizi e rammaricarsi degli sbagli, del tempo perso. In questo caso con qualche ragione decisiva, scritta nelle biografie degli amanti di allora, Ester Arzuffi e Giuseppe Guerinoni. Lei, classe 1947, è originaria di Villa D’Ogna, a ridosso di Clusone, un paese che al censimento del 1971 denuncia 1727 anime, dove tutti si conoscono e dove non passa certo inosservata l’intrigante Ester con gli occhi color del cielo. Non ha ancora 20 anni, nel 1967, quando si sposa con Giovanni Bossetti e va con lui ad abitare a Ponte Selva, frazione di Parre, grumo di case sul ciglio di alcuni tornanti in salita. Il vicino di casa è proprio Giuseppe Guerinoni, l’autista, al quale l’ingenuo marito affida il compito di portare tutte le mattine la moglie al lavoro alla manifattura “Festi-Rasini” di Villa d’Ogna, distante cinque chilometri, e che a quell’epoca impiegava centinaia di operaie. Davanti alla fabbrica c’era (c’è ancora) un bar dove si attardava la trentina di autisti in attesa della fine dei turni e dove capitava spesso che quei conducenti e quelle ragazze si mischiassero per una canzone al jukebox, l’accenno di un ballo. Giuseppe Guerinoni ha otto anni più di Ester, è «ö bel òm», un bell’uomo anche nel ricordo attuale di chi lo conobbe e quanto duri quel legame è impossibile sapere dato che lui non c’è più e che lei lo nega contro l’evidenza scientifica. Di certo alcune centinaia di persone potevano sospettare della liaison su quel fazzoletto di terra dove ognuno si fa gli affari propri anche se tutti conoscono gli affari degli altri. Sono ancora vive e in salute molte delle operaie della “Festi-Rasini” che li vedevano comparire insieme, tutte le mattine per almeno un paio d’anni. E poi Vincenzo Bigoni. Ricordate? È l’autista che sbaglia la data e il luogo, ma è amico di tutti e tre, lei, lui e l’altro. E di cui adesso gli inquirenti dicono: «Speriamo che davvero lo abbia tradito la memoria...». Comunque sia, nel 1969 Ester e il marito Giovanni Bossetti lasciano la Val Seriana, lui si è stancato del lavoro alla “Pozzi”, hanno deciso di prendere l’auto e di fermarsi dove troverà una nuova occupazione, allora funzionava così: sarà la“Philco” di Brembate Sopra. Si sono trasferiti da un anno, è l’autunno del 1970, quando nascono due gemelli, Massimo, l’incriminato per l’omicidio, e Laura, riconosciuti dal Bossetti ma figli naturali dell’autista di Gorno per il Dna. E si può dunque dedurre che la storia fedifraga sia continuata almeno un po’. Il segreto di Ester sarebbe stato inespugnabile se le tracce genetiche del figlio non fossero finite sugli slip di Yara provocando il terremoto in una società abituata ai silenzi del monte Presolana e a chiudere le imposte se passa un forestiero, magari per spiarlo da dietro le persiane. Finiranno le dirette tv, i parroci non dovranno più invitare, come fanno in questi giorni, a «pregare e non parlare». Anche se tacere è un’omissione. Chi scrive è della Val Seriana. Nel cortile della mia infanzia abitava una ragazza madre. A chiunque le chiedesse chi fosse il padre rispondeva: «Ön òm coi braghe», un uomo coi pantaloni. Si è portata quel nome nella tomba. Fiera di quel suo essere così bergamasca e così fedele a un giuramento. Ma copriva la sua storia, non un omicidio.
La madre di Yara scrive a Napolitano e critica le indagini sul caso. La madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, ha scritto al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a più di due anni dalla morte della figlia. Il testo della lettera parla di "Scarsa collaborazione degli investigatori con la parte lesa". E' quanto rivela la puntata "Quarto Grado" andata in onda venerdì 25 gennaio 2013. Secondo quanto riferito dalla trasmissione, nella lettera inviata al Capo dello Stato, la madre di Yara esprime le proprie critiche nei confronti di chi ha eseguito l’inchiesta. Un’indagine che si è concentrata, prima sul cantiere di Mapello, poi sull’ipotetico figlio illegittimo di un autista bergamasco morto da anni, basandosi sul Dna. La donna manifesta dunque al Presidente Napolitano tutto il dolore e lo sconforto perchè, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia. Dolore e sconforto. Sentimenti troppo forti per continuare a rimanere chiusi a doppia mandata nel proprio cuore. Scrive Cesare Zapperi, su “Il Corriere della Sera”. Mamma Maura lo ha fatto per quasi due anni, ma adesso non ce la fa più. E lo scrive, in una lettera accorata, al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L'assassino di sua figlia Yara non ha volto. Tante le piste, tante le supposizioni, tante le amarezze sopportate dal giorno in cui il corpo della ragazzina è stato trovato in un campo incolto di Chignolo d'Isola. Ma vedere che la Giustizia non approda a nulla è troppo anche per chi non ha mai perso occasione di manifestare fiducia negli investigatori e negli inquirenti. Proprio per questo l'iniziativa è clamorosa. Mamma Maura si rivolge direttamente al Capo dello Stato, come rivelato dalla trasmissione «Quarto grado». Lo fa da semplice cittadina che si rivolge alla massima autorità. Il tono è pacato ma fermo. Le parole misurate, gli aggettivi calibrati. Ma da quelle poche righe emerge forte, senza inutili orpelli, l'insoddisfazione per il modo in cui finora sono state condotte le indagini sull'omicidio di Yara. Senza assumere i toni del «j'accuse», la lettera sottopone a Napolitano i dubbi e le perplessità che più volte sono state sollevate anche dagli organi di informazione. Le diverse piste battute: dal cantiere di Mapello ai sospetti su Mohamed Fikri fino al figlio illegittimo di un autista di Gorno morto ormai da parecchi anni. La battaglia, legittima certo, ma poco comprensibile all'uomo della strada, tra pubblico ministero e giudice per le indagini preliminari. I tempi infiniti per avere risposta anche sulle iniziative del proprio legale. Mamma Maura rende partecipe il presidente della Repubblica del dolore provato in questi due anni (Yara fu trovata cadavere a Chignolo il 27 febbraio del 2011) e gli esterna il suo sconforto. Non si aspetta che la soluzione arrivi dal Quirinale. Non cerca a Roma le risposte che tardano ad arrivare (se mai arriveranno) da Bergamo. È lo sfogo di una cittadina amareggiata e delusa. Il grido di dolore di un'intera famiglia che ha sempre tenuto un atteggiamento molto composto. I Gambirasio hanno dovuto farsi forza. All'inizio non avevano voluto nemmeno affidarsi a un avvocato, come pure qualcuno aveva consigliato loro anche solo per mantenere il controllo sull'operato degli inquirenti. Poi, si erano convinti ad affidarsi ad Enrico Pelillo, il legale che dal momento in cui fu effettuata l'autopsia li segue. Ed è toccato a lui sollecitare, come parte lesa, il pubblico ministero ad effettuare nuovi accertamenti. Di qui anche la soluzione di affidarsi a un consulente del calibro dell'ex ufficiale del Ris di Parma, Giorgio Portera, che ha portato nuovi elementi all'attenzione degli inquirenti. Ma era stata proprio Maura Gambirasio ad esternare, rompendo il silenzio fin lì rigorosamente osservato, in aula davanti al giudice per le indagini preliminari Ezia Maccora, lo sconcerto per la mancata verifica delle traduzioni della frase di Fikri che hanno ingenerato più di un sospetto. «Posso dire una cosa?» si era fatta avanti con tono fermo in Tribunale. «Da mamma mi chiedo com'è possibile che le traduzioni siano così diverse», aveva chiesto rivolgendosi al giudice. Un paio di mesi prima, ancora lei aveva sussurrato: «Se questo ragazzo non c'entra nulla, sarò io la prima a chiedergli scusa». E invece, rimane ancora tutto aperto. Il pubblico ministero che vuole l'archiviazione del marocchino. Il gip si oppone. E il mistero, insieme al dolore di una madre e di una famiglia, rimane profondissimo.
La madre di Yara, insomma, avrebbe manifestato tutto il dolore e lo sconforto perché, dopo anni d’indagini, la figlia non ha ancora avuto giustizia, scrive “Il Secolo XIX”. "Cosa è successo quel giorno a Brembate? Qualcuno ce lo dovrà dire?''. E' questo il commento del sindaco Stefano Locatelli alla notizia della lettera scritta dalla madre di Yara Gambirasio al Presidente della Repubblica per lamentare l'assenza di risultati e le piste nulle dell'inchiesta. ''Una cosa è la fiducia, dei cittadini come della famiglia, che non è mai venuta meno, un'altra è produrre delle risposte'', ha detto il sindaco, che già in passato aveva con forza auspicato che venisse chiarito l'accaduto. ''Ringraziamo tutti per il lavoro svolto - ha proseguito - ma è legittimo chiedere risposte, capire dove si è sbagliato e dove si sono fatti dei passi avanti, capire se le risorse spese sono state bene o male indirizzate''. Il primo cittadino ha precisato che «non chiediamo giustizia e non abbiamo rabbia, ma è ovvio che chi era a capo delle attività renda conto, bisogna capire cosa non ha funzionato, se il caso è chiuso o se si può ancora arrivare alla verità. Non sapevo della lettera, ma possibile che bisogna sempre fare appelli? Ognuno faccia il proprio dovere, e se qualcuno ha sbagliato ci sono quelli preposti a valutare». Infine, Locatelli ha ricordato come Napolitano «fu sin da subito vicino alla comunità», tanto che «telefonò nei primi mesi delle indagini per esprimerci la sua vicinanza dopo alcune polemiche seguite al fermo di Fikri».
Un po' di chiarezza sulle indagini su Yara. Dna, peli, sangue, auto, furgone. L'inchiesta su Massimo Bossetti si sta complicando, scrive Giorgio Sturlese Tosi su “Panorama”. L'inchiesta sul delitto di Yara Gambirasio è tutt'altro che conclusa. Lo ha detto il pubblico ministero Letizia Ruggeri, il 20 giugno scorso, in una conferenza stampa senza precedenti (nell'ex aula di Corte d'Assise di Bergamo, con autorità costrette in piedi per il tutto esaurito). E se lo dice la pubblica accusa c'è da crederci. Anche perché non tutto è filato liscio in questa indagine che rimarrà negli annali della storia criminale. Come pure peseranno, nel processo a carico di Massimo Bossetti, le liti, le discrepanze e alcuni passaggi ancora oscuri della vicenda sul come si è giunti fino a lui. Lo scoop di Alfano. Placata la tempesta di polemiche sul ministro dell'Interno Angelino Alfano, che nella foga di divulgare la notizia dell'arresto di Massimo Bossetti ha anticipato anche la sentenza ("Individuato l'assassino di Yara Gambirasio", tweet delle 18.24 del 16 giugno), oggi è possibile ricostruire i retroscena di un arresto istituzionalmente rocambolesco. Con la procura che pianifica il blitz nel cantiere di Seriate assieme ai carabinieri, riservandosi di avvertire la Polizia solo all'ultimo minuto utile perché qualche agente, recuperato nei corridoi oziosi della questura del tardo pomeriggio, indossi la pettorina di nylon con la scritta "Polizia" ben evidente e si precipiti al cantiere. Tra loro anche quell'agente, più probabilmente un funzionario, che si premura, doverosamente, di tenere informati i suoi vertici. E di vertice in vertice... Intanto, però, una cronista del corriere di Bergamo aveva fiutato l'agitazione degli investigatori. Si precipita fuori dalla redazione ma sbaglia valle e, mentre cerca affannosamente conferme al telefono, Alfano le brucia lo scoop della carriera. Toghe in guerra. lo scontro non è solo tra organi dello Stato. Da anni, a Bergamo, sul caso Yara, procura e tribunale sono in guerra. Da quando il gip Ezia Maccora ha rifiutato a più riprese la richiesta di archiviazione del marocchino Mohamed Fikri chiesta dal pm Letizia Ruggeri. Oggi lo scontro si ripete, con lo stesso pubblico ministero che arresta indicando, tra le motivazioni del fermo, anche il pericolo di fuga dell'indagato. E lo stesso gip che, non potendo scarcerare l'uomo il cui Dna era sugli slip di Yara, "non convalida il fermo di Bossetti Massimo Giuseppe perché illegittimamente disposto" ma, al contempo, "applica la misura cautelare in carcere". Questione di lana caprina, si dirà. Dispettucci tra uffici giudiziari. In realtà sintomatici e forse anticipatori di possibili schermaglie in punta di diritto almeno nella fase predibattimentale del processo. Cortocircuito tra periti. Sul corpo di Yara, nel campo di Chignolo d'Isola, furono repertati centinaia di peli e capelli. Nella rincorsa ad individuare il proprietario del Dna, Ignoto 1, queste formazioni pilifere erano state messe da parte. Solo grazie alle ripetute richieste dei consulenti della famiglia Gambirasio, e dopo un altro scontro tra gip e pubblico ministero, i capelli sono arrivati all'istituto di Medicina legale dell'Università di Pavia, incaricato di estrapolare i profili genetici da peli e capelli. Un lavoro improbo, reso ancor più difficile dal numero di peli animali e dal deterioramento dei reperti che, dopo tre mesi agli agenti atmosferici, hanno perso parte del patrimonio biologico. A sorpresa, nei giorni scorsi, il direttore dello stesso dipartimento, il professor Fabio Buzzi, in un'intervista, dichiara inequivocabilmente che in quei peli c'è il Dna di Ignoto 1, cioè di Massimo Bossetti. Come dire, per Bossetti, "fine pena mai". Le affermazioni del professor Buzzi però, confermate a più riprese e su vari organi di stampa, provocano imbarazzo, non solo in procura. I cronisti cercano di contattare il pm Ruggeri, irraggiungibile. Trovano allora, al cellulare, il procuratore capo di Bergamo, Francesco Dettori che, colto per strada a Milano, risponde che non gli risulta. Più preciso, nelle ore successive, il dottor Carlo Previderè, genetista incaricato della perizia che sta svolgendo nei laboratori diretti dal professor Buzzi. Che all'Ansa dichiara: "La notizia circa la corrispondenza di una formazione pilifera all'indagato è totalmente priva di fondamento". Fine? No, perché poco dopo lo stesso dottor Previderè chiede un mese di proroga per depositare la perizia in procura. La stessa perizia che per il suo direttore sarebbe stata consegnata "a giorni". Il Dna dei misteri. E poi c'è quel Dna, la prova regina. Quella lasciata da Bossetti sugli slip e sui leggings di Yara. Come ci si è arrivati davvero? Il pm Ruggeri, in conferenza stampa, ha ammesso che il Dna della madre di Bossetti era stato prelevato già nel 2012, nell'ambito di quelle ricerche a tappeto nelle valli bergamasche volte ad individuare la madre di Ignoto 1, dato che era risultato essere un figlio illegittimo di madre ignota. Il pm Ruggeri, sempre in conferenza stampa, aggiunge anche che il cellulare di Bossetti, assieme a quello del fratello, era stato agganciato dalle celle telefoniche che irradiano il segnale nei luoghi dove Yara è scomparsa. Insieme ad altri 120 mila utenti. Che sarebbero stati tutti sottoposti a prelievo di Dna, anche ci fossero voluti dieci anni. E invece un pettegolezzo di un anziano della val Seriana, confidato ad un maresciallo del posto, ha portato alla svolta, permettendo di individuare, in poche ore, il presunto assassino. Ma con cosa fu comparato il Dna della madre di Bossetti? Secondo alcune indiscrezioni quel Dna faceva parte di un lotto di campioni che per errore sarebbero stati confrontati non con quello di Ignoto 1, bensì con quello dei Gambirasio. Vero? Oggi nessuno lo vuole confermare ufficialmente. Perché è il momento di distribuire la meritata gloria a chi, magari anche commettendo qualche errore, ha collaborato ad un'indagine che più complessa non si può. E, sempre a proposito del dna di Bossetti su Yara, di che si tratta? Sangue, saliva, o altro? Gli avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni e Silvia Gazzetti, vogliono saperlo. Perché, dicono, la sua origine potrebbe svelare dinamiche e responsabilità di un delitto ancora tutto da chiarire.
26 novembre 2010, la scomparsa - 26 febbraio 2011. Yara, finita la speranza. Come Sarah Scazzi di Avetrana, i fratellini di Gravina di Puglia, Ciccio e Tore, Elisa Claps ed Ottavia de Luise di Potenza. Come migliaia in Italia. Trovato il corpo: era a 300 metri dal Centro delle ricerche. Incredibili analogie col caso dei fratellini di Gravina, trovati morti in un pozzo, nel centro del paese, dove nessuno aveva guardato.
E’ andata in onda l’8 febbraio 2012, un nuovo appuntamento con Chi l’Ha Visto?, la trasmissione di Rai Tre condotta da Federica Sciarelli, che tratta casi di cronaca e di scomparsa. E’ andato in onda un interessante resoconto sul caso di Yara Gambirasio: oltre allo sfogo di Belotti è stata mostrata la lettera di due sostenitori delle forze dell’ordine che esprimono tutto il loro dispiacere per come sono state condotte le indagini fino a questo momento. Le perplessità sulle indagini del caso Yara Gambirasio hanno visto protagonista anche l’assessore regionale Daniele Belotti, il quale si è detto poco convinto di quello che è successo fino ad ora, le indagini sarebbero costellate di errori e ciò sarebbe anche dovuto alla storica rivalità tra polizia e carabinieri. Tutto sarebbe partito dalle dichiarazioni di alcune persone alle quali sarebbe stato prelevato il DNA: ebbene ad alcuni sarebbe stato chiesto il prelievo per il DNA per ben due volte (sia dalla polizia che dai carabinieri), segno che le due forze non starebbero collaborando. Se così fosse si spiegherebbero alcune cose: il ritardo nelle indagini, le incongruenze e i quasi 10mila prelievi per esame del DNA che hanno portato (ancora oggi) a scarsi risultati. A Chi l’Ha Visto è stato fatto il punto sulle indagini del caso e ancora una volta ci si è chiesti come mai si brancoli ancora nel buio. Perplessità anche sul comportamento del pm, colpevole di non aver voluto consentire alla famiglia di Yara Gambirasio l’accesso ai documenti delle indagini ma anche di aver stabilito troppo presto il dissequestro del campo dove la piccola Yara è stata ritrovata. A Chi l’ha visto” continuano ad arrivare, da varie zone d’Italia, segnalazioni di persone che vivono lontano da Brembate alle quali gli inquirenti hanno chiesto un campione di Dna. Altre, invece, pur avendo avuto a che fare con la palestra di Yara proprio nel giorno dell’omicidio, hanno contattato il programma per dire che non sono state interpellate. Dopo che la famiglia Gambirasio ha nominato un legale e un consulente genetico, il prof. Giorgio Portera, biologo e genetista forense dell’università di Milano, dubbi sulle indagini sono stati espressi clamorosamente da una raccolta di firme. È stata lanciata dall'assessore regionale lombardo a Territorio e Urbanistica Daniele Belotti, che ha deciso di inviare al ministro della Giustizia Paola Severino e per conoscenza al vicepresidente del Csm, al procuratore generale della Corte d'Appello di Brescia e al procuratore aggiunto di Bergamo, la richiesta di sostituire o "in alternativa" affiancare al pubblico ministero Letizia Ruggeri "un pm di provata esperienza e capacità". Nel documento sono citati "l'affrettato dissequestro dell'area in cui è stato ritrovato il corpo, il mancato sequestro" e la mancata "perquisizione dell'auto e del furgone con cui Mohammed Fikri e i suoi amici si erano imbarcati diretti a Tangeri; il mancato controllo su un centinaio di operai stranieri che lavoravano al cantiere di Mapello; la mancata richiesta di rogatoria internazionale in modo da poter verificare se il telefonino di Yara fosse stato utilizzato all'estero; la mancanza di coordinamento tra le varie forze dell'ordine", tanto che "diversi Dna risulterebbero essere stati raccolti due volte, sia dai carabinieri che dalla polizia". Belotti ha anche definito "inspiegabile” il diniego opposto alla richiesta fatta dal prof. Portera, a nome della famiglia Gambirasio, di poter accedere agli atti dell'inchiesta. Intervistato da “Chi l’ha visto?”, il consulente di parte ha detto che la famiglia di Yara, pur mantenendo la massima fiducia negli inquirenti, vuole sapere che cosa è stato fatto finora dal punto di vista scientifico e non ha accolto positivamente il rifiuto. Portera ha ribadito che la richiesta, fatta come parte offesa, ha uno scopo collaborativo e che continua a sperare possa essere accolta al più presto.
Acceso dibattito, anche nella puntata del 3 febbraio 2012 del ciclo di "Quarto Grado", in merito al caso di Yara Gambirasio ed alla richiesta di sostituzione o affiancamento del pm titolare delle indagini, Letizia Ruggeri, fortemente criticata per la gestione dell'inchiesta, nella quale sarebbero stati accumulati ritardi, malfunzionamenti ed errori. Di fatto, le indagini sull'omicidio della tredicenne di Brembate sono comunque ad un punto fermo, né si comprende, al momento, che direzione intendano prendere. Tema conduttore della puntata, la petizione dell'assessore regionale della Lombardia a Territorio e Urbanistica, Daniele Belotti, il quale si è fatto promotore della petizione indirizzata al ministro della Giustizia, Paola Severino per sostituire il pm che indaga sulla morte di Yara o l’affiancamento di un magistrato di provata esperienza, per scoprire la verità. Nella vicenda è intervenuta anche la Associazione Nazionale Magistrati, che ha preso le parti del pm Ruggeri, ritenendo assolutamente inopportuna l'iniziativa dell'assessore Belotti, ma fatto sapere anche di non voler prendere una posizione sulla gestione del caso Gambirasio, in quanto caso delicatissimo e tutt'ora in corso. Un'intromissione sarebbe lesiva della deontologia professionale. Ma le adesioni alla petizione stanno però aumentando giorno dopo giorno, soprattutto da parte di sindaci di molti paesi ed esponenti politici che condividono questa posizione.
Yara, il pm Ruggeri querela Belotti "Procederemo per diffamazione". Secondo “Il Giorno” la denuncia non è ancora stata inviata alla Procura di Venezia, ma il pm Letizia Ruggeri querelerà per diffamazione l’assessore regionale leghista Daniele Belotti, che ha lanciato una petizione fra gli amministratori bergamaschi per chiedere la sostituzione o, in alternativa, l’affiancamento con un pm di «provata esperienza», del sostituto procuratore che coordina le indagini sul delitto di Yara Gambirasio, la 13enne di Brembate Sopra scomparsa il 26 novembre 2010 e il cui cadavere venne ritrovato tre mesi dopo, il 26 febbraio del 2011, in un campo incolto di Chignolo d’Isola. Il magistrato non ha gradito soprattutto la frase in cui, parlando di lei, si scrive «conferma, purtroppo, un basso profilo sia tecnico che morale per un caso di simile rilevanza». La conferma arriva dal legale del magistrato, l’avvocato Roberto Bruni. «L’intenzione della dottoressa Ruggeri è quella di procedere con la querela - spiega -. Ho letto, inoltre, che Belotti vuole inviare la petizione anche al ministro della Giustizia, al presidente del Consiglio superiore della magistratura, al procuratore generale della Corte d’Appello di Brescia e al procuratore aggiunto di Bergamo, Massimo Meroni. E questo fatto, secondo me, costituisce un’ulteriore diffamazione, in quanto altre persone verrebbero a conoscenza della frase ingiuriosa». Dal canto suo Daniele Belotti annuncia che andrà avanti con la sua iniziativa. «Anche stamattina - sottolinea - mi sono arrivate le adesioni di diversi amministratori. Ma confermo che la petizione la firmerò solo io. Pentito per quella frase? Assolutamente no. Il mio è stato uno sfogo, dettato dalla delusione e dalle modalità con cui il magistrato ha negato alla famiglia, con solo tre righe di spiegazione, l’accesso agli atti delle indagini. Sono convinto che anche l’aspetto umano abbia un valore. Mi riferivo, insomma, al caso specifico, alla condotta specifica, non certo alla persona della dottoressa Ruggeri, che neppure conosco. Molte e-mail che ho letto in questi giorni mi danno ragione e mi invitano a non desistere». «Per quanto riguarda, invece, l’intervento dei giudici che hanno ricordato che un intervento della politica sulla magistratura non ha senso e non è previsto dall’ordinamento, do loro ragione - conclude Belotti -. È tutto vero, ma mi chiedo anche se deve arrivare un assessore regionale a metterci la faccia prima che la giustizia si muova per dare un supporto al pm del caso Yara». Belotti respinge invece l’accusa di aver dato vita all’iniziativa per ottenere visibilità politica. «A chi dice questo, rispondo che quando si intraprendono certe azioni la visibilità è niente rispetto ai rischi che si corrono. Ho sentito in forma anonima molti agenti di polizia che condividono tanti miei dubbi. Se tanti la pensano così, ma nessuno ha mai avuto il coraggio di dirlo, significa che i rischi sono molti».
Il tenue filo a cui erano ancora aggrappate le speranze dei genitori di Yara Gambirasio si è spezzato nel pomeriggio di sabato 26 febbraio 2011, quando è stato rinvenuto il corpo senza vita della 13enne scomparsa il 26 novembre 2010 da Brembate Sopra. Il cadavere della ragazzina, praticamente scheletrito, giaceva in un campo in località Madone, a pochi chilometri da casa sua, in un'area incolta, in prossimità del Centro di coordinamento delle ricerche che dista neppure 300 metri dal luogo del ritrovamento. Il corpo della tredicenne è stato rinvenuto in una campo tra Madone e Chignolo d'Isola, a una decina di chilometri da Brembate di Sopra, il paese in cui la ragazza viveva con la famiglia, e a poche centinaia di metri dal centro di coordinamento delle ricerche. Era abbandonato in un campo incolto, fra l'erba alta, in posizione supina con braccia e gambe leggermente allargate. Sul collo e sulla schiena, stando a prime informazioni, sarebbero stati trovati segni di un'arma da taglio, forse un coltello. Yara era ferita anche sui polsi, cosa che potrebbe testimoniare un'eventuale colluttazione della ragazzina con il suo o i suoi aguzzini. Le ferite sul corpo dell'adolescente, però, potrebbero anche essere segni dovuti all'azione degli agenti atmosferici sul cadavere. Ed è giallo su come il suo corpo possa essere arrivato in quel campo. C'è chi sostiene che possa essere stato portato lì addirittura nella mattinata. Gli investigatori hanno ascoltato un testimone che dice di aver visto un'auto partire a tutta velocità dal sentiero dove è stato rinvenuto il corpo. Lo stato di decomposizione, però, sembra rendere insostenibile questa tesi. Il corpo si presenta in parte mummificato e in parte scheletrito. C’era anche il porta chiavi e l’apparecchio ortodontico, l'ipod, la sim e la batteria del cellulare che la ragazzina portava al momento della scomparsa. Essendo in stato di decomposizione avanzato, a dire dei primi soccorritori, il cadavere sembrava particolarmente fragile. Gli accertamenti immediati dovranno stabilire se il corpo sia rimasto in quel posto sin dal giorno della scomparsa della ragazzina oppure se vi sia stato trasportato in seguito. La prima ipotesi getterebbe pesanti ombre sul lavoro degli investigatori: in tal caso vi sarebbero analogie col caso dei fratellini di Gravina trovati morti in un pozzo a due passi dal municipio del loro paese e cercati altrove, mentre a tutti sfuggiva quello che avevano sotto il naso.
Il cadavere era in avanzato stato di decomposizione e il riconoscimento formale è venuto dai genitori Maura e Fulvio Gambirasio, all'istituto di Medicina legale di Milano. E’ stato forse il momento più atroce che mai nessun papà o mamma al mondo sicuramente vorrebbe vivere. Prima di varcare l'ingresso dell’obitorio la signora Maura straziata dal dolore si è rivolta al capo della polizia di Bergamo, il questore Vincenzo Ricciardi: «Perché in questi mesi ci avete detto che Yara era viva? Sulla base di cosa? È stata trovata morta dopo tre mesi. Se per di più il corpo è sempre rimasto nel luogo dove è stato scoperto che cosa vi portava a dire che era ancora viva?» Secondo gli inquirenti è più probabile che Yara sia stata uccisa a coltellate, dopo un tentativo di autodifesa, nelle ore immediatamente successive alla sua sparizione e che il suo corpo sia rimasto tra le sterpaglie di Chignolo d’Isola per i successivi tre mesi. Appunto. In quel campo effettuate soltanto ricerche marginali. Gli inquirenti avrebbero accertato che le ricerche in quel campo furono condotte il 12 dicembre 2010 da un gruppo di circa 15 persone che in quella giornata si occupò delle zone di Bonate Sopra (l'area del tiro al piattello), Terno D'Isola (le aree adiacenti il cimitero) e Chignolo D'Isola (la zona di via Bedeschi). Il gruppo delle ricerche, che comprendeva dieci volontari della Protezione Civile, due carabinieri e almeno un'unità cinofila, si sarebbe diviso in due diverse direzioni: una che portava verso un'area di alberi, alle spalle del campo dove sono stati trovati i resti, e una verso un torrente che scorre parallelo allo sterrato."Pensavo di trascorrere un pomeriggio di distensione, invece la notte non ho dormito. Sono molto scosso, sto male". A parlare è Ilario Scotti, impiegato 48enne di Bonate Sotto, l'uomo che quel sabato pomeriggio verso le 15.30 ha trovato il corpo di Yara Gambirasio a Chignolo d'Isola. "E' stato solo un caso - ripete nell'intervista pubblicata da L'Eco di Bergamo - un caso fortuito. Di solito faccio atterrare l'aeroplanino ai miei piedi, sull'asfalto, non nel prato. Ma l'aereo ha compiuto una traiettoria anomala, non volava bene così l'ho fatto scendere nel campo, per evitare che cadesse e si rompesse". Quel modellino è così finito a terra, a un metro di distanza dal corpo di Yara. "Mi sono addentrato nel campo per recuperarlo - spiega - e quando l'ho trovato, a circa un metro ho notato qualcosa tra le sterpaglie. La prima impressione è di aver visto un mucchio di stracci buttati lì da qualcuno. Ma appena mi sono reso conto che si trattava di una persona ho chiamato il 113". Ilario Scotti conosceva la storia di Yara, ma al momento non pensava fosse la 13enne scomparsa tre mesi prima da Brembate Sopra. "All'inizio credevo si trattasse di un ragazzo, solo dopo l'arrivo degli inquirenti mi sono reso conto che poteva essere lei". La zona è molto frequentata e gli uomini della protezione civile l'avevano già perlustrata: possibile che quel corpo sia rimasto lì tre mesi senza che nessuno lo vedesse? Per l'appassionato di aeroplanini sì. "Se il mio aeroplanino non fosse finito proprio in quel punto non l'avrei mai vista, era nascosta dalle sterpaglie".
A centinaia, intere famiglie con bambini, si avviano in processione verso il luogo dove è stata ritrovata la piccola campionessa di ginnastica ritmica. C’è pietà, c’è dolore, c’è anche pura curiosità, la stessa, inevitabile, che ogni volta, in occasioni del genere alimenta il turismo del macabro, come ad Avetrana. Un altarino improvvisato. Decine di mazzi di fiori bianchi lasciati accanto al nastro che transenna la zona.
A Brembate è in vigore un’ordinanza comunale che vieta ai cronisti di stazionare davanti a quella che è stata la residenza della piccola vittima.
«Oggi 15 gennaio 2011 alle ore 15, visti la situazione venutasi a creare, i comunicati non corrispondenti alla verità e il coinvolgimento di persone che nulla hanno a che vedere con il grave fatto accaduto, si chiede l’assoluto silenzio stampa per dar modo agli inquirenti e alle forze dell’ordine di svolgere l’attività investigativa con maggior serenità e tranquillità». Ancora più conciso il comunicato del sindaco che «invita gli organi di informazione ad abbandonare il suolo pubblico occupato e la cessazione delle attività finora svolte sul territorio». Sembra la giusta presa di posizione della famiglia di Sarah Scazzi o del sindaco di Avetrana. La comunità, a causa dell’evento delittuoso, ha subìto grave danno d’immagine per colpa di un certo modo di fare informazione. Invece no. Da questi nessuna ribellione contro i gossippari. Nonostante l’attacco mediatico sia stato meno strumentale e pregiudizievole ai danni di Brembate di Sopra, senza comparire come avevano fatto per l’appello del 28 dicembre, Fulvio Gambirasio e Maura Panarese si affidano a un comunicato. Appongono le loro firme e lo consegnano al sindaco Diego Locatelli che lo legge in una conferenza stampa organizzata nella sala consiliare. Ancora più conciso il comunicato del sindaco del 16 gennaio 2011 che invita la stampa, le troupe televisive in particolare, ad abbandonare il suolo di Brembate di Sopra. Dopo di che è la volta di un dipendente della Lopav-Pima, una ditta di coperture di Ponte San Pietro. I titolari sono stati blindati in una inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Napoli per traffico di droga e riciclaggio. Si era parlato di rapporti di lavoro fra Fulvio Gambirasio e la Lopav e che il rapimento della figlia potesse essere interpretato come una ritorsione nei suoi confronti. Una ipotesi che non si era mai concretizzata. Alcune trasmissioni televisive, «Chi l’ha visto?» e «Quarto grado», hanno però irritato i dipendenti della Lopav che hanno fissato la loro protesta in un comunicato. In una trentina si sono presentati alla conferenza stampa. «Sono in corso attività ed indagini giuridiche nei confronti dell’amministratore della società Lopav-Pima (attualmente detenuto nel carcere di Bergamo). In attesa di verificare i fatti e la sussistenza di eventuali reati la società è gestita da un commissario straordinario nominato dal Tribunale. I dipendenti che lavorano per la società Lopav-Pima sono 110, l’indotto è di circa 250 persone. Siamo stati dipinti come “mafiosi, corrotti e persone non oneste”». E ancora: «In realtà siamo padri di famiglia, lavoriamo per guadagnare il nostro pane onestamente per le nostre mogli, i nostri figli e continuiamo a farlo con la dignità insegnataci dai nostri genitori. Il sistema mediatico sta creando un mostro inesistente allo stato dei fatti. Chiediamo il diritto e il rispetto di lavorare con tranquillità, senza dover essere additati da chiunque si avvicini ai nostri mezzi. Voi fate il vostro lavoro, con dignità e professionalità. Noi vorremmo fare altrettanto. Concedeteci questo sfogo: perché ogni volta che torniamo a casa la domanda dei nostri figli è “ma è vero papà che sei mafioso?”. Ditemi voi cosa possiamo rispondere. Vi ringraziamo ma è doveroso tutelare il nostro lavoro, i nostri figli e le nostre famiglie». Brembate di Sopra come Avetrana: stessa malasorte a causa di una giustizia inefficiente e di una informazione approssimativa.
Critiche su ricerche ed indagini formalizzate da Filippo Facci su “Libero-news”. Un tempo si scriveva: la polizia brancola nel buio. Oggi guai a scriverlo, e infatti nessuno l’ha sostanzialmente scritto per tre mesi: ma qualche parolina sulle indagini - domanda - ora almeno possiamo dirla? Oppure il rispetto sacrale per l’abnegazione dei nostri inquirenti deve esimerci dal giudicare demenziale ciò che ci sembra demenziale? Ieri i carabinieri sono tornati a recintare il terreno di Chignolo sul quale è stata trovata Yara, questo per ordine del pubblico ministero Letizia Ruggeri; ora: lasciamo anche perdere tutta la polemica sui controlli effettuati inutilmente almeno due volte (con i cani) senza che nessuno vedesse nulla, non facciamo innervosire ancora di più la Protezione civile di Bergamo, d’accordo, rispettiamo il silenzio stampa: ma qualcuno ci spiega il senso della cosa? Il sequestro è arrivato soltanto ieri, appunto, dopo il passaggio di decine di persone e troupe televisive: davvero l’analisi del terriccio sarà egualmente efficace e permetterà di capire se Yara sia stata lasciata lì subito dopo il delitto, consumato quasi certamente il 26 novembre, cioè subito, cioè tre mesi fa? E se è vero che i volontari che perlustrarono quella radura non sono sotto accusa, e che nei giorni scorsi sono stati ascoltati solo per poter escludere che Yara possa esser stata trasportata lì successivamente alla morte, diteci, in definitiva perché nessuno si è accorto del cadavere per tre mesi?
La magistratura ha niente da rimproverarsi?
PISTE SUGGESTIVE E VANE
Lo chiediamo non per leziosità, ma proprio perché intanto, per tre mesi, rimiravamo l’impegno di chi organizzava battute di cani, fiumi e invasi dragati, elicotteri, georadar, intercettazioni e rilevazioni satellitari, piste estere, consulenze di genetisti, anatomopatologi, tecniche di reazione a catena delle polimerasi, piste suggestive ma che ora paiono rigirare su se stesse, come in tondo. «Stiamo ascoltando persone già sentite in precedenza» hanno fatto sapere gli investigatori di Bergamo. «Le attività di indagine non si fermano», ripetono. Beh, forse dovrebbero, perché per quanto «è un indagine complessa e stiamo lavorando su tante piste», come hanno pure detto ieri, dalla lista degli indagati non è neppure ancora stato cancellato Mohamed Fikri, l’operaio 22enne subito arrestato e subito rilasciato dopo aver addirittura fermato la nave dove viaggiava. C’è stata la pista dei parenti, degli amici, i tabulati telefonici, la pista dei pozzi, hanno preso il dna praticamente di tutti i pregiudicati del bergamasco, ora dicono - notare - che vorrebbero sottrarre il dna di alcuni soggetti a loro insaputa (per esempio: raccogliendo un mozzicone di sigaretta) e però per farlo occorrerebbe che il sospettato venisse indagato: ma «non ci sono indagati», fanno sapere. Chiaro come nebbia. Possiamo capire?
LE COLPE DEI CRONISTI
Ma certo che la colpa è anche di noi giornalisti: siamo noi che ingigantiamo e pompiamo e dilatiamo ogni singolo caso - ogni singola Yara - e mettiamo dunque una pressione terribile addosso a inquirenti e poliziotti e volontari e tutti quanti, siamo noi che facciamo articoli e servizi anche quando non c’è niente da dire, siamo noi che impieghiamo minuti per dire soltanto «nessuna novità di rilievo» o per rivelare che la famiglia di una ragazzina scomparsa ha ricevuto la visita della zia e della cugina. Siamo anche noi dei soggetti da circo (mediatico-giudiziario, d’accordo), ma non c’è niente di nuovo sotto il sole, in questo. Ci volete più seri? Fateci capire. Dateci una mano.
Altra stoccata su come sono state svolte le indagini viene data da Matteo Pandini e Matteo Magri su “Libero-news”. Il sostituto procuratore di Bergamo Letizia Ruggeri, che indaga sul caso della povera Yara Gambirasio, è andata in ferie due settimane dopo la scomparsa della tredicenne trovata cadavere il 26 febbraio 2011. La ragazzina era stata inghiottita dal buio il 26 novembre 2010, dopo essere uscita dal centro sportivo del suo paese, Brembate Sopra. Era lo stesso giorno, quello, in cui il procuratore della Repubblica di Bergamo Adriano Galizzi festeggiava le ultime ore di lavoro prima di andare in pensione dopo 49 anni di brillante carriera nella magistratura. Quella sera, il caso finisce sulla scrivania della dottoressa Ruggeri. Gli inquirenti si tappano la bocca e iniziano a lavorare immediatamente. Ben sapendo che i primi giorni sono quelli che spesso risultano decisivi per risolvere i casi. Sembrava fosse così anche per il dramma di Brembate Sopra, visto che sabato 4 dicembre viene bloccato un marocchino di 23 anni, Mohamed Fickri. Era su un traghetto salpato da Genova. Le accuse sono pesanti: sequestro di persona, omicidio e occultamento di cadavere. Lunedì 6 dicembre è interrogato dal gip e dal pm Ruggeri nel carcere di via Gleno, ma nel giro di un amen viene rilasciato con tante scuse. L’impianto accusatorio si regge soprattutto su un’intercettazione che si scoprirà essere stata tradotta male. Passano pochi giorni. 10 dicembre. Gli inquirenti rompono il silenzio e organizzano una conferenza stampa nell’ufficio del procuratore aggiunto Massimo Meroni. Arrivano giornalisti da tutta Italia, si fa fatica a trovare spazio, ma i taccuini non annotano una notizia che sia una. Il motivo è semplice: non c’è nulla da dire, al di là di un pronostico che si rivelerà tragicamente sbagliato: «Yara è viva? Per noi sì, non ci sono indicazioni contrarie» afferma Meroni. La Ruggeri già non c’è. Ha salutato tutti per andare in ferie, con la speranza di tornare più rilassata e pronta a risolvere il caso. Purtroppo, le indagini faranno registrare novità solo il 26 febbraio, col ritrovamento del cadavere in un campo di Chignolo d’Isola. A poche centinaia di metri dal comando della polizia locale che era stato trasformato in centro di coordinamento delle ricerche. Da lì, sono piovute critiche contro i molti volontari bergamaschi ritenuti incapaci di scovare il corpicino. Anche loro, effettivamente, si erano presi dei giorni di ferie dopo la drammatica scomparsa della giovane. Ma per cercarla, gratis. Tanto che sono stati difesi dal viceprefetto di Bergamo Sergio Pomponio, mentre il ministro Roberto Maroni ha parlato di «polemiche vergognose». «Dopo la vicenda della piccola Yara i magistrati dovrebbero dimettersi» perchè «se avessero impiegato per le ricerche le stesse risorse e tecnologie che hanno speso per indagare sulle ragazze dell'Olgettina forse Yara sarebbe ancora viva». È quanto afferma Daniela Santanchè, sottosegretario all'Attuazione del Programma, secondo cui la riforma della giustizia è «necessaria e urgente». «Tutti chiedono le dimissioni di tutti - osserva Santanchè -. A Berlusconi per il Rubygate, a Bondi perchè è crollato un muro marcio a Pompei, a Rosi Mauro per la gestione dell'aula del Senato» mentre «perchè - chiede - non si possono chiedere le dimissioni dei magistrati e dei procuratori? Li ha toccati la mano di Dio?». "L'assurdità e il livore che connotano tale dichiarazione - si legge in un comunicato diffuso dagli inquirenti - sono tali che la stessa non meriterebbe alcun commento da parte della Procura di Bergamo." «Rivendico la libertà di critica per un'indagine che si è dimostrata finora inadeguata. La magistratura non può pretendere di avere, oltre all'immunità per i propri errori, il diritto di non vedere il proprio lavoro essere messo in discussione». Così Daniela Santanchè, sottosegretario al Programma di governo, replica alla nota del procuratore capo di Bergamo, Massimo Meroni, in risposta alle critiche della deputata del Pdl sull'indagine per l'omicidio di Yara Gambirasio. «Mi sorprende che un alto rappresentante di questa casta - prosegue la Santanchè - voglia zittire un rappresentante del governo, quando i suoi colleghi intervengono quotidianamente e pubblicamente su questioni politiche e legislative che non dovrebbero riguardarli. Adesso - conclude l'esponente del Pdl - mi aspetto che oltre al mio silenzio chieda anche le mie dimissioni».
Yara forse è morta di botte, di freddo e di stenti in quel campo dove è stata trovata. E intanto nulla è certo su come, quando, chi è perchè.
Da Andrea Scaglia da “Libero-news” il reportage della conferenza stampa del 16 marzo 2011. "Ora, non è che uno vuol per forza prendersela con gli investigatori: trovare il colpevole di un delitto è faccenda affatto semplice, e il caso della povera Yara è apparso complicato fin dal principio. Però insomma, capita di assistere alla conferenza stampa organizzata dal procuratore capo di Bergamo, Massimo Meroni, e certo un po’ basito rimane. C’è da dire che Meroni è il capo della Procura, non colui che ha seguito l’indagine giorno per giorno, ma comunque: come da copione il giornalista inizialmente chiede se c’è una pista, un indizio, anzi una cerchia di persone verso cui s’indirizzano le indagini a tre mesi dall’omicidio, e il magistrato risponde con un secco «no». E in effetti è comprensibile, anche se una traccia ci fosse non sarebbe certo rivelata ai cronisti davanti a microfoni e telecamere. Poi però, dopo aver bacchettato i giornalisti poiché «si è oltrepassata la misura, non è possibile andare avanti per mesi sentendo chiacchiere pubbliche fondate sul nulla», ecco che arriva quell’altra frase che suona se non sprezzante quasi beffarda, «non ci sentiamo di escludere nessun sospetto in tutto il mondo». Cos’è, una battuta?
Ma, ancora, il cronista rimane comunque stupìto da quell’altra risposta. Viene chiesto al procuratore della situazione giudiziaria in cui attualmente si trova Mohammed Fikri, il manovale marocchino inizialmente sospettato del delitto. E il magistrato, quello che si lamenta delle chiacchiere sul nulla, risponde che «Fikri? Non credo che verrà richiamato dal Marocco. Se è indagato? Credo che la collega abbia richiesto l’archiviazione». Credo? Non credo? Ma scusi, a chi bisogna chiedere per sapere qualcosa di certo?
E poi, a tempo scaduto, ecco che il procuratore Meroni ti sfodera l’altra perfomance quasi teatrale. Nel senso che i giornalisti notano sulla scrivania un disegnino scimmiottante quello mostrato dal presidente del Consiglio durante la presentazione dell’annunciata riforma della giustizia: ricordate? C’era la bilancia della Giustizia pendente dalla parte dei pm, a significare quel che secondo il premier è attualmente uno squilibrio nel processo penale a favore dell’organo inquirente. E dunque, il dottor Meroni mostra il disegno, anche questo con la bilancia che pende dalla parte di giudici e pm (e però tra parentesi c’è anche il nome di Yara, mentre dall’altra è scritto “cittadino” con sotto la scritta “presunto aggressore di Yara”. E poi spiega il significato: «La bilancia pende dalla parte di giudici e pm perché sono loro che devono scoprire i reati e che rappresentano le vittime, mentre tra i cittadini ci sono anche persone che li commettono». Come dire in sostanza che è giusta l’attuale impostazione, mentre invece se passasse la riforma del governo anche il delinquente (anzi, il “presunto” delinquente, come scritto nello schemino con un riflesso condizionato tragicamente esilarante) sarebbe messo sullo stesso piano della vittima. E attenzione, non è che sul punto uno deve per forza essere d’accordo con Berlusconi, figuriamoci, ma quest’uscita del magistrato stona malamente, soprattutto per la circostanza. Che poi Meroni è a Bergamo da circa sei mesi: prima esercitava alla Procura di Milano, e all’inizio del 2010 si scontrò - giuridicamente parlando, s’intende - con Niccolò Ghedini, che di Berlusconi è l’avvocato, di cui aveva disposto l’accompagnamento coatto per farlo testimoniare nel processo sull’illecita diffusione delle intercettazioni legate al caso Unipol. In ogni caso, tornando a bilance e giustizie, lo stesso Meroni ha subito precisato che «quel che penso io sulla riforma non è rilevante, questo disegno è qui da quando in tivù è stato fatto vedere l’originale». Ma cos’è, signor giudice, ci prende per scemi? E ti vien da dire che allora è meglio Ingroia: almeno la sua opinione la sbandiera dal palco. Senza tanti disegnini".
"Aspettiamo che gli inquirenti facciano il loro lavoro, ma vogliamo sapere chi ha ucciso Yara". Questo il messaggio lanciato dal sindaco di Brembate, Diego Locatelli, dopo l'intervento del procuratore capo di Bergamo, Massimo Meroni. Le sue parole, ha detto Locatelli, "non mi hanno entusiasmato ma sinceramente non mi aspettavo molto di più. Si capisce che non hanno niente in mano. Lasciamoli lavorare e aspettiamo"."Siamo ancora in tempo, ma la richiesta che abbiamo formulato subito dopo il ritrovamento di Yara, interpretando anche il pensiero dei suoi genitori, è tuttora valida e legittima: vogliamo sapere chi è stato. Rispetto la professionalità di tutti - ha aggiunto il sindaco - ma anche loro dovranno rendere conto della loro competenza e della loro responsabilità". In merito alla possibilità che ad uccidere Yara possa essere stato qualcuno che non vive in paese, Locatelli ha commentato: "Ancora non si sa nulla al riguardo e il fatto di sapere che forse l'assassino non è del paese non mi rende più o meno contento. Sono pronto a qualsiasi soluzione".
In questa vicenda non manca la denuncia di due agenti: "Non c'è coordinamento nelle indagini". La lettera aperta di due persone appartenenti alle forze dell'ordine impegnate sul campo nelle ricerche di Yara che scrivono, in forma anonima, al quotidiano "L'Eco di Bergamo". "Avvertiamo un livello tale di rabbia e scoramento che non ci possiamo più esimere dal non esprimerlo", si legge nella missiva. "Negli ultimi tre mesi abbiamo assistito ad una gestione delle indagini da parte degli inquirenti perlomeno discutibile e oggettivamente farraginosa e, non da ultimo, improduttiva. Senza gettare la croce addosso a nessuno (buona fede ed impegno non sono in discussione), forse la chiave di questo insuccesso investigativo è da ricercarsi nella cronica assenza (storica) di sinergia tra carabinieri e polizia. (...) Sconcertante, inoltre, e non possiamo davvero sorvolare sulla questione, la direzione e la conduzione delle indagini affidata alla magistratura che, alla prova dei fatti, si è dimostrata impreparata o per lo meno avventata nel suo incedere".
"Una gestione discutibile. Sottolineiamo questo, sgombrare il campo da strumentalizzazioni di sorta o di parte e il sorgere di sterili polemiche prive di spirito costruttivo. Ispirandoci a Martin Luther King, che sosteneva che «le nostre vite cominciano a finire il giorno in cui stiamo zitti di fronte alle cose che contano», nemmeno noi in questo momento possiamo restare in silenzio. Potremo sbagliarci, ma negli ultimi tre mesi abbiamo assistito ad una gestione delle indagini da parte degli inquirenti perlomeno discutibile e oggettivamente farraginosa e, non da ultimo, improduttiva. Senza gettare la croce addosso a nessuno (buona fede ed impegno non sono in discussione), forse la chiave di questo insuccesso investigativo è da ricercarsi nella cronica assenza (storica) di sinergia tra carabinieri e polizia.
Dualismo deleterio. La questione è annosa e di vecchia data, ma si ripropone in maniera antipatica e puntuale, eppure non si riesce a comprendere quando questo Paese capirà (ed ammetterà) quanto sia deleterio il dualismo tra due forze dell'ordine che invece di condividere mezzi, uomini e risorse, finiscono per nascondere alla controparte informazioni ed indizi, con l'unico risultato di non raggiungere mai il traguardo consolandosi che nemmeno i cugini (di un versante o dell'altro) sono riusciti a raggiungerlo. Semplicemente avvilente! Il caso della scomparsa di Yara prima e della scoperta del suo povero corpo deturpato, ha di nuovo portato alla ribalta il problema: il palese conflitto di interessi e attribuzioni tra i vertici dell'Arma dei carabinieri e della polizia di Stato, che determina, con puntualità ossessiva, una chiara, evidente dispersione di forze e di energie, a discapito della scoperta della verità d'indagine. Sconcertante, inoltre, e non possiamo davvero sorvolare sulla questione, la direzione e la conduzione delle indagini affidata alla magistratura che, alla prova dei fatti, si è dimostrata impreparata o per lo meno avventata nel suo incedere, come testimoniato in modo eclatante nella circostanza dell'arresto di un cittadino straniero (determinato da un'errata traduzione di una conversazione telefonica) rintracciato a bordo di una nave fatta rientrare apposta nelle acque territoriali italiane (!). E non da ultimo, come non citare le circostanze (evidenziate ampiamente da numerosi organi di stampa) del nuovo sequestro, a distanza di giorni, dell'area del ritrovamento del cadavere di Yara per l'effettuazione di rilievi scientifici chiaramente ormai «inquinati» dal libero accesso di giornalisti e gente comune dei giorni precedenti. Ad ogni modo, al di là delle questioni prettamente tecniche ed investigative, la drammatica ed assurda vicenda dell'assassinio della piccola Yara ha indelebilmente segnato tutta la società civile e spolverato ogni coscienza, nessuna esclusa. Proprio per questo motivo, la magistratura e le forze dell'ordine avrebbero, anzi «hanno», il dovere di fare il loro dovere nel massimo della trasparenza, assicurando alla giustizia colui (o coloro) che hanno commesso l'omicidio o che ad esso sono connessi. Questa lettera non è uno sfogo ma solo un'ammissione pubblica che se le cose a volte non vanno come dovrebbero, le responsabilità non si possono sempre camuffare. È troppa l'amarezza per l'evoluzione della vicenda, dal punto di vista investigativo, e per quello che, ahinoi, ci ritroviamo a vedere da chi osserva da una visuale privilegiata come la nostra. Troppa, per continuare a comprimerla nel silenzio."
Il marocchino disse: "Uccisa davanti al cancello". Riporta Panorama che Mohamed Fikri, il marocchino arrestato in un primo momento il 4 dicembre 2010, durante una telefonata alla fidanzata registrata dai carabinieri disse: "L'hanno uccisa davanti al cancello". Questa conversazione non venne inserita nel fascicolo riguardante il muratore. Secondo quanto riporta il settimanale il pm non avrebbe nemmeno mai chiesto conto della frase durante l'interrogatorio del 6 dicembre. Fikri era finito in cella per un'altra telefonata, ma in quel caso le sue parole vennero tradotte erroneamente e quindi fu liberato.
Gli investigatori lavorano nel silenzio e mettono insieme i tasselli di un puzzle che è tutt’altro che completo. Su uno dei guanti neri con le pailettes ritrovati nella tasca del giubbotto Hello Kitty di Yara ci sono due profili genetici, tracce di dna di un uomo e di una donna. «Due profili che non appartengono alla bambina, ai famigliari, alla cerchia stretta di chi la conosceva o alle persone già note ai database della polizia», ammette il magistrato. Impossibile pensare ad allargare a chissà chi la ricerca. Impensabile un’ipotesi di lavoro privilegiata: «Non ci sentiamo di escludere alcun sospettato in tutto il mondo».
Si capisce che è un paradosso. E’ chiaro che nella testa degli investigatori c’è l’ipotesi che Yara conoscesse e si fidasse della persona con cui sarebbe salita in auto prima di sparire nel buio di una strada deserta. «Non abbiamo elementi per dire che l’aggressore fosse una persona sola o di più», evita ogni certezza il magistrato. L’ipotesi che Yara sia stata vittima di un’aggressione sessuale è appunto solo un’ipotesi: «Yara è stata ritrovata vestita. Solo il reggiseno che aveva indosso era sganciato. Ma non ci sono segni evidenti di violenza sessuale». Medici ed esperti sono ancora al lavoro per accertare anche questo. Ci vorranno settimane, forse mesi, forse non si saprà mai.
Al momento non è nemmeno chiaro come sia morta Yara. Il magistrato fa l’elenco dei pochi risultati fino a questo momento: «Sul corpo di Yara sono stati rilevati tagli ai polsi, sul collo, sul dorso e sulle gambe. Non sembra che siano la causa della morte perché sono molto superficiali. Ci sono segni di contusione di origine incerta al capo e al volto, provocate da un corpo contundente, da percosse o da una caduta. La morte non è avvenuta né per dissanguamento né per soffocamento». Di sicuro Yara è morta in quel campo di Chignolo d’Isola a nove chilometri da casa dove è stata ritrovata per caso tre mesi dopo. Di sicuro l’assassino che conosceva la zona l’ha portata lì e lì l’ha abbandonata, con la certezza di averla uccisa e invece Yara potrebbe essere morta pure di freddo dopo ore. Dalle 18 e 44 di venerdì 26 novembre 2010 quando dal cellulare LG di Yara parte un ultimo messaggio a un’amica - «Ci vediamo domenica», risponde lei o chi è con lei - a quando finisce nel campo di Chignolo d’Isola, dove ci sono ancora i nastri bianchi e rossi degli investigatori e qualche fiore appassito e biglietti commossi oramai scoloriti, è il buio assoluto. Il niente in cui si va a tentoni per cercare di capire quello che può essere successo a questa ragazzina di tredici anni. Si è fantasticato sui segni lasciati sulla sua schiena con un coltello. Una specie di croce di Sant’Andrea sopra due linee parallele. A qualcuno è venuto in mente che potesse essere un simbolo esoterico. Il procuratore aggiunto di Bergamo ci crede pochissimo: «I segni sulla schiena sono casuali. Qualunque segno compone un disegno, non c’è nulla per dire che sia una cosa deliberata. Non mi risulta che siano stati sentiti esperti di questione esoteriche. Non sappiamo nemmeno se quei segni con un coltello sono stati fatti prima o dopo la morte». Anche i pantaloni leggins neri che Yara indossava la sera della scomparsa e con cui è stata ritrovata tre mesi dopo sono tagliati in vita e più sotto. Gli slip che Yara indossava sono tagliati in corrispondenza delle ferite sul dorso. «I segni sulla schiena sono coerenti», rivela il magistrato. Ed è una delle poche certezze di questa indagine sulla morte di Yara, la cui fine non è ancora stata scritta e chissà se lo sarà mai. Al procuratore aggiunto di Bergamo non resta che sperare nelle analisi scientifiche che devono essere ancora terminate: «Andiamo avanti a lavorare. Non abbiamo ipotesi privilegiate». Il magistrato aspetta una svolta che potrebbe sempre arrivare. I genitori di Yara aspettano di poter presto celebrare i funerali della loro figlia. E chi quella sera l’ha uccisa, a questo punto, spera di non essere mai scoperto.
Intanto «La messa la celebra don Gustavo, il curato. Io non farò neppure l’omelia e non dirò più nulla in pubblico su Yara. Voi giornalisti avete strumentalizzato le mie parole». E’ nervoso, don Corinno Scotti, parroco di Brembate di Sopra. Da giorni evita i contatti con i giornalisti. Non spiega, non puntualizza. Si sottrae e basta. E gli abitanti di Brembate di Sopra dove abitava Yara raccolgono firme perché, ancora una volta, venga tolto l’assedio delle televisioni.
VI RACCONTO DON CORINNO SCOTTI: IL PARROCO DI YARA.
Enrico Fedocci, giornalista di Mediaset nel suo blog "Cronaca Criminale", fa un ritratto di don Corinno Scotti, 76 anni, che lascia la parrocchia di Brembate di Sopra dopo 13 anni. Don Scotti ha vissuto il prima persona, da pastore, il dramma della comunità: l'assassinio di Yara Gambirasio. "Vi racconto don Corinno, il parroco di Yara, visto da molto vicino". Enrico Fedocci, giornalista di Mediaset, nel suo blog "Cronaca Criminale", fa un ritratto di don Corinno Scotti, 76 anni, che lascia la parrocchia di Brembate di Sopra dopo 13 anni. Don Scotti ha vissuto il prima persona, da pastore, il dramma della comunità: l'assassinio di Yara Gambirasio, scrive Enrico Fedocci il 24 agosto 2015 su “Bergano News”. Un pastore che ha saputo condurre il suo gregge in un momento drammatico, la morte di Yara Gambirasio. Don Corinno Scotti, sacerdote nella piccola comunità di Brembate Sopra, lascia la guida della parrocchia che per 13 anni ha amato. Capelli bianchi e folti, poco incline alle smancerie, ha fatto della sostanza una cifra distintiva nel suo essere vicino alla gente, ai bisognosi, a coloro che si sono smarriti. E proprio la gente di qui, di questo paese della Bergamasca, il 26 novembre del 2010 si è smarrita, confusa, scossa, turbata, raggelata dalla scomparsa di una bimba, conosciuta ed apprezzata da tutti. Rapita ed uccisa da chi, ancor più, aveva perso la strada dell’amore verso il prossimo e verso se stesso. Quando arrivai a Brembate, poco dopo il delitto, quest’uomo sicuro di sé, gentile con tutti, ma schivo nei confronti di telecamere e giornalisti, mi era poco simpatico. Il suo atteggiamento mi suggeriva supponenza, scortesia. Nulla di più sbagliato. E’ stato un giorno dello scorso anno che ho capito che le mie erano valutazioni errate. Il presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti, era stato arrestato da pochi giorni. Volevo intervistare Don Corinno Scotti. Lasciai il cameraman fuori dalla chiesa, entrai e trovai Don Corinno – come era sua abitudine – seduto sulla seconda panca davanti all’altare. Pensieroso, intento nelle sue preghiere. Pensavo non mi rispondesse, come tutte le altre volte quando ero arrivato con il microfono in mano e l’operatore dietro di me pronto a riprendere. No, questa volta, no. Appena mi vide fece cenno di sedermi, accennando un sorriso. Spostò il breviario che era sulla panca accanto a lui e mi fece posto. Ero entrato per chiedergli una intervista, ma la sua concentrazione, il suo dedicarsi alle Sacre Scritture, colpì me così poco incline alla preghiera. Appena seduto non ricordavo più che cosa avrei dovuto chiedergli. Un attimo di esitazione, poi, abbandonando l’idea dell’intervista, gli dissi: “Don Corinno, sono venuto per lavoro, ma – già che sono qui – vorrei chiederle un’altra cosa, vorrei condividere con lei alcune considerazioni che ho fatto in questi giorni”. E in quei giorni a colpirmi – erano passati quasi 4 anni dalla morte di Yara – non era il dolore della famiglia della 13enne, che già conoscevo bene e su cui avevo riflettuto molto, ma l’apparente normalità di Bossetti, del suo mondo. Mi domandavo e ridomandavo come fosse possibile che un uomo con una bella famiglia, tre figli piccoli, una moglie, potesse commettere un delitto del genere, sempre che sia stato lui ad uccidere come sostengono gli inquirenti. Aggiunsi: “Se un uomo che ha tutto, affetti, futuro familiare, gioie, fa una cosa del genere… cosa devo pensare? Come è possibile? Io non ci capisco più niente”. Parlammo a lungo io e Don Corinno quel pomeriggio, sfiorando momenti di grande commozione. Gli confidai della mia difficoltà di cronista di immergermi ancora in storie drammatiche e di raccontare, oltre ai fatti, il dolore dei protagonisti. Anche i medici, come i cronisti, devono cercare di non lasciarsi fagocitare dal dramma di cui si occupano. E noi siamo così, siamo come dei medici: necessario riferire ciò che accade nel Paese, soprattutto quando accadono le cose brutte, perché si abbia un termometro di cosa avviene ed intervenire, come popolo civile, laddove si può. Solo durante il fascismo c’era il divieto di parlare di cronaca nera e così il Ministero della Cultura Popolare censurava, perché bisognava dire che tutto andava bene. Così l’informazione è una necessità. A volte fastidiosa, soprattutto per le vittime di casi di cronaca nera e le loro famiglie. Un “male” necessario, direi piuttosto. Per restare lucidi ed obiettivi rispetto ai fatti bisogna non lasciarsi coinvolgere. Non è cinismo il nostro, è istinto di sopravvivenza ed esigenza di rimanere al di sopra delle parti. Nel caso della storia di Yara non sempre sono riuscito ad essere distaccato. Era inevitabile. Per quattro anni ho vissuto gomito a gomito con un’intera comunità. Vedendo – anche se da lontano – il dolore della famiglia, della madre, dei fratelli della ragazzina. Ad un certo punto, subito dopo il ritrovamento del corpo, ho cominciato a sentire quel dolore anche un po’ mio: Yara diventava poco alla volta mia sorella, mia figlia, la bambina del piano di sotto. Insomma, qualcuno di familiare. Quel giugno 2014, il ritorno a Brembate dopo l’arresto di un sospetto mi ha riproposto gli stessi interrogativi di tre anni prima. Ma in questa storia assurda, a quel punto, al dolore dei familiari della ginnasta, si univa quello di un’altra famiglia con figli troppo piccoli per capire ed elaborare. Altre persone incolpevoli si trovavano catapultate in un dramma. Ed è stato in quella occasione che Don Corinno, dopo avermi scansato e dribblato per anni nella mia veste di giornalista, ha aiutato l’uomo che si spogliava dei panni professionali a mettere a fuoco questioni che non hanno risposta. E’ per questo che domenica, nel giorno della sua ultima messa in quella comunità, ho deciso di andare a salutare Don Corinno. La chiesa era gremita, gioiosa, riconoscente ad un uomo che, dopo aver fatto per anni il missionario in Ecuador, si è trovato a gestire emergenze spirituali ancor più grosse nella piccola e tranquilla Brembate. L’emergenza di una cittadina che si sentiva smarrita davanti a qualcosa di incomprensibile come il delitto di una bambina. Uccisa, se fosse confermata l’accusa, da uno di loro, da una persona cresciuta in quelle strade. E domenica, mentre ero seduto tra quelle panche con gli altri parrocchiani, mi sono sentito orgogliosamente uno di loro che salutava il proprio pastore. Don Corinno dall’altare questa volta non ha parlato di Yara, nonostante in chiesa ci fosse la madre. E forse non lo ha fatto volutamente. Non c’era bisogno di nominarla. I suoi occhi, gli occhi di Don Corinno, parlavano di lei e i parrocchiani lo hanno capito perfettamente. La malinconia per quella bimba sottratta all’ovile si legge perfettamente nello sguardo di questo sacerdote missionario. In ogni momento. Anche quando sorride e si rivolge ai bambini del catechismo, contento di vederli lì – almeno loro, se non Yara – in chiesa, gioiosi ed accuditi dalla comunità e dalle loro famiglie. Lo hanno ringraziato i suoi fedeli, in maniera molto eloquente. Io lo voglio salutare scrivendo queste poche (o tante!) righe. Perché se è vero che la storia di Yara ha cambiato il mio modo di essere cronista, Don Corinno, con le sue parole mai banali, sempre di speranza, con il suo esempio, ha cambiato il mio modo di essere uomo. E di questo lo ringrazio. Ripromettendomi di continuare a vederlo anche quando sarà al Santuario della Madonna di Levate dove andrà per dedicarsi a se stesso e alla preghiera. Che poi, in fondo, è la stessa cosa.
CASO YARA GAMBIRASIO: RESOCONTO.
Il pomeriggio del 26 novembre 2010, venerdì, Yara Gambirasio, 13 anni, esce di casa per andare a portare uno stereo in palestra, a Brembate Sopra, scrive “Il Corriere della Sera”. Il centro sportivo è a 700 metri dalla sua abitazione, lei lo frequenta tutte le settimane perchè fa parte della squadra di ginnastica ritmica. La ragazzina intorno alle 18,45 lascia la palestra per far ritorno a casa ed è lungo il tragitto che viene rapita. La madre tenta di chiamarla, ma il suo cellulare, dopo le 19,00, risulta spento. Si rivolge allora ai carabinieri e scattano le ricerche.
Nelle settimane dopo la scomparsa l’attenzione si concentra a Mapello. Passano i giorni e la ragazzina non si trova. In campo ci sono forze dell’ordine, protezione civile, volontari. Centinaia di uomini. I cani molecolari arrivano a Brembate il lunedì dopo la scomparsa e conducono gli inquirenti al cantiere del centro commerciale in costruzione a Mapello. Tre cani fiutano lo stesso percorso. L’area dei lavori viene setacciata, ma non si trova nulla. Lì lavora Mohamed Fikri, muratore marocchino che per un’intercettazione poi risultata tradotta in maniera sbagliata viene bloccato su una nave che lo sta riportando in patria. Dopo pochi giorni di carcere, torna in libertà. Uscirà dall’inchiesta solo di recente.
Lo straziante appello dei genitori. I genitori di Yara, Fulvio Gambirasio e Maura Panarese, alla vigilia di Natale 2010, quando ancora si spera che la ragazzina sia viva, lanciano un drammatico appello davanti alle telecamere di tutta Italia: «Ridateci la nostra bambina», chiedono ai presunti rapitori.
26 febbraio 2011: il ritrovamento. Chignolo d’Isola, in un campo abbandonato, si scoprono i resti di Yara. Il 26 febbraio 2011, a tre mesi esatti dalla scomparsa, quel che resta di Yara riaffiora per caso in un campo incolto alla periferia di Chignolo d’Isola, un quarto d’ora d’auto da Brembate. Il cadavere viene scoperto da un appassionato di aeromodellismo, che stava facendo volare il suo aeroplanino. Dell’autopsia si occupa l’anatomopatologa Cristina Cattaneo. A fine maggio, i funerali della ragazzina, mentre emergono dettagli sulla dinamica del delitto. Yara è stata colpita alla testa con un oggetto contundente e poi ferita con un’arma da taglio in diversi punti del corpo. Quando il suo aguzzino l’ha abbandonata tra le sterpaglie era ancora viva. È morta di freddo e di stenti.
Il Dna dell’autista di Gorno. Si scopre che Giuseppe Guerinoni, morto nel 1999, è il padre del presunto killer. Sui resti di Yara gli esperti isolano tracce di Dna. Una, più delle altre, viene ritenuta la chiave del delitto. È quella scoperta sugli slip della vittima all’altezza di uno dei tagli inferti dal killer. Si arriva così al profilo genetico di «Ignoto 1», il presunto assassino. Scattano prelievi a tappeto. Vengono immagazzinati migliaia di Dna. Vicino al campo del ritrovamento c’è il club «Sabbie mobili». Tutti i tesserati sono convocati in caserma per il test e tra loro c’è’ il nipote di Giuseppe Guerinoni, autista di Gorno, Val Seriana. Le analisi dicono che il ragazzo ha un Dna molto simile a quello di «Ignoto 1». Si passa al setaccio la sua famiglia, fino a quello zio morto più di 10 anni prima. Da una marca da bollo sulla quale c’era la sua saliva si arriva alla conclusione che è il padre di «Ignoto 1», ma a nessuno tra i tre figli legittimi corrisponde il Dna. Si deduce perciò che Guerinoni doveva avere un figlio illegittimo.
Ester e l’arresto di Bossetti. Massimo Giuseppe Bossetti viene prelevato il 16 giugno 2014. Gli inquirenti ricostruiscono la vita di Guerinoni e di tutte le donne che potevano avere avuto una relazione clandestina con lui. Arrivano a Ester Arzuffi, convocata già nel 2012 per sottoporsi al test. Il suo Dna viene però analizzato in maniera sbagliata. A giugno, gli inquirenti ricontrollano tutti i profili e si scopre l’errore. Arzuffi, che visse per un periodo a Gorno, è la madre di «Ignoto 1». L’attenzione si sposta a questo punto sui suoi tre figli. I due gemelli, Massimo Giuseppe e Laura Letizia, e il più giovane, Fabio. Fermato a un posto di blocco, a Massimo viene fatto il test dell’etilometro. Bingo. Il suo profilo corrisponde a quello di «Ignoto 1». Polizia e carabinieri lo prelevano il 16 giugno da un cantiere di Seriate.
La madre nega la relazione con Guerinoni. Per Ester Arzuffi Massimo è il figlio di suo marito Giovanni. Ester Arzuffi, originaria di Villa d’Ogna, aveva vissuto per un periodo a Gorno prima di lasciare la Val Seriana col marito Giovanni. E conosceva Giuseppe Guerinoni. Nonostante questo, tuttora nega di avere avuto una relazione con l’autista. Negando la scienza, sostiene che Massimo e Letizia siano figli del marito.
«Sono innocente». Massimo Bossetti nega dall’inizio di avere ucciso. Bossetti dice di non avere mai conosciuto Yara e di non avere nulla a che fare col delitto, ma il suo Dna sugli slip della vittima è ritenuta dai giudici una prova sufficiente per non concedergli la libertà. Chi ha commesso un delitto così efferato, è la tesi, potrebbe commetterlo di nuovo. Non ci sono altre prove, ma non emerge nemmeno un singolo elemento a favore del carpentiere. Sui resti di Yara erano state trovate tracce di polvere da cantiere. E Bossetti fa il carpentiere. Le celle telefoniche hanno indicato che il 26 novembre 2010 era nella zona di Mapello, quindi vicino al luogo dove si è compiuto il delitto. Proprio quel giorno, inoltre, non aveva lavorato di pomeriggio nonostante agli inquirenti inizialmente avesse riferito di essere stato tutto il giorno impegnato in cantiere.
La rottura tra gli avvocati. Alla difesa resta Claudio Salvagni. Della difesa di Bossetti si occupano gli avvocati Silvia Gazzetti e Claudio Salvagni. La prima è nominata d’ufficio il giorno dell’arresto e poi confermata. L’altro era un conoscente della famiglia. I legali sostengono con forza la tesi dell’innocenza e nell’ultimo interrogatorio, il 24 novembre, attaccano pesantemente la Procura: «Bossetti non parla perché tutto quello che dice viene usato contro di lui e perché è vittima di continue torture psicologiche». Dieci giorni dopo, Silvia Gazzetti lascia la difesa per «inconciliabili posizioni» con il collega. Ora Salvagni è affiancato dal collega Paolo Camporini.
Il furgone nei filmati. Bossetti per un’ora prima del delitto era intorno alla palestra. Il furgone di Massimo Giuseppe Bossetti è stato ripreso più volte attorno alla palestra di Brembate Sopra nell’ora precedente la scomparsa di Yara. Gli inquirenti sono sicuri che si tratti del suo Iveco Daily, perché i fotogrammi sono stati fatti analizzare a un esperto della casa automobilistica, che, in base alle caratteristiche del mezzo, ha confermato: «Quello è il furgone di Bossetti». Per l’indagato è una tegola, anche perché dopo le 19, cioè quando la tredicenne viene rapita nel tragitto tra la palestra e la casa, il furgone non compare più nelle inquadrature. Sparisce.
Inizia il processo. Il 3 luglio 2015, in un blindatissimo tribunale di Bergamo, si apre il processo. Da una parte, il pubblico ministero Letizia Ruggeri, dall’altra gli avvocati della difesa con un elenco chilometri di testimoni. In aula, tra il pubblico, si presentano anche alcuni sostenitori di Bossetti.
Venerdì 26 novembre 2010, scompare Yara Gambirasio. La scomparsa di Yara Gambirasio è diventato un caso mediatico. Le troupe televisive di tutti i più importanti telegiornali d’Italia hanno messo le tende a Brembate Sopra. Dopo il giallo di Avetrana si accendono i riflettori su un’altra storia che vede protagonista una ragazzina scomparsa, una storia dai contorni misteriosi, una storia da dare in pasto ai telespettatori dei vari Pomeriggio 5, Chi l’ha visto, Domenica In, Studio Aperto, ecc.. Memori del caso di Sarah Scazzi, le forze dell’ordine hanno deciso di transennare la via in cui abita la famiglia Gambirasio per evitare l’assalto dei giornalisti. Che si sono posizionati a poche centinaia di metri dall’abitazione, a metà strada dal centro sportivo dove la ragazzina è stata vista per l’ultima volta. Sono stati allestiti vari studi televisivi mobili, proprio come è successo per mesi ad Avetrana. E come per il giallo di Sarah i giornalisti sono pronti a darsi battaglia a colpi di esclusive, anche a discapito delle indagini ufficiali. Domenica un vicino di casa 19enne ha raccontato a News Mediaset di avere visto Yara parlare in strada con due uomini. Dopo qualche ora però il ragazzo, sentito dagli inquirenti, ha ammesso di non ricordare bene la scena. Ora rischia una denuncia per essersi inventato tutto. Il volto di Yara è su tutte le prime pagine dei giornali. Tutta la comunità di Brembate Sopra è impegnata a garantire la tranquillità dei genitori di Yara Gambirasio, assediati dai mass media provenienti da tutta Italia. In prima fila, l’amministrazione comunale guidata dal sindaco Diego Locatelli, il quale ha emesso un’ordinanza ad hoc con la quale ordina la chiusura di via Rampinelli, la strada dove risiedono il papà, la mamma, i due fratelli e la sorella della 13enne scomparsa. «Basta parlar male di mia figlia» - Lo sfogo della mamma di Yara sul “L’Eco di Bergamo” - «No, Yara con questa storia non c'entra: non è scomparsa volontariamente, non lo avrebbe mai fatto». Sono le parole di Maura, la mamma della tredicenne scomparsa, che ha ribadito con forza quello che già aveva sottolineato il giorno successivo alla sparizione misteriosa di sua figlia. «Un colpo di testa? Non è proprio da lei», aveva detto. Poi, lo sfogo: «Su questa vicenda si sta cominciando a fare troppa pubblicità negativa – ha dichiarato – sia nei confronti di mia figlia, sia nei confronti di Brembate Sopra, che non lo merita». «Non abbiamo ricevuto alcuna novità per il momento, restiamo in attesa», ha detto la mamma di Yara. Sono ore di grande angoscia per la famiglia Gambirasio, chiusa nel silenzio all'interno dell'abitazione di via Rampinelli, ormai assediata da un esercito di cronisti. Il sindaco è dovuto ricorrere perfino alla firma di un'ordinanza, che vieta ai furgoni della diretta Tv di avvicinarsi: si può passare soltanto a piedi e a gruppetti di poche persone. Quel che è certo, dice la famiglia, è che Yara è sparita contro la sua volontà, non è sicuramente scappata. Nessun litigio, nessun brutto voto a scuola, nessuna delusione: nulla al momento è emerso che possa giustificare una simile ipotesi. «Yara – aveva già spiegato la madre Maura – aveva da poco ritirato la pagellina scolastica (frequenta la terza media, ndr) e i voti erano tutti molto buoni. Anche dalla ginnastica ritmica ha sempre avuto tante gratificazioni. Vive solo per la ginnastica e per la sua famiglia». La mamma di Yara fa l'educatrice all'asilo nido comunale di via Solata, a Bergamo, in Città Alta. Il papà invece è geometra per una ditta di Brembate Sopra. Seconda di quattro figli (ha una sorella maggiore e due fratellini più piccoli), Yara ha riscosso ottimi risultati nel suo sport, fra cui una medaglia d'oro ai campionati nazionali di Fiuggi nel 2009 e un successo nel 2010 a Pesaro. Dall'abitazione non mancherebbe nulla di Yara, vestiti compresi: altro motivo in più per escludere – dice la famiglia – l'ipotesi di un allontanamento volontario. «Sulla vicenda di mia figlia – ha detto Maura riferendosi alle tante ipotesi giornalistiche che si susseguono sui media – si sta facendo una cattiva pubblicità e si inizia a sentire di tutto. Una cattiva pubblicità che purtroppo coinvolge anche Brembate Sopra, che certo non lo merita». I media si sono prodigati a definire i bergamaschi come poco collaborativi. Con Sarah Scazzi si parla di Avetranesi omertosi, con Yara si parla di Bergamaschi muti. La sol colpa dei cittadini è non riferire in esclusiva a loro qualsiasi notizia utile allo scoop mediatico. Yara Gambiarasio una giovane e attraente ragazza è scomparsa senza dare notizia ai genitori. Scomparsa improvvisamente. Da Avetrana a Brembate Sopra, si capovolge l'obiettivo della telecamera e con affanno inizia un'altra caccia al Lupo, all'uomo o al branco che potrebbe averla uccisa e seviziata, perchè purtroppo le ipotesi degli inquirenti sono queste. Da Avetrana ci torna in mente la lezione di mamma Concetta Scazzi, quando intervistata in televisione ripeteva nei giorni prima del ritrovamento del corpo della figlia Sarah: in circostanze di questo genere dovete indagare anche su di me, sui miei familiari più stretti." Dove è finita Yara Gambirasio? Gli inquirenti questa volta metteranno sotto sorveglianza i parenti più stretti e gli amici di scuola? Comunque il 4 dicembre 2010 un tunisino bloccato nella notte su un traghetto è in stato di fermo con l'accusa di omicidio. Secondo gli inquirenti, l'uomo avrebbe sequestrato e ucciso la ragazza occultando poi il suo cadavere. Il tunisino sarebbe un muratore al lavoro nei cantieri del bergamasco e in particolare avrebbe lavorato a Mapelloi nel cantiere del centro commerciale dove i cani avevano portato gli inquirenti sulle tracce di Yara. L'uomo era tenuto d'occhio dagli investigatori dall'inizio della vicenda subito dopo la scomparsa della ragazzina. "Che Allah mi perdoni, ma non l'ho uccisa io". Secondo indiscrezioni, sarebbe stata questa frase, intercettata al telefono, a convincere i Carabinieri che investigavano sulla scomparsa di Yara Gambirasio della responsabilità del magrebino sottoposto a fermo per sequestro di persona, omicidio e ora anche occultamento di cadavere. Pare che i sospetti fossero indirizzati nei suoi confronti quando l'uomo si è assentato dal lavoro nei giorni successivi alla scomparsa di Yara. L'uomo lavorava proprio nel cantiere del centro commerciale di Mapello dove i cani avevano più volte condotto gli investigatori. Intanto sale la tensione in paese e arrivano i primi segni di intolleranza a Brembate Sopra. Quando si è sparsa la notizia del fermo di un operaio magrebino di 23 anni con l'accusa di omicidio, sequestro di persona e occultamento di cadavere, davanti alla casa della ragazza si è fermato un suv Audi dal quale è sceso un uomo che ha inalberato un bersaglio con la scritta 'Occhio per occhio, dente per dente'."Non ne possiamo più di questi immigrati - ha detto -, devono tornarsene a casa loro". Anche un'altra persona è arrivata davanti Villa Gambirasio urlando contro il presunto omicida. "Io non ce l'ho con lui perché è uno straniero - ha detto - non mi interessa di che razza sia, voglio però che sia fatta giustizia, vorrei che facessero a lui quello che ha fatto alla ragazzina". Brembate Sopra è un Comune di 7.800 abitanti da anni guidato da una giunta del Carroccio. "Qui non siamo razzisti - ha aggiunto un'altra signora passando - ma ci piace l'ordine e la tranquillità e qui non era mai successa una cosa come questa". Intanto sulla stampa:"Bergamo omertosa perché non fa i reality su Yara". Ecco come Matteo Pandini, giornalista bergamasco, su Libero replica al collega del messaggero e anche alla mamma di Sarah Scazzi. Pensate che scandalo: gli inquirenti lavorano in silenzio, i familiari non parlano, i vicini di casa non si eccitano vedendo le telecamere. Dovrebbe essere normale, tanto più in una situazione drammatica come la scomparsa di una tredicenne, uscita dal centro sportivo del paese e ingoiata dal buio, e invece qualcuno parla di «omertà». Era il 26 novembre. Da allora, Yara Gambirasio sembra evaporata. Ricerche, controlli, domande. All’esterno non è trapelato nulla, o quasi. Pochi giorni dopo, era saltato su un 19enne vicino di casa di Yara, che a favore di tv aveva raccontato la balla di aver visto la ragazzina, in compagnia di due adulti e accanto a un’auto con le quattro frecce accese. Era una sciagurata bugia, ritrattata nel giro di poche ore. Dato che non esce nulla di concreto e il circo mediatico - tenuto distante da casa Gambirasio - non sa cosa spremere, ecco che tra una falsa pista e un’interpretazione fantasiosa fioccano le analisi sociologiche. Che accendono l’ennesimo, inutile, derby Nord-Sud. Si paragona la leghista Brembate Sopra all’Avetrana di Sarah Scazzi. O a una roccaforte della mafia. A parte Massimo Gramellini, che sulla Stampa ha elogiato la sobrietà della famiglia Gambirasio, sul paesino bergamasco stanno piovendo le prediche di chi definisce quella comunità «una sorta di Corleone del profondo Nord» (lo ha fatto il Messaggero). Concetta, madre di Sarah - uccisa, ritrovata in un pozzo dopo quaranta giorni e per il cui omicidio sono sospettati lo zio Michele e la cugina Sabrina - ha detto: «In quel paese i familiari non parlano». E poi: «Nessuno ha visto niente, sono tutti chiusi. Se lo avessimo fatto noi che siamo del Meridione ci avrebbero definito omertosi». La signora merita rispetto, se non altro per il dolore e la tragedia che l’hanno colpita, ma proprio la vicenda di Avetrana dovrebbe insegnare. Piuttosto che tante sceneggiate tv, meglio un silenzio rispettoso. Piuttosto che finte lacrimucce sparse nei salotti del piccolo schermo, meglio qualche dialogo riservato con gli inquirenti. A Brembate Sopra non è vero che nessuno parla. Non lo fanno con i giornalisti, a parte lo sciagurato 19enne che abbiamo citato. I testimoni sono decine. Un centinaio le persone ascoltate. L’altro giorno pure un boliviano irregolare, vincendo la paura di essere espulso, ha contattato i carabinieri perché convinto di aver visto Yara. Molto probabilmente è un abbaglio, ma dietro una facciata silenziosa c’è una comunità che si muove, cerca, prega. D’altronde, se nessuno ha visto cosa deve dire? Niente, appunto. C’è la certezza che il paese stia coprendo qualcuno? Al momento, risulta di no. Allora è meglio tacere. Ed evitare prediche. Gli inquirenti hanno invocato uno sforzo di memoria. Ma qui si parla di una giovane che, uscita dal centro sportivo a due passi da casa, s’è volatilizzata in pochi metri. Hanno messo in campo pure dei super-segugi, che la signora Concetta Scazzi ha lamentato non essere arrivati ad Avetrana, quando si cercava la povera Sarah. Le conclusioni sono che la sobrietà ed il buon senso dovrebbero essere adottate sempre e comunque da tutti i giornalisti. Così come la ponderazione da parte dei magistrati. Così come la pazienza di aspettare le sentenze definitive da parte dei cittadini. Ogni frase o ogni scritto pronunciata dai media può influenzare l'opinione pubblica: quando gli eventi riguardano noi, ma anche quando riguardano gli altri. Perchè gli altri siamo noi. Dal resoconto sul caso di Sarah Scazzi, contenuto nelle pagine delle tematiche territoriali di Taranto provincia, sembra che il trattamento mediatico riservato ad Avetrana sia identico a quello riservato a Brembate Sopra. Nè il primo paese, nè il secondo meritano cattiverie gratuite da chiunque proferite.
8 dicembre 2010. "Indagini da cani: Yara è un mistero". Questo è il titolo a firma di Giuseppe Sanzotta sul “Il Tempo”. Scarcerato il marocchino, le ricerche ripartono da zero. Ai carabinieri ora si affianca la polizia e dopo gli animali si dà peso ai testimoni. La storia di Yara ricorda da vicino quella di Sarah Scazzi. La frase di circostanza che si usa in questi casi è: si seguono tutte le piste. Come dire che non sanno che pesci prendere. Sì, perché la scomparsa di Yara, la tredicenne promessa della danza, resta un mistero. Chi l'ha presa? Dove l'ha presa? Cosa le ha fatto? Forse la sola drammatica certezza è che quella bambina sia morta. Certamente finché non si trova il corpo resta una flebile speranza, soprattutto nel cuore straziato dei genitori, ma polizia e carabinieri più che cercare un rapito, cercano un corpo senza vita, nei corsi d'acqua, tra le montagne di sabbia e sassi dei cantieri della zona, nei boschi. Cercano con quei cani giudicati infallibili che sembrano guidare le indagini. Sono loro che hanno portato a quel cantiere dove lavorava il marocchino fermato dopo un inseguimento in alto mare e poi rilasciato. Perché, ora si sa, hanno sbagliato a tradurre l'intercettazione, non si riferiva a Yara, non era in fuga, e il viaggio a casa era stato deciso da tempo. Come si fa a sbagliare così? Sembra impossibile. E ora si riparte, e l'impressione è che lo si faccia senza un programma. Così il guardiano di un cantiere, vicino a quello dell'azienda dove lavora il padre della ragazza, denuncia che da lui non sono state fatte indagini. E la macchina delle ricerche si sposta, passa tutto al setaccio. Viene trovato un telefonino, ma non è quello della ragazza. E c'è da scommettere che altri faranno nuove segnalazioni. Fin qui la gestione di tutta la vicenda non fa molto onore alle capacità investigative. Quel clamoroso abbaglio sul marocchino ne è la testimonianza. Torna alla mente la drammatica e quasi analoga vicenda di Sarah Scazzi. Fu schierato un esercito di esperti, ma senza il pentimento dello zio che fece di tutto per mettere i carabinieri sulle sue tracce, forse non avremmo scoperto un bel niente e il corpo sarebbe rimasto in quel pozzo per chissà quanto. Ma torniamo a Brembate di Sopra, qui la vicenda è ancora aperta. Il mostro è nei paraggi. Il sospiro di sollievo che hanno avuto in molti credendo di aver individuato nel marocchino fermato, l'assassino, è stato subito ricacciato indietro. L'intercettazione era un bluff, niente che potesse inchiodare il ragazzo. Ci sono testimoni, compreso il suo datore di lavoro, che affermano che all'ora della scomparsa era in servizio. A lui erano arrivati i cani, i soli detective di questa operazione, che avevano portato gli inquirenti nel cantiere e in particolare in un gabbiotto del guardiano del parcheggio di un centro commerciale in costruzione. È vero che c'era anche un testimone, un ragazzo di 19 anni che dava una versione diversa, aveva visto la ragazza in un altro luogo con due uomini e l'aveva vista vicina a una auto rossa. Non gli hanno creduto, i cani non gli hanno creduto perché da quella parte non sono mai andati. Così oggi si ripresenta il dubbio: hanno ragione i cani o quel testimone ridicolizzato? E non azzardiamo una risposta perché se i carabinieri credono ai cani, la polizia che ha avviato una indagine parallela prende in seria considerazione quella testimonianza. E la differenza non è da poco, perché se Yara stava effettivamente parlando con due uomini, dalla palestra aveva preso una strada diversa da quella che finisce al cantiere. Certo nulla toglie che possa esserci stata portata dopo. Di sicuro ora torna d'attualità la ricerca di due uomini. E di quella Citroen rossa. Così come quel furgone bianco che altri dicono di aver visto aggirarsi. E anche Fikri, il ragazzo marocchino, non è del tutto fuori dalla vicenda. Una confusione di ipotesi tra il dolore e lo sconforto di quei due poveri genitori che non sanno che fine ha fatto la loro bambina. E ora si chiedono anche perché è uscita da una porta secondaria della palestra. Qualcuno l'aspettava o qualcuno l'ha costretta. Un dubbio e una paura che ora hanno portato i genitori a non mandare più i ragazzi in quel luogo. Sospese le lezioni: non c'è sicurezza. O forse c'è solo tanta paura. A parte la psicosi, non del tutto ingiustificata viste le circostanze, resta angosciosa la domanda: cosa hanno fatto a quella bambina? Quanto avrà sofferto? Si è fidata di qualcuno che conosceva o è stata trascinata a forza? Se come tutto lascia temere è morta i suoi ultimi pensieri e forse le invocazioni saranno stati per i genitori, per la mamma. Così come è stato per Sarah. E questo pensiero aumenterà lo strazio, il dolore, la rabbia dei genitori. Verrebbe voglia di gridare a chi indaga di fare presto. Non siamo riusciti a prevenire ed evitare una mostruosità, almeno facciamo in fretta per togliere dalla circolazione quel mostro o quei mostri che ancora si aggirano liberi. E ci dobbiamo chiedere se da quel 26 novembre sia stato fatto proprio tutto il possibile, se nessuna segnalazione, testimonianza sia stata sottovalutata. Se non c'è stata una presunzione, la presunzione di chi segue una propria pista e per questo sottovaluta le altre. Ricordiamo che per Sarah si pensava a una fuga. E ricordiamo quell'episodio lontano dei fratellini di Gravina di Puglia. Ritrovati morti, caduti da un muro non lontano da casa. Eppure c'è chi pensò fin dall'inizio alla colpevolezza del padre, volevano incastrarlo invece di cercare quei due bimbi che agonizzavano a poche centinaia di metri da casa. Ora, con i cani o senza di loro, non solo Brembate, ma tutta l'Italia chiede verità e giustizia. Non un colpevole, ma il colpevole. Critiche anche da Massimo Martinelli de “Il Messaggero”. Almeno settanta ore di vantaggio. Che per un assassino in fuga sono un’enormità. Un regalo impagabile soprattutto per chi ha ucciso in preda ad un raptus. Di tipo sessuale, probabilmente. Perché consente al killer di riacquistare lucidità e pianificare una strategia di uscita. E’ questo l’effetto dell’errore da dilettanti allo sbaraglio che renderà difficile la caccia a chi, forse, ha già ucciso Yara. E’ come se gli investigatori di Bergamo fossero stati avvertiti con tre giorni di ritardo. Invece sono rimasti al palo per scelta, imboccando una pista che appariva suggestiva, ma che avrebbe dovuto suggerire alcune cautele in più. La verità è che hanno cercato il risultato immediato, l’arresto spettacolare, l’operazione mediatica. Anche se quel marocchino aveva un alibi granitico, che poteva essere verificato chiamando il suo datore di lavoro in un tempo inferiore a quello che è stato necessario per intercettare un traghetto in acque internazionali. E anche la telefonata indicata come unica prova per l’arresto: aveva un mittente, Fikri, e un destinatario. Che se fosse stato consultato subito avrebbe spiegato il motivo della chiamata. E fornito un contributo a tradurre la frase che invece è stata affidata ad un interprete di dubbia affidabilità. E ancora, Fikri aveva una fidanzata, che poteva informare i carabinieri che il viaggio in Marocco non era una fuga, ma era stato programmato da tempo. E che la decisione di gettare via una vecchia scheda sim era l’effetto di una scenata di gelosia, perché su quel numero continuavano ad arrivare telefonate di ex fidanzate. E’ vero, Fikri sembrava un uomo in fuga. Ma non lo era. E le indagini di polizia giudiziaria, come quelle della magistratura, non possono utilizzare un verbo all’imperfetto, “sembrava”, per giustificare l’azzeramento dei diritti costituzionali. Non possono farlo mai. E se esistesse un termine più assoluto sarebbe il caso di utilizzarlo per la vicenda di questo marocchino, il cui arresto poteva scatenare una reazione xenofoba, che nel paese di Yara non c’è stata. Oppure finire sul tavolo di magistrati poco esperti e appiattiti sui rapporti della polizia giudiziaria. E non, come è accaduto, nelle mani di due donne che hanno avuto da subito la sensibilità tutta femminile di scavare negli occhi di Fikri. Sono le due uniche stelle che hanno vegliato sulla triste sorte di Fikri: un paese come Brembate dove ieri sera tre uomini al bar hanno visto un nordafricano sconosciuto e gli hanno offerto da bere, per solidarietà. E due donne che, con la toga sulle spalle, ci stanno davvero bene.
Editoria e censura. Sarah Scazzi ed i casi di cronaca nera. Quello che non si deve dire.
Quando gli autori scomodi sono censurati ed emarginati.
Il caso che ha sconvolto l'Italia e ha cambiato per sempre la cronaca nera in due libri-dossier precisi e dettagliati che fanno la storia, non la cronaca, perché fanno parlare i testimoni del loro tempo. “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese.” E “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. La Condanna e l’Appello”. Sono i libri che Antonio Giangrande ha scritto in riferimento al caso nazionale. In questi libri l’avetranese Giangrande ripercorre da testimone privilegiato in prima persona tutte le tappe del caso: gli interrogatori, lo studio degli incartamenti, le analisi delle tracce sul luogo del delitto, i ragionamenti per entrare nella dinamica del delitto. Da giurista e da sociologo storico inserisce la vicenda in un sistema giudiziario e mediatico che ha trattato vicende similari e che non lasciano spazio ad alcuna certezza. Di Sarah Scazzi si continuerà a parlare a lungo. La vicenda, tra le più controverse nella cronaca recente del nostro Paese, è stata costantemente seguita, commentata e interpretata, anche a sproposito. Antonio Giangrande in questi libri compie un viaggio meticoloso e preciso all'interno delle prove e delle contraddizioni sia del caso giuridico, che dei suoi controversi protagonisti. Antonio Giangrande è un punto di riferimento, è il destinatario della tua prima telefonata per capire cosa sia successo. Le sue analisi sono sempre schiette, appassionate, cristalline. Mai scontate o banali. Puoi anche non essere d'accordo, ma dal confronto ne esci più sapiente.
Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia, per una scelta di libertà si pone al di fuori del circuito editoriale. Questo è un dazio che egli paga in termini di visibilità. Ogni kermesse, manifestazione, mostra o premio a carattere culturale è in mano agli editori. Premi e vincitori li scelgono loro, non il lettore. I giornali e le tv dipendono dagli editori e per forza di cose sono costretti a promuovere gli autori della casa. Il web è uno strumento per far conoscere gli autori sconosciuti. Antonio Giangrande usa proprio il web per raccontarsi.
«Sono orgoglioso di essere diverso. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Faccio mia l’aforisma di Bertolt Brecht. “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.” Rappresentare con verità storica, anche scomoda, ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Continua Antonio Giangrande «E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta…” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso.” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie. Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. Faccio ancora mia un altro aforisma di Bertolt Brecht “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Si è mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per far sapere quello che non si sa? E questo al di là della convinzione di sapere già tutto dalle proprie fonti? – conclude Giangrande – Si provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Si scoprirà cosa succede veramente in un territorio o in riferimento ad una professione. Cose che nessuno dirà mai. Non si troveranno le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Si troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Si può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non si potrà più dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.»
“L’Italia del Trucco, l’Italia che Siamo”. Collana editoriale di decine di saggi autoprodotta da Antonio Giangrande su Amazon, Create Space, Lulu, Google Libri ecc. Libri da leggere anche a costo zero. Se invece volete dargli una mano, regalate un libro di Antonio Giangrande. Scoprirete tutto quello che non si osa dire.
LA CATTURA DEL SOSPETTO KILLER DI YARA GAMBIRASIO. Il ministro gridò: «Dagli al mostro!». GIORNALI, POLITICI E GOVERNO SCATENATI. PER FORTUNA LI FRENA LA PROCURA! Così titola in prima pagina "Il Garantista". Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, ha guidato in prima persona la carica. Ha annunciato la “condanna” del signor Bossetti, fermato sotto l’accusa di essere lui l’assassino di Yara Gambirasio. E il processo? Inutile formalità. L’uscita spettacolare di Alfano si è iserita con eleganza in un clima di isteria e di linciaggio, alimentato nelle ore precedenti da tutti i giornali. Tutti. Uniti per una volta nella decisione di emettere la sentenza senza appello, di diffondere la foto del “mostro”, di fornire l’indirizzo di casa sua e della sua famiglia. Figuratevi che è toccato al Procuratore della Repubblica, stavolta, fare la parte del difensore dello Stato di diritto. Il capo della Procura di Bergamo è intervenuto con grande correttezza, in polemica aperta e dura col ministro, e ha detto che avrebbe voluto riserbo anche in difesa del diritto alla presunzione di innocenza. Ieri sono proseguiti gli interrogatori di Massimo Giuseppe Bossetti, 44 anni, che è accusato di avere ucciso Yara, per ragioni sessuali, ed è stato incastrato dalla più grande indagine di tutti i tempi fondata sul prelievo di massa del Dna. I pubblici ministeri hanno dichiarato che risulta che l’assassino abbia torturato Yara, però non si capisce bene come questa informazione possa venire dal Dna di Bossetti. Se è vera, è una notizia di tre anni fa. La mamma dell’accusato ha detto: se mio figlio è colpevole, è giusto che paghi.
Da via Poma a Meredith, luci e ombre del Dna. La prova scientifica risolutiva nei gialli Claps, Olgiata e la strage di Erba ma non ha dato un nome agli assassini di Simonetta Cesaroni e Chiara Poggi, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Il dna non mente, il dna non può fallire. Eppure ha fallito. Quando la scienza si sostituisce alle indagini, il flop è dietro l’angolo. Massimo Giuseppe Bossetti non è ancora l’assassino di Yara Gambirasio, ma è il presunto colpevole, anche se la traccia ematica trovata sui vestiti della piccola vittima corrisponde al 99,9 per cento al suo profilo genetico. La realtà è diversa da Csi o Cold Case. Perché ci si può imbattere in tracce contaminate o professionalità non all’altezza. E perché una traccia di dna rinvenuta sul luogo del delitto o sugli abiti, può voler dire solo che una determinata persona è stata in quel posto o ha avuto contatti con la vittima. Serve altro: movente, arma del delitto, verifica degli alibi, ecc. Ci sono, eccome, casi risolti anche grazie all’esame del dna: il delitto dell’Olgiata, ad esempio, quando sul lenzuolo stretto al collo della contessa, Alberica Filo della Torre, viene scoperto il codice genetico del suo cameriere filippino; o quello di Elisa Claps, con il dna di Danilo Restivo rinvenuto sulla maglietta indossata dalla vittima; o ancora la strage di Erba, quando dalla macchina di Rosa Bazzi, moglie di Olindo Romano, salta fuori il dna di una delle quattro vittime. Ma ci sono anche quelli in cui la «pista genetica» non è servita a nulla, ha sviato le indagini o lasciato mille dubbi. Nel delitto di via Poma l’unico imputato, Raniero Busco, viene condannato per le tracce di dna sul corpetto della vittima, poi assolto perché quel residuo genetico appartiene anche ad altri due uomini. Nel 2001 il corpo di Serena Mollicone viene ritrovato legato e imbavagliato ad Arce. Il test del dna viene eseguito su 272 persone, ma nessuno risulta compatibile con le tracce biologiche sugli abiti di Serena. Eclatante il «balletto» delle perizia nel caso Meredith Kercher. Amanda Knox e Raffaele Sollecito vengono condannati perché sulla lama del coltello ci sono tracce del dna di Meredith, sul manico quelle di Amanda, sul gancetto del reggiseno quelle di Sollecito. Ma nel primo processo d’appello il dna di Meredith viene ritenuto «non supportato da procedimenti analitici scientificamente validati», e quello sul reggiseno giudicato contaminato. Nella seconda sentenza d’appello lo stesso dna di Sollecito riacquista valore probatorio. Nel caso di Garlasco, sospettato di aver ucciso Chiara Poggi è Alberto Stasi. Sulla sua bici ci sono tracce del dna della vittima. Per i Ris è sangue della ragazza, per i difensori sudore o saliva. Il dna sulla bici viene giudicato «non grave» e Alberto assolto due volte. Nel 2013 il processo riparte daccapo e si cerca di individuare il dna su un capello trovato nel palmo della mano di Chiara. Tenuto conto che i due erano fidanzati, se il capello fosse di Alberto, sarebbe colpevole?
Il caso Garlasco e l'inesauribile voglia di mostro. A sette anni o poco meno dal delitto, se ne torna a parlare in un'aula di giustizia. Il clima in cui si celebrerà il processo non promette nulla di buono, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. A sette anni o poco meno dal delitto di Garlasco, se ne torna a parlare in un'aula di giustizia, quella della terza Corte d'assise di Milano. Non sono bastate due assoluzioni a scagionare il fidanzato della vittima, Chiara Poggi, dall'accusa di esserne stato l'assassino. Incredibile la lunghezza del giudizio definitivo. L'imputato, Alberto Stasi, vive in un incubo ogni dì rinnovabile. Domani egli sarà di nuovo alla sbarra, come si dice, per difendersi, poiché la Cassazione, qualche tempo fa, nell'esaminare la sentenza d'appello che lo sollevava da ogni responsabilità, ha ordinato una sorta di riesame. In altri termini, l'appello è da rifare perché i giudici di terzo grado sono convinti che non tutti gli indizi siano stati valutati appieno. Cosicché, nonostante Stasi sia stato processato con rito abbreviato una prima volta (assolto) e una seconda (assolto) con tutti i crismi della legalità, è ancora ai nastri di partenza, come se fino adesso le toghe avessero scherzato. Sette anni sono lunghi da passare. Ma non conta. Il nostro sistema farraginoso prevede sempre la possibilità di rifare tutto. In effetti, si ricomincia. Le torture non finiscono mai. Ricostruire tutti i passaggi processuali, con i vari dettagli, sarebbe per noi un'operazione troppo complicata, noiosa e forse inutile giacché i lettori puntano al sodo. E il sodo è che Chiara Poggi è stata ammazzata in casa sua con un'arma contundente (mai ritrovata). Da chi? Da una persona che conosceva bene, tanto che la mattina di buon'ora le aprì la porta. Che cosa sia accaduto poi in quella villetta non è dato sapere: lite, colluttazione, fuga e inseguimento? Chi può dirlo. È un dato che la ragazza è stata trovata morta al piano terra. Macchie di sangue dappertutto. L'indagine si svolge nel raggio di mezzo chilometro. Chi può essere stato se non il fidanzato? Gli inquirenti puntano su di lui. Come al solito, in vicende di questo tipo, si guarda nell'ambito familiare. Stasi finisce subito in galera gravato da pesanti sospetti. Perché la sera precedente l'aveva trascorsa con lei. Perché qui perché là. Perché lui quella mattina si recò a casa di lei e la scorse morta in fondo alla scala. Perché Alberto telefonò ai carabinieri e la sua voce non tradiva emozione. Insomma, i racconti divulgati dalla stampa e dalle tivù sono interpretati quali indici di colpevolezza. Pochi giorni dopo l'arresto, tuttavia, Stasi viene rimesso in libertà in mancanza di prove. Andiamo veloci. Seguono decine di programmi televisivi che sviscerano ogni dettaglio del giallo; l'opinione pubblica, tanto per cambiare, si divide in colpevolisti e innocentisti. Personalmente, difendo il ragazzo non perché sia simpatico; anzi, è odioso. Ma contro di lui ci sono solamente pregiudizi: ha gli occhi di ghiaccio (in realtà è solo miope), è un tipo strano, ha trascorso un mese a Londra mentre la morosa aveva principiato a lavorare a Milano (uno stage), gli piaceva compulsare il computer laddove c'è del porno. Un sacco di stupidaggini che non c'entrano nulla con l'assassinio. Tra la coppia non vi sono state telefonate in cui si percepiscano liti, non si rintracciano mail in cui emergano liti o battibecchi. Tutto normale, piatto, piattissimo. Non è finita. Lui non si è sporcato le scarpe sulla scena del delitto. Però vi sono sue impronte sul sapone del bagno. Capirai. Uno che frequenta abitualmente la casa della fidanzata si sarà talvolta, suppongo, lavato le mani nel gabinetto. Avete capito? Tutta robetta. Manco una prova. Che dico, una prova, nemmeno mezza. Il movente eventuale? Gli inquirenti si arrampicano sui vetri. Dicono: lei ha scoperto che lui osservava le schifezze sul computer, ecco la causa della lite che ha scatenato la furia omicida di Alberto. Congetture. Se contrasti fra i due ci fossero, non sono stati appurati. E allora? Stasi dal presunto reato di pedopornografia web è stato scagionato. Quindi le porcherie non possono essere state il movente: tra l'altro piacevano anche a lei. Non mancano le elucubrazioni degli avvocati di parte civile che vorrebbero incastrare il giovane, ma sono inconsistenti e, quando si arriva davanti al giudice del rito abbreviato, il professor Angelo Giarda non fatica a far risaltare l'innocenza del suo assistito, Stasi, che viene assolto. Il verdetto di secondo grado è la fotocopia del primo. Basta? Nossignori. La Cassazione rimette tutto in discussione: bisogna approfondire questo e quell'elemento. Le toghe indicano sette od otto punti da verificare. Nel frattempo sono trascorsi sette anni (sette). Siamo al delirio. Ovvio che i genitori di Chiara pretendano che l'omicida sia inchiodato e condannato. Anch'io sono dalla loro parte. Concordo. S'identifichi l'assassino; non ci si accontenti però di punire uno qualsiasi cui addossare a casaccio la colpa di aver ucciso. Come si fa ad accanirsi su un tizio contro il quale non vi sono che oscuri presentimenti e dubbi? Il clima in cui si celebrerà l'ennesimo processo non promette nulla di buono. Trasformare pallidi indizi - mezzi indizi - in elementi probatori è tecnicamente un gioco da bambini per magistrati esperti. Una sentenza di condanna spesso placa le coscienze anziché tormentarle. Questo è il costume italiota. Fossi in Alberto, sarei terrorizzato. Sento puzzo di verdetto pesante. Spero di sbagliare. Il suo destino è nelle mani del professor Giarda, che è un fuoriclasse, ma non un padreterno. Auguri.
Il caso Yara e la morte del garantismo e del buon giornalismo, scrive Charlotte Matteini su "Fanpage". Ieri pomeriggio è irrevocabilmente morta la presunzione d’innocenza. Dopo essere stata strattonata, maltrattata, calpestata, presa a calci, vilipesa e massacrata per anni, ieri è stata definitivamente ammazzata da un Ministro della Repubblica prima, dai giornalisti italiani subito dopo. Verso le quattro del pomeriggio, arriva la notizia bomba, direttamente dalla bocca del Ministro dell’Interno Angelino Alfano: “E’ stato individuato l’assassino di Yara Gambirasio”. Presunto assassino. Ma il “presunto” non è pervenuto. Alfano, senza bisogno di alcun processo, ha già decretato la colpevolezza dell’indagato e lo ha gettato nella sudicia arena della lapidazione a mezzo stampa. L’inadeguato Ministro Alfano non è stato l’unico ad aver tenuto una deprecabile e indegna condotta. Nel giro di pochissimi minuti i quotidiani di mezza Italia hanno iniziato a dare la notizia, alcuni, pochissimi, mantenendo un comportamento deontologicamente corretto, altri, la stragrande maggioranza, hanno invece cominciato a pasteggiare come iene con il cadavere di Yara. Per attirare più click possibili, sui social network hanno iniziato ad apparire centinaia e centinaia di post che berciavano: “Arrestato l’assassino di Yara. Clicca qui per scoprire il nome e il cognome”. E del nome e del cognome, a quell’ora non c’era ancora alcuna traccia. Il nome, purtroppo, è venuto fuori un paio d’ore scarse più tardi, mentre il presunto autore del delitto era ancora sotto interrogatorio e il GIP non aveva ancora convalidato il fermo. E così la presunzione di innocenza è morta. Agonizzante ormai da troppi decenni, ha lasciato definitivamente la scena all’imperituro sciacallaggio di massa da social network. Nome, cognome, foto private, ricostruzioni di una presunta vita privata operate da giornalai senza scrupoli che hanno impiegato poco meno di due ore per confezionare il nuovo “mostro da prima pagina”. Rispetto per le indagini? Nessuno. Rispetto per i diritti di un imputato? E perché mai? Molto meglio provare a monetizzare la notizia pruriginosa a suon di click, fomentando senza ritegno una lapidazione mediatica rabbiosa. I commentatori inferociti danno sfogo ai loro più bassi istinti animali attraverso i social network, trasformandosi in perfetti Robespierre e nostalgici sostenitori del Regime del Terrore, insultando e minacciando il presunto assassino, la sua famiglia, le sue figlie, persino i cani e la sua passione animalista. Su Facebook spuntano come funghi pagine e gruppi che inneggiano alla lapidazione vera e propria, aizzati dal rincorrersi di notizie e siparietti da avanspettacolo dei talk show che altro scopo non hanno che l’eccitare e l’istigare la rabbia collettiva di piazza. E questo sarebbe buon giornalismo? Questa spazzatura mediatica corrisponderebbe al “diritto di cronaca” secondo i giornalisti italiani? E la tanto osannata essenziale presenza dell’Ordine dei Giornalisti, l’organo che dovrebbe garantire il rispetto della deontologia professionale e della buona informazione, alla luce dei fatti, non è l’ennesima inutile corporazione che solo a parole è utile allo scopo che si prefigge? Fare a pezzi la presunzione di innocenza, distruggere le vite degli imputati, delle loro famiglie, dei loro parenti, scavare nella vita di persone morte da un decennio perché probabilmente collegate al presunto assassino e sbattere in prima pagina le loro debolezze e le loro vicissitudini familiari può essere considerato tollerabile? Questo è sciacallaggio, non giornalismo. Questa condotta uccide il Giornalismo in nome di facili guadagni e scroscianti applausi del pubblico dei talk show di Nera. Irrispettosa ed esecrabile condotta, non solo nei confronti dei principi garantisti sanciti dalla tanto acclamata Costituzione della Repubblica Italiana, ma anche e soprattutto nei confronti dei genitori della vittima. Dopo l’inarrestabile e incontrollabile fuga di notizie, anche i PM hanno fatto notare il loro disappunto ad Alfano, dichiarando che avrebbero voluto mantenere il massimo riserbo sulla svolta del caso Gambirasio, ma il nostro prode garantista a corrente alternata ha risposto: “Io non ho fornito dettagli. E comunque l’opinione pubblica aveva diritto di sapere”. Agghiacciante. Agghiacciante anche solo pensare che l’opinione pubblica abbia il diritto di essere aizzata in questa maniera da politici e giornalisti, che abbia il diritto di trasformarsi in una folla inferocita irrazionale che chiede la testa, nel migliore dei casi, di colui che nei fatti resta un indagato, un indiziato, un presunto colpevole. Io non so se Bossetti sia il vero colpevole dell’omicidio di Yara. Io sono solo convinta che i principi garantisti siano sacrosanti e che vadano salvaguardati a tutti i costi proprio per evitare che la deriva forcaiola sostituisca ciò che dovrebbe essere Giustizia con un becero Giustizialismo rancoroso, bilioso e irrazionale, con il rischio di ritrovarci nel giro di pochissimo tempo a doverci confrontare con una dittatura del pubblico ludibrio che condanna preventivamente chiunque abbia la sfortuna di trovarsi imbrigliato nelle maglie della malagiustizia all’italiana. Un assaggio di questo scenario lo stiamo già vivendo sulla nostra pelle da molti anni e il caso di Yara Gambirasio non è che l’ennesimo di una lunga serie di orrori mediatici scaturiti dall’insistente e ossessiva fame di scandali, di voyeurismo e di scabrosi dettagli dell’italiano medio. Tortora, Daniele Barillà, Gino Girolimoni, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Walter Chiari, Pietrino Vanacore, Salvatore Pappalardi, Patrick Lumumba, Giuseppe Gulotta, Raniero Busco. L’elenco dei “mostri da prima pagina per sbaglio” sarebbe ancora più lungo, molto più lungo. Sono 22323 sono gli orrori giudiziari accertati e risarciti, dal 1991 al 2013 in Italia. Raggiungiamo i 50.000 calcolando anche tutti coloro che da prosciolti hanno visto rifiutata la loro richiesta di risarcimento. 575.698.145 euro è il prezzo degli ultimi 22 anni di Malagiustizia italiana. Cari politici, cari giornalisti, cari “Leoni da Social Network”, la prossima volta che vorrete giocare al “piccolo forcaiolo” o che calpesterete la presunzione d’innocenza perché il presunto colpevole vi sta sulle palle, ha una brutta faccia dai tratti lombrosiani, è antipatico, è nero, blu, bianco, rosso o verde, pensate un po’ a questi nomi, a queste storie e a questi numeri e riflettete sui danni che potrebbe provocare l’eccesso di giustizialismo giudiziario e mediatico sulle vite di persone che potrebbero rivelarsi innocenti.
La banalità del male e quegli assassini come se nulla fosse, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Dall’arresto di Massimo Giuseppe Bossetti, il presunto assassinio di Yara Gambirasio, e di Carlo Lissi, l’uomo che ha sgozzato moglie e figli e poi è andato a vedere la partita, sono passati appena due giorni ma già ne ho le orecchie piene. In quarantott’ore si è sentito di tutto: molte analisi tecniche, tanti commenti moralistici, parecchie stupidaggini. Parole banali per commentare la banalità del male. Un muratore tutto casa e animali che violenta una ragazzina di 13 anni e poi la lascia morire in un campo. Un tecnico informatico invaghito di una collega convinto che la famiglia sia d'intralcio e dunque la elimina a coltellate. Schifezze d'uomini? Sì, forse. Ma ciò che colpisce di questi uomini è l’apparente normalità. Non prima, dopo. Prima è facile, non è ancora successo niente. Non avendo ancora le mani sporche di sangue si può fingere che tutto sia a posto, anche quello che di strano c'è dentro. Ma dopo? Dopo che la pazzia, le pulsioni sessuali, la violenza sono tracimate, dopo che hanno distrutto la vita degli altri come si fa a continuare a vivere come se niente fosse? Mostri? Sì, è il modo più facile per etichettarli. Il loro comportamento è così mostruoso che per forza non devono essere normali. Ma è proprio così? Ne siamo proprio sicuri?
Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.
Il risveglio choc del paese: "Era proprio uno di noi..." Dopo anni di sospetti la scoperta che sconvolge Brembate: "Sì, ce lo ricordiamo Prendeva un caffè e via. Ora lo schifo che ha portato qui deve finire con lui", scrive Gabriele Villa su “Il Giornale”. Fa strano ripartire da dove tutto è cominciato. Fa strano ripartire da qui, da questo Palazzetto dello Sport che rappresenta l'ultimo domicilio conosciuto di Yara Gambirasio, prima dell'incontro fatale col suo assassino, quel 26 novembre del 2010. Ci sono bimbetti che sguazzano nell'acqua della piscina. Ci sono le «farfalline», come hanno battezzato, qui, le piccole atlete di ginnastica che hanno appena concluso i loro volteggi, guarda il caso proprio sotto la direzione di Keba, la sorella maggiore di Yara. Farfalline come Yara che, appena qualche anno maggiore di loro, sognava di volteggiare. «Già, fa strano essere qui, pensando che Yara ha respirato quest'aria, questo clima d'amicizia, prima di finire nelle mani di quell'uomo. Uno che abita a cinque minuti da qui, altro che un balordo extracomunitario come pensavamo tutti, all'inizio», commenta, Milena Dolcini, una delle mamme che, dalle grandi vetrate, al primo piano del Palazzetto di via Locatelli, guarda suo figlio che sguazza nell'acqua gioioso. «Fa rabbia sapere che quell'individuo, quel padre di tre figli le abbia messo le mani addosso e l'abbia abbandonata in un campo a morire. Ma ora spero che faccia la fine che si merita, in galera», tuona Nando, il gestore del bar del Centro sportivo comunale. Rabbia, altra rabbia, al Loto Cafè in via Sorte, non lontano dalla villetta della famiglia Gambirasio. Qui ci sono almeno un paio di clienti, oltre al titolare del bar, che si ricordano di aver intravisto quel Bossetti presentarsi al bancone. «Giusto per un caffè e poi via». Un ragazzotto sui diciotto è il più sicuro di tutti: «L'ho detto subito ieri, quando ho visto il tg, quel tizio di Mapello, quello lo conosco, si fermava spesso da queste parti. Con la faccia un po' suonata, si vantava di andare in giro con l'aliante, parcheggiava in fondo alla strada, vicino al campo». «A pensarci bene mi era parso un tipo strano, ma non avrei mai immaginato che potesse essere lui l'assassino. Speriamo che sia davvero lui. E che tutto questo schifo che ha inondato Brembate finisca con lui», dice un altro avventore. Poi la sconsolata conclusione del titolare del bar: «Fulvio, il papà di Yara, viene spesso qui, è una brava persona e non si merita tutto questo. Mi auguro che possa farsi coraggio». Iole Pesenti, una signora sui settant'anni che abita non lontano dai Gambirasio, è ferma sul marciapiede. A pensare, quasi a dedicare a quella casa un pensiero commosso. «Sapere che hanno trovato l'assassino di quella povera ragazzina ci fa tirare un sospiro di sollievo. Perché da quel giorno, di quasi quattro anni fa, la vita qui era cambiata. Noi nonni e genitori avevamo tutti più paura. Paura di sapere che c'era un assassino in libertà che avrebbe potuto colpire ancora. Tanto più, ammettiamolo - aggiunge - che avevamo avuto l'impressione che le indagini fossero talmente complicate che non si sarebbe mai potuto arrivare a dare un nome al killer». Non ha mai parlato volentieri coi giornalisti, in questi tre anni e mezzo, don Corinno Scotti, il parroco di Brembate di Sopra. Ha organizzato fiaccolate, veglie di preghiera. È stato sempre vicino ai genitori di Yara, Maura e Fulvio, condividendone il dolore e lo sconcerto. Ma qualche parola riusciamo a fargliela dire: «Vede, quanto è accaduto, con quello che adesso sembra l'epilogo di questa tragedia, dovrebbe insegnarci qualcosa. Che non bisogna mai giudicare né fidarsi delle apparenze. E le apparenze, all'inizio di questa vicenda tristissima, avevano già condannato quel marocchino, quel Fikri. Adesso spero proprio che in paese non prevalgano sentimenti di vendetta». Quindici giorni fa, all'oratorio, hanno inaugurato un monumento a ricordo di Yara. «Che abbiamo voluto chiamare Stele di luce - aggiunge - perché questa vicenda, anche se è finita come è finita, deve essere ricordata nel modo giusto con la sguardo alla serenità. Perché, come dice il papà di Yara, l'unico modo per fare un regalo a Yara è diventare più buoni pensando a lei». Una pattuglia dei vigili e una di carabinieri sbarrano ai cronisti l'ingresso di via Rampinelli, dove i Gambirasio abitano. Dove, sopra quella villetta al civico 48, resta una nube di tristezza e sgomento. E dove, ancora adesso, prima di parlare, il papà e la mamma di Yara vogliono certezze. Per cominciare il cammino della consolazione.
Yara: il perverso intreccio della famiglia Bossetti. Ester Arzufi è il cuore del mosaico familiare che ha consentito di individuare il presunto assassino. Perché finora ha taciuto? E perché ha chiamato i due figli come Guerinoni e sua moglie? Così scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. L’uomo fermato con l’accusa di essere l’assassino di Yara Gambirasio, difficilmente ammetterà le sue colpe. Quando i carabinieri del Ros lo hanno prelevato da un cantiere di Seriate, Giuseppe Bossetti è rimasto impassibile, e poco più tardi, davanti al pubblico ministero Letizia Ruggeri si è avvalso della facoltà di non rispondere. Il fatto che sia rimasto tre anni e mezzo in silenzio senza farsi vincere dai morsi della coscienza, la dice lunga sulla sua personalità. Ma anche se si chiudesse definitivamente a riccio, contro di lui ci sono prove inconfutabili: il suo dna trovato sui leggins della ragazza, il suo telefono agganciato alla cella di Brembate la sera del 26 novembre 2010, un’ora prima della sparizione della ginnasta. Quanto basta, insomma, per inchiodarlo alle sue pesanti responsabilità. Di fatto, a questo punto delle indagini si produce una sorta di inversione dell’onere della prova: non sono più gli inquirenti che devono dimostrare la sua colpevolezza, ma Bossetti dovrebbe tirar fuori delle circostanze certe e straordinarie che lo scagionino. Come, per assurdo, un uccellino che ha intinto il becco nel suo sangue per poi volare e andare a posarsi sul corpo della povera Yara abbandonato in mezzo alle sterpaglie. Impresa impossibile, per rendere l’idea. Certo, il suo silenzio lascerebbe senza risposta la domanda più importante che tutti noi ci facciamo da tre anni e mezzo: perché? Perché Yara? Cosa lo ha spinto a sequestrare e lasciare morire di freddo una ragazza di tredici anni? Stiamo parlando del movente, per intenderci. Un’altra questione che ci si pone il giorno dopo il suo fermo è se Bossetti conoscesse Yara e aveva rapporti con lei, se l’ha costretta a seguirla, se l’ha ingannata o convinta con qualche scusa. A questo riguardo, gli investigatori stanno cercando di districare l’album di famiglia dell’assassino. Lui si chiama Massimo Giuseppe, porta il secondo nome del suo padre biologico, Giuseppe Guerinoni, l’autista di Gorno, di cui probabilmente ignorava perfino l’esistenza. Bossetti ha una sorella gemella: Laura Letizia. Strana coincidenza: Laura è il nome della moglie di Giuseppe Guerinoni. La mamma dell’assassino e della sua gemella invece si chiama Ester Arzufi, ha 67 anni. Perchè ha dato questi nomi ai suoi due figli? Si tratta di un intreccio perverso? In tutto questo, un ultimo elemento familiare che suscita perplessità: la zia dell’assassino, moglie del fratello di Guerinoni, ha prestato servizio in casa Gambirasio come domestica. Potrebbe essere un caso, ma come insegna Henry Boch, il famoso detective creato dalla penna di Michael Connelly, nell’indagine penale le coincidenze non esistono.
Il figlio, il marito, l'amante. I 44 anni di segreti di Ester. Il marito ha un malore. Ma lei insiste: "È lui il padre del mio Massimo", scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Negava anche ieri, davanti all'evidenza scientifica. «Continuava a dirci che è vero che ha fatto il test del dna, ma che il figlio è di suo marito Giovanni», ha spiegato una delle poche amiche con cui ha parlato barricata nella casa popolare di Terno d'Isola. Ester Arzuffi, 67 anni, madre del presunto assassino di Yara Gambirasio, sostiene che Massimo Giuseppe non è nato da un amore clandestino. Che egli non porta quel nome perché così si chiamava l'amante. E che 47 anni di matrimonio non sono stati costruiti su una bugia inconfessabile. «Niente è come sembra», cantava Franco Battiato in un album intitolato «Il vuoto». Un vuoto pieno di menzogne venute alla luce tutte assieme. Ha tre figli, Ester Arzuffi, ma i primi due, gemelli, non sono di suo marito. Soltanto lei lo sapeva. Il figlio arrestato l'ha appreso in caserma, gli altri due e il marito dal tam-tam televisivo. Giovanni Bossetti, più anziano di Ester e dalla salute malferma, si è sentito male, tramortito dalla verità. Massimo Giuseppe Bossetti ha vissuto tre anni nascondendo il suo orrendo segreto. Mamma Ester ne ha trascorsi 44 occultando al marito e ai tre figli un'altra drammatica verità. Una vita fondata sulle bugie. Ingannava i gemelli ogni volta che nominava il «papà». Fingeva ogni volta che con parenti e amici sottolineava le somiglianze con il genitore. Ha tradito il povero Giovanni non soltanto quando andava a letto con Giuseppe Guerinoni, ma anche dopo che quell'avventura è finita, e le sue giornate a fianco del compagno sembravano normali e felici. Ci vuole più coraggio per affrontare la verità che per dissimularla. Ed Ester Arzuffi ha scelto la menzogna come sua compagna di vita in un intrico di segreti familiari esplosi assieme. Una vita dura nelle valli della Bergamasca, operaia in una cooperativa di pulizie. Fatiche e sacrifici in una palazzina popolare di Terno d'Isola circondata dalle villette dei nuovi benestanti. Ester ha 22 anni quando dà alla luce Massimo e la gemella Laura Letizia il 28 ottobre 1970, si era sposata tre anni prima, soltanto le malelingue di paese potevano immaginare la verità. Il legame con l'autista di Gorno doveva essere fortissimo perché il figlio maschio prende anche il nome di lui, Giuseppe, e la femmina quello della moglie di Guerinoni. Anni dopo nascerà Fabio, l'unico figlio naturale di Giovanni Bossetti, non fratello ma fratellastro di Massimo e Laura. Nulla era ciò che sembrava. Alcuni conoscenti della famiglia Bossetti raccontano che Ester è gentile, disponibile. Facile andarci d'accordo. Così la descrive Fabio Rogoli, che abita nell'appartamento accanto: «Una bella signora che ha una grande cura di sé e non dimostra la sua età, alta, gli occhi azzurri, i capelli scuri, corti e ricci». Una famiglia unita e perbene, con i tre figli che portavano spesso i nipoti a trovare i nonni. Un'amica ha raccontato ieri che la madre del presunto killer «è devastata, non si spiega questa cosa. Dice che non può essere stato davvero suo figlio a uccidere Yara Gambirasio, ma se è lui deve pagare. Continuava a dirci che è vero che ha fatto il test del dna, ma sostiene che il figlio sia di suo marito Giovanni». Verità mescolate alle bugie da cui Ester Arzuffi non vuole, o non sa, separarsi.
Quei papà che rubano il futuro ai loro bimbi. Non solo Yara e i piccoli uccisi da Lissi. I figli del muratore hanno la vita rovinata, scrive Cristiano Gatti su “Il Giornale”. I grandi si scelgono il proprio destino, i piccoli possono solo pagarlo. Purtroppo l'Italia dei delitti, l'unica che continua a far correre il suo macabro Pil, si lascia dietro questo imperdonabile effetto collaterale: quando tutto questo inferno si sarà in qualche modo raffreddato, resteranno loro, i bambini, con il cerino acceso in mano. Proprio allora capiremo quanto abnorme sia il male prodotto da questi giovani papà dal coltello facile e dall'istinto animale. Solo allora la colpa più grave esploderà come un fungo atomico, rilasciando radiazioni tossiche per chissà quanti anni ancora. Non basterà una vita intera per dissolverli dall'anima, perché non c'è tempo umano che possa cancellare tanto funesto dolore. Troppi innocenti traditi, in queste ultime storie nel cuore di Lombardia. Certo ci sono prima di tutto e sopra tutto le povere vittime. C'è Yara condannata al martirio da un depravato piacione e narciso, capace di vera pietà e nobili tenerezze soltanto per gli animali (dicono che chi non ama gli animali non ama i cristiani, ma vogliamo parlare una volta di chi ama fanaticamente solo gli animali?). E poi ci sono i fratellini di Motta Visconti, Giulia e Gabriele, sacrificati senza tante esitazioni dal papà che candidamente amavano, idolatravano, idealizzavano come un principe invincibile, capace di proteggerli da tutti e da tutto, senza immaginare che quel giovane papà non sapeva proteggerli nemmeno dalla sua insana cottarella per una collega. Erano storie ancora tutte da costruire. Erano due donne e un uomo di domani, magari avvocati e farmacisti, commessi e dentisti, ballerini e gommisti. Avrebbero inseguito i propri sogni, avrebbero cercato la propria strada, avrebbero affrontato i primi crucci e poi i dolori veri. Avrebbero assaporato il successo e sbattuto musate, avrebbero amato, riso, pianto, cantato, giocato, lavorato, con le alterne fortune di tutte le esistenze. Certo avrebbero vissuto. Se già non fossero archiviati dietro a una fredda lapide. Eppure bisogna essere molto sinceri: per quanto male sia finita la storia di Yara, di Giulia e di Gabriele, non tanto meglio si presenta quella delle altre piccole vittime, le sopravvissute alle mattanze di estrema provincia e condannate al destino tetro della sofferenza perenne. Già è molto difficile aiutare Keba, Gioele e Nathan, i tre fratelli di Yara, a crescere tenendo la barra dritta, perché il tumulto dei fatti e delle tragedie, in questi tre anni e mezzo, è una bomba atomica che neppure mistici e anacoreti sarebbero in grado di assorbire con equilibrio e fermezza. Crescere è un lavoro maledettamente difficile per qualunque ragazzino, crescere in casa Gambirasio diventerà ogni giorno un'impresa titanica. Solo lo stoicismo di Seneca può fare da stella polare in questo futuro arduo, là dove si dice certo che gli dei impegnano le loro creature predilette nelle prove più difficili, come allenatori innamorati dei propri atleti: nella certezza che ne usciranno molto migliori, veri campioni della vita. Se non servirà la filosofia, tra queste mura quanto meno ci saranno sempre una madre e un padre degni, valorosi interpreti del ruolo, come hanno già dimostrato in questi anni di supplizio domestico. E' una certezza, l'unica certezza da cui ripartire. Ma da dove ripartiranno i tre figli di Massimo Bossetti, di quel loro adorato papà, che su Facebook li esibiva come gioielli, che li copriva di carinerie, che li proteggeva dal male del mondo. In tutto questo tempo hanno ascoltato la storia orribile di Yara come prossima geograficamente, perché Mapello sta a due chilometri da Brembate, ma distante anni luce dal loro mondo sicuro, senza male e senza buio, senza violenza e senza cattiveria. Improvvisamente, tutto dissolto: quel papà perfetto e incorruttibile, senza debolezze e senza lati grigi, sparisce dalla loro casa e dalla loro vita, lasciando il posto a un essere abominevole, capace delle nefandezze peggiori, quali sono le perversioni e le violenze sugli innocenti. Non è pensabile adesso che ci sia un futuro sereno, nel domani di questi tre bambini. Chi resta accanto a loro, la madre e i nonni, viene investito da un impegno sovrumano, al di là di qualsiasi dote e di qualsiasi capacità. Serviranno amore e compassione, in dosi massicce, dentro casa e tutto attorno, per restituirli a una visione positiva dell'esistenza, per aiutarli a ritrovare un accenno di armonia. Ma sarà difficile, molto difficile. Ai limiti dell'impossibile. Se lo ricordi bene, il paparino sanguinario e spietato: oltre a Yara, si porta sulla coscienza il peso di altre tre vittime inermi, tre angeli violati e offesi per sempre. I suoi.
Quel vile in fuga dalla famiglia, scrive Annamaria Bernardini de Pace “Il Giornale”. «Non avevo il coraggio di chiedere a mia moglie la separazione. La famiglia per me era diventata una gabbia. Con il divorzio i figli restano». E così, «fa l'amore» e li sgozza tutti. Questa non è follia. È la lucida determinazione di un vile, incapace di uscire da quella che lui (...)(...) definisce una «gabbia». Un comportamento abituale, con diversi e distanti gradi di ferocia - dall'abbandono improvviso alla strage familiare - degli omuncoli crudeli, consapevoli solo dei propri bisogni. In genere, questi insani personaggi sono di bell'aspetto, abituati ad avere tutto ciò che desiderano, a cominciare dall'apprezzamento degli altri. Quando formano una famiglia, scelgono una moglie bella e capace, alla quale delegano la scrittura e il montaggio di un film fascinoso del quale loro devono apparire registi magistrali e interpreti da oscar. Non sbagliano una mossa: chiunque descriva com'era quella famiglia (quelle famiglie, purtroppo) prima del gesto repentino e rivoluzionario, dirà che richiamava le storie del Mulino Bianco, che lui era molto innamorato, la moglie l'adorava, i figli erano buoni e felici. Poi lui se ne va, insalutato ospite; oppure inizia un'inaspettata relazione; o ancora chiede all'improvviso la separazione per colpa di lei; oppure lascia i suoi cari senza denaro; a volte, accoltella a morte la famiglia e va a vedere la partita. Dunque scappa dalla «gabbia» o decide di distruggere la gabbia con gesto criminale. Cancella senza vergogna quelli che lui, lo schifoso vigliacco, considera limiti insuperabili ai suoi nuovi desideri, al cambiamento, alla rinascita di un sordido verme represso. Il vero problema è la moglie: in genere vale più di lui, o è più ricca; in ogni caso non c'è niente che le si possa imputare. È talmente valida e perfetta che la solidarietà degli altri sarebbe solo per lei. Lui chiederebbe anche la separazione se lei fosse noiosa, infedele, algida, rompiballe. Ma, non essendo lei così, o è costretto a inventare colpe inesistenti di lei, o non può accettare di doversi scusare per voler cambiare direzione al progetto fino allora condiviso; teme i perché e le eventuali critiche; non può per l'ennesima volta compararsi a lei e dovere ammettere la propria inferiorità. Anche pubblicamente. Questo tipo di uomo, megalomane e meschino, infedele e bastardo, vigliacco e ingrato, ha sempre la presunzione di voler sembrare più interessante e capace della moglie. Soffoca e non elabora il senso di colpa (per volersene andare o per avere già tradito) trasformandolo in aggressività, fino ad arrivare alla violenza e persino all'omicidio. Non è follia, non è vendetta. È odio, invidia, superbia, anaffettività e narcisismo che tracimano nel sangue e nel respiro di coloro che, inconsapevoli, amavano una bestia feroce, assetata sempre del proprio personalissimo trionfo. A spese della vita altrui. Soffrono duramente i figli e le mogli, rinnegati e depennati in vita da uomini imbelli, che godevano della fiducia della responsabilità di progetti e sentimenti comuni. Questa sofferenza, portata all'ennesima inimmaginabile potenza, deve aver tramortito la povera disgraziata moglie di quel mostro di egoismo, che ha trucidato scientificamente la sua bella famiglia. La poverina, dopo avere fatto con lui «l'amore», gli chiedeva piangendo «perché?», mentre lui le affondava il coltello nella gola baciata un istante prima. E forse a quei bimbi sereni, perché accuditi nella culla di una famiglia illusoriamente felice, il sonno ha risparmiato di capire la peggiore delle infamie. Ora lui, l'orrido orco, nella sua abituale e sontuosa stima di se stesso, chiede alle autorità di poter avere il massimo della pena: e diamoglielo! E anche un bel po' di più, se possibile. I cattivi esistono e bisogna avere il coraggio di punirli, senza pietismi e inappropriati garantismi. Ai ladri di vite altrui deve essere rubata la vita per sempre. Quantomeno per fargliela trascorrere nella vergogna bruciante di esistere.
Ma siamo sicuri che Alfano sia un ministro dell'Interno? Si chiede “Il Giornale”. Forse serve un test del dna per saperlo. Non sempre, infatti, l'abito fa il monaco. Come non basta una poltrona per fare un buon ministro. Serve qualcosa di più. Quello che ad Angelino manca. L'Italia non ha bisogno di politici con voglia di protagonismo, soprattutto quando in ballo ci sono delitti come quello di Yara. Quattro anni di lavoro, di misteri e di ricerche stavano per essere buttati al macero per la fretta di chiacchierare di un ministro. Yara è morta a Mapello, nel bergamasco, il 26 novembre 2010. Non è stato facile individuare il presunto assassino. Ci sono voluti 18mila test del dna e un lavoro di investigazione vecchio stile, lungo e faticoso. Poi un nome, un volto, un fermo. Dare la notizia al ministro era un atto dovuto. Nessuno poteva sospettare che Alfano raccontasse tutto a tutto il mondo. È normale la rabbia di Francesco Dettori, procuratore di Bergamo. È normale perché su queste cose bisogna muoversi con responsabilità. Senza grida. Senza applausi. Senza fretta. «Era intenzione della procura mantenere il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell'indagato. Secondo la Costituzione esiste la presunzione di innocenza». La procura temeva quella che è successo. Su Bossetti ci sono forti indizi. Il dna è una prova regina, ma non vale una confessione. Non c'è la certezza. Bossetti invece è stato già condannato. C'è aria di linciaggio. Ci sono le foto dei figli sbattute sui social network come figli del mostro. E le colpe dei padri non ricadono, mai, sui figli. Ma Alfano aveva fretta di mettersi una medaglia al petto. Le sue risposte a Dettori sono francamente imbarazzanti. «Io non ho dato alcun dettaglio. L'opinione pubblica aveva diritto di sapere». Sapere, certo. Ma con i tempi giusti, senza danneggiare chi non c'entra. La realtà è che Angelino come ministro dell'Interno non ha mai convinto del tutto. Basta ricordare come ha gestito il caso Shalabayeva. Non ha convinto neppure come leader del Pdl. Non convince come capo del Nuovo centro destra. Come scriveva Sallusti, in un editoriale qualche tempo fa: Renzi e Alfano sono stati scambiati nella culla. Il primo di destra è finito per sbaglio a sinistra. L'altro per disgrazia è rimasto qui. E anche in questo caso serve il test del dna. Per rimediare all'errore.
Angelino Alfano, già ministro della Giustizia e ora ministro dell’Interno, uno che dovrebbe sapere bene come funzionano le istituzioni e avere un rapporto di collaborazione ideale con la magistratura e le forze dell’ordine, sembra invece avere qualche problema con gli annunci, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Forse nell’ansia di apparire e mettere il cappello sulla cattura dei criminali più famosi, ovvero (nel suo linguaggio) di rassicurare la pubblica opinione desiderosa di farsi rassicurare, il titolare del Viminale non riesce a azzeccarne una. Tempo fa, in diretta a Sky, fece il viso duro e la voce grossa promettendo che non avrebbe dato tregua all’omicida di tre sorelline a Lecco. Parole dense di propositi battaglieri. “Mi sento di dire da cittadino e da ministro dell’Interno che noi non daremo scampo a chi ha compiuto questo gesto efferato e ignobile, inseguiremo l’assassino fino a quando non lo avremo preso, e quando lo avremo preso lo faremo stare in carcere fino alla fine dei suoi giorni, perché la morte di questi tre bambini non può restare impunita”. Da ministro di polizia sul pezzo, disse che “subito dopo la fine di questa trasmissione” avrebbe convocato i vertici delle forze dell’ordine. “L’Italia non può limitarsi a piangere, deve urgentemente dare la caccia e trovare chi è stato. Noi ci riusciremo”. Peccato (per Alfano) che in realtà ci erano già riusciti. Le agenzie di stampa avevano già battuto la notizia che l’assassino era la madre. Un dramma familiare, come spesso avviene in questi casi. Ne risultava che il bellicoso capo del Viminale non solo era all’oscuro di quanto stava facendo la magistratura insieme alla polizia, ma che qualsiasi cosa lui avesse fatto, non avrebbe avuto alcuna utilità visto che chi doveva, si era già mosso (come dev’essere). Ma la passione per gli annunci (giornalistica?) non lo ha più abbandonato, anzi. L’infortunio lo ha reso ancor più sensibile (e tempestivo). È stato lui a dar notizia dell’arresto di Marcello Dell’Utri. E su Yara Gambirasio ha superato se stesso. Anni e anni di attesa e indagini prima di arrivare a un punto fermo, per quanto ancora da verificare, sull’omicida della danzatrice tredicenne. Poi arriva Alfano. Che non ce la fa a star zitto e dice: “Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara”. L’uomo, aggiunge, è uno del posto, di Bergamo. E il commento: “L’Italia è un paese dove chi uccide e chi delinque viene arrestato e finisce in galera”. E dedica la cattura alla famiglia Gambirasio che invece è molto più prudente di lui e attende speranzosa una conclusione certa. Peccato (ancora una volta per Alfano) che il procuratore capo di Bergamo, Francesco Dettori, dichiari, il giorno dopo, che l’intenzione della Procura era quella di mantenere il massimo riserbo, “anche a tutela dell’indagato per il quale vale la presunzione di innocenza”. Alfano, sulla difensiva, dice di non aver divulgato dettagli e sostiene che l’opinione pubblica “aveva il diritto di sapere”. Dettori controreplica morbido: “Nessuna polemica, ma la situazione non ci è piaciuta”. Anche perché la gente comprensibilmente sarebbe passata al linciaggio dell’operaio quarantaquattrenne agli arresti, Massimo Giuseppe Bossetti, già al suo primo interrogatorio. E la difesa non aveva ancora visionato il decreto di fermo. La rivelazione di Alfano tra le polemiche dimostra che prima di divulgare la notizia (quali altri dettagli avrebbe dovuto riferire?), il ministro non si era raccordato con la magistratura. E già è grave. Poi, che ha dato in pasto alla folla bergamasca un uomo che potrebbe essere l’assassino ma che non essendo stato colto in flagrante sarà un processo a condannare o assolvere (tanto più che lui si proclama innocente). E non si capisce quale impellente motivo avesse l’opinione pubblica di essere rassicurata sul filo dei secondi, col ministro che scippa il grande annuncio al magistrato, visto che Yara è stata uccisa il 26 novembre 2010, cioè non ieri ma più di tre anni e mezzo fa (c’è poco da essere rassicurati). Piuttosto, che sicurezza può darci un ministro degli Interni la cui grande preoccupazione sembra essere quella di arrivare primo nel dare notizia di indagini concluse e arresti, senza neanche parlarne coi magistrati. E che sicurezza può dare un ministro talmente scollegato dalla realtà, da non considerare come proprio compito fondamentale quello di rispettare i ruoli istituzionali e invece di fare concorrenza ai giornalisti lavorare in silenzio per garantire la nostra quotidiana sicurezza? Siamo di fronte a qualcosa più di una gaffe, della quale ci sarebbe solo da sorridere. Qui siamo di fronte a una inadeguatezza (senza neanche dover scomodare il caso Shalabayeva e le acrobazie di Genny ‘a Carogna).
Chi sono i due investigatori che hanno risolto il giallo di Yara. Un poliziotto e un carabiniere: Giampaolo Bonafini e Giovanni Mocerino. Senza di loro, e il loro fiuto, il caso forse non avrebbe mai trovato una soluzione, scrive Giorgio Sturlese Tosi su “Panorama”. Un poliziotto e un carabiniere sono responsabili della svolta nelle indagini sulla morte di Yara Gambirasio che hanno portato all’arresto del 44enne bergamasco Massimo Bossetti. La caparbietà del pubblico ministero Letizia Ruggeri, impermeabile alle critiche piovutele addosso persino dai genitori di Yara, ha tenuto la barra dell’inchiesta riuscendo nell’arduo compito di far dialogare, e collaborare, Polizia e Carabinieri. La scienza e la raccolta di 18 mila profili genetici hanno fatto la loro parte, ma senza l’intuizione e il fiuto di due investigatori, tutto sarebbe stato vano. Giampaolo Bonafini, nel marzo del 2011, è il giovane dirigente della Squadra Mobile della questura di Bergamo. Biondo, occhi cerulei, è un giocatore di scacchi, uno che la notte la passa a rielaborare gli schemi investigativi da sottoporre ai suoi uomini l’indomani. Non gli era mai capitato un caso così complesso e, pur sentendo la pressione di tutta Italia addosso, non si è mai distratto dall’obiettivo. Yara venne trovata nel campo di Chignolo d’Isola il 26 febbraio 2011. A cinquecento metri di distanza c’è una discoteca, Sabbie Mobili evolution, frequentata da giovanissimi. Bonafini non si accontenta dei soliti verbali di “sommarie informazioni testimoniali” dei ragazzi che il 26 novembre 2010, la sera del delitto di Yara, erano in quella discoteca. Decide di fare le cose in grande. E risale ai nomi di tutti i frequentatori della discoteca, che non possono entrare senza una tessera nominativa rilasciata dal locale. Sono centinaia di nomi. A tutti verrà prelevato il Dna. Serve a confrontarlo con quello che l’assassino ha lasciato sugli slip e sui leggins di Yara. Ed ecco la prima svolta. Tra i ragazzi che sono soliti ballare vicino a quel campo abbandonato c’è Damiano Guerinoni, un giovane di Brembate di Sopra, figlio della ex donna di servizio della famiglia Gambirasio. Il suo Dna ha molti punti di contatto con quello del killer. Ma il ragazzo ha un alibi di ferro: il giorno del delitto era all’estero, in Sudamerica. Ma la traccia è quella giusta e dallo screening a cui viene sottoposta tutta la sua famiglia si arriva a determinare con certezza che il ceppo familiare su cui indagare è quello giusto. Gli inquirenti arrivano ad individuare in Giuseppe Guerinoni, autista di pullman morto nel 1999, il padre dell’assassino. Peccato che i suoi figli abbiano un profilo genetico che non corrisponde a quello di Ignoto 1. Quindi Guerinoni deve avere un figlio illegittimo. Ma chi può conoscere il suo nome? Soltanto la madre che, evidentemente, non ha alcun interesse a rivelare il segreto che ha custodito per ben 44 anni. La ricerca si fa disperata. E infruttuosa. Ma c’è un maresciallo dei carabinieri che non molla. Affascinante nonostante i capelli e la barba bianca, originario della Campania ma trapiantato da decenni al nord, miscela l’esuberanza meridionale e la cocciutaggine tipica delle valli bergamasche, dove vive immerso nel verde e passa le ore libere lavorando al giardino, già perfetto ma, per lui, sempre da migliorare. Giovanni Mocerino quelle valli le conosce bene, è stato anche comandante della stazione di Clusone. Lui sa che la divisa, l’accento meridionale, l’atteggiamento un po’ sbrigativo da sbirro, in quei posti, non servono. Sa bene che un caffè al bar frutta più notizie di cento interrogatori. E infatti, dopo mesi che i suoi colleghi convocano migliaia di valligiani in caserma inutilmente, Mocerino decide di seguire un’altra strategia. Esce un poco prima dall’ufficio della procura, a Bergamo, e se ne va a spasso per Clusone, Rovetta, Parre, in tutti quei luoghi che lo hanno visto giovane brigadiere appena mandato al Nord. Riallaccia vecchie amicizie, contatta chiunque, magari con scuse inventate lì per lì. Chiede, con circospezione, agli anziani. Qualcuno ricorda con chi ha avuto una relazione Giuseppe Guerinoni? Difficile abbattere il muro di diffidenza dei bergamaschi di montagna. Ma Mocerino ci riesce. Si sparge la voce che lui cerca informazioni e garantisce riservatezza. Nessun verbale, nessun interrogatorio. A tutti va dicendo: “Se mi dici qualcosa, poi me la vedo io coi capi, mi invento che mi è arrivata una segnalazione anonima”. Il suo passato lo aiuta. In paese ricordano che era un giovane carabiniere gioviale ma integerrimo, corretto. E così, la settimana scorsa, un vecchio autista di pullman, collega di Guerinoni, si avvicina a casa sua. Mocerino sta tentando di sradicare una pianta dal prato all’inglese della sua villetta. L’anziano sonda la situazione. Finge di passare per caso: “andavo alla pinetina”, dice. Mocerino, che possiede un cellulare in grado a malapena di inviare sms ma che con uno sguardo riesce a fare la radiografia a chi gli sta davanti, capisce al volo. Poggia la vanga, si accosta al cancello. Non lo apre. Non forza la situazione. Aspetta. Chiacchiera di niente. Che sia l’altro a farsi avanti. E così accade. Un nome. Quello che gli inquirenti cercavano da anni. Una donna. La madre di Ignoto Uno. Poche ore per la verifica. Poi il test del dna al figlio, compiuto simulando un posto di controllo e un alcol test. La conferma e il fermo di Massimo Giuseppe Bossetti. Il ministro dell’Interno e i vertici delle forze di Polizia spargono ringraziamenti e meriti a pioggia. E l’indagine sulla morte di Yara è certamente un unicum che rimarrà nella storia della criminologia. Ma senza quei due investigatori, forse, l’assassino l’avrebbe fatta franca.
Tutta la verità sull'inchiesta di Yara Gambirasio. Il fermo di Massimo Giuseppe Bossetti, il presunto killer della ragazzina di Brembate, è l'anello finale di un lungo e faticoso lavoro degli inquirenti: tutti i particolari di questa storica inchiesta raccontati dal cronista di Panorama che ha seguito il caso, scrive Carmelo Abbate “Panorama”. L’assassino di Yara Gambirasio da oggi non ha più il nome in codice Ignoto uno. Sulla sua carta di identità ci sarebbe scritto Giuseppe Bossetti, 44 anni, padre di tre figli, un muratore incensurato di Clusone ma vivrebbe a Mapello, poco distante da Brembate di Sopra, il paese dal quale Yara è scomparsa il 26 novembre del 2010 per essere ritrovata senza vita tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola. Bossetti è stato arrestato dai carabinieri del Ros e incastrato grazie al profilo del dna ricavato sui leggings della tredicenne. Alla fine hanno avuto ragione loro: carabinieri, polizia, procura della repubblica di Bergamo. Sono partiti da nulla: nessuna segnalazione, una testimonianza, un indizio, un’immagine ripresa da una telecamera, una soffiata anonima, nulla di nulla. L’hanno cercata invano per tre mesi, fino a quando un uomo ha trovato il corpo, abbandonato in un campo di Chignolo d’Isola, poco distante da Brembate. Ci si è chiesti: come è possibile che nessuno l’abbia notata durante le ricerche? La risposta: c’era la neve, le sterpaglie erano alte più di un metro, anche se quando sono arrivate le telecamere delle televisioni il campo era già stato ripulito. A quel punto, gli investigatori hanno cercato tutte le telecamere fisse dei capannoni nel tratto di strada tra il luogo del ritrovamento e quello della scomparsa. Ce n’erano tre, purtroppo girate verso l’interno: nessuna immagine ripresa sulla strada. Anche le celle telefoniche non hanno fornito nessun aiuto. Insomma, buio pesto. La classica indagine nella quale un investigatore sa che prenderà pesci in faccia. Infatti le critiche ci sono state, anche feroci. Ma gli inquirenti non si sono mai arresi, si sono aggrappati all’unica traccia lasciata dall’assassino e sono arrivati a stabilire con certezza scientifica che era figlio illegittimo di Giuseppe Gerinoni, autista di pullman di Gorno, alta Val del Riso, morto nel 1999. Un ruolo fondamentale lo ha avuto il pubblico ministero Letizia Ruggeri: derisa, sbeffeggiata, è andata avanti sapendo che prima o poi avrebbe avuto ragione. Caparbia fino alla cocciutaggine (è cintura nera terzo dan di karatè e campionessa di sci), ha avuto coraggio con il marocchino Mohamed Fikri: lo ha bloccato in mare, interrogato, ritenuto da subito estraneo e con grande onestà non lo ha trasformato in capro espiatorio. Si è invece concentrata sull’unica traccia lasciate e grazie alle analisi del Ris dei Carabinieri è risalita fino al profilo genetico dell’assassino. Mentre tutti disegnavano profili campati in aria, gli investigatori hanno sempre avuto la barra dritta su alcuni punti fermi.
Primo: l’assassino, probabilmente, non voleva uccidere Yara. I segni di lama sul corpo della piccola ginnasta erano superficiali, confusi e non espressione di una chiara volontà di commettere un omicidio. Se mai avesse voluto, non è stato in grado di farlo.
Secondo: l’assassino non ha trascinato la ragazza nel campo per nasconderla, ma l’ha lasciata lì dopo che la situazione gli è sfuggita di mano. Yara è arrivata con i suoi piedi nel punto in cui è stata ritrovata. Fosse stata più vicina al bordo della strada qualcuno l’avrebbe vista. Invece è morta di freddo. Per mano di un uomo, ritenuto dagli inquirenti un conoscente di Yara: nei minuti esatti in cui la ragazza spariva nel nulla, suo papà passava per quella stessa strada in macchina con il figlio più piccolo. Non ha visto niente, come niente hanno visto gli abitanti dell’isolato. Neppure un urlo: Yara avrebbe seguito spontaneamente l’uomo che poi l’ha lasciata agonizzante sul campo.
Questi erano i punti sulla linea dalla quale gli investigatori non si sono mai allontanati, anche quando le critiche erano pesanti e i termini per le indagini preliminari scadevano. Chi in questi anni ha avuto modo di parlare con loro ha sempre avuto la certezza che lo avrebbero preso: era scritto nei loro occhi, perché, dicevano, «Yara è figlia di tutti noi: l'assassino non può farla franca».
MOHAMED FIKRI: LA PRIMA VITTIMA DI ERRORE GIUDIZIARIO DEL PROCEDIMENTO.
Mohamed Fikri: “Non ha ucciso Yara Gambirasio”, ma non per tutti.
NOME: MOHAMMED FIKRI
LUOGO: BERGAMO (BREMBATE DI SOPRA)
ANNO: 2014
REATO: OMICIDIO
AVVOCATO: GIOVANNI FEDELI, ROBERTA BARBIERI
PM: PATRIZIA INGRASCÌ
ERRORE: TRADUZIONI
RISARCIMENTO: 9000 EURO
“Da archiviare perché il fatto non sussiste”. Dopo 980 giorni, Mohamed Fikri esce definitivamente dall’inchiesta sull’omicidio di Yara Gambirasio. Il giudice delle indagini preliminari Ezia Maccora aveva già messo la parola fine sull’accusa di omicidio. Venerdì il gip Patrizia Ingrascì ha stabilito che non ci sono elementi nemmeno per il favoreggiamento: non si può sostenere che il piastrellista marocchino, primo e unico indagato di tutto il caso, possa aver nascosto agli inquirenti elementi utili alle indagini sul rapimento e sull’omicidio della ragazzina di Brembate Sopra. Ma Mohamed Fikri entrerà ancora nelle aule di giustizia: “Chiederemo subito il risarcimento per l’ingiusta detenzione e faremo poi causa allo Stato affinché sia riconosciuto il danno d’immagine ed esistenziale recato al nostro assistito”, ha annunciato ieri l’avvocato Giovanni Fedeli, titolare dello studio di Roberta Barbieri, legale dell’operaio. La decisione del giudice è arrivata dopo due mesi e cinque giorni di riflessione (il pm aveva chiesto l’archiviazione il 4 giugno) ed è contenuta in un’ordinanza di venti pagine, trasmessa nella tarda mattinata di ieri al sostituto procuratore Letizia Ruggeri. Il gip ripercorre le considerazioni che misero la parola fine all’accusa di omicidio e riprende allo stesso tempo ampi stralci dell’ordinanza con cui la collega Maccora suggeriva alla procura della Repubblica: “Fikri forse sa, e quindi va indagato per favoreggiamento”. Un’ipotesi che ruotava, anzitutto, attorno alla famigerata frase pronunciata dall’operaio il 3 dicembre del 2010 – esattamente una settimana dopo la scomparsa di Yara – tradotta in un primo momento da due consulenti dei carabinieri in “Allah mi perdoni, non l’ho uccisa io” (parole per cui finì in carcere) e poche ore dopo il fermo in “Allah, ti prego, fa che risponda”. Interpretazione che lo fece tornare libero, grazie a quattro persone di lingua araba che si trovavano in procura per caso e furono interpellate dal pubblico ministero. Ma c’era anche un’altra frase: “L’hanno uccisa davanti al cancello”, e non mancava il pianto di Fikri, sempre al telefono, con la fidanzata, dopo un lungo colloquio del marocchino con i carabinieri di Bergamo, sempre il 3 dicembre. La prima frase è stata tradotta 16 volte, tra periti nominati dal tribunale, consulenti dell’accusa, della difesa e della famiglia Gambirasio. E il gip, in definitiva, esprime la convinzione, supportata da pareri tecnici, che l’indagato non pronunciò in quel frangente la parola “uccidere”. Un verbo utilizzato invece in riferimento al cancello: “Ma è chiaro a tutti — sottolinea l’avvocato Barbieri, dalle ferie — che quelle parole furono pronunciate mentre riferiva alla fidanzata quel che avevano detto i carabinieri, parlando del cancello del cantiere di Mapello”. Non c’è più, quindi, un giallo sulle parole del piastrellista. I traduttori lo hanno spedito in carcere e, dopo più di due anni e otto mesi la chiave dell’archiviazione è stata trovata da altri traduttori. Meno decisivi, e forse meno incisivi, sono stati altri elementi: ad esempio quella polvere da cantiere trovata nei bronchi di Yara, o le ferite ai polsi e alla schiena della ragazzina, forse praticate con un taglierino da muratore. Elementi che per il gip Ingrascì non sono riconducibili in alcun modo a Fikri. Si è chiuso così un calvario giudiziario, con un continuo botta e risposta tra procura e tribunale. Curioso che i super esperti nominati per l’incidente probatorio siano arrivati alla stessa conclusione di quegli operai e studenti che si trovavano in procura e che, all’inizio di dicembre del 2010, tradussero l’intercettazione telefonica su richiesta del pubblico ministero, escludendo la parola “uccidere”. “Ma oggi un mio commento non serve a nulla, è andata così e basta”, ha detto ieri il sostituto procuratore Ruggeri. “Abbiamo seguito quest’ultimo troncone di indagine praticamente dai giornali — ha aggiunto l’avvocato Enrico Pelillo, che assiste la famiglia Gambirasio —. In una fase precedente ci era sembrato giusto chiedere ogni possibile approfondimento, e il gip aveva ascoltato le nostre istanze. Probabilmente sono state fatte tutte le indagini possibili e ora questo è il verdetto che va accettato”. “Non si può però ignorare — secondo l’avvocato Fedeli — che questa vicenda giudiziaria ha recato parecchie difficoltà ad un operaio, che non ha più trovato lavoro e ha rischiato di perdere il permesso di soggiorno. Faremo causa allo Stato”. Ora l’immigrato ha ottenuto la riparazione per l’ingiusta detenzione di quei tre giorni nel carcere di Bergamo, con i riflettori puntati addosso per il delitto della bambina di Brembate Sopra. La Corte d’Appello di Brescia ha deciso che gli spetta una cifra attorno ai 9.000 euro, anche se secondo indiscrezioni la richiesta era molto più alta. Lui si trincera dietro a un «non voglio parlare più di questa storia». È in Italia, ha ottenuto il permesso di soggiorno «ma il lavoro ancora no. Non è cambiato molto da prima», sono le uniche frasi che concede. A seguirlo nella pratica per la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione in sede penale è stato uno studio legale (non di Bergamo) diverso da quello dell’avvocato Roberta Barbieri, che lo aveva assistito in tutta l’odissea giudiziaria, dal fermo fino all’archiviazione. «Non ce ne siamo occupati noi, quindi per correttezza non diciamo nulla», taglia corto l’avvocato Barbieri. Ma il filo di fiducia che lega Fikri con il legale di Bergamo non è stato tranciato. È probabile, infatti, che sia ancora lo stesso a occuparsi di un’eventuale causa civile per il risarcimento dei danni. L’avvocato «storico» lo aveva detto, all’indomani dell’archiviazione: «Chiederemo il risarcimento allo Stato anche per il danno di immagine ed esistenziale recato al nostro assistito». C’è cautela, ma la prospettiva è la stessa: «Stiamo valutando», è la risposta. L’ombra del dubbio su Fikri è rimasta a lungo. Prima perché il pm aveva affidato le quattro nuove traduzioni a interpreti improvvisati che si trovavano in procura per sbrigare pratiche personali. Che garanzia potevano dare rispetto a due traduttrici che già lavoravano per procura e carabinieri?
Persino Maura, la mamma di Yara, in udienza, aveva detto: «Com’è possibile che ci siano diverse traduzioni?». Poi nel vortice delle interpretazioni sono entrati esperti della materia. Ma, mentre quelli nominati dal pm e dalla difesa hanno tradotto con significati che scagionavano Fikri, quella della famiglia Gambirasio ha sentito una parola con la radice del verbo uccidere. Un rompicapo. Fino a quando il giudice delle indagini preliminari ha nominato un perito, un traduttore super partes, che ha escluso il verbo uccidere. Al telefono – è la sua traduzione – Fikri disse: «Facilitami in una partenza per il Marocco, mio Dio, mio Dio». Vicenda giudiziaria finita. Non quella personale, a sentire l’immigrato, che non ha ancora trovato la sua normalità e che per questo motivo ha chiesto il conto allo Stato.
(fonti: Giuliana Ubbiali, Corriere della Sera, 1 ottobre 2014; Armando Di Landro, Corriere della Sera, 13 agosto 2013).
Caso Yara Gambirasio, la Cassazione conferma l'indennizzo a Fikri per ingiusta detenzione, scrive "Il Secolo XIX" il 16 febbraio 2015. Confermato dalla Cassazione, a favore dell’operaio marocchino Mohamed Fikri, il diritto a ricevere l’indennizzo, di circa diecimila euro, per ingiusta detenzione e i danni morali subiti a causa dell’arresto con l’accusa «infamante» di aver ucciso la tredicenne Yara Gambirasio, una accusa rivelatasi del tutto falsa per via di una intercettazione tradotta male. Secondo la Suprema Corte, inoltre, i danni subiti da Fikri per il lungo protrarsi delle indagini a suo carico, come l’aver perso il posto di lavoro, gli danno diritto a intentare allo Stato italiano un’altra causa, diversa da quella per il pregiudizio sofferto con l’ingiusta detenzione. Per questo la Cassazione, decidendo solo sulla liquidazione per la ingiusta detenzione, ha respinto la richiesta di Fikri di ottenere una cifra più alta che tenesse presente anche i danni ricevuti dalla lungaggine dell’inchiesta che lo ha tenuto in ballo per circa tre anni prima di archiviare la sua posizione. Ad avviso della Procura della Cassazione, rappresentata dal sostituto Pg Fulvio Baldi, invece, Fikri avrebbe già adesso il diritto a un risarcimento maggiore per essere stato “vittima” della giustizia. Ad ogni modo e quasi paradossalmente, anche se “sulla carta” Fikri avrebbe diritto a una ulteriore liquidazione - e nonostante la Procura della Cassazione abbia già spezzato una lancia a suo favore -, la Suprema Corte lo ha condannato a pagare le spese legali di questo giudizio e mille euro al Ministero dell’Economia che si è opposto a al “rialzo”. Fikri, che lavorava in un cantiere a Mapello, rimase in carcere in isolamento per tre giorni - dal cinque al sette dicembre 2010 - dopo essere stato arrestato con molto clamore sul traghetto da Genova a Tangeri, dove faceva rientro per un periodo di vacanza e non per darsi alla fuga. Respingendo la richiesta di Fikri di ricevere un indennizzo più elevato dal momento che - ha fatto presente la sua difesa - il suo coinvolgimento nella vicenda di Yara gli è costato la perdita del lavoro e gli ha causato depressione e spese per i farmaci, i supremi giudici hanno replicato che questi ulteriori danni sono «riconducibili alla lunga durata delle indagini preliminari (oltre un anno dall’arresto)». Per valutare il loro ammontare, la Cassazione spiega - come ha già osservato la Corte di Appello di Brescia, primo giudice a dare il via libero al risarcimento - che Fikri deve fare ricorso al Tribunale di merito e non alla Corte di Appello perché sono danni che non hanno a che vedere con la carcerazione ma con il prolungarsi dell’inchiesta che ha archiviato la posizione di Fikri solo il 14 febbraio 2013. Yara è scomparsa il 26 novembre del 2010 da Brembate di Sopra e il suo corpo venne ritrovato solo tre mesi dopo a Chignolo d’Isola. Per il suo omicidio è in carcere dallo scorso 16 giugno, come indagato, il muratore Massimo Bossetti. Sulla sua richiesta di scarcerazione o di domiciliari, la Cassazione deciderà a breve, il 25 febbraio. Per quanto riguarda l’indennizzo definitivamente liquidato a Fikri, si tratta di 1.200 euro per i tre giorni di custodia cautelare, di 8mila euro per i danni morali, e di 580 euro per spese sostenute in diretta dipendenza della carcerazione.
Bossetti: per Radio Padania è innocente, rispolverati i sospetti su Fikri, scrive “Fan Page”. La radio della Lega Nord si schiera per l'innocenza dell'imputato accusato di aver ucciso la piccola Yara Gambirasio. Radio Padania si schiera al fianco di Massimo Giuseppe Bossetti, l'uomo in carcere con l'accusa di aver ucciso la piccola Yara Gambirasio. Come racconta Fabio Spaterna sul Corriere della sera, infatti, ieri sull'emittente del Carroccio l'intero programma mattutino, "Onda Libera", è stato dedicato alla vicenda ma con un atteggiamento decisamente a favore dell'imputato e contro la ricostruzione fatta fino ad ora dalla Procura di Bergamo. Secondo gli esperti in studio, infatti, anche la prova del Dna, una delle principali dell'inchiesta sulla morte della giovane di Brembate di Sopra, non sarebbe completamente attendibile perché solo un indizio come tanti altri. "Il Dna non è altro che un indizio. Non essendo ripetibile l’esame, al 95% Bossetti ha la strada spianata verso l’assoluzione" ha spiegato ad esempio l'avvocato Luca D’Auria, tra i fondatori dell’associazione "Justice of mind" che ha in programma un convegno sul caso. Lo stesso conduttore Giulio Cainarca torna a chiamare in causa Mohammed Fikri, l'uomo che in un primo momento era stato accusato dell’omicidio e poi completamente scagionato. "Mi ha colpito la scoperta di come Fikri abbia comprato un furgone simile a quello di Bossetti, per poi rottamarlo pochi mesi dopo l’omicidio" ha sottolineato il giornalista, chiedendo: "Ci sarà una spiegazione logica se i cani molecolari puntano nel cantiere di Mapello? Nelle migliaia di pagine agli atti questo viene chiarito?". "No. In realtà non c’è alcuna spiegazione" ha ribattuto l'avvocato di Bosetti, Claudio Salvagni, anche lui presente in studio a difendere l'imputato.
ANATOMIA DI UN PROCESSO.
Caso Yara, anatomia di un processo.
Massimo Bossetti, il presunto assassino a cui non crede nemmeno la moglie. E i segreti di un’inchiesta che è diventata specchio sociologico dell’Italia contemporanea. Mentre si apre l’udienza preliminare, scrive Gigi Riva su “L’Espresso”. Una famiglia normale come ce ne sono tante, riassume il carabiniere di lungo corso, uno dei protagonisti dell’inchiesta. Dove la “famiglia normale” non è quella sobria e discreta della vittima,Yara Gambirasio. Ma quella del presunto assassino, Massimo Bossetti. E per accettare la definizione bisogna fare lo sforzo di guardare allo specchio l’Italia così com’è, non come ce la raccontiamo mondata dai suoi abissi e dalle sue ipocrisie. Come esce, del resto, dalle carte di un processo (udienza preliminare il 27 aprile) che sono lo spaccato sociologico implacabile della nostra contemporaneità. Non aveva tanta ambizione, probabilmente, il pm Letizia Ruggeri, che per mestiere inseguiva soltanto un assassino ma che, tassello dopo tassello, ha costruito la radiografia più impietosa e reale della nostra post-modernità. Non sarebbe stato possibile prima del Dna, delle intercettazioni telefoniche e ambientali, delle fatture elettroniche, della tecnologia capace di inchiodare alle proprie bugie e alle proprie meschinità. Che ci sono sempre state e sulle quali, ora, si squarciano i veli. In attesa della verità giudiziaria, c’è questa tragicommedia umana da raccontare. Se possibile con compassione, nel senso latino. Lo scenario è la provincia di Bergamo, ma potrebbe essere dovunque. Massimo Bossetti, 44 anni, muratore, di Mapello, è il sospetto omicida. C’è il suo Dna sugli slip e i leggings di Yara, 13 anni, scomparsa la sera del 26 novembre 2010 all’uscita dalla palestra di Brembate Sopra, ritrovata morta il 26 febbraio successivo in un campo di Chignolo d’Isola. Non ha subito violenza, è stata ferita con un’arma da taglio ma è morta “per ipotermia e per gli effetti combinati delle lesioni da arma bianca e contusiva”. Bossetti si proclama innocente. Lancia a più riprese sospetti nei confronti di un conoscente. Invano. Il muratore è un personaggio pirandelliano, da “Uno, nessuno, centomila”. Ora riservato, ora esuberante. Padre di famiglia modello eppure con qualche vizietto. Lavoratore instancabile e spesso assente ingiustificato. Nei cantieri lo chiamano “Il Favola” per l’infinita serie di bugie. La più clamorosa quando si inventa un tumore al cervello per chiedere permessi. Condendo con lacrime la sua finta malattia. Si giustificherà durante i colloqui in carcere con la moglie Marita Comi, 40 anni: «Lo facevo per scappare a fare altri lavori e portare i soldi a casa». I “solc”, i soldi in bergamasco, pensa siano l’argomento persuasivo per una donna che ha tre figli da allevare, è sensibile alla cassa e con l’incubo di trovarsi in difficoltà (però troveranno sul loro conto più di 32 mila euro). Le ha nascosto anche delle innocenti evasioni a un centro estetico dove si sottoponeva a lampade abbronzanti. Silenzi, omissioni, reticenze. Nei paesi scenario dell'omicidio della ragazzina di Brembate Sopra, nel bergamasco, tutti si conoscono. Ma solo la tenacia di un maresciallo è riuscita a scalfire il muro del silenzio. Lei: «Ma spendevi cento euro a settimana?!». «Pochi euro, Marita, pochi. E ci sono andato raramente, giuro». Debolezze da gagà di provincia, come si diceva un tempo. Sempre curato peraltro, anche vestito da edile, pantaloni lunghi che fosse estate o inverno, spesso dal barbiere. Uno che ci teneva al fisico e con quegli occhi chiari, penetranti, coi quali sapeva di poter sedurre. Come quella volta che diede appuntamento a una sconosciuta nel parcheggio del cimitero per venderle una cornice. Le offrì un mestiere da segretaria che lei rifiutò perché ne aveva già uno: «Ma mia sorella è disoccupata». E Massimo: «È carina come te?». «Lasciamo perdere». Della moglie era ed è innamorato. Con quella sottile sudditanza, si evince, che Dostoevskij avrebbe così chiosato: «Aveva un tal timore di lei che l’amava persino». Provocatoriamente arrabbiato, in una sola circostanza, perché nel momento dell’estremo bisogno «la moglie non trova un alibi per il marito». E sarebbe stato difficile per Marita affermare con certezza, quattro anni dopo, «sì il 26 novembre era sicuramente a casa», dopo aver proclamato che le loro sere erano tutte uguali nella rassicurante monotonia di un tran-tran senza concessioni all’imprevisto. Perché Marita Comi ha soggezione dell’autorità costituita, insiste con Massimo «bisogna dire la verità», conosce con lucida freddezza terragna i meccanismi della legge che possono stritolare se non li maneggi con cura. Pur se rispetta il suo ruolo in tragedia. Va in televisione a difendere strenuamente il padre dei suoi figli: «Credo nella sua innocenza». Una convinzione che vacilla, nei colloqui a tu per tu nel parlatorio, quando sa di essere intercettata eppur se ne dimentica per l’urgenza di sapere che le sgorga dal petto, incontenibile. Marita non insiste tanto sul Dna, che sarebbe la prova regina, ha accettato che possa essere stato “trasportato” da qualcun altro sul corpo di Yara: quella è genetica, un meccanismo che le sfugge. Però non si dà pace per dettagli di elementare banalità per cui non trova spiegazione logica. Come l’andirivieni del furgone di Massimo, sul luogo del delitto, documentato dalle telecamere accese dovunque perché si sa che i nostri paesi sono illuminati come in un Grande Fratello: «Riesci a girare lì... almeno tre quarti d’ora! È tanto! Hai capito, non puoi girare lì tre quarti d’ora così... a meno che non aspettavi qualcuno». Perché per lei il meccanismo è lineare. Il marito finisce l’orario di lavoro, passa per Brembate Sopra per rientrare a casa. Una volta. Non per tre quarti d’ora. E lui, figlio di una generazione che si è sciroppata i telefilm di Csi e dei Ris, che conosce come vanno le storie, si difende: «Le foto, voglio vedere le foto, mi portino le foto». Preoccupato che si veda la targa o lui stesso al volante. Ma fa buio alle 7 di sera di novembre. Né targa né persona. Oppure invoca l’avvocato Claudio Salvagni: «Mi tirerà fuori di qui». Ed è per questo, nell’ipotesi accusatoria, che resiste. Non c’è confessione, non c’è arma del delitto, non c’è movente, neanche sessuale perché «quella ragazza non è stata violentata». Ci penserà Salvagni, non fa un passo senza di lui, lo consulta persino per chiedere se è opportuno che prenda un libro dalla biblioteca del penitenziario, per qualsiasi “domandina” debba inoltrare all’autorità carceraria. Nella sua fede cieca, Salvagni è l’Azzeccagarbugli che conosce gli espedienti. Fidarsi di lui, e basta. A Marita non basta. Yara è il caso che ha scosso la comunità. Con un impatto, nella Bergamasca e fatte le proporzioni, come quello del sequestro Moro. Tutti ricordano dove fossero quando seppero che lo statista fu rapito dalle Brigate rosse. Nel suo lungo e tormentato rovistare nella memoria realizza all’improvviso che Massimo non le ha mai detto dove era quella sera. Eppure, a essere benevoli, è passato nel punto esatto dove Yara è scomparsa. Lo incalza: «Non ho mai saputo cosa hai fatto quella sera... eri lì quella sera!...non mi ricordo l’ora che sei venuto a casa, non mi ricordo neanche cosa hai fatto». Rievoca un discorso alla presenza di Agostino, suo fratello: «L’Agostino diceva, io ero qui, ho fatto questo e quello. E io ti ho chiesto: tu dov’eri? Non mi hai risposto! Non mi hai risposto». Bossetti farfuglia, si trincera dietro dei «non ricordo», lei gli fa notare che però si ricordava benissimo che gli si era scaricato il telefono. Contraddizioni. Finché esausta quasi lo implora: «Se c’è qualcosa dimmelo adesso, ti prego». Nella “famiglia normale” degli anni Dieci del nuovo millennio ciascuno ha i suoi segreti, grandi o piccoli. Massimo Bossetti ha dipinto a tinte rosa il rapporto con la moglie, fatti salvi gli screzi ordinari che ciascuno può documentare. La cena insieme, la spesa al centro commerciale, i figli, le vacanze. Una buona vita sessuale, compresa la visione condivisa di siti pornografici, tipo “youporn”, gli acquisti birichini al sexy shop. Gli inquirenti vogliono però scoprire se si nasconde qualcosa dietro l’idillio, una crepa, un’insoddisfazione una deviazione che giustifichi ciò che credono Massimo abbia fatto. Ma non sono tanto i due amanti di Marita a solleticare la loro attenzione. Nemmeno le ricerche della donna attraverso Google di “sesso di gruppo”, “sesso con animali”, quanto altre interrogazioni del motore di Internet come “ragazzine con vagine rasate” e “ragazzine rosse tredicenni per sesso” compiute, secondo l’accusa, in giorni e orari in cui l’indagato poteva trovarsi in casa. Lui giura di non essere stato e oltre non si va. Ma certo è un punto interrogativo che andrà sciolto al dibattimento. Dove invece ci sarà assai poco da discutere su chi sia il padre biologico di Massimo a meno di mettere in dubbio ciò che la scienza avvalora al 99,9 per cento. Accanto al campo di Chignolo d’Isola dove il cadavere di Yara è stato ritrovato c’è la discoteca “Sabbie mobili”. Quando ancora si “brancolava nel buio” si decise di sottoporre all’esame del Dna i frequentatori del locale. Fortuna ha voluto che un avventore, Damiano Guerinoni, oggi 25 anni, mostrasse una certa compatibilità col Dna trovato sul corpo della ragazza (e catalogato come “Ignoto 1”). Damiano non era, qualche suo consanguineo sì. Attraverso l’archivio storico della parrocchia di Gorno, Valle Seriana, area d’origine dei Guerinoni, partendo dal 1719, quasi tre secoli fa, si è ottenuta una genealogia completa composta in totale da 1334 persone, da cui sono stati estrapolati 70 discendenti diretti di sesso maschile, 23 dei quali viventi. Fino a identificare in Giuseppe, conducente di autobus, scomparso nel 1999, il padre di “Ignoto 1”. Che però non è nessuno dei figli legittimi del Guerinoni. Dunque il presunto killer doveva essere un figlio illegittimo e bisognava identificare la genitrice poi risultata essere Ester Arzuffi, 68 anni, madre appunto di Massimo Bossetti e della gemella Laura. Ester non ha mai confessato quel rapporto extraconiugale nonostante le provette di laboratorio la inchiodino al suo profilo adultero. E se questo ulteriore dettaglio da “Dynasty” non vi sembra da “famiglia normale” basta riandare alle parole del nostro carabiniere di lungo corso: «Sapete nell’ambito dell’inchiesta quanti casi simili abbiamo trovato? Innumerevoli». E c’è di più, anche Fabio, 40 anni, fratello minore di Massimo e Laura, non è figlio di Giovanni Bossetti, colui che ha sempre considerato suo padre. Ester porta ancora i tratti di un’antica bellezza. Ha il piglio risoluto di chi in casa è abituato a comandare. E a imporre ai congiunti la sua visione «perché lo dico io». Nelle intercettazioni taglia corto senza ammettere repliche: «La scienza si sbaglia». Le chiacchiere su di lei, nel suo paese, Terno d’Isola, si sprecano. Nessuna obiezione la turba, o almeno questa è l’apparenza. Avesse ragione la pm Ruggeri, sarebbe l’unica ad aver saputo e da molto tempo. Sospette sono le telefonate con Massimo in momenti topici, il giorno del ritrovamento di Yara, il giorno in cui è stata sottoposta al tampone per il Dna. «Non ci credo che il Massimo abbia fatto una cosa simile», è il suo ritornello. Come in tutte le “famiglie normali” che si rispettino si è fatta una nemica, la nuora Marita, che fin dal principio l’ha implorata con la stessa frase rivolta al marito: «Me lo dica adesso... salta fuori dopo, è stata insieme al Guerinoni?». Ester non l’ha detto. Le due donne dominanti, ciascuna a modo suo, reggono l’architettura di una casa terremotata illudendosi di tenerla in piedi. C’è una terza donna che vorrebbe dare una mano. È Laura, la sorella di Massimo. Ha sporto denunce per le aggressioni che avrebbe subito da sconosciuti autocertificandosi come capro espiatorio della sciagura abbattutasi sui congiunti. Gli inquirenti non le credono. E nel caso saremmo nello psichiatrico. In questa tragicommedia perdono tutti in qualche modo. Per primi i parenti di Yara. Poi i Bossetti, nessuno escluso. Perché alla morte non c’è rimedio, ma chi si sopravvive porta il fardello di verità che si possono anche non confessare mai però dentro lavorano. Ed è impossibile scriversi addosso la parola fine. Come se fosse una fiction tv.
Yara, i 10 punti chiave del processo contro Bossetti. Dal dna alle ricerche sessuali nel computer, dalle celle telefoniche al centro estetico. Cosa dice la procura, come ribattono i legali del muratore, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Il processo può iniziare. Il grande giorno è arrivato. Massimo Bossetti, il muratore accusato di aver ucciso la tredicenne Yara Gambirasio, può fare il suo ingresso dentro l’aula del tribunale di Bergamo dove sono state prese misure straordinarie per contenere l’eccezionale afflusso di giornalisti, fotografi e cameraman, anche stranieri. Bossetti si troverà di fronte i sei giurati popolari e due togati, la presidente della corte Antonella Bertoja e il giudice a latere,Ilaria Senesi. La corte d’assise gli contesterà, oltre alla calunnia nei confronti di un collega, il reato di omicidio volontario aggravato dall’aver «adoperato sevizie e aver agito con crudeltà», per il quale rischia la pena dell’ergastolo. La procura, rappresentata dal pubblico ministero Letizia Ruggeri, tirerà le somme di oltre quattro anni e mezzo di indagini certificate in 60 mila pagine di atti d’inchiesta, rafforzate da 120 testimoni che verranno chiamati a deporre. La squadra difensiva di Bossetti, capitanata dall’avvocato Claudio Salvagni, risponderà con 711 testimonianze, oltre a una cinquantina di esperti e consulenti. La partita è aperta. Bossetti vuole la diretta televisiva, la procura non è d’accordo, la famiglia della vittima da sempre non ama il clamore mediatico. La seconda udienza è fissata per il 17 luglio, quando si comincerà ad entrare nel merito delle accuse che qui abbiamo riassunto in 10 punti, dal dna alle ricerche sessuali nel computer di casa. Una per una, cosa dice la procura, cosa ribatte la difesa.
1 - Il dna è la pistola fumante, la difesa lo ritiene nullo. Volendo provare a raffigurare le prove dell’accusa come un albero, il dna rappresenta il tronco, gli altri indizi sono rami. La difesa sa bene che se riesce a tagliarlo, tutto il resto crolla per terra. Il dna di Massimo Bossetti, individuato tra i 22.450 profili raccolti, è stato ricavato da una traccia trovata sugli slip e i pantaloni di Yara, in una zona interessata da tagli, sia degli indumenti che del corpo. La traccia è mista, composta «molto probabilmente da sangue» della ragazza e del muratore, miscelate allo stato liquido. Circostanza che esclude la possibilità di un assassino diverso che vuole incastrare Bossetti portandosi dietro il suo sangue. La difesa contesta il risultato delle analisi, perché la parte mitocondriale del dna non coincide con quella nucleare. In natura non esiste nessuna cellula senza mitocondrio, è la posizione sintetizzata dall’avvocato Salvagni. O la procura spiega da dove nasce l’anomalia, oppure la prova scientifica non è utilizzabile.
2 - Il ciuffo d'erba che Yara ha stretto prima di morire. Dove è stata uccisa Yara? L’anatomopatologa forense Cristina Cattaneo, che ha effettuato le analisi scientifiche, scrive di «elevata probabilità» che il corpo sia sempre rimasto nel campo di Chignolo d’Isola. A partire dal momento della morte, avvenuta poche ore dopo la scomparsa. Le prove: il ciuffo d’erba stretto nella mano destra di Yara, i fusti attorcigliati alle caviglie, le tracce di terra nelle suole delle scarpe. Secondo la difesa la ragazza potrebbe non essere morta lì e neppure quel giorno, perché l’accusa non ha dimostrato queste circostanze. La stessa Cattaneo parla di elevata probabilità, quindi nessuna certezza.
3 - Il furgone ripreso dalle telecamere. La presenza di Massimo Bossetti nell’area che circonda la palestra viene dimostrata dagli inquirenti attraverso le immagini delle telecamere situate nella zona. Il furgone Iveco daily del muratore viene ripreso transitare più volte dalle 18 alle 18,47, per poi ripassare alle 19,51. Dati che smentiscono la versione di Bossetti, il quale dice di essere passato da quella strada per fare ritorno a casa dopo il lavoro, come d’abitudine. Per la difesa, l’immagine più nitida è quella ripresa dalla telecamera situata in via Caduti dell’aeronautica, dalla quale non si arriva comunque alla certezza che il furgone ritratto sia quello di Bossetti. Mentre le altre risultanze video sono talmente poco chiare da rendere impossibile le comparazioni.
4 - Il cellulare di Bossetti e quello di Yara legati da una cella telefonica. Attraverso le analisi sulle celle telefoniche, i carabinieri del Ros hanno scoperto che il pomeriggio in cui Yara scompare, Massimo Bossetti non è andato al lavoro, circostanza poi confermata dai colleghi. Alle 17,45 il suo cellulare aggancia la cella di via Natta, a Mapello. L’uomo è al telefono con il cognato mentre fa ritorno a casa, questa la sua versione, smentita dalle telecamere, che dimostrano un tragitto diverso. La stessa cella telefonica verrà agganciata da Yara alle 18,49, quando riceve il messaggio di un’amica. La difesa parla di 120 mila utenze che risultano agganciate a quella cella in quella fascia oraria. Ed è assolutamente normale che ci fosse anche Bossetti, perché lui passa da quel punto tutti i giorni per far ritorno a casa dal lavoro.
5 - Il testimone davanti alla palestra. Il 30 novembre 2010, quattro giorni dopo la scomparsa di Yara, un uomo si presenta dai carabinieri e racconta di aver visto un cassonato bianco fare una manovra azzardata davanti al centro sportivo proprio nei minuti in cui la ragazza esce per tornare a casa. Per gli inquirenti è la conferma della bontà della prova raccolta attraverso le immagini delle telecamere. Per la difesa, la testimonianza di Federico Fenili viene smentita da altre innumerevoli testimonianze che parlano di furgone e non di cassonato. Inoltre la particolare conformazione della strada renderebbe impossibile la manovra che Fenili racconta di aver visto.
6 - Le fibre dei sedili del furgone sui leggins di Yara. Per gli inquirenti è la prova che Yara è salita sul furgone del muratore. Sui leggins della tredicenne sono state trovate «fibre riconducibili al tessuto costituente la stoffa dei sedili» del furgone di Bossetti. Interessante, ai fini dell’indagine, la zona dove sono stati trovati i reperti: la parte inferiore del giubbino e la zona del sedere dei leggins. Circostanza che lascia pensare a una posizione seduta assunta da Yara a bordo dell’automezzo, non costretta con la forza a stare sdraiata. Per la difesa, migliaia di automezzi montano sedili con tessuti della medesima tipologia di quello di Bossetti. Motivo per cui le fibre non possono rappresentare un dato identificativo.
7 - Il centro estetico vicino casa Gambirasio. È il punto di contatto, potenziale, tra Yara e Bossetti: il centro estetico situato in via Gotti, a due passi da casa Gambirasio, dove il muratore si fermava spesso per fare le lampade solari. Lì accanto c’è il dentista della tredicenne, a pochi passi c’è il supermercato dove va a fare la spesa. Yara passa di lì ogni giorno all’uscita di scuola per tornare a casa. Nessuno ha mai visto la ragazza e Bossetti insieme, come non è mai stato trovato nessun contatto telefonico tra i due. Ma gli investigatori sono convinti che il solarium abbia un grande peso investigativo, tanto che Bossetti nega di averlo frequentato durante il primo interrogatorio di garanzia, salvo poi essere costretto a ammetterlo dopo la testimonianza della titolare del centro. Per la difesa non lo avrebbe del tutto negato ma sminuito, perché in una famiglia con difficoltà economiche era spiacevole ammettere di aver speso soldi per un vezzo.
8 - La ragazza e il muratore si conoscevano? È andata dai carabinieri nei giorni successivi l’arresto di Bossetti. Ha raccontato di aver visto le immagini in televisione e di aver riconosciuto l’uomo che le era rimasto impresso un giorno d’estate del 2010. Alma Azzolin si trovava nel parcheggio della palestra di Brembate, dove aveva visto un uomo dentro un’auto grigia ferma che la fissava. La donna è certa che fosse Bossetti. Pochi minuti dopo, una ragazza di età fra 13 e 15 anni che «forse era Yara, ma non ne sono sicura», era arrivata ed era entrata nella macchina che corrisponde alla Volvo del muratore. Per gli inquirenti, la prova che i due si conoscevano e che l’uomo non ha costretto Yara con la forza a salire sul furgone. La difesa parla di testimonianza assolutamente inattendibile in quanto smentita da centinaia di testimonianze di segno di contrario: nessuno dei frequentatori della palestra ha mai visto Bossetti attorno o dentro il centro sportivo, né da solo né tanto meno in compagnia di Yara.
9 - Le "tredicenni per sesso" nel computer di casa. Massimo Bossetti sarebbe stato ossessionato dalle ragazze dell’età di Yara. Per gli inquirenti la prova sarebbe ricavata dalla radiografia informatica effettuata nel computer sequestrato a casa del muratore. Attraverso tecniche di navigazione privata o anonima, Bossetti avrebbe fatto ricerche digitando le parole «ragazzine rosse, tredicenni per sesso, vergini». L’ultima digitazione sarebbe stata registrata la mattina del 29 maggio 2014, pochi giorni prima dell’arresto, in un momento in cui i figli sono a scuola mentre lui risulta assente dal lavoro. Per la difesa, queste risultanze sarebbero smentite dagli stessi consulenti del pubblico ministero. Si tratterebbe di ricerche generate automaticamente dalla navigazione in siti di carattere pornografico. Nulla a che vedere con la pedofilia, in ogni caso, tanto che non gli è mai stato contestato il reato specifico.
10 - Reale paura al momento dell'arresto o processo alle intenzioni? Dalle immagini riprese al momento dell’arresto si vedono i carabinieri che entrano nel cantiere mentre urlano che sono alla ricerca di lavoratori in nero. Per gli inquirenti, Bossetti avrebbe reagito con un moto di paura, qualcuno azzarda addirittura un improbabile tentativo di fuga. Sarebbe la prova della malafede del muratore, il quale durante l’interrogatorio ammette di essere rimasto terrorizzato e di aver pensato addirittura che gli uomini delle forze dell’ordine potessero picchiarlo.
La difesa parla di evidente processo alle intenzioni. In quel momento Bossetti è una persona stralunata che non capisce quello sta succedendo. È piegato, ha i piedi nel cemento, motivo per cui è assurdo parlare di tentativo di fuga.
Bossetti a processo. Prove zero, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista". Massimo Bossetti sarà processato in Corte d’assise il prossimo 3 luglio. Lo ha deciso in un’ora un giudice che ha letto sessantamila pagine in pochi giorni e che ha rifiutato di ripetere in contraddittorio l’esame del dna trovato sul corpo di Yara con il nobile motivo che potrebbero scadere i termini di custodia cautelare dell’imputato. Quel che conta, dunque, più che l’accertamento della verità, è tenere il “mostro” in gabbia. Del resto a che cosa sarebbe servita la porcata di diffondere, alla vigilia dell’udienza, le immagini dell’arresto di Bossetti sul cantiere, con i piedi imprigionati dalla calce, mentre i carabinieri impazziti urlano “prendilo, prendilo! Sta scappando, prendilo!”, se non a dipingere l’immagine della bestia? La prima udienza davanti al Gup inizia sempre con scaramucce procedurali tra difesa e accusa, e quella di ieri mattina al tribunale di Bergamo non ha fatto eccezione. Ma fuori dall’ordinario è stato il fatto che un giudice abbia rifiutato alla difesa lo strumento dell’incidente probatorio per ripetere quell’esame del Dna i cui risultati hanno seminato tanti dubbi tra gli stessi periti del Pubblico ministero. Dovrebbe essere lo stesso magistrato dell’accusa (che tra l’altro, lo prescrive il codice, dovrebbe cercare anche gli elementi a favore dell’indagato) ad avere interesse a “cristallizzare”, attraverso l’incidente probatorio, la prova di colpevolezza. Ma il fatto stesso che la Procura non abbia mai proposto il rito immediato, dimostra che certezze granitiche in questo processo non ce ne sono e che ci si prepara, dopo un passaggio dal Gup che ormai, nella stragrande maggioranza dei casi, è pura formalità, a uno scontro in aula nell’ennesimo processo indiziario. Dopo Garlasco e Perugia, ecco Bergamo: è fin troppo facile la previsione di una vera roulette russa cui sarà sottoposto il carpentiere di Mapello, in cui la difesa cercherà “un giudice a Berlino” e l’accusa cercherà di sciorinare elementi di prova complementari (alcuni dei quali già caduti, come la ricerca in computer sulla sessualità delle tredicenni) per supportare la debolezza della “prova regina”, che in realtà è solo indiziaria. C’è una prima questione, che riguarda i diritti dell’indagato. Tutti gli atti preliminari, per tre anni e mezzo, sono stati compiuti “contro ignoti”, quindi senza contraddittorio delle parti. Tra questi anche la perizia fondamentale, quella sul dna, proprio quella che ha portato all’individuazione di Massimo Bossetti e al suo arresto. Messo questo punto fermo, si è passati alla costruzione del contesto: dalle ricerche sul computer alle lampade abbronzanti per poi passare, nel solito crescendo rossiniano del circo mediatico-giudiziario, al furgone e a improbabili testimonianze di signore con la memoria ritardata. Fino alla scandalosa morbosa e spasmodica ricerca nelle lenzuola di famiglia e nelle abitudini sessuali dei coniugi Bossetti. Ah, il contesto! Noi osservatori attenti e non abituati a fare gli zerbini dei Pm ci domandavamo due cose: primo, perché, davanti a una prova granitica come quella del dna, ci si affannasse tanto a perdere tempo con le abbronzature e gli eventuali adulteri, che nulla c’entravano con quel che è successo a una bambina di 13 anni, rapita, spogliata, tagliuzzata, rivestita e lasciata morire di freddo (forse) in un prato. Secondo: perché la pubblica accusa con la sua prova certa del dna non adiva subito al rito immediato per arrivare in tempi rapidi a una sentenza di condanna? La risposta è arrivata quando i difensori di Bossetti hanno potuto cominciare a leggere le carte e i risultati delle perizie, e hanno appurato, anche con l’aiuto di una serie di esperti genetisti internazionali, che in quei rilievi c’è stato sicuramente un errore. O forse più di uno, perché non c’è coincidenza tra il dna nucleare e il dna mitocondriale. L’esempio più facile per capire è quello dell’uovo: il tuorlo e l’albume devono avere la stessa origine, non possono essere fratelli separati in culla. Ecco perché quegli esami andrebbero ripetuti, anche se nei fatti questo è impossibile perché il materiale è stato consumato tutto, ed era comunque già deteriorato dalla lunga esposizione del corpo di Yara alle intemperie. Forse, perché anche il luogo e i tempi della morte non sono certi. Sarà un altro dei tanti processi impossibili, quello che verrà celebrato il 3 luglio. Anche per questo Massimo Bossetti non dovrebbe neppure stare in carcere. Comunque andranno le cose, è sicuro che Yara Gambirasio non avrà mai giustizia.
l caso del Dna di Bossetti e una legge per tutelare il futuro indagato, continua Tiziana Maiolo. Massimo Bossetti domani mattina alla sbarra: prima udienza preliminare per la morte di Yara Gambirasio. E sarà guerra processuale fin da subito. Con una novità: il carpentiere bergamasco oggi non è più solo con il suo difensore (il combattivo avvocato Salvagni ) e con noi del Garantista, che fin dal suo arresto di un anno fa abbiamo messo in dubbio le granitiche certezze della Procura. Non riesco più a trovare un colpevolista da mettere in contraddittorio”, dice sconsolato Marco Oliva, il conduttore della trasmissione Iceberg di Telelombardia, che segue il caso di Yara dal giorno della sua scomparsa, il 26 novembre del 2010. Al fianco dei diritti di Massimo Bossetti, “Massi”, come lo chiamano la moglie e gli amici, c’è oggi anche “Justice of mind” (Centro studi sul rapporto tra giustizia e mente), il cui presidente, l’avvocato Luca D’Auria, ha deciso di fare di questo caso “il processo del decennio”. E si è mosso in modo molto serio. Ha capito subito che computer, furgoni e pseudo-testimonianze più o meno inventate sono nulla e che l’unico punto in discussione, quello che appassionerà anche l’opinione pubblica, è dato dall’esame del Dna. Così, dal momento che ormai la sacralità del processo è data non solo dalla parola dei “pentiti” e dalle intercettazioni, ma anche dal mito del consulente tecnico, ha allungato lo sguardo fino al nord Europa e agli Stati Uniti e ha raccolto autorevoli opinioni di famosi genetisti. Le ha presentate, insieme a una proposta di legge che, se trasformata in vera riforma, porterebbe l’Italia a essere il Paese più innovativo del mondo nel settore, sabato scorso a Milano, al Circolo della stampa, in un dibattito condotto dal giornalista Marco Oliva, cui hanno partecipato avvocati, genetisti, psicologi. L’idea parte dal fatto che la raccolta e l’analisi del Dna sul corpo di Yara sono state effettuate all’epoca in cui Bossetti non era ancora indagato, quindi senza contraddittorio tra le parti. Si tratta di atti non ripetibili, in quanto non esiste più materiale genetico utilizzabile. Perché quindi non tutelare fin dall’inizio i diritti del futuro indagato, nominandogli un difensore e un consulente tecnico d’ufficio? Se una legge del genere fosse esistita, probabilmente non esisterebbe neppure un “caso Bossetti”, con tutte le sue “anomalie”. Anomalie che vengono ricordate dal professor Marzio Capra, il genetista dell’Università degli studi di Milano che ha avuto un ruolo fondamentale nel processo per l’uccisione di Chiara Poggi, come consulente della famiglia. Prima anomalia: non c’è nessuna traccia interessante di Dna sul corpo di Yara, nulla sotto le unghie, né alcun risultato hanno dato i tamponi vaginale e cutaneo. Il che è veramente strano, per un caso di omicidio. Un’altra anomalia è data dal fatto che sugli indumenti ci siano undici profili genetici diversi, di cui nessuno attribuibile ai familiari della ragazzina. La terza anomalia, di cui abbiamo già parlato diverse volte, è la contraddizione (impossibile in natura) tra il Dna nucleare (di Bossetti) e quello mitocondriale (di altra persona). È un po’ come se nello stesso uovo l’albume e il tuorlo avessero origini diverse. Greg Hampikian è uno dei più importanti studiosi di Dna forense degli Stati Uniti. Intervistato dallo staff di “Justice of mind”, esclude nel modo più assoluto che possa esservi in natura una differenza genetica di tal fatta: c’è stato sicuramente qualche errore in laboratorio, dice. Sarebbe necessario ripetere l’esame, afferma ancora, ma ciò non è possibile. È chiaro che con questi indizi così contraddittori negli Stati Uniti Massi Bossetti non sarebbe mai stato neppure arrestato. Stessa opinione di Peter Gill, genetista di Oslo, e della dottoressa Claudia Pavanelli, psicologa e criminologa, che sottopone il pubblico presente a un esame collettivo sulle “trappole mentali”, che sono un rischio quotidiano anche per il giudice e che possono portare all’errore giudiziario. Il team che protegge le spalle di Massi Bossetti (dei suoi diritti, prima che della sua innocenza) è rafforzato dalla presenza dell’avvocato Carlo Taormina, che ha partecipato alla stesura della proposta di legge, e che spiega perché il magistrato inquirente, dopo aver strombazzato urbi et orbi di avere la prova regina, non ha deciso per il rito immediato: perché è passato dal ritenere di avere in mano una prova diretta a ritrovarsi solo con una prova indiziaria, molto più debole, quasi un pugno di mosche. Al suo fianco Gabriele Albertini, ex sindaco di Milano e senatore del Nuovo Centrodestra, afferra con decisione il foglio e garantisce che si farà promotore della presentazione della proposta di legge. Che non servirà comunque ad aiutare Bossetti, ma a far fare un passo in avanti alla civiltà giuridica del Paese. Ce ne è bisogno.
C’è una testimone che scagiona Bossetti, continua ancora Tiziana Maiolo. Un muratore rumeno, ha fatto lavoretti a casa. Gambirasio e ha un furgone bianco. Nel 2010 raccontava di avere una ragazza molto giovane, minorenne, che viveva in provincia di Bergamo, faceva la “danzatrice” e si chiamava Yara. Sembra l’identikit perfetto dell’alter- Bossetti. E, come lui, non va criminalizzato. Ma la storia va raccontata. E’ dai difensori di Bossetti che arriva la notizia di un’indagine difensiva che ha rintracciato una testimone “molto attendibile”, la quale ha parlato, nella sua deposizione, del giovane muratore rumeno. La testimone, una signora di una certa età, lo aveva conosciuto quando lui cercava una stanza dove alloggiare. Non si sa, per ora, in quale città. Prima di aver perfezionato l’accordo (complicato dal fatto che il ragazzo rumeno voleva anche spostare a casa della signora la residenza), il giovane muratore un paio di volte le aveva chiesto la possibilità di ripulirsi o fare una doccia. Le aveva anche raccontato di questa ragazza, che lui rispettava, tanto che mostrava un medaglione e giurava “sul suo dio” che mai l’avrebbe toccata finché lei non fosse stata maggiorenne. Ma come mai si chiama Yara, aveva chiesto la signora incuriosita, è straniera? No no, aveva risposto lui, è di Bergamo, anzi di un paese vicino a Bergamo. E’ una danzatrice, aveva aggiunto, fa ginnastica e vince premi con le sue compagne. Il ragazzo dice anche che lui e Yara si vedevano di nascosto dalla famiglia, anche perché tra loro c’era una certa differenza di età. Questi discorsi erano avvenuti tra settembre e novembre del 2010. Il 26 novembre, proprio il giorno in cui la ragazzina sparì, il muratore rumeno chiama la signora, chiede se può andare da lei a fare una doccia perché è in partenza per la Romania e prima deve andare a salutare la sua ragazza. Poi parte con un’altra persona. Il giorno dopo chiama la signora per dire che è arrivato bene, ma lo fa in modo frettoloso e con un tono brusco che non aveva mai avuto, poi chiude la telefonata. La sua interlocutrice, stupita per il tono e per la fretta, lo richiama, ma trova una segreteria estera. Nel frattempo nelle valli bergamasche tutti cercano Yara. Quando la nostra testimone apprende la notizia della sparizione fa due più due e deduce che i due ragazzi siano scappati insieme, che abbiano fatto la “fuitina”. Tre giorni dopo però, quando apprende dell’arresto scenografico in mezzo al mare del muratore marocchino Fikri, immagina che gli inquirenti siano fuori strada e abbiano fermato un innocente. Che cosa fa dunque? Quello che viene in mente a una persona non pratica di questure e palazzi di giustizia. Ferma un carabiniere per strada, ingenuamente gli dice “avete arrestato un innocente”, lui la invita ad andare a deporre, lei si scoccia e gli fornisce le proprie generalità, il numero di telefono e l’indirizzo. Che caratterino! Se vi interessa, sapete dove sono, chiude. Non sarà mai una testimone, nessuno la chiamerà. Si farà viva di nuovo nei mesi scorsi, quando, dal suo punto di vista, un altro innocente finirà in carcere, Massimo Bossetti. Questa volta impugna carta e penna e scrive all’avvocato. Così nascono le indagini difensive, incontri diversi nel corso delle settimane, decine di viaggi all’estero del dottor Denti, il criminologo che assiste l’avvocato Galvagni nella difesa di Bossetti. Il muratore rumeno è individuato, anche se non ancora contattato. Il resto è ancora notizia riservata. Ma interesserà tutto ciò gli inquirenti, o sono così affezionati alla propria ipotesi inquisitoria da non avere nessuna curiosità? Intanto arrivano i risultati ufficiali delle perizie disposte su una serie di oggetti sequestrati a Massimo Bossetti, dall’auto al furgone al telefonino: tutti negativi, da nessuna parte ci sono tracce di Yara. Nei confronti del muratore bergamasco rimane solo la prova del dna. Che è parsa troppo poco persino agli inquirenti, tanto che hanno lasciato scadere il termine di 180 giorni entro cui avrebbero potuto far celebrare il processo con il rito immediato. E Bossetti è in custodia cautelare da sette mesi.
Quel muratore è innocente. Oppure la pm ha sbagliato tutto, dice Tiziana Maiolo. I casi sono due: o Bossetti è innocente o gli inquirenti sono degli incapaci. In ogni caso non vorremmo vedere il carpentiere di Bergamo trasformato nel Girolimoni degli anni Duemila. Perché Gino Girolimoni, il “mostro di Roma” degli anni del fascismo, accusato arrestato e poi prosciolto per sevizie e uccisione di sette bambine, dopo gli undici mesi di carcere non si riprese più e morì povero con addosso la reputazione del “pedofilo”. I mesi scontati da Massimo Bossetti sono già sette, e stiamo parlando di carcere preventivo, anche se viene pudicamente chiamato custodia cautelare. E ancora i magistrati che gli stringono le manette ai polsi non ci spiegano in che modo potrebbe “reiterare il reato” (come hanno scritto sia il gip che il tribunale del riesame). Ci stiamo avviando a un clamoroso processo indiziario, in cui le “prove” così conclamate dagli inquirenti impallidiscono ogni giorno di più. Persino la “prova regina”, la famosa “pistola fumante” impugnata a due mani dal pubblico ministero Letizia Ruggeri, il dna trovato sugli indumenti di Yara Gambirasio, presenta i suoi bravi margini di ambiguità nella relazione non di un perito di parte, ma di quello ufficiale della Procura, il dottor Carlo Previderé, responsabile del laboratorio di Genetica forense dell’università di Pavia. Il dna mitocondriale, di cui evidentemente gli uomini del Ris di Parma, i primi a esaminarlo, non hanno tenuto nessun conto, non sono di Bossetti. Perché è importante questa parte del dna? Perché è quello trasmesso dalla madre ai figli. E se quello trovato sul corpo di Yara non è di Bossetti, di chi è? E ancora: sul corpo della ragazzina vengono trovati un certo numero di peli e capelli, ma nessuno è riconducibile all’indagato. Di chi sono dunque? Ma c’è un altro problema. Gli inquirenti affermano di avere la “prova” (farebbero meglio a essere più cauti nell’uso di questa parola) del fatto che il furgone dell’indiziato gironzolasse dalle parti della casa della bambina quando lei uscì per andare in palestra e prima di sparire per sempre. Sul furgone però non c’è traccia alcuna di Yara. Il veicolo, così come un’auto di proprietà di Bossetti, è stato sequestrato subito dopo il suo arresto, il 16 giugno dell’anno scorso. Nessuno l’ha toccato, da quel giorno, tranne i tecnici, che l’hanno rivoltato come un calzino. L’unico risultato è che la ragazzina lì sopra non è mai salita. Così come non è mai entrata in contatto con nessuno degli oggetti, a partire dal telefonino, in uso a Bossetti. La bambina è dunque un fantasma? Nelle ultime settimane poi, a quattro anni dalla sparizione della giovane ginnasta, è scoppiata la guerra delle testimonianze. E’ bastato che i difensori di Bossetti, l’avvocato Salvagni e il criminologo Denti (quest’ultimo l’ha raccontato a Iceberg, la nota trasmissione di Telelombardia), lasciassero intendere di avere tra le mani una deposizione importante, che la Procura rilancia dando in pasto ai giornalisti la “sua” teste. E il segreto investigativo cui sono tenuti in primis gli stessi inquirenti? Ma che importa, tanto si sa che, da vent’anni a questa parte, i provvedimenti giudiziari non si depositano più in cancelleria, ma direttamente in edicola. E Bergamo non sarà certo seconda a Milano o a Roma. Le testimoni sono due donne. La signora A, dopo aver invano parlato a un carabiniere fermato per strada, nei giorni della sparizione della ragazzina, contatta gli avvocati di Bossetti dopo aver saputo dell’arresto, e ripete il suo racconto: aveva ospitato, proprio in quei giorni, un giovane rumeno, poi tornato al suo Paese, che diceva di avere una fidanzatina di nome Yara che faceva la ginnasta e viveva in provincia di Bergamo. L’unico punto debole di questa teste, che viene descritta come molto lucida e sicura di sé, è che la signora A si era rifiutata di andare a fare la sua deposizione in caserma, come l’aveva sollecitata il carabiniere. Che andrebbe oggi individuato e ritrovato. Cosa non facile. La signora B è una testimone ancora più fragile. A quanto se ne sa, avrebbe raccontato ai magistrati di aver notato Bossetti e Yara in auto nel parcheggio del centro sportivo di Brembate nell’estate del 2010 e di esser stata colpita dal fatto che un adulto e una ragazzina discutessero animatamente. Aveva pensato a un padre e una figlia, anche perché il giorno dopo avrebbe visto il muratore al supermarket che comprava delle birre, tranquillo. La signora B si è fatta viva con i magistrati solo tre mesi dopo l’arresto di Bossetti, e questo genera già un primo dubbio: perché non subito, visto che la foto dell’uomo è uscita su tutti i giornali e le televisioni? Ma il problema, che dà anche un po’ di amarezza, è: se la signora B ha riconosciuto Yara in quella ragazzina che discuteva con un adulto in auto, perché non è andata dai carabinieri quattro anni fa, quando Yara è sparita? O invece crede di averla riconosciuta solo dopo l’arresto del muratore? O magari, cosa probabile, la sua memoria ha subito una suggestione? Dunque: Bossetti è innocente e sta subendo una grave ingiustizia, o è colpevole e i magistrati non riescono a dimostrarlo?
«Prove su Bossetti? Zero, ora liberatelo», scrive Alfredo Barbato su "Il Garantista". Di prova a questo punto ce n’è una sola: il Dna. E pure questa vacilla. Con una ricostruzione che può essere così sintetizzata, l’avvocato Claudio Salvagni ha presentato ieri una nuova istanza di scarcerazione per Giuseppe Bossetti, unico indagato per l’omicidio di Yara Gambirasio. L’atto di 13 pagine è stato consegnato al gip di Bergamo Vincenza Maccora. E’ un’iniziativa che viaggerà in parallelo con la precedente domanda, già respinta dal gip e dal Riesame, ora in attesa di essere discussa il prossimo 25 febbraio in Cassazione. Qualcosa è cambiato rispetto all’ultimo “no”, quello pronunciato dal tribunale della libertà nel mese di ottobre? Sì, e ai difensori dell’operaio accusato di aver ucciso nel novembre 2010 la ginnasta 13enne pare qualcosa di rilevante: «La presenza sulla cute, sugli abiti e nelle vie aeree di Yara di polvere di calce tipica dei cantieri edili non può essere considerata univoca della presenza di Bossetti», si legge nella nuova istanza di scarcerazione, «così come il dato sul suo cellulare (aggancia la cella di via Natta a Mapello oltre un’ora dopo la presenza del cellulare della vittima nella stessa zona) e la descrizione del fratellino di Yara di un possibile sospetto, non hanno alcuna carica cautelare, né costituiscono sul piano ontologico-processuale un indizio». Resta insomma solo l’esame del dna. Ma nei giorni scorsi si sono aperte visibili crepe anche in questo che sembrava un elemento granitico. Ci sono «acclarati dubbi scientifici», scrive Salvagni, e a giudizio dell’avvocato sarebbe la stessa Procura di Bergamo ad averli implicitamente ammessi. Come? Con l’acquisizione dell’ultima perizia, quella che il genetista Carlo Previderè, incaricato dal pm, ha effettuato sull’esame genetico. Dalla relazione emerge come «il Dna mitocondriale» trovato sui reperti, «non corrisponda con quello di Bossetti, contro una piena corrispondenza tra il Dna nucleare del presunto assassino con quello dell’indagato», circostanza «difficile da spiegare a dire di più esperti». A ottobre il Tribunale del Riesame di Brescia aveva ridotto alla sola prova del dna l’impianto probatorio. Nel momento in cui anche su questa emergono dubbi, è il ragionamento esposto dal legale nell’istanza, come si può continuare a tenere Bossetti in carcere? D’altronde, continua la tesi difensiva, «la scelta di non ricorrere al giudizio immediato dimostra, una volta di più, l’assoluta inconsistenza delle allegazioni indiziarie formulate dalla Procura. Se il compendio indiziario è esaustivo, allora si deve chiedere il giudizio immediato». L’aver desistito dal farlo, costituisce «un determinante fatto sopravvenuto che dimostra l’inesistenza degli indizi di colpevolezza». Il gip di Bergamo ha cinque giorni per decidere sulla nuova istanza di revoca della misura cautelare in carcere o di concessione, in subordine, di un’altra meno afflittiva come i domiciliari. Una mossa che, in caso negativo, consentirebbe alla difesa di ricorrere nuovamente al Riesame e quindi ancora in Cassazione
«Eh no, caro pm! Senza la prova, Bossetti esce», scrive Antonello MIcali su "Il Garantista". Mettiamola così. Se l’esame sul profilo mitocondriale è la prova del “nove” dell’analisi del profilo nucleare, semplicemente allora la prova non c’è. Insomma non funziona. Se fosse stata un’operazione algebrica, quindi, vorrebbe dire che chi l’ha fatta ha sbagliato i calcoli. Inoltre in questo caso non c’è nemmeno più il compito in classe da verificare (non trattandosi nello specifico di un accertamento ripetibile), e correggere alla bisogna. In sintesi è questo il ragionamento, e la metafora, pronunciati «in punto di diritto, oltreché di scienza» dall’avvocato Claudio Salvagni, difensore di Giuseppe Bossetti, il muratore in carcere da giugno con l’accusa di essere il killer della tredicenne di Brambate Sopra Yara Gambirasio, dopo che lo stesso perito della procura ha rivelato l’anomalia del profilo mitocondriale che non combacia con quello rilevato (due anni fa) dal nucleo del Dna che si vuole appartenere all’accusato. Ma se tale anomalia ha rimpolpato gli argomenti e con essi le speranze di ottenere finalmente la scarcerazione del suo assistito, da parte sua, l’accusa proprio ieri ha rincarato la dose dei propri con-vincimenti per i quali Bossetti è finora rimasto in carcere, rimandando al mittente tutti i dubbi sollevati dalla difesa in queste ore: «Quel Dna è di Bossetti; il profilo è stato oggetto di ampia e approfondita valutazione, la sua valenza probatoria non è pertanto in discussione». E per sottolineare che quei dubbi per gli inquirenti quasi «non esistono», a prendere la parola è stato lo stesso procuratore di Bergamo Francesco Dettori, con una lapidaria nota diffusa ieri mattina. Ma se gli inquirenti scelgono questo tipo di strategia comunicativa, naturalmente anche se sarà poi, come è giusto che sia, il processo il luogo dell’approfondimento, il combattivo legale non rinuncia alla propria: Salvagni in questi giorni è un fiume in piena, con un grande varietà di comparazioni logiche a portata di mano. «Sono stati commessi degli errori. Il mitocondriale non è di Bossetti, ma di un altro», continua a ripetere come un mantra il legale da giorni – insomma è come se mi dicessero che in una parte del mio Dna ci sono mio papà e mia mamma e nell’altro la vicina di casa: non so se è finalmente chiaro. L’anomalia evidenziata dal consulente Previderè dell’accusa però è solo l’ultima di una serie di riscontri che fanno acqua da tutte le parti, anche se discendono direttamente dal primo errore commesso, ovvero sul primo e non più ripetibile esame del Dna nucleare, del resto fatto con un grave vizio di forma (senza la difesa) e per noi dunque illegittimo. Insomma, l’intero quadro indiziario, come ha evidenziato lo stesso tribunale del Riesame di Brescia, è noto ormai a tutti che è venuto a cadere. La scarcerazione, infatti non è stata accordata in quell’istanza solo perché resisteva la cosiddetta “prova regina”, quella Dna…». Ecco perché, alla luce dei nuovi, seppur controversi sviluppi, Salvagni sta preparando una nuova istanza di scarcerazione, in attesa della prossima udienza in Cassazione del 25 febbraio: «Anche perché mi chiedo dall’inizio di questa vicenda come mai tutto questo accanimento terapeutico contro il mio cliente, che in un paese normale, con uno stato di diritto serio, dovrebbe a fronte di questi elementi e a prescindere dal processo, essere libero da tempo: mi chiedo come mai questo tipo di approccio non figuri in casi altrettanto mediatici come sono quelli di Garlasco, con Alberto Stasi che ha potuto difendersi da uomo libero o come nel caso della povera Elena Ceste, col marito indagato per omicidio e nello stesso tempo lasciato a casa con i suoi figli mentre si dipana l’inchiesta. In questo caso si è voluto il colpevole, anzi un colpevole, e subito». Il cattivo pensiero del legale, un tarlo di cui Salvagni non ha non ha mai fatto mistero, che rischia persino la dietrologia, starebbe nel grande investimento di risorse, economiche e umane, spese dagli inquirenti per portare avanti un’inchiesta così complessa, che ha subito virato decisamente nel campo delle analisi genetiche. «Mi prendo la responsabilità di questo pensiero. Lo faccio perché ne sono convinto e perché faccio questo mestiere con passione, la stessa con la quale difendo Bossetti, della cui innocenza sono sicuro: sono stati spesi oltre 6 milioni di euro. Non dico che il dato economico suffraghi errori e/o i convincimenti degli inquirenti, dico solo che in un momento storico dove una parte di addetti ai lavori, politica compresa, spinge per ampliare l’utilizzo delle indagini genetiche con quel che ne consegue a livello di banche dati di dna dove dovremmo finire tutti schedati e aziende che le gestiscono, questo tipo di approccio ha il suo peso. Per me, assolutamente negativo. Anche in termini di civiltà giuridica».
Le indagini in Italia non le sa fare più nessuno, scrive Lanfranco Caminiti su "Il Garantista". Edoardo Mori, magistrato in pensione dopo essere stato prima giudice istruttore, poi gip e infine al tribunale della libertà e che adesso gestisce il sito earmi.it dove raccoglie, fra l’altro, errori e orrori delle indagini scientifiche, dice: «I pm che chiedono una perizia alla Scientifica o al Ris sono come quelli che sulla salute di un congiunto chiedono informazioni al portantino». Marco Morin, fra i maggiori esperti mondiali di balistica: «A volte sono più fondate le ipotesi investigative elaborate dai poliziotti della Digos delle perizie prodotte dai loro colleghi della Scientifica». Giuseppe Fortuni, docente di Medicina legale a Bologna con quattro decenni di esperienza sul campo: «Nonostante tutte le tecniche scientifiche d’indagine si trovano meno colpevoli di prima». Già. Il clamore suscitato dalla sentenza di assoluzione di Amanda e Raffaele non è solo un risvolto della canea giustizialista che vuole il sangue, a ogni costo. È, piuttosto, lo sgomento di lasciare impunito un delitto, di lasciare una vittima senza una qualche giustizia. È una sconfitta dell’accusa, più che una vittoria della difesa, e la differenza non è da poco: non sono innocenti, sono non condannabili. I giudici dichiarano che sulla base delle prove raccolte non sono in grado di accertare una verità. Ovviamente, hanno fatto bene, in questo caso, a scegliere di non condannare senza la certezza di un giudizio. E hanno fatto male a chiudere ogni possibilità di revisione del processo. Per deciderlo, tutto dev’essere ormai così compromesso da non lasciare speranza di accertare alcunché. Come è stato possibile che in otto anni di processi nessuno si fosse reso conto che le prove valevano meno di niente? Viene da pensare, a esempio, che la condanna di Alberto Stasi – anche lui in un’altalena di sentenze – per l’omicidio di Chiara Poggi sia basato su una raccolta di prove ancora più labili di quelle che non sono bastate a condannare Amanda e Raffaele. Viene da pensare che le polemiche su Bossetti e il caso Yara siano ben più che un pregiudizio innocentista o antimagistratura. Viene da pensare che l’aleatorietà del giudizio – «la Cassazione che smentisce se stessa», come è stato detto per Knox e Sollecito – dipenda troppo dalla casualità del giudice cui sei affidato. Dai caratteri del giudice cui sei affidato. Questa però non è la perfettibilità umana dell’indagare e del giudicare. Questo è un pasticcio. L’abilità e la competenza giuridica, la capacità e l’acume di un avvocato come di un pubblico ministero fanno certo la differenza: questo è il principio per cui si dovrebbe garantire a ogni cittadino di avere un’adeguata difesa e non consentirla solo a chi può permettersi di pagare i principi del Foro e i migliori periti. Ci eravamo convinti però – ci avevano convinti però – col nuovo processo e il dibattimento e queste cose qua che tutta la giurisprudenza del mondo, tutta la sapienza giuridica venisse sempre più ancorata al rigore della prova scientifica. Che non fossimo ancora al tempo del processo Bebawi, quando marito e moglie si accusarono l’uno contro l’altra di avere ucciso l’amante di lei e la giuria incapace di dire chi fosse stato davvero il colpevole – se lui, lei o insieme – li mandò assolti entrambi. Due colpevoli di troppo – scrisse Oriana Fallaci. Non ce la bevevamo più, pensavamo. Due colpevoli di troppo sono diventati pure Amanda e Raffaele – uno c’è, è Rudy Guede, nella nuova figura di reato del «concorso da solo». Un colpevole basta e avanza, evidentemente. Non c’entra niente l’abbuffata di telefilm e fiction in cui le squadre dei forensic, la polizia scientifica, con un capello ritrovato in un sifone di lavello o una scheggia d’un faro d’automobile, risalgono all’assassino e al complotto che sta preparando una strage. Fiction, certo. C’entra solo che dalla fisiognomica di Lombroso, che pure nella sua orribile deformazione puntava a rendere scientifica la criminologia, pensavamo di avere fatto dei passi avanti nella tecnologia e nelle tecniche, nell’analisi di una scena del crimine, nella raccolta delle prove. Invece, così non è. Le figure chiave nella soluzione dei delitti rimangono il pentito e l’intercettazione. Ma pentito e intercettazione sono figure ricorrenti nelle associazioni criminali, non nei delitti “qualunque”. Pentito e intercettazione sono elementi “passivi” di un’indagine, e non a caso estremamente problematici. Il pentito confessa le cose più turpi, che servono all’indagine del magistrato, per i suoi scopi, che possono essere una pena ridotta, un cambio di identità, la distruzione di un clan nemico, una qualche vendetta. L’intercettazione, a parte tutte le questioni legate alla loro legittimità e ai loro abusi, ha limiti evidenti: si conversa, si cazzeggia, uno può ingigantire una cosa, per mille motivi, per darsi peso, per pavoneggiarsi, per incutere timore o rispetto, oppure minimizzarli, uno può dire una cosa solo per vedere l’effetto che fa sull’interlocutore, e così via. L’intercettazione non prova un bel niente, proprio come un pentito non prova un bel niente. Non sono fatti inoppugnabili, incontrovertibili, anzi sono sempre reversibili. Nella lotta alle cosche e ai clan, spesso possono consentire chiavi di lettura, possono servire a incrociare dati, a sovrapporre cose apparentemente lontane, proprio perché ci si trova di fronte fenomeni complessi e segreti. Non è così per gli omicidi. Il carattere “passivo” degli elementi-chiave di questi anni – intercettazioni e pentiti – ha finito col produrre una sorta di pigrizia intellettuale nelle indagini, una sorta di “pigrizia investigativa”. Se si ripercorrono alcuni dei casi più clamorosi e controversi della cronaca “nera” di questi anni, si rimane sconcertati dalla mole di errori nelle indagini. Ora sembra che il Dna risolva tutto, e investigatori e giudici si siano “impigriti”, convinti di avere in mano lo strumento risolutivo. Il Dna è uno straordinario strumento di indagine, ma solo se si seguono rigorose metodologie, dal primo istante delle indagini; se gli investigatori scientifici arrivano dopo altri, si è già creato un inquinamento della scena del crimine, spesso non più controllabile. A esempio, nel caso Anna Maria Franzoni e del delitto di Cogne si susseguirono oltre venti sopralluoghi nella casa del delitto ma solo dopo che per casa c’era stato un gran viavai di persone. Ancora nel caso di Cogne, le indagini non hanno mai portato al ritrovamento dell’arma del delitto. Si è ipotizzato che si trattasse di un mestolo di rame, di una piccozza da montagna, di un pentolino del tipo usato per bollire il latte o di altri oggetti, ma non è mai stata raggiunta alcuna certezza. L’arma del delitto, malgrado le approfondite ricerche non è mai stata trovata. Il professor Carlo Torre, cui era stata affidata inizialmente dalla famiglia Lorenzi la consulenza medico-legale passò diversi giorni nel laboratorio dell’Istituto di Anatomia di Torino per studiare i diversi modi in cui gli schizzi di sangue avessero potuto macchiare il pigiama azzurro ritrovato sul letto del piccolo Samuele. Per concludere, che – contrariamente a quanto sostenuto nelle indagini, che ipotizzavano se lo fosse sfilato dopo il delitto – l’assassino non poteva indossare quel pigiama macchiato di sangue. Per un motivo molto semplice: se quell’indumento fosse stato indossato da chi ha ucciso il bimbo di Cogne sarebbe stato sì sporco di sangue ma le tracce ematiche si sarebbero deformate nel momento in cui fosse stato sfilato. E così non era. Nel caso di Marta Russo i laboratori della polizia avevano scambiato una particella di ferodo di freni, ampiamente diffuse nell’aria di Roma, per un residuo di sparo e su di esso avevano costruito tutta la tesi accusatoria. Per non parlare della traiettoria del proiettile ricostruita sulla base di un solo punto e che, guarda caso, passava proprio per dove era stato trovato il residuo fasullo. Il 7 agosto 1990 in via Poma viene ritrovato il corpo di Simonetta Cesaroni. È stata immobilizzata a terra, qualcuno si è messo in ginocchio sopra di lei e l’ha colpita con un oggetto o le ha battuto la testa contro il pavimento facendola svenire. Poi, l’assassino ha preso un tagliacarte e ha iniziato a pugnalarla a ripetizione. Simonetta viene lasciata nuda, con il reggiseno allacciato, ma calato verso il basso, con i seni scoperti. Su uno dei capezzoli c’è una ferita che sembra un morso. Non vengono analizzati eventuali ritrovamenti di saliva attorno al capezzolo, posto che quella escoriazione sia dovuta a un morso. Dopo Pietrino Vanacore, portiere del palazzo, e Federico Valle, nipote di uno dei residenti, nel 2007, l’ex-fidanzato di Simonetta, Raniero Busco, viene formalmente indagato. Sono passati diciassette anni dal delitto. Nel 2009 il pubblico ministero chiede il rinvio a giudizio di Busco. Il giudice decide di ascoltare i cinque consulenti che hanno eseguito la perizia sull’arcata dentaria di Busco e il confronto tra l’arcata dentaria dell’imputato e il morso al capezzolo del seno sinistro di Simonetta Cesaroni. Viene anche convocato il consulente tecnico di Raniero Busco. I cinque periti del pubblico ministero – tra i quali un capitano del Ris – espongono i risultati della loro analisi sull’arcata dentaria di Raniero Busco e dimostrano, anche attraverso prove fotografiche, la perfetta compatibilità tra i segni del morso sul capezzolo del seno sinistro di Simonetta Cesaroni e i denti dell’imputato. Il giudice ascolta anche la relazione del consulente nominato dalla difesa di Busco, che ritiene la lesione sul capezzolo della vittima come compatibile solo con l’azione di un morso laterale per il quale non è possibile giungere a alcuna attribuzione; evidenzia pure che le incisioni dentali di Busco, se di morso si tratta, sarebbero state completamente differenti, escludendo quindi che sia lui l’autore della lesione sul capezzolo. Il giudice accoglie la richiesta del pubblico ministero e rinvia a giudizio Raniero Busco. A gennaio 2011, al termine del processo di primo grado, Raniero Busco viene riconosciuto colpevole dell’omicidio di Simonetta Cesaroni e condannato a 24 anni di reclusione. A aprile 2012, al termine del processo di secondo grado, Busco viene assolto dall’accusa del delitto Cesaroni per non aver commesso il fatto. La Procura ricorre in Cassazione e nel febbraio 2014 Busco viene definitivamente assolto. Morso, tracce di Dna, sangue mischiato, perizie sballate, tutto un pasticcio. Il delitto resta senza colpevoli; Simonetta rimane senza giustizia. Garlasco: nel settembre 2007 viene inviata alla procura di Vigevano una “relazione preliminare” che contiene l’accertamento sui pedali di una bicicletta di Alberto Stasi: è stato individuato un profilo genetico riconducibile, al di là di ogni ragionevole dubbio, alla vittima, secondo il Ris di Parma. Su quei pedali c’è il sangue di Chiara Poggi. Se ne convince anche il Pubblico Ministero incaricato dell’indagine, che, sulla base di quella relazione, dispone il fermo di Stasi. È il 24 settembre del 2007, quaranta giorni dopo il delitto. Il giorno seguente, il reparto scientifico dell’Arma manda una “nota tecnica” sugli esami del giorno prima: i risultati sono stati comunicati «senza procedere a ulteriori accertamenti». Un giorno dopo la consegna della relazione tecnica la posizione del Ris si fa più sfumata: il profilo genetico relativo alla vittima è solo «con elevata probabilità riconducibile a sangue». Passano altri due giorni e il 27 settembre il consulente tecnico della difesa di Stasi invia le sue osservazioni alla Procura: le analisi del Ris non dimostrano la presenza di emoglobina, quindi non si può parlare di sangue. Il gip considera “insufficienti” gli indizi raccolti e scarcera Stasi. Come si sa, i vari processi hanno poi finito per condannare definitivamente Stasi, e la bicicletta e i suoi pedali – forse non quella, forse non quelli – sono risultati poi determinanti. Più sconcertante era stato il fatto che una settimana dopo il delitto la salma di Chiara Poggi fosse stata inaspettatamente riesumata. I tecnici della scientifica devono obbligatoriamente prendere le impronte digitali sul cadavere per effettuare l’esclusione con quelle raccolte sulla scena del crimine. Era però successo che nei momenti immediatamente successivi alla scoperta del delitto nessuno lo aveva fatto. E parliamo adesso di uno dei casi più recenti e ancora aperti, l’uccisione di Yara Gambirasio e l’accusa nei confronti di Massimo Bossetti. Il Dna che ha portato in carcere Bossetti è stato estratto dal Ris da una traccia mista scoperta sugli slip di Yara. È una traccia mista, perciò va separata: da una parte Yara, dall’altra Ignoto 1. Gli esperti stimano che quella traccia sia composta per quattro quinti dal materiale biologico (forse sangue) di Ignoto 1 e solo per un quinto dal sangue di Yara. Succede però che il perito nominato dal pubblico ministero scopre e certifica che le proporzioni sono invertite: quella traccia sono per quattro quinti di Yara e solo per un quinto di Ignoto 1. Forse non cambia nulla per Bossetti. Il Ris ha proceduto con l’estrazione del Dna nucleare, quello che individua con la massima precisione solo un individuo nel mondo e quel Dna nucleare, estratto dagli slip di Yara, combacia con quello di Massimo Bossetti. È lui Ignoto 1. Viene però esaminato e riesaminato il Dna mitocondriale, quello cioè che trasmette all’individuo le informazioni genetiche da parte materna. E qui, misteriosamente, Bossetti scompare. Anzi, compare proprio un’altra persona, mai individuata. Chi è? Il problema vero è un’altra scoperta del perito del pubblico ministero: l’originaria traccia di Dna nucleare che ha portato all’identificazione di Massimo Bossetti sembra esaurita. Quindi, posto che Bossetti non compare nel Dna mitocondriale estratto dalla traccia degli slip, resta in piedi la prova del Dna nucleare. Se si volesse ripeterla in sede processuale non sarebbe però piùpossibile. E questo, per Bossetti, può cambiare le cose. Non sono un esperto di giudiziaria, non ho mai letto una sola carta processuale dei casi riportati, e mi sono limitato a riprodurre quanto spulciato nelle cronache, il che andrebbe di sicuro tarato. Peraltro qui non si vuole dare la croce addosso a nessuno. Ci sono stati tanti casi in cui le perizie sono state determinanti per accertare la verità. Basta però qui riportare le parole dell’ex generale Luciano Garofano, a lungo responsabile del Ris di Parma, e “volto noto” di tante trasmissioni televisive: «La polizia giudiziaria ha fatto passi di gigante nella tecnica del sopralluogo e negli esami di laboratorio ma molto resta da fare. Sulla scena del crimine dovrebbero andare solo specialisti puri che non abbiamo». Suona come una responsabile constatazione, piuttosto che una voce dal sen fuggita. E allora perché non li rifondiamo questi laboratori, perché non li formiamo meglio questi esperti, questi tecnici, questi periti? Perché consideriamo ogni perizia come fosse una pistola fumante e non qualcosa che va analizzato, considerato, soppesato, riscontrato attraverso altri mezzi di investigazione? Perché si è talmente impigrita l’indagine, affidandosi esclusivamente a elementi tecnici la cui ponderabilità è quasi sempre controversa? Cosa fanno i pubblici ministeri, i passacarte dei laboratori scientifici? Cosa fanno i pubblici ministeri, per sapere della salute di un congiunto chiedono informazioni al portantino? Io credo sia questo il vero problema. La sentenza Knox-Sollecito a me non dà alcun sollievo: qualcuno deve dare conto a Meredith Kercher.
Massimo Bossetti. L'ex giudice Edoardo Mori indica i percorsi metodologici che i giudici dovrebbero seguire al momento di valutare le analisi sul Dna battezzato ignotouno. Il caso di Yara Gambirasio e il DNA. Articolo dell'ex Giudice Edoardo Mori da Earmi.it. Il caso dell’uccisione della ragazzina Yara Gambirasio sarà il tormentone delle cronache giudiziarie dei prossimi anni e sarà tutto incentrato sul valore della prova basata sul DNA dell’indagato. Io non so chi sia colpevole e non ho idee precostituite perché ciò è la prima cosa che un buon giudice ha imparato a non avere. Solo chi deve giudicare ha in mano tutti gli elementi sufficienti per stabilire se esiste una prova esente da ogni ragionevole dubbio. Né voglio spacciarmi per esperto di DNA perché non ho alcun titolo per farlo. Però posso indicare quali sono i percorsi metodologici che si devono seguire per applicare questa prova nel campo penale. Il giudice penale non essendo un tuttologo che si può sostituire ai periti deve avere la preparazione culturale e mentale che gli consente di capire se un ragionamento sottopostogli da un esperto scientifico ha sufficiente validità per poter essere accettato. Molti sono convinti che individuare il DNA dell’autore di un crimine sia un po’ come leggere la targa di un’autovettura, che se dallo strumento esce una sequenza desossiribonucleotidica trovata sulla scena del crimine che coincide con quella dell’indagato si ha la certezza che egli era sul luogo del delitto. La realtà è molto diversa perché il 99,9% degli individui hanno una sequenza eguale e perciò l’analisi viene svolta solo su alcune sezioni variabili di DNA secondo il metodo sviluppato nel 1984 dal genetista britannico Sir Alec Jeffreys. Questo metodo è stato ritenuto generalmente affidabile, ma ora cominciano a nascere dubbi proprio come è avvenuto per le impronte digitali: per le quali ci si è accorti che non è affatto come leggere la targa di un’automobile e che gli errori sono sempre possibili e che anche la presenza di numerosi punti di coincidenza non garantisce una identificazione al 100%. Precisiamo che le analisi possibili sono di due tipi; quella sul DNA nucleare e quella sul DNA mitocondriale (MtDNA). La prima è molto precisa, ma i campioni non si mantengono a lungo e non resistono all'impatto ambientale; inoltre non è possibile fare indagini familiari sul ramo femminile. Perciò nel caso in esame (quello sulla morte di Yara), l’analisi d’obbligo è quella da farsi sul MtDNA. Questa però, ai fini identificativi, non dà risultati decisivi, ma solo indicativi e perciò il risultato può essere espresso solo in termini statistici. Sul problema della utilizzazione del DNA nel processo penale rinvio al testo The Evaluation of Forensic DNA Evidence del Committee on DNA Forensic Science, Commission on DNA Forensic Science. National Research Council del 1996, scaricabile su internet e che ben espone gli entusiasmi iniziali. I dubbi però emersero rapidamente e nel luglio 2012 William C. Thompson, professore e presidente del Dipartimento di Criminologia Law & Society presso l'Università della California di Irvine, scriveva un saggio molto critico, Forensic DNA Evidence: The Myth of Infallibility in cui affermava: Anche se generalmente abbastanza affidabile (soprattutto in confronto ad altre forme di prove spesso utilizzate nel processo penale), il test del DNA non è e non è mai stato infallibile. Errori nel test del DNA si verificano regolarmente. La prova del DNA ha causato false incriminazioni e false condanne, e continuerà a farlo. Sebbene il test del DNA porti ad incriminare la persona giusta nella grande maggioranza dei casi, il rischio di falsa incriminazione è sufficientemente elevato da meritare seria considerazione circa l’uso della banche dati del DNA. Per capire la probabilità di una coincidenza casuale, è importante capire che cosa sia un profilo DNA e come vengono confrontati i profili di DNA. I laboratori di polizia scientifica tipicamente “classificano” i campioni utilizzando kit per il test commerciali in grado di rilevare le caratteristiche genetiche (chiamati alleli) in vari loci (posizioni) sul genoma umano. I kit di prova utilizzati negli Stati Uniti in generale esaminano i 13 STR loci selezionati dall'FBI per il CODIS, la banca dati nazionale del DNA. Alcuni dei kit di analisi più recenti possono anche esaminare due ulteriori loci STR. Per ogni locus STR, ci sono una serie di diversi alleli (generalmente tra i 6 e i 18) che una persona può avere. Ogni persona eredita due di questi alleli, uno da ciascun genitore. I numeri sono utilizzati per identificare gli alleli e la coppia di alleli in un particolare locus costituisce un genotipo. Quindi una persona può avere un genotipo (per un locus chiamato D3S1358) del "14, 15", mentre un'altra persona ha il genotipo "16, 17". Il set completo di alleli rilevati in tutti i loci per un dato campione è chiamato profilo del DNA. Nel descrivere i profili di DNA, la gente a volte parla del numero di loci che questi comprendono. In casi esaminati negli ultimi anni, i campioni probatori da scene del crimine spesso producono profili del DNA incompleti o parziali. Quantità limitate di DNA, degradazione del campione o presenza di inibitori (contaminanti) possono rendere impossibile determinare il genotipo ad ogni locus. In alcuni casi il test non fornisce alcuna informazione circa il genotipo di un particolare locus; in alcuni casi uno dei due alleli in un locus sarà "drop out" (non identificabile). Poiché i profili parziali contengono un minor numero di marcatori genetici (alleli) rispetto alle schede complete, è più facile che vi siano coincidenze casuali. La probabilità di una corrispondenza casuale (in pratica non si trova il proprietario del vero Dna ma una persona a caso) è più alta per un profilo parziale rispetto a un profilo completo. Un'ulteriore complicazione è che i campioni probatori sono spesso miscele. Poiché può essere difficile dire quali alleli sono associati con il suo contributore in un campione misto, ci sono spesso molti profili diversi (non solo uno) che potrebbero essere coerenti con un campione misto. E poiché così tanti diversi profili possono essere coerenti con una miscela, la probabilità che un non-contribuente possa, per coincidenza, essere "incluso" come un possibile contributore per la miscela è di gran lunga superiore nel caso di una miscela che nel caso di un campione puro. Scritto questo, il professor Thompson dimostra poi come il rischio di coincidenze e falsi aumenti sia più alto quanto più ampio è la base di ricerca e richiama espressamente il caso di ricerche svolte su base familiare. "I problemi principali sollevati dalle ricerche familiari consistono nel fatto che molto spesso conducono a fare test a persone innocenti. Vale a dire, a persone che non hanno il profilo e la congruenza sufficiente che, con la loro frequenza, potrebbero falsamente incriminare persone innocenti attraverso i "coincidental matches" (coincidenze casuali). La ricerca familiare può aumentare il numero di persone falsamente incriminate perché aumenta la dimensione effettiva della popolazione oggetto di monitoraggio genetico. Maggiore è la dimensione effettiva delle persone controllate e maggiore sarà la probabilità di errore". Il problema è che nel caso in cui più DNA sono mescolati fra di loro non si riesce a scinderli nettamente, ma si lavora su frammenti molto piccoli il cui valore probatorio può essere espresso solo sul piano statistico; è un po’ come se invece di dover ricercare una targa precisa, si disponesse dei singoli numeri e da essi si dovesse risalire alla targa originaria stabilendo quale sia la combinazione più probabile. Il problema è tanto complesso che si sono dovuti proporre nuovi modelli statistici. Scrivono Christopher D. Steele and David J. Balding in Statistical Evaluation of Forensic DNA Profile Evidence, novembre 2013: “La valutazione del peso delle prove per profili di DNA forensi è stata oggetto di controversie fin dalla loro introduzione oltre 20 anni fa. Sono stati compiuti notevoli progressi per i profili di DNA standard, ma sono emerse nuove problematiche negli ultimi anni con l'avvento delle tecniche di profiling più sensibili che consentono di recuperare profili da minuscole quantità di DNA eventualmente degradato. Questi profili di DNA a basso riscontro soffrono di effetti stocastici avanzati, tra cui dropin, dropaut and stutter, che pongono problemi per la valutazione del profilo del DNA. (...) Occorre servirsi di metodi che usano la presenza-assenza di allele e quelli che utilizzano altezze dei picchi di elettroferogramma, concentrandosi sul rapporto di verosimiglianza, come misura di peso probatorio”. È chiaro quindi che la prova non può essere fornita con valutazioni a braccio ma che occorrono persone specializzate al massimo livello, che dimostrino di saper usare tutte le tecnologie più avanzate e che siano in grado di fornire un preciso dato statistico sul valore probatorio delle coincidenze riscontrate. Un conto è eseguire un accertamento su di un cucchiaio di sperma (cosa che ormai ogni laboratorio di polizia può fare), altra cosa è ricercare uno sconosciuto entro un vastissima popolazione, partendo da scarso materiale inquinato e deteriorato. È poi ovviamente necessario disporre di materiale sufficiente per fare adeguate nuove analisi. In mancanza di ciò è inutile andare avanti perché elementi vaghi di sospetto (il sospettato era in zona, da ragazzo guardava le ragazze, ecc.) non servono per costruire una accusa. L'ex giudice Mori scrisse l'articolo che ho sopra postato nel settembre 2014. Qualche mese dopo, esattamente nel gennaio 2015, completava il suo pensiero scrivendo: Leggo ora che la perizia eseguita da un genetista universitario ha stabilito che per due anni la giustizia è corsa dietro alle farfalle perché ha fatto fare accertamenti distruttivi senza i dovuti avvisi ad eventuali indagati, perché gli accertamenti sono stati sbagliati confondendo il DNA della vittima con quello di un ignoto, perché si è creduto di trovare una corrispondenza fra questo ignotouno e l'attuale indagato mentre mancava ogni corrispondenza significativa. Come dire che sono corsi dietro alle farfalle ed hanno preso... un pugno di mosche! Ora come unica prova avrebbero dei vaghi filmati da cui forse si potrà concludere che si vede proprio il furgone dell'indagato là dove non doveva essere. Che il caso sarebbe finito cosi, come tanti altri, lo avevo già scritto il 23 settembre 2014; non sono esperto di DNA, ma conosco abbastanza il metodo con cui si fanno le indagini (le ho fatte solo per 40 anni!) per sapere che la prova del DNA in un caso complesso non può essere affidata ai laboratori di Polizia. Ma è concepibile che non ci arrivino i pubblici ministeri, incaricati per legge di dirigere le indagini, i quali insistono a credere che certe perizie, come ad esempio quelle sui residui di sparo o sulla comparazione di proiettili, le possa fare anche una scimmia ammaestrata a battere i tasti di una macchina? A me, per capire il problema del DNA è bastata una ricerca di venti minuti in Internet. E visto che io non sono un genio, come considerare chi ci ha impiegato due anni? (Edoardo Mori).
Massimo Bossetti. Dopo mesi trascorsi a incensare biologi e laboratori, la procura rifiuta nuove analisi sul Dna e il giudice l'accontenta... coda di paglia? Scrive Massimo Prati su "Albatros Volando ControVento". Il Gup Ciro Iacomino ha negato nuove analisi sul Dna rivenuto sugli slip di Yara. Quel Dna chiamato ignotouno che tiene in carcere Massimo Bossetti nonostante sia "particolare" causa mitocondriale, che non è di Bossetti, e del fatto che la componente maggioritaria che si trovava nella traccia mista aumenti o diminuisca a seconda di chi la analizza. A volte la parte maggioritaria è dell'imputato... altre è della vittima. Ma il Gup Iacomino è da capire. Come può un giudice di 45 anni prendere decisioni così importanti, quando i media stanno in agguato e sono pronti a colpire? Come prendere una decisione normale, che per legge andava presa, quando la procura si oppone e c'è il rischio che nel frattempo il "muratore assassino" possa uscire dal carcere per scadenza dei termini? No, troppo rischioso sia per lui che per chi ha negato il consenso. Quindi per la dottoressa Letizia Ruggeri. Ed è qui che casca l'asino e rischia di spaccarsi il muso! Perché la procuratrice si è opposta a una nuova analisi, dato che è certa della bontà del lavoro svolto da più laboratori e di non aver sbagliato persona? Forse che dopo i milioni spesi in questi anni le scocciava di far spendere qualche altro euro allo stato? Dopo tanti mesi passati a pubblicizzare la professionalità di tanti biologi e laboratori va a negare una verifica che quei laboratori e quei biologi li avrebbe incensati rendendoli lustri come nessun altro laboratorio e biologo al mondo? E il giudice perché l'ha seguita negando l'analisi? Sì, sono tanti i giudici che preferiscono l'accusa alla difesa, ma poi devono motivare e spiegare come l'hanno ragionata perché altri giudici controlleranno il loro lavoro. Il Gup Iacomino come l'ha ragionata? Non sapeva nulla del caso che si presentava di fronte a lui (questo vorrebbe la buona giustizia) o grazie ai media era già a conoscenza di ogni piccolo particolare? Anche per lui, come per tantissimi altri compreso il ministro Alfano, il nucleare basta e avanza per dire in tutta certezza che sugli slip di Yara, dopo tre mesi trascorsi all'aperto sotto acqua e neve, a poche decine di metri dal sentiero sterrato che collega via Bedeschi a via Paganini (che ancora in zona c'è chi chiama via Bedeschi perché anni fa era il proseguimento della stessa via Bedeschi), non notato da nessuno (e sì che ne sono passate di persone su quel campo, fra giardinieri, smaltitori di rifiuti anonimi, frequentatori della discoteca, accompagnatori di cani - compresi di cani - piloti d'aereo, aeromodellisti, puttanieri e giovani in scooter), c'era il Dna di Massimo Bossetti? Anche per lui vale il discorso di certi giornalisti e biologi che non danno importanza al mitocondriale (perché oramai obsoleto) e dicono che anche in mancanza della parte più resistente del Dna (il mitocondriale, appunto) l'unica analisi che conta è quella che ha "scoperto" il nome di ignotouno grazie al nucleare che dopo tre mesi sotto le intemperie non doveva neppure più esistere? Questa è l'unica verita che conosce chi cerca di aggiustare il cappio attorno al collo dell'imputato. Verita senza l'accento, perché se il mitocondriale non serve per stabilire l'origine di un Dna neppure l'accento serve per identificare la parola verità... tanto il termine va bene comunque, dato che per certuni l'accento non serve a nulla e non cambia il significato alle parole. Motivo per cui, visto il nucleare che aumenta o diminuisce a seconda di dove si trovi, per tanti faciloni dell'informazione parziale - che hanno un osso gratis e un posto fisso nelle procure (o che non ne hanno un'idea di cosa significhi quanto gli viene dettato) - con la parola ignotouno si deve identificare Massimo Bossetti. E questo senza fare ulteriori analisi, quelle che la legge vorrebbe fatte alla presenza dei periti della difesa a garanzia della bontà del lavoro svolto dall'accusa, perché è chiaro che se anche ci sono piccole differenze la sostanza non cambia. E questo dimostra come per certuni il "pero" e il "però" siano la stessa cosa. Senza ombra di dubbio, per loro entrambi i termini identificano un albero che "sforna" frutti conici. Frutti che se paragonati a una testa, col gambo a distinguere il capello, fanno capire quanto scarso possa essere il posto riservato alla materia grigia su una capa tosta. E a questo proposito oggi qualcuno ha scritto che le chiacchiere stanno a zero. Che contro il Bossetti ci sono il Dna nucleare e le fibre dei suoi sedili. Due prove regina circondate da una serie di indizi gravi e concordanti che insieme formano un quadro accusatorio senza vuoti e senza incongruenze. Eh già! Un quadro accusatorio senza vuoti e senza incongruenze... ed allora, se il quadro è più che sicuro, per quale motivo la dottoressa Ruggeri non vuol rifare l'analisi del Dna? Quell'analisi "sicura" che senza ombra di dubbio, anche se rifatta, certificherebbe che Massimo Bossetti è ignotouno? E qui mi sovvengono alcune riflessioni. Ad esempio: "Come dice sempre chi si insospettisce quando viene a sapere che un indagato si è rifiutato di rispondere alle domande del procuratore?" "Se fosse stato innocente avrebbe risposto. Se non ha risposto significa che ha la coda di paglia ed è colpevole". Quante volte abbiamo letto simili commenti? Per cui, rapportando il tutto a quanto non ha voluto oggi la procuratrice, le stesse persone, se coerenti, adesso devono per forza pensare, di conseguenza: "Se la pubblica accusa fosse stata sicura del Dna l'incidente probatorio l'avrebbe accordato. Se non l'ha voluto significa che ha la coda di paglia e non è sicura che quel Dna sia di Massimo Bossetti". E allo stesso modo si deve pensare del giudice che l'incidente probatorio l'ha negato. Perché l'ha negato? Un buon processo non dovrebbe appurare una verità e cristallizzarla in maniera definitiva? Perché restare coi dubbi quando si potrebbero sciogliere in un paio di mesi? Forse perché cadendo la prova del Dna, a seguire cadrebbero come birilli anche le fibre (identiche su tutta la serie Iveco che monta quel tipo di sedili, anche sui pullman che portano a scuola) e tutti quegli indizi che possono apparire indizi solo se il Dna è certamente di Massimo Bossetti? Questo è un caso strano contornato da tante cose strane. A iniziare dall'arresto in grande stile messo in atto in un cantiere di lavoro da una decina di carabinieri in borghese. Il filmato, ormai l'avrete visto, ci mostra Massimo Bossetti che dopo aver lavorato alla soletta del tetto, quindi stando piegato per più ore, si mostra agli agenti e ancora con la schiena bloccata dalla fatica si sposta per andare nel punto in cui l'impalcatura alta permette di scendere. In pratica dove si trova la scala a pioli che porta dall'impalcatura alta a quella bassa. I carabinieri, che già molto bene conoscono il suo volto e l'hanno riconosciuto, iniziano a innervosirsi e a gridare che vuol scappare. Alcuni corrono, altri si aggrappano alle impalcature, altri ancora vagano fra sabbia e ciottoli di quello che per loro è un "bordello" (e qui vien da pensare a quanto Dna raccoglierebbero gli indumenti intimi di una ragazzina stesa a terra in un luogo del genere). Poi la videocamera arriva all'impalcatura bassa, dove il muratore è in ginocchio ed è bloccato da quattro agenti senza manette. Fortunatamente si fa avanti chi le manette le ha, così lo si può ammanettare e far scendere in maniera scomposta ma con tutte le cautele. Solo a questo punto gli chiedono i documenti. Ed è a questo punto che Bossetti a sua volta chiede, prima agli agenti poi al capocantiere: "Si può sapere cosa è successo?". Il capocantiere non lo sa e i carabinieri non glielo dicono anche se le norme europee prevedono che la persona fermata dev'essere informata dei motivi dell'arresto, salvo che una sua reazione violenta lo impedisca. Ma questo con Bossetti non si è fatto. Lui è stato ammanettato, poi circondato da una decina di poliziotti che gli hanno chiesto dove fossero i suoi documenti e le chiavi del furgone verde (segno che ben conoscevano anche il furgone). E' stato prima perquisito poi, dopo aver chiamato il capocantiere con le mani sporche per fare il cambio stivali-scarpe, dissetato mentre una sirena sulla strada informava tutti i residenti che qualcosa stava accadendo. E quando è stata l'ora di partire, circondato dal nugolo di carabinieri e osservato dai colleghi di lavoro e dagli abitanti del luogo, neppure gli hanno detto dove andavano. Alla fine, in pompa magna e a sirene spiegate come nelle migliori tradizioni, l'hanno portato in caserma e fatto fermare nel cortile dove, fra foto e video, è stato osservato con cura dal comandante finché, avvolto dal sottofondo musicale del Fernet Branca, è stato accompagnato nella cella di sicurezza. E mi chiedo: fargli una telefonata per chiamarlo in caserma dove arrestarlo dopo avergli detto il motivo dell'arresto no? Se l'avevano fermato trenta ore prima per fargli l'etilometro, e lui si era sottoposto all'analisi senza far problemi, se era andato a lavorare dopo aver dormito a casa con la sua famiglia, senza cercare nessuna fuga, se era controllato (dato che si conosceva sia il suo volto che dove lavorava che quale furgone avesse) dove mai poteva scappare? E con cosa avrebbe potuto tentare la fuga? Col furgoncino Iveco? Perché non fargli una telefonata per vedere se davvero cercava di scappare, così da capire di non sbagliare nell'arrestarlo? E poi, perché arrestarlo visto che oramai gli anni erano trascorsi, che trenta giorni in più non cambiavano nulla e in quel mese si poteva metterlo in allarme e intercettarlo per sentire quali parole avrebbe detto? Questo è un caso strano contornato da troppe cose strane. Bossetti, ormai s'è capito, in primo grado verrà condannato all'ergastolo nonostante abbia dalla sua una Difesa più che agguerrita e le tavole della legge. Rifiutare di tutelare la verità con un incidente probatorio che certifichi la provenienza di quel Dna non può che significare che la mente di chi lo deve giudicare ha già emesso la sua sentenza. E questo non è ciò che vuole uno stato di diritto.
Il caso Bossetti e quel Dna finito colà…, scrive Gilberto Migliorini su "Albatros Volando ControVento". Occorre dire che il tamburo mediatico ha fatto meglio perfino del Bolero di Ravel, in un crescendo ritmico davvero travolgente dal sussurrato al maestoso e perfino con un gong che dà la sveglia ai perplessi, agli indecisi e ai dormienti. A forza di scoop giornalieri con qualche nuovo indizio scodellato in diretta, si sono superate ormai le 60.000 pagine? Niente male come performance… perfino meglio dell’Enciclopedia Britannica. Si tratta ovviamente solo dei preliminari in attesa di un dibattimento nel quale altre sequenze di caratteri potranno prodursi in tutte le infinite combinazioni possibili con la discesa in campo degli esperti e il relativo contraddittorio. Al confronto la labirintica biblioteca de Babel finirà per impallidire, occorrerà costruire un magazzino dedicato ad accatastare cotanta dovizia di elementi, forse un nuovo chip che possa tener dietro a quella mole che cresce esponenzialmente. Le sale esagonali della biblioteca infinita di Jorge Luis Borges dovranno espandersi per far posto a tutte quelle espressioni sintatticamente ineccepibili ma speriamo di senso compiuto e non solo come suggestive e capziose illazioni…Qualunque ‘cagata’ il povero Bossetti avesse detto o fatto, quante volte fosse andato al gabinetto, se avesse navigato in qualche social network, se avesse o non avesse telefonato alla moglie, se fosse andato in birreria piuttosto che a farsi una lampada, magari perfino a ballare, se si fosse recato al cimitero o al campo di Chignolo come migliaia di altri curiosi, se fosse o non fosse in crisi con la moglie, se per tornare a casa distante un tiro di schioppo passasse nei pressi della palestra come d’abitudine… qualunque evento potrà rientrare nel teorema, integrarsi come corollario, lemma e proposizione, meglio ancora degli Elementi di Euclide? E poi ci sono quelli che hanno colto i segni di colpevolezza, testimoni occasionali che col senno di poi hanno rilevato comportamenti sospetti e con memoria davvero prodigiosa hanno stampato nella mente i timbri di voce e tutte le posture sospette dell’inquisito. Anche qui nel blog qualche anonimo ci ha già messo la croce e fosse per lui il processo sarebbe una inutile manfrina, una perdita di tempo dal momento che la matematica non è un’opinione e la genetica è come aver fede nella Santissima Trinità. Tutta la fenomenologia del testimone invariabilmente calato nella suggestione mediatica trova consonanza con l’arguto osservatore di turno che meglio di un Sherlock Holmes rileva presagi e individua volti, orari e date del tempo che fu, tutte le icone e la semeiotica comportamentale dell’assassino. Per non parlare di tanta criminologia e psichiatria che sanno tradurre in ermeneutica perfino uno starnuto o un lapsus freudiano. Nemmeno Baruch Spinoza con la sua Ethica Ordine Geometrico Demonstrata avrebbe potuto in modo così incisivo costruire il suo sistema filosofico, con altrettanta logica consequenziale, mettendo insieme perfino le tele di ragno, le voci onomatopeiche, le espressioni del viso e financo gli squilli telefonici. Ormai gli assassini bisogna che lo sappiano che basta qualche nanogrammo lasciato su uno slip, rosolato al sole, sbatacchiato al vento e ai rigori dell’inverno, dilavato per mesi all'inclemenza della pioggia e poi centrifugato in qualche agitatore molecolare… e la frittata è fatta. E se la scienza te lo dice, allora tutto quello che fino a ieri era normale amministrazione finisce per assumere i contorni rivelatori di un profilo criminale. Anche l’aver respirato può costituire indizio da assommare a un castello accusatorio che cresce come la torre di Babele sommando indizio su indizio, embricati l’uno all'altro al punto tale che se quello che sta alla base (quel Dna di ottima qualità) venisse meno, l’edificio crollerebbe come un castello di carte che si affloscia su se stesso. L’implosione sarebbe però perniciosa per quei milioni di euro spesi nell'avveniristica indagine costruita sui nucleotidi e deleteria per il metodo investigativo all'avanguardia. La scienza trae indizi e prove perfino dal battito cardiaco, dalle dilatazioni pupillari, dall’eye trecking che riflette le operazioni mentali e cognitive, dalla neuroimaging con la connessa indagine sulla capacità di autocontrollo e di regolazione dell’aggressività… Se si possono leggere le preferenze di un consumatore dai suoi occhi, dai movimenti oculari che riflettono le operazioni mentali e cognitive, se si possano correlare le dimensioni della pupilla con le risposte emotive… niente di strano che ci si possa riferire a tutti quegli atti del vivere quotidiano, alle parole scambiate tra parenti, alle comunicazioni epistolari… alle birre bevute al pub o al numero di chiamate del telefonino… e a tutte quelle forme comunicative dove un uomo cerca di raccapezzarsi del perché e del percome si trovi nella situazione diciamo un po’ scomoda di essere accusato di un delitto. Le macchine della verità hanno fatto scuola con quel positivismo ormai trasferito dal marketing a una criminologia vagamente lombrosiana e a una scienza forense variamente influenzata dalle innovative istanze tecnologiche. Dov'era l’imputato quella sera di quattro anni prima? La risposta pare ovvia ai cultori del giallo, se non lo sai e se tua moglie non lo ricorda sono cavoli amari. Come se a persone in stato di stress, disperate, depresse, incredule, sconvolte, disorientate… si pesasse ogni parola e se ne ricavasse il senso, decontestualizzando e interpretando secondo l’ermeneutica più congeniale. Per i media si tratta di spaccare il capello in quattro, distillare, separare goccia a goccia, pesare l’imponderabile… e trovare prove e indizi laddove a un intelletto ingenuo e sprovveduto parrebbe solo di reperire quella banale e insignificante cronistoria del quotidiano mestiere di vivere, con tutte le sue contraddizioni e le sue insignificanze. Occorre dirlo… le pinzillacchere e i non senso - quelle stesse situazioni che mutatis mutandis ci appartengono, per quanto tendiamo a rilevarli come indizi nei nostri interlocutori - gli altri li considerano alla stessa stregua nei nostri confronti, come segno rivelatore di colpevolezza, se il caso vuole che siamo proprio noi l’oggetto di una attenzione inquisitoria. Chiunque può essere non solo sospettato di un delitto se una goccia di umore si trova nel punto giusto e se il laboratorio ne certifica la provenienza dall’igp del suo schema biologico, ma anche diventare un caso da manuale di una serie ininterrotta di indizi e di prove rilevati col senno di poi, alla luce e alla logica consequenziale dei nanogrammi rivelatori. In quel caso, nella nostra biografia esistenziale si potrebbe reperire quanto serve per costruire, anche in assenza di altri elementi che non siano solo immaginifici e tirati per i capelli, un bel profilo da assassino con tanto di pedigree. Nel caso ipotetico si possono allora collocare tutte le cose al posto giusto per dipingere proprio noi come i perfetti protagonisti del delitto. La nostra immancabile fotografia apparirebbe con l’espressione da criminale. In un diverso contesto, magari di un matrimonio o di una festa di laurea, la nostra icona sarebbe perfino sembrata benevola e accattivante. Ma tant'è… quando c’è quel profilo di sintesi proteica protocollata con tanto di numero di repertorio, perfino la foto della prima comunione rimanda un’immagine poco rassicurante con i tratti inconfondibili dell’assassino… Suggestione del Dna come acronimo che nell'immaginario collettivo è diventato come una sindone o come lo stinco di un santo (a rovescio)? È ormai palese la confusione tra determinismo (la certezza della individuazione del colpevole) e probabilismo (dove nella probabilità rientra non solo l’impronta digitale genetica, ma anche quella dell’errore inevitabile che cresce al crescere della pesatura delle sequenze e a tutti quei limiti dell’umano nella preparazione del materiale, del suo degrado e di tutti quei fattori imponderabili che rendono l’elemento probabilistico più o meno valido o aleatorio). Proviamo a fare un esperimento mentale, immaginiamo di abitare nei pressi di una località dove è stato compiuto un delitto e magari che proprio il nostro Dna, ci dicono, sia stato isolato sul povero cadavere che ha fatto un bagno di sole, di pioggia e di neve per alcuni mesi all'addiaccio e alla mercé di chiunque, uomini e animali che siano. Proclamiamo la nostra innocenza, non sappiamo e non capiamo come diavolo possano i nostri polimeri esser finiti sul corpo del reato. Sollecitati a dare una spiegazione lavoriamo di fantasia, anche perché un conto è dire che sul luogo del delitto è stato rinvenuto un oggetto che ci appartiene, che so, le nostre chiavi di casa, il nostro fazzoletto, il nostro coltello… e un conto che si tratta dei marcatori genetici, di una sequenza numerica... qualcosa che appartiene al dominio dei segni grafici, della disposizione delle lettere a formare parole che nulla hanno più di concreto come invece può ancora essere un’impronta digitale con la sua tridimensionalità. Quello del Dna è il regno di Flatlandia, quel mondo astratto e bidimensionale dove i codici sono mere disposizioni di un prima e di un dopo, dove, scambiando di posto le lettere, i segni assumono significati diversi in ragione di un mondo della vita in gran parte indecifrabile. No, non si tratta di una parte di noi, di un oggetto che ci appartiene, ma soltanto di un codice che si suppone ci rappresenti, così come il codice fiscale (non il tesserino con su scritto lettere e numeri), ma il suo sistema simbolico (con tutta l’incertezza e l’indeterminazione con la quale chicchessia può trascrivere la ‘nostra’ rappresentazione alfanumerica in modo errato, per una semplice svista - come talvolta accade nella dichiarazione dei redditi - un’omissione o magari anche volontariamente, o per un trasferimento per contatto, clonazione, dislocazione... Il fazzoletto che si suppone sia il nostro non ha più niente di fisico, è la mera trascrizione simbolica di uno schema. Certo, non per questo privo di valore, anzi rappresenta un indizio formidabile per un’indagine, pur essendo imponderabile. Se un’impronta digitale conserva la sua struttura di realtà, sia pure ricavabile mediante l’ausilio di strumenti tecnici adeguati per poterne cogliere protuberanze e avvallamenti micrometrici, per il Dna la realtà è quella dei semiofori, di uno schema che va oltre i cinque sensi, nell'invisibile, e implica un procedimento di decodifica. Tale decodifica comporta però l’astrattezza di un dato in sé insignificante se non trova altro riscontro concreto se non quello di un codice in chiave statistica. Per ricorrere a una metafora è la stessa differenza che passa tra un fazzoletto che è stato trovato sulla scena del crimine, e che incidentalmente è il nostro in quanto sullo stesso è ricamato fisicamente il nostro nome e cognome con dei bei fili dorati (salvo il fatto che può esserci finito lì accidentalmente, ma allora potremmo ancora spiegare come l’abbiamo perso o ci è stato sottratto), e, viceversa, il nostro nome e cognome, su un fazzoletto, ricavandoli da come è stato ripiegato essendo proprio quello il modo nel quale lo teniamo nel taschino della giacca. Certo sarebbe ancora un ottimo indizio, ma nel caso non potremmo di sicuro spiegare il come e il perché di quella piegatura (che costituisce per così dire solo un segno grafico replicabile casualmente o volontariamente, comunque secondo un pattern statistico e sempre che la piegatura sia stata rilevata correttamente e accuratamente, e che niente ne avesse alterato la forma accidentalmente o artatamente). Scandagliata la nostra vita alla luce di quel Dna (che dovrebbe appartenerci secondo una valutazione probabilistica e non deterministica, peraltro abbastanza elastica tenuto conto di tutte le variabili), vuoi che non si trovi una quantità di indizi da far paura? Prove che ci inchioderebbero come un povero Pinocchio trasformato in ciuchino? Alla luce di quel Dna rivelatore e anche senza ulteriori elementi ‘tangibili’ e indizi ‘reali’, le cose che credevamo innocenti e insignificanti d’improvviso assumono una rilievo che nemmeno con la più fervida fantasia avremmo immaginato così pregnanti e compromettenti. Si sa che i media lo sanno fare il loro mestiere, trasformando perfino una sardina in un barracuda, un pesciolino rosso in uno squalo martello. Per quanto ci proclamiamo innocenti, protestiamo la nostra estraneità a qualcosa che d’improvviso ci vede protagonisti, sembra che le prove saltino fuori ad ogni piè sospinto. Perfino quelle che credevamo innocenti idiosincrasie ed eventi insignificanti assumono un’aura di sospetto. I nostri banali gesti quotidiani divengono lo spettro della nostra colpevolezza, assumono le tonalità dell’indizio compromettente. Cerchiamo nella memoria come può essere accaduto di aver lasciato qualche goccia dei nostri umori su un cadavere (sempre che qualcuno magari in modo del tutto involontario non ce l’abbia lasciata cadere e sempre che si tratti davvero del nostro di umore). Ci protestiamo innocenti. Però la scienza non sbaglia. Ci lamentiamo che se magari sono stati fatti 20.000 prelievi è facile che almeno due, ma forse anche tre, quattro o cinque individui abbiano quei marcatori, in fondo si tratta di una statistica legata anche a delle metodiche con margine d’errore. Fanno l’anamnesi della nostra vita e si scopre che all'asilo abbiamo infilato la matita in un occhio al compagno di banco. D’accordo allora si era accertato che era stato un incidente del tutto involontario, per fortuna finito bene, solo qualche escoriazione, però adesso il sospetto è che forse c’era magari un po’ di dolo, che già da allora si poteva evincere il nostro addestramento a un futuro da massacratori e di assassini in fase di rodaggio. Si scopre che ci siamo separati dalla moglie e a detta dei vicini era perché eravamo adulterini, anche se si in realtà si era trattato di un divorzio consensuale. Comincia ad uscirne un quadro moralmente non esaltante. Su qualche rivista dedicata ai cold case si rileva che siamo stati in cura per non meglio precisati problemi sessuali. Qualcuno insinua deviazioni… si sussurra… proprio quello… che cosa esattamente non si dice, ma lo si può immaginare…perversioni inenarrabili. È così che una volgare prostatite assume tinte fosche e risvolti sospetti. Mentitori spudorati, quello sì. Radiografando il nostro passato risultano le fandonie che a scuola raccontavamo per non essere interrogati con le bugie di cure mediche inesistenti… Vien fuori il nostro profilo di mentitori recidivi e di simulatori per abitudine. Il nostro computer viene analizzato e saltano fuori navigazioni in siti con quel sex che troneggia, magari tra le previsioni del tempo e una visita innocua a un quotidiano on line. Pornografia fa rima con pedofilia, il passo è breve e basta la parola anche solo digitata una volta. Nelle memorie di un computer c’è di tutto, dalla cucina molecolare al sesso degli angeli, perfino i dettagli di un qualche delitto, di un cold case mediatico, che per un aspirante colpevole smettono di essere curiosità per diventare il segno inequivocabile di una mente criminale. Qualcuno ricorda al cronista che si aggira nei dintorni della nostra casa che una volta abbiamo ricevuto minacce anonime, si sussurra di frequentazioni sospette, abbiamo litigato con il panettiere e sono volate parole grosse, comeva a fan c… E il faldone degli indizi continua a crescere… altro che enciclopedia universale, c’è tutto lo scibile umano con tanto di link e note a piè di pagina. Il colpo di grazia arriva quando scoprono che abbiamo in casa una katana giapponese, con quell'arnese è chiaro che siamo assassini seriali. Siamo solo agli inizi, sul piatto della bilancia la nostra protesta di innocenza pesa quanto il due di briscola, mentre sull'altro piatto le pagine continuano ad assommarsi e sono ormai come quelle della biblioteca di Babele. Non facciamo in tempo a leggerne una che ce ne piovono addosso altre mille con gli indizi che ormai vengono tout court catalogati come prove. Ci sentiamo impotenti, travolti da un sistema probatorio che manderebbe al tappeto anche un Tyson. Eppure… eppure… non smettiamo di aver fiducia nella giustizia e anche se travolti da un insolito destino in un mare di indizi cominciamo a sospettare perfino noi, a pensare che quel Dna, tra un nucleare e un mitocondriale che fanno a pugni, colà non può esserci finito per caso…
Caso Bossetti. A proposito di paternità e marche da bollo, di Dna, opinionisti e format televisivi…continua Gilberto Migliorini. Qualcuno afferma che la signora Arzuffi lo aveva già detto ai familiari, che il marito già sapeva… riguardo alla paternità. Ma allora che motivo avrebbe avuto tutta la famiglia, sempre in base a indiscrezioni non si sa se fondate, di far analizzare il Dna recandosi all'istituto di Genetica dell'università di Torino? Se per scrupolo voleva semplicemente avere conferma di quello che già sapeva, sarebbe bastato fare un test in incognito, magari con un kit di quelli inviati in busta anonima senza presenza in laboratorio, un test che fornisce un risultato circa la compatibilità o non compatibilità genetica tra i campioni biologici in esame e senza accertare l'identità dei soggetti da cui provengono. O forse si voleva dare un aiuto all'accusa certificando quello che era già noto? Sembra si stia giocando una partita a poker... tutti con le carte coperte in attesa del gran botto? Quando il gioco si fa duro i duri iniziano a giocare…Poi ci sarebbero le lettere di Massimo Bossetti, amareggiato e ormai convinto della paternità Guerinoni. Si ha come la sensazione che quel test di paternità stia parecchio preoccupando qualcuno. Affiorano dei dubbi dietro a una sfinge imperturbabile di certezze granitiche? Le lettere di Bossetti che appaiono con tempismo sono forse segno di difficoltà e preoccupazione da parte di chi vuol sapere se magari la controparte nasconde un asso nella manica? Se il test di paternità desse ragione alla signora Arzuffi ci troveremmo di fronte a una debacle dagli esiti incalcolabili non solo per la Procura di Bergamo. Il caso Bossetti non è come gli altri, è in gioco molto di più di un cold case, è in gioco la credibilità di un sistema giudiziario, come in parte già avvenuto con il caso Meredith, ma in questo caso all’ennesima potenza. Si direbbe che qualcuno stia morendo dalla curiosità riguardo a quel test fantomatico… per il quale ormai tutti si dicono sicuri che Bossetti ha paternità Guerinoni. Alle volte la sicumera fa dei brutti scherzi e i dubbi arrivano quando meno te lo aspetti. Ci dicono che la comparazione fatta usando il retro di una marca da bollo è inequivocabile e che la scienza non sbaglia. Per quanto concerne i reperti sembra che non esistono più. Ma chissà, forse almeno la marca da bollo esiste ancora... se non altro come cimelio storico per attestare il nuovo avveniristico tipo di indagine che farà scuola e da modello criminologico in tutto il mondo. Non c'è più la salma di Guerinoni (cremato come la vittima), non c'è più la macchia con il Dna di Massimo Bossetti... consunta e esaurita? Un vero peccato… per via di uno scrupoloso ma necessario accanimento analitico. La difesa riguardo alla vexata quaestio della paternità, potrebbe aver fatto la controprova sulla sorella gemella, dizigotica, mancando l’autorizzazione del tribunale (come si sa Massimo Bossetti sta in galera). È pur vero che i due gemelli fraterni, in linea teorica, possono essere stati concepiti da padri diversi. Tale evenienza è però talmente remota e improbabile che se la sorella è davvero figlia di Giovanni Bossetti, il pool difensivo, nel caso, saprebbe già che Massimo è figlio del padre legale, per quanto la prova non avrebbe formalmente valore probatorio. Ci dicono che Bossetti sia già stato informato che contrariamente alle sue speranze l’esito è quello già verificato sulla salma del Guerinoni, con la lettera piena di dolore che ne è seguita. Tutto vero o strategie di una o l’altra delle controparti in attesa imminente del processo? Intanto è curioso che proprio una marca da bollo faccia da supporto del reperto biologico. Si sa che il francobollo è un imprimatur di convalida di atti e documenti pubblici. Potrebbe trattarsi di una nemesi, il soccorso della divina provvidenza? Oppure un lapsus freudiano, un clamoroso qui pro quo? Il famoso esperimento Asch, che non sto nuovamente a descrivere, studia gli errori percettivi sotto la pressione del giudizio di una maggioranza. Per l’influenza di una autorità si può distorcere il giudizio al punto tale da non credere neppure più ai propri occhi e alle proprie percezioni, conformandosi alle risposte sbagliate. Se la scienza ci dice che X è figlio di Y (nonostante l’anagrafe) si comincerà a notare la somiglianza tra le foto dei due ipotetici soggetti in questione? Sembreranno due gocce d’acqua perfino quando non ci prendono né punto e né poco, perfino quando non c’è un solo elemento che richiami le due fisionomie? Per quanto ci dicano che Guerinoni è somigliantissimo a Massimo Bossetti, chi valuti senza lasciarsi influenzare dalla conclusione dell’autorità scientifica vede dei tratti somatici che non si corrispondono. Ma con la storia dei caratteri dominanti e recessivi si può comunque trovare una spiegazione nell’albero genealogico. Il problema sorge quando si guarda la fotografia (da giovane) di Giovanni Bossetti e quella di Massimo Bossetti, pubblicate anche qui sul blog: sono due profili che si richiamano, stessi lineamenti, almeno per chi non voglia lasciarsi influenzare dall’imprimatur della marca da bollo... Una simile somiglianza può essere di natura casuale, trattandosi secondo la scienza di un padre putativo? Magari la convivenza ha determinato una somiglianza per un processo lamarckiano? Nell’esperimento Asch si trattava di valutare le lunghezze di alcune linee. In questo caso si tratta di fisionomie. Ma tant'è, quando è in gioco l’influenza mediatica l’esito è pur sempre il consenso e la persuasione… in un contesto sociale dove il giudizio degli altri ci è necessario, soprattutto quando un’autorità scientifica ce lo certifica. Chi si azzarda a contraddire le provette e gli agitatori molecolari? Non parliamo poi del peso mediatico di tanti esperti che mostrano di dar credito a quella prova di paternità effettuata sui nanogrammi di materiale rinvenuto dietro a una marca da bollo, rimasto per anni a sonnecchiare insieme alla colla… Il soggetto dell’esperimento Asch aveva finito per dare la risposta sbagliata in un normale esercizio di discriminazione visiva, per conformarsi all’autorità di una maggioranza. Se il Dna ci dice una cosa, tutto il resto che ne consegue può perfino indurre per suggestione a vedere quello che non c’è o a non vedere quello che c’è? Le cose più banali, i gesti e i comportamenti più insignificanti appaiono sotto una luce sinistra. Si utilizzano i classici topos che valgono sempre come jolly (la pornografia, la navigazione sul web, la normale vita domestica con i suoi alti e bassi come in tutte le famiglie…) e una serie di ‘indizi’ magari tirati un po’ per i capelli? Nel caso si scoprisse che Massimo è davvero figlio genetico di Giovanni Bossetti? Quasi tutti gridano impossibile, la scienza non sbaglia. A parte il fatto che la salma del presunto padre era lì da un bel po’ di anni e dopo un paio di lustri non è detto che anche le analisi più sofisticate non incorrano in qualche piccola défaillance. E poi in tutta la vicenda del Dna c’è come la sensazione che si sia fatta un po’ di confusione con gli ingredienti. A forza di nucleare e mitocondriale, di migliaia di reperti e referti, c’è il rischio che qualcosa sia andato storto, che magari accidentalmente una macchia sia finita lì e una fibra sia stornata là, insomma che alla fine si debba ammettere che le certezze sfumino quando - tirando i remi in barca e ascoltando anche qualche altra campana in un contraddittorio - si scopra magari che tutto l’ambaradan della prova scientifica potrebbe essere un tantino zoppicante, per non dire evanescente come la macchia fatidica che ormai non c’è più… Nel caso, quale sarebbe la reazione dei media (e degli addetti ai lavori)? Sarà tutto come nel 1984 orwelliano dove la memoria del passato è plasmata da un presente per così dire retroattivo? Nel caso risultasse la paternità genetica del padre legale, cosa ci diranno i media? E gli opinionisti? E gli esperti? Il passato è come un palinsesto che si può scrivere e riscrivere? Sarebbe un’operazione ricca e articolata sull’espressione linguistica, con quella cortina di distinguo, frasi ipotetiche, eufemismi, digressioni, temporizzazioni? Come nel 1984 è sempre l’ultima versione in memoria quella che conta? Ormai l’utenza ha solo una memoria a brevissimo termine, volatile, come la Ram di un computer che svanisce allo spegnimento. Mettiamo (per pura ipotesi) che nel corso del dibattimento si dimostri uno, più di uno o tutti questi fatti: a) Che Bossetti è veramente figlio del padre legale, di Giovanni Bossetti (cosa per la quale sarei pronto a scommettere al superenalotto sperando di fare cinquina).
b) Che il furgone inquadrato dalle telecamere - che a detta degli inquirenti continuava a girare attorno al centro sportivo - non sia (o non sia sempre) quello di Bossetti (con tanti furgonati di artigiani ci si può anche sbagliare).
c) Che l’ultima cella telefonica alla quale si collegò il telefonino di Bossetti non era la stessa di Yara. (ma forse qui la sorpresa è già scontata).
d) Che il Dna nucleare trovato sul corpo di Yara in nessun caso avrebbe potuto sopravvivere per tre mesi alle intemperie e ai parassiti rimanendo di ottima qualità e fornendo informazioni attendibili. (a meno di essere stato ben conservato in condizioni ottimali).
e) Che la contraddizione tra Dna mitocondriale e nucleare presuppone una qualche contaminazione od errore. (la differenza tra un vino novello e uno invecchiato).
E si arrivi all’assoluzione del muratore con formula piena o con il ragionevole dubbio. Nel caso ipotetico che sia così o - al contrario – che non sia così, il servizio pubblico televisivo farà una verifica sulle opinioni espresse pubblicamente sugli schermi da tanti professionisti (criminologi, psichiatri, psicoanalisti, magistrati, scienziati…) con una profusione di diagnosi e conclusioni scientifiche, profili psicologici e morali, valutazioni etiche e caratteriali sul carpentiere e la sua famiglia? Un servizio pubblico dove l’utenza paga un canone dovrebbe procedere poi a una verifica, riguardo alla competenza, all'affidabilità e alla correttezza dimostrata da tutti coloro che a vario titolo danno il loro contributo professionale nei vari format? Sarebbe interessante un programma che abbia per oggetto un nuovo tipo di cold case: la professionalità dimostrata da opinionisti e conduttori, perché l’audience possa valutare la qualità delle loro performance alla luce delle future risultanze processuali (qualunque esse siano, di colpevolezza o di innocenza del muratore di Mapello). E' impossibile perché forse siamo già in uno Stato orwelliano?
E se Massimo Bossetti fosse conosciuto da chi indagava sin dal duemilaundici? E se il Dna, come ammette il Ris in perizia, non fosse davvero inequivocabile? Scrive Massimo Prati su "Albatros Volando ControVento". Gli ultimi "filmati-dono" usciti forse dalla procura - o forse dal Ros - o forse dalle mani di qualche personaggio che masterizza doppioni senza che nessuno se ne accorga e neppure li veda scorrere in televisione e su internet (a meno che i filmati mandati in onda non valgano meno di zero e siano fuori dagli atti ufficiali di indagine), hanno agevolato gli eventi mediatici e spento la mente di molti italioti a cui si è fatto credere che per un'ora Bossetti ha girovagato attorno a una palestra. Per farlo credere hanno addirittura detto che si è investigato in maniera certosina facendo una cronistoria della vita del furgone che a fine novembre 2010 vagava alla ricerca di una vittima da sacrificare. In pratica, si sono controllati oltre 4000 Iveco Daily (o forse meno della metà) e solo cinque sono risultati compatibili, causa serbatoio particolare (in realtà causa portaoggetti laterale), con quello dei filmati di via Caduti. E qui sorge la domanda: tutto questo lavoro investigativo lo si è fatto solo negli ultimi sette mesi e solo dopo l'arresto di Massimo Bossetti? Quindi a ben quattro anni dal sequestro della piccola Gambirasio? Non pare credibile, perché se fosse vero sarebbe un'assurdità fatta indagine, una scarsa professionalità che si mostra nella sua inefficienza più totale. Chi ragiona, infatti, non può non chiedersi come mai quello che i media fanno ora apparire uno strano vagare serale di un furgone guidato da un pedofilo sbavante, non l'andata e il ritorno di una persona che voleva girare a sinistra e trovandosi la strada sbarrata è stata costretta ad andare avanti per poi tornare indietro, lo si sia notato solo a metà 2014 e non nel 2010-2011, quando c'era da indagare seriamente e al meglio per cercare prima i sequestratori di Yara e poi i suoi assassini. Il filmato era a disposizione e poco ci voleva a controllarlo subito quel furgone che girovagava fra le vie di Brembate Sopra... se girovagava davvero, come ci dicono oggi i media. E in effetti, a pensarci con logica, è impossibile che non lo abbiano controllato all'inizio e, quindi, che non siano arrivati subito all'identità di Massimo Bossetti e degli altri quattro che possiedono furgoni identici. Per cui, sempre a ragionarla con logica, pare proprio che nella smania di mostrarci i nuovi filmati, probabilmente usciti per cementare l'indizio del Dna senza mitocondriale e non fargli perdere credibilità, i carabinieri e la procura si siano scoperti, si potrebbe dire traditi, facendoci capire che il nome di Bossetti e quello di altri quattro era nella loro disponibilità già dal 2011. E' l'unica spiegazione logica che tiene conto della professionalità certa di chi indaga. Possibile che il giornalista a cui hanno consegnato i filmati non abbia pensato a questo particolare e non sia andato da uno degli altri quattro proprietari per chiedergli quando, in che giorno e anno, è stato chiamato in caserma per fornire un alibi? Diciamoci la verità: quattro anni e mezzo di indagini sui furgoni paiono davvero eccessivi. Per un'indagine del genere un anno è già troppo e forse ne avanza. E allora, dati i filmati gettati in pasto al pubblico, cosa pensare se non che, al massimo a fine 2011, il nome di Massimo Giuseppe Bossetti era già in bella evidenza sul tavolo della procura? Difficile credere il contrario dopo aver visto i filmati sequestrati e visionati dai detective quando è scomparsa Yara. Quei filmati gli investigatori li avevano da subito, il furgone che andava avanti e poi tornava indietro si vedeva da subito... e due più due fa quattro in tutta Italia. Lo so che a pensar male si fa peccato. E può essere che io mi debba presto confessare. Ma come pensar bene dopo tutte le cose inutili gettate in pasto alla pubblica opinione ogni volta che la difesa si fa un minimo di strada credibile e smonta qualche accusa? Inoltre stranisce il fatto che certe "novità", che novità non sono, finiscano fra le mani di giornalisti che manco ci pensano a fare due più due. Perché non fare il proprio lavoro al meglio? Perché non seguire il filone e non andare a fare un paio di domande, così da rispondere a quella parte della pubblica opinione che non si accontenta dello scoop, invece di appiattirsi a chi sgancia filmati e documenti? Per non rispondere male preferisco non rispondermi e lasciar perdere il furgone dei trenta denari. Perciò passo a quanto scritto dal Ris in perizia. Lo faccio per cercare di capirci qualcosa in più, perché, magari, i miei cattivi pensieri sono solo i pensieri malati di uno scrittore pazzo...Ma sono davvero pazzo visto che a pagina 284 della relazione Ris è scritto. Sintesi dei risultati analitici sui reperti: "Come stigmatizzato in più occasioni, lo studio analitico dei reperti oggetto della presente indagine è stato reso particolarmente difficile dal cattivo stato di conservazione degli stessi e dalla oggettiva complessità dei susseguenti esiti di laboratorio, non sempre ben interpretabili in ragione dell'elevato livello di degradazione biologica delle tracce presenti". Oddio, già a leggere non sempre ben interpretabili mi viene un sussulto. Ma resto in piedi e vado a pagina 287 della stessa relazione, dove fra l'altro si legge: "...di contro, pare quantomeno discutibile come ad una eventuale degradazione proteica della traccia non sia corrisposta una analoga degradazione del DNA" (...). E qui la domanda giusta al Ris se la pongono. Infatti, praticamente si chiedono: "Come mai ciò che dovrebbe essere in buone condizioni è degradato e inutilizzabile, mentre il Dna, che dovrebbe essere al lumicino, è in buone condizioni?". Sì, la domanda se la pongono ma poi la saltano a piè pari quando scrivono: "... in altre parole, appare irragionevole pensare di associare ad un eventuale falso negativo su un test diagnostico un profilo genotipico straordinariamente di ottima qualità come è quello, ad esempio, relativo al campione suddetto". Embé, come sia accaduto non si sa, ma vorrai mica pensare in maniera irragionevole e prima di analizzare trovare una spiegazione logica, o perlomeno plausibile, a un fatto illogico e scientificamente inspiegabile? Ma non è qui che cade, l'asino schiatta nelle considerazioni finali dove il Ris entra più nello specifico scrivendo: "L'esposizione prolungata del corpo di Yara - per tre mesi circa - alle intemperie e alle ripetute precipitazioni di carattere piovoso e nevoso, particolarmente frequenti all'epoca della scomparsa della ragazza, in un'area del tutto esposta come quella di rinvenimento del cadavere, ha indubbiamente procurato un dilavamento delle tracce biologiche in origine certamente presenti sui suoi indumenti riducendone enormemente la quantità, compromettendone la conservazione e modificandone morfologia e cromaticità, tutto a svantaggio di una corretta interpretazione delle evidenze residuate. La posizione supina in cui è stato rinvenuto il cadavere, cosi come si evince dal fascicolo fotografico relativo al sopralluogo, ha acuito le difficoltà analitico-interpretative proprio relativamente alle tracce sulle superfici dei tessuti meno "preservati" - come ad esempio quelle situate sull'emilato superiore del corpo: torace, addome, pube-anche, parte anteriore delle gambe, particolarmente esposte all'azione dilavante delle precipitazioni atmosferiche; d'altra parte le zone di contatto con il terreno hanno costituito aree di raccolta e di maggior assorbimento dei fluidi rilasciati dalla decomposizione del cadavere per cui potenzialmente caratterizzate da un più alto livello di degradazione biologica sotto il profilo prettamente molecolare. Di non secondaria importanza, inoltre, l'azione saprofitica degli organismi che hanno colonizzato il cadavere. (...) Tale evidenza rende di per sé non agevole la diagnosi dei singoli contributi biologici all'interno di una mistura prodotta da più soggetti; può talvolta risultare utile, in casi del genere, un approccio deduttivo, per esclusione di esiti oggettivamente verificati (es. negatività a determinati test), ma mancherebbe comunque il legame univoco: profilo dell'unico donatore - diagnosi della traccia. Solo a titolo di esempio - a rigor di logica - l'unica inferenza deduttiva che può essere fatta con un buon margine di attendibilità è la diagnosi di una traccia mista maschio - femmina con positività allo sperma e a saliva/sangue ipotizzando che il maschio abbia contribuito ovviamente con lo sperma mentre la femmina con sangue e/o saliva. Sarebbe comunque anche questa una ipotesi, anche se logicamente sostenuta (...) Purtroppo non è semplice valutare né riprodurre sperimentalmente - con assoluto rigore scientifico - quanto la degradazione del materiale biologico su questi reperti possa aver influenzato, e in quale misura, l'attendibilità dei test effettuati, seppur numerosissimi, poiché nessuno degli stessi prescinde dalla integrità della struttura molecolare delle proteine che costituiscono i marcatori "bersaglio" della maggior parte di tali saggi diagnostici (emoglobina, PSA, semenogelina, ecc.). In pratica, il Ris dice che quanto mettono sul tavolo dell'accusa va comunque preso con le molle, perché l'azione dilavante e i fluidi rilasciati dalla decomposizione del cadavere hanno altamente degradato ogni minuscola traccia rimasta e, quindi, l'attendibilità dei test effettuati. Nel contempo, come scritto sotto, assicura che non vi sono state contaminazioni recenti, perché se ne sarebbero accorti: Inoltre, si esclude ragionevolmente che tale risultato sia dovuto a contaminazioni, soprattutto recenti, dovute a semplice contatto manuale o ad imprudente approccio al reperto da parte del personale operante senza le cautele che il caso impone (dispositivi di protezione individuale, mascherina, guanti, ecc.), confidando peraltro nell'elevata professionalità di quanti hanno fornito il proprio contributo, a qualsiasi titolo, nel caso in esame; ad ogni buon conto, tutti confronti del profilo genotipico in esame con il DNA degli operatori di laboratorio e con personale - anche di altra Forza di Polizia - intervenuto sulla scena del crimine hanno dato esito negativo. A sostegno di ciò è stato più volte stigmatizzato che non vi è peraltro assoluta evidenza, sulle aree analizzate dei reperti, di tracce biologiche evidenti, compiutamente tipizzate, almeno in apparenza deposte più recentemente rispetto alle altre. Se cosi fosse stato, la diagnosi di eventuali tracce "non coeve" rispetto a quelle in origine presenti sui reperii - soprattutto sulle aree particolarmente focalizzate degli slip - sarebbe stata probabilmente molto più chiara proprio per l'assenza delle problematiche sopra accennate legate alla degradazione biologica. Chiaramente, fuori da queste considerazioni, non è ancora possibile - come è noto - datare con attendibilità scientifica una traccia biologica, specialmente in un ristretto range temporale, come in questo caso (gli studi in itinere perseguono questo obiettivo attraverso l'individuazione e l'analisi di marcatori ad hoc e lo studio del RNA). Per cui non possono datare la traccia trovata, ma sono quasi certi che tracce recenti non ce ne fossero. Sono quasi certi e non sicuri. Questo perché non scrivono sarebbe stata sicuramente..., come avrebbero scritto parlando in certezza assoluta, ma si adattano e inseriscono una frase più soft che lascia aperte le porte ad un eventuale errore, quale: sarebbe stata probabilmente...Per cui, per non sbagliare, nonostante la quasi molto probabile certezza hanno provveduto a chiedere il Dna a tutti gli operatori, anche a quelli solo passati accanto al cadavere. In poche parole, va bene la professionalità che porta a dire che vi è sicurezza, ma ci può stare anche l'errore. Insomma, al Ris sanno che la certezza non è roba sempre rintracciabile in questo mondo, giustamente, come lo sanno tutti gli addetti ai lavori. Per questo, alla luce dell'arresto in pompa magna di Massimo Bossetti (quale certo Ignoto1) e delle tante parole spese in questi mesi da chiunque abbia avuto un microfono in cui parlare, il periodo conclusivo delle considerazioni finali - che riassumono l'intera perizia RIS - lascia basiti. Infatti in perizia è scritto: "Alla luce delle premesse anzidette, una logica prettamente scientifica che tenga conto dei non pochi parametri che si è tentato di sviscerare in questa sede non consente di diagnosticare in maniera inequivoca le tracce lasciate da Ignoto1 sui vestiti di Yara. Insomma, anche al Ris si nutrono dubbi sul fatto che il dna isolato, quello di Ignoto 1, sia inequivocabilmente certo, viste le precipitazioni, i liquidi cadaverici, i colonizzatori e le tante domande a cui non hanno potuto scientificamente dare risposta. E forse sono rimasti basiti quando il boccaglio in cui aveva soffiato Massimo Bossetti ha confermato la compatibilità col dna da loro isolato. E chissà, forse a quel punto hanno pensato al miracolo di qualche santo che aveva voluto far trovare l'assassino tanto cercato. L'assassino sbucato dal cilindro di un maresciallo conosciuto da tutti...E chissà, probabilmente neanche quelli del Ris sapevano che grazie ai filmati e alle indagini sul furgone, di quel muratore di Mapello chi indagava forse sapeva già tutto...
Caso Bossetti: un omicidio provato con figure retoriche, fenomenologia linguistica e ‘verosimiglianza’ narrativa..., scrive Gilberto Migliorini su "Albatros Volando ControVento". Sulla stampa colpevolista è un continuo e assiduo susseguirsi di figure retoriche a proposito del muratore accusato di aver ucciso la piccola Yara. Di primo acchito è la figura dell’agnizione con improvviso riconoscimento del personaggio, nella fattispecie l’assassino inscritto nel ciberspazio genetico, con la svolta gridata ai quattro venti perfino dall'autorità politica. Una sorta di prolessi (flash-forward per gli inglesi), ci svela la sua identità di pedofilo e assassino, già nella fase del fermo e prima ancora di sentire cos'abbia da dire il muratore disorientato ed incredulo. Non parliamo di un processo che oramai è celebrato mediaticamente con i soliti opinionisti a far da testimonials, detective e giudici televisivi (il climax di crescente intensità che alla fine inchioda il colpevole). Il verbo inchiodare piace perché è evocativo, metaforicamente, di quelle torture alla vedova di Norimberga, anche se un po’ inflazionato per via di una certa evanescenza delle prove più che altro dichiarate senza contraddittorio. Ad ogni piè sospinto sembra aggiungersi un nuovo tassello, con quel giornaliero gridare al lupo e con la prova del nove che lo incastra, poi sostituito con l’enfasi dell’ultimo atto oprova definitiva. Salvo ricredersi con una inchiodatura più blanda o con ellissi interlocutorie, e, in fase di stanca, con il classico e laconico dica finalmente quello che sa. Il sospetto che il poverino non c’entri per nulla con l’omicidio, perché tirato per i capelli in una storia che non gli appartiene, comincia a farsi strada nel pubblico meno ingenuo. Forse perfino in quello di bocca buona si affaccia qualche dubbio. Molti continuano a mandar giù qualsiasi intruglio abbia l’imprimatur diparole quali: scientifica, Dna, analisi microscopica, celle telefoniche, tredicenni, microspie. Se poi fa all'uopo perfino qualche serata al pub, presentata con quella giusta patina trasgressiva e l’idonea dose di allusioni e analessi, lascia immaginare perversioni inenarrabili tra una birra rossa e una bruna. Qualche frase proferita nel carcere e colta dall'immancabile cimice funge da epifrasi, amplificandone il senso e così come conviene a chi ci trovi il significato che più gli piace... Narrativamente il romanzo d’appendice, per quanto giornalmente rabberciato con la rivelazione dell’ultima ora e con un coup de théâtre bisettimanale, non riesce a reggersi in piedi senza il supporto di qualche eclatante aggiornamento della scientifica, su tele di ragno da microscopia elettronica, reperti che sopravvivono intonsi anche alle proibitive condizioni climatiche, tratti fuori così immacolati come se fossero nuovi di pacca, microfibre con il logo impresso nel polimero ancora fresco di fabbrica, tutti di ottima qualità nonostante l’inclemenza del tempo. Con cadenza regolare si estrae un coniglio dal cappello e il pubblico dei colpevolisti grida un’esclamazione stupefatta e auspica pene inenarrabili per lo sventurato con l’ennesima prova regina che dopo le grida ai quattro venti sembra più che altro avere il sentore dell’aria fritta (almeno per chi ne approfondisce la consistenza senza condizionamenti emozionali). Il déjà vu viene scodellato con l’enfasi della notizia dell’ultima ora, uno di quei riscontri che hanno tutta l’apparenza dell’escamotage se non proprio della patacca se valutati come dati oggettivi scevri da suggestioni e preconcetti. Certo nessuno pretende un romanzo alla Flaubert o alla Tolstoj, ma almeno unSandokan o Le avventure di Pinocchio o se proprio non c’è altro La freccia nera di Stevenson. Nel nostro caso la storia per quanto giornalmente rivitalizzata con qualche iniezione di notizie fresche e con dei ricostituenti e riadattamenti a dare un po’ di lievito e suspense agli indizi, si affloscia regolarmente con l’attenta disanima dei fatti che alla fin fine sembrano più che altro speculazioni centrifugate con i soliti paralogismi. Dopo l’entusiasmo del colpo di scena conclusivo che mette la pietra tombalesu tutta la vicenda, sgombrato il campo da suggestioni e contorsionismi mediatici, fatta la tara alle cosiddette prove obiettive e ricavato il loro peso al netto di congetture, induzioni e illazioni… sembra restare solo uno zibaldone senza capo né coda e con la logica approssimativa dello pseudo sillogismo o della mera abduzione. La narrazione per quanto supportata con pervicacia dalla stampa colpevolista e arruffianata da trasmissioni dedicate all'approfondimento, secondo quel lato torbido e inquietante che piace tanto all'audience, sembra sempre un po’ moscia, anche se gonfiata in pompa magna con il turbocompressore mediatico. Il copione sembra più che altro fondato sulla solita musica di celle telefoniche, camioncini, pizzetti, microfibre, particelle ferrose... e l’immancabile Dna che è come il cacio sui maccheroni. Ultimamente fanno notizia eclatante le bugie e frasi decontestualizzate colte dai protagonisti (Bossetti e familiari) e i loro dubbi e l’incredulità di fronte alla vicenda. Reazioni che parrebbero normali di fronte a un’accusa che si vuole supportata da quella che gli inquirenti ritengono una prova certa, il Dna. Domande e quesiti che attestano lo stato di iniziale sconcerto, ma poi la certezza da parte dei familiari che il loro congiunto è davvero innocente, tant’è che la moglie rimane accanto al marito e lotta insieme a lui per dimostrarne l’innocenza. La storia di Massimo Bossetti come assassino della piccola Yara ha tutti i requisiti formali del romanzo d’appendice. In primis i mezzi di comunicazione di massa che portano nelle case una narrazione con tutti gli ingredienti per trovare riscontri e ricadute importanti sul piano degli ascolti e dei connessi profitti editoriali. Il personaggio sembra però del tutto improbabile come assassino, ma ciò nonostante e col supporto ubiquitario del Dna si riesce ad appiccicare il suo volto accanto a quello della povera Yara fornendo un’associazione in grado di stimolare l’immaginario collettivo. A forza di incollare uno accanto all'altra le due fotografie anche i più scettici alla fine soccombono all'evidenza che tra i due dev'esserci per forza qualche relazione, che si tratta di endiadi e dunque di entità indivisibili. Che si conoscessero non risulta dal ben che minimo fatto che lo attesti, e neppure mai la ragazzina ne aveva fatto confidenza con le amiche. Non esiste neppure uno straccio di indizio che il muratore l’avesse mai avvicinata o cercato di conoscerla. Ma a detta dei colpevolisti, il suo approccio sibillino consisteva nel gironzolare con il suo camion attorno alla palestra, come se da bordo del torpedone fosse sempre avvenuto ogni antefatto: l’infatuazione, il pedinamento, il rapimento… senza neppure mai scendere dal veicolo. Se Bossetti potesse fare i conti in tasca all'organigramma mediatico dovrebbe come minimo reclamare i diritti d’autore, per quanto il suo personaggio sembri inventato di sana pianta, ma tant'è in un romanzo il protagonista non ha davvero mai voce in capitolo. La frammentazione della storia mantiene vivo giornalmente l’interesse che appena scema viene ravvivato con qualche nuova eclatante rivelazione, prove e indizi che saltano fuori per caso e che risvegliano l’interesse del pubblico che potrebbe disaffezionarsi alla vicenda. Per quanto la ripetitività degli schemi narrativi sia la premessa per fidelizzare l’audience, la stanchezza e il dubbio che venga propinata una storia senza mordente e senza logica potrebbe far precipitare il feuilleton derubricandolo come una sbrodolata indigesta, una sceneggiatura inverosimile. L'inventio costante di nuovi colpi di scena riesce a tenere in piedi il copione e trasformare le suggestioni in straordinarie prove di colpevolezza, le notizie senza riscontri divengono indizi che, come ci viene raccontato, pesano come macigni…Il feuilleton un tempo veniva pubblicato di domenica per un lettore di massa che oggi predilige il fotoromanzo, la trasmissione nazional-popolare e i fumettoni serali con il supporto di specialisti e criminologi nel moderno palinsesto dove ai Misteri di Parigi diEugène Sue vengono sostituiti i nostrani cold case romanzati e rivoltati come omelette e infarciti di congetture e supposizioni al limite del romanzo fantastico con tanto di digressioni sociologiche, psicoanalitiche e criminologiche. È un Jurassic park dove da un unghia o da un frammento di clavicola si ricostruisce tutta l’evoluzione della specie rettiliana fino all'homo sapiens. La narrazione del caso Bossetti sembra avere tutte le tessere al posto giusto per accattivare il pubblico, non solo quello televisivo: le anticipazioni, gli stralci, i promo e i trailer fanno un racconto che ha tutti gli ingredienti del blockbuster con l’aggiunta di quell'immaginario da laboratorio scientifico, provette e agitatori molecolari dai quali salta fuori il nome e cognome dell’assassino con tanto di albero genealogico, compresi adulteri e paternità fittizie. Nel nostro caso la corrispondenza postale la fa da innesco. Normalmente ormai si sa, i test di paternità vengono eseguiti facendo leccare il retro di un francobollo dopo averlo incollato sulla busta e, con il lasso di alcuni lustri, spedito al laboratorio per posta direttamente per l’analisi del campione... Per una verifica sul padre legale si vedrà, di tempo ce n’è a iosa e di fretta nemmeno, basta star sereni e aspettare fiduciosi in isolamento...La scoperta del protagonista al termine di una complessa vicenda con tanto di peripezie, ribaltamenti, scambi di persona, di reperti e financo di paternità (commedia degli equivoci?) rappresenta il topos con il colpo di scena in chiave genetico-molecolare. La parola magica ed emblema del riconoscimento dell’eroe (nel nostro caso antieroe) è quella del Dna. Nella narrazione per il grande pubblico (non parliamo degli addetti ai lavori per i quali c’è la routine di migliaia e migliaia di reperti da analizzare) è come l’abracadabra che richiama alla mente il sortilegio, il prodigioso e l’esoterico. Con la parola magica non ci sono più dubbi, l’è prope lù - in linguaggio orobico - tutt'al più si tratta di trovare qualche altro riscontro, giusto per rappresentare un quadro integrato e mantenere vivo l’interesse con prove aggiuntive per un pubblico che potrebbe migrare in qualche altro giallo mediologico. Ma veniamo alla solidità narrativa per capire se la storia regge o se si tratta solo di una patacca, uno di quei collage costruiti con il taglia e incolla, un’ispirazione da commedia dell’assurdo o un feuilleton alla Victor Hugo. Intanto il protagonista, Massimo Bossetti, incensurato, è un muratore, grande lavoratore che si spacca la schiena giornalmente nei cantieri per sbarcare il lunario per la sua famiglia. L’uomo scelto per la parte di protagonista della storia non sembra particolarmente adatto al ruolo di pedofilo e assassino, sembra uno al quale abbiano assegnato una parte senza neppure avergli fatto un provino per vedere se avesse le physique du rôle indispensabile per reggere il copione. Come se a Benigni proponessero di interpretare Terminator o a Dustin Hoffman di fare Barbablù. Per carità è tutto possibile, come insegna Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, che l’apparenza inganni e che perfino sotto gli abiti diCenerentola si nasconda la strega cattiva. Però il povero Bossetti più che possedere un alter-ego di natura malvagia sembra vivere un’avventura kafkiana preso in un ingranaggio che lo spaventa e lo irretisce, ma che affronta con quel coraggio e quella ingenuità dell’uomo travolto da un insolito destino. Certo, il carpentiere, come ci informa uno zelante giornalismo, qualche volta va in birreria, cosa che può dar adito a qualche dubbio sulla sua integrità morale, per non parlare che forse ha visitato siti pornografici. Una simile trasgressione è di quelle che in un paese notoriamente irreprensibile, e tutto d’un pezzo per rigore e integrità morale, non è davvero ammissibile, e per usare il solito topos metaforico pesa come un macigno… Perché si sa che l’Italiano medio non ha mai visitato un sito pornografico, così, giusto per quell'andare a diporto nella navigazione on-line, accarezzando la trasgressione inconfessabile del proibito. La storia dei siti porno è come il prezzemolo, quando non si sa più come menar il can per l’aia si tirano fuori le storie di navigazioni tra falli e passerine come si trattasse di roba che scotta, la quintessenza diabolica del male, il peccato originale che nella fantasie dei bacchettoni è quello che porta il paese alla catastrofe. La pornografia fa sempre presa in un verso e nell'altro, è la matta che in mancanza d’altre carte da giocare è come l’asso piglia tutto. Nel paese dei benpensanti e ipocriti, sfruttatori e mafiosi, evasori e corrotti, salvo la prurigine del sesso, tutto il resto è lecito e benedetto. Per la tredicenne vergine, ammesso che sia il Bossetti ad aver digitato una parola cotanto invereconda e che sia autentica e riferibile a un’epoca precisa, ci troviamo di fronte a un aggettivo con buona approssimazione del tutto tautologico… Molto più preoccupante se si fosse trattato di ricerca relativa a una cinquantenne vergine, segno di interesse perverso e sospetto. Quando nell'universo delle memorie informatiche si va a cercare qualcosa solitamente lo si trova, se non altro perché ad ogni parola nell'ipertesto narrativo si può assegnare un link che nel reticolo di zero e uno può portare ovunque si decida di offrire un criterio di rilevanza delle parole e dei loro connessi significati: un ipertesto è appunto il superamento della sequenzialità, una navigazione in un mare aperto delle libere associazioni che fanno del navigante un filosofo a luci rosse, un letterato del sesso orale, un anacoreta della masturbazione, un ideologo del libero amore, un Savonarola fustigatore di perversioni, uno studioso di erotismo, un esploratore della statistica sessuofobica, un pervertito e potenziale serial killer, e vivaddio perfino un Ulisse allietato dal canto delle sirene in costume evitico e in fase di fantasioso accoppiamento seriale. Per il resto e freudianamente si tratta di quel rapporto con l’inconscio e le connesse rimozioni, di quelle fantasie erotiche atte a migliorare magari un rapporto di coppia bisognoso di qualche aiutino. Per una diagnosi di perversione criminale ancora non esiste il pap-test della profilazione secondo modalità, stile e percorso di navigazione. Un mister Hyde in versione informatica non è detto che segua invece un percorso ipertestuale tra accoppiamenti floreali con particolari e ingrandimenti sugli stami e i pistilli, o osservando le performance erotiche di formiche, rane e grillotalpa, salvo poi sperimentare le sue perversioni dal vivo su qualche cavia umana…Ma si sa che Bossetti transitava col suo camioncino nei pressi della palestra per tornare a casa che dista un tiro di schioppo, e con il suo grosso furgone si dice che abbia rimorchiato la ragazza. Il furgone più amato dagli artigiani orobici ce l’hanno mostrato in tutte le salse e qualcuno giura che sia sempre quello di Bossetti, perché a Brembate aveva l’esclusiva di passaggio. Perché mai dovesse continuare a girare in tondo attorno alla palestra non ci vien detto, salvo rilevare un comportamento vagamente fantozziano per una misteriosa coazione a ripetere. Magari scendere per dare un’occhiata? Si sa che usare un autocarro è il modo migliore per intercettare la vittima. Purtroppo qualcuno si è preso la briga di controllare i dettagli del furgone del muratore e l’ubiquità del mezzo risulta, al contrario delle asserzioni apodittiche della stampa colpevolista, smentita da alcuni dettagli del veicolo. Se poi Bossetti voleva tentare un approccio non si vede perché mai non dovesse parcheggiare il furgone. O forse con il suo ingombrante torpedone non voleva dare nell'occhio e operare in modo discreto e invisibile? Anche qui il copione appare un tantino vago, per non dire azzardato per un approccio: far colpo col suo cavallo d’acciaio sulla ginnasta tredicenne? La ricostruzione colpevolista appare comica e inverosimile, un pezzo di teatro dell’assurdo o di cinema alla ridolini. Per una ginnasta agile sarebbe stato piuttosto facile scappare, gridare e comunque sottrarsi a un personaggio di cui non ha mai fatto confidenza con le amiche, del quale nessuno si era mai accorto. Insomma, uno scenario narrativo povero di elementi concreti, scialbo e inconsistente, reso verosimile solo con reiterati artifici, testimonianze vaghe e fotogrammi che immortalano un furgone anonimo, la mera effigie di un veicolo interpretato con enfasi suggestiva e un immaginario induttivo. Ma veniamo al pezzo da novanta, al Dna. Senza quello tutto il resto non avrebbe né appigli né collegamenti. Se invece che a Massimo Bossetti fosse stato attribuita l’impronta genetica a Tizio o a Caio, abitanti della zona, forse si sarebbero trovati, scavando per bene, chissà quali altri indizi nei loro confronti, compresa la navigazione in siti sospetti. A quella macchiolina dall'origine incerta ma sopravvissuta miracolosamente alla pioggia, alla neve e al freddo, si deve il miracolo dell’agnizione, a detta dei colpevolisti, come se qualche santo dal cielo avesse voluto aiutare gli inquirenti nella loro opera di indagine con una straordinaria performance scientifica e con l’ausilio di una marca da bollo. La macchiolina, forse più piccola di un pisello, così sottile che a forza di centrifugare non ne è rimasto niente (e la difesa dovrà, violando il metodo galileiano, fare atto di fede per una prova irripetibile acquisita nel totale solipsismo da parte dei consulenti del PM). Però consente a tutti di riavvolgere la struttura della fabula (con l’analessi o flashback) e di vedere tutte le fasi del delitto. La macchiolina fa il miracolo, il film viene proiettato all’indietro: magia della scienza per usare un ossimoro. Peccato per quel risultato in contraddizione tra nucleare e mitocondriale. Ma si sa, l’uno conta come il due di briscola ed è quell'altro che fa la partita. Anche se l’è proprio lo scartino che avrebbe dovuto durare più a lungo all'inclemenza del tempo, mentre l’altro…Ma queste sono faccende da specialisti della biologia molecolare. Quello che noi profani sappiamo per certo è che la scienza richiede sempre situazioni controllate, tant'è che di solito si transenna il luogo del delitto, lo si congela, si impedisce a chiunque di apporre un pelo o un capello per inquinare, come si suole dire, la scena del crimine. Tre mesi all'addiaccio, all'inclemenza del tempo e all'arbitrio di chicchessia (e ammesso che sia lì che è davvero morta la povera ragazza) non bastano e avanzano per sollevare più di un ragionevole dubbio (oltre alla irripetibilità della prova) per considerare il reperto con beneficio di inventario? Se poi la paternità di Massimo Bossetti trovasse conferma che è davvero figlio di Giovanni Bossetti saremmo davvero curiosi di sapere come diavolo si è arrivati a lui. Si tratterebbe di un colpo di culo o di una sfiga pazzesca? Dulcis in fundo, non può mancare una macchina del fango, come accade nei casi dove l’opinione pubblica si eccita alle dietrologie, un po’ con l’allusione e un po’ con la tecnica del dico e non dico, oppure con la pezza giustificativa delle voci che corrono riportate con la neutralità pelosa e la notizia fresca cavata fuori dalle solite indiscrezioni. E così Bossetti non solo deve difendersi da un’accusa terribile, ma sia lui che tutta la sua famiglia devono anche far fronte al rincorrersi di notizie, dei pettegolezzi e delle indiscrezioni di cui alla fine si valuterà l’effettiva consistenza. Gli arzigogoli sulla vita privata della signora Arzuffi, di suo figlio Massimo e della di lui famiglia, dovranno alla fine essere messi al vaglio di un contraddittorio. E solo allora sapremo quanto c’è di vero nelle speculazioni dei media e quanto è frutto solo di maldicenza, illazioni e soffiate più o meno fondate. Nello sforzo di dimostrare la colpevolezza del muratore i media hanno più di una volta sconfinato in una inconsapevole comicità. La stampa zelante ci informa che nel computer del muratore "ragazze di giovane età eseguono esercizi di danza" e ci sono immagini "riconducibili a mappe satellitari delle zone ovest della Provincia di Bergamo" o addirittura “notizie di cronaca riguardanti minori” come se con tali news from nowhere si stesse facendo uno scoop. Qui il ridicolo diviene grottesco. Siamo alla frutta...Anche questo fa parte di una informazione che ormai non ha più argomenti, se non quello della vendita di un prodotto editoriale. L’impressione è che si stia raschiando il fondo del barile e che l’accusa abbia davvero poco in mano, forse niente...
Massimo Bossetti - Grazia Longo e le indiscrezioni prive di logica - visto anche che nell'estate del 2010 Yara era dai nonni in Puglia e non nei parcheggi della palestra...Scrive Massimo Prati su "Albatros Volando ControVento". Chi ci crede è perduto, vien da pensare dopo aver saputo da Grazia Longo che a sette mesi dal sequestro del furgone di Bossetti si è trovata una corrispondenza con i leggings di Yara Gambirasio. Una roba quasi incredibile perché il tessuto dei sedili di quel furgone non è unico nel suo genere. Essendo infatti di produzione industriale, lo si trova identico non solo in migliaia di altri furgoni simili al suo, ma anche in centinaia di migliaia di auto che montano sedili ordinati alla stessa azienda. E non è detto che lo stesso tipo di tessuto non sia stato acquistato da tante altre aziende del settore "componenti per auto", come non è detto che non sia un normale tessuto, acquistabile ovunque e da chiunque, usato anche per rivestire i sedili o i pianali delle sedie di casa. Questo volendo credere che si sia trovata una concordanza precisa e indiscutibile, non una misera compatibilità, e volendo credere che il risultato, venuto alla luce da indiscrezioni (uscite dagli uffici del Ris o dalla procura?), ottenuto durante un "supplemento di indagine" (non s'era trovato nulla e si è chiesto di fare altre analisi e comparazioni) non sia il frutto di suggestioni colpevoliste di chi non sa più dove sbattere la testa. Perché la logica ci dice che solo chi lavora per l'accusa può credere ci siano indizi univoci e concordanti contro Massimo Bossetti. E a questo proposito, pare quasi che Grazia Longo abbia un feeling esclusivo con chi accusa. Lei infatti scrive che i fili del sedile trovati sui leggings di Yara, uniti al dna nucleare presente sugli stessi pantaloni, sono paragonabili a ciò che in tribunale si chiama prova regina. Quindi prove capaci di scrivere la parola fine sui dubbi e sulle perplessità dei giudici e di chiunque abbia finora ragionato col beneficio del dubbio. Ottimista la ragazza che scrive per La Stampa. Ottimista ma per nulla garantista, visto che riporta e spande ai quattro venti il verbo altrui senza sapere se in perizia si parla di certezze o compatibilità. Ottimista, per nulla garantista, ma adulatrice nei riguardi di chi indaga, visto che spreca inchiostro e lodi, inserendo anche i nomi perché la pubblicità è l'anima del commercio, nei confronti della procuratrice Letizia Ruggeri, del colonnello Gianpietro Lago e del generale Pasquale Angelosanto. Persone infallibili con sottoposti altrettanto infallibili, ci garantisce Grazia Longo, che dal momento dell'arresto di Massimo Bossetti hanno lavorato sodo e con tenacia senza trascurare mai nulla (e il dna mitocondriale che non corrisponde al dna nucleare di ignoto uno conta nulla?). Persone che hanno trovato una prova scientifica facendo una comparazione minuziosa, precisa e rigorosa. Roba che se avessi potuto, già a metà articolo avrei garantito loro una promozione istantanea al grado superiore. Roba meritata, perché non è facile indagare e analizzare senza trovar nulla per sei mesi e improvvisamente, senza perdersi d'animo, trovarsi un testimone che ricorda, dopo quattro anni, di aver visto Massimo Bossetti in auto con Yara. Come non è neppure sperabile che dopo aver analizzato e rianalizzato tutto con minuzioso scrupolo, in un supplemento di indagini si riesca a trovare con sicura certezza un riscontro che provi la salita di Yara sul furgone di Bossetti proprio la sera dell'omicidio. Mamma che cu.., che fortuna, verrebbe da dire. Ma a pensarci bene non è fortuna. Anzi, ciò che Grazia Longo (e chi l'ha mediaticamente seguita con copia incolla più o meno simili) vuole farci credere importante, è il nulla assoluto che in un tribunale serio con giudici seri vale zero. Oddio, è vero che il nulla degli zeri a volte è molto remunerativo per alcuni, specialmente per chi opera per l'informazione - visto che sono tanti a far soldi a molti zeri parlando del nulla sugli schermi televisivi - visto che è facile convincere le casalinghe distratte con pensieri, parole, opere e omissioni... soprattutto con le omissioni. Perché è chiaro che Grazia Longo nel suo articolo ha cercato di sviarci e per la voglia di usare toni colpevolisti ha omesso di parlare della parte logica della faccenda. Vuoi che non conosca la logica? La conoscerà, immaginiamo, anche se parlando dei fili rinvenuti sui leggings paragonati al tessuto del sedile ha scritto: gli esami di laboratorio dei Ris, sostenuti anche dalle analisi dell’anatomopatologa forense Cristina Cattaneo, attesterebbero che si tratta dello stesso materiale. Questo significa, tenuto conto che non si sono fatte comparazioni coi sedili di altri furgoni e auto (prima di tutte con quelle in uso alla famiglia Gambirasio) che anche il sedile dell'Iveco Daily del mio vicino di casa è probabilmente dello stesso materiale. Significa che forse Yara si è seduta su un sedile rivestito con un anonimo tessuto per sedili. Oppure vuol farci intendere, ma questo la Longo non lo sa e non lo dice, che si son trovate caratteristiche particolari nei sedili del furgone di Bossetti? Caratteristiche che non danno scampo all'imputato e impediscono di pensare che Yara si sia seduta su un'altra auto, magari su una di quelle in uso alla sua famiglia? Che ne so, forse che Massimo Bossetti ha modificato i suoi sedili facendoli rivestire in alcantara o in un introvabile tessuto scozzese con scacchi cuciti con fili d'oro? Se non si son fatte altre comparazioni e quanto trovato sui leggings è solo un tessuto dello stesso materiale, come scritto dalla Longo tra le righe di un articolo colpevolista, quindi al massimo "compatibile" con quello presente sui sedili del furgone di Bossetti, si deve ammettere che la procura non ha affatto una seconda prova regina. Come si deve ammettere, avendo il coraggio di abbandonare il pregiudizio e usare il buonsenso, che il dna di ignotouno non è più una prova regina, visto il mitocondriale presente nella stessa traccia e ascrivibile ad altri. Meglio sarebbe se la giornalista e i suoi colleghi lasciassero stare i nobili dei piani alti e si basassero sui nobili dei piani bassi. Insomma, certe volte, se proprio non si riesce a tacere, è meglio parlare di baroni e baronesse piuttosto che di re e regine. Anche perché si scade nel ridicolo e si fa fatica a far credere che si stia facendo vero giornalismo se si afferma, come affermato da Grazia Longo, che la conferma della ricostruzione accusatoria e della colpevolezza di Bossetti viene dalla "presenza del camioncino bianco cassonato vicino alla palestra di Brembate frequentata da Yara ... del resto già suffragata dalle telecamere e dalla testimonianza di un passante". Mi permetta la Longo, che ho notato se ne sta allineata alla procura senza neppure pensare di vagliare ipotesi contrarie o garantiste, di dissentire e di spiegarle le mie ragioni. Primo: che il furgone passato da Brembate sia di Bossetti lo dice solo l'accusa. E lo dice anche se nei filmati non si vede né la targa né chi lo guida. Certo, si è detto che la procura ha chiamato un esperto della Iveco e che lui ha garantito che il furgone è quello di Bossetti. Ma come ha fatto a garantirlo non si sa e non possiamo neppure chiederglielo, visto che non ci hanno detto chi sia il bravo esperto di furgoni cassonati. Inoltre, fra parentesi, non sappiamo neppure quanti furgoni simili a quello filmato siano stati venduti a Bergamo e dintorni, né sappiamo quanti ne girino per la bergamasca sulle sei di sera di un novembre qualsiasi. Non sappiamo nulla, se non che Yara non doveva andare in palestra quel giorno, se non che aveva deciso di portare il registratore al posto di sua sorella solo alle 17.15 e non prima, se non che, quindi, nessuno che la conoscesse (ipotizzando come fa la procura che Bossetti l'avesse conosciuta) poteva girare attorno alla palestra alle 18.00 in attesa che uscisse: perché Yara non doveva proprio esserci quel giorno a quell'ora in quel posto. Oltre a questo, sappiamo quanto vuol farci sapere la procura. Un nulla sistemato a modo in cui si insinuano Grazia Longo e altri suoi colleghi. Lei è certa che l'esperto, che neppure si sa se esista dato che è sconosciuto anche ai media, a processo confermerà le indiscrezioni sul riconoscimento del furgone. E io mi auguro sia così, perché se non lo fosse si dimostrerebbe una giornalista poco professionale che pubblica cazzate non verificate. Come Maria Grazia Liguori, di Repubblica, che in fase di indagini preliminari sparò a zero su Federico Focherini dimostrando a tutti, vista la successiva assoluzione dell'imputato bistrattato e da lei trattato come un bieco assassino, di scrivere le cazzate portate dall'accusa al solo scopo di vendere qualche copia in più e forse per uno spicchio di pubblicità. In poche parole, non v'è certezza che le telecamere abbiano inquadrato il furgone di Bossetti. Come non v'è neppure certezza che si possa credere alla memoria di una donna presentatasi dopo quattro anni per dire che nell'estate 2010 le parve di aver visto Bossetti (riconosciuto dopo il suo arresto grazie alle foto pubblicate sui media) fermo in un parcheggio della palestra, in auto, assieme a una ragazza che forse poteva essere Yara. Su questo punto ci sarebbe da chiedersi troppe cose, ad esempio come sia possibile che Yara non abbia mai parlato a nessuna amica di quel signore con cui era in confidenza, come sia possibile che nessun altro abbia parlato di quell'auto e di quel signore biondo, come è possibile che non esistesse un rapporto di confidenza in casa propria, con la madre, con la sorella o anche con suo fratello, a cui parlò di un uomo grassoccio col pizzo che le incuteva paura. Ma queste sono domande che non servono, perché dopo essersi chiesti se i giornalisti hanno una memoria storica degli avvenimenti che loro stessi raccontano, dopo essersi chiesti se la procura ha una memoria storica degli eventi accaduti prima dell'omicidio di Yara (e se ha indagato deve averla), la domanda pregnante e pressante è questa: Visto che Yara all'inizio dell'estate 2010 è andata - come tutti gli anni - dai nonni materni a Tricase Porto, in Puglia, che i suoi genitori sono scesi solo per le ferie di agosto, prima la madre poi il padre, che sono saliti nuovamente a Brembate solo a fine estate... chi ha visto la signora quell'estate in quel parcheggio? Dai su, fate i bravi e rispondete. Chi ha visto la signora? Non di certo Yara, che non era a Brembate in quell'estate, forse un padre che litigava con la figlia? Dovete sapere che spesso capita che padre e figli adolescenti litighino. Perché l'adolescenza è il periodo peggiore da affrontare e se un padre non è preparato a tutto, anche a spiegare la sessualità, rischia di restare fuori dalla mente e dalle confidenze di suo figlio. E un buon padre vuole che il figlio chieda aiuto a lui se ne ha bisogno. Non che vada a cercarlo su internet da solo. I figli vanno seguiti perché devono imparare tante cose. A rispettare gli altri, ad esempio, se gli altri meritano rispetto. A non giudicare l'uomo dalle apparenze e da ciò che ci racconta la massa. Perché spesso la massa ama far chiacchiere ed è meglio ascoltare due campane per capire quale sia la più intonata e melodiosa. L'hanno imparato questo i giornalisti moderni o nessuno di loro ha avuto un buon padre, un buon maestro, capace di insegnare la regola basilare in cui si fonde una vera società democratica? C'era una volta il giornalismo. Era una cosa seria, una cosa da idealizzare fatta con cura da chi voleva che le informazioni non arrivassero distorte. Erano idealisti i ragazzi che sognavano di diventare giornalisti. Erano idealisti quei giornalisti che nascosti dal fumo della sigaretta lavoravano giorno e notte e non si piegavano al potere o all'audience padre del dio denaro. Erano uomini veri che passavano mesi interi a lavorare nell'ombra pur di fornire una notizia sicura, pur di denunciare le storture... anche di chi deteneva e usava a suo piacimento il potere conferitogli dal popolo. Da allora tante cose sono cambiate. L'aria e l'acqua sono diverse, dense di smog e veleni. La società e i rapporti interpersonali sono diversi, densi di smog e veleni. La politica e i partiti sono diversi, densi di smog e veleni. La magistratura e i poteri dello stato sono diversi, densi di smog e veleni. L'informazione è diversa, perché negli ultimi anni si è modificata e invece di criticare e denunciare si è uniformata al potere. Una volta c'erano i giornali del mattino col loro odore inconfondibile che sapeva di verità. Oggi ci sono giornali colorati che politicamente ci raccontano la stessa storia in maniera diversa, ma che sulla cronaca nera si sono uniformati all'audience. Una volta c'erano settimanali che non avevano paura di affondare i denti nei retroscena più scabrosi della politica, della "razza padrona" e della magistratura. Una volta non c'era resa e non c'era patteggiamento. Sapevate che "L'Espresso" fu aperto grazie a un finanziamento di Adriano Olivetti? Sapevate che per quanto scrivevano e scoperchiavano i ragazzi terribili del '55 ci fu chi ordinò di non acquistare più macchine da scrivere dalla Olivetti? Sapevate che il modo di scrivere dei ragazzi terribili non cambiò, nonostante le pressioni, e fu Adriano Olivetti nel '57 a cedere al potere costituito fino a regalare il settimanale pur di continuare a vendere le sue macchine da scrivere? Non furono i giornalisti ad arrendersi, fu l'editore che gettò la spugna lasciando che Scalfari & Co. continuassero a fare il loro lavoro. Quei ragazzi a un certo punto sparirono. Cambiarono anche loro e così il modo di fare giornalismo. E oggi c'è altra gente che crede di fare informazione... crede.
Yara Gambirasio, sugli slip la terza traccia di Dna. Il sospetto: "Qualcuno inquina l'indagine", scrive Libero Quotidiano”. Una rivelazione che potrebbe cambiare le sorti nelle indagini sull'omicidio di Yara Gambirasio. A rimettere tutto in discussione è il protagonista assoluto dell'intero caso: il Dna. Secondo lo studio di Marzio Capra, ex vicecomandante del Ris di Parma consultato anche nel caso dell'omicidio di Chiara Poggi, sugli slip di Yara c'è la presenza di unterzo Dna. Non solo quello della vittima e quello del presunto assassino Massimo Bossetti, dunque, ma anche quello di un altro individuo che però non è mai stato identificato. "Non si sa a chi appartenga. Nessuno si è preoccupato di scoprirlo", ha rivelato il tecnico forense, che fa parte del pool difensivo di Bossetti, al settimanale Oggi. A quanto pare, sempre secondo Capra, "la stessa traccia genetica contiene un Dna nucleare e due mitocondriali di tre persone diverse. Una mostruosità scientifica mai vista perché contro natura". Come è possibile? Per l'ex Ris c'è una sola spiegazione: lacancellazione selettiva. "Fatta da chi? - si chiede Capra -. Qualcuno ci ha messo le mani? Perché? No, mi rifiuto di pensarlo". Frasi, quest'ultime, che se confermate renderebbero il caso ancor più difficile da risolvere.
3 LUGLIO 2015: INIZIA IL PROCESSO.
Ci siamo, alle 8.30 il Tribunale di Bergamo ha aperto le sue porte e alle 9.21 ha avuto inizio il processo che vede imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio Massimo Bossetti. L’arrivo del carpentiere di Mapello è avvenuto alle 8.48, da via Garibaldi, mentre il suo avvocato, Claudio Salvagni, è giunto alle 8.35. La condanna potrebbe arrivare all’ergastolo, viste le accuse di omicidio pluriaggravato e calunnia (nei confronti del suo collega Massimo Maggioni, su cui a un certo punto delle indagini tentò di indirizzare i sospetti degli investigatori). Già dalle 6 i primi giornalisti e operatori televisivi, alle 7.30 un piccola folla di giornalisti è diventata più consistente ma anche curiosi in via Borfuro, che era transennata per evitare il passaggio alle auto. La zona era blindatissima e numerose le pattuglie della polizia che hanno controllato i punti di accesso al Tribunale. Massimo Bossetti è arrivato alle 8.48 scortato su un furgone della polizia penitenziaria e ha raggiunto l’interno del tribunale direttamente sul mezzo da via Garibaldi, come nell’ultima volta della sua presenza in Tribunale a Bergamo. In aula era dietro la tipica «gabbia»: entrato, gli hanno tolto le manette ed è stato scortato da tre guardie. Bossetti è apparso abbronzato, con i capelli pettinati all’indietro con il gel, indossava una polo azzurra con colletto blu e un paio di jeans con scarpe da ginnastica bianche. Per pochi secondi ha guardato il pubblico senza scomporsi. Nel gabbiotto in vetro dell’aula dove si svolge il processo era seduto su una sedia, i gomiti appoggiati ad un tavolo, in modo da guardare i giudici e dare le spalle al pubblico. Il suo nervosismo trapelava dal continuo movimento dei piedi. L’aula era stracolma, ma il muratore ha dato solo una rapida occhiata entrando e poi si è voltato raramente. A metà processo ancora qualche sguardo fugace verso il pubblico. Prime schermaglie processuali: l’avvocato Paolo Camporini ha contestato il capo d’imputazione relativamente alla presenza di un doppio luogo presente sui documenti e relativo all’assassinio di Yara Gambirasio: Chignolo e Brembate. Contestato anche l’alcol test: secondo il legale che affianca Salvagni sarebbe stato effettuato con l’astuzia. I difensori di Massimo Bossetti hanno quindi chiesto ai giudici della Corte d’Assise di Bergamo la nullità del prelievo del Dna con un boccaglio, nel corso di un controllo stradale simulato, da cui derivò che il Dna del muratore era lo stesso di Ignoto 1. Secondo gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, quel prelievo doveva essere eseguito con le garanzie difensive in quanto «non si può dire che il signor Bossetti il 15 giugno dell’anno scorso non fosse indagato» (il muratore fu arrestato il 16). Cambio di rotta anche sulla questione riprese televisive: la difesa ha annunciato di accettare il volere delle parti offese. A quanto pare tutto il processo sarà senza telecamere. Dopo la difesa ha preso la parola il pm: Letizia Ruggeri ha confermato la volontà di non avere le telecamere in aula: «Non per un atteggiamento scorretto nei confronti dei media, ma perchè metterebbero a rischio la serenità del processo». Sulla vicenda interviene anche Andrea Pezzotta, legale della famiglia Gambirasio insieme a Enrico Pelillo: «Ci soni minori da tutelare - ha detto -. Sono sconcertato da questo bombardamento mediatico». L’ingresso dei tanti giornalisti è avvenuto con molto ordine e calma. Non si sono state resse, nè eccessiva folla. Molto teso l’avvocato Salvagni che non ha rilasciato dichiarazioni rilevanti prima di entrare, dicendosi invece soddisfatto dell’avvio del processo appena uscito dall’udienza. Intanto si pensa a Bossetti, che non ha mai tentennato, continuando a professarsi innocente nonostante l’insistenza degli inquirenti negli interrogatori e nonostante un anno di carcere (con quattro mesi in isolamento). L’uomo non ha mostrato segni di cedimento. Chi lo ha potuto vedere sostiene che Bossetti negli ultimi giorni non abbia modificato le sue abitudini di vita all’interno del carcere e che abbia vissuto l’attesa del processo con serenità, quasi con il desiderio di provare la sua estraneità ai fatti. Numerose le persone, cittadini comuni, che hanno chiesto di assistere alla prima udienza del processo: ma l’aula era blindatissima e gremita. Le prime tre file dell’aula sono occupate dal pubblico. Poco prima l’ingresso della Carte in aula: il processo è iniziato alle 9.21. I genitori di Yara non saranno presenti in aula se non per testimoniare. Presenti invece i giudici popolari, tre uomini e quattro donne. Ma come si è svolta l’udienza? Si tratta di un’udienza tecnica in cui le parti potevano sollevare eccezioni, presentano la lista dei testimoni e chiedendo l’ammissione delle prove. Poi sarà la volta dei testimoni. Tantissimi. Solo quelli della difesa sono 711, più i 120 del pm Letizia Ruggeri (oggi ci sarà anche il procuratore Francesco Dettori) che chiede di sentire anche Ester Arzuffi, la mamma dell’imputato non citata dalla difesa, che chiama invece Mohamed Fikri, il marocchino indagato e poi scagionato. Deciderà la Corte se ammettere tutti i testi. La corte d’assise era presieduta dal giudice Antonella Bertoja, che è stato affiancato dal giudice a latere Ilaria Sanesi. La seconda udienza è il 17 luglio alle 10.30, ma si entrerà nel vivo del processo dopo l’estate.
17 LUGLIO 2015: SECONDA UDIENZA.
Difesa sconfitta su quasi tutta la linea, scrive "L'Eco di Bergamo". Divieto dell’uso delle telecamere durante il dibattimento, saranno consentite soltanto per riprendere la lettura della sentenza, e respinte tutte le cinque eccezioni presentate dalla difesa. Il numero di testimoni dovrà essere ridotto. È il bilancio della seconda udienza del processo a carico di Massimo Bossetti, accusato di aver ucciso la tredicenne Yara Gambirasio. Dopo la prima udienza dello scorso 3 luglio, che aveva attirato l’attenzione di tutti i principali mass-media italiani, venerdì 17 luglio è stato il giorno della seconda udienza, ancora tecnica. Il processo vero e proprio scatterà venerdì 11 settembre. La difesa è stata sconfitta su quasi tutta la linea. La Corte d’Assise presieduta dal giudice Antonella Bertoja ha respinto le cinque eccezioni del pool difensivo, quanto alle prove e ai testimoni - da ridurre - i legali di Bossetti hanno ottenuto almeno che non siano considerati i documenti di un motel che testimonierebbe una presunta relazione extraconiugale della moglie del muratore, Marita Comi, una vicenda che non dovrebbe avere così peso nel processo. I due presunti amanti della donna potrebbero comunque essere ascoltati in fase istruttoria. Non acquisendo i fascicoli di altri due procedimenti (la morte di un’indiana, trovata senza vita nel Serio a Cologno, nel dicembre 2010 e quella di un dominicano, ucciso proprio a Chignolo nel gennaio 2011), oltre a quello relativo a Mohammed Fikri, il marocchino che era stato arrestato proprio per l’uccisione di Yara nel 2010, la Corte d’Assise in pratica ha escluso piste alternative a quella che conduce a Bossetti.
LA CRONACA DELLA GIORNATA
L’udienza è fissata alle ore 10,30, ma già prima dalle 8,30 - orario di apertura del palazzo di giustizia - davanti all’ingresso del tribunale c’e una ventina di persone, diverse delle quali intenzionate a seguire dal vivo il processo: ci sono un’ottantina di posti disponibili nell’aula della Corte d’Assise.
ORE 9,15 - In aula c’è già un discreto pubblico, una trentina di persone, per qualcuno è la prima volta. Tra di loro anche qualche avvocato. Sono arrivati pure i primi giornalisti. Una nota curiosa: chi si è presentato in bermuda non è stato ammesso in aula.
Ore 10,05 - Sono entrati in aula i due avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini.
Ore 10,10 - È arrivato anche l’avvocato Natale Sala, che assiste Massimo Maggioni, il collega di lavoro che Bossetti avrebbe calunniato.
Ore 10,20 - In aula anche i legali della famiglia Gambirasio, Andrea Pezzotta ed Enrico Pelillo.
Ore 10,22 - È arrivato anche Bossetti, scortato dalla polizia penitenziaria.
Ore 10,24 - C’è anche il pm Letizia Ruggeri, il via alla seconda udienza si avvicina.
Ore 10,39 - Bossetti entra in aula: camicia a quadri tendente all’azzurro e jeans, sempre molto abbronzato, a differenza dell’altra volta si volta spesso verso il pubblico, come se volesse incrociare lo sguardo di qualcuno, e dà un’occhiata anche al pm. Il 45enne di Mapello ha sempre dichiarato di non volersi perdere nemmeno un momento del dibattimento e nella prima udienza era sembrato sereno e in buona forma, nonostante i quasi tredici mesi trascorsi in carcere. Aveva confidato ai suoi legali di non aver nulla da temere e di aver fiducia nei giudici.
Ore 10,57 - Con quasi mezz’ora di ritardo il giudice Bertoja dà il via al dibattimento.
Ore 11,21 - Prima importante decisione. Il giudice Bertoja annuncia il divieto dell’uso delle telecamere per non minare la serenità del processo e per tutelare i minori che saranno chiamati a testimoniare. Soltanto la lettura della sentenza potrà essere ripresa. La corte ha deciso che non vi sia un «interesse sociale particolarmente rilevante» che possa mettere in secondo piano quelle che sono le esigenze di regolarità del dibattimento e di tutela delle parti. La difesa di Bossetti si era sempre dichiarata favorevole, perché fosse garantita la massima trasparenza, ma nella prima udienza si era rimessa per rispetto al volere della famiglia Gambirasio che era invece contraria, così come il pm Letizia Ruggeri che aveva sottolineato: «Penso che la presenza in aula delle tv possa influire negativamente sulla serenità del dibattimento».
Ore 11,30 - Sconfitta su tutta la linea per la difesa Bossetti, almeno per ora. Rigettate anche le cinque eccezioni preliminari sollevate dai legali dell’imputato. Che erano: «La nullità del decreto che dispone il giudizio». «La nullità del prelievo salivare a Bossetti». «La nullità degli atti eseguiti oltre il primo anno di indagini». «La nullità della relazione dei Ris di Parma sul dna e della consulenza autoptica». «L’esclusione di alcuni atti dal fascicolo del dibattimento».
Ore 12 - Il processo per l’omicidio di Yara Gambirasio, dopo la lettura dell’ordinanza relativa alle eccezioni preliminari, prosegue con l’illustrazione delle prove che le parti chiedono siano ammesse al dibattimento. Si preannuncia battaglia dura perché i numeri sono altissimi: il pm ha presentato una lista di 120 persone, la difesa di Bossetti addirittura 711. Improbabile che siano ammessi tutti.
Ore 12,05 - La difesa di Bossetti chiede l’ammissione di testimoni oculari che la sera della scomparsa di Yara avrebbero visto la tredicenne in compagnia di altre persone. E di altri testi, come lo psicologo che ha seguito Bossetti in carcere e gli esperti che guidarono le ricerche con i cani molecolari e che si concentrarono su un cantiere di Mapello.
Ore 12,20 - La difesa di Bossetti chiede l’esclusione di testimoni che potrebbero parlare della presunta crisi coniugale tra Bossetti e Marita Comi e di presunte relazioni extraconiugali della moglie perché «le relazioni extraconiugali non sono un reato».
Ore 12,30 - La difesa di Bossetti chiede l’acquisizione del fascicolo inerente la morte di Sarbjit Kaur, la 21enne indiana trovata morta nel fiume a Cologno al Serio nel dicembre 2010 (caso archiviato come suicidio). Così come quello (archiviato) relativo al marocchino Mohammed Fikri, arrestato - con l’accusa di aver sequestrato e ucciso Yara - nel dicembre 2010 a causa di una traduzione errata e rilasciato tre giorni dopo, e quello di Eddy Castillo, il dominicano ucciso proprio al campo di Chignolo nel gennaio 2011. «Massimo Bossetti e Yara non si conoscevano né si potevano conoscere, Yara era una ragazzina ingenua, immacolata e con la vita di una bambina: se l'obiettivo dell'accusa è il contrario vogliamo sentircelo dire chiaramente». Lo ha sottolineato Paolo Camporini, uno dei due legali del muratore accusato dell'omicidio della ragazzina di Brembate Sopra, chiedendo che non vengano ammessi alcuni testi che dovrebbero confermare un qualche contatto tra i due. Prima di Camporini aveva presentato le sue richieste alla corte il pm Letizia Ruggeri. Anche lei ha insistito perché venga accettata la sua lista di testi «già ritoccata al ribasso».Il pm aveva inoltre chiesto l’accoglimento di nuova documentazione tra cui quella che dimostrerebbe pernottamenti in un motel di Stezzano della moglie di Bossetti, Marita Comi, con uno dei due suoi presunti amanti. La difesa si è opposta anche a questa richiesta così come all’audizione come teste dell’uomo in questione.
Ore 13,05 - Sospesa momentaneamente l’udienza. Dovrebbe essere emessa nel pomeriggio, indicativamente intorno alle 15, l’ordinanza con la quale i giudici della Corte d’Assise di Bergamo ammetteranno le prove chieste da accusa e difesa nel processo a carico di Bossetti per l’omicidio di Yara. L’imputato ha lasciato il tribunale (foto principale), com’era arrivato, a bordo di un mezzo della polizia penitenziaria.
Ore 16,30 - I giudici della corte d’assise di Bergamo, decidendo sulle prove chieste da accusa e difesa nel processo per l’omicidio di Yara Gambirasio, hanno escluso la documentazione e le relative testimonianze riguardanti la vicenda del marocchino Mohamed Fikri, scagionato in relazione al delitto, e le ricevute del motel di Stezzano nel quale si sarebbero incontrati Marita Comi, moglie dell’imputato Massimo Bossetti, e un suo presunto amante. Quest’ultima era una prova chiesta dal pm, la prima era una richiesta della difesa. Ricomincerà il prossimo 11 settembre, con l’audizione dei primi testimoni (e sarà subito la volta dei due genitori di Yara, Maura Panarese e Fulvio Gambirasio), il processo davanti alla Corte d’Assise di Bergamo per l’omicidio di Yar. I giudici hanno fissato un fitto calendario composto da una ventina di udienze da settembre alla fine di dicembre. Ecco il calendario delle udienze: 11, 18 e 23 settembre; 2, 7, 9, 16, 21, 23 e 30 ottobre; 6, 13, 18, 20 e 27 novembre; 2, 4, 11, 16 e 18 dicembre.
«Almeno il trash non entra in questo processo». Lo ha sottolineato Claudio Salvagni, uno dei due legali di Massimo Bossetti, commentando la decisione della Corte d’Assise di non ammettere nella documentazione a sostegno dell’accusa le ricevute di un motel nel quale si sarebbero incontrati la moglie del muratore e un suo presunto amante. «In ogni caso parliamo di eventi che sarebbero accaduti anni dopo la scomparsa e l’omicidio di Yara - ha aggiunto il legale -, nessuna attinenza quindi con questo processo».
Processo Bossetti, i genitori di Yara rompono il silenzio: «Una prova dolorosa, ma ci saremo», scrive Gabriele Moroni su “Il Giorno”. I genitori di Yara Gambirasio affidano al loro legale le poche parole che racchiudono il loro stato d’animo. L’avvocato è stato il primo a informare Maura Panarese e Fulvio che l’11 settembre saranno loro ad aprire le testimonianze di Bergamo. «Siamo pronti, anche se sarà una prova molto dolorosa. Non ci siamo mai sottratti». I genitori di Yara Gambirasio affidano al loro legale Enrico Pelillo (che li segue con il collega Andrea Pezzotta) le poche parole che racchiudono il loro stato d’animo di sempre. L’avvocato Pelillo è stato il primo a informare Maura Panarese e Fulvio che l’11 settembre, alla ripresa del processo in Assise a Massimo Bossetti, saranno loro ad aprire le testimonianze chieste dal pubblico ministero Letizia Ruggeri. Nella stessa udienza verranno ascoltati Keba, sorella maggiore di Yara, e la zia Nicla, sorella del padre. Con loro Martina Dolci, l’amica con cui Yara scambiò gli ultimi sms nella serata del 26 novembre 2010, le istruttrici di ginnastica Daniela Rossi e Silvia Brena, altre amiche della scuola e della palestra. Maura e Fulvio sono indicati anche dai difensori dell’uomo accusato dell’omicidio della figlia. Anche Marita Comi, moglie di Bossetti, è un teste in comune. Ester Arzuffi, madre del muratore di Mapello, è citata solo dal pm. La difesa “chiama” il figlio maggiore dell’imputato, un ragazzo quattordicenne. Keba Gambirasio è parte civile con i genitori. Ha vent’anni. E’ istruttrice in quei corsi di base a cui stava assistendo, il 25 novembre del 2010, 24 ore prima che Yara sparisse. Aveva notato il cattivo funzionamento nel registratore, si era offerta di prestare il suo. Il giorno dopo Yara lo aveva portato nella palestra di via Locatelli. Ogni mattina Keba e la sorella tredicenne salivano sul pullman che le portava a Bergamo, la più grande all’istituto magistrale Secco Suardo, la tredicenne Yara alla scuola media delle Orsoline. «Condividevamo - ha detto Keba agli inquirenti - la stessa stanza. Con me si confidava parecchio. Mi aveva detto che le piaceva un ragazzo, ma non ho mai notato nulla di strano». Nicla Gambirasio era l’unica della famiglia a frequentare con la nipote Yara il discount Eurospin di Brembate di Sopra dove, secondo gli investigatori, la ragazzina avrebbe conosciuto Bossetti. Nel centro commerciale l’imputato sarebbe stato notato da Alma Azzolin, la donna di Trescore Balneario la cui testimonianza è uno dei cardini dell’accusa. Nell’udienza di venerdì i difensori hanno tentato senza successo di ricusarla. La Azzolin ripeterà in aula il racconto fatto ai carabinieri il 24 novembre di un anno fa, dopo che una trasmissione televisiva le aveva riacceso un ricordo. In un giorno compreso fra la metà di agosto e l’inizio dell’anno scolastico 2010, aveva accompagnato la figlia a Brembate, in una società ciclistica. Sostava in auto nel parcheggio nella vicinanze del cimitero, quando era entrata una vettura color grigio chiaro modello Station Wagon (Bossetti possiede una Volvo V40 grigia) con un uomo al volante. Pochi istanti dopo era arrivata di corsa una ragazza che si era infilata nell’auto dello sconosciuto: tra i 13 e i 15 anni, alta circa 1.60, snella, maglietta a maniche corte di colore salmone chiaro o rosa, pantaloncini corti, scarpe da ginnastica, capelli castano chiari lunghi fino alle spalle, apparecchio per la correzione dei denti. L’uomo era sui 35-40 anni, «con viso scavato, mento affilato e con capelli corti di colore castano chiaro». La Azzolin era rimasta colpita dagli occhi, simili a quelli di una volpe che le aveva attraversato la strada nelle ultime vacanze, «occhi che illuminati erano quasi bianchi». Alma Azzolin aveva rivisto l’uomo una settimana dopo all’Eurospin. «Lo sguardo era buono», annota l’informativa dei carabinieri. «Tant’è che le venne spontaneo pensare di averlo giudicato male». La testimone aveva riconosciuto Bossetti e riconosciuto Yara in una delle otto fotografie che le erano state mostrate.
Omicidio Yara: ecco quali sono le eccezioni respinte. Non ci sarà nessuna sospensione del procedimento contro Massimo Bossetti. E le riprese saranno consentite solo al momento della sentenza, scrive “Panorama”. Non si parlerà più di Mohamed Fikri per l'omicidio di Yara Gambirasio. Il marocchino fermato nei primi giorni delle indagini sulla scorta di una intercettazione tradotta male e poi scagionato, non deporrà, come chiesto dalla difesa di Massimo Bossetti; né entrerà nel dibattimento la documentazione del procedimento a suo carico, chiuso con un'archiviazione, perché la sua posizione è "irrilevante" nel processo al muratore di Mapello, oltre a essere già stata vagliata da un altro giudice. Non si parlerà in aula nemmeno di quelle nove ricevute di un motel in cui la moglie di Bossetti, Marita Comi, avrebbe incontrato uno dei suoi presunti amanti. Anche questo è irrilevante perché, nonostante quanto sostenuto dall'accusa, gli incontri sono di molto successivi al delitto della tredicenne di Brembate Sopra. Potranno invece essere eventualmente sentiti i due uomini indicati come amanti di Marita nelle indagini, qualora dovesse rivelarsi utile. Il pm Letizia Ruggeri lo ritiene per ricostruire l'ambiente familiare di Bossetti che la coppia descriveva come idilliaco e che, invece, qualche falla l'ha evidenziata. I giudici della Corte d'assise di Bergamo, presieduti da Antonella Bertoja, circoscrivono il perimetro delle prove entro il quale accusa e difesa si batteranno in un processo che entrerà nel vivo a partire dall'11 settembre e nel quale sono previste altre 20 udienze fino a dicembre. Sfoltiscono la lista delle prove respingendo la richiesta degli avvocati di Bossetti (presente in aula anche oggi) di rivalutare, acquisendone i fascicoli, due altri casi di cronaca nera bergamaschi: l'omicidio di Eddy Castillo, dominicano ucciso vicino alla discoteca Sabbie Mobili, poco distante dal campo in cui fu trovata il corpo di Yara (per quel delitto c'è già una condanna all'ergastolo) e quello di una ragazza indiana trovata annegata nel Fiume Serio (per questo fatto, qualificato come suicidio è intervenuta un'archiviazione). Per i giudici questi due episodi nulla c'entrano con la tragedia di Yara anche se gli avvocati di Bossetti hanno spiegato che, come nel caso di Fikri, non era loro intenzione indirizzare la Corte su altre piste ma dimostrare come le indagini siano state fatte a senso unico ("Qui si sta celebrando il processo a un imputato del quale si deve decidere la colpevolezza o l'innocenza, non è un processo alle indagini", ha avvertito uno dei legali dei famigliari di Yara). Nessuno spazio, come da Codice di procedura penale, per una valutazione delle "qualità psichiche dell'imputato indipendenti da cause patologiche": quindi no alla testimonianza di psicologi del carcere. E se questo vale per Bossetti, ancor più vale per Yara anche se la difesa chiedeva di sentire esperti sulla psicologia della ragazza per dimostrare che Bossetti e la vittima non potevano conoscersi. "Massimo Bossetti e Yara non si conoscevano nési potevano conoscere - avevano argomentato gli avvocati - Yara era una ragazzina ingenua, immacolata e con la vita di una bambina, un fiore: se l'obiettivo dell'accusa è il contrario vogliamo sentircelo dire chiaramente". (ANSA).
Il processo a Massimo Bossetti si trasformerà in un boomerang pronto a colpire il sistema investigativo giudiziario? Di Gilberto Migliorini su “Albatros Volando Controvento”. Quello che si è aperto al tribunale di Bergamo potrebbe avere tutti i requisiti per diventare un processo alla Giustizia italiana. Il caso di Massimo Bossetti potrebbe trasformarsi in un boomerang nei confronti di un sistema giudiziario che ha intrapreso con leggerezza e sicumera una strada a fondo cieco portando un innocente a processo. Troppe cose continuano a non tornare, a iniziare dai complimenti inviati alla Hacking Team dai funzionari del Ros il giorno successivo all'arresto in pompa magna del muratore per passare alle cremazioni di chi poteva dare risposte e non potrà più darle e finire con la presenza di un nucleare sicuro al 99,99% che la scienza dice non poter esistere dopo tre mesi all'aperto in balia di intemperie e liquidi corporali. Nucleare che invece esiste, con grande stupore del Ris, ma è completato da un mitocondriale al 100% diverso da quello di Bossetti. Come se aprendo un uovo trovassimo un tuorlo circondato da piume anziché di albume. Come se andassimo all'ippodromo per veder correre dei quadrupedi con la faccia da pesce cane: gli squavalli! Animali ottenuti aggiungendo al nucleare di un cavallo il mitocondriale di uno squalo. Complotto, errore, malafede, inefficienza o chissà cos'altro? Niente di tutto questo, tutto si può spiegare... dicono i biologi pagati dalla procura. E tanto basta alla pubblica opinione per non pensare di fino al dna e ai virus che possono spiare o modificare i dati di uno o più computer. (anche quelli dei laboratori genetici?). I media urlano che oltre al dna c'è ben altro, e il popolo si infervora e fa da supporto a un teorema con l’indizio quotidiano spacciato per certezza colpevolista buona a inchiodare il carpentiere di Mapello alle sue responsabilità. La palude mediatica afferra col suo fango e avvinghia le menti. A quel punto tutto si dà per assodato e sicuro, anche la serie di fatti tutti da dimostrare. Per i più infangati, i più convinti e impressionati dal clamore, il processo che si sta per celebrare è una formalità per un colpevole già condannato a furor di popolo...Nessuno pensa da cosa si è partiti. Una marca da bollo ha fatto da innesco a una filiera investigativa davvero avveniristica. La storia del Dna dietro a un francobollo ricorda le favole con l’immancabile sortilegio, ma in chiave moderna e con tanto di acido desossiribonucleico, un impianto avvincente, con il retroscena di adulteri e figli illegittimi che fanno della vicenda una sceneggiatura boccaccesca, un racconto alla Guy de Maupassant. C’è anche il lupo mannaro. Un dèjà vu che ci riporta a Barbablù di Perrault e a Pinocchio di Collodi. L’audience si è persuasa della colpevolezza di Bossetti sulla base di indizi estemporanei gridati con la grancassa dei media. La telenovela è stata costruita con tanti personaggi immaginifici come fossero veri, un film stravagante e scapigliato. C’è una domanda preliminare che sembra tutti abbiano dato per assodata (colpevolisti e innocentisti) che però non riesce a trovare risposta. Perché a tutt’oggi la procura non ha voluto fare il raffronto genetico tra Massimo Bossetti e il padre Giovanni? Naturalmente con la partecipazione dei consulenti della difesa? Il procuratore capo Francesco Dettori si era espresso fin dal giugno 2014 come se fosse qualcosa di superfluo: «Disporre il dna per il padre anagrafico del presunto assassino? In prospettiva non può essere escluso nulla, ma al momento la Procura ritiene non necessario e superfluo il test. Quanto raccolto finora in termini di comparazione genetica è più che sufficiente: il raffronto fra il codice genetico di Ignoto 1 e di Massimo Bossetti è stato compiuto dagli specialisti dell’Università di Pavia e credo che in termini di certezza scientifica non ci sia margine di errore. Poi, col tempo, si vedrà. Non è escluso che si possa fare». Non è escluso che si possa fare, aveva detto il procuratore, come se una controprova fosse davvero qualcosa di assai poco importante. Ma la domanda è d’obbligo: perché quell’unico esame da eseguire in contraddittorio con la difesa (e dopo diciottomila reperti già catalogati) non s’ha da fare? considerando poi che la signora Arzuffi è categorica nel proclamare che Massimo Bossetti è figlio del padre Giovanni e che nessun adulterio c’è mai stato? Parrebbe normale offrire - dopo migliaia di prelievi - quello in più che garantirebbe in via preliminare (e indipendentemente da tutte le contraddizioni sul Dna: nucleare vs mitocondriale) a un imputato di un grave delitto una eventuale prova risolutiva a suo favore o sfavore e che nel caso favorevole eviterebbe ulteriore spreco di denaro pubblico. Di sicuro dovranno ammettere anche i genetisti dell’accusa che una prova sul padre vivente metterebbe la parola fine a qualsiasi dubbio rispetto a quella fatta su un francobollo e su un cadavere senza nessun controllo da parte dei consulenti della difesa. Nessuno dubita della genuinità dei reperti (almeno di quelli che esistono ancora e possono essere ricontrollati), ma si sa che nel diritto gli aspetti formali sono importanti. Non so il perché della mancata prova sul padre legale, che tanti sono certi ci sia stata ma come l’araba fenice (che ci sia ciascun lo dice dove sia nessun lo sa) ricorda quel manzoniano matrimonio che non s’ha da fare - con il povero Don Abbondio che farfuglia spaventato: Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s'anderebbe a un banco a riscotere… Certo, nel caso si tratta, per gli inquirenti, di qualcosa di inutile perché già celebrato nei santuari dei laboratori scientifici con tanto di certificazione di infallibilità. Però far la classica prova del nove potrebbe dimostrare che non c’è pregiudizio e non c’è sospetto di ostacolare in alcun modo i diritti inviolabili della difesa. Non come il bravomanzoniano che all'orecchio dello spaventatissimo Don Abbondio minaccia: questo matrimonio non s'ha da fare, né domani, né mai. E il povero curato replica come tanti italiani spaventati dall'arroganza del potere: se mi sapessero suggerire...Suggerire è parola sospetta: - Oh! suggerire a lei che sa di latino! direbbe il bravo al curato che di fronte al nome dell’illustrissimo... risponde come ci si aspetta da un povero servo spaventato: il mio rispetto. No non siamo più in un sistema dove si suole intimidire un imputato, dove si cerca di estorcergli una confessione. Fortunatamente non siamo più nel 1628. Alla difesa sono assicurate tutte le garanzie di imparzialità e correttezza, di uguaglianza e di presunzione di innocenza fino al terzo grado di giudizio, o almeno credo sia così on Italia...C’è però un altro aspetto nella vicenda Bossetti che dovrebbe mettere paura agli italiani proprio come la metterebbe al povero Don Abbondio (il Bel Paese non cambia davvero mai). L’opinione pubblica non sembra davvero rendersi conto che chiunque potrebbe diventare come il carpentiere di Mapello: un tiro al bersaglio. L'opinione pubblica non si rende conto che il sistema mediatico è in grado di creare colpevoli dal nulla, di mantecare le bazzecole e le quisquiglie e di farle diventare indizi e prove che inchiodano, creare surrettizie allusioni e pregiudizi in grado di fare di chicchessia, una volta individuato come soggetto che fa alle bisogna, un capro espiatorio da immolare sulla pubblica piazza. Nella vita di ciascuno di noi, volendo, si può reperire materiale per imbastire un thrilling. Ciascuno di noi - evidenziando e accostando in modo opportuno anche i fatti più insignificanti - può diventare un serial killer, un pedofilo, un violentatore e un torturatore. I metodi sono quelli dove si mescolano fatti banali creando collegamenti allusivi con ipotesi e scenari del tutto arbitrari e fantasmatici che in forza del pregiudizio instillato, e con un lavoro meticoloso di indottrinamento, acquistano la consistenza di realtà anche se sono soltanto nessi senza fondamento. Il meccanismo è noto, studiato da sempre dalla Psicologia Sociale, utilizzato variamente dai sistemi totalitari per creare l’immagine del nemico e alimentare l’odio contro di lui. Basta mettere sotto i riflettori anche la quotidianità più insignificante e inquadrarla con luci livide e spettrali, proporla da prospettive sinistre e allusive per trasformare il nulla del quotidiano mestiere di vivere in un inquietante, perverso e dissoluto teatro del crimine. Nelle cosiddette società democratiche il fenomeno è diventato invisibile in forza di quei formalismi che danno l’apparenza che tutto si svolga con procedure democratiche e garanzie nei confronti di un indagato. La realtà è purtroppo quella di un sistema dove si vende un colpevole o un innocente proprio come se si trattasse di un detersivo, a seconda di quale sia più conveniente dal punto di vista editoriale - e non - senza tener conto di equilibri e connivenze con il potere (in tutte le sue forme) che la scelta comporta. Si tratta di strategie di marketing applicate senza nessun criterio morale a delle persone comuni con campagne mediatiche pianificate a tavolino e utilizzando le retoriche e gli stratagemmi tipici della vendita, come se si trattasse di un qualsiasi altro prodotto: dalle saponette alle automobili. Il fatto che in un caso ipotetico ci sia implicata la vita di uomini e donne in carne e ossa con sentimenti ed esperienze gioiose e dolorose - non avatar o burattini di legno - non fa alcuna differenza per un sistema mediatico del tutto amorale che considera le persone come semplici prodotti editoriali con le connesse ricadute di share, prestigio, potere e... non senza un eventuale sostegno politico per ulteriori strategie commerciali. Il marketing sa impostare tutti gli stratagemmi utili a creare nell’audience un terreno adatto a farle credere che a certe conclusioni è giunta in perfetta autonomia sulla base di argomentazioni razionali e sillogismi deduttivi coerenti e consequenziali. La realtà è quella di una strategia di vendita nella quale ci si serve di tutte quelle figure retoriche in grado di persuadere surrettiziamente, di prendere per mano il consumatore senza che questi se ne avveda per condurlo dove si vuole. Le pubblicità e le propagande più efficaci sono proprio quelle che non si vedono, che si rendono invisibili formulando il messaggio in modo da dargli l’apparenza di un mero dato informativo. Si vendono i colpevoli come se si trattasse del lancio di qualche nuovo prodotto con tutti i plus e i benefit idonei a far pendere l’ago della bilancia. Il consumatore è condotto là dove ti porta il cuore, in quel luogo dove la mente agisce d’impulso sull'onda dell’emozione o dove l’aspetto razionale è solo quello inculcato da una concatenazione di sillogismi apparenti. Il colpevole giudiziario in fondo è come un prodotto del supermercato dove la giustizia è soltanto un’opzione come tante, l’importante è che lo slogan sia quello giusto, che il mio di colpevole lavi più bianco del tuo innocente...
Massimo Bossetti. La ragion di stato, i media e le telecamere che l'accusa non vuole in aula...continua Gilberto Migliorini. Ci sono casi e casi, ci sono processi e processi. Di fronte a un palese innocente c’è perfino la necessità di una condanna perché la ragion di Stato lo consiglia. Troppe persone esposte? Troppe carriere in bilico in caso di assoluzione? Troppo denaro speso per poter fare retromarcia e riconoscere che il carpentiere di Mapello c’entra con il delitto di Yara come i cavoli a merenda? I media nel caso in questione hanno fatto il loro dovere, forse ancor meglio che in altri casi (salvo eccezioni encomiabili), quello di comportarsi da megafono del potere, da passacarte di notizie dell’ultima ora e di indiscrezioni pilotate con accorta regia da chi vuole a tutti i costi la condanna del muratore. Muratore che da un momento all'altro si è trovato ad essere più famoso di tanti attori, cantanti e politici messi assieme. E' la star di un caso mediatico-giudiziario che grazie al dna farà epoca (così si è detto ai piani alti) presentato in diretta nazionale dal ministro dell'interno... e anche questo il Giudice Antonella Bertoja deve considerare per decidere se sia giusto aprire la sua aula alle telecamere (naturalmente con le dovute cautele e nel rispetto di chi chiede la tutela della propria privacy). Tanta gente non si fida più e vuole sapere, vuole capire se l'accusa, che si oppone alle riprese del processo, ha davvero degli assi in mano. Stanca dei riassunti accusatori del solito giornalista schierato, l'uomo comune vuole farsi un'opinione in autonomia, vuole vedere e ascoltare con le proprie orecchie. Perché guardando fra le crepe del muro accusatorio, a chi sa leggere tra le righe pare palese che di prove nei confronti di Massimo Bossetti non ce ne siano proprio, a parte quel Dna che, per una serie di contraddizioni, puzza di bruciato lontano un miglio. Saranno gli esperti a far le pulci alle macchie bruciate nei procedimenti analitici, ai cadaveri cremati e a quei francobolli che hanno l’imprinting di presunte relazioni adulterine? Sarei pronto a scommettere che perfino lì ci attendono sorprese, che a mentire non sia la signora Arzuffi…Di solito ci vien detto che c’è una verità puramente processuale. L’occasione è ghiotta per tutti quelli che un’idea sul caso Bossetti se la sono fatta sulla base delle notizie giornaliere sbandierate dai media con titoli cubitali di inchiodature, confessioni, smentite, rivelazioni… e chi più ne ha ne metta, facendo le pulci alle frasi e alle parole più banali e insignificanti proferite dal protagonista e dai componenti della sua famiglia. Una realtà mediatica che si qualifica come l’ancella (per dirla eufemisticamente) di quel potere che dispone di tutto l’armamentario concettuale e normativo in grado di quadrare il cerchio, di costruire quei solidi impianti accusatori basati sul niente, ma con tutti i crismi formali per apparire consequenziali e perfino allettanti. Mi correggo, solidi impianti accusatori basati su nanogrammi di materiale genetico miracolosamente scampato per mesi alle intemperie anche se poi commisto di una varietà di contraddizioni che fanno pensare che purtroppo qualcosa nella ri-costruzione sia andato storto. Ma non fa nulla, non ci si scoraggia per così poco, l’utenza mass-mediatica è di bocca buona e con qualche titolo a quattro colonne si possono zittire anche i dubbiosi. In fondo il lavoro ai fianchi è stato meticoloso e costante. Il Bossetti ha avuto una presentazione accurata per farlo passare da pedofilo. Mancando il materiale, in assenza di qualcosa di concreto si è ravanato nella pattumiera per cercare schifezze che potessero sollecitare le fantasie di una utenza in attesa di qualche strabiliante rivelazione, di perversioni inenarrabili e di risvolti privati nella sua famiglia. Non si è trovato niente? Non c’è da preoccuparsi. O si inventa o si mette sotto la lente di ingrandimento qualche insetto minuscolo e insignificante. Allo specolo e al microscopio perfino le mandibole delle formiche sembrano davvero armi micidiali capaci di uccidere un elefante. Vero che di concreto non c’è neppure uno spillo, ma che importa quando basta insinuare il dubbio. Qualche navigazione on line, ad esempio, è come il jolly che va sempre bene in tutte le salse... e il gioco è fatto. La palude mediatica ha un capro espiatorio e l’istituzione (quella feudale) ha il suo instrumentum regni. Vero è che qualcuno, un po’ meno ingenuo, qualche dubbio comincia a porselo. Sarà per quelle notizie fatte filtrare giornalmente ad arte, sarà per quel gioco dei quattro cantoni, sarà soprattutto per quel ravanare insistente su certi dettagli allusivi allo scopo di insinuare il sospetto e il pregiudizio. Una regia davvero troppo smaccatamente orientata a sceneggiare un copione... e i meno boccaloni cominciano a sospettare non solo che Bossetti sia innocente, ma che forse ci attende anche un processo in cui la sentenza potrebbe già essere stata scritta. In anticipo e prima ancora che nell'aula del tribunale si sia dato seguito al dibattimento. Non arriviamo a tanto. Continuiamo ad illuderci, nonostante altri casi ci abbiano resi dubbiosi, che questo nostro Paese sia ancora uno stato di diritto... e vorremmo che qualche telecamera neutrale entrasse in aula e lo confermasse.
Massimo Bossetti. Uno dei troppi casi dell'italica giustizia che molto ricordano il "Processo agli Untori" del 1630, continua ancora Gilberto Migliorini. “La mattina del 21 di giugno 1630, verso le quattro e mezzo, una donnicciola chiamata Caterina Rosa, trovandosi, per disgrazia, a una finestra del cavalcavia che allora c’era sul principio di via della Vetra de’ Cittadini, dalla parte che mette al corso di porta Ticinese (quasi dirimpetto alle colonne di san Lorenzo), vide venire un uomo con una cappa nera, e il cappello sugli occhi, e una carta in mano, ‘sopra la quale’, dice costei nella sua deposizione, metteua su le mani, che pareua che scrivesse.” Comincia così l’opera manzoniana dedicata alla ricostruzione del celebre processo agli untori, Guglielmo Piazza e Giangiacomo Mora, nella Storia della Colonna infame. Il conte Pietro Verri nelle sue Osservazioni sulla tortura, nel 1760, aveva già affrontato l’argomento e intrapreso la stesura dell’opera che inizialmente non pubblicò per tema di qualche reazione a lui sfavorevole da parte del Senato milanese. Le critiche alla magistratura contenute nel libro lo indussero alla prudenza. Alcuni suoi articoli sul periodico Il Caffè, offrirono però a Cesare Beccaria lo spunto per la sua opera celeberrima Dei delitti e delle pene. Solo nel 1777 Verri - con la nuova versione delle Osservazioni - solleciterà i magistrati ad aderire alle idee illuministe rinunciando a posizioni retrive e giustizialiste. La posizione di Verri è di carattere ideologico nella temperie illuminista e nel rifiuto della tortura, dove il caso in oggetto nella ricostruzione del processo agli untori del 1630 è occasione per valutare il procedimento giudiziario nell'ottica di leggi sbagliate e come emblema di ignoranza e di superstizione. La Storia della Colonna infame del Manzoni - che approfondisce il tema del Processo agli untori - è però in un’ottica diversa, in certo senso più radicale e meno ideologica rispetto al suo illustre predecessore, più relativa agli uomini che alle istituzioni, nel rifiuto di un determinismo storico che giustifichi una sentenza in ragione delle coordinate culturali di un’epoca, del suo sistema giudiziario e della mentalità coeva. Continua il Manzoni nella ricostruzione del Processo in merito alla testimonianza di Caterina Rosa che fa da innesco a tutta la vicenda: “Le diede nell'occhio che, entrando nella strada si fece appresso alla muraglia delle case, che è subito dopo il cantone, e che a lungo a lungo tiraua con le mani dietro al muro. All’hora, soggiunse, mi viene in pensiero se a caso fosse un poco uno di quelli che, a giorni passati, andauano ongendo le muraglie. Presa da un tal sospetto, passò in un’altra stanza, che guardava lungo la strada, per tener d’occhio lo sconosciuto, che s’avanzava in quella; et viddi, dice, che teneua toccato la detta muraglia con le mani”. L’incipit manzoniano può sembrare del tutto diverso dal caso Bossetti, in realtà il rapporto indizi e contesto presenta alcune analogie sia sul versante psicologico, sia su quello sociale. Il sospetto prodotto dall'andare rasente al muro da parte di quello che poi sarà identificato come un commissario della Sanità, tale Guglielmo Piazza, è relativo al diffondersi della peste in Milano nel 1630 e alla diceria dell’untore, cioè al sospetto che taluni andassero ungendo luoghi e cose allo scopo di diffondere la pestilenza. Va da sé che senza quel contesto (la peste e la diceria dell’untore) l’azione di andare rasente a un muro non avrebbe sollecitato alcuna fantasia in qualche testimone occasionale, ma sarebbe apparsa come qualcosa non solo di irrilevante, ma nemmeno degno di attenzione, tenuto poi conto che quel giorno pioveva ed era naturale tenersi il più possibile al riparo rasentando i muri. Il contesto dunque è in grado di colorare atti ed eventi traducendoli secondo significati che, per quanto siano narrativamente d’effetto, sono dovuti semplicemente alla suggestione e alla fantasia di chi se ne fa interprete. Nel caso Bossetti il contesto è ritrovamento del ‘suo’ Dna sul cadavere della povera Yara (ammesso che sia davvero il suo o che non sia intervenuto qualche errore o contaminazione) e per questo la convinzione, anzi la certezza secondo alcuni, che si tratti del suo assassino (le due cose ovviamente comportano inoltre un nesso da dimostrare). Tale contesto o premessa è in grado di colorare altri fatti banali che altrimenti apparirebbero del tutto insignificanti (proprio come l’andar rasente un muro che nel contesto della pestilenza diviene secondo una donnetta l’elemento rivelatore di un atto criminale). Vediamo alcuni di questi fatti nel caso del muratore di Mapello:
a) Transitare con un furgone in strade che di norma Bossetti si trovava normalmente a percorrere, essendo quelli i luoghi dove vive e lavora con un furgone peraltro in uso a moltissimi artigiani (comunque non esiste prova che la ragazza sia salita su un furgone, si tratta solo di congettura).
b) Allacciarsi a celle telefoniche che di fatto riguardano i medesimi ambiti dove Bossetti vive, soggiorna e si sposta.
c) Estrapolare frasi dal computer o siti di navigazione (e anche qui ammesso che sia lui il navigante) interpretandoli sulla base di un pregiudizio di colpevolezza. Sono tutti fatti che al di fuori del contesto sono del tutto neutrali e neppure degni di un qualche rilievo, prove di niente, se non come spunti narrativi per creare una storia collegando dei fatti in modo suggestivo.
Ma vediamo nell'opera del Manzoni quali meccanismi psicologici informano quel sistema giudiziario nel lontano 1630 che portò all'esecuzione di persone innocenti, lasciando che sia il lettore a decidere se si tratta dei medesimi ragionamenti induttivi che potrebbero anche oggi costruire dei veri e propri romanzi costruiti su congetture. Alla testimonianza di Caterina Rosa si assomma quella di una seconda spettatrice, Ottavia Bono, nelle parole emblematiche del Manzoni: “la quale, non si saprebbe dire se concepisse lo stesso pazzo sospetto alla prima e da sé, o solamente quando l'altra ebbe messo il campo a rumore”. Manzoni delinea sottilmente e ironicamente quello che spesso è il contagio della testimonianza frutto di quella suggestione, quelle voci che corrono, quei rumors che alimentano fantasie e induzioni… in un processo di reciproco influenzamento che va anche sotto il nome di profezia che si autoadempie, quando cioè l’elemento psicologico, le aspettative, innescano una cascata di illazioni che finiscono per dar loro conferma alimentandoli in un processo di influenzamento collettivo. “Interrogata anch'essa, depone d'averlo veduto fin dal momento ch'entrò nella strada; ma non fa menzione di muri toccati nel camminare. ‘Viddi, dice, che si fermò qui in fine della muraglia del giardino della casa delli Crivelli... et viddi che costui haueua una carta in mano, sopra la quale misse la mano dritta, che mi pareua che volesse scriuere; et poi viddi che, leuata la mano dalla carta, la fregò sopra la muraglia del detto giardino, dove era un poco di bianco”. Alla giustificazione dell’imputato, il Guglielmo Piazza, che si stava semplicemente pulendo le mani sporche d’inchiostro e che l’andar rasente al muro era dovuto al fatto che pioveva, ecco che la stessa Caterina Rosa riesce a formulare un’induzione in grado di confermare il suo pregiudizio e anzi aggravarlo contribuendo a trasformare un fatto insignificante in un indizio ancora più grave e schiacciante: “è ben una gran cosa: hieri, mentre costui faceva questi atti di ongere, pioueua, et bisogna mo che hauesse pigliato quel tempo piovoso, perché più persone potessero imbrattarsi li panni nell'andar in volta, per andar al coperto”. Qui abbiamo un bell'esempio di come una volta deciso narrativamente quale debba essere la ricostruzione di un evento si possano far combaciare le tessere del mosaico, anche quando sono palesemente arbitrarie, potendo trovare sempre una giustificazione che conferma il sospetto, anzi rappresentandolo e aggravandolo con ancora maggior forza sulla base di un sillogismo che trova una logica mediante procedimenti induttivi e interpretazioni ad hoc sotto forma di presunti indizi. La giustificazione del Piazza che l’andar rasente al muro era perché pioveva (spiegazione del tutto ovvia e convincente) diviene invece - nell'interpretazione che se ne vuole dare e che scaturisce da un pregiudizio - riprova di un delitto premeditato e architettato con l’intento perverso e crudele di cagionar il massimo di efficacia. Si tratta di quella fallacia che l’epistemologia popperiana bolla come stratagemma convenzionalistico con il quale si può sempre riaggiustare un sillogismo zoppicante introducendo una interpretazione ad hoc che tenga in piedi il sistema induttivo. In breve, la donna è in grado divulgare il suo sospetto che porterà all'identificazione dell’uomo. La notizia viene data come ormai certa e addirittura tutti cominciano a vedere i muri imbrattati di unzioni: “et uscirno dalle porte, et si vidde imbrattate le muraglie d'un certo ontume che pare grasso et che tira al giallo; et in particolare quelli del Tradate dissero che haueuano trovato tutto imbrattato li muri dell'andito della loro porta. L'altra donna depone il medesimo. ‘Interrogata, se sa a che effetto questo tale fregasse di quella mano sopra il muro, risponde: dopo fu trouato onte le muraglie, particolarmente nella porta del Tradate”. Le voci che corrono, il gossip e il pettegolezzo sono davvero in grado di creare scenari e straordinarie rappresentazioni, così vivide che non c’è più neppure bisogno di immaginare… si possono vedere e rievocare fatti come se ciascuno ne fosse stato testimone, mentre la notizia si propaga con la velocità di un incendio. E alla fine si vede anche quello che non c'è… i muri unti dove in realtà si tratta soltanto della solita sporcizia che è lì da sempre, in un’epoca dove l’igiene mancava del tutto…Il Manzoni osserva sarcasticamente che il sospettato di unzioni venefiche “per fare un lavoro simile, aveva voluto aspettare che fosse levato il sole, non ci andasse almeno guardingo, non desse almeno un'occhiata alle finestre; né che tornasse tranquillamente indietro per la medesima strada, come se fosse usanza de' malfattori di trattenersi più del bisogno nel luogo del delitto; né che maneggiasse impunemente una materia che doveva uccider quelli che se ne imbrattassero i panni; né troppe altre ugualmente strane inverisimiglianze. Ma il più strano e il più atroce si è che non paressero tali neppure all'interrogante, e che non ne chiedesse spiegazione nessuna. O se ne chiese, sarebbe peggio ancora il non averne fatto menzione nel processo”. L’analogia con il caso Bossetti è che il muratore (nel caso fosse l’assassino) non ha preso precauzione alcuna pur sapendo di aver abbandonato la vittima ancora viva (e che dunque la povera Yara morta poi per il freddo, le ferite e lo shock, potesse eventualmente essere soccorsa e salvata e rivelare il nome del suo aguzzino, dal momento che l’accusa suppone che la ragazza lo conoscesse e fosse proprio lui: il muratore di Mapello). Inoltre, sempre nell'ipotesi che fosse davvero Bossetti l'aggressore e avendo lasciato sicuramente qualche traccia sul luogo del delitto, lo stesso non avrebbe preso alcuna precauzione per salvarsi il culo, come oggi si usa dire, e inquinare le prove, né per evitare che in qualunque modo si potesse risalire a lui. Sapendo che la sua vittima era là nel campo di Chignolo, tra le sterpaglie, avrebbe potuto provvedere, avendo tutto il tempo che voleva, a eliminare le sue tracce, se fosse stato davvero lui l’assassino. E di certo un muratore avvezzo alla manualità lo avrebbe potuto fare agevolmente. E ancora nelle parole sarcastiche del Manzoni (tornando agli untori): “I vicini, a cui lo spavento fece scoprire chi sa quante sudicerie che avevan probabilmente davanti agli occhi, chi sa da quanto tempo, senza badarci, si misero in fretta e in furia a abbruciacchiarle con della paglia accesa”. La suggestione riesce a far percepire anche quello che non c’è proprio, a immaginare scenari e addirittura cose che esistono solo nella fantasia di chi si è ormai convinto della loro esistenza. Nella psicologia della testimonianza, si sa che la suggestione talvolta crea mostri e immagina cose dove in perfetta buona fede, ma sull'onda dell’influenza sociale e dei vissuti individuali, si possono vedere e ricordare anche cose inesistenti o deformarne il significato. Per ironia della sorte anche a Giangiacomo Mora, barbiere che poi verrà accusato di complicità con il Piazza, “parve, come agli altri, che fossero stati unti i muri della sua casa. E non sapeva, l'infelice, qual altro pericolo gli sovrastava, e da quel commissario medesimo, ben infelice anche lui”. A dimostrazione che la buona fede non basta ad evitare che la suggestione abbia anche un effetto boomerang, ritorcendosi talvolta sullo stesso testimone. Quando una diceria è innescata purtroppo è come un incendio, non si sa dove il fuoco del chiacchiericcio andrà ad appiccare e quanto credito un’autorità potrà dargli. Il figlio di quel Mora, ancora ignaro di quello che cadrà tra capo e collo al padre, interrogato dirà: “sentei che una donna di quelle che stanno sopra il portico che trauersa la detta Vedra, quale non so come habbi nome, disse che detto commissario ongeua con una penna, hauendo un vasetto in mano”. Ovviamente compaiono nuovi dettagli, come in una sorta di contagio emozionale dove ciascuno aggiunge qualcosa per non esser da meno nella ricostruzione del fatto che via via diventa sempre più corposo e ricco. La suggestione fa vedere e ricordare anche fatti che esistono solo nella fantasia sollecitata dal clamore del pettegolezzo, dal bisogno di protagonismo, talora dalla malizia e dalla farneticazione. La capacità di sceverare il fatto - nella sua nudità da quanto viene aggiunto - diventa difficile e pernicioso. Una penna richiama un calamaio e trattandosi di unzioni il calamaio diventa un vasetto. Il tumulto di chiacchere costruisce pian piano una narrazione dove quello che non torna viene modificato e aggiustato fino a che la storia corra via liscia e senza intoppi e dove ogni tessera del mosaico vada al suo posto, sia pure con l’aiuto di molta immaginazione e sempre con il timone e la guida del pregiudizio. Alla fine la notizia è data per certa: “È stato significato al Senato che hieri mattina furno onte con ontioni mortifere le mura et porte delle case della Vedra de' Cittadini, disse il capitano di giustizia al notaio criminale che prese con sé in quella spedizione”. Commenta il Manzoni. “E con queste parole, già piene d'una deplorabile certezza, e passate senza correzione dalla bocca del popolo in quella de' magistrati, s'apre il processo”. E con amarezza l’illustre milanese aggiunge più avanti: “Quel sospetto e quella esasperazion medesima nascono ugualmente all'occasion di mali che possono esser benissimo, e sono in effetto, qualche volta, cagionati da malizia umana; e il sospetto e l'esasperazione, quando non sian frenati dalla ragione e dalla carità, hanno la trista virtù di far prender per colpevoli degli sventurati, sui più vani indizi e sulle più avventate affermazioni”. Nel caso Bossetti, viene costruita una narrazione sulla base di un solo elemento - il Dna - peraltro in una situazione non controllata. Il metodo sperimentale richiede l’isolamento e il controllo delle variabili dipendenti e indipendenti, una situazione controllata che escluda che qualsiasi altro fattore possa intervenire nel rapporto di dipendenza, nella riproducibilità dell’esperimento e nell'imputazione dei nessi tra le variabili. Un cadavere rimasto per mesi alle intemperie, a qualunque possibile inquinamento volontario e involontario di chicchessia, e con la componente nucleare di ottima qualità in contrasto con l’ineluttabile deterioramento dopo una lunga esposizione agli agenti atmosferici, risulta incompatibile con quella situazione controllata che è alla base di un metodo che voglia dirsi scientifico. Questo nulla toglie che le analisi possano offrire spunti di approfondimento e suggerimenti per ulteriori indagini, ma non già delineare un quadro probatorio certo, non solo congetture e ipotesi, ma anche confutazioni e precisazioni in ordine a uno scenario di difficile e dubbia interpretazione. Tutto un frame che rimanda a un contesto che suggerisce, più che un coerente sistema deduttivo basato su prove, una narrazione, un teorema ricco di suggestioni ma povero di elementi di concretezza e di certezze nel contesto di un cadavere rimasto molto a lungo in balia degli agenti atmosferici e dell’arbitrio di chiunque. Tornando al processo agli untori, il Piazza viene arrestato mentre se ne stava sereno e tranquillo in casa sua - elemento addirittura a suo sfavore, anche dopo le voci che davano per certa l’unzione di porte e muraglie. Comportamento più tipico di un innocente piuttosto che di un criminale. Analogamente il Bossetti - nonostante le ricerche infruttuose della povera Yara, anche nello stesso campo di Chignolo dove poi finalmente verrà trovata cadavere - continua una vita normale senza preoccupazioni o patemi d’animo. La perquisizione della casa del Piazza non giovò per nulla al sospettato (ma sarebbe più esatto dire ormai trattato come colpevole acclarato) anche se nella perquisizione non fu trovato alcun minimo indizio. Come scrive il Manzoni: “Fu subito visitata la casa del Piazza, frugato per tutto, in omnibus arcis, capsis, scriniis, cancellis, sublectis, per veder se c'eran vasi d'unzioni, o danari, e non si trovò nulla: nihil penitus compertum fuit. Né anche questo non gli giovò punto…”. Analogamente e paradossalmente non sembra aver deposto a favore di Bossetti il fatto che niente sia stato rilevato sui suoi veicoli e sulle sue cose (e ci si chiede peraltro come il medesimo potesse guidare e nel contempo costringere la ragazzina sul suo camioncino). Interrogato sulle sue occupazioni e sulle sue faccende del giorno in questione (non di molto tempo prima come nel caso del muratore), imputato o sospettato che dir si voglia (ma comunque già colpevole proprio come il Bossetti che viene già per certo indicato all'opinione pubblica come l’assassino... perfino dal ministro ancor prima che venisse formalizzato un atto d’accusa) così il malcapitato Piazza risponde: “mi non lo so, perché non mi fermo niente in Porta Ticinese.” Osserva il Manzoni: “Gli si replica che questo non è verisimile; si vuol dimostrargli che lo doveva sapere. A quattro ripetute domande, risponde quattro volte il medesimo, in altri termini. Si passa ad altro, ma non con altro fine: ché vedrem poi per qual crudele malizia s'insistesse su questa pretesa inverisimiglianza, e s'andasse a caccia di qualche altra”. Alle precisazioni del Piazza che quel giorno si era trovato coi deputati di una parrocchia che conosceva solamente di vista e non di nome, Manzoni osserva: “E anche qui gli fu detto: non è verisimile. Terribile parola per intender l'importanza della quale son necessarie alcune osservazioni generali, che pur troppo non potranno esser brevissime, sulla pratica di que' tempi, ne' giudizi criminali”. Ma forse il Manzoni si illudeva che quella della verosimiglianza fosse parola relativa solo a quei tempi… Al Bossetti, per analogia, si chiede di giustificare la rilevazione del suo Dna sul corpo della vittima e la risposta ovvia per chiunque che nemmeno sappia cosa sia il Dna sarebbe credo dello stesso tenore del Piazza: “mi non lo so”. Il Bossetti allo stesso modo del Piazza (che veniva accusato di unzioni venefiche delle quali di sicuro non ne conosceva la composizione e la natura se mai davvero esistessero) avrebbe dovuto conoscere la composizione di un acido biologico di cui non solo ignora i componenti ma del quale non è neppure in grado, in quanto muratore, di comprenderne significati e risvolti genetici. Se gli avessero chiesto perché il muretto che aveva costruito fosse crollato addosso a qualcuno uccidendolo, si sarebbe pretesa da lui una risposta circostanziata e non evasiva, ma chiedere a un muratore di giustificare perché il suo Dna si trovi costì o colà sembra davvero una barzelletta. Forse che non si sa che esiste anche il fenomeno del trasferimento secondario, e indipendentemente da un reperto di ‘ottima qualità’ dopo mesi di esposizione alle intemperie (caso davvero più unico che raro). Nel secondo capitolo della suo opera Manzoni osserva che: Gli statuti di Milano (…) non prescrivevano altre norme, né condizioni alla facoltà di mettere un uomo alla tortura (facoltà ammessa implicitamente, e riguardata ormai come connaturale al diritto di giudicare), se non che l'accusa fosse confermata dalla fama, e il delitto portasse pena di sangue, e ci fossero indizi; ma senza dir quali. La legge romana, che aveva vigore ne' casi a cui non provvedessero gli statuti, non lo dice di più, benché ci adopri più parole. "I giudici non devono cominciar da' tormenti, ma servirsi prima d'argomenti verisimili e probabili; e se, condotti da questi, quasi da indizi sicuri, credono di dover venire ai tormenti, per iscoprir la verità, lo facciano, quando la condizion della persona lo permette." Anzi, in questa legge è espressamente istituito l'arbitrio del giudice sulla qualità e sul valore degl'indizi; arbitrio che negli statuti di Milano fu poi sottinteso. Ma il Manzoni osserva anche a proposito della tortura che “Nelle così dette Nuove Costituzioni promulgate per ordine di Carlo V (imperatore dal 1519 al 1556), la tortura non è neppur nominata; e da quelle fino all'epoca del nostro processo, e per molto tempo dopo, si trovano bensì, e in gran quantità, atti legislativi ne' quali è intimata come pena; nessuno, ch'io sappia, in cui sia regolata la facoltà d'adoprarla come mezzo di prova”. Lo stesso Verri, ricorda il Manzoni in riferimento al celebre penalista Prospero Farinacci: “Farinaccio istesso’ dice l'illustre scrittore, parlando de' suoi tempi, asserisce che i giudici, per il diletto che provavano nel tormentare i rei, inventavano nuove specie di tormenti; eccone le parole: Judices qui propter delectationem, quam habent torquendi reos, inveniunt novas tormentorum species". E sempre il Manzoni cita - dal Farinacci - Francesco il Bruno (Francesco dal Bruno giureconsulto rinascimentale) che a sua volta riprende le parole forti di Angelo d’Arezzo per stigmatizzare la tortura: "giudici, arrabbiati e perversi, che saranno da Dio confusi; giudici ignoranti, perché l'uom sapiente abborrisce tali cose, e dà forma alla scienza col lume delle virtù". Tralasciando molti altri riferimenti. il Manzoni ricorda le parole di Giulio Claro criminalista la cui fama è legata all’opera Receptae sententiae: "Badi il giudice di non adoprar tormenti ricercati e inusitati; perché chi fa tali cose è degno d'esser chiamato carnefice piuttosto che giudice". E più emblematicamente nelle parole di Antonio Gomez: "Bisogna alzar la voce (clamandum est) contro que' giudici severi e crudeli che, per acquistare una gloria vana, e per salire, con questo mezzo, a più alti posti, impongono ai miseri rei nuove specie di tormenti". Le nuove specie di tormenti non sono necessariamente torture fisiche, ma anche quelle torture psicologiche che nell'età contemporanea hanno il vantaggio di risultare invisibili, talvolta la mera minaccia di un supplizio o semplicemente ventilando promesse e agevolazioni in cambio di una confessione. Nelle parole del Manzoni: “E per citare qualcheduno de’ meno antichi, Paride dal Pozzo (…) commenta così ‘a ciò che non è determinato dalla legge, né dalla consuetudine, deve supplire la ragion del giudice; e perciò la legge sugl'indizi mette un gran carico sulla coscienza'”. Quel potere discrezionale che sempre nelle parole dell’illustre milanese: “che i savi legislatori cercano, non di togliere, che sarebbe una chimera, ma di limitare ad alcune e meno essenziali circostanze, e di restringere anche in quelle che più che possono”. E cita Francesco Claro che metaforicamente bolla tutte quelle pratiche che inducono alla confessione con metodi subdoli, come finzioni diaboliche: “Un giudice può, avendo in carcere una donna sospetta di delitto, farsela venire nella sua stanza secretamente, ivi accarezzarla, fingere di amarla, prometterle la libertà affine d’indurla ad accusarsi del delitto…”. Un altro elemento che viene contestato all’accusato di un delitto è la bugia nel rispondere al giudice. Al Piazza viene contestato che non fosse verosimile che non avesse sentito parlare di muri imbrattati in porta Ticinese e che non conoscesse il nome dei deputati con i quali aveva detto di essersi intrattenuto. “la bugia, osserva il Manzoni, non fa indizio alla tortura se riguarda cose che non aggraverebbero il reo, quando le avesse confessate”. Nel caso di Bossetti si pretende che la sua memoria possa por mente locale con precisioni a eventi quotidiani - occorsi molto tempo prima - che il ricordo può ricostruire solo con imprecisioni e omissioni per quel normale e fisiologico meccanismo dell’oblio di cose che non abbiano rilevanza. E ancora nelle parole del Manzoni: “Tutto Milano sapeva (…) che guglielmo Piazza aveva unti i muri, gli usci, gli anditi di via della Vetra; e loro che l’avevan nelle mani, non l’avebbero fatto confessare subito a lui!” Nel caso di Bossetti tutta l’Italia sa - anche per i complimenti del ministro e soprattutto per una campagna mediatica che ha suonato da subito la grancassa - che Bossetti era il massacratore della piccola Yara. Anche se a conti fatti ancora non sappiamo veramente quali siano le prove (provate in un contraddittorio) che tengono in carcere il muratore: se sia davvero figlio di Guerinoni non essendo stata fatta (per quanto ci è dato sapere) anche una riprova sul padre legale e quali siano gli elementi concreti che inchiodano il muratore - come si esprime certa stampa che giornalmente squaderna qualche nuovo indizio che poi in genere si rivela pressoché inconsistente. Non vorremmo che a conti fatti alla fine tutto si riducesse a un Dna raccolto dopo molti mesi dalla morte della ragazza e senza che la difesa possa effettuare controprove. Proseguendo con il Manzoni. L’esaminatore intima al Piazza di dire la verità: “altrimente… si metterà alla corda…”. L’infelice risponde: “Se me la vogliono anche far attaccare al collo, lo faccino; che di queste cose che mi hanno interrogato non ne so niente”. Risposta che richiama la lettera con la quale Bossetti grida la sua innocenza: “Non ho mai fatto male a nessuno, ho sempre vissuto amando mia moglie e i miei figli, ai quali dico ancora una volta con tutta la forza che ho dentro che sono Innocente”. Nel caso degli “untori” il tribunale supremo di Milano decretò che: “Il Piazza dopo essere stato raso, rivestito con gli abiti della curia e purgato, fosse sottoposto alla tortura grave, con la legatura del canapo”. Cioè slogando oltre le braccia anche le mani. Certo, a Bossetti non è stata inflitta alcuna tortura fisica. Però tenuto per mesi in prigione lontano dai suoi cari in una situazione di incertezza, ma consapevole delle accuse che i media hanno montato e amplificato, e impossibilitato a difendersi in quanto recluso e ancora ignaro delle prove a suo carico, se non in modo generico e senza ancora la possibilità di un contraddittorio. Ma è bene dire che sulla carta stampata e sull’editoria elettronica molti commentatori giustizialisti non hanno certo bisogno che venga celebrato il processo. Fosse per loro Bossetti è già colpevole anche senza l’aula di giustizia... e per qualcuno magari da punire con gli stessi tormenti inflitti agli untori. C’è poi quell’elemento umiliante che all’epoca erano le prescrizioni del tosare, rivestire, purgare... e che oggi sono la gogna mediatica: essere figlio di un padre illegale (magari da dimostrare con una controprova), e poi tutto quel chiacchiericcio e pettegolezzo di amanti, siti porno, locali dove la sera si va a bere una birra, sociologia del telefonino… un armamentario di banalità che in paesi più progrediti del nostro, bacchettone e perbenista, farebbe sbellicare dalle risa, mentre da noi si prendono sul serio catalogandoli come indizi o addirittura come prova tout court. Mentre in parlamento hanno potuto essere elette pornodive e ai reality possono partecipare attori a luci rosse, e mediaticamente possono imperversare i bacchettoni, la navigazione internet in siti pornografici (attività diffusa e in altri paesi considerata di nessun rilievo) nel Bel Paese viene elevata al rango di prova, di chissà cosa…E che dire del fatto che su alcuni media si considera perfino prova di colpevolezza il fatto che Bossetti abbia letto o ‘aperto’ articoli di quotidiani on line riguardanti fatti di cronaca di violenza su minori, articoli che si suppone abbiano letto milioni di altri naviganti on-line, tutti quelli che cercano notizie di attualità. L’informazione è fatta per quello… Prova di cosa? Come per il Piazza esser andato rasente a un muro? È evidente che sul computer di chiunque, volendo indagare, si trova un po’ di tutto grazie alle prodigiose memorie informatiche che tengono traccia perfino dei refusi; basta metterlo in relazione con il contesto appropriato e chiunque si può trovare sospettato di qualunque cosa semplicemente per aver digitato parole, visitato un sito, aver letto un articolo su un blog, un giornale on line o essersi documentati su qualcosa in un motore di ricerca. Il processo alle intenzioni può sempre e comunque trovare relazioni, costruire teoremi e produrre ragionamenti induttivi che portano a qualsivoglia conclusione apodittica. Sappiamo tutti, salvo ipocriti e perbenisti, che sono milioni gli italiani che visitano siti porno o digitano su google parole riferite al sesso e altrettanto innumerevoli quelli che cercano notizie talora scabrose e arrapanti e in riferimento agli argomenti più svariati, vuoi per documentarsi, per curiosità, per noia, per evasione, per scaricare tensioni. Tutti criminali, pedofili, violentatori, ruffiani, pervertiti? Forse i nuovi inquisitori e Savonarola non hanno mai sentito parlare di fantasie, inconscio, lapsus, atti mancati, sogni… tutto quelle forme di abreazione per la quale si scarica il freudiano disagio della civiltà in forme del tutto innocue che vanno sotto il nome di processi fantasmatici, in forme di libido sostitutive? Un secolo di psicoanalisi non è servito proprio a niente e si torna alla vecchia psichiatria lombrosiana, alle pseudoscienze della frenologia alla Franz Joseph Gall o alla fisiognomica di Lavater rivedute e corrette secondo il verbo attuale della profilazione, con la quale immensi fogli elettronici violano la privacy delle persone e costruiscono profili statistici collettivi, ma anche con la pretesa di fare ritratti psicologici (e psichiatrici) individuali sulla base di stili di consumo e di ‘navigazione’. Le due pseudoscienze (frenologia e fisiognomica) credevano di individuare facoltà e attitudini di un soggetto (dunque anche la propensione alla pazzia o a delinquere) sulla base delle depressioni o protuberanze del cranio (come indice di sviluppo della sottostante materia cerebrale e relative predisposizioni e facoltà) o sull'aspetto fisico (soprattutto lineamenti ed espressioni del viso) per ricavare caratteri psicologici e morali con significati etnografici e con sfumature razziali (Lavater). Volevano individuare l'idealtipo del criminale nella sua forma fisica. Dalla dottrina del cranio e del viso a quella dell’uso del telefonino, dei siti di navigazione e dei gusti personali, il passo è breve per tracciare una neo-dottrina lombrosiana con implicazioni morfogenetiche e neo-comportamentiste rivedute e corrette secondo il canone del ‘crimine di navigazione on-line’, quello che probabilmente milioni di persone commettono inconsapevolmente quando cercano notizie e informazioni, e talvolta anche svago e oggetti fantasmatici scopofilitici (voyeurìstici) senza per questo essere né pervertiti e né criminali. Se all'isola dei famosi possono partecipare pornoattori per creare eccitazione nel pubblico degli aficionados, non si vede per quale motivo debba essere ritenuto indice criminogeno la navigazione in siti porno che denota soltanto un legittimo gusto personale o semplicemente il bisogno di ravvivare e stimolare sul piano erotico un rapporto di coppia. Ma dopo la digressione torniamo al Manzoni al quale molta psicologia contemporanea è debitrice per quella sua capacità di sondare in profondità le umane debolezze. L’infelice Piazza, sottoposto alla tortura più pesante, di fronte ai cavilli puerili “rispose con parole di dolore disperato, parole di dolor supplichevole, nessuna di quelle che (i suoi esaminatori) desideravano, ma piuttosto quelle ‘Ah Dio mio! Ah che assassinamento è questo! Ah Signor fiscale!..Fatemi almeno appiccar presto… Fatemi tagliar via la mano… Ammazzatemi; lascatemi almeno riposar un poco. Ah! Signor Presidente!... Per amor di Dio, fatemi dar da bere; e insieme non so niente, la verità l’ho detta’…”. Di fronte all’impossibilità di ottenere la confessione da un innocente il Manzoni osserva come i suoi accusatori che “Avean cominciato con la tortura dello spasimo, ricominciarono con una tortura di altro genere. D’ordine del senato (…) l’auditor (…) in presenza di un notaio, promise al Piazza l’impunità, con la condizione (…) che dicesse interamente la verità. Così eran riusciti a parlargli dell’imputazione, senza doverla discutere; a parlargliene, non per cavar dalle sue risposte i lumi necessari all’investigazion della verità, ma per sentir quello che ne dicesse lui; ma per dargli uno stimolo potente a dir quello che volevan loro”. Si trattava solo di un raggiro, ovviamente, stante il fatto che solo al Principe, in base alle costituzioni di Carlo V era concesso il potere di “concedere remissioni di delitti, grazie e salvacondotti” come atto del governatore autorizzato dal medesimo. L’impunità promessa al Piazza era dunque un mero inganno per indurlo a una confessione, non importa se vera, pur di evitare ulteriori tormenti. Nelle parole del Verri: “… si sia persuaso a quell'infelice, che persistendo egli nel negare, ogni giorno sarebbe ricominciato lo spasimo (…) e altro espediente non esservi per lui fuorchè l’accusarne e nominare i complici; così avrebbe salvata la vita, e si sarebbe sottratto alle torture pronte a rinnovarsi ogni giorno…”. Occorreva dunque cercare un complice inesistente per un delitto di ben altra natura, perché di sicuro dietro la peste c’erano le condizioni di vita e il flagello delle guerre dell’Italia dell’inizio del 17° secolo (vedi l’assedio di Casale). Scrive il Manzoni: “Il barbiere Giangiacomo Mora componeva e spacciava un unguento contro la peste; uno de' mille specifici che avevano e dovevano aver credito, mentre faceva tanta strage un male di cui non si conosce il rimedio, e in un secolo in cui la medicina aveva ancor così poco imparato a non affermare, e insegnato a non credere. Pochi giorni prima d'essere arrestato, il Piazza aveva chiesto di quell'unguento al barbiere; questo aveva promesso di preparargliene; e avendolo poi incontrato sul Carrobio, la mattina stessa del giorno che seguì l'arresto, gli aveva detto che il vasetto era pronto, e venisse a prenderlo". Quando si vuol trovare qualcosa di losco è sufficiente fare 2+2=4 senza tanti distinguo e precisazioni. Continua il Manzoni: "Volevan dal Piazza una storia d'unguento, di concerti, di via della Vetra: quelle circostanze così recenti gli serviron di materia per comporne una: se si può chiamar comporre l'attaccare a molte circostanze reali un'invenzione incompatibile con esse.” Non ci vuol molto a immaginare gli sviluppi quando in una sorta di catena di sant’Antonio reo confessi per disperazione e testimoni (per protagonismo e suggestione) possono talvolta tirare in ballo altre persone. Il fatto comico è che l’infelice Barbiere quando vanno da lui gli inquisitori per l’unguento “crede che il suo reato fosse d’aver composto e spacciato quello specifico senza licenza”, diremmo oggi un reato di natura fiscale, mai più pensando che si trattasse di un’accusa di vendere e propagare unzioni venefiche. Il poveretto non immaginava neanche lontanamente quello che stava per cadergli tra capo e collo. E chissà se anche al Bossetti al momento del suo arresto sia passata per la mente qualche violazione di natura fiscale che oggidì portano in galera così tanti grossi evasori…L’equivoco è uno di quegli elementi passepartout per i quali chiunque può ingenerare il sospetto e la considerazione di un’indagine, talvolta il pregiudizio o addirittura la certezza di un delitto e della sua dinamica (e su tutti basterebbe ricordare il caso Tortora). Una volta che si crede di aver ricostruito la corretta narrazione di un delitto, risulta facile fare un gioco di incastri per il quale si possono facilmente reperire nuove tessere del mosaico, semplicemente su base induttiva, e trovando corrispondenze e riferimenti possibili in un percorso ad albero dove si sceglie l’itinerario che meglio corrisponde alla storia che si è creata, collegando gli eventi sulla base del copione che si ritiene vero e di cui ci si innamora perdutamente. Nella bottega del Mora viene trovata della sostanza che la moglie del barbiere dichiara essere del ranno, cioè quel miscuglio di cenere di legno e acqua bollente, sostanza usata per il bucato e per certi usi di chirurgia (che all'epoca praticavano anche i barbieri, come nel caso dell’estrazione dei denti). “Si fece esaminare quel ranno da due lavandaie, e da tre medici. Quelle dissero ch'era ranno, ma alterato; questi, che non era ranno; le une e gli altri, perché il fondo appiccicava e faceva le fila" - "In una bottega d'un barbiere,"dice il Verri, "dove si saranno lavati de' lini sporchi e dalle piaghe e da' cerotti, qual cosa più naturale che il trovarsi un sedimento viscido, grasso, giallo, dopo varii giorni d'estate?" E analogamente per quale miracolosa circostanza del Dna, dopo mesi alle intemperie potesse risultare di ottima qualità se coevo con l’omicidio della povera Yara? Circostanza che in qualunque altro paese sarebbe considerata indice di inattendibilità del referto… Continua il Manzoni: “Nella lettera d'informazione al governatore, il capitano di giustizia parla di questa circostanza così: Il barbiero è preso, in casa di cui si sono trovate alcune misture, per giudicio de periti, molto sospette. Sospette!” Certo il sospetto è legittimo, ma un conto è il sospetto e un conto la certezza che le sostanze contenessero davvero la prova di un delitto… Comunque sembra che con quelle sostanze fosse stato fatto un esperimento sui cani (senza i risultati auspicati). La storia della Colonna infame manzoniana continua poi con un calvario di torture anche nei confronti del Mora e con le immancabili chiamate in correità per altri sventurati nell'illusione di poter metter fine al supplizio. Nelle parole del Manzoni: “L'interrogatorio che succedette alla tortura fu, dalla parte de' giudici, com'era stato quello del commissario dopo la promessa d'impunità, un misto o, per dir meglio, un contrasto d'insensatezza e d'astuzia, un moltiplicar domande senza fondamento, e un ometter l'indagini più evidentemente indicate dalla causa, più imperiosamente prescritte dalla giurisprudenza”. E con l’aggiunta di una considerazione che solo il buon senso può davvero comprendere: Posto il principio che "nessuno commette un delitto senza cagione"; riconosciuto il fatto che "molti deboli d'animo avevan confessato delitti che poi, dopo la condanna, e al momento del supplizio, avevan protestato di non aver commessi, e s'era trovato infatti, quando non era più tempo, che non gli avevan commessi. (…) Ora, l'infelicissimo Mora, ridotto a improvvisar nuove favole, per confermar quella che doveva condurlo a un atroce supplizio, disse, in quell'interrogatorio, che la bava de' morti di peste l'aveva avuta dal commissario, che questo gli aveva proposto il delitto, e che il motivo del fare e dell'accettare una proposta simile era che, ammalandosi, con quel mezzo, molte persone, avrebbero guadagnato molto tutt'e due: uno, nel suo posto di commissario; l'altro, con lo spaccio del preservativo. Una storia, o meglio una favola, può essere improvvisata da un presunto colpevole, ma talvolta anche dalla fantasia di un inquisitore che dopo averla rabberciata la suggerisce al reo confesso. La sentenza decreta che Piazza e Mora fossero tormentati di nuovo, nelle parole del Manzoni: “Quell'infernale sentenza portava che, messi sur un carro, fossero condotti al luogo del supplizio; tanagliati con ferro rovente, per la strada; tagliata loro la mano destra, davanti alla bottega del Mora; spezzate l'ossa con la rota, e in quella intrecciati vivi, e alzati da terra; dopo sei ore, scannati; bruciati i cadaveri, e le ceneri buttate nel fiume; demolita la casa del Mora; sullo spazio di quella, eretta una colonna che si chiamasse infame (mio il grassetto); proibito in perpetuo di rifabbricare in quel luogo. E se qualcosa potesse accrescer l'orrore, lo sdegno, la compassione, sarebbe il veder que' disgraziati, dopo l'intimazione d'una tal sentenza, confermare, anzi allargare le loro confessioni, e per la forza delle cagioni medesime che gliele avevano estorte. La speranza non ancora estinta di sfuggir la morte, e una tal morte, la violenza di tormenti, che quella mostruosa sentenza farebbe quasi chiamar leggieri, ma presenti e evitabili, li fecero, e ripeter le menzogne di prima, e nominar nuove persone. Così, con la loro impunità, e con la loro tortura, riuscivan que' giudici, non solo a fare atrocemente morir degl'innocenti, ma, per quanto dipendeva da loro, a farli morir colpevoli.” L’augurio è che il Bossetti possa tornare a casa dai suoi figli e da sua moglie, a differenza dei due protagonisti di quella Storia della Colonna infame dove l’infamia storicamente acclarata fu quella dei giudici che estorsero ai due infelici, Piazza e Mora, una confessione inventata illudendoli di potersi sottrarre ad ulteriori tormenti. Se invece si è convinti che Bossetti sia davvero il colpevole della morte della piccola Yara, ci si augura che risultino prove concrete. Per quanto sappiamo - oltre a quel Dna ‘di ottima qualità’, ancora tutto da sceverare in un contraddittorio - ci sono solo indizi vaghi più simili a congetture e teoremi. Augurio che, come per il caso Tortora (finito con una assoluzione piena dopo un lungo calvario), non si rischi di dover scrivere un nuovo testo nello stile manzoniano. P.S. Conclude amaramente il Manzoni: “La colonna infame fu atterrata nel 1778; nel 1803, fu sullo spazio rifabbricata una casa; e in quell'occasione, fu anche demolito il cavalcavia, di dove Caterina Rosa - L'infernal dea che alla veletta stava - intonò il grido della carnificina: sicché non c'è più nulla che rammenti, né lo spaventoso effetto, né la miserabile causa. Allo sbocco di via della Vetra sul corso di porta Ticinese, la casa che fa cantonata, a sinistra di chi guarda dal corso medesimo, occupa lo spazio dov'era quella del povero Mora”. P.P.S. La notizia, quella sempre dell’ultima ora, è che c’è la prova regina che inchioda il muratore, come ogni volta piace esprimersi a chi grida ai quattro venti le ultime notizie invocando il classico coup de théâtre. La gente è impressionata proprio come le voci delle unzioni sui muri di Milano fece gridare a tutti “dagli all’untore!”
Letizia Ruggeri ha capito che Massimo Bossetti sarà condannato solo se i media impareranno a tacere sulle stranezze...scrive Massimo Prati su “Albatros Volando Controvento”. Venerdì, durante la prima udienza del processo contro Massimo Bossetti, la dottoressa Letizia Ruggeri per motivare il suo veto alle telecamere si è lamentata dei media lanciando segnali chiari. Dopo aver ribadito di non volere "una spettacolarizzazione della tragedia", ha detto di aver rilevato che organi di informazione non si sono comportati correttamente - diffondendo notizie che non dovevano essere diffuse - e che pochi media hanno tenuto un atteggiamento corretto. Dopo le sue parole, immaginare chi per la procura lo abbia tenuto, l'atteggiamento corretto, è facile. Basti pensare a quei giornalisti che hanno diffuso il pregiudizio coi loro scoop (in primis i filmati - dei furgoni e dell'arresto - e le varie certezze sul dna) nonostante tutto fosse secretato, tanto che la difesa per mesi non ha avuto nulla in mano per poter lavorare. Io ad esempio non sapevo dove si trovavano i filmati, ma la procura sapeva e sa ancora oggi i nomi di chi li doveva conservare. Come sono finiti sugli schermi dei media e sulle tavole degli italiani? I giornalisti li hanno acquistati e pagati a qualcuno... o erano semplici omaggi, come le vacanze che le case farmaceutiche offrono ai dottori che prescrivono molti dei loro prodotti ai pazienti? Che quegli scoop colpevolisti usciti durante le indagini, dopo l'arresto di Massimo Bossetti, fossero graditi alla procura ci appare certo, perché in caso contrario qualche procuratore avrebbe potuto facilmente aprire un fascicolo contro i giornalai scoppettari e in pochi giorni smascherare gli infedeli e farli condannare. Indagini simili non risultano, per cui non sono state né le indiscrezioni né i filmati del famoso giornalista di Mediaset (per citarne uno) né gli articoli né le esternazioni mediatiche su impensabili incontri estivi della ora famosa colpevolista de La Stampa (per citarne un'altra) la molla che hanno portato la dottoressa Ruggeri a parlare in tribunale di un atteggiamento poco corretto dell'informazione. I due cooperanti sono stati corretti nei confronti della procura, visto che l'hanno aiutata a spargere il verbo arruolando proseliti e inondando l'etere di pregiudizio. Non li si può incolpare di niente. Poverini, cosa potevano fare di più? Ed allora chi ha infastidito la procura? Che sia stato il finto buonismo e l'ipocrisia di chi da tempo spaia le carte e cerca di confondere la mente dei garantisti? Che siano state le parole e gli scritti del fraticello che dal bosco mediatico scrive sul panorama? Lui è chi ha detto ai suoi fans che non esternerà mai accuse basandosi sul proprio pensiero, che non esprimerà mai un'opinione sull'innocenza o sulla colpevolezza di un imputato se non paragonando quanto dice la procura a quanto afferma la difesa. Beh, se esprimesse opinioni basate sul proprio pensiero nessuno avrebbe critiche da muovergli. Ognuno può pensarla e vederla per come vuole. Ma visto che ha detto che non si basa sul pensiero personale, quando muove certe accuse e dice certe cose è criticabile perché è facile notare che una parte del suo corpo, precisamente la sua lingua, si comporta in maniera autonoma e incoerente. O ha una lingua ipocrita che non ascolta la mente e dice quel che le pare, ed allora tutto è spiegabile, o per convincere i suoi fans della colpevolezza di Massimo Bossetti cerca di far credere che ha letto gli atti di accusa chiusi nei 60 faldoni della procura di Bergamo. Che non li abbia letti è pacifico, quindi c'è da chiedersi se non sia stato il suo modo di fare a infastidire la dottoressa Ruggeri. Il buon fraticello, che da qualche tempo risponde in video alle domande dei suoi amici (quindi tasta con mano il termometro della pubblica opinione e sa da che parte conviene volare), passa di giallo in giallo usando logiche mentali diversamente valide per attirare a sé gli innocentisti di un caso e i colpevolisti di un altro. E gli sembra pure giusto dichiararsi, a parità di illogicità e accanimento giudiziario, favorevole alla ricostruzione di una procura e contrario a quella di un'altra Per lui ci sono imputati e imputati. Qualcuno è innocente fino a sentenza definitiva e altri sono colpevoli ancor prima del processo. Ma non fateci caso, è lo stesso personaggio che ancor prima del processo di Bergamo si è dichiarato certo della condanna di Massimo Bossetti e del solo fumo che ha in mano la difesa. E' lo stesso che a volte servono prove per mettere in carcerare un imputato e la procura va denunciata a Roma per come ha condotto l'interrogatorio, ad esempio quando parla di Veronica Panarello, mentre altre volte si può interrogare una ragazza (e tanti altri) a muso duro senza avvocati e accusare chiunque anche in mancanza di prove perché la procura ha lavorato bene e, anzi, deve essere l'imputato a portare prove ai giudici per discolparsi dalle accuse. Parole incoerenti della sua lingua dette a proposito di Sabrina Misseri che senza prova alcuna, come ammesso qualche settimana fa anche dal pubblico ministero, da quasi cinque anni è in carcere a causa di un sogno e di un accanimento senza precedenti. Ma dato che la pubblica opinione è felice della carcerazione preventiva della ragazza e di sua madre, dato che ha una cara amica coinvolta nel caso in questione, la lingua del fraticello sporca il panorama e poco gli importa di aver contribuito, e contribuisce ancora, alla rovina di più persone... innocenti fino a sentenza definitiva e non colpevoli a prescindere perché lo dicono lui e la sua amica. Ma pur se i poveri fraticelli che nel bosco mediatico saltellano a destra e a manca alla lunga possono apparire per quello che in realtà sono e stancare, non credo che un ipocrita in cerca di nuovi consensi sia un problema per la dottoressa. Anzi, credo che il discorso fatto da Letizia Ruggeri in aula vertesse ad altro e che il cartellino giallo l'abbia sbandierato sotto il naso di quegli stupidi idioti che non si fidano delle ipotesi accusatorie e danno troppo spazio alla difesa (anche su internet). In poche parole, anche se non l'ha detto chiaramente, fra le pieghe del suo discorso la pubblica accusa ha forse ammonito chi in pubblico esterna dubbi sulle conclusioni delle indagini diffondendo notizie vere ma scorrette, ad esempio sul dna, che non l'aiutano. Forse spera di avere tutti i media e i vantaggi per sé, come già accaduto ai procuratori di Taranto e Teramo dopo gli arresti di Sabrina Misseri e Salvatore Parolisi. Forse spera che lo schieramento colpevolista si allarghi a dismisura e l'aiuti a portare avanti una battaglia ancora tutta da combattere. Non ci può essere altra ragione logica, perché puntare il dito sulla correttezza dei giornalisti mentre si chiede di non far entrare le telecamere in aula è un po' come chiudere il bagno a chiave per impedire ai figli di fare la doccia... salvo poi sgridarli quando sporcano il divano perché non si sono lavati. Insomma, siamo in presenza di una contraddizione bella e buona anche se la sua frase fosse riferita ai giornalisti cattivi, quelli dallo scoop facile, e non ai soliti stupidi idioti che chiedono giusti processi. La dottoressa si lamenta di come si è fatto informazione, però impedendo alle telecamere di entrare in aula incentiva gli stessi giornalisti a perseverare nel loro modo di informare. Di fatto impedendo all'utente finale, la pubblica opinione, di farsi un'idea personale basata su quanto vede e ascolta coi propri occhi e con le proprie orecchie. Di fatto costringendo la massa ad ascoltare i soliti riassunti di parte. In ogni caso, soffermandosi sui giornalisti la dottoressa ha fatto capire (anche a chi non l'aveva capito finora) che i media hanno un ruolo importante, determinante e ben definito sui processi indiziari. Sono loro che aizzano o calmano il popolo. Sono loro che aiutano o non aiutano a capire. Sono loro che troppo spesso decidono chi è colpevole e chi è innocente influenzando giudici e giurie popolari. Ci ha fatto capire che in Italia manca la vera cultura giuridica perché agli editori, multinazionali del sistema economico di cui sono il megafono, conviene che il popolo pecora bruchi dove i loro tanti pastori vogliono che bruchi. Tutto è perfetto e sugli schermi troverete sempre servitori ben pagati che offrono notizie in piatti d'argento apparendo sotto le sembianze del bravo pastore. Fra i tanti troverete sempre chi urla contro la parte avversa perché sa che lo stanno ascoltando persone influenzabili dal tono di voce. Troverete chi parandosi dietro indiscrezioni della procura (che solo a posteriori e solo quando il pregiudizio avrà contaminato tante teste si riveleranno false) vi convincerà di sapere che l'imputato è colpevole... e con le sue parole sicure influenzerà la massaia che potrebbe finire in una giuria popolare. Ma troverete anche chi, calmo suadente e sorridente, vi convincerà del suo pensiero col suo tono alla "volemose tutti bene". Ed avendo il polso della situazione ben chiaro, grazie alla frequentazione facebook deciderà in anticipo se protestare con chi protesta o ripetere la tiritera colpevolista da altri già ripetuta più volte. Mi spiace dirvelo, ma i pastori mediatici sono in grado di raggirarvi come e quando vogliono e siatene certi... se vi comanderanno di chiudere gli occhi e credere ciecamente, al momento opportuno voi ubbidirete e chiudendo gli occhi crederete. Vi hanno convinto che tutto sia un gioco, che gli imputati sono solo virtuali e che sparare cazzate contro di loro non danneggerà nessuno... e questo è il miglior modo antidemocratico per non fare vera giustizia a processo. Lo si usa perché quando si parla in termini economici gli scrupoli scompaiono e prende il sopravvento il guadagno di chi influenza la vostra mente fidelizzandovi. So che la memoria del popolo è corta e che l'informazione moderna non permette di elaborare i troppi input che arrivano al cervello. So che una mente "plagiata" è predisposta dal pregiudizio mediatico a seguire una direzione e ad elaborare meglio ciò che è stata convinta ad elaborare. So che solo pochi eletti dopo aver ascoltato le certezze illogiche sparate da alcuni media sono in grado di fare quel "backup mentale" capace di eliminare i virus e far tornare la mente alla forma originale, quella che ricorda chi comanda e detta legge dopo un omicidio. E' la procura che comanda indagando a modo suo chi più le appare sospetto, arrestando e accusando chi crede assassino. Molto spesso i procuratori si inseriscono sulla pista giusta e arrestano il colpevole, ma qualche volta la pista giusta viene scartata o non vista in fase preliminare e nel tritacarne ci finisce lo "sfigato" che mai avrebbe pensato di trovarsi in una simile situazione. E se la storia criminale riguarda una ragazza, una madre o un bambino, c'è da star certi che assieme alle procure balleranno anche i giornalisti che devono muovere la macchina mediatica che per guadagnare deve tenere conto degli sponsor e dell'audience, quindi schierarsi con la maggioranza per avere più ascolti...A questo proposito serve capire che i media non lavorano gratis, anzi, e che hanno bisogno dell'appoggio del potere per continuare a guadagnare. In caserma e in procura si setacciano le notizie. Non certo dall'indagato di turno che in nulla potrà aiutarli al successivo crimine. Basterebbe capire che anche per questo i media amplificano quanto la procura vuole che si amplifichi. Che i soliti noti opinionisti hanno imparato l'arte e l'han messa da parte... e per questo ultimamente si spartiscono i copyright delle opinioni mediatiche (io stavolta faccio l'innocentista e tu il colpevolista). Non lo fanno per aiutare la gente a capire, ma per evitare che si spenga il faro che li illumina e li fa guadagnare. Loro sono l'informazione e loro decidono come informare. Conta qualcosa se io, piccolo blogger idealista che ama le indagini professionali e la logica, vi dico che non c'è niente di più sbagliato che seguire la cronaca nera ascoltando chi vuol farsi credere garantista ma dimostra in troppe occasioni di non esserlo? Che è sbagliato credere in tutto e per tutto ai media e ai settimanali dedicati? Cambia qualcosa se vi dico di non fidarvi ciecamente dei giornalisti ma di valutare ogni notizia usando la logica? Ve lo dico io. Conta poco o nulla se alle mie parole non aggiungete il vostro sale rifiutando di immergervi nuovamente nella melma degli scoop. Sì, qualcuno per qualche secondo rifletterà su quanto ho scritto, ma una volta uscito dal blog e tornato nella tranquillizzante placenta mediatica, grazie alla "app" del pregiudizio ormai installata nella mente tornerà ad essere facile preda degli opinionisti, degli scrittori, dei giornalisti, dei criminologi, degli ex ufficiali o giudici o biologi (tutti personaggi nati, voluti ed esaltati negli anni dai media che li fa credere infallibili) che frequentano i media e influenzano il cervello. Loro lo sanno che dopo qualche trasmissione non sarete più in grado di scegliere liberamente. Lo sanno che saranno loro a dirvi quale imputato, nonostante non vi siano prove, è colpevole e va condannato... aiutando così quelle procure che dai primi anni novanta comandano le indagini e che, dati di rimborso per ingiusta detenzione alla mano, non sono infallibili e andrebbero, nel caso di illogiche ricostruzioni, criticate. Ma gli editori certe istituzioni non vogliono siano criticate. Non sarebbe conveniente e per questo pagano i loro servi perché facciano dimenticare che l'accusa è solo una delle parti coinvolte nei casi di omicidio. E' grazie a loro se i procuratori che coordinano le indagini, che accusano e arrestano, nel pensiero popolare sono come la bocca della verità. E questo capita quando invece di fare informazione si dà spazio a opinionisti e scooperisti schierati che per vocazione prendono il posto dei procuratori e assicurano alla pubblica opinione, eletta a giudice popolare mediatico, che c'è un nuovo assassino fra di noi. Il caso che ha visto la morte della piccola Yara Gambirasio è l'emblema di quanto l'informazione colpevolista sia capace di fare. La dottoressa Ruggeri venerdì si è lamentata senza considerare che da quando è apparso sulla scena Massimo Bossetti nessun media ha rivangato le prime indagini. Quelle decisive e più importanti che servivano a trovare la giusta pista da seguire. Infatti la pubblica opinione oggi non ricorda che le forze dell'ordine nel 2010 e 2011 non interagivano fra loro, che la procura di Bergamo fino a febbraio 2012 è rimasta senza un capo e ha perso tempo in inutili indagini nate da perizie sballate (perizie sballate? Ma va!) e poi, dopo il ritrovamento del cadavere, si è affidata solo ed esclusivamente alla biologia genetica dimenticando i diritti della controparte. Come se non ci fosse altro modo per trovare il colpevole, come non si conoscessero metodi investigativi da usare, come non si conoscessero le regole del codice penale (che fanno diventare un processo un giusto processo), a Bergamo si è usato un proprio metodo senza mai considerare la difesa di chi era iscritto nel registro degli indagati. Questa basilare regola giudiziaria è stata disattesa completamente, dato che i difensori di Mohamed Fikri non sono mai stati invitati a nominare dei consulenti che presenziassero alle fasi di analisi e perizie. Anche in questo caso, grazie ai media, il pensiero popolare non si sofferma su questa mancanza che crede un'inezia, una dimenticanza di poco conto che non c'entra con Massimo Bossetti. Ma chi ha questo pensiero, che nasce dal pregiudizio sparso da un anno a questa parte, mostra tutta la sua mancanza di cultura giuridica e di esperienza (se non la propria malafede). Ma scusate, è la legge che impone alla procura di avvisare la difesa per permetterle di partecipare alle analisi e fare in modo che nessuno bari e cambi le carte in tavola... e la procura disattende la legge? Per quale motivo lo fa quando è lampante che se tutte le parti sono presenti al momento di estrapolare e periziare, a processo nessuno avrà nulla da ridire sul risultato ottenuto? E se al momento di estrapolare il Dna dai leggings fosse uscito anche quello di Fikri? Sapete che il non avvisare il suo avvocato avrebbe comportato l'esclusione della prova in tribunale? Sapete che invece la presenza del consulente di chi era in quegli anni indagato - con tanto di fascicolo a suo nome depositato dalla procura - avrebbe tagliato la testa al toro e ora la difesa di Bossetti avrebbe, sul Dna, le mani legate e non potrebbe chiedere, nel suo pieno diritto giuridico, di rifare le analisi per vedere se davvero nessuno ha barato o sbagliato? Stranezze, dimenticanze, mancanze, errori. Che siano queste le parole che i media devono smettere di usare per non essere accusati di aver tenuto un atteggiamento scorretto? Visto che gli scoop hanno agevolato l'accusa, forse sì. Ora per agevolare la procura e dar ragione al fraticello convinto della condanna di Massimo Bossetti, non ci resta che zittire quei pochissimi che ancora quelle parole le usano. Anche se non sarà facile perché c'è gente che quando si accorge di stranezze e vede differenze (ad esempio sul furgone che la procura vuole sia di Massimo Bossetti) non riesce proprio a tacerle.
11 SETTEMBRE 2015: TERZA UDIENZA. PARLANO I GENITORI, MAURA PANARESE E FULVIO GAMBIRASIO, E LA ZIA, NICLA GAMBIRASIO, E L’INSEGNANTE DI GINNASTICA, DANIELA ROSSI, E LE AMICHE ED IL COMPAGNO DI CLASSE DI YARA.
Venerdì 11 settembre nuova udienza per il processo che vede imputato Massimo Bossetti, il carpentiere di Mapello accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio. Maura e Fulvio sono testi citati dall’accusa. Con loro, Keba, la figlia maggiore, che si è costituita parte civile con i genitori, la zia paterna Nicla, Martina Dolci, l’amica con cui Yara scambiò gli ultimi sms la sera del 26 novembre del 2010, le insegnanti di ginnastica Daniela Rossi e Silvia Brena, amiche della scuola e centro sportivo. In tutto 15 testimoni.
È iniziata stamattina di fronte alla consueta folla il processo a Massimo Bossetti il carpentiere di 43 anni accusato per l’omicidio di Yara Gambirasio. I legali del muratore entrando in Tribunale hanno detto che non è preoccupato di incontrare i genitori». Bossetti è arrivato in aula alle 9,48, jeans e camicia bianca Su richiesta dei difensori l’imputato è stato fatto sedere a fianco degli avvocati e non nella gabbia degli accusati nella quale aveva trascorso le prime due sedute. Bossetti respinge ogni accusa. Tanto che a uno dei suoi legali, Claudio Salvagni, il muratore ha spiegato di non temere di incrociare in aula lo sguardo dei genitori della tredicenne "perché non ho fatto niente". Il Dna del muratore, a detta di quattro diversi laboratori d'analisi, è stato trovato sugli slip e sui leggins della tredicenne. E rimane la prova più forte in mano alla Procura che, invece, la difesa del muratore cercherà di smontare quando saranno sentiti i consulenti scientifici. Per loro sarebbero stati individuati, oltre a quello nucleare di Bossetti, anche altri Dna mitocondriali. Già il gip Ezia Maccora e i giudici del Riesame, che avevano negato la scarcerazione al muratore, avevano spiegato che "nella genetica forense l'accertamento sul Dna nucleare è il solo che può portare all'identificazione di un singolo soggetto" e questo esame ha "ricondotto il profilo di Ignoto 1 a Massimo Giuseppe Bossetti". Spiegavano anche che il Dna mitocondriale sui reperti piliferi trovati sul corpo di Yara e che non è risultato appartenere a Bossetti viene invece usato "in casi particolari", in presenza di "tracce degradate" o in "limitate quantità" come "resti scheletrici o formazioni pilifere o per ricostruire rapporti di parentela materlineare", ma che solo quello nucleare "può portare all'identificazione di un singolo soggetto".
Bossetti e il primo incontro coi genitori. Alla terza udienza si studiano gli sguardi. L’udienza fiume del processo per l’omicidio di Yara Gambirasio è stata anche il momento del primo incontro fra l’accusato e la famiglia, scrive “L’Eco di Bergamo” dal quale si trae ampio resoconto della giornata. Nell’aula di tribunale dove si svolge il processo a Massimo Bossetti, presunto killer di Yara, oltre alle parole contavano gli incroci degli sguardi: quello mite di mamma Maura, quello sofferto e bagnato dalle lacrime di papà Fulvio, quello imperturbabile, al limite dell’enigmatico, del muratore di Mapello. E tutt’attorno la selva di occhi del pubblico, quasi a scavare negli stati d’animo, a scardinare le emozioni dei testimoni. Un’udienza non priva di pathos e tensioni, con l’ingresso di Bossetti ancora una volta accompagnato dalla curiosità di conoscerne look, atteggiamenti e smorfie. L’arrivo dell’imputato. Camicia bianca a mezza manica e jeans, l’imputato si è fermato pochi minuti nella gabbia di vetro, tamburellando le dita sul tavolo, voltandosi verso il pubblico. Fra costoro la sorella gemella, Laura Letizia, che ha risposto al saluto del fratello Massimo sussurrandogli «Ti voglio bene». Poco dopo Bossetti è stato fatto sedere accanto ai suoi legali, Salvagni e Camporini, che aveva già avvertito di non temere di incrociare in aula lo sguardo dei genitori della tredicenne «perché non ho fatto niente», «perché sono innocente». Poi è iniziato il dibattimento.
All’inizio della seduta i suoi avvocati, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, hanno chiesto il diario di Yara e gli atti del Dna. Diario che, ha spiegato il pm Letizia Ruggeri, non è stato mai acquisito: all’inizio delle indagini sono solo state fatte alcune fotocopie per capire il profilo della vittima. Nel corso della seduta saranno ascoltati i genitori di Yara e la sorella Keba: la sera del 26 novembre 2010 in cui avvenne il rapimento doveva essere lei a portare il registratore alla palestra, compito per il quale si offrì Yara. Si tratta di un’udienza particolarmente rilevante, anche sul piano emotivo, perché sono chiamati a deporre i genitori della tredicenne, Maura Panerese e Fulvio Gambirasio. Nell’aula del processo oggi è presente anche la sorella gemella del carpentiere, Laura Letizia. Bossetti, all’inizio e alla fine della testimonianza di Maura Panarese, ha rivolto un cenno di saluto alla sorella e lei gli ha sussurrato: «Ti voglio bene». La donna non risulta tra i testi e quindi può essere presente in aula. Come hanno stabilito i giudici nell'ultima udienza del 17 luglio, in aula non sono ammesse le telecamere, lo saranno solo al momento della lettura della sentenza.
Parla la madre Maura Panarese. Verso le 10,30 la mamma di Yara, Maura Panarese, ha iniziato la sua deposizione, raccontando i dettagli della vita della figlia tredicenne: la scuola, la famiglia, le amicizie, lo sport. La donna risponde alle domande del pm senza mai guardare l'uomo accusato della morte della figlia, seduto accanto ai suoi avvocati. Maura ha raccontato, tra le tante cose, che il giorno della scomparsa voleva che la figlia rientrasse prima dalla palestra «ma lei ha insistito per restare là fino alle 18,45». «Controllavo il suo cellulare e non ho mai notato nulla di strano», ha aggiunto. La mamma ha spiegato anche che Yara «rimase impressionata dal caso di Sarah Scazzi (la ragazzina uccisa ad Avetrana, ndr) e questo fu un’occasione per parlare in famiglia su come comportarsi. Le dissi di entrare in un negozio e di chiedere aiuto se si fosse sentita in pericolo». «Non ho mai visto in giro Bossetti – ha raccontato –. Il giorno dell’arresto io e mio marito ci siamo chiesti chi fosse». «Yara non mi ha mai parlato di aver conosciuto persone più grandi e non ha mai accettato passaggi da altri». «Con mia figlia avevamo un rapporto normale – ha raccontato tra le altre cose – andava in palestra a piedi, in bici o la accompagnavo io in auto. Negli ultimi mesi aveva deciso di lasciare il catechismo». «La domenica a volte c’erano le gare», ha raccontato la mamma in relazione all’attività sportiva di Yara, che praticava la ginnastica ritmica nella palestra di Brembate Sopra. Yara , il 26 novembre 2010, quando scomparve, aveva ricevuto il «pagellino» ed era «contentissima perché aveva preso voti bellissimi». L’ultima volta che vide Yara (e spesso ricordando la figlia la donna ha sorriso) stava facendo i compiti e, una volta finito, avrebbe portato uno stereo nella vicina palestra che frequentava. «Mamma abbiamo un sacchetto?», chiese la tredicenne e Maura Panarese, con una battuta, rispose: «Figurati se guardano tutti te che porti lo stereo». «Lei non aveva un computer personale, non aveva Facebook, aveva solamente un cellulare vecchio». Poi la scomparsa: «Avevo chiesto a Yara – ha raccontato la mamma in aula – di tornare (dalla palestra, ndr) entro le 18.45, alle 19 l’ho chiamata, 3-4’squilli e poi è partita la segreteria. Ho chiamato le istruttrici e mi hanno risposto che era uscita dalla palestra alle 18.30. Allora sono andata in palestra, ma Yara non c’era, così ho chiamato la polizia». «Avevamo un rapporto normale, con alcuni litigi come capita a tanti. Frequentava la palestra con ragazzine più piccole di lei e altre più grandi. Negli ultimi due mesi aveva deciso di lasciare il catechismo. Frequentava spesso la palestra nei pressi della quale è stata rapita, aveva gli allenamenti il lunedì e mercoledì, a volte ci andava da sola a piedi o in bici, altre la accompagnavo io in auto. La bambina aveva abitudini regolari: Si svegliava alle 6,45, andava a scuola e tornava con il papà è un’amica, io portavo il piccolo. Il lunedì pomeriggio Yara andava in palestra, il martedì a scuola di latino, mercoledì tornava a casa nostra e pranzava con due amiche e i venerdì (giorno del rapimento, ndr) tornava in palestra. Era il giorno del pagellino e Yara era contenta per i buoni voti ricevuti». Yara sarebbe dovuta rientrare alle 18.45 e quando intorno alle 19.30 la ragazza non era ancora rientrata la mamma chiama Yara al cellulare. «Ha fatto tre o quattro squilli, poi è scattata la segreteria telefonica. Allora ho chiamato la palestra e mi hanno assicurato che mia figlia era uscita verso le 18.30 dicendo che sarebbe tornata a casa». A quel punto, quando anche papà Francesco era rientrato a casa, sono scattate le ricerche e la denuncia di scomparsa ai carabinieri. «Non ho mai visto in giro Bossetti - ha dichiarato la donna -. Il giorno dell’arresto io e mio marito ci siamo chiesti chi fosse. Solo successivamente una zia ci ha detto che lo conosceva». A precisa domanda dell’avvocato Camporini sul perché sul computer della famiglia Gambirasio siano state trovare ricerche sul tema della violenza alle donne, Panarese ha poi spiegato che in quel periodo la figlia era rimasta molto colpita dal caso di Sara Scazzi, la ragazzina uccisa ad Avetrana il 26 agosto 2010 (tre mesi prima che Yara sparisse). «Yara era rimasta molto impressionata dal caso Scazzi - ha raccontato -, ma io rispetto alla mie figlie non avevo mai cambiato abitudini, anche perché Yara non accettava mai passaggi in auto, neanche dalle persone che conosceva».
Parla Fulvio Gambirasio. Dopo la deposizione della mamma, durata circa due ore e mezza, poco dopo le 13 ha preso la parola Fulvio Gambirasio, papà di Yara. Una deposizione toccante, più volte interrotta dalle lacrime. Nel frattempo i giudici della corte d’assise di Bergamo hanno acquisito una lettera inviata alla madre di Yara Gambirasio da Loredano Busatta, il pregiudicato che raccontò di avere raccolto le confidenze di Bossetti, riguardanti il delitto, in un periodo di comune detenzione nel carcere di via Gleno a Bergamo. Nella lettera Busatta definisce «animale» Bossetti e lo definisce «spavaldo», dicendosi disposto a ribadire le presunte confidenze ricevute. Il presidente della Corte ha acquisito la lettera, su richiesta delle parti civili e con l’opposizione della difesa di Bossetti, precisando che «non si tratta certamente di prova in relazione al reato». Busatta era già stato sentito dal pm Letizia Ruggeri, nel corso delle indagini, ed era stato ritenuto inattendibile. Dopo un periodo in comunità è tornato in carcere in quanto coinvolto in una serie di rapine. Su richiesta della difesa di Bossetti, invece, la madre di Yara farà avere all’ufficio del pm il diario scolastico della ragazza, in modo tale che le parti possano consultarlo. Il diario, dopo le prime indagini, era stato restituito alla famiglia. Fulvio Gambirasio, il padre di Yara, nel ripercorrere il pomeriggio del 26 novembre 2010 si è più volte interrotto e ha pianto. Lacrime in aula per Fulvio Gambirasio. Il papà di Yara, chiamato a deporre nel corso dell’udienza del processo a Massimo Bossetti, ha interrotto due volte il suo racconto delle ultime ore della figlia per piangere. «Quella sera ero andato a prendere Natan ad Almenno, e al ritorno ho trovato mia moglie preoccupata - ha raccontato -. Più tardi sono uscito per andare a cena con un collega, mia moglie mi ha chiamato e iniziava a preoccuparsi. Allora sono tornato indietro e ho detto al mio collega che era successo qualcosa. La vita di mia figlia era abbastanza condensata: casa, scuola, fratello e sorella e ginnastica ritmica». Una volta accortasi che la figlia era in ritardo rispetto a quanto avevano stabilito, non vedendola tornare, aveva composto il numero del suo cellulare che aveva fatto due o tre squilli ed era poi scattata la segreteria telefonica. Chiamò i responsabili della palestra i quali dissero che Yara era uscita intorno alle 18.30. Fecero altre telefonate e poi, con il marito, chiamarono i carabinieri. "Temo che a mia figlia sia successo qualcosa di grave. Per tutta la notte abbiamo provato a chiamare e a inviare sms sul telefono cellulare di nostra figlia ma risultava spento". Queste sono state le papà Gambirasio nella denuncia per scomparsa di persona che presentò la mattina del 27 novembre del 2010 ai carabinieri di Ponte San Pietro dopo una notte insonne in attesa del ritorno a casa di sua figlia che non era rientrata dalla palestra di Brembate di Sopra il pomeriggio precedente ("scomparsa tra le 17 e 30 e le 18", precisò Gambirasio). Per lui, sua moglie Maura Panarese e gli altri loro figli quel giorno era cominciato un incubo concluso nel modo peggiore che un genitore possa immaginare: Yara, uccisa, fu trovata tre mesi dopo, a pochi chilometri di distanza da casa. Il padre ha raccontato anche la sera della scomparsa. Doveva recarsi a cena con un collega, ma rientrò dopo l’allarme della moglie: «Mia moglie inizialmente mi disse solo che Yara era in ritardo, poi dopo alcuni minuti mi richiamò dicendo che era stata alla palestra e nostra figlia non c’era. A quel punto sono rientrato». Fulvio, parlando spesso al presente della figlia, ha raccontato che era una ragazza «piena di energia», «era il collante, il sale della nostra famiglia», che aveva la danza ritmica nel sangue. Dopo la scomparsa «mi sono chiesto chi potesse essere stato, se potesse trattarsi di qualcuno che conoscevo, al quale potevo aver fatto qualcosa. Io sono una persona che non ha mai fatto del male ad altre persone e conosco molta gente. Quando fui informato del fermo, chiesi a mia moglie di dirmi il nome e, quando mi è stato detto, mi sono sentito per certi versi risollevato. «La sera della scomparsa – ha raccontato Fulvio – notai in via Rampinelli un mezzo con dei fari accesi, era lontano 150 metri, non vidi bene, ma ipotizzai che potesse essere un furgone». «Bossetti? posso averlo incontrato in qualche cantiere, ma tranne un semplice saluto non ho mai parlato con lui». "Dopo quello che è successo - ha raccontato Fulvio Gambirasio in aula - ho ripercorso più volte il mio passato per capire se avessi fatto qualcosa a qualcuno che mi potesse riguardare e di cui non mi ero accorto. Ho passato notti intere a pensare che cosa potesse essere successo". Poi, una volta circolata la notizia del fermo di bossetti, "ho chiesto a mia moglie di dirmi il nome. Quando lo ha fatto, mi sono sentito sollevato perché non lo conoscevo". Del resto, ha detto ancora Fulvio Gambirasio, "io non ho mai fatto del male a nessuno".
Parla Nicla Gambirasio. Dopo la deposizione dei genitori di Yara, che ha occupato tutta la mattinata e parte del pomeriggio, pochi minuti prima delle 16 è stata chiamata a deporre la zia di Yara, Nicla Gambirasio, chiamata a far luce soprattutto sulla frequentazione - con la nipote Yara - del supermercato Eurospin di via Locatelli a Brembate Sopra. «Non ho mai ricevuto strane confidenze da mia nipote», ha spiegato. È qui, sostiene chi indaga, che il carpentiere potrebbe aver approcciato la ragazzina e dunque aver avuto gioco facile, da viso noto, a farla salire sul furgone la sera in cui sparì.
Poco prima della zia, durante una pausa dell’udienza, l’avvocato Claudio Salvagni ha rilasciato alcune dichiarazioni ai giornalisti. Salvagni si è detto soddisfatto di quanto emerso fino ad ora in udienza e ha parlato di «dati importanti».
Parla Daniela Rossi. L’insegnante di ginnastica ritmica, Daniela Rossi, ha preso la parola verso le 16,40, raccontando la sera della scomparsa: «Quando la mamma di Yara mi chiamò la prima volta non mi sono preoccupata, pensavo che Yara si fosse fermata a salutare qualcuno, ma quando mi richiamò dopo le 21 mi sono allarmata». L’insegnante ha confermato che nel gruppo di ginnastica del quale faceva parte Yara c’era grande armonia. Poi Daniela Rossi è stata interrogata dagli avvocati di Bossetti che le hanno chiesto come il dna possa essere finito sul giubbino della ragazzina. L’insegnante ha raccontato di essere rimasta sconvolta quando ha saputo che Yara non era tornata a casa: non poteva essere andata via da sola, non era una cosa che avrebbe fatto. Ha anche spiegato che Yara era tranquillissima quando, nel pomeriggio del 26 novembre del 2010, si presento alla palestra di Brembate di Sopra per portare uno stereo che doveva servire per una gara la domenica successiva. Yara seguì l’allenamento di alcune compagne per poi andarsene. Poi ha parlato Laura Capelli, un’altra insegnante di ritmica della palestra di Brembate.
Parlano le amiche ed il compagno di classe. Dopo le insegnanti è stata la volta delle compagne di Yara negli allenamenti in palestra: alcune, minorenni, sono state accompagnate dai genitori. Fra loro Martina, che è stata l’ultima amica a sentire Yara con un sms; poi Ilaria e Sara, con quest’ultima che ha spiegato di aver visto quel giorno Yara uscire di corsa dicendo che doveva andare perché era in ritardo; a seguire Roberta, anche lei ginnasta a Brembate Sopra. Alla fine è toccato a Maurizio, il compagno di classe che piaceva a Yara: di lui aveva parlato anche mamma Maura nella sua deposizione.
Le strane amnesie di tutte le amiche di Yara e delle sue maestre di danza lasciano l'amaro in bocca e fanno pensare...scrive Massimo Prati. Il processo contro Massimo Bossetti, venerdì mattina ha visto la solita ressa mediatica accalcarsi attorno al tribunale di Bergamo. L'Auditel voleva che il pubblico pagante ascoltasse i genitori della piccola, voleva succhiare i loro silenzi, attingere le loro lacrime e spargerle nell'etere per aumentare l'attenzione e l'emotività della pubblica opinione. Il resto non aveva alcuna rilevanza e nel pomeriggio i media hanno quasi tutti disertato l'aula in cui sfilavano i testimoni. In fondo che importa della verità che il processo dovrebbe stabilire? Che importa delle testimonianze che dovrebbero aiutare i giudici a capire quanto davvero c'entri il carpentiere di Mapello con la morte di Yara? Per i pennivendoli queste sono cose senza importanza. Loro in televisione ci dicono che sanno tutto, che solo dopo aver letto scrivono e parlano e querelano. Ma già la prima verifica ha dimostrato che non è così, che Bossetti l'hanno già condannato alla faccia di quanto viene detto in aula, che quanto pensato irrilevante al fine di uno scoop, le testimonianze di chi Yara la conosceva molto bene, è solo un contorno da accantonare ai bordi del piatto e far tornare in cucina. Questo è il modo usato dai giornalai nostrani. Come si fa a non capire quanto sia malata ciò che in troppi chiamano, fuori luogo, informazione? Siamo alla fase terminale della malattia? Fortunatamente no, perché ci sono ancora giornalisti con gli occhi ben aperti che quando gli pseudo-colleghi abbandonano restano sul pezzo per ascoltarlo fino in fondo. Parlo di Luca Telese che incurante delle diserzioni in tribunale è rimasto fino all'ultimo respiro, perché prima di informare i suoi lettori un vero giornalista deve avere il quadro della situazione chiaro e completo nella mente. E' dunque Luca Telese l'unico giornalista che ci ha informato correttamente. E quanto ha scritto sulle testimonianze delle amiche e delle insegnanti di danza di Yara lascia l'amaro in bocca e fa pensare che troppe siano le cose che non quadrano, che il Dna sia solo uno specchietto per le allodole che guardano gli opinionisti cinguettare in televisione...
Processo a Bossetti, le strane amnesie delle amiche di Yara, scrive Luca Telese su “Libero Quotidiano”. «Sa che cosa c’è? Non so cosa risponderle: non mi ricordo». Silvia Brena è bella. Ma Silvia Brena è terribilmente evasiva. Silvia Brena sorride e allarga le braccia, sul banco dei testimoni del Tribunale di Bergamo, e tutti i riflettori si stringono su di lei. Se in questo processo non fossero vietate le riprese televisive, oggi sarebbe già diventata una star dei programmi del pomeriggio. È la quindicesima volta consecutiva che Silvia ripete di non ricordare quello che lei stessa aveva testimoniato agli agenti. Gli avvocati Paolo Camporini e Claudio Salvagni la stanno sottoponendo a un quarto grado di quelli che nemmeno Perry Mason. La domanda è una di quelle importanti: «Ricorda di essersi scambiata un messaggio con suo fratello, alle 18.35?». Risposta: «No». Domanda: «E ricorda di averlo cancellato subito dopo?». E lei: «No, non ricordo». Domanda: «Ma non è strano che sia lei che suo fratello abbiate entrambi cancellato solo quello?». Risposta: «Sì, forse. Ma se io non ricordo….». Le chiedono: «Ricorda di aver visto Yara, seduta in palestra?». «Se l’ho detto doveva essere così». Ancora gli avvocati: «Ma si ricorda almeno di aver detto di aver ricevuto delle avances in palestra?». «No, non ricordo». Salvagni cela nei toni garbati uno moto di stizza: «Ma come può aver dimenticato? Le leggo la sua deposizione!». E allora lei: «Ah, sì, adesso che me lo dice, mi ricordo». Si ricorda di aver pianto, a casa, la sera della scomparsa, come ha raccontato suo padre? «No, non ricordo. Ma se lui l’ha detto è possibile». È come un giallo, un mistero, ma anche come un film. È come un labirinto in cui si perde, come una lavagna cancellata. Le amiche di Yara, le sue compagne di palestra. Tutte carine, tutte sveglie, tutte capaci di esprimersi in un italiano compito, forbito, prive di qualsiasi inflessione dialettale. Sono l’altra faccia di questo processo: nulla a che vedere con la bergamasca tribale, segreta, talvolta torbida, rivelata dall’inchiesta: sono perfette, si assomigliano, potrebbero essere uscite dal casting una serie americana, hanno i capelli giusti, gli occhi che brillano, un look acqua e sapone. Solo che c’è anche questo dettaglio: dicono tutte di non ricordarsi nulla. Silvia Brena ha un sorriso solare, disarmante, che non corrisponde con l’espressione corrucciata del suo viso, a tratti terreo e pietrificato. Silvia in tribunale a Bergamo usa quel sorriso come un soldato spartano incastrato in una falange userebbe il suo scudo: per proteggersi. Silvia è una delle testimoni chiave che sfilano tra il pomeriggio e la sera della seconda giornata del processo per il delitto Yara. Silvia è l’unica persona - oltre a Massimo Bossetti - che ha lasciato il suo Dna sui vestiti di Yara. Sulla manica del giaccone, per l’esattezza. Tutte le testimonianze dicono che quando lei è entrata in palestra Yara non aveva la giacca, lei non ricorda di averle parlato, e dice di essere andata in un altro piano a fare degli esercizi. Ma allora quel Dna da dove arriva? «Non lo so». È un processo strano, quello di Bergamo: la mattina di venerdì si faceva a pugni per entrare in aula, il recinto dei giornalisti era affollato, le parabole dei tiggì hanno fatto gli straordinari per coprire le testimonianze del padre e della madre. Ma quando dopo una maratona devastante iniziano a sfilare le amiche e le ex compagne di corso di Yara, a sentirle non c’è quasi più nessuno. Ecco Daniela Rossi, una delle maestre: «Quando la mamma di Yara mi chiamò la prima volta non mi sono preoccupata, pensavo che Yara si fosse fermata a salutare qualcuno». Ecco una ex compagna, Ilaria Ravasio, due di loro sono ancora minorenni. Durante l’udienza la testimonianza della Brena diventa il pretesto per un corpo a corpo tra legali e presidente della corte degno di un capitolo di Grisham: «Signorina Brena, vorrei chiederle. Lei ha usato la macchina tornando a casa?». E la presidente: «Avvocato Salvagni, questa domanda non è attinente!». E il legale di Bossetti: «Mi oppongo, signor presidente: se non è attinente la testimonianza dell’istruttrice di Yara, che cosa lo è?». Risposta: «Allora faccia domande su Yara, non sul privato della teste». Mugugno: «Allora riformulo: Signorina Brena, dopo aver lasciato Yara, che mezzo ha usato per uscire…?». E si continua così, con toni da legal thriller, ma con l’inesorabile consequenzialità di ogni mossa, come se si trattasse di una partita a scacchi. Avevo letto le testimonianze rese nel 2010 da Silvia e dalle altre ragazze. Ma fino a che non ho sentito il racconto della mamma di Yara, e fino a che non le ho viste in Aula, non avevo capito quanto potessero essere importanti. Intanto c’è un dato anagrafico: leggevi maestra, nei fascicoli, ma solo con il processo capisci che le «maestre» non erano donne fatte, ma ragazze di diciotto-venti anni, che imparavano dai grandi e insegnavano alle piccole. Oggi le amiche di Yara sono appena diventate maggiorenni, e hanno l’età che il giorno del delitto avevano le loro istruttrici: anche Yara oggi avrebbe diciotto anni. Le prime e le seconde, e la media tra ieri e oggi è il punto medio di una generazione. Mi colpisce moltissimo anche la testimonianza di Martina Dolci. Ha diciotto anni, uno sguardo spaurito da cerbiatta. Martina in questo processo è un teste decisivo perché è lei che ha ricevuto l’ultimo messaggio di Yara, l’ultimo contatto in vita. La mattina mamma Maura Panarese, la signora Gambirasio aveva descritto il legame di ferro di queste tre amiche, che con regolarità sorprendente mangiavano insieme, andavano in palestra insieme, giocavano insieme, partecipavano alle gare insieme. L’avvocato Camporini chiede a Martina: «Ricorda di aver ricevuto il messaggio di Yara?». E alllora anche lei allarga i suoi occhi stupiti da cerbiatta: «No, non ricordo». Mi chiedo: ma come è possibile? L’evento più grande e terribile della sua vita, dimenticato così? «Ricorda se Yara aveva degli amori, se parlava di ragazzi?». E lei: «Veramente noi parlavamo poco di cose private, solo di ginnastica». L’avvocato è incredulo: «Ma non eravate amiche per la pelle?». E lei: «I nostri rapporti dipendevano soparattuto dalla ginnastica». È a questo punto del pomeriggio che mi chiedo: hanno solo paura o nascondono qualcosa? Anche Laura Capelli era stata una maestra di Yara, anche lei ha oggi venticinque anni. È lei che aveva avvisato Silvia Brena, quella sera. Anche Laura è carina, seria, scrupolosa. Ma a tratti anche lei non ricorda bene: «Capisce, è passato tanto tempo». Le chiedono: «Ricorda che il fratello della Brena frequentasse il centro?». Risposta: «No, assolutamente». Allora l'avvocato Camporini si spazientisce: «Ma come? Se nella testimonianza aveva detto che aveva lavorato al bar!». E lei: «Ha ragione, avevo dimenticato». La mattina, la signora Gambirasio aveva rivelato una circostanza incredibile: la tata di Yara, che le dava una mano a casa, e che nel tempo era diventata una delle sue migliori amiche, era la signora Aurora Zanni. Ma la signora Zanni era anche la moglie del cugino di Giuseppe Guerinoni, l’autista che nel 1969 aveva avuto una storia con Ester Arzuffi. Guerinoni è il padre naturale di Massimo Bossetti. Fa un po’ di impressione scoprire che il figlio di Aurora, Damiano, all’epoca ventenne, fosse un habituè della casa dei Gambirasio. Il ragazzo nei giorni del delitto era nel Mato Grosso, ma frequentava un luogo cruciale di questo delitto, la discoteca «Sabbie mobili». Sarebbe sua la traccia di Dna da cui si è risaliti alla Arzuffi, e quindi a Bossetti. Anche Silvia Brena in aula ripete: «Frequentavo la discoteca Sabbie mobili». Il corpo di Yara è stato ritrovato nel campo di Chignolo, esattamente di fronte alla discoteca. Chiedono alla Brena, ancora una volta: «Si ricorda dove è stato ritrovato il corpo di Yara?». La risposta, so che non ci crederete, è: «No, non mi ricordo». Ho ascoltato con attenzione la mamma di Yara. Mentre parla Silvia ripenso alle sue parole. Sono rimasto stupito dal rigore della signora Maura, dalla sua meticolosità, dalla sua precisione. Ad un certo punto, durante la deposizione, si finisce a parlare - perché nei processi capita anche questo - della biancheria intima di Yara: «Ricorda quale reggiseno indossasse?», chiede l’avvocato Camporini. E la presidente: «Ma avvocato, come pretende che si ricordi? Anche io ho una figlia, so di cosa parlo!». E la madre di Yara, impassibile: «Mi permetta, presidente, ma ricordo benissimo che era un reggiseno rosa, sportivo, reagalatole dalla zia». A questo punto l’avvocato è incuriosito: «E come fa ad esserne sicura?». Risposta: «Ho comprato io tutta la biancheria di Yara. Erano pochi capi. E quando quella mattina ho visto quel rosa, ho capito che aveva scelto quello». Faccio un altro esempio. La madre di Yara racconta di essere entrata in allarme già alle 18.45: «Io le avevo detto di tornare alle 18.30. Lei voleva tornare più tardi. Le ho detto: allora alle 18.45. Non avrebbe mai potuto tardare senza informarmi». E il percorso del ritorno: «Le avevo detto quale strada fare, incrocio per incrocio. E le avevo raccomandato di passare sul lato del marciapiede dove sono i lampioni, quello con più luce». Allora la presidente le dice: «Ma mica può essere sicura che lo facesse…». E la signora Maura: «E invece lo sono. Le spiego. Quando tornavo da fuori, se era nell’orario in cui Yara rincasava, facevo quel percorso con la macchina, proprio per incrociarla: nel 99% dei casi la trovavo proprio lì». Poteva accadere una cosa così a una madre come questa? Mentre passano le ore, e sfilano i testimoni, mi viene in mente questo mondo dove Yara è cresciuta. Regole e orari, una madre straordinaria, affettuosa, ma attentissima. Mamma Maura dice: «A catechismo non ci era voluta andare più per una sua scelta. La palestra era un luogo sicuro». Aggiunge: «So che qualcuno la prendeva in giro per l’apparecchio. Ragazzate. Mi pare che la chiamassero “Coyote”. Ma non erano cose serie». Gli avvocati, però, trovano, spulciando in biblioteca, che Yara aveva preso in prestito due libri sul bullismo (uno si intitola «Brutta», la storia di una figlia angosciata da una madre oppressiva). Lei rimane stupita: «Non li avevo visti». Il signor Gambirasio piange e fa piangere tutti quando racconta con una voce bellissima che si arrochisce e si incrina: «Era il collante, il sale di questa famiglia, aveva l’argento addosso! Tu le chiedevi un bicchier d’acqua, e lei te lo portava facendo la ruota». E ride, e piange, e non c’è soluzione di continuità. Piange e singhiozza soprattutto quando è costretto a ripercorrere il suo girovagare disperato per le strade, e gli precipita addosso l’angoscia di quella sera. Non vuole crollare. Si ferma. La presidente lo aiuta con una domanda. Ma lui piange di nuovo. Racconta, però, c’è la strada era bloccata per dei lavori. Molti non si accorgono delle conseguenze di questa battuta, ma la pm Ruggeri e gli avvocati sì. Se c'erano i lavori com’è possibile che Bossetti girasse in tondo con il suo furgone “da predatore?”. Quella frase, tra le lacrime, ha incrinato un teorema dell’accusa. È un processo così, intricato come un sudoku. Dietro ogni dettaglio c’è una conseguenza, dietro ogni lacrima c’è un colpo di scena. Ma la vera notizia sono queste ragazze che sembrano saltate fuori da un altro mondo, da un film come “Il giardino delle vergini suicide”, di Sofia Coppola, queste ragazze belle e smemorate, che forse tacciono solo per prudenza, ma che forse nascondono qualcosa. Yara era una tredicenne che stava esplodendo nella sua vitalità, e che è entrata in contatto in palestra con il mondo dei grandi. Forse in palestra ha trovato il bandolo che l’ha portata fuori dal sentiero sicuro della sera? Forse la discoteca Sabbie mobili era l’epicentro della vita, ma anche un porto di mare? L’unico ufo, in questa giornata, l’unico che non ha legami con questo mondo, paradossalmente, è Massimo Bossetti. L’unica cosa sui cui le amiche di Yara rispondono tutte la stessa cosa, senza amnesie, e guardandolo negli occhi: «Non lo abbiamo mai visto». È incredibile anche il chiasmo che lega le due famiglie, i Gambirasio e i Bossetti: due madri che comandano ogni cosa, due padri che lavorano, portano i soldi, e tornano nei cantieri dal weekend delegando alle moglie, come dice Fulvio, «L’amministrazione della famiglia».
Mentre l’udienza sta per finire ripenso al racconto di Silvia Brena. Quella sera, racconta, dopo aver pianto ed essersi disperata, era andata in oratorio fino alle 23.00. Poi era andata a bere al pub “Agadà”. Poi, a sentire i racconti, aveva pianto di nuovo, tutta la notte. Forse un percorso normalissimo, per certe ragazze di questa generazione: disperazione a intermittenza. Forse dietro questi silenzi e questi omissis c’è un’ombra, un sospetto indicibile, qualcosa che noi non sappiamo. È sera: seguo Silvia nel tribunale mentre accompagnata da un poliziotto esce percorrendo i corridoi, e rimango colpito da un piccolo colpo di scena. Silvia arriva in una stanzetta in cui ci sono tutte le altre amiche che dopo aver testimoniato l’hanno aspettata: cinque ragazze, le ex compagne e le ex istruttrici. Escono, varcano il portone, rispondono «No comment» ai giornalisti appostati con la sicurezza che potrebbe avere Belen Rodriguez. Salgono le scale di un parcheggio, e se ne vanno tutte insieme, portandosi dietro tutti i dubbi di questo enigma.
Sarà la sorella maggiore, Keba, venerdì prossimo a completare il commovente ritratto di Yara Gambirasio tracciato dai genitori della tredicenne uccisa nel processo a carico dell'unico indagato per quell'omicidio: Massimo Bossetti. Keba oggi ha vent’anni. All’epoca divideva la stanza con Yara. La mattina dopo la sparizione della sorella minore, descrive ai carabinieri un rapporto di reciproca confidenza. «Da qualche mese - aggiunge - Yara mi aveva confidato che le piaceva un ragazzo. È sempre stata serena, non ho notato nulla di anomalo». I difensori di Bossetti credono di aver messo a segno un colpo importante quando la Corte ha disposto l'acquisizione dei cosiddetti «dati grezzi» (ovvero i fogli di lavoro) alla base della relazione del Ris dei carabinieri in cui è stabilito che è del muratore di Mapello il dna trovato sui leggings e sugli slip di Yara e, nella scorsa udienza, hanno lasciato intravvedere, senza esplicitarle in aula, su quali possibili ipotesi alternative stanno puntando, compresa anche quella del bullismo. Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini sia ai genitori sia alle istruttrici di ginnastica ritmica della tredicenne hanno posto insistite domande sulla forza fisica della giovane ginnasta. Hanno fatto rilevare come tra i libri presi in prestito da Yara ve ne fosse uno sul bullismo e che la ragazza aveva fatto ricerche in Internet sulla violenza alle donne («era rimasta molto impressionata dalla vicenda di Sarah Scazzi», aveva risposto Maura Panarese, la mamma della ragazza). Altre domande su una zona chiamata «gazebo», nei pressi della palestra in cui, fino a qualche anno fa, ha risposto il padre di Yara, si ritrovavano dei «ragazzacci» a bere birra (quando la ragazza sparì, ha ricordato però Gambirasio, la zona era interdetta per via di lavori). Altra suggestione, emersa senza seguito nell'immediatezza del ritrovamento del corpo di Yara: le ferite a X sulla schiena. Camporini ha sottolineato una presunta analogia con un simbolo utilizzato nella ginnastica ritmica e che significa «senza mani». Poi le domande, reiterate, a Silvia Brena, una delle allenatrici della palestra il cui Dna fu trovato sul giubbotto di Yara: la giovane donna ha spiegato che era previsto il contatto fisico durante gli allenamenti oppure che il contatto poteva essere accaduto durante un abbraccio, un saluto. Domande anche sui suoi movimenti di quel giorno (la ragazza era in palestra ad allenare mentre Yara fu presa sulla via a casa). Domande bollate come «irrilevanti» dal presidente della Corte Antonella Bertoja, che ha spiegato come non fosse quella «la sede in cui percorrere indagini parallele». Tutti argomenti, però, dei quali i difensori promettono di riparlare, così come hanno puntato il dito sui «non ricordo» di alcuni dei testimoni: «Bossetti è in carcere per i "non ricordo", perché dovremmo accettarli da loro?».
La difesa di Massimo Bossetti ha acquisito i dati grezzi sull'indagine genetica avvenuta sul corpo di Yara Gambirasio.
Il via libera è arrivato al termine dell'udienza di venerdì scorso. "Con i dati grezzi - spiegano i difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini - sarà possibile stabilire se sono stati commessi degli errori". Il Giorno ha raccolto tutte le dichiarazioni intorno all'udienza, cercando di delineare la strategia difensiva di Bossetti. Per Salvagni i nuovi dati potrebbero essere "la base per chiedere una perizia sulla traccia impressa sulla povera Yara". Per quanto riguarda l'udienza, la difesa non si lamenta, e anzi dice di aver dimostrato che "Yara e Bossetti appartengono a due mondi opposti, inconciliabili. Era impossibile che una ragazza come Yara avesse anche una semplice amicizia con un quarantenne". Mentre qualche giorno fa Bossetti parlava di colleghi dai comportamenti strani, la linea i suoi legali puntano sull'omicidio di gruppo. Dalle indagini risulta che Yara aveva preso in prestito nelle biblioteca di Brembate di Sopra due libri sul bullismo: Brutta! e Piantatela! Chi ha detto che il bullismo esiste solo fra i maschi? segno, secondo la difesa di Bossetti, che forse Yara era vittima di bullismo. La mamma nel corso dell'udienza ha detto che la figlia era vittima di qualche presa in giro "La chiamavano Yara Toyota per il nome e per l’apparecchio ai denti - ma, spiega ancora la mamma - Le scivolava addosso, anche perché non capitava solo a lei".
È terminata poco prima delle 20 di venerdì l’udienza fiume per il processo che vede imputato Massimo Bossetti, il carpentiere di Mapello accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio. Tutto è stato aggiornato alla prossima che è in programma venerdì 18 settembre.
Le prossime udienze sono previste per il 18 e il 23 settembre, mentre per ottobre ne sono state fissate 7.
Salvagni: «Emozionato anch’io». «Sono padre anche io e ho sentito un’emozione molto forte io stesso», ha commentato l’avvocato Salvagni dopo la deposizione del papà di Yara. Il riferimento è proprio alle lacrime di Fulvio Gambirasio. «Posso solo immaginare quale sia il dramma che stia vivendo - ha detto Salvagni - e che vivrà per tutta la vita. Questa cosa non si potrà mai cancellare». Il legale di Bossetti si dice tuttavia soddisfatto dell’andamento della giornata: «Mi sembra che il risultato di questa udienza possa essere sintetizzato in questo modo: la figura di Yara è esattamente la stessa che la difesa ha sempre tratteggiato. Una ragazza quasi teutonica nei suoi comportamenti, precisissima, con un rapporto straordinario con la mamma, con la quale si confidava su tutto». La ragazza «non aveva alcuna frequentazione con uomini più grandi» e «da questa udienza sono emersi alcuni dati importanti, che ci fanno dire che anche sotto la sfera sessuale, Yara era ancora veramente acerba». Per questo non avrebbe avuto «nessuna possibilità di interagire con uomini più grandi». Non solo, ma «anche con i suoi coetanei aveva un rapporto proprio da ragazzina».
Naturalmente della colpevolezza di Bossetti è pienamente convinta la Roberta Bruzzone, presenzialista su tutti i talk show dell’orrore.
PERCHE’ STAMPA E TV TACCIONO SULLA BRUZZONE?
La domanda è sorta spontanea al dr Antonio Giangrande che sulla vicenda di Avetrana ha scritto il libro ed il sequel “Sarah Scazzi. Il Delitto di Avetrana, Il resoconto di un Avetranese”. Questione importante, quella sollevata da Antonio Giangrande, in quanto se fondata, mette in una luce diversa il rapporto tra la stessa dr.ssa Bruzzone e Michele Misseri, suo accusatore.
Veniamo alla notizia censurata dai media.
La criminologa Roberta Bruzzone vittima di stalking, si legge su “ net1news” dal 12 gennaio 2015. “La criminologa e psicologa Roberta Bruzzone ha denunciato il suo ex fidanzato per stalking. Proprio grazie alla sua professione, la donna si è spesso occupata di vittime di molestie e persecuzioni e mai forse avrebbe pensato di vivere tutta quell’angoscia in prima persona. Roberta Bruzzone che conduce una trasmissione sul canale tematico del digitale terrestre “real time” è ormai un volto noto essendo spesso ospite nei salotti televisivi in qualità di esperta della materia. La donna è però entrata a far parte della folta schiera di vittime di molestie. A perseguitarla, l’ex fidanzato, appartenente alle forze dell’ordine che dopo una relazione durata cinque anni, chiusasi nel 2008 ha cominciato a tormentarla. Telefonate, sms, ma anche pedinamenti e agguati veri e propri: “E’ arrivato a puntarmi una pistola alla tempia – ha confessato la criminologa – è pericoloso”. La Bruzzone ha denunciato il suo ex per ben sette volte. L’uomo ha anche diffuso calunnie sul suo conto via internet. Ora pare le cose vadano meglio. Sulla questione ci sono degli aggiornamenti. A riferirle a Net1 News tramite raccomandata sono i legali dell’interessato, secondo cui la dottoressa Bruzzone per le sue dichiarazioni ai media è stata rinviata a giudizio per diffamazione aggravata: la prima udienza del processo è stata fissata per quest’anno. Al processo, sempre secondo quanto riferisce la raccomandata ricevuta, si costituiranno parte civile alcune associazioni a tutela delle donne.”
A quanto pare l’interessato, che sembra abbia presentato varie controquerele, si lamenta del fatto che il perseguitato è proprio lui e che ciò sia fatto per screditarlo dal punto di vista professionale, perché entrambi i soggetti svolgono la stessa professione, anche con comparsate in tv.
Visionando l’atto pubblico si anticipa già che il processo a carico della Bruzzone avrà vita breve. Non perché non sia fondata l’accusa, la cui fondatezza non mi attiene rilevare, ma per una questione tecnica. I tempi adottati per la fissazione della prima udienza e il fatto che vi è un errore di procedura da parte del Pm (non si è rilevato il possibile reato di calunnia continuato e comunque il reato di atti persecutori, stalking, e quindi si è saltata la fase dell’udienza preliminare) mi porta a pensare che la prescrizione sarà l’ordinario esito della vicenda italica. Comunque un Decreto di Citazione a Giudizio diretto presso un Tribunale Monocratico contiene già di per se il seme del dubbio sul carattere della persona incriminata. Sospetto insinuato proprio da un magistrato e per questo credibile, salvo enunciazione di assoluzione postuma.
A me non interessa la vicenda in sé. Sarà la magistratura, senza condizionamenti, a decidere quale sia la verità. E sarà, comunque, la persona offesa dalla diffamazione in oggetto a dire la sua anche sul comportamento di alcuni organi di stampa citati in querela. Il professionista, noto perché svolge la stessa professione della Bruzzone, non cerca pubblicità, anche se, per amor di verità, è citatissimo sul blog di Roberta Bruzzone. In questa sede una cosa, però, mi preme rilevare. Dove sono tutti quei giornalisti che per la Bruzzone si stracciano le vesti, riportando a piè sospinto su tutti i media ogni sua iniziativa, mentre questa notizia del suo rinvio a giudizio non è stata ripresa da alcuno? Che ciò possa inclinare la sua credibilità e minare l’assunto per il quale Michele Misseri non abbia avuto alcun condizionamento nell’accusare la figlia Sabrina?
Oltre tutto la dr.ssa Bruzzone non ha gli stessi trattamenti di riguardo in Fori giudiziari che non siano Taranto.
A scanso di facili querele si spiega il termine “di riguardo” usato, riportandoci alle dichiarazioni del 19 marzo 2013 fatte dall’avv. di Sabrina Misseri, Franco Coppi: «Come si può definire priva di riscontri la confessione di un uomo che fa trovare il cadavere e il telefonino della vittima?», ha detto ancora Coppi. «Le motivazioni della successiva ritrattazione - ha aggiunto - rivalutano la confessione di Misseri come unica verità. La confessione del 6 ottobre 2010 spiazza i pubblici ministeri che già si erano affezionati alla pista che porta a Sabrina Misseri. Mi chiedo se quel metodo di indagine non sia contrario allo spirito del codice di procedura penale. I mutamenti di versione da parte di Michele avvengono quasi sempre dopo sospensioni di interrogatorio e su richiesta del difensore, anche con qualche aiuto involontario di quest'ultimo». Esempio, ha detto Coppi, l'interrogatorio in carcere di Michele Misseri del 5 novembre 2010, in cui l'agricoltore accusa la figlia Sabrina del delitto, e «al quale non si comprende a quale titolo partecipa la criminologa Roberta Bruzzone quale consulente di parte». «Michele è scaltro - ha aggiunto - e coglie l'occasione per accusare la figlia. C'è stata un'opera di persuasione efficace nei suoi confronti. E poi perché non dice nulla su quello che per gli inquirenti sarebbe il vero movente dell'omicidio, non dice nulla sull'arrivo di Mariangela, sulla moglie, e non basta dire, come fanno i pubblici ministeri, che lui non sapeva nulla perché non era in casa al momento del delitto».
Ecco, quindi, che a proposito dei diversi trattamenti riservati a Roberta Bruzzone si cita Savona. A Savona il tanto atteso colpo a sorpresa della parte civile non è arrivato, scrive “Il Secolo XIX”. Anzi. L’irruzione nel processo per il delitto di Stella della notissima criminologa genovese Roberta Bruzzone, è stato bloccato sul nascere dal giudice delle udienze preliminari Emilio Fois che ha respinto l’istanza del legale di Andrea Macciò, ucciso con un colpo di fucile al cuore il 13 dicembre 2013 da Claudio Tognini, di un incidente probatorio per la verifica dello stato dei luoghi dove si è consumato il dramma. L’obiettivo della parte civile sarebbe stato quello di cercare tracce ematiche nella cucina di Alessio Scardino, il proprietario del fucile che ha sparato e dell’alloggio, per arrivare ad una nuova ricostruzione dei fatti. Se il pubblico ministero Chiara Venturi non si è opposta alla richiesta, ci ha pensato il giudice a rigettarla.
Vittima di stalking denuncia la criminologa Bruzzone. Marzia Schenetti, parte offesa a processo contro l'ex fidanzato, si è sentita diffamata da una lettera della nota criminologa ora agli atti della causa di Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. Due donne contro, di cui una a dir poco famosa visto che è spesso ospite di Bruno Vespa nel suo programma televisivo “Porta a porta”. Stiamo parlando della criminologa 41enne Roberta Bruzzone che, a partire da febbraio, dovrà affrontare un processo (davanti al giudice di pace) per diffamazione, visto che è stata denunciata dall’imprenditrice toanese 48enne Marzia Schenetti, conosciuta da tempo per la sua battaglia legale contro l’ex fidanzato Rodolfo “Rudy” Marconi che accusa di stalking. Il processo è ancora in corso, ma è proprio nell’udienza del 17 maggio 2013 che “esplode” questa vicenda. Le due professioniste si erano conosciute stando dalla stessa parte della barricata, cioè aderendo entrambe all’Associazione costituita per offrire sostegno e tutela alle donne vittime di violenza. E’ in quest’ambito che fra le due nascono delle frizioni, talmente poco edificanti da finire a carte bollate. In questo clima avvelenato “piomba” – nel processo in cui la Schenetti è parte offesa come vittima di stalking – una lettera della criminologa che viene depositata agli atti dal legale di Marconi. Secondo il capo d’imputazione in quella lettera si offende la reputazione dell’imprenditrice di Toano che viene definita “soggetto alquanto discutibile che ha mostrato, in una serie innumerevole di occasioni, la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze al solo scopo di danneggiare le persone verso cui nutre rancore”. Giudizi sulla Schenetti che diventano vere e proprie rasoiate: “Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato e complesso come la violenza sulle donne e sui minori, persona con problematiche personologiche incline a distorcere e mistificare la realtà, al solo scopo di recare danni a soggetti che non erano disposti ad assecondarne le sue irrealistiche aspettative di fama, successo e arricchimento personale o che, come nel caso della scrivente – rimarca la criminologa – avevano la colpa di metterla in secondo piano». Con l’ultimo deciso affondo: “Persone come la Schenetti rappresentano un gravissimo ostacolo per le vere vittime di violenza e che il Marconi è stato raggiunto da una serie di false accuse, costruite a tavolino allo scopo di poter permettere alla presunta vittima di sfruttare biecamente la sua condizione ed ottenere così visibilità mediatica”. La Schenetti, tramite l’avvocatessa Enrica Sassi, ha denunciato per diffamazione la criminologa e di recente il giudice di pace ha respinto la richiesta di proscioglimento avanzata dal difensore della Bruzzone, fissando le date del processo. «In realtà la diffamata sono io – replica la nota criminologa – e ho denunciato la Schenetti in procura a Roma. Testimonierò nel processo e, atti alla mano, spiegherò come stanno veramente le cose. Quella lettera è il mio pensiero e ritengo di avere agito in buona fede».
La criminologa tv finisce a processo. Roberta Bruzzone imputata per diffamazione. Tra i testimoni anche il generale Luciano Garofano, ex comandante dei Ris. Lei: «La vera vittima sono io» di Benedetta Salsi su “Il Resto del Carlino”. Dalle poltrone bianche di Bruno Vespa, alle aule del tribunale di Reggio. Roberta Bruzzone, 41 anni, la fascinosa criminologa forense, si trova ora catapultata nella prospettiva opposta: imputata per diffamazione nei confronti di una reggiana, presunta vittima di stalking. Tutto accade il 17 maggio del 2013, nel bel mezzo di un delicato processo per stalking, e ruota attorno a una lettera che è stata inviata dalla Bruzzone all’avvocato difensore di Rodolfo Marconi, poi letta ad alta voce in aula ed entrata nel fascicolo. Per questo è accusata di «aver inviato una missiva diretta a più persone — si legge nel capo di imputazione — nella quale offende la reputazione della donna, che definisce ‘soggetto alquanto discutibile che ha mostrato la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze’». E ancora: «Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato come la violenza sulle donne e sui minori». Il riferimento, diretto, è a un’associazione contro le vittime di violenze alla quale avevano aderito sia la presunta parte offesa sia la Bruzzone. In quel contesto era nato uno screzio fra le due donne, sfociato poi in querele e controquerele. Quella lettera, però, viene acquisita dall’avvocato Enrica Sassi e ne parte una citazione diretta al giudice di pace; poi un processo, proprio nei confronti della Bruzzone. Nella missiva, infatti, il personaggio tv ribadiva come la parte civile di quel processo fosse «incline a distorcere la realtà, al solo scopo di recare danni a soggetti che non erano disposti ad assecondarne le sue irrealistiche aspettavate di fama, successo e arricchimento personale». Non solo. Avrebbe anche aggiunto, nero su bianco, che i soggetti come lei «rappresentano un gravissimo ostacolo per le vere vittime di violenza». L’ipotesi di reato, dunque, è diffamazione. Il giudice di pace, mercoledì, ha respinto la richiesta di proscioglimento avanzata dal difensore della Bruzzone, Emanuele Florindi, e ha fissato le date delle prossime udienze: 4, 11, 18 e 25 febbraio. Tra i testimoni della parte offesa, c’è poi un altro personaggio di spicco: il generale in congedo Luciano Garofano, ex comandante dei Ris. Ma la Bruzzone, combattiva più che mai, si difende: «Si tratta di un ricorso diretto al giudice di pace che non ha avuto nemmeno il vaglio del pm — incalza —. Lei mi accusa in maniera falsa e infondata ed è stata a sua volta querelata da me. Quella lettera era stata mandata in virtù di consulente esperta, chiamata dal suo avvocato. Da sempre porto avanti una battaglia contro le finte vittime di stalking e questo mi pare uno di quei casi». Promette, anche, che arriverà qui, a spiegare le sue ragioni: «Io verrò a Reggio e sarò sottoposta a esame, come ho richiesto: intendo dimostrare a tutti chi è questa donna: una persona a caccia di visibilità, che non ha ottenuto in altro modi». Una prima udienza davanti al giudice di pace di Reggio Emilia piena di tensioni, perché la nota criminologa 42enne Roberta Bruzzone ha subito inteso replicare per le rime all’accusa per diffamazione mossagli dall’imprenditrice toanese 49enne Marzia Schenetti, conosciuta da tempo per la sua battaglia legale contro l'ex fidanzato Rodolfo "Rudy" Marconi che accusa di stalking, scrive Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. Il processo è ancora in corso, ma è proprio nell'udienza del 17 maggio 2013 che "esplode" questa vicenda. Le due professioniste si erano conosciute stando dalla stessa parte della barricata, cioè aderendo entrambe all'Associazione costituita per offrire sostegno e tutela alle donne vittime di violenza. E' in quest'ambito che fra le due nascono delle frizioni, poi "piomba" - nel processo in cui la Schenetti è parte offesa come vittima di stalking - una lettera della criminologa che viene depositata agli atti dal legale di Marconi. Secondo la procura in quella lettera si offende la reputazione dell’imprenditrice di Toano, da qui la denuncia ora sfociata nel processo. Ieri la criminologa ha dato battaglia solo davanti ai cronisti (verrà sentita in aula più avanti): «La Schenetti ha un problema di visibilità – dice la Bruzzone – che non riesce ad acquisire per meriti suoi, quindi tenta di sfruttare quella degli altri. Ma la sua credibilità è veramente discutibile e io non mi fermerò davanti a niente, procederò nei suoi confronti in sede penale per ogni cosa. Quella lettera? La riscriverei, anzi la farei più lunga, anche sulla base degli ulteriori elementi che ho su di lei. Io non credo che sia una vittima e continuerò a ripeterlo in ogni sede». L'imprenditrice – costituitesi parte civile tramite l’avvocatessa Enrica Sassi – è sta sentita in udienza: «Per me quella lettera fu una violenza tremenda, uno smantellamento della mia persona. Una situazione pesantissima, ci sono voluti due mesi per riprendermi dallo stress. Io e la Bruzzone, comunque, non ci conosciamo e non so su che base abbia potuto scrivere di me». Tanti i nervi scoperti e siamo solo alla prima “puntata”...
Tacchi alti, vestita di nero, trucco impeccabile e capello fluente, scrive di Benedetta Salsi su “Il Resto del Carlino”. È iniziato così, non senza momenti di tensione e brusii di chi la vedeva nei corridoi, il processo per diffamazione che vede imputata Roberta Bruzzone, 42 anni, la fascinosa criminologa forense habituée delle poltrone bianche di Bruno Vespa, a Porta a Porta. Ad accusarla è una donna reggiana, presunta vittima di persecuzioni (non ne riveliamo l’identità per proteggere la sua privacy). Tutto accade il 17 maggio del 2013, nel bel mezzo di un delicato processo per stalking e ruota attorno a una lettera che è stata inviata dalla Bruzzone all’avvocato difensore di Rodolfo Marconi (l’imputato), poi letta ad alta voce in aula ed entrata nel fascicolo. La Bruzzone è dunque accusata di «aver inviato una missiva diretta a più persone – si legge nel capo di imputazione — nella quale offende la reputazione della donna, che definisce ‘soggetto alquanto discutibile che ha mostrato la propensione a mentire e manipolare fatti e circostanze’». E ancora: «Del tutto inadatta a cimentarsi con un tema così delicato come la violenza sulle donne e sui minori». Il riferimento, diretto, è a un’associazione contro le vittime di violenze alla quale avevano aderito sia la presunta parte offesa sia la Bruzzone. In quel contesto era nato uno screzio fra le due, sfociato poi in querele e controquerele. Quella lettera, però, viene acquisita dall’avvocato Enrica Sassi (che rappresenta la parte offesa) e ne parte una citazione diretta al giudice di pace; poi un processo, proprio nei confronti della Bruzzone. Ieri la prima udienza, davanti al giudice di pace, con la testimonianza della presunta vittima. «Quella lettera per me fu una violenza tremenda – ha detto –. Non fu altro che un insieme di diffamazioni e calunnie, uno smantellamento della mia persona. Una situazione pesantissima, ci sono voluti due mesi per riprendermi dallo stress. Mi sono sentita colpita da una donna che si intrometteva con violenza in un procedimento di violenza che io stessa avevo subito». E ha aggiunto: «Io e la Bruzzone, comunque, non ci conosciamo e non so su che base abbia potuto scrivere di me. Ci siamo sentite una volta al telefono quando è entrata nell’associazione di cui io sono presidente e la Bruzzone mi ha detto di essere stata anche lei vittima di stalking. Io invece non le ho mai parlato della mia vicenda personale. Avrei voluto, ma non ne ho avuto il tempo. Poi ci siamo viste una volta a luglio del 2012 a Sinai (in provincia di Cagliari) durante un’iniziativa contro la violenza alle donne, in cui lei ha colto l’occasione per presentare il suo libro, senza citare la nostra associazione. Al termine del convegno le abbiamo chiesto di uscirne e lei lo ha fatto il giorno dopo». La Bruzzone, però, non ci sta. E a margine dell’udienza, chiosa: «Quella donna ha un problema di visibilità che non riesce ad acquisire per meriti suoi, quindi tenta di sfruttare quella degli altri. Ma la sua credibilità è veramente discutibile. Io non mi fermerò davanti a niente e procederò nei suoi confronti in sede penale per ogni cosa che dirà contro di me. Quella lettera? La riscriverei, anzi la farei più lunga, anche sulla base degli ulteriori elementi che ho su di lei». Tutto rimandato alla settimana prossima, per i testimoni di parte civile.
Prossimamente scopriremo che credibilità ha Roberta Bruzzone, finta vittima di stalking che presto verrà processata... e non solo perché denunciata da un ufficiale di Polizia, scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando Contro Vento”. Non ho mai amato i programmi di gossip che trattano in maniera frivola i casi di cronaca nera. E neppure amo quelli che, pur se mandano in onda servizi filmati che molto spesso riportano le giuste informazioni, a causa di opinionisti ostili alle Difese - e per partito preso ancorati alle procure - contribuiscono a creare il pregiudizio anziché aiutare lo spettatore a capire. Per questo preferisco contattare direttamente chi è parte della notizia, avvocati indagati familiari e inquirenti, e leggere con logica ciò che scrivono e dicono accusa e difesa. Come me tanti altri si formano una propria idea in maniera autonoma, senza ascoltare i vari gossippari che si mostrano in video per convenienza professionale... quando non hanno un contratto a pagamento. Ma non tutti resistono alla tentazione, per cui c'è chi questi programmi li guarda. Addirittura c'è anche chi li ascolta e si infastidisce per le parole che sente. Ad esempio, giorni fa mi hanno informato di alcune frasi pronunciate in maniera troppo leggera e spensierata nella puntata di Porta a Porta trasmessa martedì 20 gennaio 2015. A pronunciarle il magistrato Simonetta Matone. Simonetta Matone in televisione non va con la toga da magistrato. Per cui figura essere un'opinionista con molta esperienza giuridica. Lei martedì 20 gennaio, forse non pensando al dopo, ha paragonato i gruppi facebook creati a favore degli imputati ai fanatici che inneggiano e osannano i terroristi, nel caso specifico a chi ha ucciso i giornalisti di Charlie Hebdo e tanti altri francesi. Quella parte della puntata trattava l'omicidio di Loris Stival, quindi i gruppi a cui si riferiva sono certamente quelli che sostengono "Veronica Panarello". Non contenta, ha reiterato il reato verbale facendo credere ai telespettatori che chi aderisce ai gruppi innocentisti e critica le indagini, su internet scrive a vanvera e senza sapere nulla perché degli atti non ha letto neppure una riga. Probabile che non se ne sia resa conto, ma ha praticamente affermato che nessuno ha il diritto di criticare i magistrati perché questi sono "unici, bravi belli e infallibili". Ora c'è da dire che, pur essendosi ritagliata un'enorme visibilità mediatica partecipando da tanti anni al programma presentato da Bruno Vespa, nella vita privata è un magistrato che lavora al ministero di Grazia e Giustizia. E dai dati si capisce il probabile motivo per cui difende i magistrati. Ma c'è anche da dire che in questi anni trascorsi di fronte alle telecamere, lei prima di tutti ha dato giudizi senza aver letto neppure una riga, seppur cercando di restare neutrale chiarendo ogni volta il punto, sui casi di cronaca nera trattati da Porta a Porta. E fa specie che si permetta di giudicare in pubblico chi ha democraticamente il suo stesso diritto di parlare ed esternare la propria idea. La speranza è che a mente fredda abbia compreso di avere un tantino esagerato e magari chieda scusa a chi non è d'accordo col pensiero di alcuni magistrati, a chi si è sentito chiamato in causa anche se critica in maniera civile e dopo essersi informato al meglio (naturalmente non deve scuse a chi i magistrati li offende). Questo perché non tutti i magistrati sono infallibili. D'altronde le richieste di risarcimento a causa di errori giudiziari, in Italia sono quasi tremila ogni anno, stanno a dimostrare la non infallibilità della giustizia. In ogni caso, a parte la svista di cui sopra, le opinioni di Simonetta Matone si possono accettare perché ha un passato davvero encomiabile e in materia giuridica è senz'altro molto ferrata. Meno si possono accettare le parole di chi sta in studio a pubblicizzare il gossip criminale del suo settimanale, o quelle di chi si mostra colpevolista, senza se e senza ma, nonostante vi siano indagini in corso e processi ancora da celebrare. Parlo di Roberta Bruzzone che al contrario di Simonetta Matone la propria opinione, molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori, la esterna in maniera netta senza usare quell'imparzialità che in televisione, di fronte a milioni di persone, sarebbe d'obbligo. Ciò che non si capisce è il motivo per cui parla con toni alti e molto colpevolisti di chi si trova in carcere in attesa di giudizio e si dichiara innocente. Insomma, perché instradare la pubblica opinione invece di informarla e lasciarla ragionare con la propria mente? Non esiste a Porta a Porta la presunzione di innocenza? Anche per la Bruzzone i magistrati non sbagliano mai? Su quest'ultimo punto vedremo se sarà dello stesso avviso dopo i diversi processi che la attendono da qui in avanti. Ad esempio, il 15 dicembre 2015 dovrà presentarsi al tribunale di Tivoli per rispondere del reato previsto dall'articolo 595 - comma tre - del codice penale per aver messo in atto, con più azioni consecutive, un disegno criminoso fatto di calunnie e offese atte a colpire un ufficiale di Polizia. Udienza conclusa con un decreto di citazione diretta in giudizio di fronte al giudice monocratico di Tivoli il giorno 3 ottobre 2016. Proc. N. 5860/2011 RGNT mod. 21. Infatti le accuse di stalking presentate dalla Bruzzone contro un ufficiale di Polizia col quale aveva avuto una relazione fra il 2004 e il 2005, addirittura una ventina di denunce dal 2009 al 2014, si sono rivelate tutte infondate. Mentre le interviste rilasciate sulla vicenda dalla opinionista di Porta a Porta, in cui non lesinava particolari sul comportamento malato, parole sue, di chi la perseguitava (ma ora grazie ai magistrati sappiamo che nessuno in realtà la perseguitava), sono tuttora impresse negli archivi delle testate giornalistiche nazionali (Corriere della Sera in primis), su internet e in televisione, sulle registrazioni di Porta a Porta e di Uno Mattina. Insomma, chi la fa l'aspetti - verrebbe da pensare - perché la vita a volte può riservare sorprese. E la Bruzzone di sorprese ne avrà una in più, perché, dato che è ambasciatrice di Telefono Rosa, un'associazione che aiuta le donne vittime di violenza, e viste le denunce per stalking da lei presentate e rivelatesi infondate, in tribunale si troverà di fronte anche alcune associazioni in difesa della donna che hanno deciso di costituirsi parte civile perché "l'utilizzo strumentale" della denuncia per un reato grave come lo stalking contribuisce a rendere meno credibili le donne che subiscono realmente una violenza. Ma non è l'unica bega che la Bruzzone dovrà affrontare in tribunale, visto che è indagata anche dalla Procura di Reggio Emilia per un reato simile ( così come su riportato da di Benedetta Salsi su “Il resto del Carlino” e Tiziano Soresina su “La Gazzetta di Reggio”. La moglie di un vero stalker, oggi ancora nei guai perché accusato di truffa da un'altra sua ex, si è sentita descrivere dalla Bruzzone quale finta vittima incline a distorcere la realtà (in pratica ha difeso lo stalker poi condannato). In questo caso le date del processo sono ancora più vicine nel tempo (le udienze sono fissate per il 4 - 11 - 18 e 25 febbraio 2015). Altra bega, che risale al 2012 e che presto verrà dipanata dai giudici, è una citazione civile che riguarda lei ed alcuni suoi collaboratori (promossa dall’associazione Donne per la Sicurezza. Lei e loro su Facebook, con frasi razziste, (secondo quanto riporta il sito dell’associazione: “Mmmmm.. quanto costa affittare una russa per fare qualche foto e far finta di avere una vita ???? troppo divertenteeeee…” oppure ““ ..ci vuole stomaco per stare con un pezzo di merda così anche se solo per sghei e solo per 5 minuti…STRANO MA VEROOO”), hanno insultato per lungo tempo sia la modella di origine russa Natalia Murashkina, moglie del poliziotto che nel contempo la Bruzzone denunciava ingiustamente, sia le ragazze russe trattate come donne che si vendono a poco prezzo. Di questa vicenda si interessò alla fine del 2012 anche "La Pravda", un giornale russo letto da oltre cento milioni di persone. Senza parlare delle accuse mosse contro di lei da Michele Misseri, che afferma di essere stato convinto dalla Bruzzone ad inserire nel delitto di Sarah Scazzi la figlia Sabrina (con prospettive davvero vantaggiose), affermazioni che se provate le costerebbero una condanna rilevante e la carriera, ciò che ancora nessuno ha capito, e immagino che al tribunale di Tivoli si cercherà anche di chiarire questo punto, è il motivo per cui la Bruzzone abbia innestato un movimento di denunce rivelatesi infondate condite da interviste mediaticamente rilevanti ma alla luce dei fatti false. O tutti ce l'hanno con lei, e francamente è difficile da credere, o è lei ad avere motivi che l'hanno spinta a screditare l'ufficiale di polizia e le altre persone. Che dietro ci sia qualcosa di importante? Su questo punto troviamo il dato certo che il poliziotto da lei accusato, nel 2009 - anno delle prime denunce di stalking - aveva avviato una campagna politico-sindacale per ridurre gli sprechi della pubblica amministrazione. In pratica, aveva proposto di far acquistare i prodotti per le investigazioni scientifiche (alle forze di polizia) direttamente in America risparmiando così milioni di dollari di tasse e, soprattutto, di spese di mediazione ad aziende di import export.
Questo è l’articolo di riferimento. Csi all'italiana: paghiamo il doppio degli altri la polvere per le impronte digitali. La denuncia del sindacato di polizia: la Scientifica è costretta a risparmiare sulle indagini. La colpa è dei mediatori che fanno raddoppiare il costo delle attrezzature made in Usa, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Ci vuole preparazione scientifica, occhio addestrato, pazienza: ma l'analisi scientifica della scena di un crimine si basa anche sull'utilizzo di materiale tecnico avanzato e costoso. Chi non è rimasto allibito nel vedere in televisione la prontezza con cui i tecnici della Csi, la polizia scientifica statunitense, sfoderano ogni genere di diavolerie hit-tech? Non che le forze di polizia italiane abbiano granchè da invidiare a quelle a stelle e strisce, quanto a preparazione. Ma l'abbondanza di mezzi è una delle caratteristiche che, in questo e in altri campi, ci separa irrimediabilmente dall'America. E, secondo la denuncia del sindacato di polizia Consap, la situazione negli ultimi tempi si è ulteriormente aggravata. La carenza di mezzi è diventata cronica, al punto che spesso e volentieri - in particolare sulla scena di reati considerati «minori», come i furti in appartamento - la polizia evita di compiere tutti i rilievi necessari perchè l'ordine è quello di risparmiare su tutto: compresa la polverina necessaria a rilevare le impronte digitali. Colpa della crisi economica, sicuramente. Ma anche di una anomalia tutta italiana: la polvere per le impronte è di produzione Usa, tutte le polizie la comprano direttamente dai produttori oltreoceano, mentre la polizia italiana passa - chissà perchè - attraverso una società di mediazione. Il risultato, sostiene il Consap, è che paghiamo il prodotto il doppio degli altri. «Prodotti, come ad esempio le polveri per rilevare le impronte digitali o il famoso luminol per la ricerca del sangue umano, hanno costi abbastanza elevati e vengono prodotti da poche ditte al mondo. In particolare la Polizia di Stato e le altre forze di polizia italiane utilizzano in larga parte prodotti della Sirchie, azienda americana leader del mercato per qualità e affidabilità dei materiali commercializzati. In questo periodo di profonda crisi economica, i tagli di bilancio, oltre che a congelare gli stipendi dei poliziotti, stanno riducendo la possibilità di acquisire una quantità sufficiente di tali sostanze e di fatto i reparti specializzati di investigazioni scientifiche devono limitare il loro impiego solo ai casi più eclatanti, in pratica solo gli omicidi e qualche rapina. Sempre più spesso i cittadini che hanno subito reati definiti minori, come furti, danneggiamenti, non ricevono un intervento adeguato da parte degli investigatori che non dispongono di attrezzature sufficienti e che spesso sopperiscono, per amor proprio, con materiali acquistati di tasca loro o con mezzi di fortuna che poi spesso vengono contestati in sede di processo. La Consap, che da più di un anno sta monitorando e analizzando questo problema, ha potuto constatare che i prodotti per criminalistica non vengono acquistati dall'Amministrazione direttamente dall'azienda produttrice ma da una ditta concessionaria italiana. In pratica la Polizia di Stato paga i materiali da utilizzare sulla scena del crimine circa il doppio del loro prezzo di catalogo. Il problema è stato da tempo posto all'attenzione degli esperti di settore e di alcuni politici. E si è subito avuta la sensazione di aver toccato degli interessi economici rilevanti». Uno «spreco ingiustificato, che si ripercuote in maniera drammatica sulla sicurezza e sulla possibilità di ottenere giustizia da parte del cittadino».
E ciò che pare strano, è che la Bruzzone collabora con le aziende che controllano la maggioranza delle forniture di prodotti alle forze di polizia (la Sirchie e la Raset). C'è da chiedersi se non voglia dire nulla la sua presenza nel video pubblicitario presente sulla pagina "Chi siamo" del sito internet della Sirchie.
In seguito a questo articolo ci sono stati degli sviluppi.
"Alla dottoressa Roberta Bruzzone non piace la critica e con una strana Diffida mi inviata a pagarle 250.000 euro e a darle il nome di chi mi informa..., - scrive Massimo Prati sul suo Blog “Volando-Controvento”. . E' capitato anche a me. Come altri in questi anni anch'io ho ricevuto la Diffida dalla dottoressa Roberta Bruzzone. Una diffida strana in cui mi invita a pagarle - inviandoli allo studio del suo avvocato – ben 250.000 euro quale risarcimento per i gravissimi danni di immagine provocati da ciò che ho scritto in un articolo, in questo articolo, in cui, visto quanto aveva affermato a Porta a Porta, l'ho criticata. Articolo che ho completato con le notizie su una serie di processi in cui dovrà difendersi. Alla fine, dopo aver notato alcune stranezze, ho anche posto una domanda lecita che si sarebbe sciolta in acqua con una semplice e veloce risposta plausibile. Invece mi è arrivata una diffida. Strana. Ora, prima di entrare nel dettaglio e contestare pubblicamente tutte le parole del legale della Bruzzone, voglio premettere che la nostra legge è chiara e che per fare una diffida ci vogliono motivi validi. Motivi che non esistono se chi informa scrive notizie vere usando parole non offensive senza entrare nella sfera privata del personaggio di cui parla. Quindi, per quanto riguarda il diritto di cronaca si devono usare certe accortezze e ci si deve informare in maniera esaustiva. Qualcosa cambia quando chi scrive esercita il diritto di critica. Naturalmente non si può criticare un pinco pallino qualunque in un articolo destinato a più persone, specialmente se il pinco pallino a livello nazionale non lo conosce nessuno e vive e agisce in un ambiente ristretto. Al contrario, però, si può criticare quanto dice chi nel tempo è diventato un personaggio pubblico e in pubblico, o in programmi seguiti da milioni di telespettatori, esprime proprie opinioni e concetti. Concetti e opinioni che non tutti debbono per forza condividere e proprio per questo si possono criticare, perché - come ha stabilito anche il tribunale di Roma già nel 1992 - chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla sua dimensione pubblica. Dopo questa obbligatoria premessa, mi addentro nella diffida inviatami dal legale della dottoressa Bruzzone, avvocato Emanuele Florindi, per dimostrare quanto sia strana, assurda e priva di ogni fondamento. Il legale inizia col dire che nell'articolo ho scritto un numero impressionante di falsità. E non appena ho letto questa frase mi è spuntato un sorriso venendomi alla mente la storia del bue che chiamava cornuto l'asino. Questa la prima parte della diffida: Dott.ssa Roberta Bruzzone Vs Massimo Prati. <Gentile Sig. Prati, formulo la presente in nome e per conto della Dott.ssa Roberta Bruzzone, in relazione all'articolo da lei pubblicato su volandocontrovento.blogspot.it, per contestarne integralmente toni e contenuti. Nello specifico, non soltanto il suo articolo contiene un numero impressionante di falsità e di imprecisioni, ma risulta anche essere singolarmente contraddittorio: è davvero strano, infatti, che, mentre nelle prime righe del suo articolo Lei affermi di non amare "i programmi di gossip che trattano in maniera frivola i casi di cronaca nera. E neppure [...] quelli che, pur se mandano in onda servizi filmati che molto spesso riportano le giuste informazioni, a causa di opinionisti ostili alle Difese - e per partito preso ancorati alle procure - contribuiscono a creare il pregiudizio anziché aiutare lo spettatore a capire", poi si presti a fare esattamente la stessa cosa mescolando artatamente giuste informazioni, velate menzogne e subdole insinuazioni volte a creare pregiudizio alla mia Assistita. Non mi risulta neppure che Lei abbia provveduto a "contattare direttamente chi è parte della notizia, avvocati indagati familiari e inquirenti, e leggere con logica ciò che scrivono e dicono accusa e difesa", dato che ha proceduto a pubblicare il suo articolo basandosi su fonti unilaterali... a tal proposito, saremmo piuttosto interessati a conoscere l'identità di tali fonti, visto che sembrerebbero aver concorso con Lei ad un trattamento illecito di dati personali e di dati giudiziari il che, per un paladino dei diritti dell'imputato quale Lei si presenta, appare piuttosto singolare. Basandosi su tali "fonti" Lei ha, infatti, redatto un articolo falso, diffamatorio e gratuitamente offensivo nei confronti della mia Assistita, da Lei presentata come faziosa, forcaiola, razzista, incompetente, propensa a mistificare e falsificare la realtà e collusa con le aziende che controllano le forniture di prodotti alle forze di polizia.> Alla faccia! Sarò mica malato a scrivere le cotante robacce notate dal legale...Non sono malato, non necessito di cure e quindi, nel pieno possesso delle mie facoltà mentali rispondo punto per punto perché mi sono accorto che né la dottoressa né il suo avvocato paiono aver capito un articolo non diffamatorio in cui non ho assolutamente presentato Roberta Bruzzone quale persona faziosa, forcaiola, razzista, incompetente, propensa a mistificare, a falsificare la realtà e collusa. E mi chiedo con quale spirito e pensiero l'abbiano letto. Partiamo dall'inizio. E' vero che non amo quelle trasmissioni in cui gli opinionisti sono chiaramente ostili alle difese e danno per certo quanto trapela dalle procure. Mi piace l'imparzialità e non credo che trasmissioni "unilaterali" siano da mandare in onda. E' vero che per scrivere sui fatti di cronaca nera non mi baso su quanto scrivono quei media e quei "gossippari" che diffondono notizie che a posteriori si rivelano inutili e tendenziose. Gli esempi sono migliaia. E' vero che le mie fonti principali sono le stesse dei giornalisti: avvocati, indagati, i loro familiari e anche periti e inquirenti. E' vero che per non lasciarmi influenzare dai pregiudizi baso i miei scritti soprattutto sugli atti ufficiali, che leggo più volte per non travisarli, e sulla logica. Mi sembra il minimo da fare quando si vuol scrivere di cronaca nera in maniera corretta e di un indagato, magari in custodia cautelare in carcere, che si dichiara innocente e rischia l'ergastolo. Detto questo, non credo sia difficile comprendere che l'inciso inserito a inizio articolo era generico e riferito ai casi di cronaca nera e non alla dottoressa Bruzzone. Infatti è quando scrivo di cronaca nera che contatto chi è parte della notizia. Quindi nessuna falsità inserita nella premessa dell'articolo, che era solo una premessa, per l'appunto, e nulla c'entra con quanto ho poi scritto sulla dottoressa che, a meno non commetta un omicidio (o non ne confessi uno già commesso) o non venga carcerata ingiustamente, al momento non è parte di alcun caso di cronaca nera. Detto anche che per scrivere di processi che devono ancora iniziare non si necessita di "fonti" particolari, se la notizia è vera, se l'udienza è fissata e se il capo d'accusa esiste che fonte serve?, mi chiedo per quale motivo dovrei divulgare le identità di chi mi informa e, soprattutto, perché dovrei farle conoscere all'avvocato Florindi. Un motivo lecito e valido non esiste. Inoltre, nessun trattamento illecito dei dati personali si può rilevare quando si parla di atti processuali non secretati riguardanti i maggiorenni (non sono io che divulga quanto è secretato dalle procure), dato che sono atti pubblici a disposizione di chiunque ne faccia richiesta. Come non esiste nessun trattamento illecito sulla privacy se si vengono a conoscere notizie sui personaggi pubblici parlando del più e del meno in un bar con un magistrato, un cancelliere o un avvocato che frequenta quel dato tribunale. Perché, vista la dimensione mediatica della dottoressa Bruzzone, vale sempre il dettame dei giudici. Loro e non io hanno stabilito che chi ha scelto la notorietà come dimensione esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio diritto alla riservatezza direttamente correlata alla propria dimensione pubblica. Per cui, pare proprio che nella premessa di falsità non ne abbia scritte. E per continuare a confutare la diffida inviatami, ci sarebbe da chiedersi da quale esternazione, presente nei quasi novecento articoli da me scritti e presenti sul blog, l'avvocato abbia capito che io sono "un paladino dei diritti dell'imputato". Mai ho scritto di essere un paladino e mai che difendo tutti gli imputati. Difendo i diritti di alcuni, questo è vero, ma lo faccio quando sono lesi in maniera per me evidente. Per cui, tanto per esemplificare e far capire meglio, critico i procuratori e i giudici quando un indagato che si dichiara innocente viene spedito in carcere ancor prima di indagini approfondite o di riscontri che provino le accuse formulate da terzi. Basti pensare a Sabrina Misseri (in custodia cautelare da quattro anni e mezzo) che nel volgere di poche ore finì in galera senza alcuna verifica sulle parole del padre - che quel 15 ottobre 2010 non era nelle migliori condizioni fisiche e mentali - e che ora è in carcere per motivi assai diversi da quelli che si sono usati per carcerarla. Forse l'avvocato Florindi neppure sa che Michele Misseri fu svegliato a notte fonda e portato ad Avetrana dalle guardie penitenziarie che lo presero in custodia quando ancora era buio pesto. Tanto che una volta giunte al paese furono costrette a "nascondersi", con l'imputato in auto, fra la vegetazione di contrada Urmo in attesa dell'arrivo dei procuratori. Questa è una notizia inedita, mai uscita sui media, e dimostra che mi informo nei modi giusti e nei luoghi giusti senza cercare lo scoop a tutti i costi. In pratica dovrebbe far capire, anche all'avvocato, che non sono uno dei tanti che copia-incolla per avere un maggior numero di entrate e guadagnare mostrando improvvisamente uno spot pubblicitario. Inoltre non scrivo articoli a favore di chiunque sia indagato, perché gli assassini veri li vorrei vedere in carcere per la vita... anche i reo-confessi se autori di delitti efferati. Per questo critico la legge che permette a chi confessa di ottenere troppi benefici e di uscire dal carcere in tempi rapidi. Ma la dottoressa Bruzzone, nonostante i processi che la attendono, non è in carcere e nemmeno ci andrà mai. Lei è libera di esternare le sue convinzioni in televisione e di andare dove vuole. Nessuno, giustamente, ha limitato la sua libertà. Quindi nessun suo diritto è da difendere. Stia pur certo l'avvocato che se venisse spedita in carcere prima ancora di essere indagata nella giusta maniera, che se contro di lei i gossippari parlassero solo in base a chi accusa, sarei io il primo a difenderla e a criticare i media per la mancanza di etica e professionalità. E ancora: in quale passaggio dell'articolo avrei descritto la dottoressa faziosa, forcaiola e quant'altro? Io, dopo aver criticato la dottoressa Simonetta Matone per aver paragonato chi scrive su facebook, nel particolare si parlava dei siti innocentisti che credono a Veronica Panarello, a chi incita i terroristi (citando Charlie Hebdo), scrissi: "meno si possono accettare le parole di chi sta in studio a pubblicizzare il gossip criminale del suo settimanale, o quelle di chi si mostra colpevolista, senza se e senza ma, nonostante vi siano indagini in corso e processi ancora da celebrare. Parlo di Roberta Bruzzone che al contrario di Simonetta Matone la propria opinione, molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori, la esterna in maniera netta senza usare quell'imparzialità che in televisione, di fronte a milioni di persone, sarebbe d'obbligo. Ciò che non si capisce è il motivo per cui parla con toni alti e molto colpevolisti di chi si trova in carcere in attesa di giudizio e si dichiara innocente. Insomma, perché instradare la pubblica opinione invece di informarla e lasciarla ragionare con la propria mente? Non esiste a Porta a Porta la presunzione di innocenza? Anche per la Bruzzone i magistrati non sbagliano mai?" Dove sarebbero le falsità, visto che la dottoressa si contrappone chiaramente a chi cerca di difendere Veronica Panarello e lo dice apertamente al dottor Vespa, allo stesso avvocato Villardita e ai telespettatori? Se è vero, come è vero, che Veronica Panarello deve ancora subire il primo processo e si dichiara innocente, dire di fronte a milioni di persone che si hanno idee diametralmente opposte all'avvocato Villardita, quindi colpevoliste, non significa forse parlare senza imparzialità e, soprattutto, senza considerare la presunzione di innocenza? Non è forse vero che l'opinione della dottoressa è molto ascoltata e condivisa da tanti telespettatori? Vista la sua popolarità credo proprio che questo non si possa negare. Come non si può negare che nelle mie parole non si trovino frasi che sottintendano termini quali: "incompetente" (mai scritta e mai pensata una cosa del genere), "forcaiola" (non c'è nulla nell'articolo che porti a questo termine, visto che viene usato per situazioni molto più gravi), "razzista" (questa parola neppure se ampliamo al massimo il significato entrando sulla Treccani c'entra nulla con quanto ho scritto), "faziosa" (per essere faziosi bisogna sostenere con intransigenza e senza obiettività le proprie tesi, non limitarsi ad esprimere una opinione parlando con toni alti e molto colpevolisti). Non ho quindi scritto alcuna falsità e la mia critica ha basi più che fondate. Anche perché vale sempre la legge che dice: il diritto di critica si differenzia da quello di cronaca perché nell'articolo non si parla di fatti ma si esprime un giudizio o, più genericamente, un'opinione che, come tale, non può pretendersi rigorosamente obiettiva, posto che la critica, per sua natura, non può che essere fondata su un'interpretazione necessariamente soggettiva di fatti e comportamenti. Ora qui ribadisco che alla luce di quanto ho visto e ascoltato in registrazioni di Porta a Porta, la mia critica era più che obiettiva anche se per legge non necessitava di una obiettività approfondita. Quindi, ancora una volta mi chiedo per quale motivo l'avvocato Florindi mi abbia inviato una diffida. Comunque, tanto per finire, mi addentro anche nell'ultima accusa che mi fa, quella di aver dipinto la sua assistita come una persona propensa a mistificare la realtà e collusa con le aziende che "controllano le forniture alle forze di Polizia" (e tanto per far capire come son fatto, non per altro, mi sono chiesto subito cosa stessero a significare le parole - "controllano le forniture alle forze di Polizia" - scritte dall'avvocato). Nell'articolo mi chiedevo se la dottoressa Bruzzone considererà ancora infallibili i giudici e i procuratori dopo i processi che dovrà affrontare. Specialmente perché il rigetto di tutte le denunce da lei presentate contro un dirigente dell'UGL (Polizia di Stato) la dipingono come una falsa vittima di stalking che ha approfittato della sua posizione parlando ai media di reati mai subiti. E questo sarebbe veramente grave perché contribuirebbe a rendere meno credibili le tante vere vittime di stalking. E' per queste parole che per l'avvocato l'avrei dipinta come persona propensa a mistificare la realtà? Forse l'avvocato dimentica che non sono stato io a rigettare le denunce della dottoressa, ma i magistrati che hanno valutato le indagini partite in seguito a quelle denunce. Io mi sono limitato a riportare la notizia e a far qualche considerazione. Non è quindi a me che deve fare accuse, ma a chi ha svolto le indagini e a chi le ha valutate prima di rigettarle. Comunque, proprio a causa di quei rigetti mi chiedevo il motivo per cui, a partire dal 2009 (anno in cui uscì da una associazione di criminologi di cui il dirigente dell'UGL era presidente) avesse presentato una ventina di denunce, quelle poi rigettate, nei confronti del presidente stesso. E qui mi ero fermato. Ma dato che ora ne sto scrivendo, amplio l'informazione dicendo che le denunce coinvolsero altri membri del consiglio direttivo dell'associazione di cui fino a poco tempo prima lei stessa faceva parte. E che iniziò a presentarle dopo le richieste di spiegazioni su questioni economiche che la stessa associazione le poneva. Insomma, pur senza entrare nei dettagli, nell'articolo ponevo una domanda lecita a cui si poteva rispondere in maniera chiara così che, in maniera altrettanto chiara, avrei inserito la risposta a capo articolo dando spazio a una replica. Non era così complicato da fare. Anche perché nell'articolo di cui si discute non ho calcato la mano preferendo restar fuori da vicende ben più complesse che l'avvocato di certo conosce. Ma proseguiamo con la parte della diffida in cui è scritto: Se Lei, comportandosi da interlocutore corretto e scrupoloso ci avesse contattato, avremmo potuto produrLe pagine di osservazioni atte a smentire le informazioni in Suo possesso, dimostrando, ad esempio, che l'azione civile della sig.ra Natalia Murashkina (tra l'altro neppure Russa!) è pretestuosa, infondata e priva di riscontri (ci basti qui osservare che la pagina contestata risulta creata in data successiva ai fatti)... Mi fermo un attimo per un chiarimento e per dimostrare non che l'avvocato è male informato quando afferma che Natalia Murashkina non è neppure russa, perché pur se nata fuori dai confini è a tutti gli effetti russa e lui lo sa, ma per dirgli che gli sarà molto difficile convincere un giudice che non è reato scrivere parolacce e brutte offese su una donna russa nata fuori dai confini russi, mentre lo è scriverle su una donna russa nata a Mosca. Oltretutto l'avvocato sa per certo che in Russia i passaporti distinguono la nazionalità dalla cittadinanza. Motivo per cui si può essere di nazionalità russa anche se nati occasionalmente in altra nazione. In ogni caso, non erano né l'avvocato né la dottoressa che dovevo contattare per scrivere quelle quattro righe che riguardavano la vicenda di Natalia Murashkina, visto che al massimo avrebbero potuto fare una arringa difensiva (quella va indirizzata a un giudice e non a me) e non produrmi atti giudiziari in grado di contrastare il fatto che gli insulti, per il magistrato che porta avanti la causa ci furono. E a questo proposito oggi aggiungo una postilla che avevo evitato di inserire. Una informazione che potevo dare e non ho dato. E cioè che La Pravda nel suo articolo parlò di offese scritte anche da alcuni collaboratori della dottoressa. Particolare che avevo evitato di sottolineare perché mi pare non credibile (però ho chiesto e non risulta che la Pravda abbia ricevuto alcuna diffida), ma che oggi aggiungo per far capire quanto avessi scritto in maniera soft senza appesantire situazioni che invece paiono pesanti. A processo la pagina facebook risulterà essere successiva ai fatti? Meglio per la dottoressa e peggio per la Murashkina, che quando perderà la causa criticherò aspramente per aver denunciato il falso. Qui colgo l'occasione per aggiornare in maniera migliore la notizia e dire che la causa civile intentata da Natalia Murashkina è stata rigettata per vizio di forma. Non per altro. Naturalmente verrà ripresentata in appello senza alcun vizio. E naturalmente questo non inficia il procedimento penale - che si occupa degli stessi reati e ha un iter diverso - che continua per la sua strada. Andando avanti nella diffida si legge che il processo di Reggio Emilia ha preso una piega certamente non immaginata né desiderata dalla parte civile visto che dal dibattimento stanno emergendo dati ed informazioni in grado di confermare quando affermato dalla dott.ssa Bruzzone nel corso del processo a carico del presunto stalker (a proposito, lei non sosteneva a spada tratta la presunzione di innocenza?) che non risulta ancora condannato...No avvocato, non è proprio così che sta andando. Giusto per aggiornare anche questa notizia, le confermo che il processo di Reggio Emilia - in cui la dottoressa risponde di diffamazione - nella prossima udienza, fissata a maggio, vedrà sul banco dei testimoni - citati dal pubblico ministero - sia il Generale Luciano Garofano che lo stesso dirigente dell'UGL denunciato più volte dalla sua assistita. Inoltre, sempre in quel di Reggio Emilia, a causa di quanto la dottoressa ha dichiarato ai giornalisti all'uscita dall'aula dopo le prime udienze c'è la possibilità, neppure tanto remota, che si apra un secondo processo. Vedremo presto se ho sbagliato la diagnosi. In ogni caso il processo di Reggio Emilia non ha preso una piega certamente non immaginata né desiderata dalla parte civile, come ha scritto, e il signore che chiama presunto stalker è persona nota e prima della vicenda che ha visto coinvolta la dottoressa era già stato condannato sia per truffa (condanna definitiva) che per stalking (nel 2012 il pubblico ministero nella sua arringa lo definì uno "stalker seriale" e il giudice confermò le sue parole condannandolo). Motivo per cui, in questo caso la presunzione di innocenza, per come la vedo, poco c'entra. E ancora ha scritto che il processo di Tivoli del 15 dicembre 2015 viene atteso con ansia e trepidazione della nostra Assistita visto che in quella sede avrà finalmente modo di provare, innanzi ad un Giudice la fondatezza delle sue accuse... Per quanto riguarda Tivoli, non vedo l'ora di sentire cosa dirà la sua assistita al giudice e come risponderà alle domande. Mi auguro che abbia una spiegazione plausibile e delle prove a discolpa certe che la aiutino a non subire una condanna e a dimostrare di essere una vera vittima di stalking. Così che io possa poi criticare e chiedere una condanna per lo stalker, che al momento non esiste, e per i magistrati che non l'hanno fin qui creduta. Inoltre ha anche scritto: In merito a Michele Misseri, le avremmo spiegato che attualmente questo signore è sotto processo proprio per quelle famose affermazioni...Michele Misseri, come avrà capito, lo conosco e conosco anche le accuse da lui mosse contro la sua assistita. So che il processo ha già subito dei rinvii e che a maggio è in programma l'ennesima prima udienza. Quindi nessuno sul punto mi doveva spiegare nulla perché conosco perfettamente entrambe le posizioni. Inoltre nell'articolo mi sono limitato alla considerazione che se se alla dottoressa "andrà male" la sua carriera sarà finita. Questo perché è sempre possibile, almeno in ipotesi, che un processo si possa perdere. E continua scrivendo: mentre in relazione all'accusa di collusione con le aziende che forniscono materiali alle nostre Forze di Polizia... definire questa "notizia" ridicola è decisamente utilizzare un eufemismo. Mi scusi avvocato, ma quando mai ho parlato di collusione? Fare accuse di collusione significa affermare che un determinato accordo c'è stato sicuramente. Io invece ho semplicemente messo in relazione fra loro eventi verificabili da chiunque e notando una stranezza ho posto una domanda a cui bastava dare risposta. Scrivere che la "notizia" è ridicola non è dare una risposta, è aggirare l'ostacolo che non si vuole saltare. La mia domanda, posta a un personaggio pubblico, era lecita perché la cronistoria ci dice che la relazione fra la dottoressa e il dirigente della Polizia durò pochissimo e finì nel lontano duemilacinque. Che la sua assistita continuò la collaborazione con l'associazione di criminologi per altri quattro anni, fino al duemilanove quando si interruppe in maniera non amichevole. Che il presidente della stessa associazione - intervistato da Luca Fazzo nel 2011 - denunciò le enormi spese sostenute dal ministero e spiegò quanto fosse economicamente vantaggioso acquistare il materiale per le indagini direttamente in America e non dagli intermediari. La domanda che posi nell'articolo nacque da una serie di considerazioni. Nel duemilanove la dottoressa Bruzzone fondò l'associazione culturale A.I.S.F. (Accademia Internazionale Scienze Forensi), una organizzazione "non profit" - questo è da dire - che da statuto non dà dividendi ai soci. Una associazione che tra i suoi partner allinea l'azienda che produce e vende i prodotti alla Polizia e quella che ha l'esclusiva per l'Italia di tali prodotti. A questo si aggiungono due fatti certi: sia che la dottoressa ha partecipato al video pubblicitario dell'azienda produttrice, video presente sul sito internet dell'azienda e su You Tube (se lo ha fatto per amicizia bastava scriverlo senza pensar male delle mie parole), sia che le denunce di stalking, quelle rigettate, furono presentate a partire dal 2009 contro chi dapprima le chiedeva conto del denaro speso mentre collaborava con l'associazione di criminologi e dopo si era attivato in prima persona per cercare di far acquistare i prodotti direttamente dall'America senza pagare intermediari. Avvocato, lei sa che nell'articolo non ho scritto la parola "collusione" e sono rimasto soft non inserendo tante altre domande lecite che mi frullavano per la testa. Domande che in questa risposta pubblica inserisco per farle capire quale altro modo uso per informarmi. Ad esempio, nell'articolo in questione mi limitai e non chiesi se il dottor Bruno Vespa conosce il sito della A.I.S.F. ed è al corrente che ogni volta che presenta la dottoressa Bruzzone di riflesso pubblicizza, a titolo gratuito sulla principale televisione di stato, non solo l'organizzazione "no profit" di cui la dottoressa è presidente - la A.I.S.F. - ma anche un'azienda privata. Essendo l'associazione culturale una "non profit" la pubblicità gratuita è sicuramente lecita. Perlomeno credo fosse certamente lecita fin quando l'associazione nel suo sito internet non ha riportato l'IBAN (cioè un'utenza bancaria su cui fare bonifici) di una S.A.S. (Società in Accomandita Semplice) che in teoria dovrebbe essere esterna all'associazione stessa. La S.A.S a cui mi riferisco è quella aperta dalla stessa dottoressa Bruzzone il 06 giugno 2014 (quindi dieci mesi fa) e registrata alla camera di commercio il 12 giugno 2014. Una Società in Accomandita Semplice che, come da visura camerale, ha quali soci accomandatari anche i due avvocati che figurano con nome e cognome sulla carta intestata della diffida che mi ha inviato, assieme al suo signor Florindi. Gli stessi avvocati che, come lei d'altronde, figurano nel consiglio direttivo della "associazione no profit". Ora, per quanto possa capirne e mi hanno spiegato, credo che prima di fare un simile movimento pubblicitario, cioè inserire l'IBAN di una azienda commerciale che guadagna sul proprio lavoro ai piedi di tutte le pagine elettroniche di una associazione "no profit" (che essendo "no profit" non dà dividendi ai soci), ci si sia fatti consigliare da un buon commercialista. Per cui immagino che sia del tutto legale, dato che la SAS sul proprio guadagno ci paga le tasse. Ciò che trovo strano è altro. Una stranezza, ad esempio, è che il logo della SAS sia praticamente identico, tranne per le scritte, al logo dell'associazione "no profit". Un'altra ancora più strana è che cliccando sul logo della SAS presente nelle pagine dell'associazione "no profit", si venga reindirizzati su una pagina della stessa associazione "no profit" e non sul sito della SAS. Quasi che la SAS e l'associazione "no profit" siano l'unica faccia di due società. In pratica una società che per statuto non può dividere gli utili nel suo sito ospita e pubblicizza una SAS che gli utili fra i suoi soci li può dividere. Insomma, ciò che si vede dall'esterno (magari non è così e la Rai avrà la gentilezza di spiegarcelo in maniera chiara) è che il dottor Bruno Vespa pubblicizzando l'associazione no profit finisca per pubblicizzare gratuitamente una S.A.S. - capisce cosa intendo, avvocato? Che a un occhio critico la situazione pare quantomeno ambigua e andrebbe spiegata. Come ambigua è la parte della diffida in cui scrive: Ne consegue che, non avendo lei eseguito alcun riscontro nè alcuna verifica, ha redatto un articolo ricco di falsità ponendo in essere proprio quelle condotte che, tanto severamente, ha tentato di stigmatizzare nel suo testo. Tutto ciò premesso, la dott.ssa Bruzzone, mio tramite Vi - INVITA E DIFFIDA - a rimuovere dal Suo Blog l'articolo in questione, a comunicarci immediatamente, e comunque non oltre 5 giorni dal ricevimento della presente, il nominativo (o i nominativi) di chi Le ha fornito le informazioni ivi pubblicate e di versare, per il tramite di questo Studio, la somma di euro 250.000 a titolo di risarcimento per i gravissimi danni all'immagine della mia Assistita cagionati dalla diffusione di notizie false e diffamatorie. In queste sue parole, false e intimidatorie signor avvocato, un giudice di polso potrebbe pure configurare il reato di estorsione. Specialmente perché, seppur sia stato limitato volendo risponderle con un articolo che non può essere infinito, le ho dimostrato non solo che non ho assolutamente mentito, ma anche che prima di scrivere mi informo e faccio verifiche (e ne faccio tante), cerco riscontri e quando qualcosa non mi quadra pongo domande pubbliche per non ottenere risposte di circostanza (che non servono a nulla e non aiutano i lettori a capire). Per questi motivi non ho rimosso, e non ho alcuna intenzione di rimuovere, l'articolo in questione. Per questi motivi la invito a cambiare atteggiamento e, se vorrà, a rispondere alle mie domande in maniera pacata senza cercare di intimidire chi critica la sua assistita. Fornire ai lettori notizie relative a un personaggio pubblico è cosa che si fa tutti i giorni (e se il personaggio finisce sotto processo la notizia esiste e si può dare). Inoltre tutti i personaggi pubblici, finché restano tali, ricevono critiche per quanto dicono o scrivono. Dalla piccola show girl al Presidente della Repubblica. E' la norma, dato che la democrazia permette di non appiattirsi al pensiero altrui e di esternare il proprio, anche se diverso. Per questo motivo, non essendo avvezzo a criticare un personaggio pubblico a prescindere ma avendo l'abitudine di elogiarlo o criticarlo per i vari comportamenti che pone in essere di volta in volta, così come posso essere d'accordo e apprezzare la sua assistita per quanto fa e dice su certi casi di cronaca nera (Chico Forti è uno ma ce ne sono altri), posso anche non essere d'accordo e criticarla quando a parer mio non si dimostra all'altezza del suo ruolo pubblico o fa qualcosa che mi risulta strano e incomprensibile. Una cosa deve essere chiara. Volandocontrovento è un blog indipendente che non ha editori a cui obbedire. Un blog che prima di pubblicare articoli cerca informazioni e riscontri. Un blog in cui nessuno scrive falsità (al massimo negli articoli pubblicati si possono trovare piccole inesattezze scritte in buonafede). E fin quando la democrazia lo permetterà, a nessun personaggio, sia bianco o sia nero, sia giallo o sia verde, sia rosso o sia blu, sia pubblico o che pubblico lo diventi per quindici giorni o per quindici anni a causa di una posizione politica ridicola o di una indagine criminale in voga sui media, è concessa l'immunità da critiche...”
Bruzzone contro Raffaele: «Imitazione becera e volgare». La criminologa querela l'imitatrice: «Sessualizzazione della mia persona», scrive “Il Corriere della Sera”. Una «becera e volgare sessualizzazione della mia persona». Così la criminologa Roberta Bruzzone bolla, parlando a Fanpage.it, la performance di Virginia Raffaele che l’ha imitata sabato ad «Amici». «Io non ho nessun problema contro la satira» precisa Bruzzone, «l’elemento intollerabile è giocare sull’aspetto sessuale in maniera sguaiata, becera, volgare, gratuita», lontana - precisa - da una professionista che tutto questo l’ha sempre evitato. «L’elemento che mi porta in tv ormai da oltre dieci anni - sottolinea - non è la mia avvenenza fisica ma il tipo di contenuti che tratto e l’esperienza dovuta al lavoro che svolgo». « Non siamo più nella satira, questa è diffamazione bella e buona» aggiunge, confermando la sua decisione di querelare la Raffaele. In tempi di femminicidi, mentre lottiamo contro la visione della donna-oggetto, «che questo tipo di contenuti sia proposto da una donna è ancora più sconcertante», osserva.
Selvaggia Lucarelli contro la criminologa Bruzzone: «La Raffaele è ben più simpatica e gnocca di lei», scrive “Il Messaggero”. Virginia Raffaele imita la criminologa Roberta Bruzzone, ma questa non gradisce. E nella faccenda non poteva che intromettersi Selvaggia Lucarelli. Ne è scaturito un botta e risposta che non va tanto per il sottile. «Bagascia vestita in modo improponibile», ha tuonato la Bruzzone contro l'imitatrice, "rea" di aver messo in scena «una rappresentazione becera, volgare, gratuita, sguaiata». Dopodiché in un tweet la Bruzzone ha annunciato che sarebbe passata alle vie legali. E la replica della Lucarelli non si è fatta attendere: «Leggo che la Bruzzone, in un tweet, lascia intendere di aver scomodato il suo favoloso team di legali per bastonare Virginia Raffaele che ha osato farne una parodia (divertente) ad Amici - ha scritto - Nella vita ho ricevuto un po' di querele, ma la lettera dell'avvocato della Bruzzone per un mio servizio su Sky me la ricordo bene. Spiccava. Non solo per la pretestuosità degli argomenti (era un servizio innocuo e fu l'unica tra 100 servizi a offendersi), ma perchè inviò copia al Ministero delle pari opportunità per accusarmi di sessismo». «La Raffaele - continua la Lucarelli - è ben più simpatica e gnocca di lei. (tanto il ministero delle pari opportunità è stato abolito, magari scriverà alla Boldrini)».
Vittorio Feltri contro Roberta Bruzzone: "Al suo confronto i pm sono delle mammolette", scrive “Libero Quotidiano”. Dopo le imitazioni di Virginia Raffaele, il commento di Vittorio Feltri. La criminologa diventata famosa al grande pubblico grazie a Bruno Vespa che l'ha invitata più volte a Porta a Porta, viene attaccata dal fondatore di Libero che scrive: "Si cala talmente bene nel ruolo da vedere criminali ovunque, tutti da condannare e sbattere in carcere" Feltri l'accusa soprattutto di dare affosso all'imputato dato che è più facile che difenderlo. "La dottoressa Bruzzone invece eccelle soltanto nell'arte sopraffina di accusare: se prende di mira un disgraziato in manette, prima lo fa a pezzi, poi lo infila nel frullatore e lo riduce in poltiglia". Con una stilettata Feltri dice che in sui confronto i pubblici ministeri sono delle "mammolette". Feltri ricorda quando, durante una puntata di di Linea Gialla di Salvo Sottile si trovava accanto alla Bruzzone per comentare le vicenda giudiziaria di Raffale Sollecito che all'epoca era ancora in attesa di giudizio. Feltri riteneva che non vi fossero gli estremi per condannarlo, lei sì. La Cassazione ha dato ragione a Vittorio. Da qui la conclusione di Feltri: "Roberta non ha fiatato e non ha tradito delusione. Ognuno fa il proprio mestiere. Lei il suo di tritacarne lo svolge benissimo. Se commettessi un reato, preferirei avere di fronte un caterpillar che non la Signora Omicidi".
“Non ricordo di averla mai udita pronunciare un'arringa in difesa di un incriminato. Al contrario l'ho ammirata in diverse occasioni mentre era impegnata a distruggerlo con le armi della logica, ovviamente a senso unico. Quella del giudice inflessibile e crudele, d'altronde, è una vocazione”…, scrive Vittorio Feltri per “il Giornale”. "Da alcuni anni Roberta Bruzzone, criminologa dall'aspetto attraente (ciò che aiuta sempre a rendersi riconoscibili e, perché no, apprezzabili a occhi maschili e pure femminili), è personaggio televisivo tra i più noti. Il suo bel volto compare spesso in video, anzi sempre, nelle trasmissioni che trattano di morti ammazzati, assassini probabili, gialli irrisolti: temi che da qualche tempo vanno forte e hanno un seguito notevole di pubblico. A lanciare la gentile signora è stato Bruno Vespa a Porta a porta, in cui gli omicidi raccontati sono frequenti e costituiscono una sorta di rubrica fissa, come il bollettino meteorologico. Il principe dei conduttori, dopo averla invitata una prima volta, non ricordo in quale circostanza, avendone gradito gli interventi - forse anche le fattezze - non ha più smesso di convocarla per discettare di coltellate, strangolamenti, alibi e roba del genere noir. Roberta si è tenacemente costruita una fama di investigatrice spietata: ormai è ospite indispensabile in qualsiasi programma al sangue in onda su varie emittenti, tutte assai interessate a dissertare di delitti, un filone appassionante per il pubblico serale, stanco di talk show politici prodotti in serie con la fotocopiatrice. La criminologa mostra di trovarsi a proprio agio nelle discussioni, di solito vivaci, sulla colpevolezza di Tizio e di Caio; e si cala talmente bene nel ruolo da vedere criminali ovunque, tutti da condannare e sbattere in carcere. Si sa come vanno i processi mediatici. Si dà addosso all'imputato dato che è più facile e più spettacolare che non difenderlo. Si calca la mano sugli elementi a suo carico e si sorvola su quelli a discarico. Cosicché la gente, sempre vogliosa di sentenze esemplari, si eccita e non tocca il telecomando nel timore di perdersi le fasi più sadiche del linciaggio. La natura umana fa schifo e collide con i principi basilari del diritto: chi è stato incastrato dalla cosiddetta giustizia andrebbe considerato innocente fino a prova contraria. La dottoressa Bruzzone invece eccelle soltanto nell'arte sopraffina di accusare: se prende di mira un disgraziato in manette, prima lo fa a pezzi, poi lo infila nel frullatore e lo riduce in poltiglia. In confronto a lei, i pubblici ministeri sono mammolette. Non ricordo di averla mai udita pronunciare un'arringa in difesa di un incriminato. Al contrario l'ho ammirata in diverse occasioni mentre era impegnata a distruggerlo con le armi della logica, ovviamente a senso unico. Quella del giudice inflessibile e crudele, d'altronde, è una vocazione. Ciascuno ha le proprie inclinazioni e magari le asseconda con pertinacia. La criminologa, benché non sia togata, agisce con una determinazione impressionante: nei dibattiti davanti alla telecamera riesce a spiazzare chiunque, magistrati inclusi. Una notte, a Linea gialla, diretta da Salvo Sottile (bravo e preparato), ero seduto accanto a Bruzzone per esaminare la vicenda di Raffaele Sollecito, in attesa di giudizio. Personalmente ero dell'idea che il giovanotto fosse da assolvere per mancanza di prove; lei aveva un'opinione opposta alla mia. Non dico che litigammo, ma eravamo in procinto di farlo. Trascorsi alcuni mesi, la Cassazione ha dato ragione a me. Roberta non ha fiatato e non ha tradito delusione. Ognuno fa il proprio mestiere. Lei il suo di tritacarne lo svolge benissimo. Se commettessi un reato, preferirei avere di fronte un caterpillar che non la Signora Omicidi".
Rissa legale tra criminologi, scrive Mauro Sartori su “Il Giornale di Vicenza”. Si trasferisce anche in città il duro confronto tra Roberta Bruzzone e l'ex compagno Marco Strano. L'uomo accusa di plagio l'autrice per alcuni passaggi riportati. Lei replica con denunce per stalking e chiedendo misure di sicurezza. Carabinieri a piantonare la sala, notifica di documenti legali per spiegare il terreno minato su cui si muoveva l'incontro pubblico di ieri sera, querele e minacce attraverso i social network: sono gli ingredienti della guerra in atto fra due criminologi di fama, che ieri ha vissuto un capitolo scledense. Da una parte Roberta Bruzzone, psicologa forense nota per le partecipazioni come consulente ai talk show televisivi quando si parla di omicidi; dall'altra l'ex fidanzato Marco Strano, dirigente della polizia di stato, fondatore dell'Associazione internazionale di analisi del crimine. Oggetto del contendere il libro “Chi è l'assassino - diario di una criminologa”, edito dalla Mondadori. Strano accusa Bruzzone di plagio. Nella parte introduttiva del libro ci sarebbero passaggi copiati senza autorizzazione, tanto che il dirigente della polizia avrebbe chiesto con una procedura d'urgenza il ritiro dal commercio del libro, ma non l'ha ottenuto. Ieri sera la criminologa, chiamata come esperta da Bruno Vespa per le puntate di “Porta a porta” in cui si parla dei delitti di Sarah Scazzi e Melania Rea, tanto per citare i due più conosciuti, era a palazzo Toaldi Capra, dove ha presentato proprio il libro conteso ed ha parlato anche della sua attività quale ambasciatrice di “Telefono rosa”. L'altro ieri alla libreria Ubik, che organizzava l'incontro, due avvocati dell'Alto Vicentino, come domiciliatari dei legali di Strano, hanno recapitato ai titolari copia di un'ordinanza emessa dal tribunale di Milano in cui viene rigettato il ricorso di sequestro del libro, ma lascia aperta la porta ad un eventuale risarcimento del danno patito dal poliziotto. Una mossa che in verità non ha avuto conseguenze sullo svolgimento della serata ma che ha inasprito la tensione fra le due parti, tanto che ieri Bruzzone ha twittato parlando «di due scagnozzi non identificati che denuncerò per concorso in atti persecutori» che sarebbero andati alla Ubik e, in una successiva mail diffusa, «di un ennesimo tentativo di screditarm posto in essere da un soggetto che ormai trova l'unica ragione della sua misera esistenza nel rancore nutrito nei miei confronti e nel porre in essere atti persecutori nei miei confronti di cui sono vittima da quattro anni». In pratica da quando è finita la relazione sentimentale fra i due che un tempo andavano d'amore e d'accordo. La criminologa si è sentita minacciata tanto da richiedere misure di sicurezza ai promotori, prima di entrare in sala: «L'ho denunciato per stalking e quanto accaduto a Schio mi seriverà per integrare la denuncia stessa. Purtroppo non accetta l'evidenza dei fatti - ci ha riferito ieri sera Roberta Bruzzone. - La mia è un'opera autonoma, tratta da miei incarichi documentati. Le sue accuse sono deliranti. Per me la vicenda era chiusa con il rigetto del ricorso ma non si rassegna e allora comincio ad avere timore, soprattutto se si allarga a minacciare anche gli organizzatori delle mie serate nel tentativo di boicottarle. La mia vita è cristallina, ma non posso andare avanti così».
Occhio per occhio dente per dente, scrive Massimo Prati su "Albatros. Volando Controvento". Una drastica soluzione per far cessare i sequestri di stato dei magistrati non professionali che se ne fregano della vita altrui. Un altro processo che neppure doveva iniziare si sta celebrando contro Massimo Bossetti nell'italica terra conosciuta nel mondo perché resa famosa da santi, poeti e navigatori. Queste le categorie più famose. Ma in Italia ci sono anche tanti eccellenti investigatori, procuratori e giudici che operando per come vuole la legge riescono a chiudere indagini scomode prima che finiscano sui media. Su quei media che pressando mischiano le carte e calando l'asso del pregiudizio aizzano il popolo e spaiano le indagini. Naturalmente le eccellenze non si fanno notare. Com'è giusto che sia restano nell'ombra, non cercano pubblicità e non accettano, specialmente prima di aver portato l'imputato a processo, di parlare coi media, italiani o stranieri, di una indagine che ancora non ha superato il vaglio dei giudici. Le persone semplici ammirano gli uomini con la divisa o con la toga. Li vedono maneggiare il potere e pensano di avere a che fare con menti superiori, con una categoria professionale e seria al cento per cento. Ma una categoria simile non esiste in nessuna parte del mondo. Come capita in qualsiasi azienda, fra migliaia di persone che lavorano nel migliore dei modi si troverà sempre una percentuale, alta o bassa che sia, che risulta meno produttiva o addirittura incapace. Logicamente l'azienda privata può migliorare in produttività se chi la dirige usa gli strumenti in suo possesso per provare a livellare i suoi dipendenti (se non ci riesce li licenzia). Basandosi su questa ovvia banalità c'è quindi da chiedersi chi diriga l'azienda Italia, in special modo il settore giustizia, visto che lo stesso discorso sulla professionalità si può fare sui giudici. Anche fra loro ce ne sono di molto validi (che sentenziano basandosi sul codice penale e sul buonsenso) e di poco validi (quelli che si affidano alle procure e a regole proprie non scritte in nessun codice penale). Che sia così non è una mia impressione, ma è un dato di fatto visto che la nostra giustizia non sta messa bene (prima di noi in classifica ci sono Gambia, Mongolia e Vietnam), visto che Strasburgo ciclicamente ci multa a causa dei processi infiniti e dei troppi anni trascorsi in carcere da chi è in attesa dei verdetti. Nessun media alza la voce e il popolo non si indigna per i tanti milioni di euro buttati al vento da una categoria privilegiata con stipendi di lusso. Forse è per questo che la pubblica opinione non ha neppure capito che in Italia i veri criminali, nonostante le indagini massicce e i tanti denari spesi, non si scoprono mai (vedi il caso del "mostro di Firenze", ma anche di Simonetta Cesaroni, Serena Mollicone, Emanuela Orlandi, Denise Pipitone, Cristina Golinucci, Angela Celentano e tantissimi altri archiviati o in odor di archiviazione). Anche i criminali stranieri sanno che i nostri processi faticano a partire e quando partono non arrivano coi tempi giusti, che troppo spesso finiscono con la prescrizione del reato, che troppo spesso sono preparati e celebrati con spirito libero e fantasioso e non con le tavole della legge. Lo sanno che in una situazione del genere difficilmente rischiano di restare per troppi anni in una cella italiana. E questo dovremmo saperlo anche noi, dato che siamo una delle nazioni che non accontentandosi di avere una propria e ben nutrita lista di organizzazioni criminali (mafia, n'drangheta, camorra e via dicendo) permette ad altre di entrare liberamente e proliferare. Criminali africani e dell'est Europa, della Cina e di ogni altro Stato che applichi pene certe e dure, si ritrovano nelle nostre città e si associano perché da noi certi crimini sono ormai una routine e per i media non paiono essere di prima fascia. Pochi sono i delinquenti che una volta arrestati da poliziotti e carabinieri restano in carcere. Alla faccia di chi ha rischiato anche la vita pur di portare di fronte a un giudice chi è di certo colpevole perché arrestato in fragranza di reato. Ma i loschi personaggi che delinquono abitualmente da noi se la cavano con una tirata d'orecchie e un foglio di via che nove volte su dieci rimane lettera morta. Quante volte ci siamo sentiti dire che l'assassino del tal dei tali era già stato arrestato e poi rilasciato con un foglio di via? Per tutti vale Ezzedine Sebai, che fu arrestato e rilasciato innumerevoli volte prima che si spostasse in Puglia dove uccise moltissime donne anziane. La nostra giustizia è particolare e nelle carceri italiane non ci restano neppure i reo confessi che ammazzano in maniera efferata e che, confessando i delitti, quasi mai vanno in cella prima del processo e dopo la condanna in galera ci stanno dai sette ai dieci anni. Non di più. Da noi, fateci caso, in carcere in attesa dei processi più seguiti dai media ci sono persone incensurate, quelle che come la maggioranza degli italiani vivono una vita semplice e che credendo nella giustizia si dichiarano innocenti perché non è giusto ammettere di aver ucciso se non si è ucciso. Persone che non avendo mai frequentato il mondo giustizia, in cui vivono investigatori procuratori e giudici, non immaginano neppure che una volta rinchiuse in cella non usciranno più perché la custodia cautelare è una bestia assatanata che ubbidisce solo alle procure e che neppure i giudici sono capaci di domare. Gli esempi al momento sono tanti. Si va da Veronica Panarello a Michele Buoninconti, da Padre Graziano a Massimo Bossetti e ad altri un po' meno mediatici. Tutte persone ancora da giudicare che si dichiarano innocenti e attendono in carcere processi e sentenze. Persone che dalle loro celle guardano la televisione e assistono impotenti ai processi sommari in cui vengono stuprate moralmente e condannate a prescindere. Ma più di loro il carcere cautelare ha colpito Amanda Knox e Raffaele Sollecito, ora assolti con sentenza definitiva, e ancora più di questi ultimi è toccato a Sabrina Misseri (ma anche a sua madre) sulla cui posizione occorre soffermarsi un attimo. La stragrande maggioranza degli italiani crede che la ragazza di Avetrana abbia ucciso sua cugina e meriti di restare in galera. Lo crede non perché ci siano prove a conferma, non perché a processo sia stata dipinta quale ragazza vendicativa capace di alzare le mani sulle rivali, ma perché l'informazione e gli opinionisti mediatici, in nome e per conto della procura, hanno spruzzato quell'enorme odore di pregiudizio che fa perdere alla mente ogni cognizione razionale. Tutti si sono sentiti, grazie all'impronta data alle notizie dai giornalai, buoni investigatori e buoni giudici e tutti ora credono che per giudicare colpevole una persona, semplice come loro ma dipinta di nero dai media, non serva leggere gli atti e ascoltare gli interrogatori ma basti l'intuito, il particolare stonato che fa pensar male ed è confermato dal tal opinionista televisivo che, dice, ha letto ogni parola. Ma non è vero che ha letto ogni parola è non così che funziona la giustizia. Se si ragionasse a questo modo tutti potremmo finire in carcere e dopo essere dipinti di nero restarvi per la vita. Per giudicare occorre avere la mente sgombra. Per imbastire un giusto processo bisogna evitare che i giudici popolari ascoltino gli opinionisti dare per certa la colpevolezza dell'imputato che ancora deve essere giudicato. I giudici togati e popolari non si scelgono ad inizio indagine ma a inizio processo. Perciò non si possono tenere all'oscuro di ciò che nel frattempo sui media "si dice" e si dà per certo. Per questo i giudici moderni, togati e popolari, quando un processo è mediatico non dovrebbero essere italiani ma stranieri. Solo così vi sarebbe la certezza di far entrare in tribunale persone che nulla sanno né del crimine in questione né di chi la procura crede colpevole. E' l'unica soluzione accettabile, dato che invece di far parlare e scrivere i giornalisti specializzati gli editori lasciano campo libero ai giornalai dello scoop. Per essere veri giornalisti, per essere idonei ad informare la pubblica opinione (quindi anche i giudici popolari) senza inserire pregiudizi, occorre saper guardare i fatti senza emotività e ragionare con la propria testa evitando di riportare, in video o sui giornali, quanto dice l'accusa senza prima averlo vagliato con logica e, se è possibile, senza prima averne parlato con la difesa. Invece il settore informazione è in confusione. Vige la regola del chi prima arriva meglio alloggia e pur di pubblicare lo scoop non si verifica nulla di quanto si scrive finendo per fare il gioco di chi sa bene che le parole fanno più male delle armi. Un giornalista degno di tal nome, dopo aver letto gli atti e ascoltato i vari testimoni interrogati nel primo processo di Taranto non potrebbe fare a meno di dire ad alta voce che non c'è uno straccio di indizio valido che faccia pensare colpevole Sabrina Misseri, che per assolverla sarebbe bastato un solo processo celebrato in un'altra città. Purtroppo non tutti hanno letto e ascoltato e purtroppo a qualcuno, che sui media ci sguazza, la condanna "fa gioco". Ma lasciamoli perdere i processi di Taranto perché troppo spesso si rivelano sbagliati (vedi Domenico Morrone e tanti altri condannati dai giudici tarantini e poi riconosciuti innocenti) e concentriamoci sulla legge italiana che vuole in custodia cautelare chi, accusato di un crimine, restando libero ha la possibilità di reiterare il reato (un serial killer dovrebbe restare in carcere, non un incensurato ancora da giudicare), di fuggire dall'Italia (un criminale sconosciuto al grande pubblico che ha amicizie a Santo Domingo dovrebbe restare in carcere, non chi per anni ha visto la sua faccia campeggiare sui media) e inquinare le prove (se ci sono indagini in corso e testimoni da interrogare è giusto che l'imputato resti in carcere, ma quando le indagini finiscono cosa può inquinare?). Queste le tre condizioni necessarie per tenere in galera chi è in attesa di processo (ne basta una valida per non liberare gli imputati). Ora dovete sapere che Sabrina Misseri è in custodia cautelare dal 15 ottobre 2010 e che il giudice Patrizia Sinisi qualche giorno fa le ha notificato un atto in cui le comunica che, non si dovesse pronunciare prima la Corte di Cassazione, magari perché alla giudice servirà più di un anno e mezzo per motivare la sua sentenza (d'altronde la sua collega tarantina Cesarina Trunfio ci mise un anno), i termini di custodia in carcere per lei scadranno nel settembre del 2017. Quindi, per la ragazza di Avetrana i giusti anni in custodia cautelare sarebbero sette, tanti quanti ne ha scontati un marito di Belluno dopo aver ucciso la moglie con venti coltellate mentre la loro bimba dormiva nella camera accanto. In pratica, l'uomo di Belluno, che certamente è un assassino dato che ha ucciso barbaramente sua moglie, dopo soli sette anni di carcere è tornato libero perché ha scontato la sua pena. Sabrina Misseri, che come altri imputati italiani è in custodia cautelare perché si è dichiarata estranea al delitto, potrebbe invece restare sequestrata per gli stessi sette anni... ma senza motivo se alla fine dell'iter processuale la Cassazione dovesse ritenerla innocente. In certi casi la giustizia italiana interpreta a suo piacimento. Bruciato il codice penale se la prende comoda, motiva a piacimento e dopo aver fatto un rapido calcolo matematico decide che tutto torna. Come se fosse normale restare chiusi in galera in attesa di essere processati per qualcosa che si dice non aver commesso. Certo è che tanti procuratori e giudici ritengono la custodia cautelare in carcere una misura giuridica normale, visto che per anni e anni chiudono in galera gli imputati che si proclamano innocenti. In carcere sono e in carcere devono restare quelle persone che l'accusa vuole colpevoli. Anche se sono incensurate, anche se non ci sono prove e gli indizi non si incastrano fra loro, anche se non sono ancora state depositate le perizie in grado di confermare, ma anche di smentire, tesi accusatorie che spesso superano la normale immaginazione. Penso a Massimo Bossetti, arrestato in maniera vergognosa mentre lavorava e infilato in galera a causa di un Dna strampalato. Penso a Michele Buoninconti, arrestato a causa di una perizia voluta dalla procura che due mesi dopo anche i tecnici dei carabinieri hanno smentito. Penso a Veronica Panarello, arrestata dopo un interrogatorio fuorilegge e chiusa in carcere in attesa di una perizia che potrebbe inchiodarla ma anche scagionarla. Penso che se per i procuratori e i giudici è normale che una ragazza resti sette anni in custodia cautelare, dovrebbe essere anche normale che chi lavora per lo Stato paghi con la stessa moneta se un domani la Cassazione decidesse, a buon ragione, di mettere davvero in pratica le motivazioni della sentenza Knox-Sollecito. Insomma, le ricostruzioni accusatorie assurde non sono idonee né a condannare né a tenere in carcere persone incensurate e chi le fa proprie, per ottenere condanne e condannare, deve assumersi le proprie responsabilità se invece della condanna arriva l'assoluzione. Arrestare e rinchiudere in carcere persone innocenti è o non è un sequestro di stato? Se un domani prossimo a venire Sabrina Misseri, Cosima Serrano, Veronica Panarello, Massimo Bossetti e gli altri ora in galera venissero scagionati per l'assurdità delle ricostruzioni accusatorie, chi ridarebbe loro la dignità stuprata dai media e gli anni trascorsi ingiustamente in cella? Chi ridarebbe la vita e la dignità persa a una ragazza diventata donna in carcere, a una madre a cui hanno ucciso un figlio e a un carpentiere a cui hanno distrutto vita e famiglia? Non c'è in natura nulla che possa ridare quanto perso. Non c'è nulla che possa riuscire a cancellare il dolore subito a causa di persone che non si sono mostrate professionali. Chi manda in carcere le persone innocenti capisce quanto dolore provoca? Forse no, forse certi magistrati dovrebbero provarlo sulla loro pelle per capirlo. Ed allora non c'è altra soluzione che mandare in carcere i procuratori e i giudici che vogliono e avallano la custodia cautelare senza avere in mano prove serie. Magari con ricostruzioni oniriche o fantasiose. Questi uomini a cui lo stato dona potere sarebbero disposti a pareggiare la situazione e a rimetterci del loro nel caso di assoluzioni in Cassazione? Sarebbero disposti a mostrarsi uomini veri e ad andare in galera se si scoprisse che non hanno lavorato in maniera professionale? Io credo di no. Credo che non rinunceranno mai ai privilegi che garantisce lo stato anche se loro per primi, sequestrando e mandando persone in carcere (senza avere alcuna certezza della colpevolezza), sputano sopra la presunzione d'innocenza e su altri diritti che la Giustizia vuole siano garantiti a chi viene indagato. Non ultimo quello di poter attendere gli esiti dei procedimenti giudiziari assieme alla propria famiglia e non in carcere. Quella della custodia cautelare ingiusta è una piaga che va debellata, non v'è dubbio, e dovrebbe essere l'informazione a inserire il dito nella ferita affinché il male continuo costringa le istituzioni a curarla. Ma quando mai lo farà? A parer mio basterebbe un anno di"occhio per occhio - dente per dente" per rimettere in carreggiata i magistrati che ne abusano. Non sarebbe una cosa assurda e visto che tantissimi procuratori e giudici sono davvero bravi e professionali, forse non sarebbe neppure difficile da far accettare a quella maggioranza dei magistrati che da tempo è stanca di essere accomunata a certe persone...
18 SETTEMBRE 2015: QUARTA UDIENZA. PARLANO LA SORELLA KEBA, FABRIZIO FRANCESE, SANTINO GARRO, ILARIO SCOTTI, MATTEO EPIFANI E GIUSEPPE DE ZANI.
È iniziata poco dopo le 9,30 la quarta udienza del processo a carico di Massimo Bossetti, il muratore di Mapello accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio. Massimo Bossetti è arrivato poco dopo le 9, scortato dalla polizia penitenziaria. In aula c’è anche la sorella di Bossetti, Laura, al quale l’imputato ha sorriso, entrando nell’aula della Corte d’Assise. Davanti al Tribunale di Bergamo la solita folla di giornalisti e curiosi. l muratore di Mapello sorride sventolando la mano quando vede la sorella tra il pubblico, si siede in prima fila accanto ai suoi avvocati e assiste alla sfilata dei testimoni. Felpa blu, jeans, ascolta con attenzione e guarda dritto negli occhi Keba, la sorella di Yara, il "fidanzatino" della ginnasta, il padre della compagna di ritmica che, tra le 18,40 e le 18,45 di venerdì 26 novembre 2010, è stata l'ultima persona a vederla viva. Tranne il suo assassino. Ci sono percorsi da ricostruire, orari da far collimare e quel personaggio misterioso che spunta dal racconto di Scotti. Quando l’imputato è entrato in aula non ha più mostrato l’indifferenza delle scorse sedute, ma ha salutato il pubblico e la sorella. Dopo Keba Gambirasio saranno sentiti Ilario Scotti, l’uomo appassionato di aeromodellismo che trovò il cadavere di Yara e il padre di una sua compagnia di squadra che la vide uscire dalla palestra e fu l’ultimo a vederla. Oggi è prevista anche la testimonianza di Ilario Scotti, l’aeromodellista di Bonate Sotto che per puro caso scoprì il corpo della ragazzina nel mezzo del campo di via Bedeschi a Chignolo d’Isola, mentre provava il suo modellino di aereo radiocomandato. Era il 26 febbraio del 2011, tre mesi esatti dopo la scomparsa della tredicenne di Brembate Sopra. Le squadre di ricerca in precedenza avevano battuto diverse zone, fra cui (nel mese di dicembre del 2010) anche quella del campo di Chignolo, senza tuttavia addentrarsi nella vegetazione. Probabilmente il corpo di Yara si trovava già lì (così emerge dalle risultanze autoptiche) ma non fu scoperto. Solo il volo casuale e l’atterraggio «di fortuna» dell’aeroplanino di Ilario Scotti permise il ritrovamento. Sarà poi la volta di Fabrizio Francese, l’uomo che incrociò la ragazzina mentre usciva dalla palestra. Testimonieranno altri amichetti e amichette di Yara (dopo quelli che hanno reso la loro deposizione venerdì scorso). Quindi toccherà ai due sottufficiali dei carabinieri della stazione di Ponte San Pietro che ricevettero la denuncia di scomparsa e, infine, a due esperti informatici che si sono occupati (su incarico del pm Letizia Ruggeri) delle analisi sui computer di casa Gambirasio (peraltro senza trovare alcun elemento utile per le indagini).
Parla Keba Gambirasio. Keba è arrivata in Tribunale poco dopo le 9, accompagnata dai genitori Maura e Fulvio Gambirasio. l racconto della ragazza ha aperto la seduta del processo. Così Keba Gambirasio, sorella maggiore di Yara, ha ripercorso il rapporto con la tredicenne uccisa nel processo a carico di Massimo Bossetti, unico imputato per l'omicidio. La ragazza, che nel 2010 aveva 15 anni, ha spiegato che si sarebbe accorta se ci fosse stato qualcosa di strano nei giorni precedenti alla sparizione di Yara.. Molto emozionata, la ventenne ha ripercorso le fasi della sera della sparizione della sorella, che ha spiegato, "non aveva un diario personale, solo quello di scuola che io leggevo per controllare che facesse i compiti. Usava il pc di casa per scrivere a dei ragazzi tedeschi gemellati con la scuola". Il 26 novembre 2010, ha raccontato, "sono uscita alle 15.45 per andare a pallavolo. Quando sono tornata mia madre mi ha detto che Yara era andata a portare uno stereo in palestra ed era preoccupata perchè non era ancora tornata. Quella sera mia mamma uscì a piedi per cercare Yara, io rimasi a casa con il mio fratellino e aspettavano mio papà". La deposizione di Keba è iniziata verso le 9,50, con il racconto del giorno della scomparsa: «Quella sera – ha spiegato – mia mamma uscì a cercare Yara a piedi, io rimasi a casa con il mio fratellino». Keba ha anche spiegato che la sorellina «non aveva un diario personale, solo quello di scuola». «Non ho mai visto Bossetti – ha aggiunto – e non c’era nessuno che preoccupava Yara. Se fosse successo qualcosa di preoccupante lo avrei saputo». «Non ho mai visto Bossetti, né attorno alla palestra, né vicino a casa», ha detto Keba, che ha anche confermato il profilo di Yara tracciato la settimana scorsa dai genitori. Keba ha spiegato che lei e la sorella avevano un rapporto normale. «Yara non aveva un diario segreto, aveva soltanto il diario di scuola». L’avvocato di Bossetti ha chiesto a Keba se guardasse il diario di sua sorella. «Sì, lo guardavo, per vedere se faceva i compiti», ha risposto Keba. E tutti in aula si sono messi a ridere. E la risposta data da Keba al legale di Bossetti ha smontato un po’ i sospetti sui contenuti del diario sollevati dagli avvocati dell’unico imputato nel corso della scorsa udienza. Keba ha anche svelato che, il giorno della scomparsa di Yara, c’è stato un battibecco in famiglia su chi dovesse portare in palestra il registratore. «Avevamo discusso per portare lo stereo in palestra, ma poi avevamo deciso che lo avrebbe portato lei», ha ricordato Keba. La ragazza ha spiegato che si sarebbe accorta se ci fosse stato qualcosa di strano nei giorni precedenti alla sparizione di Yara. «Se fosse successo qualcosa di preoccupante lo avrei saputo. Se avesse avuto qualche approccio me lo avrebbe detto», ha spiegato Keba in aula. "Non avevo mai conosciuto Bossetti e nemmeno i suoi familiari - ha detto la ragazza - Yara era una sveglia, e sportiva, sempre in jeans e maglietta, metteva la gonna solo per le occasioni ufficiali". Parlando della rete di conoscenze della sorella, la ragazza ha aggiunto: "Non mi ha mai parlato di ragazzi più grandi o di avere confidenza con alcuni di loro. Non aveva rapporti con persone più grandi, me lo avrebbe detto o lo avrei saputo: io conoscevo tutte le sue frequentazioni, i compagni e gli amici del Centro estivo. Lei non mi mostrava mai il suo cellulare, ma so che nei contatti aveva solo numeri di parenti e compagni di scuola. Quando andavamo in vacanza stavamo dai parenti e frequentavamo solamente loro, e per uscire di casa chiedevamo sempre il permesso ai nostri genitori. La sera in cui è scomparsa avevamo discusso per portare lo stereo in palestra, ma poi avevamo deciso che lo avrebbe portato lei". "Se fosse successo qualcosa di preoccupante lo avrei saputo, se avesse avuto qualche approccio me lo avrebbe detto", afferma la ragazza. Assicura che si sarebbe accorta se ci fosse stato qualcosa di strano nei giorni precedenti alla sparizione di Yara e lascia intendere che la sorella non era una preda inerme e sprovveduta: "Era agile, anche muscolosa. Era sveglia». Non aveva diari segreti, ma un diario scolastico che ogni tanto guardava per controllare che Yara avesse fatto i compiti. Usava il computer di casa, Keba ne aveva uno personale del quale era molto gelosa: proprio nei giorni della scomparsa della sorella aveva modificato password e account. «Bossetti? Non l'ho mai visto. Non ho mai sentito parlare di lui nè dei suoi familiari prima dell'arresto», ribadisce Keba. L'unica "simpatia" della breve vìta della ginnasta è stata per Mattia, oggi un ragazzo di diciotto anni. «"E' stata la mia fidanzatina tra luglio 2008 e agosto 2009. Ci mandavano messaggi con il telefonino, parlavamo delle nostre passioni, delle nostre storie», ricorda. Lui avrebbe voluto incontrarla, lei rispondeva: "Mia mamma non mi lascia, sono troppo piccola". Keba ha anche riconosciuto il cellulare che usava la sorella ed era appartenuto in precedenza al padre e ha detto che Yara che il pc di casa lo utilizzava solo per comunicare con alcuni ragazzi conosciuti durante uno scambio con la scuola.
Parla Fabrizio Francese. Tra le persone sentite durante la mattinata del 18 settembre anche Fabrizio Francese, l’uomo che incrociò la ragazzina mentre usciva dalla palestra. «Ci siamo salutati, mi ha sorriso», ha raccontato l’uomo e ha aggiunto che «non può essere uscita da un ingresso laterale degli spogliatoi, l’avrei vista». L’uomo ha spiegato anche di non aver «mai visto un furgone bianco, quel giorno di sicuro no». "Io stavo entrando, lei stava uscendo ci siamo incrociati. Mi ha sorriso e io le ho detto: ciao Yara, poi ognuno è andato per la sua strada ". Lo ha spiegato Fabrizio Francese, che nel tardo pomeriggio del 26 novembre 2010 era andato a prendere la figlia della sua compagna al centro sportivo di Brembate Sopra, al termine dell'allenamento di ginnastica ritmica. Proprio mentre entrava in palestra, si imbatté in Yara, che stava uscendo. Erano circa le 18,40, l'ora in cui si persero le tracce della tredicenne, e Fabrizio Francese lo seppe indicare agli inquirenti con una certa precisione, perché prima di scendere dall'auto aveva letto l'ora sull'orologio del cruscotto. "L'ha vista uscire dalla palestra?", gli è stato chiesto. " “Non l’ho vista uscire, per vederla mi sarei dovuto girare indietro, cosa che non ho fatto. Però ho avuto la netta impressione che Yara sia uscita dalla palestra perché ho sentito sbattere la porta”. E ancora: “Ricordo che la sua era una camminata decisa, Yara non era titubante”. Francese ha anche detto di non avere visto furgoni nei pressi della palestra e, a proposito di Massimo Bossetti ha detto "non era un viso da me conosciuto". Secondo il testimone, è impossibile che Yara, anziché lasciare la Polisportiva di Brembate, avesse imboccato il corridoio verso gli spogliatoi: “No - è stata la sua risposta - se avesse cambiato direzione verso il corridoio degli spogliatoi me ne sarei accorto”.
Parla Santino Garro. Nel corso del processo a Massimo Bossetti, due carabinieri hanno ricostruito in aula, le prime indagini sul traffico del telefono di Yara e sul tragitto che la ragazza avrebbe dovuto fare dalla palestra di Brembate di Sopra, da cui scomparve e la sua abitazione. Un militare ha ricordato come Fulvio Gambirasio si presentò alla caserma di Ponte San Pietro intorno alle 20,30 del 26 novembre del 2010. Il carabiniere, attraverso il Nucleo investigativo attivò il cosiddetto "Sistema Carro", (ora in disuso) che dà indicazioni generiche, il quale inizialmente localizzò il telefono in un’ampia zona del Nord Italia, tra Monza e Novara. Fu la Vodafone, che diede una risposta diversa il giorno dopo e individuò l’ultima cella contattata dal telefono in quella di via Ruggeri a Brembate di Sopra alle 18.55. Un altro investigatore ha invece quantificato in quasi nove minuti il tempo per percorrere il tragitto dalla palestra alla casa della ragazza. Dopo Francese ha parlato anche un carabiniere di Ponte San Pietro in servizio la sera della scomparsa: il militare ha illustrato i primi accertamenti sulle celle telefoniche, spiegando che «l’ultima cella telefonica agganciata dal telefonino di Yara prima di spegnersi, alle 18,55, era quella di via Ruggeri a Brembate Sopra». Altro particolare oscuro è l'aggancio alle celle telefoniche del cellulare di Yara la sera della sua scomparsa. Quando, alle otto e mezza di sera, Fulvio Gambirasio va nella caserma dei carabinieri di Ponte San Pietro, il brigadiere Santino Garro inoltra al nucleo investigativo la richiesta di geolocalizzazione del telefono tramite il "sistema Carro". Risposta: è nel nord Italia, in una zona tra Monza e Vercelli. Distante da Brembate, da cui Yara non si è mai mossa. "E' un sistema generico e che per fortuna poi è stato abbandonato", spiega la pm Letizia Ruggeri. Dopo mezzanotte Vodafone segnala l'ultimo aggancio prima che il cellulare della dodicenne si spenga per sempre: ore 18,55, località Brembate.
Parla Ilario Scotti. Poco dopo mezzogiorno è stato chiamato a deporre Ilario Scotti, l’aeromodellista di Bonate Sotto che per puro caso scoprì il corpo della ragazzina nel mezzo del campo di via Bedeschi a Chignolo d’Isola, mentre provava il suo modellino di aereo radiocomandato. Era il 26 febbraio del 2011, tre mesi esatti dopo la scomparsa della tredicenne di Brembate Sopra. Le squadre di ricerca in precedenza avevano battuto diverse zone, fra cui (nel mese di dicembre del 2010) anche quella del campo di Chignolo, senza tuttavia addentrarsi nella vegetazione. Probabilmente il corpo di Yara si trovava già lì (così emerge dalle risultanze autoptiche) ma non fu scoperto. Solo il volo casuale e l’atterraggio «di fortuna» dell’aeroplanino di Ilario Scotti permise il ritrovamento: «Quando andai a recuperare l’aereo nel campo – ha raccontato durante la sua deposizione in Tribunale – mi sembrò di vedere un mucchio di stracci, poi capii che era un cadavere e chiamai il 113». Scotti in aula ha raccontato di aver visto arrivare, mentre aspettava le forze dell’ordine, «Era poco più alto dell'utilitaria da cui è sceso, un uomo calvo, di 50-55 anni, al volante di un’utilitaria: ha posteggiato l’auto all’inizio della stradina. Non era molto alto, aveva pochi capelli, un'età tra i 50 e i 55 anni, indossava un giubbetto da pensionato.», sceso dall’auto l’uomo «è salito con i piedi sui dei blocchetti di cemento e ha iniziato a guardarmi. Ho colto qualcosa di strano, è rimasto lì per 10-15 minuti. Ho colto qualcosa di strano: guardarmi va bene ma per 15 minuti....poi si è allontanato quando hanno iniziato a sentirsi le sirene». Scotti ha ricostruito il ritrovamento del corpo della tredicenne spiegando che dopo aver recuperato il suo aereo modello, vide quello che "sembrava un mucchio di stracci". "Mi avvicinai e mi accorsi che era un cadavere - ha aggiunto - Rimasi in quel posto per il timore di non riuscire a vederlo più. Chiamai il 113: mi dissero, ha le scarpe? Nere risposi. Pantaloni? Neri. Non si muova da li, mi risposero". Scotti ha raccontato di essere stato - dal 26 novembre del 2010, giorno della scomparsa di Yara, al suo ritrovamento, esattamente tre mesi dopo - una decina di volte nel campo per far volare i suoi aeromodelli, di mercoledì e di sabato. Quel sabato fu il cattivo funzionamento di uno dei suoi aerei che fece sì che scoprisse il corpo della ragazza. Il ritrovamento del cadavere di Yara è avvenuto intorno alle 15.10-15.15 del 26 febbraio 2011. "La polizia - ha messo in chiaro Scotti - è arrivata quasi subito, circa 15-20 minuti dopo".
Parla Matteo Epifani e Giuseppe De Zani. Nel pomeriggio all’incirca le 15 è ricominciata l’udienza con le deposizioni di due esperti informatici che si sono occupati delle analisi sui due computer di casa Gambirasio, uno della famiglia usato anche da Yara e uno della sorella Keba. Ha parlato il perito forense che è stato nominato dal collegio difensivo di Bossetti: “Nel pomeriggio viene sentito il consulente clinico del pm che ha analizzato il computer di Casa Gambirasio per trovare elementi per identificare soggetti e la Sim e l'Mp3”, ha detto Giuseppe De Zani , informatico forense del collegio difensivo di Bossetti. È stato chiarito, tra le altre cose, che «Yara non aveva un profilo Facebook» ma utilizzava un social network per studenti, attraverso il quale «scambiava messaggi normalissimi». Più in generale non sono state riscontrate «tracce di comunicazioni con terzi», escluse alcune mail di lavoro del padre di Yara, Fulvio, e un sistema di messaggistica che Yara utilizzò per tenersi in contatto con degli studenti tedeschi. Nessuna chat, Yara usava il computer quasi esclusivamente per coltivare le sue passioni, danza e musica, e per ricerche scolastiche. Nessuna sorpresa nemmeno dall’analisi della scheda sim del cellulare di Yara (il telefono non è mai stato ritrovato, la scheda sim sì) che conteneva 78 numeri memorizzati. Nel corso dell'udienza c'è stato anche un inconveniente: un cd contenente la relazione di un consulente informatico sul materiale appartenente a Yara Gambirasio non è stato trovato nel fascicolo del dibattimento e, pertanto, il consulente stesso ne ha prodotto una copia della quale già esisteva una versione cartacea. "Quel cd era stato inviato all'ufficio gip - ha detto il pm Letizia Ruggeri -, ma non è più tornato. E' una cosa spiacevole ma è così. Il problema è stato risolto grazie a una copia del cd conservata dal consulente". Il pc Acer utlizzato dai Gambirasio, inclusa Yara, era "ad uso familiare" e "non aveva installato alcun programma di file sharing o di chat", scrive La Presse. Lo ha spiegato nel corso del processo a Massimo Bossetti, Mattia Epifani, il consulente nominato dalla Procura di Bergamo per analizzare il contenuto dei computer in uso alla famiglia della ragazzina scomparsa il 26 novembre 2010 da Brembate di Sopra (Bergamo). Il profilo utilizzato da Yara "non conteneva nulla di anomalo". La giovane aveva fatto soprattutto ricerche su internet, aveva salvato documenti Word e lavori per la scuola. Molti anche i video guardati su YouTube, soprattutto musicali, di danza e clip di serie tv. Tante anche le ricerche su Google sia per approfondimenti su Leonardo e Asimoov sia per cercare i film di Johnny Depp e le canzoni di Laura Pausini. Gli unici accessi ai social network, Yara li aveva fatti tramite il profilo Facebook della zia paterna Nicla.Nel pc dei Gambirasio, per il consulente della Procura, non c'erano "tracce di comunicazioni con terzi", escluse alcune mail di lavoro del padre di Yara, Fulvio e i messaggi postati dalla stessa Yara sul "social network" eTwinning, utilizzato dalla 13enne per comunicare con gli studenti tedeschi conosciuti durante uno scambio culturale organizzato dalla scuola. "Ciao, sono Yara, ho 13 anni. Sono di corporatura magra, ho gli occhi castani e lunghi capelli castani. Sono bellissimi. Mi piace vestire alla moda, anche se non sempre mia mamma mi compra i vestiti adatti", è il messaggio di presentazione che la ragazzina aveva postato. Nessuna traccia di "anomalie" è stata trovata anche sul pc portatile che utilizzava solo la sorella maggiore di Yara, Keba, che ha testimoniato questa mattina. L'unica particolarità emersa è che la ragazza, il 27 novembre 2010, dopo la sparizione della sorella, aprì un secondo account. Il consulente ha analizzato anche la sim che era nel telefonino di Yara, dalla quale non sono emersi particolari elementi, tranne il fatto che un contatto è stato cancellato. Anche dal lettore Mp3 sporco di sangue, trovato accanto al corpo della ragazzina, non sono emersi elementi utili alle indagini. Il pm Letizia Ruggeri ha anche segnalato la sparizione del cd contenente la relazione del consulente, smarrito nel tragitto dall'ufficio Gip alla Procura. Il consulente ha fornito una copia del materiale informatico, che è stata depositata agli atti.
L’Udienza si è conclusa poco prima delle 16,45 dopo l’audizione di due tecnici informatici.
Yara, la deposizione della sorella lascia ancora molti dubbi aperti. Oggi al processo contro Massimo Bossetti ha parlato Keba Gambirasio, che ha ribadito di non aver mai visto il muratore, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Dopo la deposizione di mamma Maura e papà fulvio, oggi è toccato a Keba Gambirasio. La sorella di Yara si è presentata questa mattina al tribunale di Bergamo per deporre al processo contro Massimo Bossetti, il muratore accusato di aver ucciso la tredicenne di Brembate di Sopra. Sono due gli aspetti interessanti emersi dalle parole della ragazza nel frattempo diventata maggiorenne.
Il primo è il passaggio in cui dice di non aver mai visto Bossetti, né attorno alla palestra, né vicino a casa. E questo è un punto a favore della difesa dell’imputato, che sta provando in tutti i modi a far risaltare un buco probatorio non di poco conto nella ricostruzione ipotizzata dalla procura. Se Yara e Bossetti si conoscevano, come ritengono gli inquirenti, se tra loro c’erano state delle “frequentazioni pregresse”, allora risulta difficile pensare che non sia rimasta traccia di un contatto anche minimo tra i due: un messaggino, una telefonata, un contatto su qualche social network, un incontro anche fisico, con qualcuno che dica di averli visti parlare. Non c’è nulla di tutto ciò. E oggi è arrivata ulteriore autorevole conferma dalla persona più vicina a Yara, la quale ha detto ai giudici che “se fosse successo qualcosa di preoccupante, lo avrei saputo. Se avesse avuto qualche approccio, me lo avrebbe detto”.
Il secondo passaggio nella deposizione di Keba che offre uno spunto ai fini investigativi è quello in cui dice che quella sera lei e la sorella avevano discusso su chi dovesse portare lo stereo in palestra, e alla fine era andata Yara. Qui il punto va assegnato alla procura, la quale ritiene che la ragazza avesse deciso già al mattino di recarsi in palestra, nonostante non avesse allenamenti, tanto che lo aveva detto a una amica. Secondo i carabinieri, Yara potrebbe avere avuto un appuntamento, infatti esce alle 18,40 dicendo che doveva tornare a casa perché altrimenti la mamma si sarebbe preoccupata. Ma la prima telefonata della donna arriva mezz’ora dopo. Da qui l’ipotesi che la ragazza si fosse ritagliata un margine di tempo. Per incontrare il suo assassino?
Yara, colpo di scena in aula: i tempi del delitto non tornano. La sorella Keba: «Decidemmo appena poche ore prima chi di noi sarebbe andata in palestra» L’ultimo ad averla vista viva: «Erano le 18.44», quindi Bossetti avrebbe ucciso in soli 20 minuti, scrive Luca Telese su "Libero Quotidiano". (...) portare la radio in palestra». L'avvocato Camporini le chiede: «Da quando?». Keba prende un respiro, ci pensa: «Da tanto. Ma non mesi… Meno di una settimana… diciamo… tre giorni». E, incalza l'avvocato, «quando si è risolto il dilemma?». «Quello stesso pomeriggio».
Come per tutti i particolari di questo processo, anche il minimo dettaglio ha grandissime conseguenze sulle ipotesi e sull'impianto accusatorio di tutta l'indagine. È così anche stavolta. Nello stesso giorno, infatti, il perito dell'accusa, Mattia Epifani, racconta che Yara non aveva accesso a nessun social network. Che non aveva profili Facebook. Che quel giorno non c'è stato traffico, telefonate o sms dal suo cellulare. Sintesi: «Non abbiamo trovato prove di comunicazioni con soggetti terzi». Un bel problema. Keba aggiunge anche che subito dopo questa discussione, dopo pranzo, Yara non ha parlato con nessuno, ed è rimasta a casa a fare i compiti, nella stanza che condivide con lei. La conseguenza di quella discussione, in apparenza innocente, tra due sorelle che vogliono andare in palestra, e una madre chiamata a dirimere la questione, la capisco solo dopo un po’. Ancora Keba: «Non abbiamo detto a nessuno che sarebbe andata lei». Ma allora, se non ci sono sms, mail, telefonate, vuol dire che nessuno fuori della famiglia Gambirasio poteva sapere che Yara sarebbe stata in palestra, né tantomeno a che ora sarebbe uscita da lì. Cade l'idea dell'appuntamento, cade, di conseguenza, l'idea che conoscesse il suo assassino. Eppure gli inquirenti ne sono così convinti che l'unico capo di imputazione che hanno risparmiato a Bossetti è «sequestro di persona». Yara sarebbe salita in macchina di sua spontanea volontà, e la perizia sulle fibre dei sedili presenti sui suoi leggings prodotta dall'accusa, proverebbe addirittura che è rimasta seduta «in posizione eretta», senza dimenarsi. Ma Bossetti come avrebbe potuto sapere quello che era stato deciso nella famiglia Gambirasio, se nulla era uscito dalla porta della casa di Brembate? Quella di ieri, apparentemente, sarebbe dovuta essere una giornata di interrogatori calma, senza colpi di scena. E invece, come per magia, a fine giornata, mille informazioni si compongono nel taccuino, regalando diverse sorprese. E - per un nonnulla - la tensione tremenda che sempre aleggia in aula esplode, regalando meravigliose contese da trial movie. Come quando, proprio discutendo della perizia sul telefonino di Yara, l'avvocato Camporini prova a chiedere al tecnico: «Questo telefonino che funzioni ha?». La Ruggeri salta sulla sedia come un puma: «Mi oppongo, signor giudice, non pertinente! Il mio perito ha lavorato sul contenuto del telefonino, non sul telefonino!». Camporini risponde con una flemma quasi ostentata: «Vostro onore, sono consapevole che qualcuno possa non capire, ma la difesa spiegherà solo alla fine il perché, e l'estrema importanza di alcuni elementi». La Ruggeri: «Ehhh…». Camporini: «Non glielo anticipo: pazienti…». Qui, sorprendendo tutti, la Ruggeri vede rosso e alza la voce: «Io non capisco perché l'accusa debba girare tutte le sue carte, e la difesa pretenda di mantenere ogni cosa coperta!». Camporini gongola: «Sarà una sorpresa, eh eh». La pm è furibonda, ricorre al sarcasmo: «E certo, come no? Adesso salterà fuori che Yara ha fotografato il suo assassino e lo scoprono loro». Sono seduto proprio alle spalle dei banchi delle parti. Per un attimo mi perdo nella meraviglia dei dettagli. La difesa è decisamente dandy: Camporini, scarpe Duilio in pelle a tre colori; Claudio Salvagni calzini monotinta con ranocchie verdi fosforescenti. La Ruggeri, invece, sbarazzina: sotto la severità della toga e la gorgiera di pizzo bianco, pantaloni a pinocchietto verde pisello. Un conflitto antropologico, una tempesta perfetta, incomunicabilità tra pop-inquisizione e difensori liberalchic. Anche Keba Gambirasio, come tutte le ragazze di questa storia, è una ragazza bella. Mentre parla, seduta in equilibrio sulla punta della sedia, mentre si morde le labbra nei momenti morti, provo indovinare il colore dei suoi occhi, a metà tra il verde chiaro e il grigio. Il perfetto taglio delle arcate sopracciliari regala luce allo sguardo. Anche Keba dice di non ricordare molte cose. Si dimentica addirittura che negli interrogatori aveva indicato un fidanzatino: «Io e mia sorella non parlavamo molto di queste cose». Però, quando Camporini le dice che lui, «maggiore» come lei doveva sorvegliare il proprio fratello, Keba rivela: «Le guardavo il diario per controllare se aveva fatto i compiti». E Bossetti? Lo riconosce, per caso? «Mai, mai… mai visto no». Alla domanda su perché abbia cambiato il suo account sul computer proprio la mattina dopo la scomparsa, Keba scuote il capo: «Non lo so. Non ricordo». Anche il dettaglio sugli autobus diventa importante: «Per andare a scuola - dice la sorella di Yara - prendevamo quelli di linea blu. I più vecchi avevano i sedili di pelle rossa. Gli altri di stoffa… grigia». Gli avvocati di Bossetti si scambiano sguardi soddisfatti: i sedili di stoffa, infatti, possono giustificare le fibre. Ma il tempo della battaglia su questo elemento di prova deve ancora venire. Quando entra Matthias Foresti, il cosiddetto «fidanzato di Yara», mi domando perché l'accusa lo abbia convocato. È un ragazzo molto carino, con il viso regolare, un ciuffo fantastico. Racconta che lui e Yara hanno avuto «una simpatia un po’ accesa» (risate in sala), ma che (per un anno!) questa relazione si è potuta sviluppare «solo per telefono». Come mai? «Le chiedevo “Dove ci vediamo?”, e lei mi rispondeva: “Mia madre non mi lascia uscire”». Fabrizio Francese, l'ultimo uomo che ha visto Yara viva, è il testimone che ogni inquirente sogna di incontrare. Preciso, meticoloso, esibisce una memoria di ferro, e se c'è qualcosa che non torna sa spiegare perché. La sua precisione sposta anche ora la datazione del delitto di Yara, e forse avrà delle conseguenze. Ecco perché. Francese sta tornando da Milano, in treno. Arriva alla stazione alle 18.24. Perché? «Perché ricordo che sono partito alle 17.39». Ricorda di aver ricevuto una chiamata della compagna alle 18.34. Perché? «Perché mi chiedeva se riuscivo a prendere la bambina in palestra, ho guardato l'ora». E perché? «Dovevo capire se facevo in tempo ad arrivare. Ero nel parcheggio, ho detto sì». E allora prende la macchina corre in palestra. Parcheggia lontano: «Ci avrò messo in tutto dieci minuti. Non vedo nessuno, non incontro nessuno, entro dall'ingresso principale. All'altezza di un colonnino di cemento del corridoio incrocio Yara». È sicuro: «Sicurissimo. La conoscevo». Come mai? «L'avevo conosciuta alle gare». E che succede? «Le faccio: “Ciao Yara!”. Anche lei mi saluta. O meglio, voglio essere preciso. Mi risponde con un sorriso. Aveva il passo spedito di chi sta andando da qualche parte». Perché è molto importante questa testimonianza? Perché ci dice che «Alle 18.44 Yara è ancora lì». Salto sul taccuino, fino alla testimonianza del poliziotto che raccoglie la denuncia di papà: «L'ultimo aggancio del cellulare è alle 18.55, a Brembate, in via Ruggeri». Penso all'inchiesta, alla perizia sui furgoni secondo cui Bossetti sarebbe corso fino a Chignolo (almeno 45 minuti andare e tornare), e faccio due conti. Secondo l'accusa era alla stazione di servizio alle 18.40, avrebbe dovuto caricare Yara pochi minuti dopo, uscire da Brembate non prima delle 19.00, andare e tornare in venti minuti a viaggio. Quindi gli restano solo venti minuti per uccidere Yara nel campo di Chignolo. E qui tutto si incastra con l'aspetto più interessante della testimonianza di Ilario Scotti, l'aeromodellista che ritrova il corpo di Yara. Scotti è un altro bergamasco fantastico: dice solo quello di cui è certo. Ma conosce benissimo quel campo. Tutti restano colpiti dal dettaglio pittoresco del «guardone» che rimane a fissarlo un quarto d'ora, da lontano, quando trova il corpo, «e fugge via quando sente le sirene». Ma su questo forse ha ragione la Ruggeri: «Non mi pare un comportamento furbo - dice mentre mette via la toga - per un assassino». Scotti, però, dice un'altra cosa. In tre mesi è stato a Chignolo non meno di dieci volte. Scopre Yara solo perché deve recuperare un suo aeromodello bianco e rosso caduto nel campo. È la seconda volta che gli succede, e deve fare una fatica incredibile per ritrovarlo. Perché? «Perché in quella stagione c'erano cespugli irti e pieni di aculei, era impossibile avanzare dritti». E quindi? «Ho dovuto fare diverse serpentine per aggirare gli ostacoli». Ha impiegato quasi dieci minuti per fare i duecento metri che lo separavano dal suo aereo: «Solo dopo averlo recuperato ho visto il corpo». Quindi Bossetti in una sola ora avrebbe dovuto immobilizzare Yara, andare a Chignolo, portare il corpo in mezzo a quei rovi, mutilarlo in modo osceno, correre per tornare indietro entro le 20.00. La testimonianza di Ippoliti fa cadere l'ipotesi che Yara sia arrivata lì con le sue gambe. Ne porterebbe i segni, come minimo, sui vestiti. Il tempo, adesso è un elastico: più si ritarda la partenza, meno tempo c'è per uccidere e tornare alle 20.00. La prova delle fotocamere che deve incastrare Bossetti, potrebbe diventare, per paradosso, il suo alibi.
Massimo Bossetti è accusato di omicidio, ma le testimonianze stanno processando chi doveva indagare e si è adagiato su un dna fantasmatico, scrive Massimo Prati su “Albatros-Volando Controvento”. Più di un mistero aleggia sulla scomparsa e sulla morte di Yara Gambirasio e c'è da chiedersi il motivo per cui si stia processando Massimo Bossetti quando le testimonianze fanno puntare il dito contro chi ha partecipato alle indagini o le ha comandate. Due venerdì fitti di interrogatori hanno sgambettato la procura, ampiamente dimostrato che ha scommesso sulla ricostruzione più ridicola e fatto capire che le indagini furono davvero scadenti. Ciò che dopo le testimonianze deve essere chiaro a tutti, è che la piccola Gambirasio non sarebbe mai salita con chi non conosceva e che non aveva alcuna frequentazione con uomini maturi. Yara viveva in un mondo diverso, quello adolescenziale lontano anni luce dallo stile di vita dell'imputato. Fra i due non ci fu nessun incontro perché Yara ne avrebbe parlato alla madre o alla sorella (a cui non nascondeva alcun segreto). Questo il procuratore lo sapeva, visto che deve per forza aver interrogato i testimoni in fase di indagine, eppure si è accanito e ha deciso di far spendere altri denari alla collettività per imbastire un processo dai contorni drammatici, ma anche farzeschi, che non gli dà ragione. Perché invece di puntare sul dna non ha deciso già nel 2010 di indagare meglio e più a fondo su questioni che tuttora appaiono lacunose e in ombra? Facciamo un piccolo ripasso su quanto finora si è detto nelle due udienze in cui si sono avvicendati i vari testimoni. Per semplificare la comprensione degli eventi mettiamo il tutto in ordine cronologico partendo da quanto avvenne il 26 novembre, giorno in cui la ragazzina di Brembate scomparve. Lo abbiamo sempre detto, ma ora si è appurato anche a processo, che solo sua madre e sua sorella sapevano che lo stereo in palestra lo avrebbe portato Yara. Quindi nessun altro poteva sapere che sarebbe uscita di casa e nessuno poteva attenderla all'uscita della palestra. Anche perché quel pomeriggio fece alcuni ingressi su internet, è vero, ma per fare i compiti e non per accordarsi con qualcuno perché, dichiarato in aula dai periti che i computer li hanno controllati, non ci sono stati né messaggi in uscita né attività anomale (e non solo quel pomeriggio). Yara era trasparente, non aveva pagine su social network e non utilizzava programmi di messaggeria. L'unico strumento di comunicazione era il cellulare, con cui aveva inviato degli sms a un ragazzo della sua età che gli stava molto simpatico (ma solo fino all'estate del 2009). Spostiamoci da casa e arriviamo alla palestra perché è qui che la storia si fa misteriosa. La ragazzina entra nel complesso ginnico, guarda gli allenamenti e gira fra le varie sale. Consegna lo stereo e verso le 18.40 se ne va. Oddio, che se ne sia andata lo dice la procura, ma ora non è più tanto certo perché il testimone che confermava la sua uscita in effetti l'ha incrociata in un punto del corridoio che poteva portare all'entrata (e uscita) principale, ma anche agli spogliatoi e di qui all'uscita sul retro. Inoltre, non solo non l'ha vista uscire, ma non ha neppure udito il tipico e caratteristico rumore che la porta d'ingresso produce ancora oggi. Ed allora? Non l'ha sentita sbattere perché Yara l'ha accompagnata con le mani, o non ha sentito alcun rumore perché Yara si è diretta al corridoio degli spogliatoi? Domanda interessante che probabilmente, visti i tanti "non ricordo" delle sue insegnanti e amiche, non troverà mai risposta certa. Comunque si fanno quasi le sette e Maura Panarese, la madre della piccola, ad un certo punto si preoccupa. Ha ragione a preoccuparsi, conosce sua figlia e anche 5 soli minuti di ritardo le fanno scattare le antenne che avvisano del pericolo. Così, dopo aver provato a chiamarla al cellulare (lei dice che anche alle 19.10 ha squillato per tre volte prima di staccarsi completamente), lascia la sorella maggiore a casa col fratellino ed esce a piedi per cercare la sua bambina. Nel frattempo Fulvio Gambirasio, il padre, sta per andare a cena con un amico. Ma quando sa che sua figlia non si è ancora vista torna a casa e con sua moglie va dai carabinieri. E qui troviamo un altro mistero. I genitori della piccola alle 20.30 chiedono aiuto perché non è normale che la loro ragazzina di tredici anni scompaia in quel modo. E i carabinieri che fanno? Chiamano il nucleo investigativo per sapere se il cellulare è acceso o spento, il procuratore di turno perché li autorizzi a fare una richiesta di geolocalizzazione alla Vodafone e poi riempiono i moduli di richiesta e li inviamo al gestore telefonico. Niente altro. Nessun passaggio in palestra per sapere se qualcuno sa qualcosa, per appurare, entrando nelle varie sale e spogliatoi (ma anche nell'impianto esterno passando dal retro), se la ragazzina è uscita o se è ancora all'interno del complesso. Niente. Nessuna domanda per capire se c'è stato un litigio o cos'altro, nessuna ricerca fra le amiche e nessuna attività di indagine. Nulla di nulla. E arriviamo al mistero. Dopo la mezzanotte la Vodafone risponde ai carabinieri dicendo che il cellulare di Yara è stato localizzato a Monza. A questo punto che si fa? Ancora nulla... si attende. Il brigadiere, che non è un tecnico e non può capirne tanto di telefonia mobile, a processo ha dichiarato che la procedura usata per localizzare il cellulare era grossolana. Allucinante! Se era grossolana e non serviva a niente perché mai l'hanno richiesta? Per dire a processo che era una procedura inutile? Per dire che l'unico orario certo è quello delle 18.55, quando il cellulare di Yara aggancia la cella di via Ruggeri a Brembrate Sopra e lì si spegne? E qui mi sale il sangue alla testa nel pensare che un carabiniere preferisce restare nel suo ufficio ad attendere una risposta che ritiene inutile invece di recarsi dove mia figlia è andata di sicuro. Un luogo da cui non so neppure se è uscita con le sue gambe. Mi sale la pressione a pensare che devo essere solo io a cercarla, io che al massimo posso guardare per strada e chiedere alle amiche, io che non sono un carabiniere e non posso entrare in nessun posto privato se non sono invitato. Ma andiamo avanti perché dopo i vari non ricordo delle amiche e delle insegnanti si arriva al giorno in cui il cadavere viene miracolosamente trovato. E qui c'è una certezza. L'accusa vuole che Yara sia stata inseguita e uccisa nel campo di Chignolo d'Isola e lì lasciata a morire. Ma non siamo in una pista di atletica leggera, come quella che si trova nel grande centro polisportivo di Brembate sopra in cui si allenano atleti di tutte le discipline sportive (foto sopra), e il campo incolto, la natura impervia del terreno, il buio pesto in cui sprofonda quando cala il sole, tutto descritto molto bene dall'aeromodellista che ha ritrovato il corpo e che sin dall'agosto precedente faceva volare il suo aereo ogni mercoledì e sabato, non permettono un inseguimento senza cadute e senza procurarsi lacerazioni ai vestiti e ai palmi delle mani. Sugli abiti di Yara non c'erano lacerazioni dovute al terreno incolto e neppure c'erano le caratteristiche ferite che le cadute procurano sulle sue mani. Quindi come la mettiamo e che ruolo diamo all'uomo visto dall'aeromodellista, mentre in attesa delle forze dell'ordine si trovava a pochi passi dal cadavere di Yara? Quell'uomo che fermatosi con l'auto era sceso e dopo essersi spostato era salito su dei mattoni per vederlo meglio? Quell'uomo che è rimasto quasi quindici minuti ad osservarlo, salvo poi scappare quando ha sentito le sirene della polizia e dei carabinieri che si avvicinavano? L'ennesimo mistero di una storia che non lesina e non lesinerà quei colpi di scena che i media cercano di non raccontare perché quando tutto si incasina si sentono persi, perché la loro mente non è abituata a far ragionamenti e a funzionare in autonomia. Si sentono persi perché le rassicurazioni della procura si stanno sgretolando e senza appoggi non sanno come fare. Qualcuno dice qualche sciocchezza mentre altri insistono su un dna fantasmatico e continuano a non capire di non averci mai capito una mazza...
Noi non possiamo tacere. Meditazioni su giustizia e dignità della persona. Convegno Palaia (16 settembre 2015). Processi in tv: dall'indizio all'elaborazione "letteraria" del pregiudizio (passando per gli artifici della retorica). Intervento di Annamaria Cotrozzi pubblicato da EUGIUS - Unione Europea Giudici Scrittori - Non sono un'addetta ai lavori: per professione non mi occupo di diritto, ma di testi classici. Mi sono accostata alle tematiche che oggi affrontiamo per senso di dovere civico, in quanto sempre più sconcertata di fronte alla deriva inarrestabile delle gogne mediatiche e dei "processi" celebrati in tv, del tutto al di fuori sia dalle regole del diritto, sia dal rispetto della persona e dai valori dell'humanitas. Di recente, le motivazioni del verdetto di Cassazione sul caso Kercher hanno esplicitato il condizionamento che sulle indagini, e di conseguenza sull'iter giudiziario, può essere esercitato dalla pressione mediatica. Dopo tale autorevole parere, direi che la questione abbia ora il crisma dell'allarme ufficiale. Le sentenze televisive, anticipate e costruite, giorno dopo giorno, sul pregiudizio mediaticamente indotto, possono influire sull'esito dell'iter giudiziario vero e proprio, e portare alla conferma, in sede di tribunale, di condanne già da tempo date per scontate, sancite dalle opinioni degli ospiti dei programmi di cronaca, e richieste a gran voce dall'opinione pubblica che da tali opinioni è stata inevitabilmente condizionata. Fiction. Quando un caso giudiziario sale alla ribalta della cronaca ed entra nei "salotti" televisivi, si crea un circolo vizioso per cui, paradossalmente, proprio l'indizio più vago, più labile e oggettivamente meno significativo è quello potenzialmente più adatto ad essere romanzato, ad avviare un racconto d'invenzione, a fornire spunti per la fiction di intrattenimento con cui si riempiranno infiniti pomeriggi: il tutto avviene mediante una serie di procedimenti retorici che meriterebbero un'indagine specifica e dettagliata (magari anche da sviluppare in tesi di laurea). Va anche detto che lo strapotere degli opinionisti dei talk show - ognuno dei quali, odierno Minosse, "giudica e manda secondo ch'avvinghia", in base, spesso, a una conoscenza palesemente approssimativa del caso - è anche conseguenza della fine del vero giornalismo, quello d'inchiesta, a cui si è ormai sostituito il giornalismo ombra di se stesso, il giornalismo del "copia e incolla", quello che si limita a raccogliere il gossip e a entrare nella catena del tam-tam mediatico senza verificare la notizia (violando l'abbiccì delle norme del giornalismo), e che ripropone all'infinito e amplifica i presunti indizi filtrati dalle sedi giudiziarie, presentandoli come verità assodate tramite la ripetizione parossistica delle frasi fatte, capziose e e imbroglianti, alle quali il pubblico si abitua fino a farle proprie (e fino a credere di averle pensate autonomamente, come avviene con la pubblicità occulta). Evidente meccanismo di manipolazione, che uccide il senso critico. Avetrana. A mio avviso, in questi ultimi anni, tutto questo è stato rappresentato emblematicamente dal caso Scazzi, di cui mi sono occupata in modo approfondito maturando il convincimento dell'innocenza delle due imputate, Cosima Serrano e Sabrina Misseri, in custodia cautelare da cinque anni e raggiunte, anche in secondo grado, entrambe dalla condanna all'ergastolo. Il poco tempo a disposizione non mi consente ovviamente di approfondire in questa sede l'analisi del delirio mediatico verificatosi intorno a questo specifico caso, né di dedicare a questo tragico fatto di cronaca, e alla sconcertante vicenda giudiziaria che ne é seguita, tutto lo spazio necessario. Mi limito quindi a riferirmi a questa vicenda allo scopo di esemplificare i suddetti procedimenti di manipolazione retorica. La tv ha dedicato a questo caso montagne di ore, un vero delirio senza precedenti: ricordo che fu la diretta televisiva no-stop della sera in cui fu ritrovato il corpo della giovane vittima a far schizzare in alto sia l'interesse per la vicenda, sia, di conseguenza, l'audience. Le immagini. Nella civiltà dell'immagine, ha preso ovviamente campo anche la retorica visiva (analoga a quella verbale). Effetti devastanti si possono ottenere anche attraverso l'uso di fotogrammi fissati ad hoc e riproposti all'infinito, a fine suggestivo, come avviene in pubblicità: Sabrina Misseri con l'espressione tormentata o che piange (e così si è dato credito al nonsense dell'espressione "lacrime di plastica"), Amanda Knox e Raffaele Sollecito che si baciano all'indomani della tragedia, Cosima Serrano che spinge il marito in garage per sottrarlo all'assalto di giornalisti e fotografi, un gesto riproposto ad arte come rappresentativo del presunto ruolo dispotico della donna, data in pasto al pubblico come la "sfinge" e la "matriarca", in linea con quanto richiesto dai ruoli e dalla trama del "romanzo a puntate" in cui la l'evento tragico si andava trasformando. Come si vede, siamo persino sotto la soglia dell'indizio, ma l'immagine trasmessa e ritrasmessa mille volte è sufficiente a scatenare l'odio popolare, e viene tradotta mentalmente: "lei è quella che ha ucciso la ragazzina e ha ordinato al marito di far sparire il corpo". L'immagine capziosa non resta inerte, ed infatti è divenuta la molla micidiale che ha portato alle grida selvagge e agli applausi vigliacchi del momento dell'arresto, offerto anche quello al pubblico come spettacolo. Una forma di antifemminismo collettivo porta a trovare normale un fatto, a mio avviso, di inaudita gravità, cioè che sulle donne coinvolte in quest tragiche vicende si esprimano giudizi persino in riferimento al loro grado di avvenenza fisica (!), e anche in ciò si pensi di trovare riscontri per gli indizi di colpevolezza (Sabrina gelosa perché non abbastanza bella, Amanda troppo bella e perciò manipolatrice, e altre sciocchezze del genere: sciocchezze, certo, ma dalle devastanti conseguenze). I trucchi della retorica. Sul piano del linguaggio e dei messaggi verbali, la formidabile cassa di risonanza televisiva riesce a mettere in circolazione assiomi fatti passare per verità provate, slogan la cui vacuità è mascherata da deduzione logica: "allora si è uccisa da sola" (frase che circola nel web in riferimento a tutti i casi di cronaca divenuti famosi), "sono stati gli extraterrestri"; più grave ancora l'ipocrisia ricattatoria con cui il colpevolismo acritico e viscerale si accaparra la difesa della vittima tramite frasi del tipo: "io sono dalla parte della vittima" (donde il paralogismo: se difendi gli indagati o imputati, vuol dire che tu non sei dalla parte della vittima) , "se fosse stata tua figlia?". Falsi sillogismi. Si sono usati, nel caso di Avetrana, per dare consistenza al presunto movente della gelosia: per crearli si diffondono notizie inesatte (la storia, falsa, dei diari di Sarah che Sabrina avrebbe nascosto), si insiste sull'aspetto fisico dell'imputata (era grassa, la cugina era magra, dunque l'invidia e la gelosia sono possibili, dunque ha ucciso per gelosia). Passaggio successivo sono le domande rivolte agli "esperti": secondo lei si può uccidere per gelosia?" "Sì, certo che si può" (lo sappiamo tutti che si può, non occorrono gli "esperti"): ergo Sabrina ha ucciso per gelosia (esempio ricorrente di falso sillogismo in questa vicenda). Il lessico. A farci caso, si riscontra la passione dei media per le espressioni verbali dure, violente, quasi sadiche: incastrare, inchiodare, torchiare. C'è sempre, in agguato, lo scoop riguardo a "prove" che incastrerebbero l'imputato di turno (poi si scopre, il più delle volte, che si tratta in realtà soltanto di parvenze di indizi, o di elementi irrilevanti interpretati come tali). Il sensazionalismo, comunque, si manifesta soprattutto nell'abuso del termine "supertestimone", ormai irrimediabilmente inflazionato, e riferito in genere ad autori e autrici di banali "rivelazioni" da gossip paesano. Va aggiunto il "Vergogna"!, il grido preferito di giustizialisti e giustizieri, quello urlato dalla folla inferocita accorsa a godersi gli arresti, o davanti ai tribunali in caso di assoluzione, dovunque nel web. L'uso perverso della retorica, soprattutto da parte di giornalisti e operatori televisivi, consiste anche nell' illuminare il segmento che interessa oscurando ciò che andrebbe a favore dell'imputato: è un procedimento, del resto, canonizzato nei trattati di oratoria (le Controversiae di Seneca il Vecchio ce ne rappresentano l'uso concreto e abituale nelle esercitazioni delle antiche scuole di retorica); la retorica, si sa, procede anche per omissioni: e così, per esempio, della questione orari, dirimente nel caso di Avetrana, in tv non si parla quasi mai, e mai con precisione: la retrocessione forzata degli orari, in base a testimonianze – malcerte - di mesi dopo, è il vero scandalo di questa vicenda giudiziaria. Naturalmente si parla invece moltissimo, all'interno di affrettate analisi psicologistiche da due soldi, di atteggiamenti ritenuti strani e sospetti, reazioni emotive, espressioni facciali, presunta eccessiva agitazione, presunta eccessiva calma delle persone imputate. Sì, per paradosso sia l'agitazione, sia la calma si prestano a essere interpretate come indizi di colpevolezza: altro espediente – di bassa lega, sia chiaro – della retorica televisiva. Le condanne a furor di popolo: cominciano dagli sms forcaioli letti in trasmissione. A tutto questo bisogna opporsi, con le armi della civiltà e della ragione, altrimenti secoli di progresso nel diritto saranno spazzati via dallo strapotere mediatico, dalla grancassa televisiva, dalle urla maleducate con cui, in quei "salotti", viene non di rado impedito e interrotto anche il più timido tentativo di approfondimento: un'inciviltà (travestita da voglia di giustizia), che, tra l'altro, alimenta nel pubblico un modo di ragionare e di esprimersi primitivo, rozzo e persino violento (si pensi al dilagante "gettate le chiavi": perché allora non anche inchiodare la porta, “chiavar l’uscio di sotto”, come si fece col conte Ugolino?). Che cosa può fare, per esempio, la scuola? Con una tv così diseducativa, con programmi che uccidono sia il senso critico che il senso di umanità, a mio avviso deve fare quello che è da sempre il suo compito: insegnare a pensare, favorire l'autonomia del giudizio, lo smascheramento del trucco retorico, la demolizione del pregiudizio alimentato ad arte, il riconoscimento dei meccanismi di manipolazione e degli espedienti "pubblicitari" a cui prima ho fatto riferimento. Ci si può anche aiutare con la letteratura, dove tutto è già stato detto: Per esempio, sarebbe importante far riflettere i giovani sul fatto che il linciaggio mediatico è la versione moderna del procedimento, analiticamente descritto da Manzoni, della caccia agli untori; si potrebbe proporre la lettura del capolavoro di Dacia Maraini, "La lunga vita di Marianna Ucria", con la descrizione della folla che accorre a gustarsi una barbara esecuzione di piazza; si potrebbe anche ricordare loro che il percorso allucinante, da incubo, di un innocente che finisce in arresto e sotto processo ce lo ha già raccontato Kafka. Per concludere: ma perché accade tutto questo? Perché mai è così facile, da parte dei media, alimentare (irresponsabilmente, visto che chi detiene il megafono televisivo avrebbe l'obbligo della massima prudenza) il colpevolismo acritico e viscerale, e addirittura l'odio, il linciaggio verbale che potrebbe persino diventare linciaggio fisico, se gli imputati finissero nelle mani della folla (come si vede, ripeto, dagli applausi, gli insulti e gli sputi agli arresti)? Anche qui il mondo antico ci può suggerire delle risposte: forse per lo stesso motivo antropologico, per le medesime pulsioni che facevano accorrere il popolo agli spettacoli di sangue dell'arena (utile rileggere l'epistola 7 di Seneca), e forse anche per il medesimo istinto e intento autopurificatorio, anch'esso di notevole interesse antropologico, per cui una città proiettava sul malcapitato di turno (il pharmakòs, una vittima sacrificale predestinata), tutti i mali che voleva stornare da sé: versione mitigata e divenuta quasi simbolica, secondo alcuni, di un precedente uso dei sacrifici umani. L'espulsione violenta del poveretto dalla comunità, attuata con umilianti gesti di maltrattamento rituale, aveva una funzione espiatoria di chiara valenza apotropaica. Forse illustrare tutto questo alle generazioni che cerchiamo di educare non guasterebbe.
Bossetti, il processo è social. Avvocati su Facebook (e tv). Dopo le udienze, subito l’analisi per il popolo del web, scrive Giuliana Ubbiali su “Il Corriere della Sera”. Prima l’udienza, dove le domande ai testimoni devono rispettare le regole del diritto e non c’è spazio per i commenti. Subito dopo Facebook e la tivù, dove il linguaggio per il pubblico è libero dai paletti della procedura penale. La difesa di Massimo Bossetti combatte la sua battaglia in due processi paralleli. Quello vero, giudiziario, l’unico che stabilirà se l’imputato ha ucciso o no Yara, e quello mediatico. «Lei continua a sollecitarlo, ma diremo solo nelle conclusioni perché per noi è importante». Così, all’udienza di venerdì, l’avvocato Paolo Camporini ha ribattuto al pm Letizia Ruggeri che stoppava le sue domande sul telefonino di Yara, mai trovato, al consulente informatico dell’accusa. Come a voler dire: «Non scopriamo le nostre mosse». Al termine della scorsa e della precedente udienza, però, la difesa ha dato sfogo all’analisi dei dati processuali via telecamere e sul web. E di fatto ha abbozzato dove vuole arrivare: far traballare con il dubbio quelli che per l’accusa sono punti fermi. Venerdì 11 settembre, dopo dieci ore di processo, Camporini e il collega Claudio Salvagni erano in televisione. Ore 21.08: «E ora Quarto Grado», scriveva Salvagni agli amici (1.157) di Facebook. Così, è andata in scena l’analisi del processo. A partire dal ritratto di Yara, «peperina» e istruita a non dare confidenza agli sconosciuti, fatto da mamma Maura e papà Fulvio. «Abbiamo voluto dimostrate l’atteggiamento di Yara anche a una richiesta di semplice passaggio ed è emerso un quadro di assoluta diffidenza». Per gli avvocati si traduce in: «Quindi non avrebbe mai dato retta a Bossetti». Uno sconosciuto. Nel computer, nel diario e nelle confidenze di Yara alle amiche, infatti, non c’è traccia di lui. Solo l’assassino sa se la bambina si è lasciata avvicinare, oppure se l’ha rapita. Un buco nero che per l’accusa, però, non indebolisce la prova principale: il Dna di Bossetti sugli slip e sui leggings della vittima, in corrispondenza di un taglio. Il Dna, appunto. La difesa insiste su quello che l’istruttrice di ginnastica ha lasciato su una manica del giubbotto di Yara: «Non ha spiegato perché fosse lì», dice Salvagni alle telecamere. Ma per il pm è spiegabile con un contatto giustificato dalla conoscenza. Venerdì stesso copione. in Facebook. «Nessuno ha visto uscire Yara dalla palestra. Resta aperta quindi l’ipotesi che possa essersi diretta verso il corridoio degli spogliatoi», il post dell’avvocato. Il riferimento è alla testimonianza di Fabrizio Francese, che incrociò Yara nel corridoio della palestra. Ma l’uomo è sicuro che stesse uscendo: «Camminava a passo spedito, non mi sono voltato ma se avesse sterzato per gli spogliatoi me ne sarei accorto». Altro commento su Ilario Scotti, l’aeromodellista che ritrovò il corpo «tra i rovi» nel campo di Chignolo: «In quel campo, al buio, verosimilmente bagnato, non era possibile un “inseguimento” senza cadere a terra e riportare tagli sui vestiti». Per la difesa, Yara è stata uccisa altrove. Un’ipotesi smentita dall’autopsia: la bambina stringeva un ciuffo d’erba nella mano destra, l’ultimo spasmo, e un arbusto era cresciuto attorcigliandosi attorno alla caviglia destra.
Al termine dell'udienza di venerdì, Bossetti si è girato verso i suoi sostenitori e ha mimato il gesto della bottiglia. Come a dire "quando esco da qua vi offrirò da bere per ringraziarvi". Poi ha mandato un bacio alla sorella Letizia.
Yara, Bossetti ringrazia i sostenitori in tribunale: "Vi offrirò da bere", scrive “Bergamo News”. "Con quel gesto ha voluto ringraziarci per il sostegno che gli stiamo dando". Il 45enne Ivan di Treviglio è uno dei sostenitori di Massimo Giuseppe Bossetti, il carpentiere di Mapello a processo per il brutale omicidio della tredicenne Yara Gambirasio. Sono in diversi che dalla prima udienza del procedimento che si sta celebrando al tribunale di via Borfuro a Bergamo, hanno prenotato un posto tra il pubblico per ascoltare le varie deposizioni. Con una convinzione: Bossetti è innocente. Una tesi portata avanti anche attraverso diversi gruppi creati su Facebook e una serie di post pubblicati sulla bacheca di Cludio Salvagni, uno dei due avvocati del carpentiere. E al termine dell'udienza di venerdì scorso, Bossetti, prima di abbandonare l'aula scortato dagli agenti di polizia, si è girato verso la zona occupata dai suoi sostenitori, ha sorriso, e con un pugno chiuso verso la bocca e il pollice e il mignolo alzato, ha mimato il gesto della bottiglia. Come a dire "quando esco da qua vi offrirò da bere per ringraziarvi di quello che state facendo per me". "Non ci conosciamo e non ci siamo parlati - racconta Ivan di Treviglio, uno dei più attivi del gruppo "Pro-Bossetti" - ma lui ha capito che siamo qua per lui e che crediamo nella sua innocenza. L'altra volta, invece, durante l'udienza in cui hanno deposto i genitori di Yara e che si è conclusa in serata, a un certo punto ci ha fatto un cenno con la mano come a dire "quanto è lunga...". Son gesti che per noi significano molto. Io per seguire tutte le udienze, prendo giorni di permesso al lavoro. Non posso mancare in aula". Con lui anche Luca, 50enne che arriva a Bergamo dal Piemonte: "Siamo convinti che Massimo non c'entri nulla con questo delitto. Speriamo tanto che alla fine la verità venga a galla. Anche io lo sostengo e vengo qua ogni volta". Nelle precedenti udienze si era vista anche gente da Napoli e da Trento, alcuni anche con striscioni che inneggiavano all'innocenza del carpentiere di Mapello. Ma Bossetti non saluta solo i suoi sostenitori. Ogni volta, quando entra in aula scortato dalle guardie, si gira verso il numeroso pubblico presente, composto anche da tanti giornalisti, e con un gesto della mano manda un saluto alla folla. Un pensiero particolare, invece, è riservato alla sorella Letizia, che non essendo chiamata a testimoniare, può assistere al processo. E che non si è mai persa un'udienza finora. Bossetti, appena entrato, si gira verso di lei, le fa un sorriso e le manda un bacio. "Sono felice perchè il processo sta prendendo la piega che speravamo", commenta entusiasta la donna all'uscita dall'aula. Prima di chiamare la mamma per dirle come è andata l'udienza e che il suo Massimo sta bene.
23 SETTEMBRE 2015: QUINTA UDIENZA. PARLA MICHELE LORUSSO.
Massimo Bossetti è di nuovo in aula. Il processo entra nel vivo con la testimonianza del colonnello Michele Lorusso, comandante del Raggruppamento operativo speciale dei carabinieri di Brescia. Si torna in aula, oggi, con una nuova udienza del processo a carico di Massimo Bossetti, presunto assassino della tredicenne Yara Gambirasio. Dopo la ricostruzione delle ultime ore della ragazzina, è il momento degli investigatori: Gianpaolo Bonafini (Capo di Gabinetto della questura di Venezia, che all'epoca era capo della Squadra mobile di Bergamo e aveva iniziato le indagini al locale di Chignolo vicino al luogo del ritrovamento del corpo) e il colonnello Michele Lorusso dei Ros di Brescia (che ha seguito la pista del dna nel corso delle indagini). Maglioncino lilla e jeans, sempre abbronzato approfittando dell'ora d'aria nel cortile del carcere, il muratore segue impassibile l'udienza seduto accanto ai suoi avvocati. E si rivolge al loro con un moti d'irritazione quando la pm Letizia Ruggeri racconta delle sue "criticità coniugali", delle relazioni della moglie Marita Comi e soprattutto del giorno in cui gli hanno messo le manette ai polsi.
La cronaca della giornata secondo il resoconto dei giornali tra cui “L’Eco di Bergamo”.
Ore 9,35. La quarta udienza al presunto assassino di Yara Gambirasio sta per iniziare: arrivano gli avvocati. L’imputato non si è visto, probabilmente è stato fatto passare da un ingresso laterale del Tribunale di via Borfuro. All’esterno erano in attesa troupe televisive e ancora una volta tanti giornalisti, anche se il numero sembra decisamente più ridotto rispetto alle udienze precedenti. Cosa è previsto. Lorusso e Bonafini sono due fra gli investigatori che più hanno contribuito alle indagini coordinate dal pubblico ministero Letizia Ruggeri. Nelle prime udienze invece - nell’aula della Corte d’Assise presieduta dal giudice Antonella Bertoja - erano stati sentiti testimoni che hanno contribuito a ricostruire la vita di Yara e la sua ultima giornata. La deposizione dell’ex dirigente della squadra mobile della questura di Bergamo è stata spostata al 2 ottobre. Quella del colonnello Lorusso è stata invece lunga e dettagliata (tutti i dettagli a seguire) e poi toccherà alle domande degli avvocati della difesa e alle parti civili. Bonafini era a capo della squadra mobile quando fu compiuto il blitz all’interno della discoteca Sabbie Mobili di Chignolo d’Isola, di fronte al campo in cui poco tempo prima era stata trovato il corpo di Yara Gambirasio. Quella retata fu decisiva per le indagini: infatti dall’elenco degli oltre 30 mila iscritti al club (la discoteca funzionava come un circolo privato con tessera d’ingresso) venne estrapolato un elenco di giovani della zona da sottoporre a test del Dna. Fra questi nomi comparve anche quello di Damiano Guerinoni. Il suo profilo biologico risultò poi sorprendentemente simile (sebbene non corrispondente) a quello di Ignoto 1, l’individuo misterioso che aveva lasciato una traccia sugli indumenti della vittima. In particolare la somiglianza riguardava il cromosoma Y, che si trasmette per via patrilineare. Ne scaturì una mastodontica indagine risalendo attraverso il ceppo familiare Guerinoni, arrivando fino a Gorno e concludendo che Giuseppe Guerinoni, un conducente di autobus morto nel 1999, era il padre biologico del presunto assassino. Lo Russo ha ha spiegato che il muratore la sera del rapimento era nella zona della palestra di Brembate Sopra, e il suo cellulare aveva agganciato la cella del paese per molto tempo. Non era andato dal commercialista, come aveva detto, e non aveva risposto a ripetute chiamate del fratello. Dalle indagini è emerso anche che Bossetti si assentava spesso dal cantiere di Palazzago in cui lavorava con scuse legate alle sue condizioni di salute. Lorusso ha poi ricordato il giorno dell'arresto: "Il nostro personale in borghese ha finto di cercare un extracomunitario in nero, ma l'imputato ha capito e ha cercato di fuggire". Nella successiva perquisizione a casa sua è stata trovata la documentazione legata alla contabilità nel sottotetto, ma due bolle di accompagnamento erano nel comodino della camera da letto: una del 26 novembre 2010 (giorno della scomparsa di Yara) e una del 9 dicembre per un metro cubo di sabbia in una ditta di Chignolo. «Arrestammo subito Bossetti perché temevamo che potesse commettere qualche atto autolesionistico o contro la sua famiglia», scrive “Bergamo Post”. Il colonnello del Ros Michele Lorusso spiega così, in aula, il motivo del fermo scattato il 16 giugno 2014, dopo un solo giorno di pedinamento di quello che fino a 48 ore prima era noto come Ignoto 1. È la sua testimonianza ad aprire la quarta giornata di udienze per il processo relativo alla morte di Yara Gambirasio. «Seguendo Bossetti ricavammo l’impressione di una famiglia normale, in cui regnava molta armonia. Perciò ci preoccupammo che il sentore di essere sotto inchiesta, dopo quattro anni, potesse destabilizzarlo». Ma secondo la pm Letizia Ruggeri la famiglia Bossetti tanto normale non doveva essere, visto che ha insistito su due presunti tradimenti della moglie Marita. Proprio a fine novembre 2010, a cavallo della sparizione di Yara, i due coniugi non si parlarono al telefono per otto giorni. E il possibile movente secondo la Ruggeri potrebbe essere proprio questo: «Un rapporto insoddisfacente potrebbe aver spinto l’imputato alla ricerca di alternative, tra ragazzine o donne adulte». Una tesi che provoca le proteste della difesa e un richiamo della Corte. «Prendiamo in considerazione solo i fatti precedenti al delitto», ammonisce la presidente Bertoja. Lorusso, nella sua deposizione fiume, torna anche sulla pista del dna. «Sugli indumenti di Yara c’erano quattro profili. Ma il più interessante era quello sugli slip: il Ris ci disse che poteva averlo lasciato solo l’aggressore».
Ore 10,45. Il colonnello Michele Lorusso ha illustrato il sistema denominato «Carro», utilizzato nelle intercettazioni e in grado di dire in tempo reale se un telefonino, in linea di massima, è acceso e in quale macro area geografica si trova. Durante la sua testimonianza ha ripercorso i dati relativi al traffico del telefonino di Yara, fino agli ultimi sms. Lo spegnimento, ha confermato Lorusso, è avvenuto fra le 18,55 e le 19,11. All’inizio, ha spiegato il colonnello Lorusso, le indagini si sono concentrate sull’ambiente della palestra, sull’istruttrice di Yara, Silvia Brena, che oggi ha 25 anni, e anche su altre persone che gravitavano intorno all’ambiente della ginnastica, ma non è emerso nulla. Quando è stato rinvenuto il corpo di Yara, nel campo di Chignolo d’Isola, è stato trovato abbondante Dna di Silvia Brena sul giubbino della ginnasta tredicenne. «Silvia Brena è stata intercettata, così come il fratello dell’istruttrice. Tutto ciò che hanno raccontato è stato verificato — ha spiegato in aula il colonnello Lorusso — e il loro racconto è stato giudicato coerente. Si è capito che entrambi non c’entravano nulla con la scomparsa di Yara».
Ore 11. Il processo si ferma per una pausa.
Ore 12. In aula vengono mostrate immagini dei guanti, degli slip e dei leggins di Yara. Un passaggio che Bossetti ha seguito con attenzione. In precedenza il colonnello Lorusso ha spiegato che sul corpo erano stati individuati quattro Dna: uno era solo era stato identificato come dell’insegnante di ginnastica Silvia Brena. Secondo il colonnello l’assassino doveva conoscere bene la zona di Chignolo d’Isola, dove è stato ritrovato il corpo, perché è difficile raggiungere. In precedenza Lorusso aveva ripercorso tutto quello che è emerso dal cellulare della ragazzina uccisa: sms, spostamenti, celle agganciate. L’intera rubrica e i contatti degli ultimi due anni erano stati passati al setaccio.
Ore 12,45. Il colonnello Lorusso ricostruisce nel dettaglio tutte le indagini. Da quelle sulla discoteca Sabbie Mobili si è risaliti a Damiano Guerinoni, nipote di Giuseppe Guerinoni, poi identificato come il padre naturale di Ignoto 1. Questo è stato possibile grazie al modello realizzato dall’Università di Tor Vergata. Da Guerinoni si è poi arrivati a Ester, la madre di Massimo Bossetti. Già a quel punto gli investigatori sapevano che la persona che stavano cercando aveva gli occhi azzurri o verdi.
Ore 13,30. La svolta - ha spiegato il colonnello Lorusso - fu a partire dai Dna prelevati tra i 31 mila frequentatori della discoteca Sabbie Mobili di Chignolo d’Isola, nei pressi della quale dove fu trovato il corpo della ragazza. Poi l’analisi dei registri anagrafici portò a una rosa che comprendeva anche Ester Arzuffi, madre di Bossetti, che tempo prima volontariamente si era sottoposta al test: così gli investigatori giunsero alla certezza che era la madre di Ignoto1. Da qui l'ipotesi di un figlio illegittimo di Giuseppe Guerinoni e uno screening delle donne che potenzialmente potevano aver avuto relazioni con lui. L'analisi dei registri anagrafici portò a una rosa che comprendeva anche Ester Arzuffi, madre di Bossetti, la quale, per un periodo aveva vissuto a Parre, dove abitava anche Guerinoni, prima che i Bossetti si trasferissero a Brembate di Sopra. Quindi cominciarono a concentrare l’attenzione su Massimo, e non sulla sorella gemella e sul fratello di cinque anni più giovane, perché il muratore era nato in un periodo in cui Guerinoni e la Arzuffi potevano essersi frequentati e poiché il Dna a loro disposizione era quello di un uomo «con gli occhi azzurri o verdi». Poi il prelievo del Dna al muratore, nel corso di un controllo stradale simulato, con la prova dell’alcol test: dunque la comparazione con quello della madre e il fermo, il 16 giugno dell’anno scorso. Bossetti, in aula, ha seguito seguendo con attenzione il resoconto dell’ufficiale. Durante una pausa dell’udienza, mentre era in gabbia, ha colto un cenno dei cronisti e si è avvicinato come se volesse dire qualcosa, ma poi ha desistito.
Ore 14. Il processo si ferma per la pausa pranzo con la certezza che l’ex dirigente della squadra mobile della questura di Bergamo, Gianpaolo Bonafini, non sarà ascoltato.
Ore 15. Quanto al furgone Daily ripreso dalle telecamere, il colonnello ha tagliato corto: «Abbiamo analizzato 4mila mezzi, concludendo che non poteva essere altri che quello dell’imputato». Sono poi spuntate due bolle d’accompagnamento che Bossetti teneva in camera, non insieme al resto della contabilità. Una riguardava l’acquisto di materiale edile proprio il 26 novembre, di mattina. L’altra il famoso metro cubo di sabbia, comprato il 9 dicembre. Secondo Lorusso, Bossetti lo acquistò solo per avere il pretesto di passare da Chignolo d’Isola, dove ancora giaceva il cadavere. Quanto al misterioso personaggio che fissava Ilario Scotti subito dopo il ritrovamento della tredicenne, l’ufficiale ha ammesso che «non è mai stato identificato». L’ex comandante del Ros di Brescia, Michele Lorusso ha ricordato che il furgone cassonato Daily Iveco, che gli investigatori ritengono fosse di Massimo Bossetti, fu ripreso 6 volte dalle 18 alle 19,51 dalle telecamere di sorveglianza nei pressi della palestra da cui scomparve Yara. Alla certezza che quel furgone era quello del muratore, ha raccontato l’ufficiale, gli investigatori arrivarono attraverso uno screening condotto con l’aiuto del Ris e degli ingegneri progettisti della Iveco. Furono analizzati tutti i modelli immessi sul mercato dal ’99 al 2006, quando il muratore acquistò il furgone individuandone 20 mila: sono stati eliminati quelli che avevano caratteristiche incompatibili, riducendo la rosa a 4.500 mezzi. Questi 4.500 furono fotografati e chi ne aveva la disponibilità fu sentito a verbale. Ne emerse un cerchio ristretto di 5 mezzi (fra cui quello di Bossetti). Furono sentiti gli altri 4 proprietari e, confrontate le loro testimonianze con le risultanze dei loro tabulati telefonici, risultò che i 4 non potevano essere nella zona di Brembate il 26 novembre del 2010. Nell'ambito dell'inchiesta, dopo il fermo di Bossetti, era anche stato risentito un testimone che, già nel 2010, aveva raccontato della presenza, quel pomeriggio, di un furgone con caratteristiche simili a quello del muratore. Tra le altre circostanze raccontate da Lorusso, su domanda del Pm Letizia Ruggeri, un prelievo effettuato da Bossetti in una banca di via Locatelli, nei pressi della palestra e della abitazione di Yara il 4 dicembre del 2010, giorno del fermo di Mohamed Fikri, il marocchino coinvolto e poi scagionato nelle fasi iniziali dell'inchiesta. Quello risulta l'unico prelievo effettuato da Bossetti a quello sportello, mentre tutti gli altri risultano effettuati in quel periodo attraverso il suo circuito bancario.
Il 16 giugno 2014 Massimo Bossetti lavora nel cantiere di Seriate. E' al secondo piano di una palazzina in costruzione in via Enrico Fermi quando arrivano polizia e carabinieri per arrestarlo, scrive Claudia Guasco su “Il Messaggero”. Ma non se ne accorge subito, non può: gli uomini delle forze dell'ordine sono in borghese e si fanno aprire i cancelli con la scusa di cercare lavoratori in nero. Prima ancora di capire cosa sta succedendo, il carpentiere di Mapello vede che puntano su di lui. "E' a questo punto che l'imputato ha un accenno di fuga e cerca di scendere dal secondo piano", spiega il comandante del Ros di Brescia. E Bossetti, che fino a questo momento ha ascoltato impassibile la deposizione, si ribella a ciò che sente: "Non è vero", dice scuotendo la testa con energia. Nel processo per l'omicidio di Yara Gambirasio è il giorno degli investigatori che hanno svolto le indagini. Dalla scomparsa della ragazzina, il 26 novembre 2010, al ritrovamento del corpo nel campo di Chignolo tre mesi più tardi, fino all'identificazione di Bossetti come Ignoto 1, ovvero l'uomo il cui dna combacia con quello repertato sugli slip e sui leggings della piccola ginnasta di Brembate. Quattro anni di inchiesta, 24 mila prelievi di dna, analisi dei tabulati dei 120 mila telefoni cellulari transitati nella zona della palestra la sera in cui Yara uscì per l'ultima volta, 20 mila furgoni passati sotto le telecamere di Brembate. Dati che, filtrati al setaccio fine degli inquirenti, hanno escluso presenze casuali e hanno stretto il cerchio attorno a Massimo Bossetti. "Ha accennato la fuga, poi si è avvalso della facoltà di non rispondere", afferma il colonnello Lorusso. E non è l'unico comportamento singolare rilevato dagli investigatori. Il giorno della scomparsa di Yara non pranza alla solita trattoria, abbandona il cantiere di Palazzago e va a comprare del materiale "la cui importanza non giustifica l'allontanamento dal posto i lavoro", sostiene l'accusa: una giacca da manovale, una matita e due cazzuole. Il 9 dicembre 2012 acquista un metro cubo di sabbia da un rivenditore proprio a Chignolo, che non è nella lista dei fornitori, il 4 dicembre 2010, dopo che nella notte è stato fermato il marocchino Mohamed Fikri ritenuto per un clamoroso errore giudiziario l'assassino di Yara, preleva denaro nella banca di via Rampinelli, a duecento metri da casa della ragazzina. Non è il suo sportello, è la prima volta che accade e non succederà mai più. "Una coincidenza strana, proprio in concomitanza con uno snodo delle indagini", sottolinea la pm Ruggeri. Ed è proprio nel rettangolo di indagini tra la palestra e casa Gambirasio che Bossetti si aggira il 26 novembre di cinque anni fa. Le telecamere della zona registrano il suo passaggio in rapida successione per ben sei volte: ore 18 al distributore Shell, cinque minuti dopo alla banca di via Rampinelli, 18,19 di nuovo alla Shell, tra le 18,40 e le 18,47 punta verso il centro, alle 19,51 è sempre la telecamera del distributore a immortalare il suo inconfondibile furgone cassonato. C'è anche un supertestimone che vede l'Iveco: è Federico Fenili, ascoltato due volte dagli inquirenti nel 2010 e convocato di nuovo in seguito al fermo. E descrive il mezzo con precisione. Alle 17,45 di quel venerdì pomeriggio Bossetti chiama il cognato, agganciando la cella di Mapello (Brembate), poi il suo telefono resterà spento fino alla mattina successiva. "Ciò funziona come un alibi all'incontrario: esclude che l'imputato si trovasse in un luogo a distanza tale da non poter raggiungere la palestra nel momento della scomparsa di Yara", afferma il comandante del Ros.
Ore 17. Quando fu ritrovato il corpo di Yara Gambirasio, il 26 febbraio del 2011 nel campo di Chignolo d’Isola, la ragazza «stringeva in pugno dell’erba ancora radicata a terra». Lo ha ricordato l’ex comandante del Ros di Brescia, Michele Lorusso, rispondendo alle domande degli avvocati di Massimo Bossetti nel corso del processo al muratore di Mapello. Un dettaglio, quello ricordato dall’ufficiale e documentato da alcune fotografie, che indicherebbe come la ragazza fosse stata uccisa proprio in quel campo. Una delle circostanze che, invece, la difesa mette in dubbio.
Una deposizione di cinque ore, quella di Lorusso, che di fatto ha puntellato il castello delle accuse, con qualche dettaglio inedito. Le risposte del colonnello Michele Lorusso, comandante dei carabinieri del Ros di Brescia ricompongono il puzzle di un’inchiesta elefantiaca, fatta da una piramide di dati, cifre, intercettazioni, foto e strisce di telecamere, scrive “L’eco di Bergamo”. «Un’inchiesta pazzesca» l’ha definita tempo fa la pm Ruggeri. I fatti lo dimostrano. Per dare un nome a Ignoto 1, i militari del Ros hanno dovuto ripercorrere l’albero genealogico dei Guerinoni fino all’anno Domini 1715 e per dare consistenza all’accusa hanno messo nei faldoni anche le foto postate dall’imputato su Facebook. Dalla puntuale ricostruzione degli ultimi sms e delle telefonate fra Yara e un’amica si è passato agli esperimenti di cronometraggio per capire i movimenti di chi la vide per l’ultima volta in palestra. Quanto alle telecamere, Lorusso ha confermato che «nessuna è riuscita a targare i mezzi», ma ha aggiunto come si è giunti a stabilire i «ripetuti passaggi del furgone di Bossetti» attorno alla palestra. La deposizione è poi approdata al giorno del ritrovamento del cadavere «in un campo impervio», all’analisi dei vestiti di Yara e di quella tasca che conteneva tutto: chiavi, batteria del cellulare, iPod, guanti e sim del telefonino. Ma l’attenzione in un silenzio spettrale è stata fissata sugli indumenti intimi della tredicenne. Il colonnello dei Ros si è soffermato sui 4 profili genetici trovati sul corpo di Yara: uno noto, quello di un’insegnante della palestra, Silvia Brena, gli altri 3 ignoti: due su due dita dei guanti, uno sullo slip della ginnasta. Quest’ultimo «non può che essere dell’aggressore» ha sentenziato Lorusso. «Ormai è chiaro – insinuano gli avvocati – l’accusa vuol sostenere che Bossetti e Yara si conoscevano, ma le testimonianze sono di segno opposto». Il profilo della vittima stilato dal Racis (unità analisi crimini violenti) – fanno notare i legali – parla di una ragazzina che non avrebbe mai frequentato un quarantenne. «Una ragazzina che difficilmente si sarebbe messa nei guai», conferma Lorusso rispondendo agli avvocati. L’utenza di Bossetti – insiste la difesa – compare nei tabulati telefonici di Yara? «No». E nei computer? «Neppure». L’arma del delitto non è stata trovata, così come il «corpo» del telefono di Yara, che potrebbe custodire segreti.
La crisi di coppia come movente. Bossetti, scontro tra pm e legali. Nuovo scontro tra il pm Letizia Ruggeri e i difensori di Bossetti sull’ipotetico movente del delitto di Yara. Per la Procura è da ricercare nell’interesse sessuale che l’imputato avrebbe dimostrato verso le ragazzine («Sul computer portatile di casa Bossetti – ha confermato in aula il comandante dei Ros, Michele Lorusso – abbiamo trovato ricerche inequivocabili con parole chiave come “tredicenni” e “ragazzine” accostate a dettagli di natura sessuale») e nei rapporti «non costantemente armoniosi» tra il muratore e la moglie, testimoniati da «periodi di assenza di comunicazioni telefoniche, anche nei giorni a cavallo del delitto – ha illustrato Lorusso, sollecitato dal pm – e da relazioni extraconiugali intrattenute dalla donna prima e dopo i fatti». Il riferimento alla vita coniugale dell’imputato e della consorte Marita Comi fa sobbalzare sulla sedia i difensori Paolo Camporini e Claudio Salvagni che in coro gridano: «Obiezione!». «È da quando ho assunto l’incarico – Camporini si rivolge alla Corte – che mi interrogo: che pertinenza c’è tra l’imputazione di omicidio e questo accertamento istruttorio? Dal punto di vista temporale è irrilevante perché si tratta di fatti che sarebbero avvenuti abbondantemente dopo o molto prima dell’omicidio»: Il pm Letizia Ruggeri chiarisce indispettita: «L’insoddisfazione per la vita coniugale può aver spinto Bossetti a cercare alternative». La Corte si è riservata sulla rilevanza di sentire come testimoni i due uomini che avrebbero avuto una relazione con Marita, citati dalla pubblica accusa e già sentiti a verbale nel corso delle indagini, mentre ha già respinto l’acquisizione di elementi di riscontro che riguarderebbero circostanze successive all’epoca dell’omicidio, ritenendole irrilevanti. La presidente della Corte, Antonella Bertoja, lo ha ribadito: «Se la crisi di coppia è l’ipotetico movente del delitto che l’accusa vuole sostenere, non può certo essere successiva ai fatti di cui ci stiamo occupando. Il rilievo non può che riguardare fatti antecedenti all’omicidio». «Era una dinamica di coppia presente prima e dopo», ha sostenuto Lorusso. Una cosa appare ormai chiara: la battaglia sul punto tra accusa e difesa sarà una costante del processo.
Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".
Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Cms sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".
Le fatture sospette che inchiodano Bossetti: perché le nascondeva? Il muratore le teneva separate dal resto: una è stata emessa il giorno della scomparsa di Yara, l'altra nel campo dove fu trovato il corpo, scrive Chiara Sarra su “Il Giornale”. Mentre prosegue il processo a Massimo Bossetti, spuntano altri indizi che rischiano di mettere all'angolo l'unico imputato per il delitto di Yara Gambirasio. Il 23 luglio 2014, infatti, carabinieri e polizia hanno messo sottosopra la casa del muratore di Mapello alla ricerca di documenti e prove che possano aiutare a ricostruire i suoi movimenti nel giorno in cui fu uccisa la giovane ginnasta. Gli inquirenti passano al setaccio ogni cosa, vestiti, ricevute, bollette, supporti informatici e telefonini. Ma - ricostruisce un servizio di Quarto Grado andato in onda il 28 settembre 2015 - la loro attenzione viene catturata soprattutto da due bolle d'accompagnamento conservate in camera da letto e non insieme al resto della documentazione fiscale. Una riguarda l'acquisto di una giacca e di altro materiale da muratore avvenuto a Villa d'Adda (Bergamo) proprio il 26 novembre 2010 - giorno della scomparsa della tredicenne -, l'altra l'acquisto di sabbia in una ditta di Chignolo d'Isola - non lontano dal campo dove fu ritrovato il corpo della ragazzina - risalente al 9 dicembre 2010. Perché Bossetti le teneva separate dal resto? Che volesse nascondere qualcosa? I suoi legali sostengono che in camera non c'erano solo le due bolle sospette, ma anche altre ricevute, come quella della tassa sui rifiuti. Inoltre gli acquisti a Villa d'Adda e a Chignolo d'Isola erano stati regolarmente dichiarati al commercialista, segno che l'uomo non avesse nulla da temere.
Yara, inchiesta incompiuta. Mancano arma e movente. Il Dna potrebbe non bastare per incastrare il presunto assassino: non è escluso sia stato contaminato. E i tabulati telefonici non provano nulla, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Più che il 99 e rotti per cento sulla compatibilità del Dna, l'unica vera certezza nelle indagini sull'uccisione di Yara Gambirasio è che siamo di nuovo all'inizio dell'inchiesta. Se non c'è dubbio sul Dna, restano tuttavia moltissimi elementi da chiarire: mancano il movente, l'arma del delitto, una ricostruzione di quei tragici fatti. Il quadro investigativo è una tela bianca. E anche gli elementi-chiave in mano agli inquirenti contro Massimo Giuseppe Bossetti, il 43enne muratore di Mapello in carcere da lunedì per l'omicidio, presentano rovesci della medaglia che la difesa dell'indagato potrebbe volgere a proprio favore.
Il Dna. Gli investigatori ne sono certi: il Dna di «Ignoto 1» è quello di Massimo Giuseppe Bossetti. Esiste una piena compatibilità di 21 marcatori quando, nelle indagini di genetica forense, ne vengono considerati sufficienti 16/17. Il Dna è un semplice indizio o una prova? La questione non è chiara. Perché il materiale biologico di Bossetti si trovava su leggings e slip di Yara? L'uomo non se lo spiega. Ma la difesa potrebbe eccepire su altro. Le tracce da analizzare dovrebbero essere prelevate in un ambiente non contaminato, mentre il corpo di Yara è rimasto all'aperto nel campo di Chignolo d'Isola per tre mesi. E da quale liquido organico è stato estratto il Dna? Mistero. Esclusi sperma, saliva e sudore, si ritiene si tratti di sangue soltanto per deduzione. La natura del materiale biologico esaminato non si conosce e non si conoscerà mai, perché le tracce di Dna erano talmente microscopiche da essersi esaurite. E così non si potranno effettuare altre verifiche, neppure in sede processuale.
La polvere di calce. Negli indumenti e nei polmoni di Yara sono state ritrovate «polveri riconducibili a calce», materiale largamente usato nell'edilizia. Secondo gli investigatori sarebbe escluso che la ragazza le abbia inalate a casa, in palestra, in piscina o nel campo dove è morta. Bossetti fa il muratore, dunque maneggia abitualmente sacchi di calce. Ma anche il papà di Yara lavora, come geometra, nel campo dell'edilizia.
I tabulati telefonici. Il telefonino di Yara (che non è stato ritrovato) riceve l'ultimo sms da un'amica alle 18,49. Un'ora prima, alle 17,45 il telefonino di Bossetti è agganciato alla stessa cella di via Natta a Mapello: il muratore parla con il cognato. Poi l'apparecchio si spegne fino alle 7,44 del giorno dopo: Bossetti dice che era scarico. Ciò tuttavia non prova che l'uomo si trovasse a contatto con Yara, perché la cella cui sono agganciati i due telefonini copre sia la zona della palestra di Brembate sia la casa di Bossetti a Piana di Mapello, a 7 chilometri di distanza. E il telefonino di Bossetti non aggancia l'area di Chignolo d'Isola dove è stato ritrovato il corpo. Ma se il telefonino di Bossetti si trovava nei pressi di quello di Yara, come mai gli investigatori non hanno convocato Bossetti quando hanno condotto il massiccio «screening» sul Dna di 18mila bergamaschi?
La presenza a Brembate. Secondo vari negozianti Bossetti si recava spesso a Brembate ed era loro cliente: l'hanno testimoniato, tra gli altri, un barista e la titolare del centro estetico dove l'uomo si abbronzava. Il fratellino di Yara ha raccontato che lei era pedinata da un uomo «che aveva la barbettina appena tagliata e una macchina grigia lunga». Ma Brembate era meta frequente di Bossetti: ha abitato in paese fino al matrimonio e lì risiedono il fratello Fabio e vari amici. Non c'è traccia di frequentazione con la famiglia di Yara ed è escluso che Bossetti frequentasse la stessa palestra. La testimonianza del fratellino è contraddittoria, perché egli ha anche riferito che il pedinatore era «cicciottello» e non ha riconosciuto Bossetti quando gli sono state mostrate le foto.
I peli sul corpo di Yara non sono di Bossetti". I risultati sui reperti piliferi avrebbero escluso il codice genetico del presunto assassino, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. I peli ritrovati sugli indumenti di Yara Gambirasio non appartengono a Massimo Bossetti. La notizia, che era già circolata nei giorni scorsi, è stata adesso confermata dai risultati sui reperti piliferi. Eppure, alle 22.50 del 26 febbraio 2011, giorno del ritrovamento del cadavere della ragazzina nel campo di Chignolo d’Isola, in via Bedeschi, il cellulare del presunto assassino agganciò la cella del Campo di Chignolo, dove avrebbe telefonato alla madre Ester per invitarla a raggiungerlo. Le indagini continuano con un ritmo serrato. Ma gli inquirenti non sono ancora venuti a capo del mistero. Ad oggi Bossetti è l'unico presunto assassino. Nelle ultime ore, però, i risultati sui reperti piliferi avrebbero escluso il codice genetico del muratore di Mapello. Risalendo a circa quattro anni fa e mancando quindi il bulbo pilifero, sui peli ritrovati non è stato possibile fare il match nucleare che consente di tracciare il ceppo famigliare. Va tuttavia ricordato che su leggins di Yara siano state ritrovate macchie di sangue appartenenti proprio a Bossetti. Non solo. Secondo la trasmissione Segreti e delitti su Canale 5, quando venne ritrovato il cadavere di Yara, il cellulare di Bossetti agganciò la cella del Campo di Chignolo. Il 26 febbraio 2011, intorno alle 23.45, l’inviata Gabriella Simoni era in collegamento con Live di Italia 1 per uno speciale sul caso Gambirasio. "Alle sue spalle - sostiene Segreti e Delitti - camminava, parlava con gli uomini della Protezione Civile e telefonava al cellulare un uomo che, per statura, andatura, attaccatura di capelli, barba e fisionomia, ricorda Bossetti". Nella nota la trasmissione di Canale 5 spiega anche di aver mostrato per la prima volta il furgone di Bossetti in un video esclusivo realizzato il giorno del fermo dell’uomo. Dopo il passaggio di macchine di carabinieri e polizia a sirene spiegate, transita il furgone appena sequestrato: "Il mezzo presenta le luci sul tetto come il furgone ripreso dalla telecamera di sorveglianza della banca nei pressi della palestra di Brembate".
Yara, il messaggio di Bossetti alla moglie: "Saprò perdonare i tradimenti". Massimo Bossetti ha scritto e poi consegnato una lettera nelle mani dello psichiatra Alessandro Meluzzi, il quale ha incontrato in carcere il presunto killer di Yara Gambirasio, scrive “Today” del 25 luglio 2015. “Pensando alla mia libertà, non è più il mio destino che mi preoccupa, ma quello dei miei cari, delle persone che ho sempre amato e che più amo al mondo, mia moglie e i miei adorabili cuccioli". Lo scrive Massimo Bossetti, da oltre un anno in carcere e sotto processo perché ritenuto l'assassino di Yara Gambirasio, in una lettera consegnata nelle mani dello psichiatra Alessandro Meluzzi, il quale lo ha incontrato in prigione il giorno successivo il presunto tentativo di suicidio effettuato dall’uomo lo scorso 22 luglio. Meluzzi ha letto stralci del documento durante "Segreti e Delitti" su Canale 5: "Il coraggio e la forza consiste nel prendere di petto questa mia drammatica situazione, soprattutto familiare, e affrontarla con la massima decisione e discrezione. Ora, con tutti i grossi e duri colpi che ho incassato e che continuo a ricevere, devo solo pensare di salvare il salvabile" scrive Bossetti, sottolineando che "sedici anni di matrimonio non si possono di certo dimenticare, stracciare e buttar via, come se fosse una semplice comune lista su un foglio di carta qualsiasi”. "Rifiuto, da parte mia, di poter giudicare mia moglie…", dice Bossetti con riferimento alla scoperta dei tradimenti da parte della moglie Marita, ma "sarò in grado di sopportare, di perdonare anche questa mia grandissima sofferenza. Perché i figli non si possono abbandonare, anche col pensiero di essere stati tremendamente traditi. Loro non ne hanno colpa e hanno già sofferto e soffrono tuttora, in continuazione, per la mancanza della loro amata figura paterna. Non vogliono e non devono più subire perché non c’entrano assolutamente niente".
"Fatevi sentire". Le ultime notizie sul caso Yara Gambirasio arrivano ancora dal settimanale Oggi che, come riporta il sito leggo.it, parla di un presunto messaggio che il padre di Yara avrebbe lasciato nella segreteria telefonica del cellulare della figlia nel quale avrebbe pronunciato le seguenti parole "Sono passati quattro giorni...Eh...Devo cominciare a preoccuparmi? Fatti sentire. Fatevi sentire". L'indiscrezione lanciata dal settimanale Oggi deve ancora trovare conferme ufficiali, ma se davvero così fosse l'intero processo a Massimo Bossetti potrebbe subire una svolta del tutto inaspettata fino a qualche settimana fa. Un ulteriore retroscena si aggiunge al caso dell'omicidio di Yara Gambirasio. Secondo quanto riportato dal settimanale "Oggi", infatti, sembrerebbe che il padre della ragazza, abbia lasciato un messaggio alquanto ambiguo nella segreteria telefonica della figlia. Erano le 9.16 del 30 novembre del 2010, e Yara era sparita da circa 4 giorni. Suo padre, Fulvio Gambirasio, ha lasciato questo messaggio in segreteria: "Sono passati quattro giorni... Eh... Devo cominciare a preoccuparmi? Fatti sentire. Fatevi sentire". Un messaggio particolare che cela dei significati davvero misteriosi e fa sorgere delle domande spontanee: perchè dice "Fatevi sentire"? Perchè al plurale? Yara dove era andata? Quindi non era sola. Il padre nasconde qualcosa? Sicuramente dovrà giustificare e rispondere a tutte queste domande in Aula.
Tutti i dubbi sull'omicidio di Yara, i 22 misteri emersi durante il processo a Bossetti, scrive “Libero Quotidiano”. Sono tanti i dubbi che aleggiano ancora oggi sull'omicidio di Yara Gambirasio, la ragazzina di Brembate uccisa nel novembre del 2010. L'unico imputato è Massimo Bossetti, sul quale pendono sia indizi gravi ma anche incongruenze e dettagli che potrebbero scagionarlo. Nella fitta rete di incertezze in cui avanza il processo, iniziato questo settembre, il settimanale Oggi ha esaminato i misteri che riguardano la vicenda.
Vita coniugale - Nel meticoloso esame condotto da Oggi si vede innanzi tutto come i rapporti tra Bossetti e sua moglie fossero deteriorati. La donna aveva avuto due relazioni extraconiugali e i contatti telefonici con il marito, nel periodo dopo l'omicidio di Yara, si sarebbero interrotti per una settimana. "Successe altre volte - dicono gli avvocati della difesa - ma nessuno ha mai controllato".
Il Dna - Altro punto fondamentale è quello degli slip di Yara. Sulle mutande della ragazza è stato trovato infatti il Dna di Bossetti. Per l'accusa è la prova schiacciante. Per la difesa, un'incognita. Perchè sugli slip c'era anche un secondo Dna, quello di Ignoto2. Bossetti ha agito da solo o ha avuto un complice? Bisogna anche ricordare che solo un altro Dna è stato rilevato sugli indumenti di Yara: quello della maestra di ginnastica della palestra che la ragazzina frequentava. Si tratta di Silvia Brena che però è stata controllata dagli inquirenti e sulla quale non è emerso nulla. Sui vestiti della vittima c'erano anche altre 150 informazioni pilifere ma da 49 di queste non è stato possibile estrarre il Dna. Per le altre, si sa che 94 sono di Yara e le altre sette non sono né di Yara né di Bossetti. Cinque sono ignote e due hanno dei punti di convergenza con il Dna di una delle 532 donne esaminate, che però non è Ester Arzuffi, madre di Bossetti. Di chi si tratta dunque?
Le lettere anonime - Nel 2014 e nel 2015 Oggi dice di aver ricevuto delle lettere anonime che raccontano come Yara sia morta in casa di una misteriosa signora accidentalmente, colpita da un muratore polacco ubriaco. Il tutto sarebbe successo a Chignolo d'Isola e fra i presenti ci sarebbe stato anche Bossetti che per la paura sarebbe svenuto. Il polacco, in seguito, voleva parlare dell'accaduto e sarebbe stato eliminato fingendo che cadesse da un ponteggio.
I "non ricordo" - Quello che poi non torna sono anche le testimonianze delle amichette di Yara. Troppi i loro "non ricordo" in aula. Risposte strane per quelle che fino al giorno dell'omicidio si definivano le migliori amiche della vittima. Successe qualcosa nell'ambente della palestra che ora le ragazze non vogliono rivelare? E perché dal cellulare della maestra e di suo fratello sono scomparsi due messaggi? Cosa nascondono tutti? Inoltre sia la sorella di Yara, Keba, che sua zia, Nicla, sostengono di non aver mai visto Bossetti. Cosa che viene confermata anche dai cellulari di Yara e dell'imputato, fra cui non ci sarebbero mai stati contatti.
Il computer e il furgone - Il muratore ha fatto ricerche sul suo pc come "sesso" o "tredicenni" secondo quanto scoperto dagli inquirenti. Ma per la difesa "è successo tutto 3 anni dopo il delitto e quelle sono che parole flash che escono mentre si fanno ricerche hard". E tutto si complica ancora di più con la storia del furgone. Per un’ora il giorno dell'omicidio, dalle 17.42 alle 18.47, il camioncino di Bossetti ha girato attorno alla palestra in attesa di Yara, per poi ricomparire alle 19.51, dice l’accusa, mostrando le registrazioni delle telecamere di sicurezza di una banca, di un distributore e della ditta Polynt. La difesa sostiene che invece furono 4 i camioncini nella zona in quel lasso di tempo.
Il campo di Chignolo - Dubbi anche sul luogo del ritrovamento di Yara, avvenuto il 26 febbraio 2011. A trovare la ragazza in un campo a Chignolo d'Isola è stato Ilario Scotti, aereomodellista. Qui, sostiene Scotti, a causa dei rovi, è difficile camminare. L'accusa però continua a sostenere che Yara abbia provato a scappare con le scarpe slacciate. E poi, mentre Scotti chiamava la polizia, c'era uno sconosciuto, basso, calvo e sulla cinquantina, che lo ha tenuto d’occhio per un quarto d’ora. Chi era l’uomo misterioso? E perchè si è dileguano con l'arrivo delle volanti? E l'altra domanda che sorge è questa: quando è stato messo li il corpo di Yara? L'elicotterista che ha pattugliato la zona del campo di Chignolo nei giorni subito dopo la scomparsa della ragazza, dice di aver controllato più volte il luogo. "Volavo a 150 metri e a ogni oggetto scuro che vedevo, mi abbassavo per controllare cosa fosse". In più, un giardiniere che lavora in quei campi e altri lavoratori che si occupano dell'irrigazione dei terreni circostanti, e che lavoravano in quel periodo sul terreno, dicono di non aver mai notato il corpo.
Il cellulare - Non tornano neanche i fatti che riguardano il cellulare della ragazza. Yara aveva 79 numeri sulla sua Sim. Uno di questi era di un suo compagno, con cui la ragazza avrebbe scambiato ben 109 messaggi. Ma interrogato il giovane ha detto: "I messaggi? Non me li so spiegare... Non ricordo di avere mai avuto il numero di Yara... A volte prestavo il mio telefono". A chi, gli inquirenti non l'hanno mai verificato. In più quando la ragazza è scomparsa, il suo cellulare ha agganciato l'ultima volta la cella di via Ruggeri, verso Nord. Mentre il campo di Chignolo si trova a Sud, altro dettaglio che mette tutto in discussione.
I filamenti e gli sconosciuti- L'altra prova regina sono i filamenti blu, gialli, grigi e celesti rimasti impigliati sul piumino e sui leggings di Yara. Sono identici a quelli dei sedili le camioncino di Bossetti. Ma la difesa dice "Yara prendeva tutti i giorni l'autobus, anche i sedili di quel mezzo di trasporto sono così. Sono stati controllati quei sedili?". E i Ros hanno risposto: "No". Così come non è mai stato esaminato il furgone del primo indagato, e poi scagionato, Mohamed Fikri. Così come non si è mai indagato a fondo sulla testimonianza di Enrico Tironi, Marina Abeni e una colf che hanno notato due sconosciuti nella strada che porta a casa di Yara, la sera della sua scomparsa. Tironi li ha visti parlare con Yara accanto a una Citroën rossa ammaccata. La colf li ha visti fermi su due auto, una rossa e una bianca, ai lati della strada e Marina Abeni se li è trovati davanti mentre portava a spasso i suoi cani.
La fuga - E poi, resta inspiegato anche il tentativo di fuga di Bossetti al momento del suo arresto. Il muratore, che si trovava nel cantiere di Seriate al momento dell'arrivo della polizia, avrebbe "accennato una fuga" secondo quanto racconta il colonnello Michele Lorusso, comandante del Ros. Però, il colonnello non era sul luogo e ha detto: "Me l'hanno raccontato i miei uomini".
2 OTTOBRE 2015: SESTA UDIENZA. PARLANO GIANPAOLO BONAFINI E DARIO REDAELLI.
Dopo la lunga deposizione del colonnello Michele Lorusso dei Ros di Brescia, il processo per il delitto di Yara Gambirasio contro Massimo Giuseppe Bossetti riprende oggi, venerdì 2 ottobre, con il racconto di Gianpaolo Bonafini, già primo dirigente della Squadra mobile di Bergamo e ora nuovo Capo di Gabinetto della questura di Venezia, e di Dario Redaelli della Scientifica di Milano. Fuori dal Tribunale di Bergamo sempre tantissimi giornalisti e operatori tv.
In aula sono previste infatti due testimonianze. La prima è appunto quella del primo dirigente di polizia Giampaolo Bonafini, oggi capo di gabinetto alla questura di Venezia, ma all’epoca della scomparsa di Yara (e fino a qualche tempo prima del fermo di Bossetti) capo della squadra mobile della questura di Bergamo. Fu lui a coordinare il blitz alla discoteca Sabbie Mobili di Chignolo, grazie al quale si giunse a imboccare la pista del Dna che ha portato fino al padre biologico di Ignoto 1, Giuseppe Guerinoni. È poi il turno del sostituto commissario Dario Redaelli della Scientifica di Milano, che coordinò il sopralluogo e i rilievi tecnici al campo di via Bedeschi, quando in mezzo ai rovi e agli sterpi venne trovato il corpo di Yara.
Parla Gianpaolo Bonafini. Fu nel maggio del 2011 che i carabinieri del Ris isolarono il Dna di Ignoto 1, trovato sul corpo di Yara Gambirasio. L’ex capo della Mobile di Bergamo, Gianpaolo Bonafini, ora a Venezia, ha cominciato a ricostruire le indagini scientifiche che portarono all’identificazione di Bossetti nel processo a carico del muratore in corso davanti ai giudici della Corte d’Assise di Bergamo. Il 21 ottobre del 2011 poi, la Polizia scientifica comunicò che uno dei Dna prelevati a una rosa di 476 persone sulle oltre 30mila che avevano frequentato nei cinque anni precedenti la discoteca Sabbie Mobili, accanto al campo di Chignolo d’Isola in cui fu trovato il corpo di Yara Gambirasio, il 26 febbraio del 2011, aveva un «aplotipo Y uguale a quello trovato sugli slip» della ragazza uccisa. Questo Dna apparteneva a un componente della famiglia di Giuseppe Guerinoni, l’autista di autobus morto nel 1999 e che le indagini appurarono poi essere padre naturale di Massimo Bossetti, unico imputato per l’omicidio della tredicenne di Brembate di Sopra. Il nipote di Guerinoni, a cui apparteneva quel Dna, nel periodo in cui scomparve la ragazza, si trovava all’estero e, quindi, si pensò all’esistenza di un figlio illegittimo che, secondo gli investigatori, è risultato essere Bossetti. Le indagini si concentrarono sui dipendenti delle 14 aziende nei pressi del campo e furono sentite quasi 800 persone. Poi si prese in esame la discoteca Sabbie Mobili, anche perché qualche mese prima, nei pressi era stato trovato il corpo di un ragazzo sudamericano ucciso Eddy Castillo (per il cui omicidio è già intervenuta una condanna). Tre mesi dopo il ritrovamento, nel maggio 2011 i carabinieri del Ris isolarono il Dna di Ignoto 1, trovato sul corpo di Yara Gambirasio. Delle 31.926 persone tesserate per il locale da ballo negli anni precedenti, incrociando stati di famiglia e altre caratteristiche, si giunse a una rosa di 476 persone residenti a Brembate che furono sentite e a cui fu prelevato il Dna. Altri cinque mesi dopo, il 21 ottobre del 2011 la Polizia scientifica comunicò che uno dei Dna prelevati aveva un «aplotipo Y uguale a quello trovato sugli slip» della ragazza uccisa. Questo Dna apparteneva a un componente della famiglia di Giuseppe Guerinoni, autista di autobus morto nel 1999. Il nipote Damiano, al quale era stato prelevato il Dna, nel periodo della sparizione di Yara, era all'estero in missione umanitaria in Perù e non poteva aver avuto un ruolo nella vicenda. Si pensò quindi all'esistenza di un figlio illegittimo che, secondo gli investigatori, è risultato essere Bossetti. Venne ricostruita tutta la linea della famiglia Guerinoni usando sia l'archivio comunale di Gorno sia l'archivio parrocchiale risalendo sino al 1719. Le indagini partono dalla discendenza di Giò Angelo Guerinoni nato nel 1905. Uno dei figli maschi era proprio Giuseppe Benedetto Guerinoni e l'altro Sergio che era papà di Damiano. Fondamentale fu il Dna di Giuseppe ricavato da due francobolli di cartoline da lui spedite alla figlia e dalla marca da bollo della sua patente. L'ultimo accertamento biostatistico trova una compatibilità tra il dna di Giuseppe e Ignoto 1 del 99,99999987%. Quindi Giuseppe è il padre di Ignoto 1. Trovato il padre bisogna trovare la madre perché ignoto 1 è evidentemente nato da una relazione illegittima. Parte quindi la ricerca di figli illegittimi o riconosciuti dalla sola madre. La svolta è quando viene composto un elenco di 539 persone che hanno lasciato la Valle Seriana per trasferirsi nella Isola Bergamasca. In questo elenco compare il nome di Bossetti, Ester Arzuffi, nata nel 1947, trasferita a Parre nel 1966. Lo stesso Comune lo stesso anno dove si trasferì Guerinoni. Il 27 luglio del 2012 viene prelevato un campione salivare per l'estrazione del Dna. Viene comparato il dna mitocondriale di Ignoto 1 e a questo punto si indaga sui figli della donna. Le indagini puntano su Bossetti che viene fermato il 16 giugno del 2014.
L'ex capo della Squadra mobile ha spiegato i passaggi attraverso i quali gli investigatori sono giunti poi al muratore di Mapello. L'ipotesi che l'assassino di Yara conoscesse la zona derivava dal fatto che il percorso dall'impianto sportivo da cui Yara era scomparsa tre mesi prima e il campo "non è lineare" e contempla "strade secondarie" che difficilmente chi non conosce la zona poteva percorrere. Quando, il 26 febbraio del 2011, fu trovato il corpo di Yara Gambirasio nel campo di Chignolo d'Isola, gli investigatori ipotizzarono che "chi l'aveva portata lì" "era nato in quella zona, oppure vi viveva o la frequentava per motivi di lavoro". Lo ha detto Bonafini. L’ipotesi che l’assassino di Yara conoscesse la zona deriva dal fatto che il percorso dall’impianto sportivo da cui Yara era scomparsa tre mesi prima e il campo «non è lineare» e contempla «strade secondarie» che difficilmente chi non conosce la zona poteva percorrere.
La testimonianza di alcune persone che, nelle fasi iniziali dell’indagine sulla sparizione di Yara Gambirasio rilasciarono dichiarazioni che, però, risultarono inesatte e non trovarono riscontro, sono state oggetto di parte del controesame dell’ex capo della Mobile di Bergamo, Gianpaolo Bonafini, a opera degli avvocati di Massimo Bossetti. Al termine dell’udienza i difensori hanno parlato di «lacune e dubbi che restano in un’inchiesta amplissima» e in cui «restano molti punti oscuri». Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini hanno chiesto conto al funzionario della Polizia di Stato di tutti gli accertamenti su dichiarazioni rese da testimoni che avevano raccontato di aver visto due persone nei pressi dell’abitazione della ragazza. Dichiarazioni che, però, non collimavano con i tempi della scomparsa di Yara e, in un caso, nemmeno con i tabulati telefonici di uno dei testi. Alcune domande hanno riguardato anche il custode della palestra da cui scomparve la tredicenne, che aveva a disposizione un furgone della società di ginnastica per il trasporto degli atleti. Il mezzo non fu analizzato in quanto, ha spiegato Bonafini, a carico dell’uomo «non era emerso nulla».
Si è conclusa poco prima delle 14 la deposizione di Gianpaolo Bonafini, l’ex capo della mobile di Bergamo. Bonafini, oggi capo di gabinetto alla questura di Venezia, in aula ha spiegato che il percorso dall’impianto sportivo da cui Yara era scomparsa e il campo «non è lineare» e contempla «strade secondarie» che difficilmente chi non conosce al zona poteva percorrere.
Parla Dario Redaelli. È poi il turno del sostituto commissario Dario Redaelli della Scientifica di Milano, che coordinò il sopralluogo e i rilievi tecnici al campo di via Bedeschi, quando in mezzo ai rovi e agli sterpi venne trovato il corpo di Yara. Nel pomeriggio ha deposto il sostituto commissario Dario Redaelli della Scientifica di Milano, che coordinò il sopralluogo e i rilievi tecnici al campo di via Bedeschi, quando in mezzo ai rovi e agli sterpi venne trovato il corpo di Yara. Redaelli ebbe l’impressione che Yara, quando fu trovata morta, stringesse «nel pugno destro dell’erba ancora attaccata a terra». Il funzionario di polizia, che intervenne il 26 febbraio 2011 nel campo di Chignolo d’Isola in cui fu trovato il cadavere della 13enne, ricostruendo le operazioni per «congelare» la scena del delitto, ha confermato quanto dichiarato, l’udienza scorsa, dall’ex comandante del Ros di Brescia, ora a Torino, Michele Lorusso, sul fatto che la ragazzina stringesse dell’erba ancora radicata al terreno. A partire dall'approfondito sopralluogo nel campo di Chignolo d'Iola dove venne ritrovato il cadavere della ragazzina: "Arrivammo intorno alle 17 di quel 26 febbraio e lavorammo ininterrottamente fino alle 18 del giorno seguente, per un totale di 25 ore consecutive. Il terreno fu diviso in 26 aree e battuto a tappeto. Vennero trovati e repertati in tutto 13 oggetti, tra i quali una vecchia roncola arrugginita". Una circostanza, questa, che confligge con l’ipotesi, più volte avanzata dalla difesa di Massimo Bossetti, secondo la quale la ragazza potrebbe essere stata uccisa altrove e poi portata successivamente nel campo. «Vedremo dalle immagini - hanno detto gli avvocati di Bossetti Claudio Salvagni e Paolo Camporini - che non è così. Quella del funzionario era solo un’impressione». Redaelli, in aula, ha ricostruito nel dettaglio le operazioni con cui fu delimitata la zona entro la quale furono cercati i reperti (13 oggetti in un’area di circa 7 mila metri). Operazioni che durarono dalle 17.20 del 26 febbraio fino alle 18 del giorno dopo, interrotte solamente per l’ispezione del cadavere che fu esclusivo compito del medico legale e dei suoi assistenti, l’anatomopatologo Cristina Cattaneo che deporrà nella prossima udienza, il 7 ottobre. «Tutto il personale della polizia scientifica - ha detto Redaelli - fu “tipizzato”, nel senso che fu prelevato a tutti gli agenti il Dna.
Yara, il giallo della ricetrasmittente. "Ce l'ho, l'ho presa, sto arrivando...", scrive Claudia Guasco su “Il Corriere Adriatico”. E' la sera del 26 novembre 2010, Yara Gambirasio esce per l'ultima volta dalla palestra del centro sportivo di Brembate prima di scomparire per sempre. "L'ora me la ricordo bene, perchè stava iniziando un programma televisivo che mi piace. Tra le 18,15 e le 19,15", riferisce agli investigatori Anna Marra Prata, residente a Ponte San Pietro. Per comunicare con la figlia, che abita nella casa accanto, la donna usa una walkie talkie e proprio nel lasso di tempo in cui la ginnasta svanisce nel nulla la ricetrasmittente comincia a gracchiare. E' un'interferenza, ma le parole sono nitide: "Ce l'ho, l'ho presa. Sto arrivando". Chi stava comunicando questa informazione? E soprattutto: la frase riguardava Yara? Quinta udienza del processo per l'omicidio di Yara Gambirasio. L'imputato Giuseppe Bossetti siede come sempre in prima fila accanto ai suoi avvocati: polo a strisce grigie, jeans, non perde una parola della deposizione di Gianpaolo Bonafini, ai tempi capo della Mobile di Bergamo. Che, chiamato a testimoniare, parla proprio di quella radiolina. "Era sintonizzata sul canale quattro. Secondo la casa produttrice non sono possibili interferenze, ma la signora Prata ha riferito di aver intercettato più volte le comunicazioni dei camionisti", dice Bonafini. Gli investigatori vanno nei negozi della zona, rintracciano tutti coloro che hanno acquistato le walkie talkie (due persone) ed eseguono prove di trasmissione. "In linea d'aria la casa della signora Prata dista 800 metri dalla palestra di Brembate. Il segnale è buono in via Locatelli, dove è situata la palestra, e perde forza cento metri più in là in via Morlotti fino a scomparire del tutto verso via Rampinelli, dove si trova la villetta dei Gambirasio". Chi lanciava nell'etere quella strana informazione resta avvolto nel mistero, certo è che poteva trovarsi nei pressi della palestra dall quale è uscita Yara. E' il centro sportivo, oltre alla discoteca "Sabbie Mobili" che si affaccia proprio sul campo di Chignolo d'Isola dove è stato trovato il corpo della ragazzina, il fulcro delle indagini. Il custode Walter Brambilla viene interrogato e intercettato, "però non sottoposto a esame del dna", attacca la difesa di Bossetti. L'uomo guida un furgone Iveco del centro sportivo, con cui riaccompagna a casa i bambini più piccoli dopo le attività sportive. Ma quel mezzo non è stato mai analizzato. Dove si trovava la sera del 26 novembre? Deposizione di Silvia Brena, allenatrice di ritmica di Yara: "Stavo rientrando a casa e ho incrociato per strada Walter Brambilla alla guida del suo furgone". Obiettivo dei legali di Bossetti è identificare le possibili falle nelle indagini. E infatti sottolineano "lacune e dubbi che restano in un'inchiesta amplissima" e in cui "restano molti punti oscuri". Ma per la Procura un aspetto è stato evidente fin dall'inizio: quando il 26 febbraio 2011 fu trovato il corpo di Yara nel gelido campo di Chignolo, si pensò subito che "chi l'aveva portata lì era nato in quella zona, oppure ci viveva o la frequentava per motivi di lavoro". L'ipotesi che l'assassino di Yara non fosse un orco di passaggio ma conoscesse la zona deriva dal fatto che il percorso dall'impianto e il campo "non è lineare" e contempla "strade secondarie", che difficilmente chi non è del luogo è in grado di percorrere. Le indagini si concentrarono sui dipendenti delle quattordici aziende nei pressi del campo e furono sentite quasi 800 persone. Quindi si passò al setaccio la discoteca "Sabbie Mobili", anche perché qualche mese prima a poche decine di metri dall'ingresso era stato trovato il corpo di un ragazzo sudamericano ucciso, per l'omicidio del quale c'è già una condanna. Delle oltre 31.000 persone tesserate dal club negli anni precedenti, incrociando stati di famiglia e altre caratteristiche, si giunse a una rosa di 476 persone che furono sentite come testimoni e a cui fu prelevato il dna. Tra queste Damiano Guerinoni, nipote di Giuseppe. Il giovane, nel periodo della sparizione di Yara, era in Perù e non poteva quindi avere avuto un ruolo nella vicenda. Ma le successive indagini scientifiche su un eventuale figlio illegittimo dell'autista di Gorno, che secondo la ricostruzione del magistrato Letizia Ruggeri ebbe una relazione con la madre di Bossetti, Ester Arzuffi, portarono prima alla donna e poi al suo figlio maggiore. Il carpentiere di Mapello e padre di famiglia Massimo Bossetti, fermato il 16 giugno del 2014 e sempre proclamatosi innocente.
Processo a Bossetti, una frase intercettata da un walkie talkie: "L'ho presa, sto arrivando", scrive “Libero Quotidiano”. "Ce l'ho. L'ho presa. Sto arrivando". Sono queste le parole che la nuova testimone chiave del processo a Massimo Bossetti ha sentito dal suo walkie talkie la sera del 26 novembre 2010, quella in cui Yara Gambirasio svanì nel nulla. Anna Marra Prata spiega che per comunicare con la figlia, che abita accanto a lei a Ponte San Pietro, un paesino vicino a Brembate, usa delle ricetrasmittenti. E proprio una di quelle avrebbe intercettato la fatidica frase che potrebbe riferirsi a Yara. "L'ora me la ricordo bene, perchè stava iniziando un programma televisivo che mi piace. Tra le 18,15 e le 19,15", racconta la donna. A un certo punto il walkie tolkie gracchia e lei sente quelle parole che potrebbero cambiare le sorti di tutto il processo. Gianpaolo Bonafini, ai tempi capo della Mobile di Bergamo, interrogato il 2 ottobre, dice che la radiolina "era sintonizzata sul canale quattro. Secondo la casa produttrice non sono possibili interferenze, ma la signora Prata ha riferito di aver intercettato più volte le comunicazioni dei camionisti". Gli investigatori hanno poi effettuato altre indagini in merito ma, come ricorda Bonafini, "in linea d'aria la casa della signora Prata dista 800 metri dalla palestra di Brembate. Il segnale è buono in via Locatelli, dove è situata la palestra, e perde forza cento metri più in là in via Morlotti fino a scomparire del tutto verso via Rampinelli, dove si trova la villetta dei Gambirasio". Chi lanciava nell'etere quella strana informazione non è mai stato rintracciato dunque, però è probabile che potesse trovarsi nei pressi della palestra dalla quale è uscita Yara. L'obiettivo dei difensori di Bossetti ora, è quello di dimostrare come le indagini siano state condotte con approssimazione, senza verificare davvero a fondo i dettagli come quello dei walkie talkie. O come il fatto che il custode della palestra, Walter Brambilla guidasse, per portare a casa i ragazzini più piccoli, un furgone Iveco come quello che è entrato nel mirino delle indagini. Ma sull'uomo e sul suo veicolo non sono mai state fatte indagini, tantomeno quella del Dna. Eppure la maestra di ginnastica di Yara ricorda perfettamente che, la sera dell'omicidio, Brambilla era alla guida del suo furgone, tant'è che la donna lo aveva incrociato sulla via del ritorno a casa.
Si è conclusa verso le 16 del 2 ottobre la quinta udienza del processo a carico di Massimo Bossetti, accusato del delitto di Yara. Oggi si è parlato del sopralluogo della polizia sul campo dove fu trovata Yara. Al termine dell’udienza ha parlato con i giornalisti la sorella di Massimo Bossetti, Laura Letizia: «È assolutamente innocente, ne sono convinta e per me mio padre è sempre Giovanni Bossetti. Massimo non c’entra niente». La donna, che assiste a tutte le udienze, in quanto non è testimone, oggi ha cercato di avvicinarlo, ma ha desistito dall’entrare in contatto con lui, visto che era circondato dagli agenti della polizia penitenziaria. «L’ho visto sereno come sempre - ha detto Laura Letizia -. E anche gli agenti sono sempre molto gentili con lui». Ma il Dna dice che Massimo non è figlio di Giovanni, le è stato detto. «Per me mio padre è e rimane Giovanni, poi si vedrà». Povera sorella che paga per la sua parentela. Pugni e calci alla sorella di Massimo Bossetti. Un'altra aggressione. Vittima Laura Letizia Bossetti, sorella di Massimo Giuseppe Bossetti, in carcere per l'omicidio della piccola Yara Gambirasio. La donna, in base a quanto scrive Libero, è stata aggredita il 23 febbraio 2015 vicino all'abitazione dei genitori, Ester Arzuffi e Giovanni Bossetti. Laura Letizia stava andando a ritirare la posta quando è stata presa d'assalto da due uomini incappucciati, uno dei quali le ha messo le mani sulla bocca e l'altro le puntava un coltello alla gola. L'hanno portata nel seminterrato del palazzo e l'hanno rifilato una serie di calci, pugni e schiaffi. La donna è stata trovata priva di sensi e ha subito ecchimosi, fratture alle costole e un trauma cranico. Non è la prima volta che Laura letizia viene aggredita.
Massimo Bossetti, la caccia è iniziata nel 1719, scrive Luca Telese su “Libero Quotidiano”. E poi, dal banco dei testimoni, come un colpo di scena silenziato, con una frase in codice quasi criptata, arriva - per la prima volta in aula - l'ammissione di una notizia che circolava da mesi in modo carsico, o correndo sottotraccia, o affiorando di rimbalzo dalle perizie. Sta parlando l'ex capo della squadra mobile di Bergamo, Gianpaolo Bonafini. È il momento del controinterrogatorio degli avvocati di Bossetti, siamo nel primo pomeriggio di una giornata terribilmente lenta, tra i banchi del pubblico del tribunale di Bergamo qualcuno addirittura sonnecchia. Anche la domanda arriva un po' schermata, con calcolata furbizia processuale, in questa eterna partita tra accusa e difesa, dove nessuno dei duellanti vuole mai girare le proprie carte. L'avvocato Claudio Salvagni sta parlando d' altro, ma poi lascia cadere la domanda con apparente noncuranza: «E quindi ho capito bene quello che lei ha detto stamattina? L' esame del Dna di Ester Arzuffi, non era andato a buon fine?». Bonafini prende un respiro lungo, rallenta con perizia il ritmo spedito del suo eloquio precedente. E poi, misurando ogni sillaba, dice con termini quasi asettici: «Sì, è vero....l'esame della traccia mitocondriale aveva dato esito negativo». Ovvero, tradotto in italiano: la polizia era già arrivata alla madre di Massimo Bossetti, ben due anni prima (!) dell'arresto del muratore di Mapello. L' aveva inserita in un gruppo di trentatré persone individuate sottoposte all' esame del Dna, con intuizioni investigative degne di un romanzo poliziesco. Ma poi in laboratorio, per quanto possa sembrare incredibile (scopriremo presto per colpa di chi, forse dei carabinieri) erano arrivati i campioni sbagliati, e la donna non era stata individuata. Infatti il Dna della signora Ester non era stato confrontato con quello del sospettato, «Ignoto numero uno» (come era ovvio fare) ma con quello della madre di Yara (che nulla aveva a che vedere con lei). Tra cronisti e giornalisti era già noto, certo: ma sentirlo ripetere nel processo, in questo modo diagonale, fa impressione, soprattutto al termine di un interrogatorio avvincente, che a tratti sembra una lezione di criminologia del terzo millennio. Guardo per un attimo l'ex capo della Squadra mobile di Bergamo, ora a Venezia, seduto davanti alla Corte. Bonafini ha un bel viso regolare, dimostra meno di quarant' anni, ha un filo di barba perfettamente curata, veste di grigio, ha una cravatta blu con pallini bianchi, mani veloci, all' occorrenza le lascia pescare tra i faldoni che squaderna davanti a se, come un pianista che le fa correre sulla tastiera. Come un concertista esperto che non ha bisogno di controllare lo spartito, Bonafini non guarda mai in basso. Si sta parlando di un fascicolo, per esempio, e la presidente lo sventola: «Le serve la sigla?». E lui, senza abbassare lo sguardo alza la mano stringendolo tra le dita: «Grazie ma l'ho già trovato». In una giornata in cui non ci sono apparenti colpi di scena, dentro le architetture squadrate di acciaio e vetro del nuovo tribunale, si può restare per un attimo incantati di fronte a questo paradosso. Individuare il filo tenace e certosino di una indagine che a tratti assomiglia ad un censimento sociologico, intravedere il disegno imponente e ambizioso degli investigatori, capire la cura attenta e maniacale dei dettagli. Ma poi rimanere di stucco di fronte a questa constatazione: avevano in mano Ester Arzuffi due anni prima dell'arresto di Bossetti, ma non si erano accorti che era proprio lei la donna che stavano cercando ovunque. Questa prima ricerca ieri, nel racconto di Bonafini, ha anche trovato una data esatta: «Seguendo il filo logico della nostra inchiesta eravamo arrivati ad isolare un gruppo di trentatré soggetti emigrati negli anni dalla zona della Val Seriana a quella dell'Isola di Bergamo. Ester Arfuffi aveva preso residenza nel 1966 a Parre, e nel 1969 a Brembate, e quindi rientrava pienamente in questi criteri. Abbiamo prelevato il suo campione il 27 luglio del 2012». Ma come si era arrivati a quel gruppo? Anche quello che pensavamo di sapere già, di fronte al racconto dell'ex capo delle indagini di Polizia quasi impallidisce. Bonafini ripercorre l'incredibile mole di ipotesi e di tentativi, i numeri davvero impressionanti di questo censimento poliziesco. Ad esempio: «Uno dei primi numeri con cui ci siamo confrontati è quello degli iscritti alla discoteca Sabbie Mobili». È il primo bandolo dell'indagine, il locale che sta di fronte al campo dove è stato trovato il cadavere: «Si trattava di31.926 nominativi, una cifra da capogiro, per provare a controllarli tutti. Dovevamo restringere il campo». Come? «Abbiamo isolato i campi di indagine. Ad esempio prendendo tutti quelli che avevano i telefonini accesi tra le 17.30 e le 18.55, nelle celle telefoniche della zona dove è scomparsa Yara». Quanti? «120mila». E poi? «Tutti quelli che erano nelle liste dei telefoni captati dalle celle e che avevano anche la tessera delle Sabbie Mobili». In questo modo quanti se ne selezionano? «Altri 6mila soggetti». E poi quelli con precedenti penali per reati sessuali (provate a indovinare? Ben 47!). «Oppure - continua Bonafini - cercando, con l'incrocio dei database, tutti quelli che abitavano a Brembate di sopra». E così «si arriva ad altri 476 nomi». Intuizione giusta, perché fra questi nomi c' è quello di Damiano Guerinoni, il ragazzo che è nipote del padre naturale di Bossetti, l'autista Damiano Guerinoni. Ma per poter risalire, da lui fino a quello zio, si deve imbastire una indagine nell' indagine, quasi una ricerca genealogica. Spiega ancora Bonafini: «Siamo partiti da lontano....». Dice il poliziotto. «E cioè?», chiede la presidente. Risposta: «Da Batta, cioè Battista Guerinoni, il capostipite della famiglia, nato nel 1719». Per quanto possa sembrare strano, per la seconda volta, in questo incredibile processo, in aula si ride. Ma Bonafini sembra uno specialista in Araldica e snocciola nomi e date: «Siamo scesi dritti lungo l'albero genealogico a Fantino Guerinoni nato nel 1751. Poi a Girolamo nato nel 1788... Poi a Gioangelo nato nel 1905 e Giogaetano nato nel 1912 ...». Guardo per un attimo il viso allibito di Bossetti: sta scoprendo per la prima volta l'elenco dei suoi trisavoli. Giuseppe Guerinoni autista è del 1935. Ha lo stesso aplotipo Y del ragazzo Damiano, ma nessuno - all' epoca - ha il suo Dna completo. Apprendiamo da Bonafini che prima questo Dna è stato prima ricostruito desumendolo in laboratorio da quello dei figli legittimi, poi da due cartoline miracolosamente conservate dalla figlia Daniela, che il papà le aveva inviato da Salice Terme (lasciando tracce del suo dna salivale sui francobolli che aveva leccato nel lontano 1980). «Poi una seconda conferma arriva dalla marca da bollo staccata da una patente conservata dal figlio Pierpaolo, e infine dal Dna viene definitivamente confermato - spiega Bonafini - con la riesumazione, a nostro parere nemmeno opportuna della salma». Avevano il padre, ma come è noto mancava il Dna del figlio. «Allora, per non lasciare nulla al caso - spiega l'ex capo della mobile mentre sale un brusio di stupore - abbiamo cercato tutti i Guerinoni dell'isola bergamasca, tutti quelli dei dodici nuclei familiari Guerinoni censiti, tutti i Guerinoni di tutti i paesi della provincia, tutti i Guerinoni che possedevano un furgone o una utenza telefonica che fosse accesa il giorno della scomparsa». Ma anche in quel caso non trovano nessuno: «Così ci mettiamo a cercare un figlio naturale, illegittimo, o non riconosciuto». E, contemporaneamente, tutte le donne che potrebbero avuto a che fare con Damiano Guerinoni. Ovvero: «Tutte le donne nate dopo il 1938, e tutte quelle che risulta avere incontrato dopo il 1952». Mormorio. «Perché proprio quella data?», chiede l'avvocato Camporini. Altra risposta sicura, altra risata in aula: «Abbiamo immaginato che partisse da 17 anni la.... data della potenziale fertilità». Vengono sottoposte a tampone tutte le donne che nelle due valli frequentate da Guerinoni nella sua vita hanno lavorato, fatto le cameriere nei bar, servito nei night club, tutte le donne di Salice Terme in quella fascia di età, persino chi ha esercitato la nobile arte della prostituzione. E intanto si scandagliano anche tutti gli ex bambini nati tra il 1953 e il 1975 tra Isola bergamasca e Val Brembana. Quanti? Di nuovo le mani del pianista corrono tra i faldoni: «Per l'esattezza 1715 persone». Il raggio della ricerca delle potenziali parenti si estende fino a 28 comuni. «Poi ci si concentra su 539 soggetti, 252 maschi, 287 femmine nati tra il 1920 e il 1970 e emigrati fuori. Testavamo il Dna mitocondriale - spiega Bonafini - cercavamo la linea di discendenza matrilineare». E così che si era arrivati, scrematura dopo scrematura, ai famosi «33 soggetti emigranti verso Brembate», è così che, nel 2012, avevano già rintracciato l'ago sottile di Ester nello sterminato pagliaio della bergamasca. Solo che chi deve mandare il campione del mitocondriale di Ignoto numero uno al laboratorio si sbaglia. Incredibile ma vero. La provincia stratigrafata, prima con le anagrafi, poi con i tabulati delle compagnie di telefonia mobile, in una folle corsa contro il tempo. Perché una volta individuati i nomi, ci voleva tempo per acquisirli, e bisognava far presto «perché sapevano che dopo due anni i tabulati sarebbero stati cancellati». Quanti ne avete esaminati, alla fine? «Tantissimi. Più di 17mila. Non era mai accaduto che le compagnie telefoniche facessero ricerche di quel tipo, è stata la prima volta», spiega Bonafini. Già: ma dopo questo processo, capiterà sempre. Esco dal Tribunale sempre più convinto che - nel bene e nel male - questo processo cambierà il modo di indagare, di giudicare, e persino qualcosa delle nostre frenetiche vite.
BOSSETTI INNOCENTE? “OGGI” SVELA I 21 MISTERI IRRISOLTI (PIÙ UNO) DELLA MORTE DI YARA. Analisi di Giangavino Sulas per Oggi. «Sono passati quattro giorni... Eh... Devo cominciare a preoccuparmi? Fatti sentire. Fatevi sentire». Sono le 9.16 del 30 novembre 2010 e Yara è sparita da quattro giorni quando suo padre, Fulvio Gambirasio, lascia questo messaggio vocale alla segreteria telefonica del cellulare della figlia. Di messaggi, papà Fulvio, divorato dall’angoscia, ne aveva già inviati altri, come ha raccontato lui stesso durante la sua deposizione in aula. Ma perché in questo dice «fatevi sentire», al plurale? Sospetta forse che Yara si sia allontanata con qualcuno? O che sia stata rapita? Nasconde qualcosa? Stranamente nessuno glielo ha chiesto, né il Pm Letizia Ruggeri e neppure i difensori di Massimo Bossetti. E questo è solo il primo dei 22 misteri ai quali il processo per l’omicidio di Yara dovrà dare una risposta convincente. Ecco cosa è emerso finora al processo contro il muratore di Mapello. E come lui si difende dalle accuse.
1) LA VITA CONIUGALE. L’accusa sostiene che i rapporti fra Bossetti e la moglie Marita si fossero deteriorati. Lei ha avuto due relazioni extraconiugali e il marito avrebbe cercato altre donne. «I dissapori familiari potrebbero essere il movente dell’omicidio di Yara», dice il Pm. «Quei contrasti risalgono a tre anni dopo l’omicidio», replica la difesa. «Dal 21 al 28 novembre 2010, non c’è stato alcun contatto telefonico fra Bossetti e la moglie», insiste il Pm. «È accaduto anche in altri periodi e in altri anni, ma non avete controllato», rispondono i difensori.
2) L’INCOGNITA DI IGNOTO 2. Sugli slip di Yara c’è il Dna nucleare del muratore. Per l’accusa, è la prova regina. Per la difesa, è solo un indizio e un mistero. Perché manca il profilo mitocondriale di Bossetti (la parte di Dna ereditata esclusivamente dalla madre) e compaiono invece il mitocondriale di Yara e quello di uno sconosciuto. Esiste, quindi, un Ignoto 2. Bossetti ha avuto un complice? O qualcuno ha sbagliato le analisi? I consulenti della difesa sostengono che il Dna nucleare possa essere separato dal mitocondriale solo in laboratorio, insinuando che ci sia stata una “cancellazione selettiva” di parte del materiale genetico. Un’ipotesi di gravità inaudita, che in aula scatenerà una rovente battaglia. Ma non basta. Come si spiega, inoltre, che il prof. Emiliano Giardina dell’università di Tor Vergata, pur avendo a disposizione sin dal luglio del 2012 il Dna della mamma di Bossetti e quello di altre 531 donne, lo abbia confrontato con quello di Yara anziché con quello di Ignoto 1, la persona che si stava cercando di identificare?
3) DUE SOLI DNA CERTI. Sugli indumenti di Yara hanno lasciato il loro Dna due sole persone: Bossetti e Silvia Brena, la maestra di ginnastica. Entrambi non hanno saputo dare spiegazioni. Ma uno è imputato di omicidio, l’altra è una testimone. Spiegano gli inquirenti: «La Brena e suo fratello sono stati controllati e non è emerso nulla».
4) LE ALTRE TRACCE. Sulla felpa e sulla maglietta di Yara sono state trovate 150 formazioni pilifere umane. Da 49 di queste non è stato possibile ricavare il Dna, 94 sono di Yara, le altre sette non sono né di Yara né di Bossetti. Cinque sono ignote e due hanno dei punti di convergenza con il Dna di una delle 532 donne esaminate che non è Ester Arzuffi, madre di Bossetti. Il nome di questa donna non si conosce, ma si è scavato su di lei e sui suoi familiari? C’è una traccia di Dna anche sui guanti che la mamma aveva regalato a Yara una settimana prima. È rimasta ignota.
5) LE LETTERE ANONIME. Giunte al nostro settimanale nel settembre 2014 e nel marzo 2015, raccontano di una morte accidentale provocata da un muratore polacco ubriaco in casa di una misteriosa signora e in presenza di altre persone. Prese dal panico, queste si sarebbero liberate del corpo di Yara a Chignolo d’Isola. Fra loro ci sarebbe stato anche Bossetti, che sarebbe svenuto. E il polacco, che parlava troppo, sarebbe stato eliminato facendolo cadere da un ponteggio.
6) TESTIMONI SILENZIOSI. Come si spiegano i molti «non ricordo» di Silvia Brena, Laura Capelli e Daniela Rossi, le maestre di ginnastica di Yara, nonché quelli di Martina Dolci, «l’amica del cuore» che inviò e ricevette gli ultimi sms di Yara? Davvero hanno dimenticato tutto di quella tragica serata? O è successo qualcosa in palestra? Perché dai cellulari di Silvia Brena e di suo fratello sono scomparsi due sms che i due si sono scambiati mentre Yara era in palestra?
7) L’USCITA DALLA PALESTRA. Ma Yara è davvero uscita dalla palestra per tornare a casa? È il dubbio emerso dopo la testimonianza di Fabrizio Francese, il papà di un’amica di Yara, l’ultima persona ad averla vista viva mentre si dirigeva verso l’uscita, ma che non l’ha notata varcare la porta. Nessuno, poi, ha incrociato Yara sulla strada verso casa. E se fosse stata aggredita in un locale del centro sportivo? Aveva visto forse qualcosa che non doveva vedere?
8) BOSSETTI? MAI VISTO. Tutti, dai genitori di Yara alla sorella Keba, dalle maestre di ginnastica della ragazza alle sue compagne di scuola e di palestra, fino alla zia Nicla che accompagnava Yara al supermercato - dove una testimone sostiene di aver notato Bossetti mentre comprava della birra - tutte queste persone dicono di non conoscere e di non aver mai visto il muratore di Mapello. Sui loro telefoni e computer non è stato trovato alcun contatto fra i due. E tutti hanno escluso che Yara possa aver accettato un passaggio da uno sconosciuto. Ma il Pm non accusa Bossetti di rapimento: sostiene che Yara è salita di sua volontà sul camioncino.
9) LE RICERCHE SUL PC. Nel suo Pc, Bossetti avrebbe digitato le parole «tredicenni» e «sesso» e avrebbe usato tre programmi molto sofisticati per eliminare la memoria del computer. Una scoperta che potrebbe inguaiarlo. La difesa dice: «È avvenuto tre anni dopo il delitto. E digitando quella ricerca su Google è impossibile ottenere risultati porno. In realtà quelle parole altro non sono che flash pubblicitari quando si fa una ricerca hard. I programmi sofisticati li ha voluti installare il tecnico, non Bossetti, e non sono mai stati utilizzati».
10) IL CAMIONCINO. Per un’ora, dalle 17.42 alle 18.47, il camioncino di Bossetti ha girato attorno alla palestra in attesa di Yara, per poi ricomparire alle 19.51, dice l’accusa, mostrando le registrazioni delle telecamere di sicurezza di una banca, di un distributore e della ditta Polynt. Un orario che coincide con l’uscita di Yara e con la sua scomparsa. «All’inizio gli avvistamenti erano 16, adesso quelli rilevanti per gli inquirenti sono solo sei. Ma manca la targa, e gli stessi Carabinieri parlano di “compatibilità” del camioncino, non di identificazione certa», sottolinea il criminologo Ezio Denti, consulente della difesa. «Non hanno capito che i video della ditta Polynt mostrano quattro furgoni diversi che vanno tutti nella stessa direzione. Sono usciti da un parcheggio di quell’azienda perché la strada dietro il centro sportivo era chiusa, come ha confermato anche il papà di Yara; nessuno avrebbe potuto fare il giro della palestra. Bossetti transita una sola volta, alle 18.35’26” e trovando la strada chiusa inverte la marcia e ripassa alle 18,36’05” per fermarsi all’edicola».
11) L’AEROMODELLISTA. Il 26 febbraio 2011, il corpo di Yara viene ritrovato nel campo di Chignolo d’Isola da Ilario Scotti, aeromodellista, che dichiara: «In quel campo pieno di cespugli e rovi spinosi era difficile camminare e impossibile correre». L’accusa sostiene invece che Yara abbia tentato di fuggire correndo con le scarpe slacciate.
12) L’UOMO MISTERIOSO. Ilario Scotti aggiunge inoltre che mentre aspettava l’arrivo della Polizia a Chignolo, uno sconosciuto, basso, calvo e sulla cinquantina, lo abbia tenuto d’occhio per un quarto d’ora. Chi era l’uomo misterioso? Perché controllava il campo? «Se fosse stato solo un curioso, a maggior ragione si sarebbe trattenuto sentendo le sirene della polizia. Invece è sparito, sapeva che c’era il corpo di Yara?», si chiede il criminologo Ezio Denti.
13) QUELL’ERBA IN MANO. «Yara è morta nel campo di Chignolo la sera in cui è scomparsa. La prova è quel ciuffo d’erba che stringeva in una mano», dice l’accusa. «Non esiste una fotografia che mostri quel ciuffo d’erba», ribatte la difesa, «e le nove ferite trovate sul corpo della ragazzina le sono state inflitte mentre era supina e inerme, non mentre correva. Infatti non c’è una goccia di sangue sui suoi indumenti, perché è stata spogliata, ferita e rivestita altrove. E solo dopo portata nel campo».
14) L’ELICOTTERISTA. La Protezione civile e i Carabinieri, che hanno sorvolato diverse volte il campo di Chignolo, non hanno mai visto il corpo. Iro Rovedatti, elicotterista della Protezione civile che ha cominciato a cercarla il giorno dopo la scomparsa, ha riferito di aver fatto numerosi voli e spiegato che quel campo è un percorso obbligato per non passare sui centri abitati, ma non ha visto niente. «Volavo a 150 metri di altezza», ha rivelato in una intervista esclusiva a Oggi, «qualunque oggetto scuro notassi mi abbassavo per controllare».
15) IL GIARDINIERE. Annibale Consonni, giardiniere di una ditta di fronte al campo di Chignolo, ha messo a verbale di aver lavorato allo sfoltimento dei rovi tutti i giorni nel periodo precedente al ritrovamento del corpo, di non aver notato nulla e di non aver mai avvertito cattivi odori. Così come il personale del Consorzio della Media pianura bergamasca, che controlla i pozzi d’irrigazione del campo».
16) IL TELEFONO. Yara aveva nella Sim del suo cellulare 79 numeri telefonici: erano di amici e compagne di scuola, tutti sono stati interrogati. Ma un compagno di Yara con il quale, solo nel gennaio 2010, la ragazzina aveva scambiato ben 109 messaggi, si è mostrato sorpreso con la Polizia: «I messaggi? Non me li so spiegare... Non ricordo di avere mai avuto il numero di Yara... A volte prestavo il mio telefono». A chi? Non gli è stato chiesto.
17) L’ULTIMO SEGNALE RECEPITO. Il cellulare di Yara si è spento alle 18.55. L’ultimo aggancio con il telefono portatile lo fa la cella di via Ruggeri, proprio nel cono di segnale che guarda verso Nord. Quindi Yara era diretta verso Almenno e le montagne. Ma il campo di Chignolo è dalla parte opposta, a Sud.
18) I FILI DEL CAMIONCINO. La seconda prova regina contro Bossetti sono i filamenti blu, gialli, grigi e celesti rimasti impigliati sul piumino e sui leggings di Yara.Sono identici a quelli dei sedili del camioncino di Bossetti. Quindi, afferma l’accusa, Yara è stata su quel mezzo poco prima di morire. «Ma Yara tutti giorni prendeva l’autobus per andare a scuola da Brembate a Bergamo. Sono stati controllati i sedili di quei mezzi?», ha chiesto la difesa. «No», ha risposto il comandante del Ros.
19) IL FURGONE DI MOHAMED FIKRI. Mohamed Fikri, il muratore marocchino indagato e poi prosciolto, dieci giorni prima della scomparsa di Yara aveva acquistato un furgone bianco. È lo stesso imbarcato sul traghetto diretto in Marocco sul quale Fikri fu arrestato. Quel furgone non è stato mai esaminato, si credeva anzi fosse stato rottamato. Eppure, due anni dopo il camioncino è rientrato in Italia, dove è stato rivenduto a un muratore di Treviso. Il criminologo Ezio Denti è riuscito a esaminarlo e ha scoperto che i sedili hanno le stesse microfibre del camioncino di Bossetti.
20) LA CITROËN E I DUE SCONOSCIUTI. Tre testimoni, Enrico Tironi, Marina Abeni e una colf hanno messo a verbale che quella sera hanno notato due sconosciuti nella strada che porta a casa di Yara. Tironi li ha visti parlare con Yara accanto a una Citroën rossa ammaccata. La colf li ha visti fermi su due auto, una rossa e una bianca, ai lati della strada e Marina Abeni se li è trovati davanti mentre portava a spasso i suoi cani. Si è fatto qualcosa per scoprire chi fossero e cosa facessero?
21) IL TENTATIVO DI FUGA. Quando Massimo Bossetti è stato arrestato, il 16 giugno 2014, ha davvero tentato di fuggire? Nel cantiere di Seriate «c’è stato un accenno di fuga», ha detto in aula il colonnello Michele Lorusso, comandante del Ros. I difensori di Bossetti gli hanno chiesto: «Lei era presente?». E lui ha risposto: «No, me lo hanno riferito i miei uomini». Da notare che Bossetti in quel momento era scalzo, perché stava facendo una gettata di cemento.
7 OTTOBRE 2015: SETTIMA UDIENZA. PARLA CRISTINA CATTANEO.
Nuova udienza del processo a carico di Massimo Bossetti, oggi in Tribunale. Giuseppe Bossetti mastica un chewingum e guarda impassibile le immagini che scorrono sullo schermo. Il corpo di Yara in decomposizione, la mano destra scheletrica che afferra un ciuffo d'erba, gli slip rosa e bianchi tagliati che si intravvedono dal bordo del legging. Le immagini sono scioccanti, tanto che il presidente del tribunale Antonella Bertoja fa uscire il pubblico. Il carpentiere di Mapello accusato dell'omicidio di Yara Garmbirasio non mostra turbamento. Nemmeno quando l'anatomopatologa Cristina Cattaneo, il medico antropologo che ha effettuato l'autopsia sul corpo della ginnasta di Brembate, racconta nella quinta udienza del processo come è morta la dodicenne. Colpita alla testa con un oggetto contundente, tramortita, seviziata con una lama affilata e abbandonata di notte nel campo freddo di Chignolo d'Isola.
La giornata è dedicata alla deposizione della professoressa Cristina Cattaneo, il medico legale dell’Università di Milano che si è occupata dell’autopsia sul corpo della vittima, e del suo collega Luca Tajana, co-firmatario della relazione conclusiva. I giudici della corte d'assise di Bergamo hanno deciso che, durante la deposizione dell'anatomopatologa Cristina Cattaneo, in cui saranno proiettate delle diapositive ritraenti il ritrovamento del corpo della 13enne, il pubblico debba uscire dall'aula. Questo per la "tutela dell'immagine" della giovane vittima. A chiedere che l'udienza si svolgesse a porte chiuse sono stati gli avvocati di parte civile della famiglia Gambirasio e sia il pm Letizia Ruggeri sia i difensori di Massimo Bossetti si sono rimessi alla decisione dei legali dei Gambirasio. Il presidente, Antonella Bertoja, ha quindi disposto che in aula possano rimanere solo le parti e i giornalisti. Sin dall'inizio del processo non sono state ammesse in aula telecamere né altri mezzi che possano riprendere o fotografare lo svolgimento dell'udienza. L'udienza - dunque - è stato stabilito sarà a porte chiuse, ammessi sono soltanto i giornalisti e le parti. Tra loro c'è Bossetti, camicia azzurra, jeans e maglia a righe, il presunto killer è seduto accanto ai suoi difensori e non nella cella riservata agli imputati detenuti. Appare più reattivo del solito, l’imputato Massimo Bossetti: il suo sguardo continua a rimbalzare dal monitor installato nell’aula di Corte d’Assise all’angolo dedicato ai testimoni, dove parla l’anatomopatologa Cristina Cattaneo, responsabile del Labanof di Milano. È lei che ha curato la delicatissima autopsia sul corpo di Yara Gambirasio, trovata morta il 26 febbraio 2010 nel campo di Chignolo d’Isola, tre mesi dopo la sua scomparsa. E durante la testimonianza il giudice a latere Ilaria Sanesi osserva spesso Bossetti, anche se l’attenzione è calamitata proprio dall’anatomopatologa, che descrive i rilievi del suo lavoro. Lo fa anche utilizzando una serie di immagini, foto choc del corpo della ragazzina di 13 anni. E per questo gli avvocati di parte civile dei Gambirasio chiedono che il pubblico esca dall’aula, per salvaguardare l’immagine della giovanissima vittima. Un’istanza accolta dalla Corte, alla quale né il pubblico ministero né gli avvocati di Bossetti si oppongono. Ma i curiosi sono molti e non mancano quelli accalcati fuori dalla porta, che vogliono sbirciare attraverso l’oblò, ostacolati solo dalla presenza di un carabiniere.
Yara come è morta: 8 disegni con coltello su schiena e gambe. L'hanno lasciata lì a morire, nel campo di Chignolo d'Isola, dissanguata ma anche di freddo e di stenti. Una morte atroce che i presenti nell'Aula della Corte d'Assise di Bergamo, hanno osservato scorrere nelle foto dell'anatomopatologa Cristina Cattaneo, scrive "Blitz Quotidiano”. Un colpo forte alla testa per tramortirla e poi le sevizie: otto disegni insanguinati, incisi col coltello sulla schiena, il petto e le cosce. Così è morta Yara Gambirasio: tutte le ferite le sono state inferte quando era ancora viva. L’hanno lasciata lì a morire, nel campo di Chignolo d’Isola, dissanguata ma anche di freddo e di stenti. Una morte atroce che i presenti nell’Aula della Corte d’Assise di Bergamo, hanno osservato scorrere nelle foto dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo. Un racconto talmente terrificante da indurre il presidente del collegio giudicante ad allontanare il pubblico, per onorare la memoria della giovane promessa della ginnastica, uccisa per non si capisce bene quale motivo a parte la crudeltà. Tra i presenti in aula, l’unico a restare indifferente è l’imputato: Massimo Giuseppe Bossetti, il muratore di Manoppello unico accusato dell’omicidio, è rimasto a guardare masticando un chewing gum. Le ricostruzioni della scienziata sulla morte di Yara, smontano qualsiasi ipotesi circolata in questi mesi: Yara fu uccisa nel campo in cui fu ritrovata, lo dimostra quel ciuffetto d’erba trovato stretto nel suo palmo, raccolto poco prima di esalare l’ultimo flato. Non fu tenuta in una cantina o avvolta nel cellophane, non fu trascinata per i piedi ma arrivò sulla scena del crimine con le sue stesse gambe, probabilmente minacciata con un coltello. L’arma del delitto, ipotizza l’anatomopatologa, potrebbe essere un Opinel, o un Cutter, un coltellino di piccole dimensioni mai ritrovato. Gli avvocati non dimenticano di sottolineare che in un’intercettazione telefonica Bossetti chiese alla moglie di far sparire un coltellino sfuggito alle perquisizioni. Alcuni dettagli non agevolano la difesa: la presenza di calcina nelle ferite e le piccole sfere metalliche rinvenute sotto le scarpe di Yara. Dimostrerebbero, secondo l’accusa, che il killer era solito frequentare cantieri. Bossetti di mestiere faceva il carpentiere.
"In centinaia di pagine della relazione della professoressa Cattaneo non c'è mai un termine come "è certo", "è molto probabile" o "è sicuro". Sono sempre delle ipotesi", scrive “La Presse”. Lo ha rilevato Dalila Ranalletta, il medico legale nominata come consulente dalla difesa di Massimo Bossetti, al termine dell'udienza dedicata proprio alla relazione stilata dai consulenti della Procura Cristina Cattaneo e Luca Taiana, che hanno esaminato il cadavere di Yara Gambirasio, la 13enne ritrovata a tre mesi dalla scomparsa in un campo di Cingolo d'Isola (Bergamo). "Onestamente devo dire che tutti i consulenti nominati dalla Procura hanno riportato i dati così come sono. Nessuno di loro si è mai sognato di dire certamente “è così”, ma hanno detto che “molto probabilmente è così”. Non si capisce perché i dubbi in aula diventano certezze - ha concluso Ranalletta - quando le premesse sono incerte ed espresse come tali". E proprio a lei, nel corso della prossima udienza davanti alla Corte d'Assise di Bergamo, fissata per il prossimo venerdì 9 ottobre, toccherà il compito di ricostruire le ultime ore della piccola ginnasta di Brembate di Sopra (Bergamo). Con lei verrà sentito anche il maresciallo Gatti che in aula riferirà a proposito degli accertamenti fatti sulle celle telefoniche che il telefonino della ragazzina ha agganciato subito dopo che Yara, secondo la Procura, era stata prelevata fuori dalla palestra di Brembate.
Parla Cristina Cattaneo. La professoressa Cattaneo intervenne il pomeriggio stesso del ritrovamento del corpo della 13enne in mezzo al campo di via Bedeschi a Chignolo d’Isola, il 26 febbraio 2011, per una prima ispezione esterna. All’obitorio di Milano, nei giorni successivi, iniziò l’esame autoptico, particolarmente complesso. Solo a maggio fu possibile la restituzione della salma ai familiari e solo nel mese di agosto, dopo ripetute proroghe chieste al pm Letizia Ruggeri, l’esperta consegnò la sua relazione conclusiva sulle cause della morte di Yara, ben 352 pagine (allegati esclusi). Durante la deposizione dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo, sono state proiettate delle diapositive ritraenti il ritrovamento del corpo di Yara Gambirasio, oltre immagini legate all’autopsia. Bossetti ha guardato le fotografie durante la relazione del medico, immagini molto forti che ritraggono il cadavere della piccola Yara. L’autopsia, ha detto la professoressa, è durata due giorni: «Effettuate anche tac e Raggi X».
Morì in quel campo. Anche perché lo stato di conservazione degli indumenti escluderebbero l'ipotesi del trascinamento del cadavere. Si tratta di un dettaglio importante per comprendere la dinamica di ciò che accadde, perché il corpo fu trovato a 200 metri dal comando organizzativo delle ricerche e ad altrettanti dal delitto di un giovane, all’epoca irrisolto, avvenuto nel gennaio 2011. Significa che nessuno la vide per tre mesi, né quelli del comando, né i carabinieri che cercavano tracce dell’omicidio irrisolto, né un pilota che sorvolò la zona né i volontari della protezione civile che scandagliarono il luogo. Tantomeno “funzionò” l’olfatto dei cani molecolari che accompagnarono i volontari nel campo. "Gli indumenti di Yara - ha spiegato in aula - sono ben conservati esteriormente. Vista la mancanza di lacerazioni significative di indumenti che coprono la parte superiore del corpo, trovo difficile e poco probabile ipotizzare che sia stata trascinata". A escludere la pista del trasferimento di cadavere sono anche le analisi condotte sulle scarpe da tennis della 13enne: "Avevano compresso il terreno con una pressione compatibile col peso del corpo di Yara". Cattaneo effettuò anche il sopralluogo nel campo di Chignolo d'Isola dove fu trovata Yara per rilevare tracce utili alle indagini sul corpo e nelle sue vicinanze. In aula l'esperta ha ricostruito ciò che trovò quel giorno: era il 26 febbraio 2011. Secondo la sua testimonianza, vi sono numerosi elementi che derivano dalla biologia, dalla botanica e dell'entomologia che autorizzano a ritenere che la 13enne sia stata aggredita e sia morta nel campo. Secondo Cattaneo, Yara morì la sera stessa del 26 novembre 2010, giorno della scomparsa, e il suo corpo «in via di elevata probabilità» rimase «nel campo di Chignolo d’Isola dal momento della sua morte al momento del ritrovamento». In aula la professoressa ha dichiarato che la ragazza morì «intorno alla mezzanotte o nelle prime ore del giorno successivo». Confermata la presenza di calce sulle scarpe, le lesioni e nei polmoni. “La vittima è stata ferita nel campo di Chignolo – ha spiegato Cattaneo – Nella mano destra stringeva arbusti di quella zona e al suo corpo, o ai suoi vestiti”, sotto le unghie e perfino “nel braccialettino di stoffa che portava” risultavano “attaccate spine tipiche di quel campo. E anche alla base delle ferite – ha aggiunto – abbiamo rilevato elementi botanici da collocare in quel luogo, probabilmente non trasportabili”. L’esperta di anatomopatologia ha lavorato anche sulla calce, trovata sul corpo, sugli abiti e nei bronchi di Yara Gambirasio. «Abbiamo fatto un centinaio di campionamenti in tutti i luoghi frequentati dalla vittima. In nessun caso è stato riscontrato lo stesso tipo di calce rinvenuto su Yara. Ci siamo chiesti se quelle tracce di calce siano finite lì per contatto con un’altra persona o per permanenza in un determinato posto. Riteniamo sia più probabile la seconda ipotesi». Quanto ai tagli sul corpo della ragazzina la Cattaneo ha descritto un insieme di sevizie, sottolineando che nessun fendente è stato fatale. Ma ce n’è stato più d’uno, anche non superficiale ma comunque non così profondo da provocare emorragie interne. Una mano esperta? «Con ogni probabilità — spiega — è stata colpita con una lama molto affilata, da vestita: non ci sono elementi per dire che sia stata completamente spogliata prima delle ferite. C’è piena corrispondenza tra diverse lacerazioni degli abiti e le ferite sottostanti sul corpo». «E anche alla gola abbiamo rilevato una ferita — sempre la testimonianza —. C’è un taglio che va da lato a lato della gola, che sfiora la trachea senza reciderla». Quanto all’orario della morte. Durante le indagini era emersa un’indiscrezione vaga, che collocava il decesso di Yara tra le 19 del 26 novembre 2010 e le 3 della notte successiva. Dopo aver riportato tutto il suo ragionamento sugli orari di digestione, «solitamente in 4 o 6 ore», l’anatomopatologa ha spiegato che, a causa di un forte stress, «la digestione potrebbe essersi prolungata. Negli organi è stata trovata un’alta concentrazione di acetone. Spesso è prodotta da condizioni di forte stress biologico, che in questo caso potrebbe essere ricondotto a uno stato di ipotermia, probabile causa finale del decesso». Nella sua ricostruzione di fronte alla corte d'Assise presieduta dal giudice Antonella Beroja, sono stati ripercorsi gli attimi immediatamente successivi al ritrovamento del corpo nel campo di Chignolo e tutte le fasi dell'autopsia, "durata complessivamente due giorni". "Il cadavere è stato trovato nel campo di Chignolo d'Isola rivolto a pancia in su, con la testa leggermente piegata su un fianco - il racconto l'anatomopatologa incalzata dalle domande del pm Ruggeri e gli avvocati di Bossetti, Salvagni e Camporini - . Diverse parti del corpo risultavano schelettrizzate: la mano destra era chiusa a pugno e all'interno stringeva degli elementi erbosi strappati e riconducibili a quel terreno. Ci sono elementi che ci fanno pensare che il corpo fosse in quel campo da diverso tempo: l'impronta che lo stesso ha lasciato sul prato, una foglia ritrovata sotto al capo che non si era seccata a differenza di quelle circostanti. Altri che sia stata uccisa lì, come gli arbusti che stringeva nella mano destra e che aveva strappato probabilmente in un ultimo spasmo prima del decesso". "Il cadavere -prosegue - è stato subito portato all'istituto di medicina legale di Milano dove è stato sottoposto a lastre e tac: complessivamente l'esame autoptico è durato due giorni. Abbiamo rilevato varie lesioni sul corpo ma nessuna particolarmente profonda: da analisi microscopiche abbiamo capito che le ferite sono state tutte inferte quando Yara era ancora viva. Oltre a quelle da arma bianca, presentava anche una contusione alla testa. All'interno delle ferite, oltre agli elementi botanici, c'erano tracce di ossido di calcio, una componente della calce. «La presenza di queste microparticelle era enorme, molto diffusa sul corpo e sugli indumenti della ragazzina», riferisce il medico legale. Anche all'interno e all'esterno delle ferite. Come si spiega questo elemento tipico degli ambienti dei cantieri su Yara? Tamponi effettuati a casa, sui genitori, i prelievi sui terreni delle strade che abitualmente percorreva hanno dato esito negativo. «Mi viene più logico pensare che qualcosa sporco di calce sia venuto in contato con gli abiti, la pelle e le lesioni della vittima», afferma Cristina Cattaneo. Che ricostruisce gli ultimi istanti della vita della ragazzina. Sui vestiti, sulla cute e sui capelli c'erano anche numerose tracce di tessuto di colore rosso". "Dall'esame tossicologico effettuato - aggiunge - è emersa la presenza di acetone e da qui è nata l'ipotesi che la causa finale della morte sia stata l'ipotermia. L'analisi del contenuto gastrico, invece, ha evidenziato tracce di piselli, carne e amidi nello stomaco: considerato che Yara aveva pranzato attorno alle 14, l'ora della morte dovrebbe essere attorno a mezzanotte". “Chi ha ferito Yara col coltello ha mostrato incertezze” –Cattaneo ha parlato di ferite da “armi da taglio” delle quali una sola “di punta e taglio” sotto la mandibola, e tutte presumibilmente causate da un coltello. Che, però, è stato maneggiato da qualcuno che mostrato incertezze e “cincischiamenti” nel ferirla e non ha inferto colpi fatali. “Con ogni probabilità”, ha spiegato la consulente, “Yara è stata colpita con una lama molto affilata, da vestita” sia al corpo che alla gola. E “c’è un taglio che va da lato a lato della gola, che sfiora la trachea senza reciderla”. Le ferite “anche profonde” che la ragazza presentava soprattutto alle gambe, ma anche alla gola” ha detto in aula l’anatomopatologa, “hanno prodotto sanguinamento e dolore” ma non ne hanno causato la morte. La ragazza, poi, “aveva un trauma cranico – ha aggiunto – ma non sappiamo se fosse in corso un’emorragia cerebrale”. Inoltre “presentava piccole ulcere gastriche e aveva un’alterazione dei valori di acetone nei tessuti”: tutti elementi che fanno pensare ad una morte per assideramento avvenuta nella notte successiva al rapimento. Dalle analisi effettuate sul suo corpo, infine, non sono emersi segni di violenza sessuale anche se i tagli, più superficiali, inferti al tronco, fanno pensare che l’aggressore abbia sollevato i vestiti della 13enne. “Sul corpo tracce di materiali usati nell’edilizia” – Sul corpo, gli indumenti e le microsfere delle scarpe sono state ritrovate tracce di calce e di materiali riconducibili all’edilizia. “Abbiamo fatto un centinaio di campionamenti in tutti i luoghi frequentati dalla vittima – ha spiegato – in nessun caso è stato riscontrato lo stesso tipo di calce rinvenuto su Yara. Ci siamo chiesti se quelle tracce di calce siano finite lì per contatto con un’altra persona o per permanenza in un determinato posto. Riteniamo sia più probabile la seconda ipotesi”. “Nel suo stomaco tracce di cibo” – L’adolescente, in base agli accertamenti effettuati dalla dottoressa Cattaneo, “è morta intorno alla mezzanotte del 26 novembre 2010″, il giorno in cui è stata rapita all’uscita della palestra di Brembate di Sopra (Bergamo), “e non oltre le primissime ore del giorno successivo”, ha aggiunto Cattaneo. Lo prova “il contenuto gastrico” della 13enne, che aveva ancora “tracce di bucce di piselli, amidi e fibre di carne” nello stomaco quando è stata ritrovata. Elementi compatibili con il pasto che la madre ricordava di aver preparato per il pranzo, che Yara e i fratelli avevano consumato al ritorno da scuola, intorno alle 14. Non solo. Il corpo «molto probabilmente in quel campo è rimasta per molto tempo, almeno due o tre mesi», come gli esperti hanno evinto dalla vegetazione circostante. Domanda dei difensori: e se il corpo fosse stato avvolto e tenuto coperto per qualche giorno prima di essere abbandonato nel campo? Risposta: «Faccio l'anatomopatologa da vent'anni, tutte le volte che mi sono imbattuta in casi di trasferimento o copertura del corpo abbiamo sempre trovato tracce». E il processo di digestione, a causa di un “forte stress”, potrebbe essere stato più lungo. Negli organi è stata trovata un’alta concentrazione di acetone. Spesso è prodotta da condizioni di forte stress biologico, che in questo caso potrebbe essere ricondotto a uno stato di ipotermia, probabile causa finale del decesso”. Il corpo “molto probabilmente in quel campo è rimasto per molto tempo”, “almeno due o tre mesi”. Un periodo compatibile con le ricerche della ragazzina, come gli esperti hanno evinto dalla vegetazione circostante. Domanda dei difensori: e se il corpo fosse stato avvolto e tenuto coperto per qualche giorno prima di essere abbandonato nel campo? Risposta: «Faccio l'anatomopatologa da vent'anni, tutte le volte che mi sono imbattuta in casi di trasferimento o copertura del corpo abbiamo sempre trovato tracce».
Le cause della morte. Morta per lesioni trauma e ipotermia. Durante il processo si è parlato a lungo delle concause che avrebbero provocato la morte di Yara: la debolezza derivante dal sanguinamento a causa delle ferite d’arma da taglio, per quanto non mortali, che aveva sul corpo; alcune lesioni al capo, anch’esse non letali, e il fatto che rimase per ore nel campo di Chignolo d’Isola, dato che anche l’ipotermia fu causa del decesso. La professoressa Cattaneo ha parlato di ferite da «armi da taglio» delle quali una sola ferita «di punta e taglio» sotto la mandibola. Ferite presumibilmente causate da un coltello. La 13enne morì il giorno della sua scomparsa per una serie di concause: la debolezza dovuta al sanguinamento per le ferite d'arma da taglio (per quanto non mortali) che aveva sul corpo; per alcune lesioni al capo (anch'esse non letali) e per il fatto che rimase per ore al freddo in quel campo. Anche l'ipotermia, infatti, fu causa del decesso. "L'entità, la distribuzione, il tipo di disegno dei tagli ritrovati sul corpo di Yara Gambirasio sono compatibili con lesioni inferte su un soggetto che non si stava muovendo". Parola di Cristina Cattaneo, l'anatomopatologa che eseguì l'autopsia sul corpo della 13enne di Brembate e che oggi ha testimoniato nell'aula del processo a carico di Massimo Bossetti, unico imputato per l'omicidio della giovane. Se il suo aggressore avesse infierito sulla ginnasta che si dibatteva, i tagli non sarebbero stati così precisi e simmetrici. Lei non si è difesa, è rimasta inerme in balia dell'assassino. La mappa delle ferite con cui il suo aguzzino l'ha tormentata viene ricostruita minuziosamente da Cristina Cattaneo: tre traumi alla testa e uno alla mandibola, una ferita da una parte all'altra del collo che ha intaccato la giugulare, due ai polsi che hanno raggiunto l'osso, «una a forma di x sul dorso e una a j poco più in basso». Tutte trovano corrispondenza con altrettanti tagli sui vestiti, tranne due: quella sulla schiena e una che corre verticalmente lungo il torace. «Questo lascia pensare che la maglietta e la felpa siano state sollevate, e tra l'altro il reggiseno era slacciato», riferisce l'anatomopatologa. Secondo la consulente nominata dalla Procura, Yara sarebbe stata dunque seviziata con otto tagli di coltello quando già si trovava in uno stato di incoscienza, e comunque era inerme: "E' molto difficile - ha spiegato l'esperta davanti ai giudici della Corte d'assise di Bergamo - disegnare una 'x' con un coltello sulla schiena di una persona se questa si muove". Gli accertamenti hanno inoltre dimostrato "l'assenza di lesioni da difesa" e la mancanza di tracce di narcotici. Segno, probabilmente, che quando Yara è stata aggredita con un coltello, non era stata narcotizzata. Quanto alle cause «non è possibile per il cattivo stato di conservazione della salma» stabilirle con certezza, ha scritto nella relazione la Cattaneo «tuttavia la durata dell’agonia nel contesto di elementi climatici sfavorevoli e il concorrere di lesioni traumatiche contusive e da taglio ben si accordano con una morte concausata da ipotermia e dagli effetti combinati delle lesioni», una tesi confermata anche in aula mercoledì mattina. Numerose le ferite da taglio, le contusioni al capo e al volto riscontrate sulla vittima. L'erba che stringe nella mano destra non è radicata nel terreno, come ha ricordato erroneamente uno degli investigatori, ma «incastrato nel braccialetto e sotto un'unghia spezzata sono stati rivenuti due arbusti conficcati, che possono essere stati strappati solo con un movimento attivo di Yara». Scossa prima di esalare l'ultimo respiro da uno «spasmo terminale, tipico di un decesso preceduto da stress: vengono stretti oggetti afferrati poco prima della morte, sia che la vittima sia cosciente o incosciente».
Alle 11.45, al termine dell’intervento della Cattaneo, il pubblico è stato riammesso in aula. A prendere la parola l’avvocato Enrico Pelillo che ha chiesto alcune specifico alla professoressa: «Yara non è stata narcotizzata nè trascinata nel campo - ha spiegato la Cattaneo -: non si sarebbe neppure difesa».
Intanto alla vigilia dell’udienza, l’avvocato Claudio Salvagni (che assiste Bossetti insieme al collega Paolo Camporini) sulla sua bacheca Facebook ha scritto: «Agli amici che vogliono farmi giungere suggerimenti, osservazioni e valutazioni (sugli argomenti medico-legali o dna) questo è il momento. Il processo analizzerà da domani questi argomenti. Grazie a tutti gli amici».
Intanto emergono dei numeri degni di nota. Quella legata al caso Yara, è stata infatti l’indagine dei grandi numeri e, come facile intuire, anche dei grandi costi. Mentre è in corso il processo al presunto assassino Massimo Bossetti, per chi ha condotto l’inchiesta è tempo di bilanci economici, oltre che processuali. Anche perché proprio in questo periodo, in Procura e in Tribunale, è in atto l’ispezione periodica ministeriale e tutto viene verificato nel dettaglio. Dire «quanto è costata» l’indagine sulla morte di Yara è impresa ardua, perché all’inchiesta hanno contribuito molte anime, ciascuna con centri di costo differenti: il ministro della Giustizia, quello della Difesa (a cui fa capo l’Arma dei carabinieri) quello dell’Interno (per la parte polizia di Stato). Un dato certo – anche se parziale – c’è e riguarda le spese liquidate dalla Procura: ammontano a un milione e 30 mila euro. A questa cifra si riferisce tutta una serie di spese in cui la parte del leone l’hanno fatta le intercettazioni telefoniche, in termini di noleggio apparati e costo delle operazioni con le diverse compagnie telefoniche. Non solo: si pensi anche ai numerosi interpreti stranieri impiegati nell’arco di cinque anni di indagini. Nel milione e rotti liquidato dalla Procura ci sono anche i pagamenti delle numerose consulenze disposte dal pm Letizia Ruggeri per far luce sul caso: l’autopsia, gli studi sul Dna, per esempio. Il bilancio è parziale, perché al conto mancano le spese vive sostenute da carabinieri e polizia. La procura, a ritmo di due udienze la settimana, ha speso 1 milione e 30mila euro. Questo il bilancio. Una cifra molto elevata, che tiene conto degli sforzi investigativi, coordinati dal pm Letizia Ruggeri, per identificare Ignoto 1, partendo dal Dna trovato sul corpo della tredicenne di Brembate. Se alla fine del processo Bossetti sarà ritenuto colpevole, sarà costretto a pagare di tasca sua la somma, che raccoglie le spese per le audizioni, le consulenze esterne, le analisi dei Dna, i tabulati telefonici, gli interpreti e le traduzioni (per esempio, quella riguardante le dichiarazioni del marocchino Fikri). Nel milione e 30 mila euro rientra anche la spesa per la telecamera fissa installata al cimitero di Brembate Sopra che per quattro anni ha immortalato chi si avvicinava alla tomba di Yara. E poi gli hard disk e anche i cotton fioc, serviti ai carabinieri della Scientifica per le registrazioni e migliaia di test della saliva. Per fortuna c’è chi, come il genetista Carlo Previderè, ha offerto la sua consulenza a titolo gratuito. Nonostante gli iniziali passi falsi, l’indagine è stata impressionante per dispiego di forze, mole di lavoro, tecniche sofisticate, risorse finanziarie. Tra i tanti strumenti utilizzati è stata montata una telecamera nascosta nel cimitero di Brembate per filmare chiunque si fermava davanti alla tomba della bambina ed effettuare eventuali riscontri circa voci che sostenevano che l'indagato Massimo Bossetti si fosse fermato a pregare (poi smentite). Sono stati controllati quattromila automezzi simili a quelli dell’imputato. I ricercatori hanno esaminato il Dna di oltre 30 mila persone, senza contare gli appostamenti, i pattugliamenti, le ricerche, gli interrogatori, gli abboccamenti, i controlli dei numerosi testimoni e mitomani che hanno pullulato quelal zona della bergamasca. Un'inchiesta sofisticata come non mai, da far invidia agli investigatori dei "cold case" all'americana. Alla fine ne esce un conto di un milione e 30 mila euro. Un milione e 30 mila euro spesi bene. Nel conto però non ci sono i due esperti dell’Università di Pavia Carlo Previderè e Pierangelo Grignani, che hanno avuto un ruolo chiave nell’individuazione dell’imputato. Hanno rinunciato all’onorario. “Il fatto che il mio lavoro sia stato decisivo mi gratifica in un modo in cui nessun onorario avrebbe mai potuto fare”. Una dichiarazione esemplare e commovente. Fosse per noi, i due ricercatori meriterebbero il titolo di Cavaliere di Gran Croce della Repubblica. Nel caso venisse condannato in via definitiva, le spese saranno addebitate all'imputato. Ma al di là dell'esito del processo, uno Stato che per arrivare a verità e giustizia su un assassinio come quello di Yara spende un milione di euro, è uno Stato civile degno di questo nome.
Nemmeno nella tomba Yara Gambirasio è rimasta sola. Una telecamera nascosta ha spiato chiunque le ha fatto visita al cimitero dal maggio del 2011, poco dopo il suo funerale a Brembate di Sopra (Bergamo), al giugno del 2014, quando è stato arrestato l’unico indagato, Massimo Giuseppe Bossetti. La videocamera, messa dagli inquirenti, ha registrato parenti, amici, gente del paese e curiosi che sono andati a pregare o a guardare la tomba della giovane vittima. Di curiosi ne sono andati tanti sulla tomba di Yara al cimitero di Brembate di Sopra. Ma tra loro nessun sospetto. E non c’era nemmeno Massimo Bossetti. Un dettaglio, questo, che smentisce il racconto fatto un anno fa da un autista di Ciserano che, al settimanale “Giallo”, disse di aver “visto Bossetti pregare sulla tomba di Yara”.
Tre anni di video al cimitero per scovare l’assassino di Yara. Telecamera nascosta dagli inquirenti ha ripreso i visitatori della tomba, scrive Fabio Paravisi su “Il Corriere della Sera”. Per tre anni e un mese l’occhio elettronico ha scrutato tutti coloro che si fermavano davanti a una piccola lapide sormontata dalla foto di una ragazzina con l’apparecchio ai denti e il nome scritto con grafia infantile. Tra i tanti strumenti utilizzati dalla procura di Bergamo nella ricerca dell’assassino di Yara Gambirasio c’è stata anche una telecamera sistemata al cimitero di Brembate Sopra per riprendere chi si fermava davanti alla tomba della ragazzina. L’obiettivo è stato installato a fine maggio del 2011, poco dopo il funerale, e ha filmato parenti di Yara, gente del paese, curiosi da altre province, pellegrini che facevano una tappa sulla strada per Sotto il Monte, giornalisti e fotografi. Nessuno si è comportato in modo sospetto, e nessuno di loro era Massimo Bossetti: i filmati vennero ricontrollati dopo l’arresto dell’artigiano di Mapello senza individuare alcuno che gli somigliasse. La circostanza smentisce il racconto fatto un anno fa da un autista di Ciserano, che disse al settimanale «Giallo» di avere «visto Bossetti pregare sulla tomba di Yara». Dopo l’arresto, nel giugno 2014, l’impianto di videosorveglianza è stato smontato, e il costo del suo leasing è stato messo insieme a tutti quelli sostenuti dalla procura per l’indagine. Il totale, dicono i dieci faldoni di documenti esaminati dall’ispettore del ministero della Giustizia che sta controllando cifre e modalità di pagamento (senza entrare nel merito della loro opportunità), è di un milione e 30 mila euro. Dentro c’è di tutto: consulenze, traduzioni, trascrizioni, hard disc per video e foto (comprese quelle dei 4 mila automezzi simili a quelli di Bossetti trovati in quattro regioni), perfino il trasporto di un furgone venduto da un bergamasco nei giorni successivi al rapimento, trovato a Castello di Cisterna (Napoli) e portato con un carro attrezzi al Ros di Roma. Molte spese riguardano gli esami del Dna, e infatti nella lista ci sono kit e tamponi. Non ci sono però i costi per i 400 controlli effettuati dai due esperti dell’Università di Pavia che hanno avuto un ruolo chiave nell’individuazione di Bossetti: Carlo Previderé e Pierangela Grignani non hanno infatti voluto essere pagati. «Abbiamo rinunciato all’onorario come credo abbiano fatto anche colleghi delle forze dell’ordine — puntualizza Previderé —. È stata una scelta personale: chi ha richiesto un onorario per la sua professionalità lo ha fatto con piena ragione. Volevamo dare un contributo a un’indagine molto importante. Il fatto che il mio lavoro sia stato decisivo mi gratifica in un modo in cui nessun onorario avrebbe mai potuto fare. E voglio sottolineare la posizione di “precariato istituzionalizzato” della collega Grignani, borsista con pochissime speranze di stabilizzazione in Università. È un esempio di persone estremamente competenti con un’altissima specializzazione, ma che potremmo perdere se non riusciremo a trovare finanziamenti». In caso di condanna di Bossetti, il costo dell’indagine e delle spese giudiziarie andranno a suo carico. Intanto oggi ci sarà una nuova udienza del processo. Tra le persone ascoltate ci sarà l’antropologa forense Cristina Cattaneo, che eseguì l’autopsia sul corpo della vittima.
9 OTTOBRE 2015: OTTAVA UDIENZA. PARLANO DALILA RANALLETTA E GIOVANNI SCIUSCO.
Questa mattina Massimo Giuseppe Bossetti è tornato in aula: è la seconda udienza questa settimana dopo quella di mercoledì, scrive “L’Eco di Bergamo”. Mercoledì il medico legale Cristina Cattaneo, consulente del pm Letizia Ruggeri, aveva svelato che una foglia impigliata in una ciocca di capelli di Yara aveva permesso di risalire all’epoca del decesso della ginnasta. Una foglia - trovata dai consulenti della Procura - che si era conservata meglio rispetto a quelle sparse nel terreno circostante e quasi annerite, decomposte e che ha fornito un aiuto alla datazione della morte di Yara. Non solo la biologia, dunque, ma anche elementi di botanica ed entomologia forense (studio degli insetti) hanno fatto irruzione nell’inchiesta. E questi particolari autorizzano, ancora una volta, a ritenere che Yara sia stata aggredita e sia morta nel campo di Chignolo. «È stato esaminato attentamente l’ambiente vicino alla salma – ha detto l’anatomopatologa Cristina Cattaneo nell’ultima udienza –, ed è stato notato il germoglio che ha seguito il contorno del corpo di Yara. Abbiamo inoltre eseguito esami fino a dieci centimetri di profondità del terreno sotto la salma». La botanica rappresenta dunque un capitolo tutt’altro che secondario nell’ambito dell’inchiesta, anche se messa in discussione dai legali di Bossetti, Salvagni e Camporini, per i quali la flora, in particolare l’erba del campo di Chignolo, è assolutamente «uguale a quella di tutti gli altri terreni della Lombardia per fare un esempio». Un’ulteriore prova del fatto che Yara sarebbe stata uccisa laddove fu rinvenuto il suo corpo, è rappresentato dal ciuffo d’erba che la ragazzina stringeva in un pugno il giorno in cui fu ritrovata cadavere. Un’immagine che è diventata ormai il simbolo dell’ultimo disperato tentativo di Yara di rimanere aggrappata alla vita. La consulenza botanica ha certificato la presenza sotto il corpo della vittima e incastrate nelle suole delle sue scarpe di due tipologie di erbe e piante ottimamente conservate alla data del ritrovamento, e certamente presenti nel campo di Chignolo a novembre, quando la ginnasta fu uccisa. L’anatomopatologa forense Cristina Cattaneo aveva spiegato nella udienza di mercoledì scorso come anche“grazie ad una foglia impigliata in una ciocca di capelli” in sede di indagini era stato possibile appurare che la ginnasta era morta laddove fu rinvenuta il 26 febbraio 2011, nel campo di Chignolo d’Isola e che sia deceduta intorno alla mezzanotte del 26 novembre 2010 proprio in quel campo.
Piante e insetti che inchiodano i killer. L’esperto: «Sono i testimoni silenziosi degli omicidi: i pollini incastrano gli assassini». Dal caso Dekleva a Possagno, scrive Valentina Calzavara su “Tribuna Treviso”. Piante e insetti possono raccontare molte cose della scena di un crimine e, talvolta, possono incastrare l’assassino. Basta un po’ di polline sul corpo della vittima e a casa del sospettato per dare una svolta alle indagini. Le diatomee (alghe), aiutano durante l'autopsia a capire se la persona è morta annegata oppure se il corpo è stato gettato in acqua già privo di vita. Radici e microorganismi possono suggerire l’ora di un omicidio. Ne sa qualcosa Stefano Vanin, uno dei massimi esperti di entomologia forense, in forza all’università britannica di Huddersfield, che, oltre a studiare il ruolo di coleotteri e affini, collabora con i botanici e con la polizia scientifica per analizzare i luoghi del delitto. Ospite ieri del garden Barbazza di Treviso, Vanin ha portato come esempio alcuni dei fatti di cronaca nera in cui il mondo vegetale è stato testimone prezioso. Nel caso Lucia Manca, la bancaria di Marcon, uccisa dal marito Renzo Dekleva, il cadavere rinvenuto a Cogolo del Cengio, nel vicentino, ha “parlato” agli inquirenti grazie agli arbusti. «Le piante hanno fornito un appoggio fondamentale. I rovi che si erano sviluppati attorno alla vittima ci hanno suggerito da quanto tempo era lì. Le ramaglie di siepe che la ricoprivano, non potevano provenire dal luogo del ritrovamento, e ci ha hanno confermato che l'omicida voleva occultare il corpo». Altro caso interessante che Vanin sta seguendo, riguarda l'omicidio di Possagno. Lo scorso aprile, dietro al tempio del Canova, è stato rinvenuto il corpo carbonizzato di Aldo Gualtieri. «Non posso dire molto», continua l’esperto, «ma gli insetti e i pollini ci stanno dando un grosso aiuto. Le piante sono dei testimoni silenziosi che tutti ignorano, ma sono preziosissime fonti per costruire una impalcatura di prove che poi aiuterà il giudice a decidere». Anche negli omicidi di Elisa Claps, Melania Rea e Yara Gambirasio la botanica ha dato un contributo inestimabile. «Nel caso Claps a parlare sono state alcune muffe e alcuni insetti che hanno abitato il sottotetto», continua l'entomologo, «per la piccola Yara si sta ancora lavorando ma anche lì le piante del campo di Chignolo d'Isola ci dicono parecchio. La natura colonizza. Il principio è lo stesso del lasciare un alimento all'aria aperta. Gli insetti, gli agenti atmosferici e le piante interagiscono, studiare questi fenomeni può fornire la chiave». Per questo, l'anno prossimo in Veneto verrà organizzato il primo corso per forze dell'ordine e medici dedicato all'argomento. «Siamo molto più bravi di Csi e grazie alla scienza, all'entomologia e alla botanica, possiamo arrivare a risultati che fino a dieci anni fa erano impensabili» conclude Vanin «il training aiuterà i professionisti ad acquisire nuove conoscenze».
Parla Dalila Ranalletta. Il primo a essere sentito il medico legale Dalila Ranalletta, consulente di parte, che ha ripetuto quello che da tempo sostiene la difesa, ovvero che non può essere stabilita con esattezza l’ora della morte e che Yara non è stata uccisa sul campo di Chignolo, ma in un altro posto e trasportata lì successivamente. Il consulente di parte ha inoltre sottolineato che nelle ferite di Yara sono stati scoperti diversi fili di diverso colore, come se la tredicenne possa essere stata avvolta da coperte e plaid. Il corpo della ginnasta sarebbe stato inoltre rinvenuto parzialmente mummificato, come se fosse stato per lungo tempo in un ambiente confinato e chiuso. Parole sempre tese a supportare la convinzione della difesa che Yara non sia stata uccisa a Chignolo. "Inoltre - ha continuato la dottoressa - l'ossido di calcio ritrovato in alcune ferite e sui vestiti di Yara doveva essere fresco perché, dopo tre o quattro giorni al massimo, questo si sarebbe trasfornato in calce viva. E nel campo di Chignolo di calce non ce n'era. Le tracce vegetali? Non possono essere per forza collegate al terreno di via Bedeschi dal momento che si potrebbero trovare in qualsiasi altro campo". Quanto all’arma con la quale Yara è stata seviziata, Ranelletta ha affermato che non può essere individuato esattamente il tipo, ma che si tratta comunque di un’arma importante e non di un coltellino Opimel (che Bossetti aveva ed è scomparso), una delle ipotesi formulate dell’accusa. Come preannunciato dall’avvocato Stefano Camporini, uno dei due legali di Bossetti, verso la fine della deposizione, dalle 10,45, l’udienza è diventata a porte chiuse perché, come era già successo mercoledì, sono state proiettate immagini molto forti del corpo senza vita di Yara. Verso le 11,15 si è conclusa la deposizione di Dalila Ranalletta. Dopo una pausa la consulente di parte sarà ascoltata dal pm Letizia Ruggeri. È presente anche il medico legale Cristina Cattaneo, consulente dell’accusa. Nel corso della giornata sarà ascoltato anche il maresciallo Alessandro Gatti dei Ros di Brescia che nelle indagini si è occupato delle celle telefoniche. Durante il controesame, ci sono state scintille tra il pm e la consulente di parte con la Ruggeri che ha messo in dubbio la professionalità e la competenza della Ranalletto, suscitando le rimostranze della difesa che ha sottolineato come non sia la consulente di parte sotto processo. La stessa consulente, ha poi commentato: "La mia è un'ipotesi come le altre. Il problema è che se non c'è certezza, una ipotesi vale l'altra. Ma non vedo perché questa della difesa possa valere più o meno dell'ipotesi di quella formulata dall'accusa, posto che parte dagli stessi presupposti e che entrambe le parti riconoscono che questi presupposti sono dubbi". In particolare ad essere attaccata è situazione descritta come causa del processo di mummificazione (si è parlato precisamente di 'corificazione'). Cattaneo ha replicato allo scenario ipotizzato dalla consulente di Bossetti e spiegato che la mummificazione può presentarsi anche a seguito di un'esposizione prolungata all'aperto. Sempre la Ranalletto, poi, in aula è intervenuta anche sull'arma, che non è mai stata ritrovata. Secondo la consulente della difesa, non è possibile individuare con precisione di quale tipo fosse: si tratterebbe, comunque, a suo avviso di un'arma importante e non di un coltellino Opimel come quello che Massimo Bossetti aveva e che è poi scomparso, come sostiene invece l'accusa.
Parla Giovanni Sciusco. Dopo la pausa per il pranzo è stato il turno del maresciallo Giovanni Sciusco del Nucleo investigativo dei carabinieri di Bergamo che ha effettuato i rilievi a casa Bossetti, al centro sportivo e a casa del custode del centro sportivo e si è occupato anche dei prelievi salivari all’imputato e ai suoi parenti più stretti. Sciusco è stato anche l’autore del filmato dell’arresto di Bossetti e ha confermato che, alla vista delle forze dell’ordine, l’imputato aveva dato l’impressione di voler di scappare prima di essere bloccato. Sentendo questa ricostruzione, Bossetti ha scosso la testa in aula come a negare l’affermazione del maresciallo.
Poco prima delle 16 si è conclusa anche l’udienza di venerdì 9 ottobre a carico di Massimo Giuseppe Bossetti, come sempre imperturbabile, che è accusato di aver rapito e ucciso Yara Gambirasio.
Scontro in aula sulle ultime ore di Yara. Yara Gambirasio. Nata nel maggio del 1997. La mamma Maura fa l’insegnante d’asilo, il padre Fulvio il geometra. Sono 4 fratelli. Vive a Brembate Sopra. La sua passione è la ginnastica. È in palestra anche il giorno in cui scompare. Non c’è pace per il resti di Yara. Nell'udienza di giovedì, una nuova ipotesi sulle sue ultime ore l'ha formulata il medico legale Dalila Ranalletta, consulente di parte della difesa di Massimo Bossetti. L'esperta ha ribadito, senza però fornire basi scientifiche consistenti, che non può essere stabilita con esattezza l'ora della morte e che Yara non è stata uccisa nel campo di Chignolo, ma in un altro posto, si spinge a dire di Mariangela Mianiti su “Vanity Fair”. La dottoressa ha ipotizzato che l'ora della morte potrebbe essere spostata di poche ore in avanti e che il corpo della ragazza sia rimasto in un luogo diverso e poi portato nel campo di Chignolo. Quanto ai fili trovati nelle sue ferite, la Ranalletta ha spiegato che potrebbero provenire da altri tessuti, magari coperte servite ad avvolgere il corpo. Incalzata dal pm, la Ranalletta a un certo punto è sbottata dicendo: «Io ce l’ho un’idea di come sono andate le cose, ma non posso dirla perché non è supportata da elementi tecnici». Resta più solida, per ora, la ricostruzione fatta dall'anatomopatologa Cristina Cattaneo, continua Mariangela Mianiti. La consulente, fra i massimi esperti in Italia di accertamenti su morti violente, aveva spiegato che le 9 coltellate al petto, sul collo, a una gamba, ai polsi, sul dorso, sul seno, su un gluteo non causarono l’immediato decesso della vittima, ma che Yara «Ha avuto un’agonia in condizioni di ipotermia che ha determinato un lento rallentamento delle funzioni vitali, fino al decesso». Significa che le ferite non erano così profonde da ucciderla subito, ma che Yara è morta per lento dissanguamento e freddo presumibilmente attorno a mezzanotte o al più tardi una o due ore dopo. Lo dimostrerebbero i resti del pasto che consumò al ritorno da scuola, verso le 14, e che erano ancora nel suo stomaco. Inoltre, «I tagli erano precisi, furono fatti mentre Yara non si muoveva e non vi è alcuna ferita da difesa». Yara, dunque, fu colpita mentre era ancora viva, ma immobile, e chi l’ha fatto lasciò la lì agonizzante, al buio e al freddo di fine novembre, una ragazzina alta un metro e 50 che pesava 47 chili. Un particolare fa soprattutto pensare a quell’agonia, le mani. Le dita sono contratte sul palmo, come se volessero afferrare la vita che se ne va. In quello spasmo, la destra stringe un ciuffo d’erba ancora radicato nel terreno. E poi c’è il giubbotto ancora chiuso con la cerniera, ma sollevato a scoprire il ventre, l’intimità violata degli slip bianchi con il bordo rosa che sbuca dal leggins e che è stato tranciato di netto da una lama affilata, la scarpa destra perfettamente allacciata fin sopra la caviglia, mentre la sinistra è slacciata nella parte superiore, come se si fosse allentata in una corsa disperata. Che sia morta nel campo di Chignolo d’Isola, e non in un altro luogo, lo dimostrerebbero molti elementi che derivano dalla biologia, dalla botanica e dell’entomologia. «Lavoro in questo campo da 20 anni – ha detto Cattaneo – e non ho mai visto corpi trasportati da un posto a un altro che non presentino tracce di quell’altro luogo. Così è stato anche in questo caso». La tesi della difesa secondo cui Yara potrebbe non essere stata uccisa lì, ma altrove, per ora non ha dunque avuto alcun riscontro.
Processo Yara, scontro tra pm e medico difesa: ''Quali sono le sue competenze?'' La dottoressa Ranalletta omise lesioni sul corpo di Attilio Manca, scrive da par suo Miriam Cuccu su “Antimafia Duemila”. Scontro al processo sulla morte di Yara Gambirasio tra pubblico ministero e medico consulente della difesa. Nel dibattimento in corso, in cui è accusato della morte della tredicenne Massimo Bossetti, carpentiere di Manoppello, la consulente della difesa Dalila Ranalletta ha avanzato una serie di dubbi sulla ricostruzione dell’omicidio di Yara da parte dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo, del Labanof di Milano. Secondo la Ranalletta, infatti, non è certo che Yara sia stata uccisa nel campo di Chignolo d’Isola, dove ne è stato ritrovato il corpo, in quanto sarebbero state identificate fibre di tessuto non riconducibili ai vestiti dell'adolescente, che potrebbero far pensare a uno spostamento del corpo all'interno del campo solo in un secondo momento. La Ranalletta si è dimostrata scettica anche sull'arma del delitto: "Si è parlato di una lama affilata e sottile, ma ci sono lesioni che non possono non far pensare a un’arma importante" ha sostenuto, escludendo quindi l'uso di un coltellino Opimel come quello che Massimo Bossetti aveva e che è poi scomparso, come sostiene invece l’accusa. Bocciata anche la ricostruzione dell'ora del decesso, secondo la Cattaneo avvenuto nella fascia oraria intorno a mezzanotte. "Non ci sono indicazioni precise" ha replicato la Ranalletta, parlando dell'analisi del succo gastrico che sarebbe troppo impreciso, nonostante la consulente della controparte abbia ribadito che si tratta di un range orario, dunque di un'ampia fascia temporale. A questo punto lo scontro è stato inevitabile. "Lei lavora per l’Asl, ma quali sono le sue reali competenze?" ha sbottato a un certo punto il pm Letizia Ruggeri. "Ho lavorato su circa 2.500 cadaveri nella mia vita" ha ribattuto la dottoressa Dalila Ranalletta. Ma il sostituto procuratore ha ricordato alla dottoressa di "negligenze, rispetto al suo lavoro sul caso di Attilio Manca" recentemente evidenziate dalla stessa Commissione parlamentare antimafia. "Mai avuto problemi con le procure" è stata la replica della dottoressa. In realtà, però, ad essere chiamati dalla Commissione antimafia per chiarire alcuni aspetti dell'inchiesta sulla morte di Attilio Manca sono stati gli stessi magistrati della Procura di Viterbo, il procuratore Pazienti e il sostituto Petroselli. Attilio Manca, urologo di Belcolle originario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) è stato ritrovato nella sua casa di Viterbo la mattina del 12 febbraio 2014. Il suo corpo presentava diversi segni di violenza, sul braccio sinistro due buchi (anche se Attilio era un mancino puro) e vicino al cadavere due siringhe. Lo stesso vicepresidente della Commissione antimafia, Claudio Fava, al termine dell'audizione dei due magistrati che avevano ribadito il suicidio di Attilio con un mix di droga e alcool (nonostante numerosi indizi portassero all'omicidio, addirittura collegato alla latitanza del boss Bernardo Provenzano, che l'urologo avrebbe operato a Marsiglia) aveva parlato di un’inchiesta “gestita con eccessiva sufficienza” e di “pregiudizio negativo addirittura nei confronti della vittima”. In questo quadro, resta ad oggi incomprensibile perché la dottoressa Ranalletta, che analizzò il corpo di Attilio Manca, omise di descrivere le lesioni (il setto nasale deviato, lo scroto gonfio e visibili macchie ematiche su tutto il corpo) che tutto facevano pensare meno che a un suicidio. Dell'incomprensibile autopsia della Ranalletta diranno poi Pazienti e Petroselli di averne discusso per ore, salvo poi avallare la teoria del "medico drogato". Perché? Resta il fatto che, a seguito di errori così macroscopici, oggi il medico legale è passata a dirigere l'Asp di Roma, conducendo una brillante carriera, oltre ad essere consulente fissa negli studi di "Quarto grado" su Mediaset. I dubbi che restano su certi episodi, però, non sono mai stati del tutto chiariti. A discapito non solo della verità processuale, ma soprattutto del dolore dei familiari, quelli di Yara e Attilio, che oltre a dover fare i conti con il lacerante dolore di una perdita, si trovano a combattere contro gravi anomalie che impediscono alla verità dei fatti di venire finalmente a galla.
Yara, la difesa di Bossetti: "Tre cose non tornano. Ecco quali", scrive “L’Unione Sarda”. Yara non è morta nel campo di Chignolo d'Isola, dove è stata ritrovata, e non è stata colpita con una lama affilata e sottile, bensì con un'arma "più importante". Queste le confutazioni di Dalila Ranalletta, consulente medico-legale della difesa di Massimo Bossetti, alla ricostruzione dell'agonia della piccola Gambirasio, durante l'ultima udienza del processo in corso a Bergamo. Tre le contestazioni principali mosse dall'esperta ingaggiata dai legali del carpentiere accusato d'omicidio all'analisi elaborata dalla dottoressa Cristina Cattaneo, il medico che ha effettuato l'autopsia sul corpo della 13enne.
La prima riguarda il luogo del decesso. Che non sarebbe avvenuto nel campo di Chignolo, bensì altrove. Come dimostrerebbero delle fibre di tessuto non appartenenti ai vestiti, che potrebbero essere ricondotte a un telo usato dal killer per il trasporto.
La seconda riguarda l'arma: non un coltello a lama sottile, bensì un coltello - o altro oggetto - con una lama ben più grande.
La terza è incentrata sull'ora della morte: secondo Ranalletta, sfasata di qualche ora rispetto a quella indicata dal medico legale.
Yara, scontro in aula tra il pm e la perita della difesa, scrive Luca Telese su “Libero Quotidiano”.
«Lei ha dei problemi con i tribunali?».
«Nessun problema».
«Lavora per l'Asl, ma quali sono le sue reali competenze?».
«Se le interessa ho lavorato su circa 2.500 cadaveri nella mia vita».
«Lei si occupa di medicina legale previdenziale?».
«Sì, ma ho sempre fatto il medico legale autoptico».
Tribunale di Bergamo, ore 12.00 e un pugno di minuti che corrono, rumore di vetri infranti, cortesia formale e scintille di odio. La Pm ha appena dato alla perita della difesa della "Parafangara": quel "previdenziale", cioè, vuol dire che si occupa di incidenti d' auto. Non so se riuscite a immaginare l'asettica e chirurgica ferocia, la spietatezza di un duello tra donne che avvampa come una fiammata di acetilene compresso dentro la liturgia severa, e apparentemente ignifuga, del processo penale. Bene, non basta. Era più che un duello, quello che si è celebrato nell' aula: uno scontro antropologico, un corpo a corpo di sciabola e fioretto, combattuto - però - con le lame intinte nel curaro. La prima spadaccina, la Pm Letizia Ruggeri, ve l'ho già raccontata. Volto affilato, capelli ricci, occhi come due tizzoni neri e cipiglio da maestra severa. Una donna tutta casual che arriva sempre in Tribunale con un sorriso furbo apparecchiato sul viso, i pantaloni corti da marinaretto che mostrano i polpacci, e la toga infilata in una busta plasticata (quelle che al supermercato un euro): solennità e anticonformismo in un incarto spesa e frullate con ritmo rock. La Ruggeri finì sui giornali per essere arrivata in carcere, per gli interrogatori, a bordo di una rombante moto Honda. La seconda duellante, invece, esordiva come perita della difesa, ma è nota al pubblico televisivo per la sua carriera, costellata di processi importanti. Eppure Dalila Ranalletta non potrebbe essere più lontana dalla Ruggeri. Bonaria e imperturbabile, una voce profonda al punto da sembrare radiofonica, un sorriso tanto serafico da sembrare ineffabile, capelli corti e bruni, una che guarda le giurie e le ipnotizza, tende a prenderle per mano, con la dolcezza di una pedagoga da scuola primaria. Collocate la prima sul banco dell'accusa, la seconda su quello dei testimoni, immaginate che fino a quel momento i taccuini dei cronisti erano candidi come lenzuola, e poi assistete a questa deflagrazione come quando dopo il silenzio del buio i fuochi d' artificio iniziano a infiammare i cieli delle sagre di paese con luci e detonazioni:
- «Lei ha lavorato come consulente per il Tribunale di Viterbo?», chiede la Ruggeri.
- «Sì», risponde pacata la Ranalletta.
- (Affondo) «Mi conferma che ha avuto problemi?».
- (Pausa) «No, nessun problema».
- «Mi conferma che la commissione Antimafia ha avuto dei problemi con lei?», chiede ancora la Pm.
- «Assolutamente no», risponde la Ranalletta.
- «Lei non ricorda che una sua perizia è stata definita negligente e insufficiente? E...».
E a questo punto si vede l'avvocato di Bossetti, Paolo Camporini che fa quasi un salto sul banco, assume una colorazione rosso gambero, e si mette letteralmente a gridare: «Mi oppongo! Signor giudice mi oppongo!». La Pm continua: «Negligente e insufficiente...». Camporini è esterrefatto: «Ma tutto questo è inaccettabile! Inaccettabile signor giudice!». L'avvocato aggiunto allarga le braccia e si gira verso la presidente. I giurati, imbanditi nelle loro sfavillanti fasce tricolore, girano la testa da un capo all' altro come se seguissero una partita di ping pong. Lei, la perita accolta dal fuoco di contraerea dell'accusa, guarda solo la Ruggeri, sempre apparentemente serafica, anche se dovrebbe essere furibonda. Però mostra le unghie lanciando una stoccata alla principale perita dell'accusa, à la guerre comme à la guerre: «Ripeto: non ho nessun problema con nessuna procura. Ma se lei è appassionata ai contenziosi giudiziari le chiederei qualcosa sull' autopsia della Cattaneo sul caso Cucchi...». La Ruggeri, granitica: «Non ha problemi?». La Ranalletta, con un filo di rabbia che si insinua nella sua voce: «Se lei riporta dei giudizi offensivi farò partire denunce per diffamazione». Camporini, gridando: «Se tutto questo viene tollerato chiederò di acquisire quell' autopsia!!!». Ed è a questo punto che la presidente della corte, Antonella Bertoja, suona il gong e ferma la Pm: «Nei fatti che stiamo citando non c' è nessuna rilevanza ai fine del processo». Se ci fosse la diretta televisiva sarebbe un fermo immagine spettacolare. I capelli biondi e il tono elegante della Bertoja, il sorriso della Ranalletta, che ora pare scolpito. I ricci elettrizzati della Ruggeri, che per un attimo si ferma. Bisogna solo aggiungere rudimenti di anatomia, botanica, entomologia, un pugno di dettagli raccapriccianti dal film horror, foto dell'autopsia e del cadavere che hanno costretto la Bertoja a far uscire il pubblico, per capire come mai sembra improvvisamente di essersi infilati dentro il copione de Il silenzio degli innocenti, per spiegare come mai tutto questo era maledettamente importante per stabile cosa sia veramente accaduto a Yara. E dire che, dopo cinque udienze, doveva essere una giornata tranquilla. Nessun testimone. Nessun poliziotto. Nessun parente. Nulla di rilevante nella lista audizioni, e addirittura il supertecnico delle celle telefoniche che salta. Insomma, venerdì, guardando l'ordine del giorno del processo, tutti pensavano: «Non accadrà nulla». La Ranaletta aveva già parlato in apertura, convocata dagli avvocati della difesa. Claudio Salvagni e Paolo Camporini facevano testimoniare la loro esperta, con tono apparentemente piano. Eppure qualcosa faceva preoccupare la Ruggeri, che intuiva subito quello che agli altri in aula non era chiaro. L' esperta di anatomopatologia, infatti, introduce un termine specialistico che per i più suona ostrogoto: corificazione: «Vuole spiegare cosa significa questa parola?». La Ranalletta è paziente, chiara, quasi didascalica: «Si tratta di una particolare forma di decomposizione del cadavere. L' epidermide assume la consistenza del cuoio...». Ma mentre la spiegazione prosegue, la Ruggeri intuisce tutte le conseguenze. Infatti la Ranalletta spiega che la corificazione si produce in condizioni climatiche particolari, al chiuso, e poi aggiunge che i campioni di piante trovati sul corpo - in particolare il filo di erba e una foglia - possono appartenere al campo di Chignolo ma anche ad un altro, quindi si dedica alla datazione e aggiunge che ciò che la rende certa è il processo digestivo della vittima, ma subito dopo spiega che non si sa cosa abbia mangiato esattamente Yara - la testimonianza della madre era discordante con i primi referti - e infine si dedica alle ferite, spiegando che non possono essere state inferte alla ragazza con i vestiti indosso. In meno di mezz' ora, con questa lezione apparentemente serafica, La Ranalletta ha demolito tre pilastri del teorema accusatorio: Yara potrebbe essere morta molto più tardi delle 20.00, ma anche delle 24.00, potrebbe essere stata uccisa e conservata in un altro luogo, con un clima diverso dal campo, è stata svestita e rivestita. Gli avvocati della difesa finiscono, si va in pausa, i dubbi iniziano a materializzarsi, davanti agli occhi della giuria, con un ritmo ipnotico, ma costante, in un alternarsi ritmato di scienza e didattica. La perita sta modellando la perizia della Cattaneo, fino a quel momento pilastro dell'accusa, come una vaso di creta al tornio: «Sono d'accordo con lei quando vi dice: "Io non ve lo so dire..."». La Ruggeri mostra notevole prontezza di riflessi, e grande capacità di intuire il pericolo: le stanno sbullonando il processo. Ed è così che quando alle 12.00 si riprende rovescia sull' anatomopatologa il suo possente fuoco di contraerea. È asciutta, dura, algida ma impeccabile: «Lei è una botanica?». E poi: «Lei ha una cattedra?». E poi: «Lei ha competenze tossicologiche?». Ancora Camporini: «Ma basta! questo non è un processo alla consulente!». Sta di fatto che, quando apparentemente si parla dei succhi gastrici di Yara, in realtà la Ranalletta sta combattendo sull' ora del decesso: «Come fa a dire che non c' è azione combinata di freddo e acetone?». Sottotitolo: tu non ne capisci nulla. La Ruggeri va all' attacco: «Lei dice che aveva molto liquido acido nello stomaco?». La perita: «Si parla di 30-40 centilitri» La Pm: «E come fa a dirlo?». La Ranalletta stavolta esibisce un sorriso trionfante: «Lo dice la perizia!». Ancora la Ruggeri: «Ma come fa a dire che il decesso si colloca in un'ora diversa da quella di cui parliamo?». La Ranalletta: «Lo dice la perizia della Cattaneo». Adesso, nell' aula, il gioco è chiaro a tutti: la Ranalletta, evitato l'affondo mortale, sta girando le carte che la mattina aveva calato coperte. Tutte le sue tesi le sostiene usando il documento principale dell'accusa, la perizia della Cattaneo (che fra l'altro è presente). Il segnale che l'accusa incassa il colpo è l'entrata in scena della Bertoja, e una sua battuta, che arriva come un sigillo sulle tesi della Ranalletta: «Non ci cono contraddizioni con quanto afferma la Cattaneo». Adesso i fendenti volano, è la Ranalletta ad attaccare, spiegando che la fibra vegetale che era nella mano di Yara è molto comune: «Questa mattina ho visto quella stessa erba nei prati vicino al mio albergo». La Ruggeri: «Nel mio giardino non c' è!». La Ranalletta sgrana il suo sorriso, e assesta il colpo: «Se avessi trovato un'orchidea sudrafricana sarebbe stato significativo... In questo caso no». La Pm chiede: «Ma allora come si spiega il materiale botanico nella mano della vittima? È anche in quel campo». La perita per la prima volta alza la voce: «Io un'idea ce l'ho! Il cadavere è stato buttato lì!». Spostate lo sguardo, per un attimo, su Bossetti. Muto, impassibile. Ha visto tutti i reperti fotografici senza mostrare un solo filo di emozione. Unico dettaglio: ha smesso di masticare il chewin gum. Orco o innocente, di certo un enigma. Si combatte sui vestiti, e stavolta la Ruggeri si lascia prendere dalla rabbia: «Lei dice che il taglio lungo il leggins è lungo 25 millimetri. Ma sa quanti sono 25 millimetri!?». La perita, prende una pausa, e poi sospira con perfido candore: «Sì: sono due centimetri e e mezzo». Il pubblico rumoreggia. «Ma dove lo vede?», dice la Pm. Di nuovo la Ranalletta recita la parte della professoressa preparata che riprende la studentessa distratta: «Lo trova a pagina 168 della relazione». Quando si parla dei famosi leggins la Ranalletta prende due fogli per dimostrare che non possono corrispondere: «Non è uguale!», sussurra la sostituta alla Bertoja. Come dire: «Ha ragione». Ma il colpo definitivo, per l'accusa, arriva dalla presidente, con una domanda che contiene già un rimprovero: «L' accertamento dell'infiltrazione ematica nel suolo avrebbe aiutato a stabilire il ruolo della morte?». Non è ostrogoto nemmeno stavolta, ma un boomerang che volteggiava in cielo dall' altra udienza, perché nei processi accade anche questo. Durante la deposizione della Cattaneo era emerso che non erano stati fatti rilievi sul sangue sotto il corpo. A lei non spettava, a chi spettava? Non importa più, non è stato fatto, e la responsabilità è di chi conduceva le indagini, cioè la Ruggeri. La Ranalletta lo sa, ed è spietata: «Se non avessimo trovato sangue si sarebbe potuto sicuramente dire che il corpo è stato portato». La Ruggeri ha una buona idea. Riporta sul banco dei testimoni la Cattaneo. Ma la luminare - a parte uno spiraglio sulla corificazone - non può che confermare che tutti gli elementi della Ranalletta sono contenuti nella sua perizia. Quindi il colpo di scena ha funzionato: se l'ora slitta, non può essere stato Bossetti, che secondo i carabinieri alle 19.52 era già a Brembate. E se Yara non è stata uccisa a Chignolo non è stato il muratore, che secondo la polizia non aveva un luogo dove tenerla e ha agito per un raptus. L'udienza è finita, la folla sciama. Se questa battaglia si combatte sul corpo, cosa potrà accadere quando si parlerà del Dna?
Processo a Massimo Bossetti. La verità virtuale dell'accusa perde i pezzi quando si scontra con la logica granitica della difesa. E di monumentale c'è solo il caos..., scrive Massimo Prati su “Albatros- Volando Contro vento”. Il pool che si è occupato del sequestro e dell'omicidio di Yara Gambirasio, dopo essere entrato nel tunnel delle proprie convinzioni non ne è più uscito. Nessuno ammetterà mai che la luce che pensano di vedere in lontananza non proviene dal dna che credevano di avere isolato, ma dal film che loro stessi hanno girato, memorizzato e metabolizzato. La luce non è naturale, ma è quella artificiale di una verità virtuale adattabile a un qualsiasi sospetto che venga indagato dopo il suo arresto. Il problema è che questa verità virtuale è diventata parte integrante del sistema cerebrale di chi ha collaborato con gli investigatori e col Ris. Le convinzioni oramai han preso il posto della logica e i cervelli del pool si rifiutano di pensarle false o sbagliate, si rifiutano di cambiarle preferendo sistemare a modo ogni testimonianza e far raccontare alla propria bocca ciò che poi sarà smentito dalle evidenze. Triste storia. Sarà per questo che a processo c'è chi sta remando nella direzione voluta dalla procura anche se la strada è tutta in salita? Oppure sarà che in tribunale non si trovano ragionamenti accusatori concordanti e logici a causa dei troppi denari spesi? Chi si siede sul banco e giura di dire la verità crede in quanto racconta, o a forza di ascoltare l'unica ricostruzione ha ormai perso la libertà di ragionamento uniformando il proprio pensiero a quello comune? E' brutto da dire, ma come può un perito o un rappresentante delle forze dell'ordine remare controcorrente se questo significa andare dalla parte opposta a quella che permette di lavorare ogni giorno dell'anno? E qui mi sovvengono le ammissioni odierne della dottoressa Cattaneo, contrarie alla sua prima deposizione, e le parole colpevoliste dell'ex comandante del Ros di Brescia Michele Lorusso sull'erba radicata al terreno stretta nel pugno della piccola Gambirasio. Parole pronunciate con tono sicuro di fronte a un giudice e a una giuria popolare. Parole che non hanno assolutamente trovato appoggi, né video né fotografici, che però continuano a girare sui media come fossero verità conclamata anche se nessuno le ha confermate, né la dottoressa Cattaneo né il sostituto commissario della scientifica Dario Redaelli. La dottoressa ha smentito che l'erba fosse radicata a terra, mentre il comandante che con la sua squadra scientifica intervenne al campo di Chignolo (e lui meglio di tutti dovrebbe conoscere la situazione del luogo e del cadavere) di fronte al giudice non si è esposto più di tanto quando ha detto di aver avuto l'impressione che Yara stringesse nel pugno destro dell'erba ancora attaccata alla terra. E qui ci sarebbe tanto da capire, perché un discorso del genere in tribunale lo fa chi, per non scontentare qualcuno, dà una botta al cerchio e una alla botte. Chi interviene per primo su una probabile scena del crimine, se vuol risultare professionale quando è interrogato parla di sicurezze. Chi interviene per primo non ha fretta di andarsene e con calma inchioda ogni punto visivo alla verità. Deve scrivere, repertare e filmare perché in quel momento funge da occhio dei futuri giudici. Lui dovrà riportare ai giurati informazioni certe e non riferire proprie impressioni. Ma quando si processa chi non dovrebbe essere processato è normale che non vi sia nulla di sicuro e che gli specchi siano scivolosi. Per questo, dopo aver seguito e letto i resoconti del processo contro Massimo Bossetti, tante persone si son chieste il motivo per cui la procura non sia riuscita a capire, al momento di mettere ordine nelle indagini, di essere arrivata a conclusioni confusionarie e illogiche. Quali motivi hanno spinto i procuratori a perseverare e perché ancora non capiscono che stanno rendendo ridicola la loro categoria? E non è l'unica istituzione che si rende ridicola, dato che è difficile capire anche il motivo che ha spinto un giudice a imbastire e mettere in scena un simile obbrobrio giudiziario basato solo su convinzioni personali. Convinzioni nate in un ambiente investigativo chiuso a riccio che si è auto-alimentato delle stesse idee senza mai valutarne di contrarie. E ad oggi ne paga le conseguenze. In pratica, ogni persona del pool col passare degli anni ha condiviso la linea su cui poggia l'intera indagine e senza porsi domande ha accettato di non guardare oltre la punta del proprio naso. A loro volta i giornalisti hanno contribuito a divulgare il "verbo" raccontando quanto assorbito e mentalmente elaborato da queste "persone vicine alle indagini". E tutti sono entrati in uno specchio virtuale che invece di mostrare l'insieme riporta alla vista l'unica angolazione voluta dalla procura. La classica "visione a tunnel" che colpisce chi crede di avere a che fare con l'assassino ma non ha prove per dimostrarlo, chi non vede le incongruenze e della matassa ingarbugliata possiede solo qualche filo rotto, chi per arrotolare il gomitolo preferisce tagliare e far nodi in maniera casuale piuttosto che sbrogliare l'intreccio per capire se il filo tirato è quello giusto. L'indagine sulla scomparsa della piccola Gambirasio è nata e cresciuta nel caos e nel caos continua a dibattersi all'interno di un processo assurdo. Eppure sugli schermi e sui giornali si acclamano gli accusatori con paroloni quali "monumentale", senza considerare che i crimini comuni non necessitano di indagini monumentali. Che i crimini comuni si risolvono solo se si agisce in fretta e si resta sulla parte semplice della storia. Che le indagini monumentali in Italia si sono sempre create apposta perché servivano ad alzar polvere per coprire qualcosa o qualcuno. Che tornare indietro negli anni, fino al 1700, per rintracciare non si sa bene né chi né cosa né perché, non ha alcun senso se non ci sono motivazioni nascoste. Che isolare un dna e attribuirlo prima a "ignotouno" poi a Massimo Bossetti senza accorgersi che nella traccia mista non esiste il mitocondriale dell'imputato, è una follia non credibile che non dovrebbe mai portare un uomo in carcere. Ci parlano di una indagine monumentale senza spiegarci come abbiano potuto rintracciare la madre di ignotouno se il dna mitocondriale di Bossetti non non esiste sulla traccia mista isolata sui leggings... insomma, quale mitocondriale hanno usato per comparare... oltre a quello di Yara Gambirasio? Ma questa è solo la punta dell'iceberg. Ciò che salta agli occhi di chi ritiene che a processo vadano garantiti gli stessi diritti ad accusa e difesa, è il non tenere da parte una minima quantità di traccia mista da far analizzare a un perito terzo che certificasse con sicurezza la genuinità delle analisi del dna che hanno portato all'arresto di Bossetti. Questa è una assurdità atroce che danneggia chi è indagato e getta ombre su chi accusa. Come è assurda e incredibile la cremazione dei due cadaveri che hanno fornito "le prove" alla procura. Quei corpi esistevano e dovevano restare a disposizione della difesa che avrebbe potuto chiedere al giudice nuove analisi e accertamenti. E' normale che la procura faccia sparire i reperti analizzati dai suoi periti? Pensando all'indagine monumentale vien da chiedersi se davvero quelle due cremazioni siano solo il frutto di poca professionalità. Non è che ci stanno prendendo in giro grazie ai soliti giornalai e opinionisti che poco leggono e molto, sparlando e urlando, riportano a pappagallo? Per quale motivo la testimonianza di Michele Lorusso ha scatenato i media contro Massimo Bossetti? Perché nessun giornalista ha invece ragionato in maniera appropriata e critica sulla testimonianza dell'ex comandante del Ros di Brescia? Ci vuole pochissimo a capire quanto sia stato altalenante e poco logico. Lorusso ha detto che la sera del ritrovamento ha visto nel pugno di Yara un ciuffo d'erba ancora aggrappato al terreno. Per cui ha dato per certo quanto voleva la procura, che la piccola fosse morta in quel campo il 26 novembre 2010 e lì rimasta per tre mesi. Lorusso comandava il Ros e a questo punto si deve ammettere che chi indagava per lui e per i procuratori si basava su queste certezze. Ma qualcosa non torna, perché spiegando ai giudici l'evolversi dell'indagine Lorusso ha poi parlato di Damiano Guerinoni e del fatto che il giorno dell'omicidio non fosse in Italia. Ed allora l'ex comandante del Ros ci dovrebbe spiegare il motivo per cui, se Yara è stata uccisa quella sera in quel campo, Damiano Guerinoni non sia stato scartato come altri 32.000 soci della discoteca. Che c'entrava lui con la morte della ragazzina se manco era in Italia? Perché quando è tornato dal sudamerica si è voluto analizzare il suo dna? Che senso ha questo comportamento investigativo? Di senso non ne ha, questo è sicuro, perché nessun investigatore avrebbe perso tempo con chi nel momento dell'omicidio si trovava a settemila chilometri di distanza. Eppure a Bergamo qualcuno il tempo lo ha perso. Cavolo, non si è voluto il dna del custode del centro sportivo e lo si è chiesto a chi il 26 novembre si trovava dall'altro lato del pianeta? Tutto non ha senso. Eppure, fateci caso, la monumentale indagine è partita dal dna di chi sicuramente non c'entrava col delitto. Quindi la soluzione può essere solo una: "qualcuno sapeva che quel dna serviva". Infatti una volta isolato si è passati da un nonsenso investigativo al senso colpevolista voluto dalla visione a tunnel che tralascia la logica e direziona le indagini per come aggrada a "qualcuno". Usare un nonsenso per creare un senso inverosimile ma capace di indirizzare le ricerche biologiche è quanto di più strano possa capitare in indagini "normali", come devono essere quelle che trattano i sequestri e gli omicidi. E se è vero che i nonsensi investigativi in Italia si sono usati spesso per crimini quali gli attentati degli anni di piombo, è anche vero che qui siamo in presenza di un crimine comune e chi accetta di seguire un nonsenso all'apparenza inutile lo può fare solo perché si sente sotto pressione e non riesce a investigare a tutto tondo a causa degli sbagli iniziali. In pratica non sa dove sbattere la testa perché quando le prime indagini non sono professionali la traccia giusta si raffredda, si è costretti ad allargare il raggio d'azione e a toccare corni o altre cose scaramantiche, perché ricostruire un evento senza aver prima bloccato il tempo è quasi impossibile. Per questo alle forze dell'ordine da sempre si chiede di avere maggiore professionalità. Insomma, se alle 20.30 di sera ai carabinieri si prospetta un sequestro di persona, professionalità vuole che non dicano vado domani perché tanto è uguale. Quando scatta l'allarme bisogna agire perché in caso contrario certe situazioni non saranno più recuperabili. Congelare nell'immediatezza l'ultimo luogo in cui lo scomparso si è recato è il minimo sindacale che chi riceve la denuncia deve far fare ai colleghi. Specialmente se quel luogo è frequentato da centinaia di persone. Non si resta in attesa di geolocalizzazioni pressapochiste da gettare nel cestino il giorno successivo. Si alza il culo dalla sedia, si fanno due telefonate per chiedere autorizzazioni e mentre si sale in auto si chiamano i rinforzi dalle zone limitrofe e si va dove la persona scomparsa è stata vista l'ultima volta. Questo andrebbe fatto sempre, ma a maggior ragione si deve fare se a sparire è una ragazzina di tredici anni. Nell'immediatezza della denuncia nessuno può sapere se la tredicenne sia andata altrove o si trovi ancora in quei locali. Per cui si bloccano le uscite e si entra nel parcheggio, si trascrivono tutti i numeri di targa poi si va all'interno per identificare chi vi si trova e si chiede ai proprietari delle auto di aprire il bagagliaio. Si chiamano i responsabili e a loro si chiedono le schede di allenamento per sapere chi c'era in quel luogo quando la persona scomparsa era presente. Subito dopo si chiudono le porte a chiave e si fa un'accurata ispezione senza badare al tempo impiegato. E se c'è un pulmino nella polisportiva, si controlla anche quello...Perché un'indagine professionale che parte a due ore dalla scomparsa può essere in grado anche di appurare se tutto è già accaduto o se tutto deve ancora accadere, se c'è un morto o se lo scomparso è vivo o sta per morire. In quegli attimi non vi sono certezze e lasciare passare ore e giorni significa dar tempo al sequestratore e ai suoi eventuali complici di metabolizzare la tensione accumulata durante il crimine, di far scemare i sensi di colpa che nelle prime ore fanno confessare tanti assassini e di concordare una strategia comune (ad esempio fornirsi un alibi a vicenda). Restare immobili nelle prime ore significa dover un domani fare i conti con la propria coscienza. E nel caso in questione, che la piccola Gambirasio si potesse salvare, o almeno tentare di salvare, lo dice l'accusa dando per l'ora della sua morte una forbice molto ampia che la difesa non condivide. L'ora della morte è stata stabilita fra le diciannove e l'una di notte, dice l'accusa. Non può essere precisa, afferma la difesa, stabilirla tramite il contenuto gastrico significa non avere un giusto orario. Ricordo a tutti che a detta di sua madre Yara aveva pranzato alle 14.00 con pesce e piselli. Il patologo che ha effettuato l'autopsia dice di aver rinvenuto carne e piselli. Comunque sia, l'accusa a processo si trova male perché costretta a fare i conti con la logica e non con chi ha la sua stessa visione a tunnel. Quando testimoniano i suoi investigatori e periti, affetti dalla stessa visione, si asserisce che Massimo Bossetti è il cattivo, colui che attendeva la ragazzina in strada per portarsela chissà dove, colui che ha tentato di scappare dal tetto in cui stava lavorando, neanche fosse batman, nonostante avesse gli stivali infilati per dieci centimetri in una gettata di cemento fresco. Ma per sfortuna della procura non testimoniano "solo i suoi", perché c'è chi ha giurato che Yara mai sarebbe salita con un adulto e mai aveva incontrato Bossetti. Persona sconosciuta a tutti quelli che frequentavano la piccola Gambirasio. La realtà a volte è dura e forse la dottoressa Ruggeri in questi anni non è stata abituata a sentirsi dar torto. Si è capito perché già un paio di volte ha dimostrato ai giudici che non è facile restare calmi quando, con logica, chi testimonia per la difesa smonta pezzo per pezzo le tue conclusioni. Oggi come altre volte si è scontrata con chi, non avendo pubblicizzato sui media le proprie future mosse, ha scoperto le sue carte a processo rendendo più importante l'effetto su giudice e giurati. E non è stato facile metabolizzare la botta subita. Nessuna coperta, la ragazzina è morta in quel posto. Aveva detto il perito d'accusa. No, più coperte o una sola multicolore hanno avvolto Yara, visto che ci sono diversi fili di diversi colori sulle ferite e sulla pelle, dice la difesa, e questo può significare solo che in quel campo c'è arrivata da morta e che parte di quella maledetta sera l'ha passata senza vestiti. Niente di più semplice e capibile. E spiace che la visione a tunnel resti impressa nella mente di chi indaga e accusa anche dopo i processi, lo dicono le statistiche, anche quando gli imputati innocenti vengono scarcerati a causa di prove lampanti. Spiace perché oramai è chiaro a tutti che il cadavere della piccola Gambirasio a Chignolo c'è arrivato dopo il 26 novembre. E' chiaro a tutti tranne a chi non si rassegna e presto chiederà al giudice di far pagare a un carpentiere i milioni di euro spesi per un'indagine monumentale che di logico ha poco o nulla...
Caso Bossetti - mala-informazione e "The show must go on". Ogni cassata divulgata a voce alta dai "bravi" è bella a mamma soia e al don rodrigo di turno, scrive Gilberto Migliorini su “Albatros Volando Controvento”. Il video sopra fa sorridere, anche se denuncia in maniera amaramente goliardica uno dei grandi problemi italici. Invece quello costruito da Massimo Prati e postato a corredo dell’articolo sul celeberrimo (ma purtroppo solo all'epoca) caso Tortora, gronda tristezza e fa venire alla mente tante considerazioni ovvie con riferimenti all'attualità di tanti altri casi emblematici. In particolare alla vicenda del muratore di Mapello. Certo la sensazione è quella che la storia si ripete e che siamo in un paese che non impara mai dai propri errori, dove la macchina dell’informazione è un sistema amorale che vive sulla vendita di notizie. Non importa se vere o false, l’importante è che tirino e che facciano clamore. L’impressione è che anche la giustizia sia un sistema cieco e senza ratio che si muove attraverso meccanismi lontani dal buon senso, una macchina dove la logica appare quella di procedure senza più contatti con il principio di realtà, automatismi in grado di girare a vuoto, astrattamente, sulla base di teoremi, ma stritolando persone vere. Viviamo in un contesto sociale che sempre più appare organizzato da una logica di sistema, quello dei formalismi esteriori e del controllo dell’opinione pubblica attraverso le forme della retorica, della suggestione e dei luoghi comuni. È un sistema che si autoalimenta in una catarsi mediatica dove le persone, gli attori del quotidiano mestiere di vivere, sono soltanto ingranaggi all’interno di una macchina istituzionale lenta e farraginosa, ottusa e inconsapevole, a tutti i livelli dell’organigramma sociale. Il tutto viene poi derubricato da qualche esperto semeiotico come quel normale processo che va sotto il nome di cultura di massa, in una sorta di asettica analisi fattoriale e di statistica vettoriale. La civiltà massmediatica dell’occidente nasce con quei sistemi totalitari come il fascismo e il nazismo che hanno caratterizzato la prima metà del novecento fino alla seconda guerra mondiale, poi sostituiti dalla forma ‘democratica’ che ha trasformato la retorica violenta e guerrafondaia in una edulcorata e ipnotica sponsorizzazione del modello capitalista con tutti i plus e i benefit della vita borghese. All'infallibilità del capo carismatico si è sostituito quello anonimo del persuasore occulto, senza più un volto e soprattutto senza più un’anima. Il paradigma scientifico, successivamente, in qualche modo ha sottratto l’attore sociale dalla responsabilità delle scelte attraverso un determinismo sociologico che interpreta i comportamenti sociali sotto l’egida di forze (pulsioni) sul modello del mondo fisico. Il processo di spersonalizzazione del vecchio leader ha fatto seguito alla autorevolezza che sempre più hanno assunto due figure emblematiche del nuovo organigramma mediatico: l’esperto e l’opinionista che via via nell'immaginario collettivo sono andati sostituendo la ‘figura carismatica’ delle vecchie dittature. Al malinconico tramonto delle ideologie come sistemi in grado di inquadrare e interpretare la società e i suoi meccanismi culturali (in un lungo processo di dissoluzione delle dottrine politiche nella seconda metà del novecento) ha fatto seguito la nascita di una oggettività interpretativa sulla base dell’autorevolezza della televisione e oggi del medium elettronico (il web soprattutto). La scienza in particolare ha assunto quella veste di infallibilità che un tempo era prerogativa del capo carismatico. La competenza dell’esperto (o presunto tale) ha sostituito la retorica altisonante e grossolana con uno stile da maître à penser e con una argomentazione ricca di immagini e di suggestioni tratte dalla fisica e dalla biologia. Ma più ancora della scienza (intesa nel suo versante dogmatico soprattutto a livello divulgativo) si è andata affermando una spersonalizzazione del potere, fatto salvo il leader occasionale eletto più o meno democraticamente. L’uomo di rango e di prestigio come una meteora attraversa il cielo politico, più che altro come emblema dell’efficienza del suo gruppo di riferimento, senza più quel potere taumaturgico un tempo prerogativa del capo politico e religioso. Il sistema complessivo della società si è andato plasmando in tutti i settori come una macchina nella quale l’informazione, dietro lo slogan del pluralismo, ha assunto caratteri ancora più totalizzanti dei sistemi dispotici del novecento. Il carattere totalitario delle dittature ha assunto un aspetto rassicurante e perbenista nei formalismi costituzionali delle società del dopoguerra variamente interpretabili alla luce dell’evoluzione del diritto: l’ermeneutica di forze sociali occulte e invisibili nel moderno sistema delle società avanzate, prerogativa di un potere indeterminato e inafferrabile, incombente e intangibile. I vecchi simboli delle svastiche e dei fasci littori si sono come inabissati in forme astratte e imperscrutabili che rimandano a un potere allusivo e pervasivo che per palesarsi non ha neppure più bisogno di far sentire la sua voce, è sufficiente soltanto nell'evidenza dei rapporti di dipendenza e sudditanza della massa di manovra degli utenti e del popolo bue. Chi comanda veramente agisce nell'ombra e non ha più bisogno di giustificare i suoi atti e i suoi comportamenti. Tanto più il potere è anonimo e tanto più è immune da controlli e verifiche: il comando senza delega e senza riscontri costituisce la forma più avanzata di stato totalizzante, di un potere che non appare neppure più nei suoi fasti esteriori e nelle sue simbologie accattivanti ma che pervade tutta la piramide sociale tenendosi sempre dietro le quinte, un regista che muove i fili in incognito con sapiente e collaudata alchimia. Viviamo in società dove il controllo è instillato in modo capillare e dove il conformismo riguarda ogni aspetto della vita mediante l’omogeneizzazione dei valori e l’appiattimento dei comportamenti. Eppure siamo convinti di vivere in un sistema che garantisce la libertà e il rispetto della persona. I casi giudiziari con interminabili carcerazioni preventive e lunghi gradi di giudizio sono solo l’aspetto più eclatante di una macchina sociale costruita su formalismi giuridici che ormai si sono resi indipendenti e funzionano come un programma autonomo in una logica astrusa, contorta e macchinosa. Il sistema informativo a sua volta si esplica come una macchina fine a se stessa, che intesse le notizie - dette banalmente informazione - secondo la logica della sponsorizzazione di quei poteri che ne ispirano le modalità di funzionamento e declamano quei valori da appiccicare su un corpo sociale sempre più sprovveduto e sempre più in balia del sistema di persuasione e ammaestramento. Niente di sorprendente se le banalità più insignificanti possono essere sbandierate come indizi a carico di un carpentiere. Bolle di accompagnamento conservate in soggiorno, in cucina o nello studio, ma addirittura in camera da letto e, ‘diabolicamente’, nemmeno insieme al resto della documentazione fiscale diventano notizie eclatanti e rivelatrici. Per non parlare dell’acquisto di materiale da muratore, una giacca e quant'altro. Un carpentiere che acquista una cazzuola o un piccone a qualcuno non abbastanza smaliziato parrebbe cosa normale. Se poi un lavoratore che di norma usa pala e martello e tira su i muri con la malta va a comprare della sabbia… allora non si tratta più soltanto di un sospetto, si tratta davvero, come si usa dire per assonanza col mestiere, di fatti cheinchiodano… I comportamenti più insignificanti possono opportunamente essere mantecati, rivoltati e riadattati e fatti apparire come informazione. La notizia in fondo è tale solo in quanto dichiarata tale, non serve che abbia uno status di idoneità o una valenza rappresentativa che nobiliti un fatto per farlo assurgere al rango di interesse collettivo…I media ormai sono in grado di inventare la notizia. E non solo nel senso che non sia vera, ma soprattutto nel senso del significato che essa rappresenta. Il problema però a ben guardare non è il sistema informativo, immagine strutturale di una società del conformismo e dell’appiattimento, ma quell'audience, o pubblico o utente che dir si voglia, sempre più trasformato in una appendice passiva e amorfa, un mero ingranaggio, una comparsa che ripete pedissequamente le battute che gli vengono suggerite. La nuova età, emblematicamente, è rappresentata dalla connessione integrale, in tempo reale, a quell'aggeggio elettronico (lo smartphone) attraverso il quale si comunica e si intrecciano relazioni. Il medium ha assunto il ruolo preponderante nella comunicazione, si è andato via via emancipando dall'attore sociale e costituisce ormai la forma essenziale dove il messaggio non è altro che un fenomeno accessorio, intercambiabile e aleatorio. La notizia ha assunto il carattere evanescente e arbitrario di un mera forma vuota da riempire, lo stampo di una comunicazione ridondante e… insignificante. Il contenuto informativo è diventato del tutto irrilevante rispetto al canale nel quale tutto prende forma e diventa vero in quanto raccontato e posto in rilievo nel pettegolezzo del flusso ininterrotto delle cosiddette informazioni. Ormai è poco importante che una notizia abbia una qualche contenuto di verità, che abbia un senso stagliandosi dal chiacchiericcio futile e insulso del sistema mediatico. Il caso Bossetti è rappresentativo di un modello di informazione dove occorre soltanto suscitare un interesse, alimentarlo con l’invenzione, aderire alle veline istituzionali e usare il capro espiatorio come il classico scoop. In fondo alla società dello spettacolo poco importa chi abbia davvero ucciso una povera ragazzina, l’importante è che lo show abbia un suo interprete, che sia un presentatore o un semplice muratore importa davvero poco quando ormai all'opinione pubblica è stata servita la sua quotidiana telenovela con un protagonista che fa alle bisogna... naturalmente in attesa della notizia dell’ultima ora.
Raffaele Sollecito a OpenSpace: garantista verso Massimo Bossetti. Raffaele Sollecito, ospite, questa sera, alla prima puntata di OpenSpace, il nuovo programma di Italia 1 condotto da Nadia Toffa, ha espresso la sua opinione in merito al caso riguardante la morte di Yara Gambirasio dicendo di essere assolutamente garantista nei confronti di Massimo Bossetti, scrive “Urban Post”. Ospite, questa sera, domenica 11 Ottobre 2015, nella prima puntata di OpenSpace, il nuovo programma condotto da Nadia Toffa ed in onda su Italia 1, Raffaele Sollecito, assolto definitivamente dall’accusa di aver ucciso la studentessa inglese Meredith Kercher, ha risposto sia alle domande della Iena che del pubblico parlando di quanto accaduto in carcere, ma anche dicendo il suo parere in merito al caso riguardante la morte di Yara Gambirasio e il processo a Massimo Bossetti e confermando di essere “assolutamente garantista” nei confronti dell’operaio di Mapello. Proprio in merito al caso della ginnasta di Brembate, davanti a Nadia Toffa Raffaele Sollecito ha detto: “Non riesco a esprimermi se definirlo innocente o colpevole, ma per quello che mi raccontano i media, sono estremamente flebili come argomenti. Quel Dna di cui hanno parlato, almeno ai miei occhi, leggendo solo i giornali online, non è una prova così forte”. Per Sollecito, quindi, secondo le informazioni apprese tramite internet, il Dna che ha portato Bossetti in carcere non è una prova così forte. Il giovane ha poi aggiunto: “Se i media mi tartassano ogni giorno di racconti sulla famiglia di Bossetti, che ha poco a che fare come fattualità con le responsabilità di una persona, che idea mi posso fare? Mi posso fare un’idea su com’è la sua famiglia, la sua personalità ma non ha nulla a che fare con il sospetto, con il processo o con le responsabilità di Bossetti”. Puntando il dito contro il modo con cui giornali e programmi tv hanno trattato i vari casi di cronaca, Sollecito ha poi concluso dicendo: “Anche in altri casi come Avetrana, Garlasco, parlano della vita privata di queste persone, sono comunque delle persone, non sono dei burattini o degli attori”. Parlando invece della sua esperienza in carcere e delle possibili avance ricevute Raffaele Sollecito ha confidato che: “Sì, ci sono varie vicissitudini di attenzioni, non di violenze. […] Ci sono degli angoli molto particolari tipo le docce piuttosto che la tromba delle scale, punti pericolosi dove non ci sono telecamere e ci sono momenti di passaggio in cui le guardie non ti seguono. Quindi, è lì che i detenuti che vogliono rivalersi di qualcosa e fare un attentato nei confronti di un altro, fanno delle violenze” aggiungendo, però: “Io non sono mai stato oggetto di violenze […], parlavo di avances, attenzioni particolari ossia quando c’era qualche detenuto che aveva mancanze “affettive” abbastanza forti, indipendentemente dalla sua sessualità, tentava approcci. Ci hanno provato? Sì, anche quando non me lo aspettavo, qualche volta è successo”.
16 OTTOBRE 2015: NONA UDIENZA. PARLA GIUSEPPE GATTI E RICCARDO PONZONE.
Continua presso la Corte di Assise di Bergamo il processo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Nell’udienza sono stati ricostruiti i risultati relativi all’esame dei tabulati telefonici di Massimo Bossetti, grazie alla testimonianza di Giuseppe Gatti, maresciallo dei Ros di Brescia, e sono stato ricostruiti le fasi dell'arresto di Bossetti da Riccardo Ponzone, il maggiore dei carabinieri che ha effettuato l’arresto del presunto assassino il 16 giugno dell’anno scorso nel cantiere di Seriate. All'inizio dell'udienza la Corte ha disposto la restituzione della Volvo di Bossetti, sequestrata subito dopo il fermo, nel giugno del 2014, e che sarà messa a disposizione della moglie Marita.
Nuova udienza al processo contro Massimo Bossetti, accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio. Si analizzano celle telefoniche e cellulari, scrive “L’Eco di Bergamo”. Il processo si concentra proprio sulla lunga e complessa analisi che è stata fatta sulle celle telefoniche per risalire alla posizione, il giorno della scomparsa, sia della ragazzina che dell’imputato. A testimoniare è chiamato il maresciallo del Ros di Brescia Giuseppe Gatti. L’udienza, a differenza delle precedenti, è prevista per la sola mattinata di venerdì per impegni della corte.
I telefonini di Massimo Giuseppe Bossetti sono stati a lungo sotto la lente degli inquirenti, a caccia di indizi che mettessero in relazione l’artigiano edile di Mapello con il delitto di Yara. Le analisi erano state avviate nell’ottobre del 2014. Quattro i cellulari sequestrati a Bossetti che erano finiti nei laboratori per una consulenza dei carabinieri del Raggruppamento investigazioni scientifiche (Racis) di Roma.
Parla Giuseppe Gatti. Le indagini su Yara e i controlli sui cellulari. Analizzati quelli di un bergamasco su 10. Sono state 118 mila le utenze telefoniche controllate nel corso delle indagini sulla tragica morte di Yara Gambirasio. Lo ha confermato nel corso della nuova udienza del processo contro Massimo Bossetti il maresciallo del Ros di Brescia Giuseppe Gatti. Una mole di lavoro incredibile, considerato che si tratta in pratica di più di un decimo della popolazione della intera provincia di Bergamo. Praticamente sono state controllate tutte le linee telefoniche di tutti coloro che - per qualsiasi ragione e magari anche solo una volta - fra il 10 settembre 2010 e il 30 maggio 2011 sono transitati sotto le tre celle considerate sensibili, quelle che servono la zona della palestra e poi il percorso fino al campo di Chignolo, dove il corpo fu ritrovato il corpo della ginnasta.
Il cellulare di Bossetti. Poi le indagini si sono concentrate - ha spiegato il maresciallo - sulle utenze di Bossetti e della moglie Marita. In particolare è stato evidenziato che fra il 21 e il 28 novembre 2010 (Yara era scomparsa il 26 novembre) non compare alcuna telefonata, a testimoniare - secondo l’accusa - di un raffreddamento dei rapporti. Soprattutto, è stato evidenziato, se si considera che fra settembre 2010 e maggio 2011 Bossetti e la moglie si sentivano almeno una o due volte al giorno.
Quel 26 novembre, giorno in cui Yara scomparve (uscì dalla palestra alle 18.40), dal cellulare di Bossetti fu effettuata un'ultima chiamata alle 17.45 (agganciando la cella di Mapello, in via Natta, la stessa della ragazzina) ora dopo la quale non è stato registrato più traffico dati o voce, fino alle 7.34 del mattino successivo, quando Bossetti riceve una telefonata. Il sottufficiale, alle domande del pm Letizia Ruggeri, ha anche ripercorso le telefonate tra i componenti della famiglia Bossetti il 26 luglio del 2012, quando la madre di Bossetti, Ester Arzuffi, ricevette la convocazione in Questura per il prelievo del Dna e del giorno dopo, quando la donna si sottopose al prelievo. Gatti ha confermato che quel giorno, nel giro di un'ora, ci sono stati una serie di ravvicinati contatti telefonici tra la stessa donna e i figli.
Alle 17.45 del 26 novembre 2010 Massimo Giuseppe Bossetti non era a casa, come invece ha sostenuto. E’ quanto raccontato al processo dal maresciallo dei carabinieri del Ros, Giuseppe Gatti, che ha analizzato i tracciati telefonici della vittima e dell’imputato. Nelle ore precedenti la scomparsa di Yara Gambirasio, il cellulare di Bossetti si sarebbe agganciato alla cella di via Natta, a Mapello. Cioè nel paese in cui risiede, ma secondo i riscontri dell’accusa, l’abitazione di Bossetti è coperta da un’altra cella, quella di Terno-via Carbonera. Quella stessa mattina, ha detto Gatti, quando nella sua casa ha ricevuto la telefonata del cognato Agostino Comi, è stata la cella di via Carbonera a Terno d’Isola a fargli da ponte. Il maresciallo ha poi spiegato che generalmente è quella la cella di riferimento della sua abitazione, dal momento che, nell’intervallo monitorato, il numero di Bossetti ha agganciato via Carbonera 3953 volte su 5.700 ricorrenze. Non solo: sempre dai riscontri del maresciallo risulta che il telefonino di Bossetti si sia agganciato a via Carbonera anche alle 11.53 del 29 maggio 2014. Non sono chiari invece i riscontri tracciati nell’area di Chignolo d’Isola, dove è sito il campo in cui è stata ritrovata cadavere la ginnasta. Il cellulare di Bossetti risulta agganciato alle celle della zona 208 volte nel periodo precedente e successivo al delitto e cioè da settembre 2010 a maggio 2011. Ma, precisa Gatti, “l’area di Chignolo è coperta da dieci celle” e non è detto che quei riscontri provino la presenza di Bossetti sulla scena del crimine. Nei cinque mesi dopo la sparizione di Yara - avvenuta il 26 novembre del 2010 - il cellulare del carpentiere ha invece agganciato la stessa cella ben 195 volte. Gatti ha anche precisato che, di quelle 195 volte, 40 agganci sono stati registrati fino al 26 febbraio del 2011, quando il corpo della ginnasta fu ritrovato. Gli altri 155 contatti sono avvenuti dopo il ritrovamento e fino a maggio. Durante l’udienza non è per il momento emerso che in quel periodo Bossetti lavorava in un cantiere di Bonate compatibile con la cella «incriminata».
Il PC di Bossetti. Quella mattina, sul computer dell’imputato furono eseguite alcune ricerche con la parola “tredicenni” abbinata ad alcuni dettagli porno. Alla stessa ora il cellulare della moglie, Marita Comi, agganciava la cella di Ponte San Pietro, mentre i figli del carpentiere erano a scuola. L’accusa ne deduce che a fare quelle ricerche sia stato evidentemente Bossetti.
Il cellulare di Yara. L’attenzione delle indagini si focalizzò essenzialmente su tre celle telefoniche dell’Isola Bergamasca che va dalla palestra di Brembate Sopra, dove Yara fu vista per l’ultima volta, e il campo di Chignolo d’Isola, dove fu ritrovata cadavere esattamente tre mesi dopo. Il teste durante l’udienza ha raccontato di tre sms sul telefono della vittima: uno inviato all’amica alle 18.25 per concordare dettagli del saggio di danza previsto per la domenica successiva, un altro mandato quando ancora si trovava in palestra, alle 18.44, il terzo ed ultimo ricevuto alle 18.48 quando già si trovava in strada, diretta verso casa. È in quel momento che il telefono della 13enne agganciò la cella di via Natta. Il cellulare di Yara si spense per sempre alle 18.55, ha ribadito in aula il maresciallo Gatti. Da qui, poi, l’incrocio con l’anomalo traffico telefonico dell’indagato, il cui telefono quel giorno risultò irraggiungibile, probabilmente perché spento, dalle 15.26 alle 15.47, arco di tempo durante il quale il cognato e collega tentò invano di mettersi in contatto con lui per 4 volte. Quando Bossetti alle 17.45 richiamò il cognato agganciò la cella di via Natta a Mapello; a riferire l’importante dettaglio l’inviato a Bergamo della trasmissione di Rai Uno, Storie Vere. Quello fu l’ultimo segno di attività del cellulare del muratore, che rimase inattivo fino alle 7.34 del mattino seguente. Ciò che l’accusa intende dimostrare in sede di dibattimento è il presunto incrocio di cella telefonica fatto da Bossetti e Yara: è possibile, infatti, che entrambi si siano trovati a passare nella zona di via Giulio Natta a Mapello nella medesima fascia oraria. Dai dati emersi si evince che l’indagato la sera del delitto si trovasse nelle zone percorse dalla ginnasta. La difesa ha più volte ribadito che l’indagato percorreva abitualmente quelle strade per lavoro; si tratta, quindi, solo di una coincidenza? Si chiede Michela Becciu su "Urban Post".
Parla Riccardo Ponzone. Bossetti faccia a faccia con chi lo arrestò. «Simulammo un intervento per verificare la presenza di lavoratori in nero - ha spiegato l’ufficiale -: tutti rimasero fermi, stupiti. L’unico che manifestò preoccupazione e si mosse, lungo il ponteggio, fu il signor Bossetti». Ponzone a quel punto decise di arrampicarsi sul ponteggio perché aveva paura che fuggisse: «Quando lo ho raggiunto gli ho chiesto: sei italiano? Stai fermo». «Lui - ha continuato l’ufficiale - ha fatto segno di sì, si è girato ed è corso verso il primo piano. L’ho inseguito, ma poi è stato bloccato dai miei colleghi. Si è fermato e non ha opposto resistenza». «Lo immobilizzammo, secondo la procedura, lo facemmo inginocchiare, lo ammanettammo e cominciammo a farlo scendere».
L’avvocato Salvagni, terminata l’udienza, ha ribadito che Bossetti non ha mai tentato di scappare: tanto che il gip non aveva convalidato il fermo per insussistenza del pericolo di fuga. È stato tenuto infatti in carcere solo per i gravi indizi di colpevolezza. Durante l’udienza è stata proiettata parte del video che ritrae il fermo di Bossetti, su sollecitazione della difesa.
Processo Yara, tensione in aula tra PM e difesa Bossetti, scrive Askanews. Tensione stamattina in aula alla Corte d'Assise al Tribunale di Bergamo tra il pubblico ministero Letizia Ruggeri e gli avvocati della difesa di Massimo Bossetti, imputato dell'omicidio di Yara Gambirasio.
La polemica è scoppiata quando il legale della difesa Paolo Camporini ha chiesto e ottenuto di mostrare una fotografia dall'alto, non presente nel fascicolo del processo, della zona dove si sono verificati i fatti corredata da alcune linee rosse per indicare una suddivisione dei settori delle celle telefoniche. Immagine la cui provenienza e pertinenza sono subito state contestate dal pm. "Da dove proviene questa immagine? - ha chiesto più volte? Chi è l'autore delle strisce rosse della riproduzione grafica?". La difesa ha replicato citando il proprio consulente informatico, sostenendo che era titolato ad effettuare la ricostruzione. "Quelle strisce rosse sono state disegnate a capocchia, chi le ha fatte non ha nessuna competenza", ha ribattuto il pm.
Massimo Bossetti, il "buio telefonico" con la moglie: 8 giorni di silenzio, scrive “Libero Quotidiano”. Massimo Bossetti, secondo l'accusa, non era a casa nelle ore precedenti il delitto di Yara Gambirasio. E nei giorni che precedono e seguono la scomparsa della tredicenne, avvenuta il 26 novembre del 2010 a Brembate di Sopra, il muratore non ha avuto nessun contatto telefonico con sua moglie, Marita Comi. Otto giorni di "buio telefonico", tra il 21 e il 28 novembre del 2010, che per la procura di Bergamo, al cui vaglio ci sono i risultati di 118mila utenze controllate nelle celle ritenute utili alle indagini, si trasformano in un particolare «significativo». È quanto emerso ieri durante l'udienza del processo in corso aBergamo grazie ai dati di Giuseppe Gatti, il maresciallo dei carabinieri del Ros di Brescia che, ascoltato dall' accusa, ha ricostruito in maniera dettagliata i tabulati del cellulare del muratore e dei suoi familiari. Oltre alle telefonate tra la famiglia Bossetti e la mamma dell’accusato, quando quest' ultima viene convocata dalla questura per l'esame del Dna, il telefonino di Bossetti risulta agganciato alla cella di via Natta, a Mapello, alle 17.45 del 26 novembre. La stessa cella alla quale era agganciato il telefonino di Yara prima di perdere qualsiasi segnale. Un particolare che smonterebbe la tesi del 44enne, padre di tre figli, il quale ha dichiarato di trovarsi a casa nelle ore in cui della ragazzina si sono perse le tracce. A smontare la sua tesi c'è anche una telefonata ricevuta al mattino, quando Bossetti si trovava a casa, ma con il cellulare agganciato ad un'altra cella, quella di via Carbonera, che dai tabulati risulta agganciata «3953 volte su 5.700 ricorrenze», come ha spiegato Gatti al pm Letizia Ruggeri.
Yara, l'esame delle celle telefoniche dà una mano a Bossetti, scrive Luca Telese su “Libero Quotidiano”. «Presidente! Presidente!». Ormai sto imparando a riconoscere i momenti in cui in questo processo la Pm Letizia Ruggeri sta per muovere guerra. Accade in ogni udienza, all’improvviso, in modo sempre imprevedibile. Ma accade sempre. Succede proprio quando il dibattito sembra avvolgersi nel più sonnolento e ovattato dei ritmi tribunalizi. La Ruggeri si accende, si innesca come un ordigno a comando remoto. Ad un tratto alza la testa come un predatore che punta la preda, si aggiusta la toga, come un moschettiere con il suo mantello. Da dietro vedi i riccioli che iniziano ad ondeggiare mentre fa No-No con la testa, ed è come un segnale, il drappo di una bandiera di guerra che inizia a sventolare. Poi il pubblico ministero prende un respiro, alza la tonalità della voce di un semitono. E infine inizia a caricare a testa bassa contro uomini, avvocati e cose senza risparmiare nulla e nessuno. In questo periodo, il predatore d’aula predilige la caccia ai consulenti della difesa. «Presidente, cosa è quella roba!?». La Ruggeri sta indicando il monitor dell’aula con una smorfia di disgusto dipinta sul viso, i riccioli già vibrano: ed ecco cosa succede al malcapitato consulente della difesa, Giuseppe Dezzani, reo di aver predisposto e fatto proiettare alla giuria, senza il suo consenso, una mappa della bergamasca che serve a capire dove e come agganciano le famose celle telefoniche che monitorano segretamente le nostre vite. Io, preso dalla suggestione del momento, stavo già chiudendo gli occhi per immaginare meglio, e - siccome in questo processo c’è l’inventario del contemporaneo - pensavo di raccontare tutta l’iniziatica discussione della mattinata prendendo in prestito la celebre matrice di “Matrix”, il capolavoro fanta-cinematografico dei fratelli Walchowsky. Chiedevo gli occhi, ascoltavo i periti parlare, immaginavo il mondo come ce lo raccontano loro: solo un enorme flusso di dati elettronici, di impulsi che ognuno di noi trasmette attraverso il suo telefonino, quasi in ogni momento. Siamo tutti tracciabili, ognuno di noi un puntino intermittente nella rete. Io, mentre guardavo la mappa di Dezzani, pensavo che ancora una volta il processo a Giuseppe Bossetti ci squaderna davanti il Grande fratello tecnologico in cui siamo immersi, la battaglia fra chi pensa razionalmente che in questa matrice ognuno di noi possa essere sempre incastrato e la lotta con la forza indomabile del caos che rompe ogni schema. Tutto questo mentre la mappa di Dezzani ci doveva far capire dov’era Yara quando manda il suo ultimo sms, e dove Massimo Bossetti, quando il suo telefonino aggancia l’ultima volta dalla cella di Mapello in via Natta. Capire il raggio di azione delle celle serve a spiegare se il muratore, la sera della scomparsa di Yara, poteva essere davvero ad un passo dalla palestra di Brembate vicino alla ragazza o - come abbiamo scoperto questa settimana - a casa sua. Ma proprio allora la Ruggeri inizia a ruggire:
- «Presidente, cosa sono quelle linee rosse su quella mappa?».
- «Non lo so, lo chieda alla difesa».
- «Presidente, posso rispondere io: sono delle linee rosse».
- «Grazie avvocato lo vedo da me che sono rosse! Ma chi le ha tracciate, cosa indicano? Chi le ha fatte!?».
- «Caro pubblico ministero, le ha tracciate il nostro tecnico. Indicano il campo di ricezione delle celle telefoniche».
- «No avvocato, quelle linee non dicono nulla! Quali tecnici le hanno tracciate? Lei sarebbe il tecnico della difesa?».
- «Sì, il tecnico che le ha tracciate sono io: sono un informatico».
- «Lei è un informatico? Lei non sa niente di celle!».
- «Sono una mia specializzazione».
- «Che titolo accademico ha? Che sarebbero quelle linee? E quei cerchi avvocato?».
- «Sono come il simbolo di una Mercedes. Il nostro perito le ha disegnate sulla base dei dati della Vodafone, per dimostrare il campo di irradiazione delle onde e...».
- «Ma che dice? Sono disegnate a capocchia, non vogliono dire nulla! Sono disegnate a capocchia!».
Bergamo, udienza settimanale del venerdì: nel giorno in cui il teste principale è Giuseppe Gatti, un compassato tecnico delle celle telefoniche, in teoria non dovrebbe accadere nulla. Invece, come sempre al processo per l’omicidio di Yara, la polemica avvampa: fuochi d’artificio, dispute senza fine, battaglia criminologica tra accusa e difesa in cui ogni dettaglio infinitesimale può orientare il processo. Mentre sono seduto in mezzo al pubblico, mi viene in mente che per divertirsi questa giornata va raccontata come un esercizio di stile alla Raymond Queneau.
1) Articolo colpevolista - Sul banco dei testimoni c’è Gatti, un poliziotto senza qualifiche tecniche, ma con enorme esperienza sul campo. Uomo sobrio, di poche parole, senza grilli per la testa. Ci spiega che le celle telefoniche sono una rete invisibile che ci circonda ovunque: una rete elastica, che si flette e si dilata, a cui nessuno sfugge. Anche nel punto del mondo in cui state leggendo questo articolo, proprio adesso, c’è una cella titolare. Ma se c’è troppo traffico, o in condizioni climatiche particolari, il vostro telefonino può spostarsi su un’altra cella. Queste celle, se interrogate con sapienza, ci dicono tutto delle nostre vite, e ci dimostrano anche perché Bossetti è colpevole. Queste celle conservano i dati per due anni, e gli inquirenti, quando è scomparsa Yara - spiega Gatti - hanno chiesto alla Vodafone di congelare tutto il traffico di tutta la bergamasca. Parliamo di un numero che quasi non si può pronunciare, 118mila utenze, 52 mila milioni di chiamate e di traffico dati. Da questo mondo Gatti e gli inquirenti hanno iniziato a isolare due puntini: Yara Gambirasio e Giuseppe Bossetti. Certo, quei dati sono numeri, non intercettazioni, ma un buon inquirente quei numeri li può far parlare. Scavando in questa montagna, per esempio, può scoprire che «Bossetti prima della scomparsa di Yara era andato a Chignolo solo 13 volte. Mentre nei sei mesi successivi ci torna ben 195 volte!». Questo numero di Gatti in Aula colpisce tutti. Chignolo, luogo di morte: perché Bossetti ci torna così spesso dopo il delitto? Non è finita. Il consulente tutto sa, tutto può vedere. Scava nei punti luminosi della matrice, li incrocia con il calendario, ci racconta che il giorno in cui la signora Ester Arzuffi viene chiamata per l’esame del Dna c’è un gran traffico di telefonate. Da casa Bossetti alla signora Ester, dalla signora Bossetti alla polizia, poi dalla signora Ester a Fabio Bossetti, infine da Bossetti alla signora Ester. Che cosa si dicevano? Perché tanta agitazione? Già. C’è persino lo spazio per un po’ di simpatico pettegolezzo: lo sapevate che Marita Bossetti, mentre accompagna il marito, trova il tempo di scambiare un sms con un certo signor Massimo Bonalumi, che l’accusa ha individuato come un possibile amante della signora? E infine, il colpo di scena del poliziotto Gatti. In quel novembre in cui Yara muore, non è strano che «Tra il 21 e il 28 non ci sia nessun contatto telefonico tra Marita Bossetti e suo marito Massimo»? I numeri della matrice, interrogati, hanno parlato. Ci raccontano una famiglia in cui si nasconde qualcosa, dove ci si agita per un test del Dna, una moglie che manda messaggini agli amanti ma non al marito, di un marito che non parla con la moglie, ci raccontano che Bossetti era lì, a Brembate, come un lupo che cerca la sua preda. Tracciato fino alle 17.45, ultimo aggancio al settore tre della cella di via Mapello. Poi telefono muto. Un’ora prima di rapire Yara.
2) Articolo innocentista - Giuseppe Gatti ha i suoi rapporti davanti a se, tutti addobbati di ordinati pizzini che lo aiutano a trovare i punti e i dati. È un uomo calmo, pacato, ma quando inizia il controinterrogatorio dell’avvocato Paolo Camporini si perde un po’.
- «Lei è un perito?».
- «La mia unica formazione è l’esperienza, ho un diploma tecnico». Camporini è affabile ma malizioso: nel rapporto di Gatti vede che cita come riferimento un libro di un certo professor Pozzato di Pordenone. Un testo del 2008, un po’ vecchiotto. Chiede: «È questo il suo riferimento?». Gatti vacilla, non ricorda, balbetta, non risponde. La Ruggeri capisce l’insidia e si arrabbia: «Presidente, lo ha spiegato a pagina 8!». Camporini sorride: «Guardi che Gatti non ha bisogno di un difensore, ma di una risposta!». E inizia a tempestarlo. Da questo controinterrogatorio, scopriamo ancora una volta alcune clamorose novità rispetto all’inchiesta. E cioè che alcun indizi considerati come certezze, certezze non sono. Ad esempio Camporini chiede: «Il telefonino di Yara era sicuramente in movimento, perché aggancia diverse celle, oppure potrebbe essere rimasto fermo, e solo le celle variavano?». Gatti risponde: «Non è possibile stabilire con certezza se era in movimento». E quanto è il campo d’irradiazione di una cella? «Una ventina di chilometri, credo», dice il perito. Camporini incalza: «Ma lei qui ha scritto 35 chilometri!». E il perito: «Non glielo so dire con esattezza!». L’avvocato: «Quindi potrebbe essere che io faccio una telefonata, la mia cella non mi riceve, e allora vengo agganciato da un’altra?». Gatti: «Non le so rispondere, io mi baso sui tabulati». Scopriamo che queste celle sono divise in tre settori, ognuno dei quali copre 120 gradi. Ecco l’immagine del mirino della Mercedes. Quindi una cella può intercettare un telefono a Brembate, ma anche in direzione opposta, per un raggio di 30 chilometri? «Non so. Per me è possibile, ma improbabile». Camporini: «Lo può escludere?». «Non lo posso escludere». Scopriamo che quando l’accusa dice intercettato «a Chignolo», in realtà, indica una delle dieci diverse celle che insistono sulla zona di Chignolo (ma anche per venti chilometri in direzione opposta!). Scopriamo anche che Bossetti, dopo quel 26 novembre, aveva un cantiere che era a poca distanza, a Bonate. E che quindi poteva agganciare una cella che copriva sia Chignolo che Bonate. Scopriamo che la cella di Mapello, via Natta, «Poteva agganciare anche a casa di Bossetti». Quindi il lupo poteva essere a Brembate, ma anche a casa sua, a falciare il prato? Il periodo di buio nei contatti con la moglie, non è il solo nel lungo periodo monitorato. Per giorni e giorni solo un contatto. Infine, l’ultimo colpo di scena: Bossetti ha un telefonino Nokia 3220, molto arcaico, rispetto agli smartphone di oggi: «Quindi - chiede Camporini - non è sicuro che lo avesse spento?». Gatti risponde, con tono di voce molto bassa: «Poteva essere in una zona non servita, o spento, o inattivo». Il lupo può essere lupo, ma anche pecora. Le celle sono uno strumento esatto, ma con un raggio molto incerto. Il telefonino che avete in tasca vi può portare alla sedia elettrica. Ma anche no. Per fortuna.
21-23-30 OTTOBRE 2015: DECIMA, UNDICESIMA E DODICESIMA UDIENZA. PARLA GIAMPIETRO LAGO.
Intanto…Minacce al pm del processo Yara: "Rafforzata vigilanza". Il comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza di Bergamo ha assegnato una speciale vigilanza al pm del processo per l’omicidio di Yara Gambirasio, Letizia Ruggeri, dopo alcune minacce ricevute dal magistrato, scrive Mario Valenza su “Il Giornale”. Il comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza di Bergamo ha assegnato una speciale vigilanza al pm del processo per l’omicidio di Yara Gambirasio, Letizia Ruggeri, dopo alcune minacce ricevute dal magistrato. Lo rende noto la trasmissione Quarto Grado. Le minacce, a quanto si è saputo, risalirebbero ai giorni scorsi. Oggi il pm è impegnato in udienza nel processo a Massimo Bossetti in relazione all’omicidio della tredicenne. Intanto spunta un nuovo parere sul dna che incastrerebbe Bossetti. "Il Dna identifica una sola persona, ma teoricamente può essere trasferito da un posto a un altro", sostiene Francis Collins, genetista statunitense, "padre" del genoma, colui che ha decifrato la sequenza del Dna umano, massimo esperto della traccia genetica, già direttore del National Human Genome Reseach Institute di Bethesda nel Maryland. Alla vigilia della nuova udienza a Massimo Bossetti, accusato dell’omicidio di Yara Gambiarsio, dove si parlerà del Dna del muratore bergamasco, ritrovato sugli indumenti della ginnasta di Brembate Sopra, Francis Collins ha rilasciato un’intervista esclusiva al quotidiano "L’Eco di Bergamo" che sarà pubblicata sull’edizione di domani. A proposito del trasferimento del Dna, Collins aggiunge che "ciò accade molto spesso se sangue, saliva, liquidi seminali e altri fluidi corporei sono lasciati su superfici". Nell’intervista al genetista americano e a Lawrence Brody, senior investigator del National Human Genome Reseach Institute, viene fornita anche una solida chiave di lettura sulla questione della non corrispondenza della parte mitocondriale del Dna, al centro dello scontro fra accusa e difesa.
Yara, minacce in Facebook. Il pm sotto scorta. «Vigilanza dinamica» per il magistrato che ha portato Bossetti a processo, scrive “Il Corriere della Sera”. Da un paio di settimane, Letizia Ruggeri, il pubblico ministero che fin dall’inizio ha indagato sull’omicidio di Yara, è sottoposta a «vigilanza dinamica». Di fatto una scorta: più pattuglie tengono sotto controllo la sua abitazione e i suoi spostamenti. La decisione di dare la scorta al sostituto procuratore è stata presa dal Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica della provincia di Bergamo, ovvero il tavolo a cui siedono il prefetto Francesca Ferrandino e i più alti ufficiali dei carabinieri, della Finanza e della polizia di Stato. La richiesta al tavolo del Comitato è arrivata dai carabinieri. Le motivazioni sono ancora da chiarire: sembra però che in Facebook i militari dell’Arma abbiano rilevato «più esternazioni», ovvero messaggi anche pubblici ma intimidatori, che potrebbero rappresentare un potenziale rischio per l’incolumità del magistrato. Non facili le decisioni assunte in quasi cinque anni di inchiesta dal pubblico ministero Letizia Ruggeri. Fin dalle prime settimane del caso, quando il sostituto procuratore fu il primo a non credere nella pista del cantiere di Mapello e nel fermo di Mohamed Fikri, che si sarebbe poi rivelato del tutto estraneo alla vicenda. Lo stesso pm ha inoltre lavorato sulla traccia di Ignoto 1, poi corrispondente a Massimo Bossetti, confrontandosi per più di due anni con i massimi esperti di biologia forense dei carabinieri, della polizia, delle Università di Pavia e di Roma Tor Vergata. Il pubblico ministero è in aula proprio stamattina per il processo a Bossetti, accusato di omicidio volontario pluriaggravato e di calunnia nei confronti di un collega con cui lavorava nel periodo in cui Yara fu uccisa. In tribunale ennesimo scontro tra il magistrato e l’avvocato di Bossetti, Paolo Camporini, durante la deposizione del colonnello del Ris di Parma Giampietro Lago.
Yara, sorveglianza speciale per la pm del processo a Bossetti: contro di lei minacce sui social. Le intimidazioni nei confronti di Letizia Ruggeri hanno spinto il comitato per la sicurezza di Bergamo a stabilire che vengano effettuati controlli periodici sui luoghi frequentati dal magistrato, scrive “la Repubblica”. Il comitato per l'ordine pubblico e la sicurezza di Bergamo ha assegnato una speciale vigilanza al pm del processo per l'omicidio di Yara Gambirasio, Letizia Ruggeri, dopo alcune minacce ricevute dal magistrato. Lo rende noto la trasmissione Quarto Grado. Le minacce, a quanto si è saputo, risalirebbero ai giorni scorsi. Il pm è impegnato in udienza nel processo a Massimo Bossetti in relazione all'omicidio della tredicenne. A quanto si è saputo, il provvedimento del comitato per l'ordine pubblico e la sicurezza risale alle settimane scorse ed è dovuto alla comparsa di minacce su social network non, quindi, giunte direttamente al magistrato. Il comitato, di conseguenza, ha deciso di effettuare dei controlli nei luoghi abitualmente frequentati dal magistrato e dai suoi familiari con periodici passaggi delle forze dell'ordine. Intanto al processo per l'omicidio della tredicenne di Brembate ha deposto il comandante dei Ris di Parma, Giampiero Lago. L'ufficiale ha spiegato che sugli slip di Yara, in prossimità di un taglio che presentavano, fu trovato un Dna maschile che le indagini accertarono poi essere di Massimo Bossetti. Lago ha spiegato come otto campioni sulla traccia rivelarono una 'mistura' in cui era maggioritario il Dna femminile, quindi della vittima, mentre un nono rivelò "una percentuale dominante di un soggetto maschile". In tutti i nove campioni il Dna maschile "si rivelò uguale". La traccia era "di quantità e qualità interessante".
Processo Bossetti, sugli slip di Yara «tracce evidenti» del Dna di Ignoto 1. Per il processo a carico di Massimo Bossetti, accusato di aver rapito e ucciso Yara Gambirasio, mercoledì 21 ottobre è una giornata chiave: in aula depone il comandante dei Ris di Parma, Giampietro Lago. Le prove in gioco: il Dna, le immagini in 3D del furgone e le fibre dei sedili, scrive “L’Eco di Bergamo”. La giornata odierna segna l’ingresso in aula delle prove. Dopo le schermaglie su autopsia e tabulati telefonici, la battaglia tra accusa e difesa entra nel vivo su temi decisivi. Il colonnello Lago è testimone dell’accusa citato dal pubblico ministero Letizia Ruggeri. La Corte presieduta dal giudice Antonella Bertoja ha ascoltato solo lui per tutta la giornata. L’udienza si è aperta un po’ ritardo, verso le 9,50. Presente l’imputato, Massimo Bossetti, in jeans e felpa blu. Per la difesa c’è un consulente tecnico, Marzio Capra. In abito grigio e cravatta blu il colonnello Lago. Paolo Camporini, uno dei legali di Bossetti, ha chiesto in che veste viene ascoltato il comandate dei Ris di Parma, se come testimone o consulente, consulente è stata la risposta. Sempre Camporini, non senza risentimento, si è lamentato di come alla difesa non siano stati ancora consegnati i «dati grezzi» sul Dna. Si tratta dei dati tecnici riguardanti i vari passaggi che hanno portato dalla traccia sugli indumenti di Yara alla decodificazione del Dna di Ignoto 1, risultato corrispondere a quello di Massimo Bossetti. I «dati grezzi» saranno a disposizione della difesa dal 26 ottobre, è stato comunicato.
Parla Giampietro Lago. Lago ha raccontato di aver iniziato a occuparsi del caso di Yara dal novembre 2010 con il sopralluogo nel centro sportivo di Brembate Sopra, l’ultimo luogo dove Yara è stata vista. Per le indagini sono stati utilizzati tutti e cinque i laboratori del Ris di Parma, ovvero chimico, tossicologico, merceologico, video-fotografico e microscopico. Tra il pm Letizia Ruggeri e l’avvocato Camporini c’è stata tensione quando il legale di Bossetti ha chiesto che non siano utilizzate ai fini processuali tutte le affermazioni e le deduzioni del colonnello Lago relative agli accertamenti tecnici, alle analisi dei dati e alla stesura dei dati stessi ai quali il comandante dei Ris di Parma non ha partecipato direttamente, come emerge da vari documenti dell’inchiesta, nei quali non c’è la firma di Lago. Il pm ha replicato che «non c’è nessuna norma che sancisce questa inutilizzabilità. I documenti sono stati firmati da sottoposti del colonnello Lago che - come aveva sottolineato in precedenza li stesso - ha esercitato un’attività di «verifica e controllo» comunicando costantemente e direttamente con l’autorità giudiziaria. Del resto, ha ricordato il pm, il Ris ha effettuato 16 mila analisi del Dna ed era impossibile che Lago fosse presente a tutti i rilievi. Il giudice Antonella Bertoja, che presiede la Corte, ha dato ragione con riserva al pm, nel senso che è ragionevole che vengano indicate le persone che hanno eseguito materialmente le indagini e, se necessario, verranno ascoltate. Per il momento l’intervento di Lago - che aveva il controllo del lavoro dei suoi uomini - è comunque sufficiente perché la sua relazione è stata di carattere generale. Lago ha continuato il suo racconto presentando uno a uno i reperti dell’indagine e cosa è stato riscontrato su di essi. In sintesi, sul giubbetto di Yara è stato riscontrato soltanto il Dna di Silvia Brena, la sua insegnante di ginnastica. Su tutti gli altri indumenti nessuna traccia, né di saliva, sangue o liquido seminale. Non si è ancora però parlato degli slip. Se ne discuterà dopo la pausa, processo aggiornato a mezzogiorno. Ai margini del processo si è saputo che il pm Ruggeri da un paio di settimane è seguita da un servizio di vigilanza dinamica, in pratica ci sono passaggi delle forze dell’ordine a casa sua, in procura, alla scuola della figlia, ovvero i principali luoghi frequentati dal pm. Questo perché sono comparse frasi minacciose contro di lei sui social network, dove peraltro il pm non è presente. Su input dei carabinieri, il Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica presieduto dal prefetto ha deciso di assegnare al pm questa «scorta volante». Nella ripresa dell’udienza, Lago ha parlato dei vari prelievi effettuati sugli slip, in prossimità di un taglio. Sono stati usati diversi kit che hanno dato sempre lo stesso risultato. In estrema sintesi, il comandante dei Ris di Parma ha spiegato come otto campioni sulla traccia rivelarono una «mistura» in cui era maggioritario il Dna femminile, quindi della vittima, mentre un nono rivelò «una percentuale dominante di un soggetto maschile», di Ignoto 1, presente in numerosi settori del reperto, un quantitativo ampiamente sufficiente, «di quantità e qualità interessante». In tutti i nove campioni il Dna maschile «si rivelò uguale». Sugli slip non sono state rinvenute tracce di saliva, né di liquido seminale. Il Dna è stato estrapolato dalle tracce di sangue sugli slip, anche se Lago non l’ha detto apertamente. Nuova pausa, stavolta più lunga, per il pranzo. l colonnello, a proposito del Dna, ha spiegato che «quando si ha il Dna nucleare, quello mitocondriale non viene studiato». Si è conclusa poco dopo le 18 di mercoledì 21 ottobre una delle udienze chiave del processo a carico di Massimo Bossetti, accusato di aver rapito e ucciso Yara Gambirasio. In aula ha deposto il comandante dei Ris di Parma, Giampietro Lago. Le prove in gioco: il Dna, le immagini in 3D del furgone e le fibre dei sedili.
La prova del Dna a carico di Massimo Giuseppe Bossetti non è a rischio. A sostenerlo in tribunale, durante una deposizione fiume durata otto ore, è stato il colonnello Giampietro Lago, comandante del Ris di Parma, coinvolto a più riprese nelle indagini proprio sulle prove scientifiche, rivelatesi determinanti, scrive “Il Corriere della Sera”. Scendendo parecchio nel tecnico Lago ha spiegato che la componente mitocondriale del profilo genetico rilevata dalle tracce trovate sul profilo di Yara «non può assolutamente inficiare la validità della componente nucleare». «La differenza tra le due componenti — ha spiegato il colonnello — è che la mitocondriale indica l’appartenenza a una linea materna (la trasmette la mamma ai figli, maschi e femmine), mentre la seconda identifica una persona come un’impronta digitale». Ed è sulla seconda componente, quella nucleare, che il 15 giugno del 2014 c’è stata piena compatibilità tra la traccia denominata Ignoto 1 e Massimo Bossetti. Il colonnello del Ris ha chiarito che sui leggings e sugli slip di Yara, all’altezza di un taglio parziale degli slip praticato con una lama, sono stati estratti ben 20 campioni di tracce biologiche. Nella maggior parte dei casi c’è una chiara «mistura» tra traccia biologica della vittima e traccia di Ignoto 1. In altri la presenza di Ignoto 1 è emersa in modo più chiaro. «Tracce ottime e abbondantemente al di sopra dei limiti di criticità, parlando in termini quantitativi», ha spiegato Lago. Che ha poi concluso: «Il nucleare ha caratteristiche tali in quantità e qualità che non può essere messo in discussione».
Nuova giornata riservata agli inquirenti oggi al processo a Massimo Bossetti per l'omicidio di Yara Gambirasio. Per primo è stato sentito, in veste di consulente, il comandante dei Ris Giampietro Lago. Il quale ha raccontato di avere iniziato a occuparsi del caso Yara dal novembre 2010 con il sopralluogo nel centro sportivo di Brembate Sopra, l'ultimo luogo dove Yara è stata vista, scrive “Affari Italiani”. Per le indagini sono stati utilizzati tutti e cinque i laboratori del Ris di Parma (chimico, tossicologico, merceologico, video-fotografico e microscopico) e presentati tutti i reperti dell'indagine e i risultati delle indagini: sul giubbetto di Yara è stato trovato soltanto il Dna della sua insegnante di ginnastica, niente sugli altri indumenti (ma degli slip si parlera' nel pomeriggio dopo la pausa). I difensori di Bossetti hanno chiesto che non siano utilizzate ai fini processuali le affermazioni e le deduzioni del colonnello Lago, per quanto riguarda quelli ai quali il comandante dei Ris non ha partecipato direttamente. Il pm Letizia Ruggeri ha sottolineato che i Ris hanno effettuato 16 mila analisi del Dna ed era impossibile che Lago fosse presente a tutti i rilievi, ma ogni documento è stato firmato dai suoi sottoposti e che l'ultima firma era comunque la sua. Il giudice Antonella Bertoja ha dato ragione con riserva al pm.
Il comandante dei Ris di Parma che ha condotto gli accertamenti genetici nelle indagini per l'omicidio di Yara Gambirasio conferma: sugli slip della ragazzina di Brembate di Sopra, in prossimità di un taglio collocato nella parte lateroposteriore destra, sono state ritrovate tracce di Dna denominato "Ignoto1", ricondotto poi dalle indagini al profilo genetico di Massimo Bossetti. Lo ha assicurato Giampietro Lago, il comandante dei Ris di Parma durante la sua testimonianza nel processo a carico di Bossetti, scrive Today. La svolta nelle indagini, ha spiegato il colonnello Lago, è arrivata con il prelievo 31/2 effettuato sugli slip della vittima in prossimità di un taglio. "E' qui - ha puntualizzato - che troviamo per la prima volta una componente genetica chiaramente riconducibile a un profilo maschile" con "caratteristiche di qualità e quantità apprezzabili e accettabili dal punto di vista tecnico-scientifico". "Per la prima volta - ha insistito - abbiamo avuto evidenza di questo nuovo elemento genetico denominato Ignoto1". Da otto prelievi effettuati dagli specialisti del Ris sugli slip di Yara è emersa "una mistura di due profili genetici, con la componente maggioritaria riconducibile al profilo di Yara Gambirasio e un secondo profilo riferibile a una persona di sesso maschile sempre uguale a se stesso". Un successivo esame genetico condotto sulla parte esterna degli slip ha mostrato "una componente maschile maggioritaria". Da un altro prelievo è invece emerso una quantità di Dna che per il 50% appartiene alla vittima e per il restante 50% è riconducibile a una persona di sesso maschile. "In tutti questi casi di prelievo - ha puntualizzato il comandante dei Ris a questo proposito - il profilo genetico che emerge è sempre maschile e sempre uguale a se stesso". - Le risultanze tecniche spiegate dai Ris sono state contestate dalla difesa in un ennesimo scontro con l'accusa. Per l'avvocato Paolo Camporini, uno dei difensori del carpentiere di Mapello tutte le dichiarazioni del colonnello Lago sono inutilizzabili se queste riguardano "analisi, accertamenti e la stesura della relazione a cui il comandante dei Ris non ha partecipato direttamente. Sinceramente - ha sottolineato il legale in aula mostrando la relazione dei Ris - in questo lavoro la figura del colonnello Lago non la vedo". Contrario il pm Letizia Ruggeri: "Il reparto dei Ris di Parma - ha sottolineato la rappresentante della pubblica accusa - ha eseguito 16mila analisi di Dna ed è sinceramente impensabile che le abbia eseguite personalmente il colonnello Lago". I giudici della Corte d'assise di Bergamo hanno disposto la prosecuzione della testimonianza, non escludendo la possibilità di sentire in futuro i singoli consulenti che hanno effettuato le analisi. Durante la sua deposizione, Lago si è soffermato sul lavoro svolto dagli inquirenti del Ris: 20 tamponi eseguiti su unghie e genitali della vittima alla ricerca di saliva, sangue, liquido seminale e urina. "Sono stati utilizzati - ha precisato Lago - tutti i test in commercio, e tutte le analisi effettuati sugli spermatozoi hanno dato esito negativo. Non è stata rintracciata nessuna presenza di liquido seminale su tutti i reperti analizzati". Quanto alle analisi dattiloscopiche necessarie per rintracciare eventuali impronte digitali, Lago ha spiegato che si è trattato di un esame "reso difficile" soprattutto per "il cattivo stato di conservazione del cadavere di Yara Gambirasio".
Intervista esclusiva al genetista Usa. Collins: «Sufficiente il Dna nucleare». La nuova udienza del processo a Massimo Bossetti segna l’ingresso in aula delle prove. Dopo le schermaglie su autopsia e tabulati telefonici, la battaglia tra accusa e difesa entra nel vivo su temi decisivi, scrive “L’eco di Bergamo”. Prima di tutto il Dna, ma anche le analisi delle telecamere e delle fibre sul giubbotto di Yara, ricondotte ai sedili dell’autocarro del muratore. Saranno tanti gli argomenti al centro della deposizione del colonnello Giampietro Lago, comandante dei Ris di Parma, testimone dell’accusa citato dal pubblico ministero Letizia Ruggeri. E a proposito di Dna L’Eco di Bergamo in edicola mercoledì 21 ottobre pubblica in esclusiva l’intervista al genetista statunitense Francis Collins del «National Human. Genome Reseach Institute» di Bethesda nel Maryland, l’istituto mondiale che ha decifrato il genoma, la sequenza del Dna umano. Collins ha da poco lasciato la direzione dell’istituto, mentre il laboratorio che porta il suo nome è nelle mani del dottor Lawrence C. Brody, senior investigator. «Il Dna identifica una sola persona, ma teoricamente può essere trasferito da un posto a un altro», sostiene Francis Collins. «Ciò accade molto spesso se sangue, saliva, liquidi seminali e altri fluidi corporei sono lasciati su superfici». Uno dei cavalli di battaglia della difesa di Bossetti è il Dna mitocondriale. «Il Dna mitocondriale - spiegano Francis Collins e Lawrence C. Brody - da solo non può essere riconducibile a un singolo individuo. Questo perché il genoma mitocondriale è piccolo (solo 17 mila basi, rispetto al genoma nucleare che è lungo 6 miliardi di basi)». Un’opinione importante, che sembra nuovi scenari, anche se Collins e Brody non hanno voluto in alcun modo entrare nello specifico del caso di Yara.
Il processo a Massimo Bossetti riprende con la seconda parte della testimonianza del colonnello Giampietro Lago, il comandante del Ris di Parma. Cosa è previsto nell’udienza del 23 ottobre, scrive “L’Eco di Bergamo”. Esaurita la fase dedicata alle tracce di Dna sul corpo della vittima, il colonnello dovrà affrontare il tema della fibre tessili trovate sul corpo di Yara Gambirasio. Dovrà in particolare spiegare perché quelle fibre vengono ritenute corrispondenti a quelle presenti sull’autocarro di Bossetti. Poi si passerà alle ricostruzioni effettuate il 3D, sempre da parte del laboratorio del Ris, del furgone dell’imputato, ricostruzioni che sono poi state confrontate con le immagini riprese dalle telecamere di sorveglianza di Brembate Sopra la sera della sparizione della giovane ginnasta. Scintille sono attese al termine della deposizione, quando toccherà alla difesa controinterrogare il colonnello Giampietro Lago. Intanto non è passata inosservata, all’udienza di mercoledì, l’assenza tra i banchi della difesa, di Sarah Gino, consulente genetista. La professoressa del Dipartimento di Salute pubblica dell’Università di Torino, è il medico legale specializzato nello studio del dna in ambito forense che con la sua consulenza fece assolvere Amanda Knox nel primo processo d’appello a Perugia per il delitto di Meredith Kercher. «Non c’è nessun caso - ha assicurato la dottoressa al telefono da Torino -. Purtroppo sono impegnata in università e in ospedale». Ecco la cronaca della giornata segnata da diversi punti salienti. Il principale: c ’è solo una possibilità su 20 miliardi che il Dna trovato sul corpo di Yara non sia di Ignoto 1. La tesi della colpevolezza, secondo il militare, è avvalorata dal fatto che il test è stato ripetuto e ripetuto, offrendo però sempre lo stesso risultato. Si è parlato inoltre del furgone ripreso a Brembate Sopra e che ricorre nelle immagini di tre telecamere: la banca, un’azienda e il distributore dell’imputato: c’è stata «un’identificazione probabile» con quello di Bossetti. E su quello dell’imputato non è stata rinvenuta nessuna traccia di Yara. Da segnalare che Bossetti oggi si è rifiutato di mangiare. La cronistoria della giornata.
Ore 10,30: «Sufficiente margine per essere certi dell’identificazione». Anche per questa 11ª udienza l’aula del Tribunale di via Borfuro è piena: oltre ai tanti «affezionati», quelli che non perdono una sola sessione, anche un gruppo di giovani studenti. Come sempre è presente la sorella dell’imputato. Bossetti è al suo posto, jeans e un maglione azzurro. Il colonnello Lago ha proposto una sorta di «lezione» di biologia per spiegare le differenze del Dna, i modi di estrazione e l’utilizzo delle banche dati. Rispondendo alle domande del pm di Bergamo Letizia Ruggeri, ha spiegato che «nelle banche dati internazionali è raccolto solamente il Dna nucleare». Uno degli argomenti del processo, infatti, è il dubbio, avanzato dalla difesa, della mancata corrispondenza tra il Dna nucleare trovato sul corpo della ragazza e attribuito a Bossetti e quello mitocondriale del quale non è stato possibile stabilire l’appartenenza. L’ufficiale ha ribadito che «è solamente il Dna nucleare quello in grado di identificare una persona» ed è il solo ad avere valore forense mentre quello mitocondriale viene usato per altri scopi. Riguardo al Dna di ignoto 1, che altri laboratori, non quello del Ris, attribuirono a Bossetti, Lago ha spiegato che «una cinquantina di marcatori» rivelarono essere della persona che aggredì Yara. Un dato che, di fatto, esclude dei margini di incertezza. Lago ha spiegato poi che, in presenza di quindici marcatori, vi è un «sufficiente margine per essere certi dell’identificazione». Il pm Letizia Ruggeri, formulando la domanda, ha parlato di «banche dati internazionali» in quanto in Italia il database è ancora in via di realizzazione poiché, nonostante esista una legge del 2009, questa non è ancora correlata dai relativi decreti attuativi.
Ore 11,15: «Il Dna non è di Ignoto1? C’è solo una possibilità su 20 miliardi». Stando alla testimonianza del colonnello Giampietro Lago, comandante del Ris di Parma, c’è solo una possibilità su 20 miliardi che il Dna trovato sul corpo di Yara non sia di Ignoto 1. La tesi della colpevolezza, secondo il militare, è avvalorata dal fatto che il test è stato ripetuto e ripetuto, offrendo però sempre lo stesso risultato. Dopo questa dichiarazione il processo si è fermato per una breve pausa. In aula oggi è arrivato anche Vittorio Cianci: si tratta del perito della difesa, esperto nell’esame di fibre tessili. Dovrà esprimersi sui risultati degli esami sulle fibre trovare sul corpo della ginnasta e che sono fatte risalire al furgone di Bossetti.
Ore 12,30: «Su furgone e attrezzi non è mai stata trovata traccia di Yara». Dopo una pausa di circa mezz’ora il processo è ripreso. Attraverso la testimonianza del colonnello del Ris è stato presentato un lunghissimo elenco di reperti di pertinenza dell’imputato, raccolti a casa o fra gli oggetti di lavoro. Si è poi parlato del furgone Iveco e della Volvo di Bossetti: entrambi i veicoli sono stati sottoposti a una serie infinita di analisi sulle macchie e altri reperti organici. Sono state trovate anche numerose tracce di sangue (dell’imputato e di altre tre persone, due donne e un uomo), dovute probabilmente a piccole ferite o a epistassi. Non è però mai stata trovata alcuna traccia del Dna di Yara Gambirasio. Poi si è passati all’esame delle immagini riprese dalle telecamere (del centro sportivo di Brembate Sopra, di una banca, di un distributore e di due aziende): per ognuna sono disponibili da 6 a 24 fotogrammi. Ritrarrebbero un furgone di passaggio compatibile con quello di Bossetti.
Ore 13,15: per il furgone «identificazione probabile». Alle 13,15 il processo si ferma per la pausa. Giampietro Lago, il comandante del Ris di Parma, nel frattempo - analizzando le immagini riprese dalla telecamera - ha spiegato in aula come si è arrivati dai fotogrammi al modello del furgone. Sono stati analizzati tantissimi modelli e, sovrapponendo le immagini, si sono cercati il cosiddetti punti di coerenza. Il furgone che è stato ripreso a Brembate Sopra ricorre nelle immagini di tre telecamere: la banca, un’azienda e il distributore. Da qui - ha detto il colonnello - si è giunti a una «identificazione probabile». Lago ha spiegato che esistono varie gradazioni di identificazione, in una scala stabilita a livello europeo: la prima è l’impossibilità di stabilire un’identificazione, la seconda è «l’identificazione probabile», la terza è «l’identificazione senza aggettivi», ovvero «l’identificazione certa». Nel caso del furgone di Bossetti si è giunti a una «identificazione probabile» sulla scorta di alcuni elementi: il passo del veicolo, ovvero la distanza tra i due semiassi (medio tra i tre modelli di Fiat Daily prodotti) e anche una macchia di ruggine sul cassone del mezzo. La sovrapposizione tra le immagini del furgone di Bossetti e quelle ricavate dai fotogrammi delle telecamere, è risultata «coerente». Per la prima volta - è l’undicesima udienza - Bossetti non ha voluto mangiare: gli sono stati offerti panini e acqua, ma non li ha voluti. Gli è stato chiesto se volesse tornare in carcere per consumare un pasto, ma ha risposto «no», senza fornire alcuna spiegazione.
Ore 15,30. Furono poi le indagini del Ros dei carabinieri a individuare circa 2.000 Iveco Daily in tutto il Nord Italia tra il 1999 e il 2006. Furono fotografati ed esclusi quelli che avevano caratteristiche incompatibili con quello ripreso dalle telecamere. Da questo si arrivò a una «rosa» di cinque mezzi (tra questi quelli dell’imputato) ma, stando alle indagini, i proprietari degli altri quatto non potevano essere a Brembate di Sopra il pomeriggio del 26 novembre del 2010, quando Yara scomparve.
Si è conclusa verso le 17,15 l’udienza di venerdì 23 ottobre del processo che vede Massimo Bossetti imputato del rapimento e dell’uccisione di Yara Gambirasio. Ha parlato ancora il comandante dei Ris di Parma, il colonnello Giampietro Lago, consulente dell’accusa, che sarà sentito una terza volta - venerdì 30 ottobre - prima del controesame della difesa.
30 ottobre 2015. Terza udienza del processo Bossetti al tribunale di Bergamo con protagonista il colonnello Giampietro Lago, comandante dei Ris di Parma e consulente dell’accusa, che concluderà la sua deposizione prima di essere sottoposto al controesame della difesa. Una giornata che si preannuncia abbastanza accesa perché c’è sempre in ballo la prova principe, quella del Dna, che per il pm Letizia Ruggeri inchioderebbe Bossetti come l’assassino di Yara Gambirasio, scrive “L’Eco di Bergamo”. Si è conclusa poco prima delle 19 la terza udienza del processo Bossetti con protagonista il colonnello Giampietro Lago, comandante dei Ris di Parma e consulente dell’accusa, che è stato sottoposto al controesame della difesa. L’attenzione si è concentrata su diversi elementi dell’indagine, soprattutto sulla prova principe, quella del Dna, che per il pm Letizia Ruggeri inchioderebbe Bossetti come l’assassino di Yara Gambirasio.
L’udienza è iniziata alle 10, presente come sempre Bossetti - che il 28 ottobre ha compiuto 45 anni -: l’imputato in pantaloni scuri e felpa blu ha salutato la sorella e si è seduto per ascoltare la continuazione della deposizione del colonnello Lago che è ritornato sulle fibre rinvenute sul corpo di Yara che sono state considerate compatibili per analisi chimiche, morfologia e composizione alle fibre dei sedili del furgone dell’imputato. Di questo si era già parlato nell’udienza di venerdì scorso. Il comandante dei Ris di Parma si è quindi addentrato nel capitolo relativo alle sferette di metallo, piccolissime particelle, che sono state anch’esse scoperte sul corpo della ginnasta di Brembate Sopra. Sono state individuate con uno strumento che abbina un microscopio elettronico ai raggi X e che ingrandisce le particelle 200.000 volte in più di uno strumento tradizionale. Ebbene, queste sferette sono composte di ferro e in parte di manganese e cromo. "Gli esiti del lavoro di comparazione tra le sfere di metallo trovate sul corpo e quelle acquisite dall'autocarro Iveco Daily dell'imputato supportano le ipotesi che sia stato il tessuto del sedile del mezzo all'origine di quelle particelle trovate sul cadavere". "Ci chiedemmo come una ragazza di 13 anni, con una vita normale, che andava in palestra, a scuola, potesse avere quelle particelle". Furono quindi sottoposti a rilievi quatto ragazzi che avevano la stessa età della tredicenne e i loro abiti evidenziarono la presenza di nove particelle di questo genere in tutto, mentre sul corpo di Yara ne erano state trovate "nell'ordine delle centinaia". Si passò quindi ad analizzare gli abiti di lavoro di persone che potevano essere state in contatto con sferette dello stesso tipo e, sulle tute di operai, tornitori e altri che svolgono professioni simili, ne furono trovate "migliaia". Furono quindi eseguiti dei campioni sull'autocarro di Bossetti, che è muratore, in particolare nell'abitacolo e gli investigatori trovarono sferette dello stesso tipo. «Anche da un punto di vista quantitativo - ha detto Lago - si trovarono dei dati coerenti, in quanto sul cadavere dovevano esserci sferette in misura inferiore rispetto al mezzo: sul furgone vi erano migliaia di particelle di interesse e centinaia sul corpo di Yara». È stato controllato il terreno dove è stato trovato il corpo di Yara, ma ce n’erano pochissime e quindi si è arrivati alla conclusione che sono state trasferite dal corpo di Yara al terreno e non viceversa. Si è provato ad analizzare gli indumenti portati da studenti della stessa età della tredicenne e anche questi test non hanno condotto a risultati di rilievo (nove particelle in tutto, mentre Yara ne aveva nell’ordine di centinaia), mentre quando si è tentato con persone che lavorano con il ferro sono arrivati riscontri positivi, nell’ordine di migliaia, e anche sui sedili del furgone di Bossetti i Ris si sono imbattuti in migliaia di queste particelle di metallo. Sarebbe dunque un ulteriore indizio a carico del muratore.
Sospensione dell’udienza poco dopo le 11,15. Alla ripresa, verso mezzogiorno gli avvocati difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini sono andati subito all’attacco di Lago nel controesame. Salvagni ha chiesto su quale base statistica sia stata fatta l’indagine relativa alle sferette di metallo e il comandante dei Ris ha risposto parlando di contesto sperimentale, nel senso che sono stati soltanto quattro i ragazzi testati con i loro indumenti. La difesa ha domandato perché non siano stati controllati i giovani che frequentavano la palestra di Brembate Sopra o la sorella di Yara e perché i test sui lavoratori siano stati effettuati su operai e tornitori e non invece su muratori come Bossetti e ha per questo richiesto un supplemento d’indagini anche sul furgone di Bossetti, perché siano prese in esame tutte le sferette e non soltanto quelle riscontrate sui sedili. Il pm ha però replicando dicendo che sarebbe un inutile aggravio di lavoro. La Corte si è riservata di decidere sulla richiesta all’esito del dibattimento. I legali di Bossetti hanno contestato anche le indagini relative alle fibre, anche perché - per dare un’idea - è emerso che non è stato accertato di quale materiale è composto il legging che indossava Yara la sera della sua scomparsa (dettaglio che ha suscitato mormorio in aula). Secondo stop dell’udienza poco prima della 14 per la pausa pranzo. L’udienza è ripresa verso le 15 e si è continuato a parlare delle fibre: la difesa ha chiesto se la comparazione è stata effettuata anche con altri campioni, per esempio il sedile dell’auto del papà di Yara, il bus di linea o i furgoni del centro sportivo: la risposta è stata negativa. I difensori di Bossetti sono poi passati alle registrazioni delle telecamere, in cui si vedrebbe il furgone del muratore, contestando il fatto che la comparazione 3d che ha portato al riconoscimento del mezzo è stata effettuata non su tutte le telecamere, ma solo su una. Hanno quindi chiesto di una copia del filmato completo. Dopo le telecamere, la difesa è tornata sul discusso tema del Dna, in particolare sulla qualità della traccia che ha portato all’identificazione di Ignoto 1 e sulla possibilità di un trasferimento accidentale del Dna sugli indumenti di Yara.
Delitto di Yara, la difesa di Bossetti attacca l'inchiesta, scrive "Il Secolo XIX". La «discrepanza», come la chiama la difesa, tra il Dna mitocondriale, che non è risultato essere di Massimo Bossetti e quello nucleare, che invece appartiene al muratore di Mapello, ha fatto prepotentemente ingresso nell’aula della Corte d’assise del Tribunale di Bergamo in cui ha finito di deporre il comandante del Ris di Parma, Giampiero Lago. L’ufficiale individuò il Dna di Ignoto1 (la comparazione di questo con quello di Bossetti sarà poi svolta da «organismi istituzionalmente diversi rispetto al Ris», ha precisato Lago) e svolse gli accertamenti sui frame tratti dalle telecamere di sorveglianza per confrontare il veicolo ripreso e quello di Bossetti, e le indagini sulle `sferette´ di metallo e sulle fibre di tessuto trovate sul corpo della tredicenne. Lago ha ribadito che «l’unico ad avere valenza identificativo di una persona» è il Dna nucleare e che il fatto che quello mitocondriale non abbia portato a risultati non inficia il risultato sul primo. Per gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini questo non basta: «Rimane una circostanza che necessita di una risposta scientifica». In sostanza, secondo loro, esiste un Ignoto2. «Gli esiti del nostro lavoro sulle sferette trovate sul corpo sostengono l’ipotesi che l’origine sia il furgone dell’imputato», ha spiegato l’ufficiale. Sulla scorta di alcune risultanze: furono esaminati quattro coetanei di Yara, parenti dei militari di Parma, che avevano lo stesso stile di vita della vittima e furono trovate solo nove particelle simili, mentre sul corpo la ragazza ne presentava centinaia; fu esclusa una contaminazione con il terreno del campo di Chignolo d’Isola in cui la tredicenne fu trovata dopo tre mesi dalla scomparsa; furono analizzati gli abiti di lavoro di tornitori, meccanici e altre persone che lavoravano con il ferro. I loro abiti di queste particelle ne presentavano migliaia. Così come i sedili dell’autocarro di Bossetti. La composizione delle sferette trovate a bordo del mezzo e quelle sugli abiti di Yara corrispondevano per la composizione e così il rapporto quantitativo: «migliaia nell’autocarro», «centinaia» sul giubbotto e il leggins della tredicenne. Poi i frame delle telecamere che ritraevano la zona nei dintorni della casa e della palestra diBrembate di Sopra. I Ris analizzarono solo una sola delle cinque telecamere di sorveglianza, quella i cui frame avevano la qualità migliore. In quei frame l’autocarro passa «almeno due volte». Avvisaglie di una battaglia ancora lunga.
Gli avvocati di Bossetti: "Dna di un altro su Yara, indagini incomplete", scrive “Bergamo News”. "Abbiamo assistito alla deposizione di un consulente ostile, che porta avanti una sua tesi. Si tratta, più in generale, di indagini che lasciano il tempo che trovano". E' il duro attacco di Claudio Salvagni, uno dei legali di Massimo Bossetti, al temine della lunga e articolata deposizione del colonnello Giampietro Lago, comandante dei Ris di Parma e consulente dell’accusa. Il pool difensivo del carpentiere di Mapello, a processo per il brutale delitto della tredicenne Yara Gambirasio, nel corso del controesame ha tentato di smontare punto per punto la tesi esposta da Lago sul lavoro di indagine svolto. Tracce di dna, fibre tessili e sfere metalliche. Questi i principali temi trattati, in modo molto approfondito, dal testimone nel corso delle tre udienze di fronte alla Corte d'Assise presieduta dal giudice Antonella Bertoja. Il punto più discusso, come prevedibile, anche dal pm Letizia Ruggeri, è stato quello relativo al profilo genetico rinvenuto sui resti della tredicenne. Anzi, secondo la difesa di Bossetti: "Non è stato rinvenuto il dna mitocondriale di "Ignoto 1" (il carpentiere di Mapello, che era come sempre presente e attento in aula) ma di un altro profilo, che non è mai stato identificato". "Solo tracce minime che non si possono analizzare", ha replicato Lago. Che prima aveva puntato il dito contro il furgone di Bossetti, parlando delle sferette metalliche ritrovate sul cadavere di Yara: "Sul terreno di Chignolo ne abbiamo raccolte poche, mentre sul corpo tante - spiega Lago - . Quindi difficilmente sono collegate al terreno. Abbiamo svolto test su ragazzi dell'età di Yara e ne avevano poche. Poi li abbiamo svolti su fabbri e tornitori, e ne avevano tante. Come sui sedili del furgone di Bossetti, dove ne abbiamo trovate migliaia. Risultato prevedibile, ma che supporta l'ipotesi che quel tessuto sia la fonte di quelle sferette. E' coerente anche il quantitativo". Una tesi criticata dagli avvocati del muratore, come quella sulle fibre di tessuto (secondo Lago "Compatibili sempre con l'Iveco"), che hanno ribattuto: "Per le sferette non sono stati analizzati tutti i componenti ferrosi e i soggetti erano poco attendibili, per le fibre non è stato preso in considerazione, per esempio, il furgone della palestra frequentata da Yara".
Massimo Bossetti. E' il momento del dottor Marzio Capra e l'accusa, che mercoledì ha tentato di rialzarsi con l'aiuto del tenente colonnello Giampietro Lago, potrebbe finire al tappeto..., scrive Massimo Prati su “Albatros-Volando Controvento”. Dopo essere stato chissà dove in America, irrintracciabile anche per la procuratrice Ruggeri che gli inviava mail per ottenere i dati grezzi sul dna (in pratica delle cartelle in excel in cui è riassunto l'iter che ha portato gli analisti a ignotouno) senza ottenere risposta, dati grezzi che da oltre un mese doveva fornire alla difesa che per prepararsi al meglio li voleva analizzare prima delle udienze in cui si trattava il dna (chissà se superato lo scoglio Dna i dati arriveranno?), il Tenente Colonnello Giampietro Lago si è presentato al tribunale di Bergamo per raccontare la sua verità. Ma purtroppo, come capitato spesso a chi ha testimoniato per l'accusa, anche lui ha raccontato una verità che non conosce o che conosce a malapena, visto che non ha eseguito personalmente i 18000 test sui campioni di dna e, cosa assai preoccupante, ha parlato di fronte ai giudici non essendo obbligato a dire la verità perché, come i testi della procura che l'hanno preceduto, ascoltato come un qualsiasi consulente d'accusa che può interpretare i dati a modo suo e dire ciò che vuole senza incorrere in problemi penali di alcun genere. In pratica, il dottor Lago mercoledì ha elencato in maniera esemplare quanto letto su fogli scritti "da altri" che poi lui, comandando il reparto, ha contro-firmato... e vedremo se il giudice si accontenterà della sua testimonianza o se vorrà che siano "gli altri" stessi ad andargli a raccontare come sono andate le cose (così da saperle in forma diretta e non per interposta persona). Comunque, nonostante la sua formale sicurezza e i sorrisi di rappresentanza, si è capito che il capo del Ris in aula ha mostrato la sua forma migliore solo per cercare di mettere quella toppa che evitasse il tracollo della diga accusatoria. Diga che sta cedendo e rischia di franare addosso a chi l'ha costruita perché non in grado di portare elementi che possano far sentenziare la colpevolezza di Massimo Bossetti. In questi mesi ai giudici è stato detto che la piccola Gambirasio mai avrebbe frequentato il carpentiere, che non lo conosceva come non lo conosceva la sua famiglia e nessuna delle ragazze con cui girava. E' stato detto che nessun ciuffo d'erba radicato al terreno era nella sua mano e che in molti punti della sua pelle c'erano fibre di una coperta multicolore che poteva servire solo ed esclusivamente per trasportane un cadavere "che non si voleva rovinare". E' stato detto che le ferite dimostravano un'aggressione avvenuta mentre la ragazzina era seminuda, che non avrebbe potuto fuggire al buio in un campo incolto senza cadere e provocarsi escoriazioni e che lo stato del cadavere era incompatibile con una permanenza di tre mesi all'aperto. E' stato inoltre detto non solo che il telefonino di Massimo Bossetti non era spento la sera della scomparsa di Yara, ma anche che mai si era sovrapposto a quello della piccola Gambirasio. In pratica, seppure agganciati dalla stessa cella, i cellulari si trovavano in due settori diversi. Per cui il carpentiere accusato del suo omicidio era in una zona compatibile con la sua abitazione mentre la ragazzina si trovava dalla parte opposta. Tutto questo ha mortificato la ricostruzione accusatoria e la procura, dopo essere finita alle corde, mercoledì ha cercato di tornare al centro del ring chiamando a deporre il suo miglior perito. L'accusa, con un ginocchio a terra e gli occhi lividi, nel Colonnello Lago ha riposto la sua unica e ultima speranza. Ma quando non ci sono risposte, perché in natura non ne esistono, hai voglia a cercare di darne in maniera credibile. Lui ci ha provato a tirar ganci sotto la cintura della difesa per cercare di allontanare il pericolo e far rialzare le gambe all'accusa. Infatti, in sfregio a tutte le regole che conosce e in maniera ben poco professionale, ha continuato imperterrito a chiamare assassino il possessore del nucleare ignotouno. Chissà da chi ha studiato, visto che tutti i suoi colleghi da sempre ci dicono che trovare un dna durante le analisi di per sé non significa trovare il colpevole. Perché il Dna vola, checché se ne dica, e può trasferirsi da persona a persona e da persona a indumento e per farlo tornar utile servono un movente e una ricostruzione che consenta di appurare che fra vittima e possessore del dato genetico ci sia stata almeno una conoscenza pregressa. E chissà cosa passava per la testa al dottor Lago quando cercava di giustificare alla giuria la mancanza del mitocondriale. Ad esempio, quando ha detto che se sulla traccia non esiste è forse perché la componente lasciata dall'assassino ignotouno non è sangue ma sperma. Sperma, lo stesso elemento genetico categoricamente escluso dai test eseguiti dai suoi uomini. Sono loro "gli altri" di cui parlavo prima cui il colonnello ha controfirmato i verbali, e loro han detto e scritto che i test dimostravano che non si trattava di sperma e neppure di saliva. Dunque, da cosa sarà mai formato quel prodotto biologico che dicono di aver trovato in ben undici o più ritagli delle mutandine di Yara? Quel prodotto abbondante, anzi molto abbondante, che purtroppo è finito e non si può analizzare? Il dottor Lago non lo sa e non l'ha saputo spiegare. E non l'ha saputo spiegare perché non c'è nessuno al mondo in grado di farlo. Ed ecco il motivo per cui la prossima udienza (in programma oggi venerdì 23 ottobre), in cui a testimoniare andrà il dottor Capra, potrebbe essere determinante e oltre a minare le coronarie e le tonsille del pubblico ministero mettere la parola fine a un processo che neppure doveva iniziare. A un processo che è nato monco e che continua a zoppicare nonostante le stampelle prestate all'accusa da tanti media e da tanti gossippari delle edicole. Se cade il Dna cade tutto, si dice in ogni luogo. Ma tutto cosa, dato che oramai non c'è più nulla? Il dna abbondante è finito, i dvd dei filmati che immortalavano il furgone di Bossetti sono scomparsi e i dati grezzi sul dna che dovevano arrivare un mese fa non si sa dove siano. Forse sono in bagno che si truccano perché si vogliono far belli prima di entrare in casa d'altri?
Processi indiziari: Teoremi giudiziari secondo scienza e coscienza? Scrive Gilberto Migliorini su “Albatros Volando Controvento”. Certo, ogni elemento è utile e concorre a costruire un quadro probatorio, magari forzandolo a viva forza nel frame, anche quando appare come un riferimento tirato per i capelli, un nesso estemporaneo e capzioso. Talvolta la cornice racchiude una composizione astratta che non ha nulla da invidiare a un Mondrian, un Kandinnskij o un Paul Klee, un astrattismo interpretabile secondo il capriccio del fruitore. Qualunque cosa può essere inserita a dimostrare una tesi di colpevolezza, soprattutto quando mancano elementi oggettivi e occorre trovare surrogati utili a dimostrare un teorema. Una volta individuato un colpevole, se non esistono veri elementi di prova, si costruisce un contesto di indizi sulla base di collegamenti e inferenze spesso fantasiose. Se si danno solo riscontri zoppicanti e ancora da dimostrare, si interpreta come elemento indiziario tutto quello che fa all’uopo in un affresco ‘probatorio creativo’. Quando un soggetto viene indicato come responsabile di un delitto sulla base di elementi vaghi e contraddittori, occorre ovviare alla carenza di prove utilizzando qualunque elemento possa apparire come pistola fumante. Con il supporto di notizie e informative opportunamente pilotate, per via suggestiva e con interpretazioni che valgono sic et non, si fa girare la roulette. Anche i numeri che escono a caso hanno significato in un contesto dove fatti irrilevanti acquistano con l’amplificazione mediatica il carattere di indizio grave e concordante. Talvolta si costruisce così il ‘mostro’ da sbattere in prima pagina. Il termine indizio è quanto di più vago e soggettivo possa essere introdotto a supporto di un teorema di colpevolezza, soprattutto quando l’elemento presunto oggettivo viene riguardato con l’occhio magico dell’interpretazione. Praticamente tutto nella vita di un individuo sospettato di un delitto può fungere da riscontro, soprattutto se l’elemento indiziario è desunto da un’attività investigativa che abbia sia pur vagamente la denominazione di prova scientifica. La locuzione funziona sempre e presso l’opinione pubblica ha un forte potere di seduzione. L’indizio è sempre double face, è una questione interpretativa dove la normalità è quella fissata per convenzione e, soprattutto, spostata ad arbitrio quando viene embricata disinvoltamente nel contesto. I nessi si trovano sempre, lo psicologismo può agevolmente giostrare per dire tutto e il suo contrario amalgamando e impastando motivazioni, pulsioni, comportamenti in una sorta di psicoanalisi prêt-à-porter. Con la dicitura processo indiziario si può praticamente trovare sempre il riscontro. È sufficiente assemblare nel modo opportuno alcuni elementi considerati come significanti, dar loro una configurazione attraverso collegamenti ad hoc e costruire un teorema dal forte impatto emotivo, anche se del tutto evanescente sul piano della logica e della deduzione se valutato nei suoi elementi concreti. Non esiste comportamento, anche il più banale e innocente, che non possa risultare indiziario, non esiste fatto che non possa valere come verifica se opportunamente inserito in un quadro interpretativo costruito con collegamenti appropriati. Proprio come in un quadro astratto, dove ciascuno può vederci quello che ritiene la vera ispirazione dell’artista, i nessi acquistano il carattere personale dell’interprete, sillogismi con premesse ipotetiche. Vero è che il campo della possibilità è praticamente senza limiti alla fantasia. Non si tratta però di un procedimento del tutto soggettivo, nella fattispecie agisce anche l’oggettività del pregiudizio che come tale rappresenta la mentalità di un popolo e delle sue istituzioni. Non a caso intellettuali come il Manzoni hanno scritto la celeberrima Storia della Colonna Infame, a significare una continuità storica che partiva dal diciassettesimo secolo e che arrivava fino all’800. Il Piazza e il Mora nel 1630 erano stati processati come untori, torturati e strozzati. Il semplice camminare rasente a un muro perché pioveva era stato interpretato secondo le suggestioni popolari e le inferenze creative della magistratura dell’epoca come indizio rilevante di chi andava ungendo i muri con sostanze venefiche per contagiare con il morbo pestilenziale. Ma il Manzoni storico, come anche il Verri prima di lui, non parlava solo della peste del 600, parlava anche del suo tempo. Il sistema dei teoremi giudiziari (come quello descritto dall’illustre milanese) ha mantenuto una sua cadenza regolare giungendo nella nostra epoca attraverso il caso Girolimoni, Tortora, e a tanti altri imputati in attesa di giudizio o già condannati su base indiziaria (in qualche caso riabilitati nell’ultimo grado di giudizio). Lo spirito di un popolo è anche quello della sua mentalità e dei suoi pregiudizi. Le persone in fondo sono ingranaggi di un sistema dove le regole non sono solo quelle codificate, ma anche di quella cultura che permea le istituzioni e i suoi rappresentanti. Le leggi nella nostra tradizione appaiono come forme vuote che solo l’interprete può cogliere nel loro spirito autentico. L’interpretazione può in ogni momento sovvertire il senso e ribaltare il significato della norma giuridica. La lettura vera della legge è allora nella mentalità e nel costume, nell’humus culturale che agisce in forma implicita, senza mai apparire, come una sorta di eminenza grigia che agisce surrettiziamente. L’arbitrio istituzionale è il carattere peculiare delle italiche istituzioni che considerano il cittadino (la plebe) come un soggetto senza diritti, anche quando quei diritti gli vengono formalmente riconosciuti, con enfasi plateale. Il carattere un po’ passionale e un po’ garibaldino di tanta ‘nostra’ latitudine interpretativa (riguardo a norme leggi codici regolamenti provvedimenti disposizioni precetti regole) è anche il segno di una ermeneutica tanto suggestiva, quanto arbitrariamente arzigogolata, reinterpretata riformattata rinverdita rispiegata ridefinita decifrata, decodificata…Il paradosso delle italiche istituzioni è quello di un formalismo ineccepibile, perfino commovente nei suoi intenti di garanzia e di rispetto del cittadino, una fedeltà esteriore sempre evocata come una sorta di sacro Graal, un garantismo sbandierato con la prosopopea e la solennità del principio inviolabile. Poi, nello spirito di accomodamento, di compromesso e di contraffazione, il principio assume una latitudine interpretativa che trasforma le leggi in meri protocolli di negoziazione e in orpelli di legittimità. Il suono altisonante della retorica serve a coprire una discrezione e un capriccio esegetico dove tutto può essere indifferentemente bianco o nero, vero e falso, giusto e sbagliato, in contemporanea, con un interprete che sa valutare e giudicare secondo le bisogna, in ragione dell’opportunità e della convenienza…Proprio grazie alla creatività interpretativa, il potere, in tutte le sue forme, può galleggiare con nonchalance, risultare sempre ineccepibile e corretto, ergersi a censore e giudice che dall’alto della sua discrezionalità diviene immune dalla legge che diviene flatus vocis, rumore che risuona nelle sedi istituzionali, ma ancora in attesa di trovare il ciò che significa. L’interprete istituzionale è infatti al di fuori di qualsiasi contenzioso, visto che è proprio lui l’esegeta che illumina e spiega, il mallevadore che interpreta le norme altrimenti opache e incomprensibili al volgo. La decodifica è l’espediente con il quale tutto può trovare rispondenza e garanzia in un sistema senza garanzie e senza punti di riferimento. La teoria dell’indeterminatezza non è propria solo della fisica quantistica, ma anche di quelle norme giuridiche che un chiosatore istituzionale ‘super partes’ decodifica quando serve come sic e quando conviene come non. A soccorrere comunque l’ermeneutica criptica c’è quel linguaggio involuto dove il latinismo assume il carattere astruso e contorto nel quale l’interprete può sempre occultarsi e trasfigurarsi. Cicerone torna comodo quando la citazione estemporanea funge da passepartout e da aforisma oscuro e impenetrabile, ma sempre con la souplesse che consente l’escamotage. Meno idoneo quando come nelle Catilinarie (un po’ montatura e un po’ sceneggiata) appartiene a quella logica dove il diritto non è altro che il procedere trasversale (un colpo al cerchio e quell'altro alla botte) secondo convenienza e opportunità, aspirazione al potere politico e alla gloria personale dell’illustre oratore pater patriae. La giustizia del Bel Paese appare, da sempre, soltanto come una controfigura di interessi di potere…
La comicità del male: l’emblematico caso Bossetti...scrive Gilberto Migliorini su “Albatros Volando Controvento”.
Poi uscì fuor per lo fóro d’un sasso,
e puose me in su l’orlo a sedere;
appresso porse a me l’accorto passo.
Io levai li occhi e credetti vedere
Lucifero com’io l’avea lasciato,
e vidili le gambe in sù tenere;
Dante, Inferno, Canto XXXIV
Il demone riguardato da un’altra prospettiva appare come qualcosa di insulso e ridicolo, qualcosa di grottescamente umoristico. Il terribile Lucifero, visto capovolto, sembra a Dante - che emerge nell’altro emisfero - solo un goffo e enorme pupazzo che più che suscitare terrore fa sorridere perfino un turista in visita nel fantasmagorico e spettacolare mondo della giustizia infernale, giù nei cerchi concentrici dove sospiri, pianti e alti guai risuonano per l'aere sanza stelle. In fondo alla Giudecca, dal nuovo punto di vista, il poeta coglie tutta la banalità, lo squallore e l’assurdo del male. Nell’uscir fuori a riveder le stelle il maligno con le tre bocche fameliche risulta alla fine un colossale burattino che lascia sporgere due gambe goffe e pelose. Il demone per antonomasia non è altro che un insulso pupazzo, se colto nella sua vera essenza capovolta, quando il male è riguardato nella sua sostanza scarna, senza i paludamenti e le vestigia suggestive della Caienna dove i dannati della terra espiano le colpe. Tutto il caso Bossetti osservato da una diversa prospettiva, quella della nudità di elementi probatori contraddittori e incongrui, della inconsistenza degli indizi più o meno apparenti, dei sillogismi fantasiosi e accattivanti… appare proprio come quel pupazzo che Dante vede con un altro occhio una volta fuori dall'imbuto infernale: un fantoccio, un burattino, una marionetta snodata legata a dei fili invisibili e mossa come se veramente avesse ratio e consistenza ontologica. Il male è nella sua essenza la mancanza, il non-essere del bene, non ha sostanza. Il mostro infernale che mastica Bruto Cassio e Giuda è l’immagine di una giustizia che in un’ottica invertita appare un automa con pulegge, corde e cinghie. Il Satana meccanico si muove un po’ per inerzia e un po’ per il gioco di un destino crudele e beffardo: regole costruite sugli automatismi e sull'inerzia di procedure di giudizio ricorsive e inconsapevoli, meccanismi ciechi e ripetitivi con indizi artificiosi e arbitrari. Un sistema di riscontri retti su qualche picogrammo di sostanza biologica per mesi mantecata dalla natura matrigna in un laboratorio all'addiaccio. Entomologia aliena: molecole intonse sopravvissute per molte settimane agli insetti necrofagi; biologia di confine: tessuti biologici e fibre artificiali con l'allure ancora intatto; cellule dischiuse come fiori immacolati dopo decadi alle intemperie; fili d’erba ancora stretti tra le dita come se l’inverno ne avesse miracolosamente preservato immacolata la fragranza. L’immagine di liquidi biologici che trasudano la verità su un delitto nelle circonvoluzioni dell’acido desossiribonucleico, appare nell'immaginario collettivo (ma anche in tanta scienza spettacolo) come prova inconfutabile, elemento che inchioda negli alleli rari, nella discendenza matrilineare, nella paternità biologica, come se lo scenario fosse quello del tavolo dell’anatomopatologo, con la salma intatta e preservata dal degrado, e non un corpo abbandonato da mesi non si sa come e non si sa dove… all'arbitrio di chiunque. Non si tratta della scena di un delitto fresco di giornata, con il corpo caldo, e con ancora sul volto l’evidenza stupefatta del trapasso. Una salma mineralizzata, senza più neppure il ricordo di forme e lineamenti, eppure secondo la prova che inchioda - dopo mesi di abbandono e nell’alchimia del software di laboratorio - in grado senza ombra di dubbio, senza esitazione, senza incertezza, senza il sospetto di altre variabili, di modalità e dinamiche ignote… di ricostruire un delitto e indicare senza incertezze chi è l’assassino. Sembra un paradosso parlare di umorismo quando qualcuno si trova ad affrontare una prova devastante come l’accusa di omicidio, insieme a un formidabile teorema di chiacchiere, maldicenze, pettegolezzi, invenzioni, illazioni… al limite del surreale. Una vena letteraria scapigliata e un formidabile magazzino di invenzioni narrative, mondi virtuali, scenari cavati fuori da fotogrammi e nucleotidi che coinvolgono un contesto di affetti reali, una privacy violata in ogni dettaglio esistenziale con la presunzione di una colpevolezza che non ha neppure più bisogno di prove, e dove l’indizio è nient’altro che il filo di Arianna che si dipana in un labirinto trovando riscontro ovunque, per qualunque strada vada, qualunque elemento sia messo in evidenza e inserito nel teorema, perfino i cavilli e i sofismi, le bagatelle e le quisquilie. Tutto, proprio tutto complotta a dimostrare che nel dedalo si evince la forma e il contenuto del delitto, tutto trova consonanza col movente, la dinamica, perfino la genesi e la pulsione assassina. Deduzioni più stringenti di una teoria dalle formule matematiche e dalla statistica a supporto di deviazioni standard. L’universo della vita, quello di milioni di altri nuclei familiari con tutte le contraddizioni, le imperfezioni, i conflitti, le incertezze, le crisi… le innumerevoli, atipiche e singolari idiosincrasie che caratterizzano qualsiasi normalità coniugale che non sia quella della famiglia del Mulino Bianco… nel caso Bossetti divengono criteri rivelatori, scenari inconfutabili, certezze di rapporti irregolari… sollevando un velo di Maya che dischiude il sospetto, la certezza di perversioni, di anomalie… e addirittura la genesi di un delitto. Ma è il consueto e ineffabile Dna (per il comune mortale e la giuria) la parola magica, un abracadabra in versione moderna, un esoterico miscuglio di cifre e lettere, proprio come un amuleto, "un talismano a la page gnostico e numerologico". Qualcosa che l’occhio non vede, trasportato proditoriamente da una mano assassina, o forse dal vento, da un arto fantasma, traslato dalle dita danzanti di altre mani, forse collocato lì per aequivoca intentio, forse soltanto il mistero di molecole immortali, sopravvissute miracolosamente per mesi all’incuria del tempo. Magari soltanto illusioni di variabili occulte in una replicazione e riproducibilità effimere, di materiale evaporato nei procedimenti di analisi, molecole evanescenti, disperse alla luce del sole, referti orfani di reperti ormai resi intangibili e invisibili, dissolti dal movimento incessante degli agitatori molecolari. Corpi cremati per un moto di pietas… e che non possono più raccontare. Il Dna… l’ultima e più arzigogolata illusione di scovare il colpevole semplicemente usando una macchina di sequenziamento. Il copione ha il sapore di una sceneggiata, un melologo di fiati e parlato, l’emozione tradotta in spartito musicale, dove il melodramma non ha niente da invidiare alla tragedia. Un melò romanzesco da cinema comico, con colpi di scena inverosimili per uno spettatore assuefatto alle dinamiche parossistiche ed elementari, alle retoriche ripetitive e rassicuranti del giallo mediatico e del cold case da biologia molecolare alla Jurassick park. Un’utenza televisiva che predilige lo sceneggiato seriale con formule stereotipate, cartoon, fumetti e novelle da Grand’hotel, modelli diegetici rudimentali, capziosi e commoventi. Nemmeno Kafka sarebbe riuscito a immaginare nel suo Processo l’assurdo di una macchina narrativa tanto banale e così incisivamente mediologica per un lettore avvinto da trame noir dal sapore improbabile, costruite con cliché e déjà vu. Pochi spettatori avvertono che dietro allo spettacolo luminescente e alla consueta dissertazione di opinionisti da salotto c’è soltanto un modello espressivo improbabile e inconsistente, solo la formula che funziona con il consueto stereotipo e con gli usuali modelli ricorsivi. Informazioni secondo il solito schema narrativo fatto di indizi che inchiodano e che riguardati da retro non possono che risultare comici e grotteschi nella loro seriosa inconsistenza con cronisti che ce la suonano e ce la cantano come trattasi del Verbo biblico. Tutta la vicenda del povero Bossetti sembra cavata fuori da una inconsapevole vena umoristica, da un estro fantasioso tanto irresistibile per uno humor del tutto ignaro di sé. Proprio su questo stereotipo si può comprendere come funziona la giustizia del Bel Paese. Tra il tragico e il comico c’è solo uno iato che trasforma anche il dramma più cupo in uno slapstick con quella vena narrativa elementare nella quale il linguaggio è più ancora della pantomima alla Buster Keaton e alla Charlie Chaplin, è arlecchinata come nella commedia dell’arte, lo sbatacchiare con quell'effetto alla Ridolini fatto di gag e teatrini. Sono proprio quelli delle torte in faccia. È il contrasto che genera il comico della giustizia nel nostro paese da sempre ancorata alla tradizione aulica nella quale figura la toga, l’arringa, il pubblico ministero, i giudici popolari… e naturalmente, lupus in fabula, la prova scientifica con tutta l’autorevolezza che il sistema giudiziario le affida senza mai un barlume di riflessione, di precauzione e di cum grano salis, senza conoscerne limiti e imperfezioni, idiosincrasie e incongruenze... Una epistemologia da alambicchi e automatismi da software biostatistico senza neppure il barlume di una presa di distanza e di una riflessione veramente epistemica, frutto di consapevolezza dei limiti dell’inferenza induttiva e di scenari dove molte variabili sono del tutto sconosciute e dove il laboratorio interviene soltanto quando il mondo è già fatto… quando la scena del crimine ha subito tutte le contaminazioni possibili e immaginabili. Perfino quando il reperto non è che un dato variamente interpretabile, nient’altro che un elemento utile all’indagine e non la pistola fumante che si suppone metaforicamente come arma del delitto, non esiste nessun ragionevole dubbio, nessun sospetto che si possa trattare solo di un qui pro quo in mancanza di fatti tangibili e non semplicemente di illazioni e circonvoluzioni elicoidali. Anche Fedro ed Esopo sono lì nell’aula di tribunale con quella proverbiale morale edificante che il cronista raccoglie con la scorciatoia della retorica e il presunto sano buon senso di luoghi comuni e di consueti pregiudizi, ribaditi alla nausea come se non fossero soltanto parole in libertà. È un futurismo alla Palazzeschi, una fontana malata che riproduce pedissequamente il suo cliché monocorde e ripetitivo, così come è solito il sistema mediatico con le assonanze onomatopeiche, la parodia di una informazione leziosa e accattivante per un pubblico abituato alle scorciatoie di giudizio e alle semplificazioni più elementari. Il caso Bossetti è davvero emblematico di come funziona la giustizia nel nostro paese, più ancora della colonna infame di manzoniana memoria, più ancora del caso Tortora, perché la vicenda del muratore di Mapello è un formidabile condensato di idiosincrasie, procedure, sillogismi, forme mentis, modelli… di una italica Giustizia che replica da tempo immemorabile un copione fatto di sillogismi dove si usa una logica sui generis e si fa dell’interpretazione un grimaldello utile per qualsiasi inferenza, un reticolo di deduzioni dove tutto comunica con tutto, dove si possono costruire castelli, equivoci, proverbiali nonsensi, metafore da commedia dell’assurdo e… immagini frattali alla Mandelbrot. Proprio come con Stanlio e Ollio dove un piccolo incidente si può trasformare in una battaglia esilarante, nel sistema indiziario da un piccolo dettaglio si può costruire un formidabile teorema di inaudita complessità imbastendo nessi, riferimenti e collegamenti in una bibliografia dell’immaginario che assume consistenza di realtà e concretezza di mondi virtuali. Tutto trova consonanza e diviene intellegibile alla luce di qualsivoglia fatto, anche quello dall'apparenza più insignificante e imponderabile. È come un acceleratore di particelle che genera una catena di collisioni, i classici indizi gravi e concordanti, per le quali si concatenano nessi, legami e rapporti che quasi dal niente produce un fiume di nuovi elementi in un profluvio teorematico incontinente e fecondo… Come uno slow burn, una battaglia del secolo dove tutti gli elementi entrano in scena con effetti speciali generati da una macchina interpretativa che non conosce né stanchezza e né pause di riflessione. Dalle bazzecole e dalle pinzillacchere si costruisce un mondo di riscontri e da questi ad effetto cascata tutto si trasforma magicamente in una sorta di teorema di inaudita suggestione e bellezza. L’assassino è tornato 195 volte in quel di Chignolo. La notizia è sbandierata come se quella fosse la prova del nove, il comportamento di qualsiasi assassino che si tradisce tornando sul luogo del delitto a iosa (e non semplicemente per il fatto che lavorava in zona). Ritorno del rimosso e desiderio di espiazione? E sui leggings fibre dei sedili del furgone di Bossetti… o compatibili anche con milioni di altri sedili di veicoli? Peccato che c’è di mezzo il delitto di una povera ragazzina, perché il copione è davvero avvincente. Ce n’è abbastanza per la radiografia di un Bel Paese del tutto ignaro di sé, ma seriosamente convinto dei suoi intendimenti e delle sue inclinazioni... e per questo tanto più comicamente esilarante.
LA DRAMMATICA VERITÀ. Yara, nessuno (tranne mamma e papà) l'ha cercata nelle ore successive alla scomparsa, scrive “Libero Quotidiano”. «Oggi possiamo dirlo: nessuno ha cercato Yara. Questo è emerso dal processo. Eppure, secondo i medici legali, almeno fino a mezzanotte la ragazza era ancora viva". Lo afferma, al settimanale "Oggi", il consulente Giuseppe Dezzani, coinvolto nelle indagini sulla scomparsa (e poi morte) della tredicenne di Brembate il 26 novembre 2010. Il giornale, partendo dalle dichiarazioni rese in queste settimane al processo a carico di Massimo Bossetti, ricostruisce le ultime ore di vita della ragazza e le fasi successive alla sua scomparsa. Risulta, da quelle dichiarazioni, che Yara viene vista per l'ultima volta alle 18.42 di quel 26 novembre e alle 18.49 riceve l'ultimo sms dall'amica Martina. Alle 18.55, secondo Vodafone, il suo cellulare si spegne. Ma alle 19.11 la mamma di Yara, non vedendola tornare, prova a chiamarla e il telefonino della ragazza manda tre squilli prima di zittirsi per sempre. Alle 20.30 Fulvio, il padre di Yara, va dai carabinieri di Ponte San Pietro a dire che la figlia dopo la palestra non è rientrata a casa. Il brigadiere si rivolge al Nucleo investigativo per la segnalazione, ma dice al signor Gambirasio di ripassare la mattina successiva per la denuncia. Di conseguenza, il pm che era di turno la sera del 26 novembre, Giancarlo Mancusi, non apre alcun fascicolo in merito alla sparizione di Yara. Lo fa, la mattina successiva, la collega Letizia Ruggeri. Sempre la sera del 26 non risulta poi che nessuno abbia chiamato gli ospedali della zona o il 118 sospettando che Yara avesse avuto un incidente o un malore. Quella sera non c’è una sola chiamata ai Vigili urbani di Brembate o di Ponte San Pietro e neanche in questura a Bergamo. L’unica che continua a cercarla è mamma Maura che prima telefona alle maestre e alle compagne della figlia, poi esce facendo via Rampinelli e in via Morlotti, le strade che Yara percorreva per tornare a casa. "Ma in palestra non c’era più nessuno" ha detto in aula Maura Panarese, "così ho chiamato mio marito per avvertirlo". Anche Fulvio Gambirasio fa un giro per le strade di Brembate ma poi rientra a casa e aspetta il mattino dopo per tornare dai Carabinieri a confermare: "Mia figlia è scomparsa". Solo allora viene compilata la denuncia di scomparsa e iniziano confusamente le operazioni di ricerca. Ma i cani molecolari arriveranno a Brembate solo al lunedì, due giorni dopo, quando tragico destino di Yara si è già compiuto.
Il giallo del “video tarocco” di Bossetti che fa arrabbiare i giornalisti, scrive il 02/11/2015 Stefania Carboni su Libero racconta l'ammissione del comandante del Ris di Parma che ha parla di un video dato in pasto per i media. I Cronisti Lombardi si infuriano e scrivono al procuratore: «Usati in maniera strumentale». Un filmato costruito e dato in pasto ai media per «esigenze di comunicazione». Si tratterebbe del video confezionato dai Ris e che mostrerebbe Massimo Bossetti aggirarsi con il furgone nei dintorni della palestra di Yara Gambirasio. Immagini che non risultano nel fascicolo processuale anche perché – secondo gli investigatori – sono state ritenute inservibili. Inservibili perché non avrebbero immortalato del tutto il mezzo di Bossetti. Alle ore 18:00:56 del 26.11.2010 (Telecamera SHELL) si nota il furgone che transita sulla via Locatelli, direzione Ponte San Pietro (BG). L’immagine è tratta dall’informativa finale della procura di Bergamo sull’inchiesta per l’omicidio di Yara Gambirasio. Milano, 27 febbraio 2015. Procediamo passo per passo in una vicenda che sta sollevando una certa polemica tra cronisti e procura. Durante l’udienza l’avvocato Claudio Salvagni ha discusso con il comandante del Ris di Parma Giampiero Lago. La vicenda è stata ripresa da Luca Telese sulle colonne di Libero: Colonnello Lago, abbiamo visto questo video proiettato migliaia di volte. Perché se adesso lei ci dice che solo uno di questi furgoni è stato effettivamente identificato come quello di Bossetti? Perché dice questo, avvocato? Perché, colonnello, sommare un fotogramma con il furgone di Bossetti con un altro fotogramma di un altro furgone è come sommare pere e banane! Questo video è stato concordato con la procura a fronte di pressanti e numerose richieste di chiarimenti della circostanza che era emersa. Cosa vuol dire colonnello? È stato fatto per esigenze di comunicazione. È stato dato alla stampa. Il filmato diffuso alla stampa mostrerebbe quindi il furgone incriminato (su cui sono state raccolte fonti di prova) mixato con altri furgoni a random. Immagini che sarebbero state confezionate – secondo quanto sostiene Lago – per i media. Torniamo indietro nel tempo, anche per capire come sia stata diffusa in quei mesi la “notizia”. Una clip dell’agenzia Askanews spiega come hanno lavorato i Ris di Parma: Grazie alla rete capillare dei militari del Ros, sono stati attuati controlli in parallelo e i circa 2.000 Iveco Daily individuati sono stati fotografati uno ad uno e via via esclusi poichè palesemente incompatibili con il modello di riferimento. “Solo 5 di questi avevano caratteristiche tali da poterli in qualche modo confondere col veicolo immortalato dalle telecamere”. Il problema è che ora diversi cronisti si sentono presi in giro. Dopo la delusione nel non poter riprendere in aula il processo (scelta fatta per evitare spettacolarizzazioni) ora si trovano con l’aver diffuso una possibile fonte di prova che si è rivelata “fasulla”. Spunta in queste ore una lettera aperta rivolta al procuratore capo di Bergamo. La firma, Cesare Giuzzi, del gruppo Cronisti lombardi: Abbiamo avuto modo di ascoltare la testimonianza in aula del comandante del Ris di Parma e abbiamo appreso (sempre grazie ai cronisti che seguono le udienze del processo) che un filmato consegnato dagli inquirenti agli organi di informazione non solo non risultava agli atti del processo ma che era stato confezionato ad arte solo per “esigenze di comunicazione” (parole del comandante Lago). In quel filmato – con il logo dei carabinieri – si vede un furgone simile a quello dell’imputato transitare diverse volte nei dintorni del luogo della scomparsa della vittima. In alcune riprese, per la verità, si vedono soltanto dei fari ma secondo gli inquirenti si trattava del mezzo dell’imputato. Scopriamo soltanto grazie alla testimonianza del comandante Lago che in realtà quelle riprese erano state in buona parte scartate dagli stessi investigatori perché inservibili. Tanto che l’analisi dei Ris disposta dall’accusa si è concentrata solo su due riprese, le migliori, realizzate da una sola telecamera (quella della ditta Polynt). Non entriamo nel merito del processo, delle accuse, della colpevolezza e dell’innocenza dell’imputato, che è compito solo dei giudici e della giustizia. «A noi continua a risultare curioso – precisa Giuzzi – che in questo Paese due istituzioni (la procura e l’arma dei carabinieri) considerino i giornalisti uno strumento per fare “pressione” a favore della propria tesi, propinando falsi all’opinione pubblica che non hanno alcun valore processuale, utilizzando la stampa in maniera strumentale. E ci permettiamo, vergognosa».
Bossetti, il carabiniere ammette: taroccato il video del furgone, scrive “Luca Telese su “Libero Quotidiano” l'1 novembre 2015. L’avvocato e il supercarabiniere, Claudio Salvagni e Giampiero Lago: un duello spettacolare. Nella giornata più importante del processo (fino ad oggi), Salvagni e Lago stanno discutendo di una prova decisiva: un filmato visto in tutte le televisioni, in tutti i programmi, in tutti i notiziari, quello in cui i carabinieri hanno montato i fotogrammi ripresi dalle telecamere di sorveglianza, in cui a detta degli inquirenti (fino ad oggi) appariva il furgone di Massimo Bossetti che gira freneticamente intorno alla palestra di Brembate la sera in cui è scomparsa Yara. Si è detto tante volte, lo hanno spiegato gli inquirenti: «È il predatore che si mette in caccia della sua preda». È una immagine che ha colpito molto, chiunque, anche me. Una di quelle che ronzano nella testa di chi è convinto che Bossetti sia un mostro che andava in cerca delle bambine, come i pedofili dei film. È il filmato che ha fatto litigare in carcere Marita e Massimo: «Tu quella sera erì li! Ti ho visto con il furgone! Che cosa facevi?». Anche lei aveva visto il filmino dei Ris e lo aveva creduto vero. Ieri ho scoperto dalla bocca del supercarabiniere più importante d’Italia due cose stupefacenti. La prima: che quel documento è stato confenzionato dai Ris e diffuso ai media, ma che incredibilmente non compare nel fascicolo processuale. E subito dopo ho scoperto un secondo elemento che non so come definire altrimenti: questo filmato, immaginifico e decisivo, è un falso. Un filmino tarocco.
Tenete a mente questo botta e risposta, poi ci torniamo:
- «Colonnello Lago, abbiamo visto questo video proiettato migliaia di volte. Perché se adesso lei ci dice che solo uno di questi furgoni è stato effettivamente identificato come quello di Bossetti?».
- «Perché dice questo, avvocato?».
- «Perché, colonnello, sommare un fotogramma con il furgone di Bossetti con un altro fotogramma di un altro furgone è come sommare pere e banane!».
- «Questo video è stato concordato con la procura a fronte di pressanti e numerose richieste di chiarimenti della circostanza che era emersa».
- «Cosa vuol dire colonnello?»
- «È stato fatto per esigenze di comunicazione. È stato dato alla stampa».
La risposta di Lago mi lascia di stucco. Pensateci per un attimo. Giampietro Lago, il superpoliziotto, il comandante del Ris, l’uomo che dopo Luciano Garofalo è diventato il numero uno di tutte le indagini scientifiche coordinate dai carabinieri in Italia, sta dicendo che una delle immagini più suggestive di questo processo è stata assemblata dai suoi uffici non per dimostrare una tesi, o per documentare una verità, ma per condizionare i media con elementi di cui già si conosceva la non autenticità. Incredibile. Guardo Lago sul banco dei testimoni, con la sua montatura leggera, il vestito scuro, la cravatta, il tono cattedratico del carabiniere che parla come se fosse un professore universitario. Lago viene ascoltato, e sta raccontando dell’inchiesta sul delitto Yara, nell’aula di Bergamo, da tre lunghi giorni: nove ore solo venerdì pomeriggio. Un tempo infinito, soporifero, incomprensibilmente dilatato. Assisto per tutta la mattinata di venerdì alla sua deposizione, e penso che quasi quasi mi sta convincendo. Non per efficacia persuasiva: per sfinimento. Quando alle ultime battute del terzo giorno gli avvocati delle parti civili gli fanno delle rispettose domande, l’aula mormora di panico perché teme altre risposte prolisse, autorevoli e vacue: tutti guardano l’orologio. Tuttavia, in questi tre lunghi giorni, Lago mi ha quasi convinto dei capisaldi della sua tesi:
1) che le fibre del sedile del furgone di Bossetti sono inequivocabilmente sui vestiti di Yara;
2) che il Dna è quello del muratore di Mapello;
3) che sugli stessi panni ci sono delle minuscole sferette di metallo che quasi sicuramente provengono dal furgone di Bossetti.
Poi improvvisamente la fiammata arriva il controinterrogatorio e, in un solo pomeriggio, il lavoro persuasivo di tre giorni crolla come un castello di carte, proprio per via di questo bombardamento di Salvagni. L’avvocato comincia chiedendo pazientemente come sia identificato il furgone di Bossetti. Poi chiede in quali fotogrammi Lago sia inequivocabilmente certo che il furgone sia quello. Ed è a questo punto che il colonnello commette il suo vero passo falso, ammettendo che nella maggior parte dei fotogrammi non c’è nessuna certezza che sia il suo. Il resto è una scena così veloce che la maggior parte delle persone, nel pubblico, non si rende conto di cosa stia accadendo. Salvagni fa collegare lo spinotto del computer al monitor dell’aula e trasmette quel video. Lago inizia a discuterne. E fa quelle incredibili ammissioni. A questo punto, mentre gli avvocati stanno gridando mentre le voci degli avvocati Salvagni, Camporini e del colonnello si sovrappongono si alza il pubblico ministero Letizia Ruggeri: «Presidente, questo video non è nella relazione che abbiamo consegnato! Presidente!!!». E Camporini, girandosi di lato: «E allora?». La Ruggeri, arrabbiata: «Non è nel fascicolo, non lo potete mostrare in questa aula». Risposta: «Lo avete fatto voi! È un vostro documento». La Ruggeri: «Non è nel fascicolo!». Putiferio. Camporini: «Chiedo che sia messo a disposizione della Corte l’intero materiale acquisito con le telecamere di videosorveglianza!». A questo punto interviene la presidente Bertoja che, in qualche modo, accetta le obiezioni del Pm: «Se non è nella relazione del Ris non ci interessa minimamente». Adesso: se dal punto di vista processuale questo può avere un senso, questo significa solo che bisognerebbe acquisire subito agli atti quel video. Ripenso infatti alle parole di Lago: «Il video è stato concordato con la procura a fronte delle numerose richieste di chiarimento». Tradotto in parole povere: siccome bisognava convincere la stampa della colpevolezza di Bossetti, «per fini di comunicazione» i Ris hanno «confezionato» quel video. Il Reparto fiction che serve a smussare i dubbi dei giornalisti? Sono sempre più perplesso, quando il controinterrogatorio arriva alle famose sferette. Lago, la mattina, con i suoi tempi, quando nessuno gli faceva domande, ci aveva spiegato questo: c’erano tante microparticelle ferrose, presenti sui vesti di Yara «centinaia» al momento dei ritrovamento del corpo, secondo lui provenivano dal furgone di Bossetti. Per farlo è partito alla sua maniera spiegando cos’è un microscopio elettronico, come funziona, le unità di misura… Ci ha spiegato che «le sferette», «hanno forme ben precise», che sono «tipiche delle attività antropioche che hanno a che fare con il ferro». Che «sui sedili del furgone di Bossetti di queste sferette ce ne sono migliaia». E poi ha aggiunto un dettaglio che dovrebbe conferire un crisma di indubitabile scientificità all’inchiesta: per capire se Yara poteva avere o meno sul suo corpo queste benedette sferette di metallo, i Ris sono andati a prendere addirittura quattro studenti di terza media di una scuola di Parma, che hanno più o meno la stessa età e la stessa vita che aveva Yara, li hanno testati con gli stessi strumenti, e hanno scoperto questo: su di loro solo due hanno addosso quattro sferette. Gli altri due ne hanno zero. Conclusione del professor-colonnello Lago: «La cosa più probabile è che queste centinaia di sferette sui vestiti di Yara arrivino dalle migliaia di sferette sui sedili di Bossetti». Chiaro, no? E invece, poi, in un pugno di minuti, ancora una volta il controinterrogatorio di Salvagni ha effetti devastanti sulle certezze dei Ris. «Colonnello, i quattro ragazzi che avete esaminato sono stati scelti con criteri statistici?». Lago fiuta la trappola: «Io non ho mai parlato di criteri statistici». Ma questo è un dato che lei ritiene statisticamente significativo?». E il colonnello: «No, non è significativo statisticamente». Salvagni: «Ma voi avete fatto questo stesso esame delle sferette sugli abiti della sorella di Yara, su quelli dei genitori?». Risposta: «No, non lo abbiamo fatto». Salvagni: «I ragazzi esaminati venivano dal vostro territorio?». Lago: «Dal parmigiano, sì». L’avvocasto di Bossetti, osa, e fa centro: «Appartenenti all’arma?». Lago: «Sì, parenti di appartenenti all’arma». Salvagni: «Avete verificato se ci sono acciaierie sul territorio?». La presidente si spazientisce: «Sarebbe stata una perdita di tempo!». E invece quello che capisco da questo controinterrogatorio è clamoroso, e si ripeterà pari pari anche sulle famose fibre dei furgoni. I Ris non hanno cercato dei ragazzi che frequentavano ambienti simili, ma sono andati, per comodità, a prendere qualcuno vicini alla loro sede: ma è ovvio che a Carrara i ragazzi avranno più probabilità di avere addosso polvere di marmo, così come è chiaro che a Dalmine potrebbe essere più facile avere residui ferrosi. Domanda chiave dell’avvocato: «Avevate a disposizione la macchina della famiglia Gambirasio, avete fatto un test su quei sedili?». Risposta di Lago: «No». Altra domanda: «Avete preso in considerazione dei muratori?». Risposta laconica: «No». Ancora l’avvocato: «Avete esaminato il furgone della palestra?». Risposta del supercarabiniere: «No: è stata fatta un’altra scelta investigativa. Stavamo seguendo la ragazza». Salvagni: «Ma dopo avete controllato?». Risposta: «No. Sarebbe stato interessante, dal punto di vista investigativo. Ma dal punto di vista delle risorse…». Mi chiedo: ma se si tratta di ferro, l’assassino non potrebbe essere un fabbro, o un tornitore? Chiudo il taccuino e penso: in una inchiesta costata un paio di milioni di euro in cui si è risaliti al Dna di Batta Guerinoni nell’anno di grazia millessettecento, il supercarabiniere è andato ad esaminare dei ragazzi a Parma, ma nessuno ha avuto l’idea geniale di fare l’esame sulle fibre e sulle sferette delle macchine che Yara frequentava tutti i giorni. E nessuno ha pensato di esaminare l’unico furgone che è stato sicuramente avvistato da testimoni a Brembate, la sera della scomparsa. Forse non sarebbe emerso nulla. Chissà. Ma me ne vado da Bergamo pensando ai tre lunghi giorni di deposizione di Lago, e al video tarocco: essere noioso, quasi mai significa essere autorevole. Ma in questo caso significa sicuramente non esserlo. Luca Telese
Dai lettore, prova a metterti nei panni del mostro. Massimo Bossetti non è soltanto accusato di essere l'assassino di Yara. Contro di lui si muove uno tsunami distruttivo, massacrante, implacabile. Domandina: e se poi, invece, fosse innocente? Scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Caro lettore, stavolta ti propongo un gioco: ma fa' attenzione, perché è un brutto gioco. Facciamo finta che due anni fa un bruto, un maniaco sessuale, abbia ucciso una povera ragazzina a una decina di chilometri da casa tua. E facciamo finta che una mattina arrivi da te la polizia, che ti ammanetta e ti accusa di quell'orribile delitto. Dai magistrati inquirenti, che t'interrogano, scopri che sul cadavere della poveretta è stato trovato materiale organico che i periti sostengono sia compatibile con il tuo Dna. Tu non sai proprio spiegartene il motivo, perché sai perfettamente che sei innocente e in realtà non hai mai nemmeno visto la ragazzina. Ma gli inquirenti non vogliono sentire ragione: il colpevole sei sicuramente tu. Così finisci in prigione. I giornali, contemporaneamente, vengono inondati di carte dell'accusa. Il tuo nome esplode su tutti i mass media, la tua vita viene passata al setaccio. Il tuo avvocato è in difficoltà: non riesce a fare passare nemmeno il minimo dubbio. Poi gli inquirenti ti dicono che sono arrivati a te per vie d'indagine complicatissime. E ti spiegano che grazie a quelle indagini hanno scoperto, anche, che tuo padre non è quello che tu hai avuto accanto per decenni, perché in realtà tua madre ti ha concepito con un altro. Aggiungono che tutto questo è provato con certezza dallo stesso Dna. A questa rivelazione, ovvio, resti senza fiato. Sui giornali che ti arrivano in cella leggi che tua madre nega disperatamente, giura che sei figlio di tuo padre, quello che hai sempre creduto che lo fosse. Ma chissà se dice la verità... La vita, che già ti è stata sconvolta dall'arresto e dalle terribili accuse che ti vengono rivolte, ti viene così letteralmente sradicata dall'anima: anche per via sentimentale. Intanto passi i giorni in cella, dove ti disperi leggendo i giornali che parlano del caso e cercando di sfuggire alle violenze degli altri reclusi, tradizionalmente molto ostili a chi viene accusato di aver fatto del male a donne e a bambini. Pensi e ripensi alla tua vita distrutta, ai tuoi figli che inevitabilmente in paese vengono additati come «figli del mostro», a quella poveretta di tua moglie che inutilmente grida alla tua innocenza. I giorni trascorrono, diventano settimane e mesi. Non sai che fare. Dentro sei come morto. Ti aggrappi ai tuoi poveri affetti, in questo momento fragili come e più di te. Pensi solo a tua moglie e ai tuoi figli: sono l'unica cosa che ti resta. Poi una mattina ti svegli, sempre in cella e sempre terrorizzato, e sul primo quotidiano italiano leggi un titolo che ti tramortisce. Perché rivela che due uomini sono stati appena ascoltati dai pm e hanno raccontato loro di essere stati entrambi amanti di tua moglie (che hai sposato nel 1999): uno nel 2009 e uno anche più di recente. Ti domandi se sia vero. Come sia possibile. Ti interroghi anche sul perché gli inquirenti abbiano deciso di ascoltare i due uomini, che cosa c'entrino le loro relazioni con l'accusa che ti viene rivolta. L'articolo ti spiega che i pm vogliono indagare nella tua vita sessuale, per capire se tutto era «normale». La tua disperazione a questo punto è totale: non hai più nulla cui aggrapparti. Che ti resta, al mondo? Pensi alla tua vita, annichilita, e forse vuoi soltanto morire. Ecco, caro lettore. Io non so se Massimo Bossetti sia colpevole o innocente dell'orribile delitto di cui è accusato da oltre due mesi. Ti domando, però, di porre mente a un'ipotesi: e se non fosse colpevole? A quest'uomo la giustizia italiana ha distrutto tutto: vita, famiglia, affetti. Gli è accaduto tutto quello che hai appena finito di leggere, e anche molto di più. È stata una devastazione implacabile, assoluta, senza scampo alcuno. Certo: è possibile che Bossetti sia colpevole. E tu allora mi dirai, in un impeto di violenza: si merita tutto quel che sta soffrendo. Ma che cosa accadrà se invece, in un regolare processo condotto stavolta non sui giornali ma in un'aula di tribunale, davanti a una corte puntigliosa e con tutti i crismi di legge, si dovesse appurare che Bossetti è innocente, magari perché l'analisi del Dna condotta sul corpo della povera Yara è stata sbagliata? In questi casi ho sempre pensato che sia pratica onesta provare a mettersi nei panni dell'accusato, ovviamente ipotizzandosi innocenti. Io l'ho fatto, e confesso la mia debolezza: non so se saprei sopravvivere allo tsunami, alla gogna mediatica e al disastro esistenziale che mi è stato gettato addosso. Proverei forse a impiccarmi in cella. Però l'idea mi sconvolge e mi disgusta profondamente. Perché non è questo il finale giusto, nemmeno nella peggiore vicenda giudiziaria; non può e non deve esserlo: equivale a dichiarare che la giustizia non esiste. È una soluzione abietta, vergognosa, indecente, indegna di uno Stato di diritto.
Prova a fare altrettanto. Non ci vuole molto, soltanto un po' di fantasia. Mettersi nei panni dell'accusato è sempre un esercizio utile: solletica sensibilità intorpidite dalla voglia di sangue. E magari fa pensare...
Processo a Massimo Bossetti. E' più tarocco il video commissionato dalla procura al Ris o sono più taroccari i media che del tarocco non parlano? Scrive Massimo Prati su “Volando Controvento”. La Difesa di Massimo Bossetti ha compiuto il miracolo che tanti altri avvocati, in tante altre aule giudiziarie italiane, quasi mai sono riusciti a compiere. Far capire ai giudici popolari che il materiale usato dalla procura in fase di indagine per portare dalla sua parte la pubblica opinione, quindi anche gli stessi giudici popolari, era fasullo. Gli avvocati sanno quanto sia difficile inserire in un dibattimento processuale ciò che l'accusa non vuole sia inserito. Perché è chi istruisce il processo che comanda e decide con quali atti accusare il proprio imputato. Chi istruisce un processo sa che il giudice non accetterà niente altro nella sua aula e che solo basandosi su quegli atti poi dovranno combattere accusa e difesa. Si sa anche che ad alcuni piace vincere facile, addirittura prima ancora di arrivare in tribunale, e che il caso Bossetti non è un unicum. Tante immagini, intercettazioni e indiscrezioni farlocche diffuse negli ultimi decenni da procure e istituzioni, sono rimaste in bella vista per mesi per poi sparire senza entrare nei vari tribunali. Non serviva il binocolo per vederle, bastava avere la mente sgombra dai pregiudizi, aprire gli occhi e non credere per partito preso solo a chi accusava e a chi sbraitava la propria opinione parlando sugli schermi di colpevolezza certa. Tante bufale si sono "donate" con scaltrezza ai "media dall'audience migliore", così da farne cubitali titoloni da usare come "prova provata" nei processi mediatici che giornalmente si ripetono sempre uguali sulle tivù, sui giornaletti copia-incolla e su certi settimanali con la "biava" alla bocca. Chi lavora gomito a gomito con le istituzione giudiziarie lo sa. E a meno di non considerarli dei poveri ingenui, lo sanno anche i giornalisti che diramano le indiscrezioni senza neppure controllarle. Ma per il momento i giornalisti lasciamoli alla loro ingenuità, ne riparleremo dopo, e concentriamoci su quanto accaduto venerdì nel tribunale di Bergamo dove da giorni parlava solo l'arma letale dell'accusa, il tenente colonnello Giampietro Lago che ad ogni domanda del pubblico ministero sprecava ore e ore in spiegazioni soporifere per lodare e rendere ancor più bello e professionale il lavoro svolto dal reparto scientifico che ancora comanda. Forse credeva anche che quanto dichiarava fosse sicuro e provato, come lo credevano i giurati che lo ascoltavano, e forse pensava di aver già chiuso il discorso quando si è trovato di fronte l'avvocato Claudio Salvagni. Forse in quel momento ha pure creduto che rispetto alla sua credibilità quella del difensore valesse zero e che se ne sarebbe sbarazzato facilmente usando altre lunghe disquisizioni. Questo fino a quando non si è parlato del furgone. "Colonnello, perché se Bossetti è passato sotto mille telecamere ha analizzato solo il filmato della ditta Polynt? Perché avendo il furgone a disposizione non lo avete fatto passare in quella strada, sotto quella stessa telecamera? Non era l'unico modo per fare misure giuste, analisi professionali e non alla pressappoco? Colonnello, avete appurato se il furgone ripreso da altre videocamere fosse quello di Bossetti?". Ed ecco che da una domandina facile facile è nata quell'escalation che di lì a poco avrebbe fatto alzare i toni e cambiare le certezze di chi il colonnello aveva convinto. Il dottor Lago, che navigava sulla sicurezza di aver fatto un bel lavoro accusatorio anche a processo, prende la domanda alla leggera e senza rendersene conto inizia a squarciare il velo. "Il furgone lo volevamo portare, ma la procura non ha voluto per ragioni di ordine pubblico. Per quanto attiene gli altri video, abbiamo analizzato solo quello della Polynt, in cui c'è un'alta compatibilità, perché le altre immagini non erano scientificamente analizzabili". Era questa la risposta che voleva l'avvocato Salvagni che, fingendo noncuranza, a quel punto ha mostrato al colonnello le immagini del filmato che tutti gli italiani conoscono a memoria, quello in cui si vede un furgone che transita in orari anche molto diversi sulle strade di Brembate di Sopra, quello che i media ci hanno propinato ad ogni ora facendocelo mangiare a colazione, a merenda, a pranzo, durante uno spuntino pomeridiano e anche a cena e a notte fonda. E' il furgone che per la procura è guidato a mò di pedofilo assatanato dall'orco famelico Bossetti che si aggira attorno alla palestra in attesa della sua vittima. Questo asserivano sorridenti anche i media. Invece non è così e ora sappiamo che quel filmato è una bufala colossale montata ad hoc con immagini non verificate perché, come ha affermato il colonnello, non erano analizzabili. "E' un video concordato con la procura a fronte delle numerose richieste di chiarimento", sono state le parole di Giampietro Lago in aula. In pratica, significa che il filmato concordato dal Ris con la procura contiene immagini prese da tutte le videocamere della zona, che solo due di queste sono compatibili col furgone di Bossetti (quelle della Polynt), mentre tutte le altre, non analizzabili, sono state inserite in malafede per dare al popolo la certezza che il furgone fosse proprio quello di Bossetti, così da validare mediaticamente la ricostruzione accusatoria e far credere che il carpentiere quella sera andasse a caccia di una preda...e scoppia il putiferio. "Mi oppongo! Mi oppongo! Presidente, questo video non è nella relazione che abbiamo consegnato! Presidente! Quel filmato non è agli atti e non si può mostrare a processo!". Parole di una arrabbiatissima dottoressa Ruggeri. "Quel filmato lo avete fatto voi, è un vostro documento e sopra c'è lo stemma del Ris". Parole della difesa. "Ma non è nel fascicolo e non lo potete mostrare in aula". Ancora la Ruggeri. "Se non è agli atti non ci interessa minimamente". Parole di un giudice che interpreta la legge per come va interpretata. "Chiedo che sia messo a disposizione della Corte l'intero materiale acquisito con le telecamere di videosorveglianza!". Parole dell'avvocato Camporini che batte sul ferro caldo. Un caos che lascerà strasichi e anticiperà la disfatta, perché poi il colonnello farà capire che tutte le certezze che aveva inculcato nei giurati in tre giorni di testimonianza non erano assolutamente da considerarsi certezze. Ammetterà di non aver analizzato né gli abiti dei familiari di Yara né quelli di chi frequenta Brembate (per capire quante sferette metalliche contenessero). Ammetterà che i professionisti del Ris di Parma preferirono analizzare gli abiti di quattro studenti della loro città, figli di colleghi dell'Arma, piuttosto che perdere due ore per andare a Brembate. Che preferirono analizzare le tute di operai della zona, tute di cui neppure si sa quanto fossero sporche o pulite. Ammetterà di aver fatto indossare un paio di leggings a un'appartenente dell'Arma. Di averla fatta sedere sul sedile del furgone di Bossetti per scoprire quante e quali fibre ci avrebbe lasciato sopra. Ma ammetterà anche di non aver scelto i leggings basandosi su quelli indossati da Yara, di averli presi a caso e di non sapere di quale materiale fossero. Ma la loro città non è Bergamasca e non tutti i leggings sono fatti con lo stesso tessuto... quindi i parametri sono completamente diversi e professionalità voleva che si facessero analisi che meritassero questo nome. Ma oltre a questo, il colonnello ha ammesso anche di non aver analizzato né i sedili dell'auto dei Gambirasio, pur se nella loro disponibilità, né quelli del pulmino della palestra che la sera del 26 novembre alcuni testimoni videro girare per Brembate Sopra, né quelli di qualsiasi altro mezzo. Non c'è che dire! Davvero un'indagine professionale e consona alla situazione venutasi a creare, prima con la cremazione di chi poteva dare risposte alla corte e poi con l'arresto di Massimo Bossetti. Consona ai tanti dinieghi pronunciati dalla procura di Bergamo e accettati dai giudici. Non ultimo l'opposizione alle riprese televisive in aula che impedisce di fissare la realtà delle testimonianze da mostrare alla pubblica opinione... tanto cara alle procure. Ma fortuna vuole che qualche giornalista serio ancora esista, e grazie a uno di questi ora sappiamo non solo che si è indagato e analizzato in maniera unilaterale, ma anche che la procura di Bergamo ha ordinato a una istituzione d'eccellenza, per questo dal popolo creduta quasi aliena e non formata da esseri umani fallibili e corruttibili (come tanti nostrani politici e manager), di creare un filmato con materiale che scientificamente non poteva dare alcuna risposta. Questo per influenzare le menti degli italiani e far loro pensare che le indagini fossero buone indagini, che il Dna fosse sicuramente di Massimo Bossetti e che le analisi del Ris fossero professionali e scrupolose. Si voleva creare, e si è creata, una sorta di prova del nove che confermasse alla popolazione la ricostruzione accusatoria. Prova del nove che essendo farlocca doveva restare all'interno del circuito mediatico e non entrare in un'aula di giustizia. Questo è quanto è stato e c'è poco da ridire, bisognerebbe solo indignarsi e strillare sui giornali che la giustizia italiana è allo sbando e usa i media per condannare in anteprima gli imputati scelti fra il popolo. Invece la maggioranza dei giornalisti tacciono. Solo quelli da sempre bravi intervengono. Perché? A fronte di questo silenzio fa specie e infastidisce che un gruppo di cronisti lombardi, che per lavoro fanno cronaca e frequentano procure e tribunali, che sanno di essere gli strumenti delle istituzioni (e nella loro pagina facebook lo ammettono anche) diramino un comunicato come se in questi anni non si fossero accorti di nulla. Ricordo a tutti che è lo stesso gruppo di cronisti che ha difeso l'indifendibile "el director Biavardi", di cui certo conoscono il settimanale e le notizie pregiudizievoli che assieme ad altri sparge ai quattro venti, quando Claudio Salvagni usando una metafora scrisse una parola scomoda. Un gruppo frequentato anche da moltissimi giornalisti seri che però, se davvero scrive in buonafede i suoi comunicati, si mostra di una ingenuità preoccupante. Un gruppo che vuol far credere di non avere colpe e mette le mani avanti additando la sola procura ma scordandosi di quei suoi affiliati che pur di fare uno scoop pubblicherebbero di tutto... subito e senza controllare nulla. Un gruppo che pur parlando bene, perché scrivere: Vede egregio procuratore, forse avete immaginato che la stampa sia un gregge ammaestrato, e purtroppo qualche volta ve ne abbiamo dato ragione. Ma a noi continua a risultare curioso che in questo Paese due istituzioni (la procura e l’arma dei carabinieri) considerino i giornalisti uno strumento per fare “pressione” a favore della propria tesi, propinando falsi all'opinione pubblica che non hanno alcun valore processuale, utilizzando la stampa in maniera strumentale. E ci permettiamo, vergognosa. Significa parlare bene, chiede conto dei fatti accaduti in un comunicato che come un fantasmino appare e poi scompare. Un gruppo che anche della sparizione del comunicato incolpa altri. Gli ipotetici commentatori che si scannavano fra loro e che li hanno costretti a rimuoverlo. Quindi non c'è stata nessuna pressione da parte di nessuno? Ne siamo certi? Beata l'ingenuità che si mostra pura in chi crede alle loro scuse e non sa che basterebbe poco per risolvere il "problema commenti" senza eliminare il comunicato. E per capire un qualcosina di più, basta verificare quanti dei quotidiani per cui lavorano i cronisti lombardi hanno riportato la notizia del video taroccato. Il Giorno riassume l'udienza alla buona ed evita di toccare l'argomento tarocco (quanti cronisti del Il Giorno sono iscritti al gruppo?), il Corriere della Sera, giornale per cui lavora addirittura il presidente del gruppo, fa ancora peggio perché non solo non parla del video, ma dedica l'articolo al Dna e incensa il colonnello Giampietro Lago. No signori miei, un gruppo di cronisti che si dichiara disponibile a migliorare deve prima di tutto guardarsi all'interno, fare autocritica e allontanare le pecore nere senza farsi condizionare dalla linea editoriale. Fare un comunicato per liberarsi del fardello d'essere stati l'arma della procura è facile, ma poi si deve avere il coraggio delle proprie azioni e perseverare... non calare le braghe. Perché nessun cronista lombardo questa sera ha pubblicato un comunicato per criticare uno dei fac totum che tifa per la procura? Parlo del fraticello che scrive sul panorama, quel pio ometto che sceglie a caso le sue vittime e solo se viene croce accetta di difendere l'imputato, di dichiarare urlando che è l'accusa a dover dimostrare la colpevolezza e non il contrario. Peccato che se dalla moneta vede spuntare una testa, per lui non sarà più l'accusa a dover provare il delitto ma la difesa a doversi discolpare con prove valide. Beata ipocrisia! Ma che volete farci, è fatto così e per questo in un articolo ci ha spiegato che Luca Telese non ha capito nulla di nulla, povero giornalista che travisa, anche se Telese era in aula col suo taccuino e lui da tutt'altra parte. Per questo ci ha spiegato che i cattivi sono gli avvocati difensori che volevano far polvere e polvere han fatto, non chi ha commissionato un filmato per influenzare la pubblica opinione. E' vero, scrive, che il filmato per come mostrato per mesi al popolo non esiste, ma non è un tarocco perché le immagini inserite dal Ris esistono, dato che le videocamere effettivamente hanno filmato un furgone passare avanti e indietro per le vie del paese (di chi sia non si sa perché sono filmati non analizzabili, ma forse anche per lui tutti i furgoni che circolano per Brembate sono di Bossetti). E su quelle immagini, che non possono dire nulla di scientifico come ammesso dal colonnello Lago, si discuterà a processo. In pratica, visto che le immagini esistono, il fraticello ci vuol far credere che il video passato ai giornalisti per influenzare l'opinione pubblica non è un tarocco ma un originale. Che in fondo basterebbe dare una tirata d'orecchie a chi l'ha commissionato e realizzato, magari criticare il sistema per qualche giorno e poi andare avanti perché la colpa di quanto accaduto è tutta della difesa che non si arrende all'evidenza e lotta con l'accusa usando le sue stesse armi. Insomma, per come ce l'ha esposta il fraticello, è vero che agli atti non c'è il video montato e consegnato ai media per scopi che esulano dalla vera giustizia e oscurano la professionalità di persone ai vertici delle istituzioni. Però ci sono tutti i frame delle videocamere di Brembate Sopra. Da questi non si capisce una mazza e il Ris stesso dichiara che non sono utilizzabili per analisi scientifiche, ma per ognuno c'è una relazione scritta da poliziotti della giudiziaria che andranno a processo a testimoniare. Cosa testimonieranno? Non certo che si vede il furgone di Bossetti. Forse per non dichiarare il falso a domanda diretta della difesa potranno al massimo rispondere che quanto si intravede nell'oscurità non è un elefante con gli occhiali a specchio ma un qualcosa che somiglia a un furgone. Sempre sperando che, viste le tante favole raccontateci, nessun testimone ricordi improvvisamente di aver visto Massimo Bossetti girare nei dintorni della palestra seduto sul groppone di un elefante con gli occhiali a specchio...
Il processo Yara e quel video inventato: è giusto così. Nel processo per l’omicidio di Yara Gambirasio si scopre che il video del furgone di Bossetti è falso, creato ad hoc dalla polizia per tenere buoni i giornalisti. Perché è accaduta una cosa del genere? Perché non sappiamo aspettare, scrive Riccardo Meggiato su Wired” il 4 novembre 2015. In breve la notizia è questa: durante il processo per l’omicidio di Yara Gambirasio è saltato fuori che il video che mostra il furgone di Massimo Bossetti, l’imputato, in realtà non è certo che mostri proprio quel furgone. A dirlo è stato Giampietro Lago, comandante dei RIS, aggiungendo che quel video è stato confezionato e distribuito per esigenze di comunicazione. Insomma, per tenere buoni i giornalisti. Subito, è montata la rabbia e la protesta per quella che è, a tutti gli effetti, una mistificazione dei fatti, visto che quel furgone, e il continuo passaggio davanti alla palestra frequentata da Yara, era segno dell’ossessione del muratore per la piccola. Adesso passiamo, per un momento, a uno scenario inventato. L’avete mai vista una puntata di CSI, o di qualche telefilm investigativo? Gli esperti, chiusi nei laboratori giorno e notte per un caso da risolvere, sono raggiunti dal loro capo, che chiede preoccupato quanto tempo manca per avere i risultati delle perizie. Poco fa, un suo superiore ha fatto forti pressioni per chiudere le indagini, perché i media lo stanno massacrando. Cambio di scena: alcuni degli esperti decidono di prendere una pausa, dopo 48 ore filate, e, appena escono dal laboratori, sono assaliti da una folla impazzita di giornalisti. Bene, in una scena come quella appena descritta, mi troverei in ambo le posizioni. Faccio il giornalista, da tantissimi anni, anche se non mi occupo di cronaca (né lo farò mai: mi occupo di tecnologia). E, viste proprio le mie competenze tecnologiche, faccio anche il consulente tecnico per diverse procure, da molti anni. Questo solo per dire che conosco bene entrambe le professioni. Da una parte, so perfettamente quale sia la fame di verità di un buon giornalista. La verità è l’unica cosa che conta e la sua ricerca va perseguita con ogni mezzo. Coincidenza vuole, però, che la ricerca della verità sia anche lo scopo di quegli esperti, di quegli agenti, di quella procura. Tuttavia, in questo caso, la verità non si può perseguire con ogni mezzo. Ci sono paletti di tutti i tipi, tecnici (molti) e legali (moltissimi). E quindi tocca fare giri assurdi per risolvere questioni apparentemente semplici. E si perde tempo, e non si ha modo di dare notizie al pubblico per il semplice fatto che non ce ne sono. Quindi quello che dovrebbe essere un rapporto di collaborazione tra media e investigatori diventa una “caccia”. E a soccombere sono sempre i secondi, che devono cercare sì la verità, devono sì farlo con metodologie e burocrazie perigliose, ma devono anche difendersi dalla fame di verità dei media. E se nei telefilm vedete decine di giornalisti appollaiati fuori dal comando distrettuale, o fuori da un laboratorio, nella realtà quei giornalisti sono milioni. Perché oggi, discutere anche di un evento così tragico e delicato come l’omicidio di Yara Gambirasio, è argomento da caffè, o meglio da social network. Si discute, ci si confronta, si arriva a schierarsi in un tifo caloroso. Senza alcuna competenza e senza avere tutti gli elementi (perché non ce li hanno nemmeno gli inquirenti). Basandosi su cosa, allora? Su quello che i giornalisti danno loro in pasto. Questo genera un effetto devastante: montano la rabbia e l’indignazione, aumenta la richiesta di notizie, i media devono approfittare del momento (perché è il loro lavoro, perché “fa clic”, perché ognuno deve portare la pagnotta a casa) ed ecco che si rivolgono alla sorgente della notizia. Una procura, per esempio. All’inizio in modo blando (ma non succede mai), poi via via più pressante e sfiancante. E dall’altra parte abbiamo professionisti, spesso malpagati, che passano giorni e notti in laboratorio, alla scrivania, ai posti di blocco, nei furgoncini per le intercettazioni, e via dicendo; che non solo devono fare i conti con paletti e briglie endemiche di questo mestiere, ma pure con la pressione mediatica. È una sensazione terribile. Nemmeno immaginate cosa significhi essere davanti a un reperto da analizzare, sapere che in base ai tuoi dati si stabilirà la colpevolezza o l’innocenza di un uomo, fare i conti con gli avvocati di parte pronti a smontare a pezzetti il tuo lavoro, e in più avere un giudice che ti sta sul fiato sul collo. E non lo fa per qualche nobile causa. Lo fa perché i media lo stanno distruggendo, a volte inventandosi o rincarando certe notizie, e diventa difficile, quasi impossibile, rimanere impassibili. E perché lo fanno? Per la Rete. Per i discorsi su Facebook. Per le “tifoserie” che sempre, e dico sempre, si formano in casi come questi. Ve lo ricordate il caso Kercher e quelli “pro” o “contro” Amanda Knox e Raffaele Sollecito? Manco stessimo parlando di Rossi e Lorenzo, di Juventus e Inter. A questo punto, le scelte sono due. La prima è trincerarsi dietro il silenzio. Oggi, però, non è possibile. Perché hai addosso gli occhi di tutto il mondo, di gente che vede complotti ovunque, di persone per le quali la polizia è sempre e comunque cattiva. E allora si imbastiscono isterie di massa che portano al giro del massacro che vi ho spiegato poco fa. La seconda è dare ai media, e dunque al pubblico, quel che vuole: notizie. A volte sotto forma di “fuga d’informazioni” (davvero credete che esistano? Certo che esistono, ma sono molte meno di quelle che credete), altre sotto la dicitura “notizie che girano nell’ambiente ma non sono confermate”, altre con comunicati stampa ufficiali o conferenze pubbliche, che però possono essere fatte solo sulla base di dati oggettivi e fatti acclarati. Altrimenti, se si è precipitosi, ecco che il pubblico ti bastona. Oppure la notizia, o meglio il materiale per far creare la notizia ai media, si confeziona ad arte. Credo che in questo, specifico, caso, si tratti proprio di questo. E quello del dotor. Lago, che non è un chicchessia ma un professionista apprezzato e affermato, era un modo per dire “non avevamo scelta, dovevamo dare qualcosa in pasto ai media”. Sbagliato? Sicuro, eppure io sono d’accordo con questa decisione, in virtù di tutto quello che vi ho raccontato. Perché gli inquirenti hanno bisogno dei giusti tempi per lavorare a casi difficili come questi, e le chiacchiere da social non possono, in alcun modo, inficiare il loro lavoro. Eppure ci riescono, e un fatto come questo lo dimostra. Questo è ciò che è successo per l’eccessiva pressione mediatica di un caso con pochissimi precedenti a livello mondiale, specie sul versante scientifico. Il caso del video del furgone di Bossetti non deve essere preso come casus belli per dare addosso alla Giustizia e denunciare quanto è malata. Deve servire, invece, a capire quanto la stiamo facendo ammalare noi, trattando l’omicidio brutale, barbaro, schifoso, di una ragazzina alla stregua di una conversazione di calcio o politica. Alternando con nonchalance discorsi quali “ecco dove siamo andati a mangiare ieri sera” a “secondo me quel muratore è colpevole, guarda che faccia c’ha”. E non ci rendiamo conto che quella squisita pasta coi ricci ha un valore molto diverso da una possibile condanna all’ergastolo o dall’omicidio di una tredicenne, seviziata e lasciata morire in mezzo a un campo gelido, come un animale. Spero che queste dure parole siano sufficienti a tracciare la netta linea di demarcazione tra ciò che sarebbe giusto condividere, e ciò che sarebbe meglio lasciare a chi rinuncia alla vita privata e alle notti di sonno pur di arrivare alla verità. E poi magari sì, nel momento in cui si arriva a quella verità, discuterne, ma solo dopo aver lasciato che venisse cercata nel miglior modo possibile. Io credo che, se quel video ci ha così scandalizzato, dovremmo scandalizzarci noi stessi per quanto l’opinione pubblica riesca a fare più danni che bene. Per questo, io, dico che oggi sto con gli inquirenti, che nella loro leggerezza hanno nascosto un forte senso di attaccamento al loro lavoro. Il video, che nemmeno compare negli atti processuali e dunque non inficia in alcun modo il giudizio, serviva ad allentare la pressione, a lavorare meglio, a ripetere le analisi, a fare raffronti e interrogatori. Cesare Giuzzi, presidente del Gruppo Cronisti Lombardi, giustamente ha chiesto spiegazioni per il video che è stato consegnato ai media. In una lettera spedita al Procuratore Capo di Bergamo scrive: “la questione non è l’innocenza o la colpevolezza di Bossetti, che verrà decisa dai giudici. Noi però siamo convinti che i processi si debbano ancora tenere in tribunale e non nei salotti televisivi. (…) E per questo oggi chiediamo conto del perché ci è stato consegnato dagli inquirenti del materiale presentato in una certa maniera e poi, in pratica, disconosciuto da quegli stessi inquirenti in aula“. La risposta, Cesare, la trova nelle sue stesse parole: i processi si devono tenere in tribunale e non nei salotti televisivi. Ma a portarceli nei salotti televisivi non sono stati certo gli inquirenti. Se lo vuole davvero, può essere in prima linea nell’evitare altri fatti come questo.
6 NOVEMBRE 2015. TREDICESIMA UDIENZA. PARLANO FABIANO GENTILE E NICOLA STAITI.
«In quella traccia il Dna è risultato perfetto. La sequenza data dal nostro computer durante le analisi non conteneva un solo errore»: così i due capitani del Ris di Parma Fabiano Gentile e Nicola Staiti hanno parlato oggi in tribunale, durante il processo a Massimo Bossetti, del campione «G20», ovvero una delle provette di materiale organico estratte dagli indumenti di Yara, in particolare dagli slip della ragazzina uccisa il 26 novembre del 2010. I due ufficiali hanno spiegato che un super computer del Ris è stato adattato a un solo scopo: il riscontro di eventuali anomalie nelle tracce organiche. Nel caso del campione «G20» se ci fossero state imperfezioni tali da non rendere analizzabile la traccia organica, il computer avrebbe fatto spuntare a monitor diverse bandierine rosse, simbolo d’allarme. «In quel caso, invece, i simboli erano tutti verdi», un chiaro via libera per dire che quella traccia identificava sicuramente una persona.
I difensori di Bossetti: «Dna, spiegare i risultati sulla scorta dei dati grezzi». L'udienza di venerdì 6 novembre per il caso di Yara Gambirasio, delitto di cui è imputato Massimo Bossetti. In aula Fabiano Gentile e Nicola Staiti, ufficiali del Ris di Parma che hanno svolto le indagini sui reperti biologici, scrive “L’Eco di Bergamo”. Staiti e Gentile sono i due capitani che hanno svolto gli accertamenti nei luoghi chiave della vicenda: il cantiere, la palestra e il campo di Chignolo, oltre che sui reperti prelevati durante l’autopsia e sugli indumenti di Yara. Nella mattinata in aula, interrogati dal pm Letizia Ruggeri, hanno spiegato tra l’altro di aver svolto 18 prelievi su una traccia di sangue repertata sugli indumenti di Yara, traccia che conteneva il Dna di «Ignoto 1» in «quantità importante». I due ufficiali hanno parlato anche della presenza di 5 tracce di sangue della vittima trovate sulle stringhe delle scarpe di Yara. Staiti ha poi evidenziato che il profilo di Ignoto 1 «è perfetto, non c’è niente da discutere, chi è addetto ai lavori lo sa». Sulla possibilità che il profilo di Ignoto 1 possa appartenere a un’altra persona, Staiti ha spiegato che esiste una possibilità su miliardi. Nel controesame dei difensori di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, sono tornati nuovamente all’attacco, hanno chiesto come mai «non sono stati approfonditi» gli accertamenti «sulla traccia trovata sulla manica del giubbotto di Yara», ma solo la traccia che ha portato a Ignoto 1, che tra l’altro «non era visibile a occhio nudo». I legali quindi, che già nelle scorse udienze avevano espresso i loro dubbi sulle indagini, hanno contestato i criteri di scelta delle analisi. I difensori di Massimo Bossetti hanno chiesto ai giudici della corte d’assise di Bergamo che i consulenti del Ris siano sentiti sui risultati degli accertamenti sul dna sulla scorta dei «dati grezzi», una sorta di fogli di lavoro, in base ai quali hanno eseguito il loro lavoro. Si tratta dei «dati grezzi» che attestano il procedimento mediante il quale il Ris è giunto a stabilire che il Dna trovato sui leggings e sugli slip di Yara appartiene a Ignoto 1 e, invece, quello trovato sulla manica del giubbotto indossato della ragazza apparteneva a Silvia Brena, la maestra di ginnastica ritmica della tredicenne. I giudici si sono riuniti in camera di consiglio per decidere. In aula, nel pomeriggio, è arrivato anche il comandante del Ris di Parma, Giampietro Lago. «Noi non stiamo facendo un processo alle indagini o a persone che non sono imputate - hanno spiegato i difensori -. Ma per difendere questa persona che è accusata del peggior reato, dobbiamo sapere quello che c’è intorno a quella macchiolina e mettere i nostri consulenti in condizioni di discuterne». Intanto continuano le polemiche sul filmato dei carabinieri in cui vengono riassunti i passaggi del (presunto) furgone di Massimo Bossetti attorno al centro sportivo di Brembate Sopra. Ecco il commento del giornalista Vittorio Attanà su L’Eco di Bergamo del 6 novembre.
Bossetti e il caso del furgone tra finte «bufale» e foto vere. «Filmino tarocco», «finta prova per incastrare Bossetti...», «video-bufala»... Nell’ultima settimana se ne sono sentite (e lette) di tutti i colori sul filmato dei carabinieri in cui vengono riassunti i passaggi del (presunto) furgone di Massimo Bossetti attorno al centro sportivo di Brembate Sopra. Così tentiamo di spiegarvi la faccenda per come l’abbiamo capita noi de L’Eco, che la verità in tasca non l’abbiamo, ma seguiamo il caso da un ormai lontano sabato mattina di cinque anni fa (era il 27 novembre 2010, il giorno dopo la scomparsa di Yara). Partiamo dal metodo. Un video montato e diffuso «per esigenze di comunicazione», ha confermato in aula il comandante dei Ris di Parma, Giampietro Lago, incalzato dall’avvocato Claudio Salvagni. Letta così fa impressione: dunque, abbiamo capito bene? Si costruiscono a tavolino le prove per incastrare il muratore e poi le si spacciano alle tv? E poi, per proprietà transitiva: se è «falsa» quella del furgone, chi ci dice che sia autentica la prova del Dna? Certo, forse l’ufficiale dell’Arma avrebbe potuto spendere qualche parola in più sul punto, in aula, fiutando l’insidia in cui lo stavano abilmente conducendo gli avvocati dell’imputato. Ma permetteteci un’osservazione preliminare: quella di Lago non è stata una sorprendente ammissione, dato che tutti gli operatori dell’informazione (compresi quelli che poi si sono scandalizzati), sapevano benissimo che quel video era una sintesi ad uso-stampa. Se non altro perché l’avevano ricevuto anche loro, per posta elettronica, qualche mese fa. Ma il punto è un altro: il video non è tarocco. I fotogrammi non sono falsi e agli atti ci sono eccome. Li abbiamo visti. Certo – obietterete – manca un passaggio decisivo: il furgone ripreso è, o non è, quello di Bossetti? Premessa: la targa non si vede. Ma non si vedeva neppure prima delle polemiche di venerdì scorso. I Ris parlano di «identificazione probabile» in relazione a due fotogrammi, particolarmente nitidi, tratti da una delle due telecamere della ditta Polynt, sul retro della palestra (mentre Yara è ancora dentro) alle 18,35. L’Iveco Daily passa una prima volta e, 20 secondi dopo, ripassa in direzione opposta. Per queste riprese – come ha spiegato il colonnello Lago – è stato possibile sovrapporre la rielaborazione computerizzata del furgone di Bossetti e i due mezzi sono risultati identici. «E le altre immagini, non le avete confrontate?», ha chiesto Salvagni. «Non avrebbe avuto senso», ha risposto Lago, perché i fotogrammi erano di qualità peggiore. «Quindi ci avete detto che Bossetti passava ripetutamente attorno alla palestra e invece passa solo due volte!», si è gridato allo scandalo. Questa, sì, ci pare una strumentalizzazione, perché ci si è quantomeno dimenticati di ricordare al pubblico che l’indagine sul punto è stata più articolata ed è (già) entrata nel processo con la testimonianza del colonnello Michele Lorusso, all’epoca comandante dei Ros di Brescia. La presunta identificazione del furgone di Bossetti con riferimento alle altre telecamere attorno alla palestra – distributore Shell e banca di via Rampinelli – è avvenuta infatti per esclusione, partendo da un elenco di 20 mila «Iveco Daily» immatricolati, per poi stilare una lista di 4.500 con caratteristiche simili a quello del muratore di Mapello. I mezzi sono stati fotografati e confrontati, per filtrare ulteriormente. Ah, per inciso: questi dati ci sono, nella seconda parte del video incriminato. Però non li ha ricordati nessuno. Comunque, alla fine di furgoni in lizza ne sono rimasti cinque, molto simili a quello del muratore di Mapello. I proprietari sono stati interrogati: non erano a Brembate la sera del 26 novembre. Basta per dire che quello nelle immagini è proprio l’autocarro di Bossetti? Gli inquirenti ne sono convinti, la difesa no, una Corte d’Assise valuterà il peso dell’indizio. Che tale era e tale rimane, di contorno a quello (di ben altro rilievo) del Dna. Questi, piaccia o non piaccia, sono gli elementi di cui a processo si sta discutendo. Nell’attesa (ma fuori dall’aula) fa più notizia parlare di bufala. Vittorio Attanà.
Polemiche che sono rimaste fuori dall’aula del processo a Massimo Bossetti, ma che sono comunque state oggetto di discussione. «Tarocco lo si usa per le arance - ha osservato l’avvocato di parte civile della famiglia Gambirasio, Enrico Pelillo -: qui si tratta di un insieme di frame che sono tutti contenuti agli atti dell’inchiesta nei filmati delle telecamere che coprono un orario dalle 16 alle 22». Per uno degli avvocati di Massimo Bossetti, Claudio Salvagni, quel video, invece, è «un tarocco di Stato». Il video era stato mostrato dalla difesa nella scorsa udienza e il comandante del Ris aveva spiegato che non faceva parte della sua relazione ma rappresentava una sintesi che era stata fornita alla stampa. L’avvocato Pelillo ha spiegato che «tutti quei fotogrammi, nella loro completezza, sono agli atti dell’inchiesta».
E' ancora il Dna trovato sui reperti che ha poi portato all'identificazione del Dna di ignoto1 e che poi altri laboratori attribuirono a Massimo Bossetti, al centro dell'udienza di stamattina del processo a Massimo Bossetti per l'omicidio di Yara Gambirasio. In aula, Fabiano Gentile e Nicola Staiti, capitani del Ris che hanno svolto le analisi genetiche sulle tracce genetiche rilevate sul cadavere, scrive “Il Giorno”. I due hanno eseguito, "spalla a spalla", le indagini sui reperti rinvenuti sul corpo e sui vestiti di Yara e che hanno portato all'identificazione del Dna di Ignoto 1, successivamente indicato come quello di Massimo Bossetti, accusato dell'omicidio della giovane di Brembate di Sopra. Gli ufficiali del Ris hanno ripercorso i passaggi tecnici e scientifici e i numerosi test e gli esami che hanno portato da una parte ad escludere la presenza di tracce di liquido seminale sul corpo e sui vestiti di Yara, dall'altro a stabilire con pratica certezza l'univocità del Dna maschile ritrovato sui reperti forensi. Basandosi sui risultati ottenuti da 23 marcatori, hanno spiegato i due esperti, è stato dedotto che è praticamente impossibile che esista un individuo con lo stesso Dna di quello definito "Ignoto 1". Secondo la RMP, Random Match Probability, il profilo che si ottiene dalle tracce è "rarissimo, unico" e riguarda "un soggetto ogni 3.700 miliardi di miliardi di miliardi di individui". Sulla natura delle traccia è escluso che si tratti di saliva e liquido seminale; i due consulenti hanno detto che "non si può dire che sia sicuramente sangue, quello che si puo dire è che la traccia è positiva l test del sangue. I due capitani hanno anche escluso la possibilità di contaminazione del dna sia perchè lavorano con guanti e provette, sia perchè i laboratori sono divisi in vari ambienti, sia perché il dna degli operatori sono tipizzati. Nel controesame dei difensori di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, sono tornati nuovamente all’attacco, hanno chiesto come mai "non sono stati approfonditi" gli accertamenti "sulla traccia trovata sulla manica del giubbotto di Yara", ma solo la traccia che ha portato a Ignoto 1, che tra l’altro "non era visibile a occhio nudo". I legali quindi, che già nelle scorse udienze avevano espresso i loro dubbi sulle indagini, hanno contestato i criteri di scelta delle analisi. I difensori di Massimo Bossetti hanno chiesto ai giudici della corte d’assise di Bergamo che i consulenti del Ris siano sentiti sui risultati degli accertamenti sul dna sulla scorta dei "dati grezzi", una sorta di fogli di lavoro, in base ai quali hanno eseguito il loro lavoro. Si tratta dei "dati grezzi" che attestano il procedimento mediante il quale il Ris è giunto a stabilire che il Dna trovato sui leggings e sugli slip di Yara appartiene a Ignoto 1 e, invece, quello trovato sulla manica del giubbotto indossato della ragazza apparteneva a Silvia Brena, la maestra di ginnastica ritmica della tredicenne. I giudici si sono riuniti in camera di consiglio per decidere: la presidente della Corte d'Assise ha accolto la richiesta della difesa di Massimo Bossetti, accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio, di approfondire come sono stati svolti gli accertamenti sulle tracce del Dna limitatamente a quelle di "Ignoto 1" e non su tutte le altre tracce rinvenute sui vestiti di Yara, come richiesto dalla difesa. "La Corte ammette la richiesta della difesa limitatamente alle tracce di Ignoto 1 - ha detto la presidente Antonella Bertoja - e fa richiesta ai consulenti della difesa di formulare il quesito, in forma scritta, relativo alle tracce di Ignoto 1 sul numero delle 'amplificazioni' e sul numero di 'kit' utilizzati" Il supplemento d'esame su questi temi, ha spiegato la Corte, "viene riconosciuto per assicurare a tutti noi, e in particolare alla difesa, la verifica dell'attività svolta e non delle conclusioni. La difesa avrà una settimana di tempo per formulare il quesito". "Il fatto che la Corte abbia disposto un accertamento suppletivo, che non è così consueto come potrebbe sembrare, significa che c'è ancora una zona d'ombra da chiarire. Questo è il risultato dell'udienza di oggi". E' il commento di Paolo Camporini, uno degli avvocati del collegio di Difesa di Massimo Bossetti, accusato dell'assassinio di Yara Gambirasio, al termine dell'udienza odierna in cui la Corte ha accolto la richiesta della difesa di un approfondimento sulle modalità con cui sono stati fatti gli esami del Dna sulle tracce di "Ignoto 1". "Ringraziamo la Corte che oggi ha accolto una nostra richiesta importante - ha aggiunto l'altro avvocato della difesa Claudio Salvagni - nella direzione di fare luce, finalmente, ed eliminare le zone d'ombra. Siamo soddisfatti di questo risultato". "Il pubblico eviti, prima ancora di aver capito, certe uscite che possono, in qualche misura, turbare la serenità del dibattimento e anche del testimone". Il presidente della Corte d'assise di Bergamo Antonella Bertoja, si è rivolta con questa parole al pubblico presente all'udienza odierna del processo a Massimo Bossetti per l'omicidio di Yara Gambirasio. L'altolà del presidente è giunto dopo un commento di un giornalista che ha esclamato: "Non è possibile" dopo la risposta di un ufficiale dei Ris che ha parlato delle difficoltà di reperimento dei "dati grezzi" riguardanti gli esami del Dna all'interno del sistema informatico, per poi precisare che erano stati comunque forniti tutti in un singolo cd. Poco prima dell'intervento della Bertoja, era stata il pm Letizia Ruggeri a rivolgersi verso il pubblico: "La prossima volta chiamo i carabinieri per l'identificazione". L'episodio è avvenuto durante il controesame degli ufficiali del Ris condotto dagli avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini. Sono rimaste fuori dall'aula del processo a Massimo Bossetti, ma sono comunque state oggetto di discussione, le polemiche, che hanno trovato spazio su organi di stampa nei giorni scorsi, riguardo una presunta manipolazione del video, che il comandante del Ris di Parma aveva spiegato essere stato dato alla stampa, con i frame che ritraggono passaggi del furgone di Massimo Bossetti intorno alla palestra di Yara Gambirasio, da dove la ragazza scomparve. «Tarocco lo si usa per le arance - ha osservato l'avvocato di parte civile della famiglia Gambirasio, Enrico Pelillo -: qui si tratta di un insieme di frame che sono tutti contenuti agli atti dell'inchiesta nei filmati delle telecamere che coprono un orario dalle 16 alle 22». Per uno degli avvocati di Massimo Bossetti, Claudio Salvagni, quel video, invece, è «un tarocco di Stato». Il video era stato mostrato dalla difesa nella scorsa udienza e il comandante del Ris aveva spiegato che non faceva parte della sua relazione ma rappresentava una sintesi che era stata fornita alla stampa. L'avvocato Pelillo ha spiegato che «tutti quei fotogrammi, nella loro completezza, sono agli atti dell'inchiesta».
Il video-bufala, scrive su Oggi.it - Il Blog del direttore - Umberto Brindani il 6 novembre 2015. Intorno al processo a Massimo Bossetti sta succedendo davvero di tutto. Avevamo elencato, più di un mese fa, i 22 misteri ancora irrisolti sull’omicidio della piccola Yara Gambirasio. Dopo un paio di settimane, sempre su Oggi, ne avevamo aggiunti altri nove. E faceva 31. Ora, come in un proverbio rivisitato, grazie a una clamorosa gaffe dell’Accusa in aula, abbiamo fatto 32. Con un piccolo dettaglio: che il trentaduesimo mistero rischia di far perdere credibilità a tutta l’indagine. La storia completa la racconta il nostro Giangavino Sulas. Qui la riassumo. Dunque, ricordate le famose immagini del furgone di Bossetti mostrate da tutti i programmi tv? Con sopra impresso il marchio dei Carabinieri, il video mostra questo camioncino, ripreso da varie telecamere di sorveglianza, che passa e ripassa nei pressi della palestra di Brembate nei minuti in cui scompare Yara. Il furgone, viene spiegato, è “compatibile” con quello dell’imputato. Le immagini sono molto sgranate, in alcune si vedono di fatto solo i fari, ma tanto basta per accreditare e sostenere la teoria del “predatore”: è Bossetti che si appresta a prelevare la ragazzina, per poi tornare dopo averla uccisa. Insieme con la prova regina del Dna, è la grande conferma della colpevolezza del muratore. Bene. Venerdì scorso, in aula a Bergamo, succede l’inverosimile. Si scopre che il video è farlocco. E’ stato costruito dagli investigatori, d’accordo con la Procura, per “esigenze di comunicazione”. Cioè, traduco, per fornire a stampa e tv materiale idoneo a incastrare mediaticamente Bossetti. Ai fini del processo, quasi tutte quelle riprese non hanno alcun valore, tant’è vero che, si apprende adesso, non sono mai state messe agli atti. Non contano nulla, dal punto di vista giudiziario, perchè non raccontano nulla. Documentano solo che c’erano uno o più furgoni simili tra loro che transitavano. Per paradosso, le uniche immagini che valgono qualcosa sono quelle che scagionerebbero Bossetti, le sole in cui si vede davvero il suo furgone sia da un lato sia dall’altro. Perchè, sostiene l’imputato, voleva andare all’edicola, si è trovato la strada chiusa ed è tornato indietro. La giuria popolare, così, non dovrà tenere conto di quel video, sebbene da un anno buono esso sia entrato nella memoria di chiunque. Vedi? L’assassino va e viene, ronza intorno alla preda, aspetta che esca dalla palestra e poi, vedi? Compiuto l’omicidio, ripassa come se niente fosse… E invece no. Bossetti può essere certo il colpevole, ma non sarà quel video a dimostrarlo. Per quanto posso ricordare, è la prima volta che capita una cosa del genere. Una “prova” realizzata ad arte dagli inquirenti unicamente per dare in pasto qualcosa ai giornalisti e all’opinione pubblica. Tutti convinti, giornalisti e opinione pubblica, che quella “prova” facesse parte delle carte dell’Accusa. I primi a indignarsi e protestare, infatti, sono stati i colleghi del Gruppo cronisti lombardi. I quali, in una lettera aperta al Procuratore capo di Bergamo, scrivono fra l’altro: “A noi continua a risultare curioso che in questo Paese due istituzioni (la Procura e l’Arma dei Carabinieri) considerino i giornalisti uno strumento per fare “pressione” a favore della propria tesi, propinando all’opinione pubblica falsi che non hanno alcun valore processuale, utilizzando la stampa in maniera strumentale. E, ci permettiamo, vergognosa”. Non è la prima e, sono pronto a scommetterci, non sarà l’ultima sorpresa in un processo che sembra in salita sia per l’Accusa sia per la Difesa. Francamente, non vorrei essere nei panni di chi è chiamato a giudicare. Ma, comunque finisca, una piccola riflessione possiamo già farla. Da una parte 22 misteri irrisolti più nove, più uno. Dall’altra indagini monstre, 20 mila prelievi di Dna, milioni di euro investiti. E un video-bufala. Se non ci fosse di mezzo il corpicino martoriato di una ragazzina di 13 anni che chiede giustizia, ci sarebbe davvero da ridere per come è messa la Giustizia, quella che dovrebbe avere la maiuscola.
Bossetti, "Mostro Perfetto" nella realtà (virtuale degli investigatori, scrive Marco Menduni su “Il Secolo XIX”. C’è la realtà vera, quella fissata dalle immagini, incontrovertibile. C’è una realtà parallela, quella raccontata dalle parole, e questo caso è la dimostrazione palpabile che non sempre coincidono. Anche se dovrebbero, soprattutto in un’aula di giustizia. Massimo Bossetti, l’operaio arrestato per l’omicidio di Yara Gambirasio, la tredicenne uccisa il 26 novembre 2010 a Brembate Sopra, vicino a Bergamo, non cerca di fuggire al momento dell’arresto. È chiaro, è evidente che non stia cercando di scappare. Però i carabinieri insistono: «Ha tentato la fuga». Poi, in questi giorni, è arrivato il secondo grande inciampo degli inquirenti nel processo a Bossetti. Ricordate le immagini del suo furgone ripreso ben sette volte intorno alla casa e alla palestra della ragazzina? Ebbene, il colonnello Giampiero Lago, comandante dei Ris di Parma, incalzato dagli avvocati è costretto ad ammettere: «È stato fatto per esigenze di comunicazione, è stato dato alla stampa». D’accordo con la procura. Non è vero che i carabinieri abbiano taroccato l’inchiesta, perché si sono ben guardati dal proporre quel documento davanti ai giudici dell’Assise. Però si scopre, e si sapeva già, che le immagini in cui si vede un furgone “come quello” di Bossetti (e non “sicuramente” il suo) sono quelle di una sola telecamera. Gli altri sono fotogrammi sfocati, sgranati, dai quali non è possibile dedurre proprio nulla. Conclusione: il filmato non è un semplice riassunto di documenti, caso nel quale non ci sarebbero troppe contestazioni da muovere. È invece una sintesi che accomuna pochi elementi più netti a molti altri assolutamente incerti ed evanescenti, costruendo però una verità ad uso dei media, accreditando con la suggestione l’idea che tutti gli elementi siano “veri” e granitici. La conclusione secondo la quale Bossetti è passato sette volte davanti alla casa e alla palestra di Yara è tutt’altro che incontrovertibile, se gli elementi sono questi. Però questo è stato venduto e in molti sono convinti si tratti di una verità scritta nella pietra. Certo, Bossetti è legato, inchiodato alla scena del delitto dalla presenza del suo Dna sugli indumenti di Yara e soprattutto sul taglio dei leggins della vittima. Questo è sì, un dato incontestabile, anche se ci sono misteri ancora tutti da spiegare sull’assenza del Dna mitocondriale (c’è solo il nucleare) e sulla possibilità di ripetere gli esami. Nemmeno i carabinieri del Ris se la sono sentita di metter per iscritto l’unica circostanza che spiegherebbe il mistero: che si tratti di liquido seminale. Perché non lo è. A rammentare che il Dna non è una divinità indiscutibile (forse lo sono gli uomini che lo analizzano) basta rammentare il caso di Peter Neil Hankin, il barista inglese incarcerato il nel 2003 a Liverpool con l’accusa di aver ucciso la Annalisa Vincentini, 24 anni, durante la rapina ad una coppietta a Castiglioncello. Provò a difendersi dicendo di non esser mai stato in Italia. Niente da fare. Fu arrestato. Poi scagionato. Il giudice parlò di «un manifesto errore nella schedatura genetica». I due clamorosi inciampi con cui è iniziato il processo sollecitano una profonda riflessione. È giusto che gli inquirenti, pur comportandosi correttamente nel processo, abbiano per mesi martellato l’opinione pubblica costruendo, una fuga di notizie dopo l’altra, l’immagine dell’imputato perfetto? Non solo nei dettagli tecnici, ma cannibalizzando la sua vita privata, anche nei dettagli che con l’inchiesta non c’entrano nulla. Chi più colpevole a prescindere di un figlio illegittimo, con una moglie fedifraga, un guascone che le raccontava grosse per marinare il lavoro, che fa qualche complimento alle donne che incontra, che si fa persino le lampade nascondendolo alla moglie perché i conti di casa non sono floridi? Un’amplificazione mediatica che ha anche dato la stura ai mitomani. Un ex paracadutista racconta di aver visto Bossetti che pregava sulla tomba di Yara. Poi la stessa procura rivela di aver installato una telecamera lì, al cimitero, e Bossetti non c’è mai stato. Intanto, però, quel racconto finisce su tutti i giornali. Il testimone si è, quanto meno, sbagliato. Un compagno di cella di Bossetti cerca di venderselo. Loredano Busacca scrive: «È un animale, mi ha confessato il delitto». Gli stessi giudici ammettono: attendibilità zero. Una donna sostiene di aver visto Yara salire sulla macchina di Bossetti: la testimone A.A. si esprime così: «Vidi una volpe attraversare la strada della quale mi colpirono gli occhi che illuminati erano quasi bianchi; io avevo sin da subito associato gli occhi dell’uomo che vidi a quelli della volpe». Deve essere ancora ascoltata. Magari dice il vero. Ma l’uso questi termini non può autorizzare il sospetto di una suggestione creata ad arte da un clima colpevolista? Non è finita. Perché Michele Lorusso, comandante dei Ros di Brescia chiamato a testimoniare il 23 settembre, dice che Yara «stringeva in pugno dell’erba ancora radicata a terra»? Perché l’anatomopatologa l’anatomopatologa Cristina Cattaneo, che ha effettuato l’autopsia, va davanti ai giudici e racconta invece tutt’altro, che l’erba non era radicata nel terreno, ma «incastrata nel braccialetto e sotto un’unghia spezzata»? Ancora. Le celle telefoniche. In aula si chiarisce che non possono dimostrare nulla. Troppo ampia la copertura: Bossetti poteva essere davanti alla palestra di Yara, ma anche a casa sua. E le ultime tracce, comunque, vedono i due cellulari andare in direzioni opposte. E le ricerche “pedoporno” sulle 13enni al computer, che due periti, ma non tutti i consulenti dell’accusa, sostengono esser state fatte da Bossetti? Ricerche automatiche, dicono i difensori. Per chi legge, un piccolo test. Provare a comporre “tredicenni che” su Google e osservare cosa propone la funzione di completamento automatico del motore di ricerca. Da arrossire. Ma sicuramente non voluto.
Bossetti, la Corte: «Il Ris spieghi come ha analizzato il Dna». I giudici dispongono un’integrazione della consulenza dei carabinieri: «Quanti e quali kit di analisi?». Gli avvocati insistono ancora sull’insegnante di ginnastica di Yara, scrive “Il Corriere della Sera”. La consulenza va integrata. Strappa una prima vittoria la difesa di Massimo Giuseppe Bossetti, durante il processo di fronte alla Corte d’Assise di Bergamo. La presidente dei giudici, Antonella Bertoja, ha disposto nel pomeriggio di oggi che il Ris integri gli atti della sua consulenza su Ignoto 1 specificando in particolare quanti test e con quali kit sono stati fatti sul materiale organico rinvenuto sui leggings e sugli slip di Yara Gambirasio. La decisione è nata da una certa polemica in aula sui dati grezzi relativi al Dna: si tratta di codici, numerici e alfabetici, che rappresentano sostanzialmente la «brutta» dei risultati conseguiti dal Ris. Dati che contengono ogni tipo di informazione sul lavoro svolto ma che ora la Corte chiede di tradurre e semplificare con un’integrazione della consulenza. Intanto la difesa è tornata in aula sul caso di Silvia Brena, una delle insegnanti di ginnastica di Yara. Una sua traccia organica era stata isolata dal Ris dal giubbetto della vittima. Gli avvocati hanno chiesto per quale motivo non sia mai stato spiegato di che materiale organico si trattasse. La risposta del Ris: naturalmente, in base alla posizione sugli abiti, ci sono state tracce che hanno attirato l’attenzione più di quella. «È sangue»: è stata una voce incontrollata circolata nel pomeriggio attorno al tribunale. No, gli ufficiali hanno chiarito che quella traccia attribuita alla Brena non è mai risultata positiva a sostanza ematica.
Yara, il giudice bacchetta: «Basta commenti in aula», scrive “Il Corriere della Sera” il 7 novembre 2015. Il giornalista Luca Telese ripreso dalla Corte: «Il pubblico eviti di uscire con espressioni imbarazzanti che minano la serenità dei testimoni». Gli ufficiali del Ris stanno parlando dei dati grezzi (le parti li hanno) in cui sono riportate tutte le loro analisi. Parlano di grande mole, in cui è difficile trovare quello che chiedono i difensori dell’imputato, cioè a quanti test e con quali kit sono state sottoposte le tracce sugli indumenti di Yara. La frase di uno dei due capitani fa da scintilla: «Sono in un file con tanti altri dati di altri casi». «Ma come?», annuncia lo scandalo l’avvocato Claudio Salvagni. Dal pubblico, per buona parte habitué del processo sostenitori di Bossetti, si alza un brusio. Poi emerge una voce: «Ma stiamo scherzando?!». È Luca Telese, giornalista conduttore di Matrix. La presidente della Corte d’Assise, Antonella Bertoja, prende in mano la situazione per fare chiarezza: «Allora, recuperare dati di questo caso è difficile perché vanno estrapolati, ma su questo cd abbiamo solo i dati di questo caso. Dica sì al microfono - indica all’ufficiale - se è così». Il teste conferma. Poi, il tono e lo sguardo severi, la presidente richiama all’ordine: «E prego il pubblico di evitare, prima di aver capito, di uscire con espressioni imbarazzanti da minare la serenità dei testimoni».
Troppi dubbi sul dna di Bossetti, bloccate le testimonianze dei Ris, scrive “Luca Telese su “Libero Quotidiano" del 7 novembre 2015. Bergamo, ore 16.10, nuovo, ennesimo, incredibile colpo di scena sul Dna al processo per Yara: seduta sospesa, corte riunita per decidere se, e come, il processo può riprendere. Ore 16.20, tutti col fiato sospeso mentre sul banco dei testimoni i due supertesti dei Ris, Nicola Staiti e Fabiano Gentile invocano una sorta di tregua dicendo: "Presidente, la risposta alle domande della difesa non possiamo darle, perché… in questo momento, per noi comporta un incredibile sforzo mnemonico". Incredibile sforzo mnemonico sui due reperti più importanti del processo, sulle domande a cui, in teoria, si erano preparati da un anno, addirittura su dati presentati da loro stessi. Possibile? Sì, perché si parla proprio della famosa traccia di Ignoto uno sullo slip, e della traccia di Silvia Brena (l'ex insegnante di Yara) sulla manica. Una traccia che ieri - stando alle parole dei due ufficiali - è risultata appartenere a un fluido biologico: una macchia lasciata da un fluido che, o è sangue, o contiene sangue. Ma quando, come e perché la Brena avrebbe dovuto avere un contatto di questa natura con Yara? Bel dilemma. Dopo alcuni minuti di raccoglimento la risposta arriva dalla presidente Bertoja che concede ai due una delazione, dettando, però, delle condizioni: "La difesa presenterà le domande che vuole fare, poi i Ris risponderanno in tempi brevi". Un esito imprevedibile. Come se nella finale di coppa Roma o Juve, dopo aver giocato i primi venti minuti (e incassato due goal) chiedessero la sospensione della partita perché i giocatori dicono che devono migliorare la loro condizione atletica. Eppure è quello che è accaduto ieri. Per capire questa conclusione (una mediazione dopo l'ennesimo duello a muso duro Accusa-Difesa) bisogna ripercorrere la cronaca di una giornata convulsa in cui non doveva accadere nulla, ed è successo tutto. La partita degli esami del Dna è decisiva, in particolare di quelli del cosiddetto "Reperto G20", la famosa porzione di mutandina di Yara (dov' è la traccia di Bossetti), e il cosiddetto "Reperto 27-62" (la manica del giubbotto dove è rimasta il Dna di un'altra persona: la sua ex istruttrice). Questa traccia, hanno ammesso i due Ris (a denti stretti) rivelava una intensità di reazione agli esami e una quantità addirittura superiore a quello di Ignoto uno. Così durante il punto più bello del controinterrogatorio, sul banco sedevano i due supercarabinieri che hanno materialmente eseguito gli esami che erano considerati prova regina. Gli avvocati Claudio Salvagni e Claudio Camporini, coadiuvati da un consulente tecnico che in quel laboratorio dei Ris ci ha lavorato una vita, Marzio Capra, hanno tempestato i due di domande su una materia che in teoria avrebbero dovuto padroneggiare: i cosiddetti "Raw data", ovvero "la brutta copia" degli esami con cui hanno inchiodato il muratore di Mapello. Erano stati loro stessi (due settimane fa, dopo un tira e molla durato dieci udienze) a consegnare questi "dati grezzi" che nel processo sono diventati cruciali: "Perché esaminare quei numeri? L' analisi - diceva la Pm Ruggeri ha già prodotto risultati!". Ma poichè l'esame sul Dna è irripetibile per esaurimento del campione, la "brutta copia" era stata riconosciuta dalla presidente Bertoja, nella prima udienza, un dato da far vagliare alla difesa. Inizia la seduta. Guardo Staiti e Gentile, che chiedono di sedere vicini per una testimonianza congiunta: "Abbiamo lavorato spalla a spalla", spiega Gentile. Non hanno divisa, giacca e cravatta: fanno a tutti una ottima impressione. Sono calmi, parlano chiaro, si concentrano - nella loro esposizione - sulla gerarchia delle cose importanti. Gentile, ha un filo di barba e baffi folti, spiega che hanno lavorato all'inchiesta fin dal primo giorno. Spiega la metodologia che hanno adottato. Spiega con molta linearità una cosa importante: "La traccia di ignoto uno sullo slip non è e non può contenere sperma". Spiega come hanno lavorato sui reperti, con grande scrupolo investigativo. Mentre racconta pare di vederli, i due, chini su quei poveri stracci con la lampada a lunghezza d' onda varabile (l'abbiamo imparata a conoscere nelle serie Crime) che battono il tessuto millimetro per millimetro. Gentile dice che quel Dna è lì "Senza margine di errore". Aggiunge che Ignoto uno è anche su un altro lembo di mutandina, quello laterale (in codice si chiama "31 G1 ext"). Staiti è esperto di violenza sessuali: racconta che alla luce della sua lunga esperienza, la presenza del Dna senza sperma, in quella posizione, è strano: "Io, in tanti anni questa cosa non l'avevo mai rilevata". Gentile, dice ancora che su quegli indumenti ci sono almeno tre tracce di altri Dna non ricostruibili. E da una misura alla traccia di ignoto uno sullo slip: "Un nanogrammo e due". Poi i due illustrano un dato da capogiro. "La possibilità che quella traccia sia di un uomo con Dna simile è un numero enorme: "3700 miliardi di miliardi di miliardi, di miliardi". Bene, penso, mentre scrivo sul taccuino: partita chiusa, ce ne torniamo a casa. E invece. Salvagni inizia a controinterrogare con pacata e cortese fermezza (ma la tensione si taglia con il coltello) e subito le certezze vacillano. Per esempio, quando fa una domanda semplice semplice, e cioè "Ricorda se la traccia Brena fosse visibile a occhio nudo?", Stati mi pare subito nervoso, fa lunghe perifrasi per non dare una risposta netta. Capisco perché poco dopo: "C'era una alone", dice. E qui entra in un tunnel che cambia la sua espressione della mattina pietrificandogli il volto:
-Salvagni: "Avete fatto una indagine su quel fluido biologico che era sulla manica?".
-(Silenzio).
-Salvagni: "Fatta o no?".
-Gentile: "Non mi risulta sia stata fatta" (brusio).
-Salvagni: "E perché?".
-Gentile: "Perché… gli esami sono distruttivi…. E prima non era stata fatta". Eppure, spiega il carabiniere, di questa traccia distrutta negli esami del Dna, c' è una misura indiretta: la risposta di fluorescenza: "Da Mille a diecimila", sulla scala di misurazione del picco. E' molto. Salvagni un po' si arrabbia: "Ma scusate, avevate una traccia di una persona nota, era in una quantità che definite copiosa, e non verificate con gli esami del caso di che fluido corporeo si tratti?". Staiti è in imbarazzo. Si regge il mento con la mano, terreo: "Non aveva cromaticità". Cioè colore: dice proprio così. Direbbe George Orwell: "Tutti i Dna sono uguali, alcuni più uguali".
Ma il ritmo in aula accelera ancora. Da dove sono vedo di profilo il sorriso raggiante di Capra, che dà indicazioni all'avvocato mentre i suoi ex colleghi rispondono. Corpo a corpo: -Salvagni: "Non è curioso non aver fatto questi test?".
- Staiti (seccato): "Non si fanno tutti i test su tutti i reperti!".
- Salvagni: "Su quello forse sì, che dice?".
-Staiti: "E' la mia risposta".
-Salvagni: "Accetto risposte che hanno logica! Qui non c' è".
- Staiti: "No! Non è così…!". Salvagni: "Ma quanti Dna completi avete trovato?".
Staiti (incerto): "Devo andare a leggere il rapporto…". Qui, forse, il nervosismo tradisce l'uomo dei Ris che incalzato sulla traccia della Brena ad un tratto esclama: "Era, per quanto circoscritta, di un fluido corposo". Ipotizza: "Noi sapevamo che la manica era un punto sensibile: si può trasportare un corpo, o sotto le ascelle, o per i polsi". L'avvocato chiede all' esperto: "Non le pare incredibile questo? Interessante per l'indagine?". Sulla suggestione del carabiniere, immagino una mano che stringe un polso per tirare un braccio: non vola una mosca.
Salvagni: "Con la sua esperienza come si spiega la mancanza di tracce dei familiari di Yara sul suo corpo?".
Staiti: (...)"Non si spiega".
Salvagni: "Quella traccia può imprimersi per contatto?".
Staiti: "Lo escluderei".
Salvagni? "E allora?".
Staiti: "Penso che fosse qualcosa di più corposo che conteneva sangue. Forse… muco?". Forse vomito? E qui si arriva alla domanda apparentemente astratta che crea il putiferio. Si parla dei kit che servono per fare le "estrazioni" del Dna. All' epoca, per capire il sesso, l'aplotipo distintivo della madre, e le caratteristiche basiche, bisognava usarne almeno tre, con tre esami. Per questo il campione si è consumato nei ripetuti passaggi in laboratorio. Chiede l'avvocato: "Secondo lei, per essere scientifico, come dev'essere un esame?". Il supercarabiniere: "Ripetibile". L'avvocato: "In astratto o in concreto?".
L' uomo dei Ris: "in concreto".
Il problema è qui: se a Capra risultano solo quattro "amplificazioni" (ovvero esami) del più importante dei reperti (ignoto uno sullo slip) è evidente che non può essere stato ripetuto: Salvagni: "Le risulta che abbiate fatto solo quattro amplificazioni del G20?".
Staiti: "Non ho modo".
La Pm Ruggeri: "Mi oppongo! Non può dire 'solo'!!!!".
Salvagni: "Io sono la difesa, dico quel che voglio! Mi risponda, se può".
Staiti: "Non ricordo!
" Salvagni: "Può controllare sulla sua relazione?".
Staiti: "Non ricordo!".
Salvagni: "Guardi le carte!".
Staiti: "L' operazione è complessa, va letta una mole esorbitante di dati".
Qui, come un deus ex machina - ultimo colpo di scena - si alza Marzio Capra con un dischetto: "Per aiutarla a trovare questo dato essenziale le posso dare la date degli esami. Io le ho trovate". Domanda: "Dove?". Sorriso: "Nei raw data che mi avete dato voi!". Il perito ora è davvero è in difficoltà: "Sì, ma anche con la data io non posso… Quei dati sono misti ad altre pratiche" Salvagni: "Che pratiche?".
Staiti: "Quelle di altri esami di altri casi…". La sala rumoreggia di sconcerto (anche io). La Ruggeri ruggisce girandosi verso il pubblico: "Silenzio! Vi faccio identificare dai carabinieri ed espellere dall' aula!!". I due esperti gettano la spugna: chiedono un'ora per trovare le cifre. Questo particolare può invalidare l'esame e quindi il processo? La Bertoja ha polso e pragmatismo: "Va bene, La pausa pranzo è di un'ora: diamoci un'ora e mezza". Ma non basta nemmeno quello: alla ripresa i due ufficiali sembrano le ombre degli uomini che erano entrati in aula.
Le domande ripartono, e loro: "Lo sforzo è enorme, il tema delicato, serve più tempo". La Pm: "Aggiorniamo". Camporini: "No, questo è il nodo decisivo di tutto il processo. E' interesse di tutti!". Così si arriva a quella seconda, surreale, interminabile pausa. Sangue, giacche, mutande, fluidi corporei: giunto al giorno decisivo il processo si incaglia. Adesso la difesa ha sette giorni per mettere nero su bianco le domande. Guardo ancora una volta Massimo Bossetti. Una sfinge. Scruta Staiti e Gentile come fossero due fantasmi. Mastica chewingum lento. Darei qualsiasi cosa per capire se dietro quella maschera di impassibilità ha capito che per la prima volta, nella sua cella, avrà sette giorni di speranza da vivere. Luca Telese
Processo a Bossetti, nuovo colpo di scena: sulla giacca di Yara c’è il sangue di una sua amica? Scrive Giangavino Sulas su Oggi” del 6 novembre 2015. “Non è saliva, né altro”, spiega in aula l’ufficiale dei Ris Nicola Staiti. E ora, spunta la nuova inquietante domanda: come ci è finito lì? Nuovo, ennesimo colpo di scena al processo contro Massimo Giuseppe Bossetti, imputato per il delitto di Yara Gambirasio. Dopo il clamoroso scivolone sul video del furgone del muratore di Mapello, ora si scopre che sulla giacca della 13enne di Brembate ci sono delle macchie di sangue. Appartengono a Silvia Brena, una delle insegnanti di ginnastica di Yara Udienza per l’omicidio di Yara Gambirasio ed ennesimo colpo di scena. La traccia genetica scoperta sul polsino del giaccone di Yara con il Dna di Silvia Brena, una delle insegnanti di ginnastica della ragazza, non è di saliva o di altro materiale biologico. «È positiva al sangue, abbiamo escluso che sia saliva o altro materiale biologico», ha rivelato, incalzato dalle domande dei difensori di Bossetti, il capitano Nicola Staiti, uno degli ufficiali del Ris di Parma che ha firmato la relazione su tutte le attività di indagine scientifica. E non può che essere una traccia lasciata nelle ultime ore di vita di Yara perché ha resistito molto bene a tre mesi di intemperie, pioggia e neve. «Non era stata dilavata», ha aggiunto il capitano. «Aveva un profilo complesso. L’abbiamo trovata perché sul polsino del giaccone abbiamo notato alcuni aloni scuri. Così abbiamo scoperto che si trattava di una traccia genetica. Era il Dna della Brena». Ma può essere una traccia lasciata per contatto?, ha chiesto l’avvocato Claudio Salvagni. «Lo escluderei», ha risposto l’ufficiale, «È qualcosa di più corposo». Silvia Brena già era comparsa in aula come testimone e ad almeno dieci domande rispose: «Non ricordo». Adesso i difensori di Bossetti quasi certamente chiederanno che torni in aula a tentare di spiegare come mai sul giaccone di Yara ha lasciato una traccia di sangue. Prima di questo colpo di scena il capitano Staiti e il suo collega Fabiano Gentile avevano parlato a lungo del Dna di Bossetti scoperto sugli slip di Yara. Lo hanno definito un «profilo perfetto e completo», non c’è margine di errore, è il Dna di Massimo Bossetti. Giangavino Sulas
Sulla giacca di Yara il sangue della prof. L'insegnante di ginnastica è l'unica, oltre a Bossetti, ad aver lasciato tracce: "Da dove arrivano? Non lo so", scrive Paola Fucilieri il 07/11/2015 su “Il Giornale”. Credevamo che il caso di Yara Gambirasio - la tredicenne di Brembate Sopra (Bg) sparita da casa il 26 febbraio 2011 e trovata morta in un campo a dieci chilometri da casa esattamente tre mesi dopo - ci avesse abituato purtroppo a tutto. Stavolta però la notizia apparsa sul sito online del settimanale Oggi e riportata ieri con grande evidenza in apertura da Dagospia se vera in tutti i suoi meticolosi dettagli potrebbe veramente sconvolgere l'intero impianto accusatorio che punta esclusivamente su Massimo Bossetti - mostro perfetto. Ovvero, come avevano detto i Ris «con un Dna (quello scoperto sugli slip di Yara, ndr) dal profilo completo e senza margine di errore». In sostanza non è bastata la donna bergamasca che ha fatto mettere a verbale di aver visto Bossetti con la «bambina» in più occasioni in una macchina posteggiata a Brembate Sopra a partire dal settembre 2010. Ed evidentemente non è bastato lo scivolone - clamoroso per tutti noi, ma devastante per i genitori di Yara - sul video del furgone del muratore quarantenne che qualche giorno fa Libero ha spiegato per primo essere stato diffuso apposta dai Ris e dalla Procura «a fronte di pressanti e numerose richieste di chiarimenti della circostanza emersa». Dopo tutto questo ora si scopre che sulla giacca della tredicenne di Brembate ci sono addirittura delle macchie di sangue. E secondo www.oggi.it appartengono a Silvia Brena, una delle insegnanti di ginnastica artistica di Yara. Precisiamo. Si è sempre saputo che Silvia Brena, ora venticinquenne, era l'unica persona - oltre a Massimo Bossetti - ad aver lasciato il suo Dna su un indumento di Yara, precisamente sulla manica del giaccone. E infatti, sia lei che il fratello, che quel giorno si erano scambiati degli sms, erano stati intercettati, ma poi esclusi dal caso perché le loro testimonianze e gli spostamenti fatti «erano stati verificati» avevano chiarito i carabinieri. Quel che non si sapeva era che la macchia da cui si era giunti al Dna dell'istruttrice fosse di sangue. Tutte le testimonianze sul giorno della scomparsa della ragazzina dicono che quando era entrata in palestra Yara non aveva la giacca, ma la Brena in tribunale ha sempre ripetuto di non ricordare di averle parlato e di essere andata in un altro piano a fare degli esercizi. Allora quel Dna da dove arriva? «Non lo so - ha dichiarato incessantemente la Brena davanti agli inquirenti e durante la sua testimonianza in tribunale - di quel giorno non ricordo niente». «Non è saliva o altro materiale biologico perché risulta positiva al sangue» sempre secondo Oggi, avrebbe spiegato incalzato dalle domande dei difensori di Bossetti, il capitano Nicola Staiti, uno degli ufficiali del Ris di Parma che ha firmato la relazione su tutte le attività di indagine scientifica. E avendo resistito a tre mesi d'intemperie, alla neve e alla pioggia, si conclude che non possa trattarsi che di una traccia lasciata nelle ultime ore di vita di Yara. «Aveva un profilo complesso - ha aggiunto, sempre parlando della macchia l'ufficiale dei Ris ai legali della difesa -. L'abbiamo trovata perché sul polsino del giaccone c'erano aloni scuri. Così abbiamo scoperto che si trattava di una traccia genetica. Era il Dna della Brena». Ma può essere una traccia lasciata per contatto?, ha chiesto l'avvocato Claudio Salvagni. «Lo escluderei», ha risposto l'ufficiale, «È qualcosa di più corposo». Non sarebbe il caso che qualcuno ora aiuti Silvia Brena a sforzarsi al massimo per ricordare?
Delitto Yara: Il capo dei Ris e lo strano doppio incarico, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano del 6 novembre 2015. Il comandante dei Ris di Parma, Giampietro Lago, ha lavorato sul caso diYara Gambirasio in una doppia veste. Uomo dell'Arma e biologo di fiducia del pm. Incassando, oltre al normale stipendio, un'altra «liquidazione» che né l'interessato né la Procura di Bergamo intendono rivelare. Mentre Lago guidava il reparto di investigazione scientifica che dava la caccia al killer della 13enne, aveva infatti ottenuto un incarico dalla titolare della stessa inchiesta, Letizia Ruggeri, per «espletare consulenza tecnica genetica». Come chiarisce a Libero il pubblico ministero, Lago è stato scelto in qualità di scienziato, come se fosse un vero e proprio perito esterno. Una decisione analoga ha premiato la competenza del laboratorio di genetica forense dell'Università di Pavia, il cui responsabile è Carlo Previderè: anche lui ha dovuto scandagliare le tracce di ignoto 1, che secondo l'accusa corrispondono al profilo genetico del muratore di Mapello, Massimo Bossetti. Yara era scomparsa fuori dalla palestra di Brembate Sopra, Bergamo, il 26 novembre 2010 ed è stata trovata cadavere tre mesi dopo, in un campo a Chignolo d' Isola. Ricorderete. Per scovare il colpevole era stata avviata una ricerca a tappeto sul Dna rinvenuto sul corpo della vittima: una sfida difficile ma stimolante, tanto che il dottor Previderè ha accettato l'incarico di consulenza facendosi pagare solo le spese vive. È successa la stessa cosa col comandante dei Ris? Quest'ultimo, per effettuare approfondimenti, ha avuto carta bianca dal pm. Come scrive lui stesso in una relazione depositata negli atti dell'inchiesta, il magistrato gli ha concesso di «utilizzare le strutture del Ris e, ove necessario, anche altre strutture, pubbliche o private, anche al di fuori del territorio nazionale» e di «avvalersi per gli spostamenti del mezzo proprio» e di altri «ausiliari tecnici». L'indagine del dottor Lago è stata delicatissima: doveva ricavare «ogni informazione tecnicamente possibile dal materiale genetico estratto dai reperti (...) relativamente al profilo della vittima e al profilo maschile individuato come "ignoto 1" con particolare riferimento a dati diversi da quelli già tipizzati dal Ris di Parma». Un lavoraccio. Infatti Giampietro Lago, tenente colonnello dei carabinieri, biologo, dottore in scienze forensi e comandante dei Ris si è avvalso di strutture «specializzate e in particolare la "The George Washington University - Department of ForensicSciences" per le applicazioni sperimentali sulla determinazione dei tratti somatici» e l'università degli studi di Firenze «per le applicazioni relative alla tipizzazione del mtDna da traccia complessa (degradazione e mistura)». L' incarico a Lago è stato conferito il 26 settembre 2011 negli uffici della Procura di Bergamo, e si è messo al lavoro due giorni dopo, a Parma. «Ho fatto una consulenza tecnica come mi è stato chiesto dall' ufficio conferente l'incarico» spiega a Libero il comandante dei Ris. Domanda: è stato pagato per questa consulenza? «Non intendo rispondere, perché riguarda la mia persona e l'ufficio che mi ha dato l'incarico». Non si sbottona neanche il procuratore della Repubblica di Bergamo, Francesco Dettori: «Mi astengo da qualsiasi commento, anche perché è in corso il dibattimento. Parliamo di cose arcinote, ma la sede per discuterne è il processo». D'accordo, ma si può sapere se il dottor Lago è stato pagato anche come consulente? «Non commento» ribadisce Dettori. Letizia Ruggeri, invece, sottolinea a Libero che «ho conferito l'incarico al dottor Lago come biologo, quindi come consulente tecnico sugli aspetti che avete sentito. Quanto attiene alla liquidazione è di rilievo soltanto per i diretti interessati, non vedo un interesse pubblico alla conoscenza di questo aspetto». Tutte le spese per il caso di Yara sono elencate nell' ultimo di 60 faldoni che sono stati depositati come atti dell'inchiesta. Snocciola tutti gli interventi effettuati e i relativi costi. Costi che sono stati sostenuti dallo Stato. Matteo Pandini
La risposta - In giornata è arrivata la risposta a Giampetro Lago a Libero: "Il tenente colonnello Giampietro Lago, comandante del Ris di Parma, non ha percepito, quale consulente tecnico nominato d’ufficio in data 22 settembre 2011 dalla procura della Repubblica di Bergamo, alcun compenso in denaro. L’ufficiale, pur avendone legittimo titolo, non ha avanzato nessuna richiesta di liquidazione sia per l’attività svolta sia per le spese sostenute": lo dichiara il Raggruppamento carabinieri investigazioni scientifiche in relazione all’articolo del nostro quotidiano.
13 NOVEMBRE 2015. QUATTORDICESIMA UDIENZA. PARLANO PAOLA ASILI E ROBERTO GIUFFRIDA.
Yara, la biologa a processo. Quei 20 cromosomi (su 21) identici al figlio di Guerinoni. Il racconto a processo di come si capì che l’autista di Gorno era il padre di «Ignoto 1», scrive Giuliana Ubbiali su “Il Corriere della Sera" del 14 novembre 2015. Hanno un legame così stretto che i loro Dna sono diversi solo per un marcatore, una particella, su 21 confrontati. Ignoto 1, il presunto killer di Yara identificato poi in Massimo Bossetti, ha un forte vincolo genetico con Pierpaolo Guerinoni. Per lui è uno sconosciuto, ma è figlio di Giuseppe, l’autista di Gorno morto nel 1999 che per la scienza è anche il padre dell’imputato, un figlio illegittimo. Polizia e carabinieri devono aver sgranato gli occhi. Era il 3 novembre del 2011, nove mesi dopo il ritrovamento del corpo della tredicenne. Si sono confrontati: «Non è un errore? Siamo sicuri?». Sotto mano avevano le tabelle con le sequenze del Dna di Ignoto 1 e di Pierpaolo Guerinoni ricostruite in 21 coppie di numeri, i marcatori. Solo una riga era segnata in rosso: l’unica differenza. Si sono chiesti se fosse uno sbaglio. Se, cioè, in realtà non avessero trovato Ignoto 1. Invece no, Pierpaolo non c’entra nulla. Basta un marcatore diverso per dire che i profili genetici sono di due persone. Ma basta anche per essere certi che sono parenti strettissimi.
«Fratello solo per via paterna», hanno spiegato a processo Paola Asili, biologa della polizia scientifica di Roma, e il collega Roberto Giuffrida del gabinetto regionale della polizia scientifica di Milano. Loro hanno confrontato il Dna di Ignoto 1 (estratto dal Ris dagli slip e dai leggings della vittima) con 5.700 profili genetici. Un lavoro segnato da tre tappe importanti. Il 21 ottobre del 2011, quando dai test ai frequentatori della discoteca Sabbie Mobili vicina al campo del ritrovamento ne spunta uno interessante. «Con lo stesso aplotipo y di Ignoto 1», spiegano. Tradotto significa che i due Dna appartengono alla stessa linea paterna che viene trasmessa solo ai maschi. «Un risultato importante per restringere il campo». Così sono stati sottoposti al test i parenti (50) del ragazzo. Fino a quando, dato ancora più significativo, il 3 novembre arriva l’esito sul Dna di Pierpaolo Guerinoni: «Molto simile a quello di Ignoto 1. Più del fratello Dario, che presenta 6 differenze». Da qui il rompicapo: chi è Ignoto 1 per i Guerinoni? «La porta sembrava chiusa perché il padre Giuseppe è defunto». Poi, «con la totale collaborazione della famiglia che ha fornito delle cartoline», è stato ricostruito anche il Dna dell’autista estraendolo dai francobolli. La terza tappa importante è a maggio 2012 quando «emerso che Giuseppe Guerinoni è il padre biologico di Ignoto 1». Le controverifiche sono state affidate al calcolo biostatistico del profilo genetico sulla base di quelli dei figli e, più tardi, all’esame sulla salma dell’autista. Ma di questo si parlerà alla prossima udienza, mercoledì. Gli avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, hanno chiesto lumi ai biologi: «Pierpaolo poteva essere il padre di Ignoto 1?». Il confronto tra i Dna aveva indicato un legame stretto, ma non quale fosse. «In teoria sì - la risposta -. Ma non risulta abbia figli». «Nemmeno illegittimi?», rilanciano gli avvocati. «Ma questa - stoppano i testimoni - non è nostra competenza». Lo escluderanno le verifiche successive, da cui è emerso il legame padre-figlio tra Giuseppe Guerinoni e Ignoto 1, tre anni dopo Massimo Bossetti.
"Sui guanti di Yara un profilo maschile diverso da Bossetti", scrive Bergamo News” il 14 novembre 2014. "Sui guanti ritrovati in tasca a Yara abbiamo rinvenuto un dna femminile e uno maschile, assolutamente diverso da Ignoto 1". Lo ha confermato in aula Roberto Giuffrida, biologo del gabinetto della Polizia scientifica regionale nel corso dell'udienza di venerdì 13 novembre di fronte alla corte presieduta dal giudice Antonella Bertoja. L'agente ha parlato dopo Paola Asili, biologa della sezione Indagini genetiche forensi della Polizia di Roma. I due esperti hanno ricostruito le fasi dell'indagine svolta per arrivare all’individuazione di Giuseppe Guerinoni, padre naturale di Massimo Bossetti, partendo dalle tracce di dna ritrovate sugli slip e sui leggins di Yara: "Erano abbondati e di ottima qualità - ha spiegato Paola Asili - le abbiamo confrontate con i 5750 campioni salivari raccolti nella zona di Brembate nei mesi successivi la scomparsa della ragazzina. In considerazione dei grandi numeri e dell’enorme lavoro, è stato deciso di controllare il cromosoma Y che dà la linea paterna. Siamo così arrivati a Damiano Guerinoni, il ragazzo che frequentava la discoteca "Sabbie Mobili", nei pressi del campo di Chignolo e da lì a Giuseppe Guerinoni, padre di Massimo Bossetti, suo figlio illegittimo". Roberto Giuffrida ha parlato anche dei reperti raccolti nel campo di Chignolo dove è stata ritrovata Yara: "Li abbiamo divisi in due gruppi - ha spiegato il biologo - quelli prelevati sul campo e quelli sul corpo di Yara. Sui guanti che la ragazzina aveva in tasca abbiamo rinvenuto una traccia di dna femminile e una maschile, che posso afermare con certezza non sia di Bossetti. A un centinaio di metri dal corpo, invece, in quel campo, è stata trovata una salviettina impregnata di sangue e la traccia ematica era maschile, ma anche in questo caso la pista era senza sbocchi". Prima della deposizione dei due agenti, in aula i toni si sono accesi per la richiesta degli avvocati di Bossetti, Salvagni e Camporini, sugli approfondimenti degli esami svolti per arrivare al profilo di Ignoto 1.
Bossetti, battaglia sui dati grezzi del Dna. Alla difesa soltanto i 12 profili di Ignoto 1. Dopo le tante polemiche scaturite in settimana, dal confezionamento del filmato del furgone al video dell’imputato inginocchiato al momento dell’arresto, il processo a carico di Massimo Bossetti, accusato del rapimento e dell’uccisione di Yara Gambirasio, è ripreso venerdì 13 novembre con l’ennesima udienza. E la tensione è altissima, scrive “L’Eco di Bergamo”. Ecco la cronaca dell’udienza per come si sta sviluppando. I due avvocati difensori di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, hanno subito sollevato il quesito relativo ai dati grezzi del Dna chiedendo che siano recuperati tutti i dati grezzi relativi al Dna rinvenuto sugli slip e sui leggings di Yara, anche quelli che avevano dato esito negativo. Per i difensori, infatti, pure questi «necessitavano di una spiegazione scientifica» Il pm Letizia Ruggeri ha risposto che tutti i dati grezzi non si possono recuperare e che ci si può limitare ai dodici profili in cui compare il Dna di Ignoto 1, che per l’accusa è l’imputato. I dati grezzi sono quelli che attestano il procedimento mediante il quale il Ris è giunto a stabilire che il Dna trovato sugli slip e sui leggings di Yara appartiene a Ignoto 1. Tra accusa e difesa sono volate parole grosse, tanto per dare un’idea il pm a un certo punto ha sbottato «Queste cose andate stasera a dirle in tv», probabilmente riferendosi alla grande esposizione mediatica in televisione della difesa, e la difesa ha replicato con un «e voi consegnate il video tarocco» con evidente riferimento al filmato del furgone di Bossetti. Botta e risposta che ha provocato commenti a voce alta del pubblico, tanto che il giudice Antonella Bertoja ha minacciato di ordinare le porte chiuse se continuerà il brusio. Parole forti quelle di Salvagni che ha sottolineato: «Se dovesse essere certificata la mancanza di tutti i dati grezzi del Dna sarebbe leso il diritto di difesa. Sono sconvolto per il caos che è regnato nella conservazione dei dati». I giudici si sono ritirati in Camera di Consiglio per decidere se dare l’ok alla richiesta della difesa o se sposare la linea del pm. La difesa, nel suo quesito, chiedeva che gli approfondimenti riguardassero «tutte» le tracce trovate sui due indumenti, anche quelle che avevano dato esito negativo. Per i difensori di Massimo Bossetti, infatti, anche queste "necessitavano di una spiegazione scientifica». E la decisione è stata che saranno messi a disposizione della difesa i dati dei dodici profili in cui compare il Dna di Ignoto 1, come voleva l’accusa, più una piccola integrazione. I consulenti dei Ris di Parma presenti hanno comunicato che ci vorranno due settimane per consegnare tutti i dati richiesti. A causa dello sciopero dei penalisti in programma dal 30 novembre al 4 dicembre, e al quale i difensori di Bossetti aderiranno, salteranno le udienze del 2 e 4 dicembre e si riprenderà l’11 dicembre. L’imputato, come di consueto presente in aula (un po’ tirato, in polo-felpa bordeaux e jeans), non ha avuto nulla da obiettare. Intanto la tensione si è smorzata un po’. È stato anche deciso il calendario fino a marzo: udienze di venerdì e talvolta anche di mercoledì.
Meredith e la regola del 3, ora Bossetti spera, scrive Luca Telese su “Libero Quotidiano” del 9 novembre 2015. «Avvocato, lei mi chiede di risponderle sui test che riguardano il campione G20. Ma io in questo momento non posso...».
- «Cerchi tra le sue carte, fra i dati che ci avete fornito voi stessi».
- «Purtroppo adesso non sono in grado di farlo. Ho bisogno di tempo. Quei dati vengono immagazzinati nel nostro sistema insieme ad altri dati, che appartengono a pratiche relative ad altri processi. Adesso non siamo in grado di distinguere, ci serve tempo».
Così parlò Fabiano Gentile, superesperto dei Ris per gli esami sul Dna.Non solo a caldo, dunque, durante l'udienza di venerdì pomeriggio quando per la prima volta - durante un controinterrogatorio della Difesa di Massimo Bossetti - i due ufficiali scientifici dei carabinieri aveva chiesto una sospensione per provare a trovare il modo di rispondere in modo esatto alle domande agli avvocati. Ma anche alla ripresa, in serata, prima che a fine udienza la Presidente Bertoja, con un ennesimo colpo di scena, proponesse una nuova sospensione e un accordo di tregua: la difesa ha sette giorni di tempo per scrivere le sue domande, i Ris altrettanto per rispondere. Così è suonato il gong, ma proprio sul più bello del match, mentre la partita è aperta e ancora in corso. La Difesa è convinta di aver trovato la prova di quello che ripete da un anno, l'accusa frena i dubbi rispondendo che alla fine di questo «contest» tutto sarà chiarito. Ma cosa vuol dire quella frase sibillina dell'ufficiale dei Ris sui dati non reperibili? Perché i Ris prendono tempo? È solo una tattica o ci sono delle ragioni? Per capire cosa sta accadendo davvero, in queste ore concitate è necessario provare a rispondere a queste domande. Enrico Mentana, parlando del caso Yara nel suo tiggì, pochi giorni fa, ha coniato questo titolo carlogaddiano: «Quel Pasticciaccio brutto dei furgoni dei Ris». Bene, quello che si è verificato in aula venerdì, durante la battaglia sul Dna di ignoto uno è un nuovo pasticciaccio ancora più complesso, ma forse anche un punto di svolta del processo. Riassunto delle puntate precedenti per chi se l'è perse: i due ufficiali dei Ris che hanno fatto la perizia più importante, quella sugli indumenti di Yara - Nicola Staiti e Fabiano Gentile - mentre erano controinterrogati dalla difesa, hanno alzato le mani dicendo che non erano in grado di rispondere alla domande sugli stessi dati che avevano fornito, il cosiddetti Raw data degli esami sul Dna, la «brutta copia» dei test decisivi che hanno incastro Bossetti. I due super esperti dei Ris, che fino a quel momento erano stati chiari ed efficaci, si sono come impallati mentre venivano interrogati sul numero di esami che avevano fatto sul campione G20, quello ormai noto a tutti, il frammento di mutandina dove gli esperti dei carabinieri dicono di aver trovato il dna del muratore. Fino a venerdì sopravviveva una leggenda metropolitana diffusa dall' accusa, e scritta persino in alcuni documenti ufficiali. Uno dei motivi per cui quell' esame era attendibile, dicevano gli inquirenti, è che era stato ripetuto, con risultati concordi, in ben quattro diversi laboratori (quelli che si erano occupati delle diverse analisi del caso). Ebbene, Staiti e Gentile ieri hanno dissolto questa leggenda. Domanda di Salvagni: «Siete voi l'unico laboratorio che ha lavorato sul campione G20?». Risposta di Staiti: «Sì, solo noi». Quindi gli altri laboratori non possono aver lavorato né sulla materia dei reperti, né sui dati grezzi delle analisi, ma solo sulla sequenza del Dna isolata dal nucleo scientifico dei carabinieri. E qui si arriva al primo problema che, comunque la si pensi sul caso, tutti si devono porre. I Raw data studiati da Marzio Capra, il superesperto della difesa (a sua volta un ex ufficiale dei Ris, un vero mago dei numeri e dei digrammi) secondo il genetista, dicono che i carabinieri hanno realizzato in laboratorio «solo» quattro «Amplificazioni». Ovvero: quattro diversi esami per mettere a fuoco la sequenza del Dna. Persino su quel «solo» c' è stata battaglia: un aggettivo contestato con una obiezione dal Pubblico ministero Letizia Ruggeri perché lo trovava già tendenzioso. E aggettivo perfettamente calzante invece, secondo Capra, perché a suo parere quel numero limitato di prove metterebbe in discussione la validità dell'esame. Proviamo a capire perché. Gli avvocati Claudio Camporini e Claudio Salvagni brandiscono da mesi un documento importante, partorito da un altro processo. Si stratta della sentenza di Cassazione sul processo che ha coinvolto Raffaele Sollecito e Amanda Knox. In quel testo, che per ora fa giurisprudenza, i magistrati dell'alta Corte hanno fissato un principio di garanzia, per rispondere ai tanti problemi aperti dai molteplici casi di errore nella fase analitico emersi in questi anni (a partire dal ribaltamento della prova del reggiseno, grazia a cui l'avvocato Giulia Buongiorno ha vinto il processo). Secondo la Cassazione, perché un esame del Dna sia valido deve essere ripetuto almeno tre volte. Qual è il grande problema dello slip di Yara, il reperto che incastra Bossetti? Che quando è stato esaminato il muratore di Mapello, come è noto, non era nemmeno stato individuato. Quindi l'esame non è avvenuto (non era possibile) né alla presenza dei suoi avvocati, come si dice, «in garanzia». Ma nemmeno alla presenza dell'uomo che all' epoca era indagato, l'operaio Mohammed Fikri, che dopo quella data è stato riconosciuto innocente, prosciolto, e risarcito per ingiusta detenzione. Chi e cosa, dunque, si chiedono gli avvocati, può garantire Bossetti dall' idea di un possibile errore? Contrariamente a tutte le altre prove, quel test del dna non è stato nemmeno filmato. È diventato, insomma, un dogma di fede dei Ris. Ed è per questo stesso motivo che la Corte ha riconosciuto agli avvocati il diritto di visionare i dati grezzi. Incalzati sulla base dalla dinamica che Capra ha ricostruito su quei documenti, gli uomini dei Ris hanno preferito non rispondere alle domande sul numero di prove effettuate. Prima di quel momento, però, avevano spiegato le loro metodologie, raccontando di aver adoperato otto diversi kit di analisi, «i migliori reperibili sul mercato». Vero: ma quelli reperibili all' epoca. I kit più moderni - ci hanno spiegato sempre Staiti e Gentile - arrivano ad individuare oltre venti elementi distintivi di un Dna. Quelli che hanno adoperato i Ris all' epoca, perché gli altri non esistevano ancora, non più di 17. Ma per tracciare tutta la sequenza servivano almeno tre esami: uno che disegnasse la struttura del Dna in almeno tredici elementi, uno che stabilisse il sesso, uno che individuasse l'aplotipo X, ovvero quello che nella sequenza distingue l'identità che proviene dal genitore. I Ris, agendo correttamente, ma seguendo la priorità di allora (che era tracciare un profilo di un possibile sospetto), hanno fatto tutto questo con quattro esami, senza porsi il problema che tre anni più tardi avrebbero dovuto rispondere ai diritti di un indagato. E adesso quella risposta su «solo» quattro esami diventa cruciale: se dicono che sono «solo» quelli salta il processo, se dicono che sono di più ma non risultano dai Raw Data, rischiano che salti lo stesso (perché non li hanno forniti alla difesa malgrado la prescrizione della presidente). E qui arriviamo agli altri risultati, e alla difficoltà di distinguerli, che Capra chiarisce con un esempio illuminante. «È legittimo che i Ris stessero facendo anche altre analisi e anche su altri casi, e anche in contemporanea. È come se tu porti la macchina dal meccanico, e scopri che quello adesso lavora sulla tua Multipla, e in serata si dedica alla Mercedes del tuo vicino di casa...». E allora? «Allora - spiega Capra - il problema è che deve avere ben chiare e distinte tutte le operazioni: se vai a riprendere la macchina e tu gli chiedi se ti ha sostituito la frizione, non ti può rispondere: so che ho cambiato una frizione, ma adesso non so dirti se alla tua macchina o ad un'altra. Perché nel primo caso ha fatto bene - conclude Capra - nel secondo ha fatto un pasticcio». Ecco, adesso i Ris dovranno chiarire come hanno lavorato senza venire meno al registro fatture dei Raw Data. Tutti pensano a Bossetti, ma quello che accade in questa officina meccanica farà scuola sui casi dei prossimi venti anni.
Ci risiamo, scrive Giangavino Sulas per “Oggi”. Dopo aver consumato tutto il materiale genetico lasciato da Ignoto 1 sugli slip di Yara, pregiudicando la possibilità di ripetere altre analisi e quindi, se si rendesse necessario, una eventuale «superperizia», anche la seconda traccia, quella scoperta sul polsino destro del giaccone di Yara con il Dna di Silvia Brena, una delle istruttrici di ginnastica della palestra di Brembate, è andata distrutta. Non è più possibile analizzarla per sapere con certezza da quale materiale biologico provenga. «Dubbi sulla saliva, positiva al sangue. Era una traccia, per quanto circoscritta, di un materiale corposo che conteneva sangue». Il capitano Nicola Staiti, uno degli ufficiali del Ris di Parma che ha firmato il testo delle analisi scientifiche sul corpo e sugli indumenti di Yara, ha ammesso con fatica che: «L’approfondimento decisivo sulla traccia lasciata da Silvia Brena non è stato possibile perché per risalire al Dna sono state distrutte le proteine». Come dire, o stabilivamo chi l’aveva lasciata oppure da quale fluido biologico provenisse. «Ma», ha rivelato, «analisi indicative sono state fatte in quattro parti del giubbotto vicine alla traccia più importante (quindi ce n’erano altre, ndr), dove avevamo notato degli aloni che ci hanno spinto ad approfondire. E in quei punti abbiamo scoperto la positività al sangue. Non ci sono dubbi: o è sangue o contiene anche sangue». Al di là di questo accertamento i carabinieri del Ris non sono andati. Eppure, a quanto risulta, due sole persone hanno lasciato sul corpo di Yara tracce ematiche. Massimo Bossetti e Silvia Brena, giovane e avvenente istruttrice di ginnastica ritmica nella palestra di Brembate Sopra che Yara frequentava. Il primo è in carcere da un anno e mezzo ed è l’unico imputato per omicidio. La seconda invece è stata «attenzionata» (in pratica hanno messo sotto controllo il suo telefono e quelli del fratello e del padre) per un mese e poi è uscita di scena. Nessun sospetto sul suo conto. «Questa Corte d’Assise sta celebrando il processo nei confronti di Massimo Bossetti. Non si cercano piste alternative», ha detto il presidente Antonella Bertoja. Sono d’accordo anche i difensori di Bossetti, ma le piste alternative loro le stanno cercando, a maggior ragione dopo che il Ris ha detto che Silvia Brena avrebbe lasciato del sangue sul giaccone di Yara. Una traccia di un liquido biologico corposo, pieno di proteine che hanno resistito per tre mesi a pioggia, neve e vento nel campo di Chignolo. E non escludono, i difensori di Bossetti, di chiedere che la Brena un giorno torni in aula a fornire qualche spiegazione non solo sui suoi dieci «non ricordo» scanditi quando è comparsa come testimone, ma anche e soprattutto per spiegare come mai il suo Dna contenente sangue sia rimasto impresso sul polsino destro del giaccone della vittima. Una traccia importante, se il suo picco ha raggiunto gli 8 nanogrammi mentre il Dna di Bossetti sugli slip supera di poco un solo nanogrammo. Dovranno tornare in aula anche gli ufficiali del Ris a spiegare quante volte hanno ripetuto l’esame del Dna di «Ignoto 1» e quali kit (ossia i reagenti) abbiano usato per estrarlo. Dopo aver detto e spiegato infatti che il Dna lasciato da Bossetti «è perfetto» e non lascia spazio a dubbi («Anche se», ha detto il capitano Staiti, «in base alla mia lunga esperienza sulle violenze sessuali, non mi era mai capitato di trovare un Dna senza sperma negli slip di una donna»), sono andati in grave difficoltà quando hanno dovuto spiegare come è stato ottenuto quel risultato. «Quante amplificazioni del Dna avete fatto? Quali kit avete usato?», hanno chiesto i difensori di Bossetti. «Queste domande richiedono un enorme sforzo mnemonico. Adesso non siamo in grado di ricordare», è stata la risposta dei due ufficiali. In realtà la risposta a queste domande gli avvocati la conoscono già perché Marzio Capra, il loro consulente scientifico, ha esaminato i cosiddetti «dati grezzi», cioè la brutta copia degli esami fatti nei laboratori del Ris. Tanto è vero che l’avvocato Camporini si è permesso una battuta: «Noi lo sappiamo. Aspettiamo le vostre risposte che saranno sorprendenti…». Il presidente della Corte infatti ha concesso una settimana di tempo ai difensori di Bossetti per formulare per iscritto le domande e agli ufficiali del Ris un tempo ragionevole per dare le risposte.
Se Yara non è stata rapita, non è stata trascinata con forza su un automezzo e, come sostiene il Pm Letizia Ruggeri, è salita volontariamente perché conosceva chi si è offerto di accompagnarla a casa, chi può essere quest’uomo al quale ha dato tanta fiducia? Continua Giangavino Sulas per “Oggi”. Oltre a quello di Massimo Bossetti, c’è un nome che è comparso marginalmente nelle indagini. A Brembate è sulla bocca di molti. E basta dare un’occhiata più attenta ai filmati delle telecamere di sicurezza distribuiti a giornali e televisioni dai carabinieri per notare che nelle stesse ore in cui hanno inquadrato il camioncino di Bossetti si scorge un furgone che incrocia quello del muratore di Mapello facendo lo stesso percorso attorno alla palestra. Gli avvocati di Bossetti stanno lavorando anche intorno a queste immagini, con indagini difensive per ora segretissime. Il pool di consulenti avrebbe individuato il colore del furgone e anche le scritte pubblicitarie sulle fiancate che aveva nel 2010 (adesso sono cambiate). L’uomo messo nel mirino dalla difesa di Bossetti doveva ispirare cieca fiducia a Yara. Perché? Per il lavoro che faceva, per il luogo dove lavorava e per il furgone di cui poteva disporre. Vivrebbe a poca distanza dalla palestra, spesso si lascerebbe andare ad apprezzamenti sconci verso le ragazze e pare si fosse invaghito di una donna molto vicina a Yara. In realtà l’uomo, sentito dagli inquirenti, ha dimostrato di avere un alibi ed è subito uscito dalle indagini. Ma il suo Dna è stato confrontato con quello emerso dai peli e capelli trovati sul corpo di Yara rimasto finora di un ignoto? È stato analizzato il furgone che guidava fra le 18.30 e le 19.35 del 26 novembre 2010, quando un testimone lo ha visto tornare a casa? È stata perquisita la sua abitazione? Conosce Bossetti? Ha facilmente accesso alla palestra? Forse c’è stato un buco nelle indagini, perché i Carabinieri, concentrati sul camioncino di Bossetti, hanno ammesso di aver trascurato tutti gli altri automezzi che appaiono nei video. Il colonnello Giampietro Lago, davanti alla Corte, ha detto che dai filmati realizzati da quattro telecamere su cinque è impossibile stabilire che il cassonato inquadrato sia quello di Bossetti. Tanto è vero che dopo averli esaminati e riesaminati li hanno scartati. E il Pm Letizia Ruggeri si è affrettata dire che non sono stati inseriti nel fascicolo processuale. Ma hanno accertato a chi appartengono tutti gli altri veicoli? L’hanno fatto i consulenti della difesa e pare siano imminenti sorprese clamorose. Il camion di Bossetti infatti appare chiaramente solo nel video della telecamera della Polynt 2 quando passa e ripassa nel giro di 40 secondi. Ma i video scartati, ha rivelato sempre il colonnello, sono stati distribuiti alle televisioni per «esigenze di informazione». La polemica è scoppiata su questo: quali esigenze di informazione? Perché con quei video, reali ma non utilizzabili per l’inchiesta, si è costruito un collage per creare una tesi molto suggestiva. Qualunque telecamera lo inquadrasse, su quel camioncino c’era sempre Bossetti. Ma quei video sono «illeggibili» e quindi non sono in grado di dimostrarlo. Così però è stata condizionata l’opinione pubblica. E probabilmente anche la giuria popolare.
Caso Yara, soldi alla moglie di Bossetti per le interviste. Dal tormento alle lamentele per le trattenute. Emerge da intercettazioni agli atti del processo, riportate da L'Eco di Bergamo. "Marita non se la sente" dice la cognata. E il fratello la convince così: "Se eri Berlusconi non la facevi. Prendi i soldi e basta". Poi, a colloquio in carcere col marito Angelo, la signora spiega: "Me ne hanno dati 17 dei 25 che erano, ottomila euro tutto di tasse". E l'imputato: "Beh, è tutto guadagno", scrive Paolo Gallori su “La Repubblica” 11 novembre 2015. Anche Marita Comi, moglie di Massimo Giuseppe Bossetti, il carpentiere di Mapello alla sbarra per lo stupro e l'assassinio di Yara Gambirasio, ha accettato soldi per rilasciare interviste esclusive. Emerge da intercettazioni agli atti del processo, riportate da L'Eco di Bergamo. Ma c'è una differenza rispetto alla vicenda della madre e della sorella di Veronica Panarello, madre e presunta assassina del piccolo Loris Estival, passate per denaro da convinte colpevoliste ad ancor più convinte innocentiste durante Domenica Live su Canale Cinque. Tra di loro discutevano di occasione da non perdere "per farsi uno stipendio". Nel caso di Marita Comi, dalle intercettazioni si percepisce un disagio, superato per il bisogno del denaro con cui sostenere le spese legali del procedimento a carico di Bossetti. Marita non se la sentiva, ma i soldi delle tv e dei giornali potevano finanziare la difesa del marito e hanno comprato anche il suo desiderio di riserbo. Per questo, forse, dopo il travaglio costatole il metter da parte ogni ritrosia, alla signora Bossetti è apparsa un'autentica ingiustizia scoprire a quanto ammontassero le trattenute sugli emolumenti concordati. Al tormento di Marita, pressata dalle offerte di interviste a pagamento, fa riferimento una conversazione del 23 settembre 2014, intercorsa tra suo fratello Agostino Comi e la cognata Nadia. Marita, dice Nadia ad Agostino, non vuole farsi intervistare "perché non se la sente". Agostino allora incalza Marita perché accetti, altrimenti non avrebbe potuto coprire le spese legali: "Questa qua è un'occasione, prendi i soldi e basta". Marita prova a divincolarsi: "Dipende tutto da me?". E suo fratello: "Se eri Berlusconi non la facevi, ma dato che non siamo Berlusconi come famiglia, sarà il caso di tirar su in tutte le maniere possibili. A loro gli interessa che parli per dieci minuti. Le domande tutte concordate prima, più di così, fischia...". Allora Marita parla. Ed ecco il dialogo intercettato il 13 dicembre 2014. Marita è a colloquio con Massimo Giuseppe Bossetti in carcere. I coniugi accennano alle difficoltà economiche seguite all'arresto e alle conseguenti e ingenti spese legali. Dalla conversazione a un certo punto si capisce chiaramente che la donna fa riferimento alle interviste concordate dietro compenso e si lamenta della tassazione elevata sul lordo: "Sai quanto mi hanno dato? - dice Marita al marito - Diciassette, dei 25 che erano, ottomila euro tutto di tasse... trattenute... Questa qua di Matrix (da cui Marita fu intervistata in esclusiva il 9 ottobre 2014, ndr) me li hanno già tirati giù e mi hanno dato diciassettemila e sei". Poi, prosegue la signora, "quello di Gente me ne hanno dati venti, erano venticinque, me ne hanno dati venti e dovrò pagare io duemila e qualcosa, quando faccio la dichiarazione. Capito?". Massimo Giuseppe Bossetti la invita a guardare il bicchiere mezzo pieno: "Beh, è tutto guadagno". Ma a Marita non va proprio giù: "Sì, però dici caspita, partiti da venticinque!". Bossetti conclude consigliandole di far preparare dall'avvocato una lettera di sollecito di pagamento.
Quelle interviste pagate. Dal piccolo Loris a Bossetti. Il caso del piccolo Loris Stival, il bambino ucciso in provincia di Ragusa, ha recentemente dimostrato come la legge dell’infotainment abbia superato ogni limite etico e deontologico, con parenti dell’indagata Veronica Panarello (la madre del piccolo) che sarebbero stati addirittura pagati per rilasciare interviste televisive. Ne dava conto «Il fatto quotidiano» lo scorso 16 ottobre, carte dell’inchiesta alla mano, scrive Vittorio Attanà su “L’Eco di Bergamo” l’11 novembre 2015. «Carmela Anguzza e Antonella Panarello, rispettivamente madre e sorella di Veronica – osservano gli inquirenti – hanno trovato un’ottima risorsa economica nei proventi derivanti dalle loro partecipazioni ai programmi televisivi», addirittura mutando totalmente il contenuto delle dichiarazioni rese davanti alla polizia giudiziaria, dato che «in presenza delle telecamere fanno dichiarazioni totalmente contrastanti». Nelle carte di quell’inchiesta è registrata una telefonata tra la Anguzza e Barbara D’Urso in cui la popolare conduttrice di Domenica Live, su Canale 5, insiste per avere una partecipazione della madre dell’indagata. E avrebbe dettato pure la linea: «Altrimenti l’opinione pubblica si convince sempre più che Veronica è colpevole». Alla fine all’ospite «vengono offerti 2 mila euro». Quando invece a chiamare è il produttore di Segreti e Delitti «la madre viene informata che la prima volta a Domenica Live aveva percepito 3.500, la seconda 2.000 e quindi lui le darà direttamente 3 mila euro». Non sembra essere andata tanto diversamente – almeno dal punto di vista retributivo – per il caso Bossetti. Stando alle intercettazioni, riviste e trasmissioni tv avrebbero sborsato migliaia di euro per ottenere servizi esclusivi e interviste. È il 13 dicembre 2014 e Bossetti sta parlando in carcere con la moglie Marita. Il colloquio è intercettato. I coniugi accennano alle loro difficoltà economiche, dovute all’arresto di Massimo e alle inevitabili e ingenti spese legali che si avvicinano, anche soltanto per estrarre copia degli incartamenti e consentire agli avvocati di studiare il caso. Si evince chiaramente che la moglie di Bossetti ha accettato di farsi intervistare dietro compenso economico, tant’è che si lamenta pure della tassazione elevata sul lordo: «Sai quanto mi hanno dato? Diciassette, dei 25 che erano, ottomila euro tutto di tasse... trattenute...», protesta Marita, che poi aggiunge: «Questa qua di Matrix (venne intervistata in esclusiva il 9 ottobre 2014, ndr) me li hanno già tirati giù e mi hanno dato diciassettemila e sei, quello di Gente me ne hanno dati venti, erano venticinque, me ne hanno dati venti e dovrò pagare io duemila e qualcosa, quando faccio la dichiarazione, capito!». «Beh, è tutto guadagno», osserva Massimo. «Si però dici, caspita, partiti da venticinque!», esclama la moglie. Poi Bossetti la invita a dire all’avvocato di «fare una lettera di sollecito per il pagamento». A parte il fatto che sarebbe interessante capire come vengono inquadrate dal punto di vista contrattuale le testimonianze giornalistiche a pagamento (rimborsi spese? consulenze artistiche?) viene spontaneo chiedersi: Marita ha agito a fini di lucro? È dunque una fredda calcolatrice? Sarebbe un giudizio troppo severo. Dalle carte non emerge un atteggiamento venale: accetta di darsi in pasto alla tv, è vero, ma non senza tormento interiore, pressata da più parti e in certo qual modo indotta dalla difficile situazione economica e dalle incombenti e inevitabili spese difensive per il marito. Gli avvocati «le hanno chiesto cosa ha deciso di fare per il coso là, di Roma» dice in una conversazione intercettata il 23 settembre 2014 la cognata Nadia al telefono con suo marito Agostino (fratello di Marita), riferendosi a un’intervista tv da registrare nei giorni successivi – e lei ha detto che non vuole farlo perché non se la sente». Agostino cerca di far ragionare le due donne (che si trovano insieme), accennando al fatto che altrimenti non ci sarebbero più fondi per sostenere le spese vive legate alla difesa di Massimo. «No perché tua sorella è qui, sta piangendo...» spiega Nadia ad Agostino. «O vuoi dargli una mano a Massi – è il rimprovero di Agostino – oppure no, non ci sono storie (...) questa qua è un’occasione, prendi i soldi e basta». Marita si dispera: «Dipende tutto da me?». Poi fratello e cognata danno prova di aver colto in pieno la logica della cronaca-spettacolo: «Ma perché vogliono lei?» chiede Nadia, che poi si risponde da sola: «Se era uno scorfano non la volevano». Il più realista si conferma Agostino: «Che sia quella trasmissione lì o un’altra, quella che vogliono è lei. (...) Se eri Berlusconi non la facevi, ma dato che non siamo Berlusconi come famiglia, sarà il caso di tirar su in tutte le maniere possibili». «Lei sperava di non farla in generale, questa è la verità», sintetizza Nadia. «A loro gli interessa che parli per 10 minuti», conclude Agostino, che aggiunge: «Le domande tutte concordate prima, più di così, fischia...». Le domande non lo sappiamo, il prezzo – stando alle carte – pare proprio che fosse concordato. Del resto l’importante è che lo show prosegua. E ad ogni costo.
Matrix e i silenzi bergamaschi. Bergamospia (si dice, non si dice). Bocche cucite quando arriva Matrix. Che cosa si dice, che cosa si scrive, ma soprattutto cosa non si dice e non si scrive (solitamente) della nostra città. Tra sussurri e grida una raccolta indiscreta, scrive “Bergamo Post” il 12 novembre 2015. Matrix torna a parlare di Massimo Bossetti ma rimbalza contro il muro di gomma bergamasco. Da Brembate Sopra partono addirittura allarmi Facebook allo spuntare delle telecamere: la trasmissione rivela che qualcuno avrebbe anche chiesto al sindaco di rispolverare la celebre ordinanza bavaglio che vietava ai media di sostare in paese. E gli autisti della Val Seriana, che diventarono protagonisti nella caccia alla mamma di Ignoto 1 dispensando interviste a destra e a manca, adesso si cuciono la bocca. Uno, quello che a quanto pare ritrovò d’incanto la memoria e diede la dritta giusta agli inquirenti, non si fa trovare. La moglie allontana l’inviato minacciando di chiamare i carabinieri. L’altro, che vedeva spuntare in ogni frazione le amanti del defunto Guerinoni, brontola che i giornalisti «hanno fatto tanti casini», nega l’evidenza e si allontana in modo brusco. I bergamaschi sono riservati, è il ritornello di questi strani anni. Sarà. Ma certi silenzi, prima e anche dopo che si è parlato, non aiutano a raggiungere la verità.
IL FURGONE DI BOSSETTI E LE STRATEGIE MEDIATICHE DEL NUOVO CIRCO GIUDIZIARIO. UCPI (Unione Camere Penali Italiane) e Osservatorio Informazione Giudiziaria intervengono il 12 dicembre 2015 sulla vicenda del “video” propagandistico e anticipano ulteriori iniziative. Nei giorni scorsi, a partire da un articolo del giornalista Luca Telese riferibile all’udienza della Corte d’Assise di Bergamo del 30 ottobre 2015 del processo a carico del signor Massimo Bossetti per l’omicidio della piccola Yara Gambirasio, si sono scatenate polemiche riferibili ad alcune dichiarazioni rese in udienza da un consulente tecnico della Procura di Bergamo. Buona parte delle notizie fanno riferimento ad un video (contenente le immagini di uno - o più? - furgoni in transito presso la palestra della bambina nelle ore precedenti la sua scomparsa) che sarebbe stato “taroccato” in danno dell’imputato. L’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali italiane non ha ritenuto di intervenire nella immediatezza della pubblicazione del brano perché, essendo disinteressato ai profili polemici raccolti dalla stampa, pur rispettabili (campagne innocentiste o colpevoliste che in questa sede, e per chi scrive, sono di nessun interesse), ha inteso approfondire gli aspetti denunciati dal giornalista Telese e comprendere se e quali conclusioni sia possibile assumere all’esito di questa vicenda. Sommariamente, ed elencandoli sinteticamente, si sono potuti identificare i seguenti punti fermi.
1) Nel corso delle indagini preliminari, alcuni organi di informazione - tra cui la RAI - hanno trasmesso un video che, secondo quanto comunicato, sembrava individuare il passaggio del furgone vicino alla palestra. La notizia viene ripresa dalla rete e sintetizzata così in molti siti: Furgone di Bossetti vicino casa di Yara. Video. La Rai ha trasmesso un video inedito che mostrerebbe il furgone di Giuseppe Bossetti, accusato dalla prova del Dna di essere il carnefice di Yara Gambirasio, nei pressi della casa della ragazza il 26 Novembre 2010, giorno dell'omicidio. Il video è stato registrato dalle telecamere di sicurezza poste sul luogo. Secondo gli inquirenti, il furgone potrebbe essere proprio quello di Bossetti.
2) La notizia ricompare anche sul web, tra il marzo ed il luglio 2015, in prossimità dell’udienza preliminare, accompagnata da una sorta di certificazione di “autenticità” dei Carabinieri investiganti in una “nota”: Caso Yara, Carabinieri: il furgone ripreso poteva essere solo quello di Bossetti (Data - 2/03/2015) Info - Il solo Iveco Daily di Bossetti poteva essere il furgone bianco ripreso dai video delle tre telecamere prese in esame nei circa 45 minuti immediatamente precedenti alla scomparsa di Yara Gambirasio. E' quanto precisano in una nota i Carabinieri, che hanno rianalizzato i filmati acquisiti nella primissima fase delle indagini. Il primo passo, utilizzando particolari software e un modello in 3D, ha confermato che il furgone fosse quello di Bossetti. In una seconda fase si sono controllati tutti i furgoni simili a quello dell'indagato, e procedendo per esclusione si è arrivati a concludere che quello di Bossetti fosse l'unico possibile ripreso dalle telecamere.
3) Lo scorso 30 ottobre 2015, dinanzi la Corte di Assise di Bergamo, depone –stando ai verbali- non quale testimone “verbalizzante” (e cioè quale persona che ha condotto direttamente le indagini), ma come consulente tecnico della Procura della Repubblica (“perito” dell’Accusa), il Colonnello Lago dei RIS. Dalla sua deposizione in pubblica udienza è possibile estrapolare alcuni dati, per quanto qui interessa:
- le indagini dei RIS (e cioè dei consulenti della Procura) sono avvenute sulla base di alcuni fotogrammi (frames) estrapolati dalla integralità di filmati raccolti dalla polizia giudiziaria, e cioè, come dice il consulente, solo da alcuni fotogrammi forniti al consulente tecnico dalla polizia giudiziaria, che li ha selezionati. I RIS non hanno dunque esaminato la integralità dei filmati raccolti da alcune telecamere nei pressi della palestra frequentata dalla piccola Yara;
- il consulente tecnico della Procura riferisce che di questi frames è stato fatto un montaggio per ragioni non analitiche ma di rappresentazione, riconoscendo trattarsi di spezzoni “montati” dai RIS;
- la comparazione del furgone che si vede nei fotogrammi sarebbe avvenuta unicamente con i fotogrammi provenienti da una delle telecamere oggetto di analisi;
-a domanda del Presidente della Corte se il video ricomprendesse tutte le registrazioni esaminate la risposta del consulente è stata negativa e, richiesto di maggiori specificazioni, egli ha chiarito che il video è stato realizzato concordemente con la Procura a fronte di pressanti richieste di chiarimenti sulla vicenda, e ciò dal punto di vista della comunicazione. Ha poi ricordato che si tratta di un video dato alla stampa, ai media, che ne hanno fatto l’uso che hanno creduto;
A fronte di questi dati di fatto, si impone una considerazione preliminare. Non è revocabile in dubbio che tale video - non contenuto negli atti del fascicolo del pubblico ministero in quanto risultato di un “montaggio” di parte accusatrice di dati “grezzi” delle indagini - non sia autentico, almeno nel senso che si tratta di una elaborazione (come commentato anche dal Presidente della Corte) di immagini, con ciò che consegue in ragione di tale operazione (scelta accurata dei fotogrammi da inserire; durata degli stessi; selezione di un loro ordine di montaggio etc.). Se dunque di “falso” o “tarocco” non si vuole parlare per prudenza linguistica, resta doveroso stigmatizzare il dato per cui, secondo quel che ha affermato il consulente tecnico Comandante del RIS di Parma, il Reparto Investigativo Scientifico dei Carabinieri, di concerto con una Procura della Repubblica dello Stato, nell’intento di promuovere mediaticamente la loro indagine (e la propria immagine) in danno dell’allora indagato, hanno divulgato un video che non è agli atti del processo presentandolo per “autentico”. Non è oggetto di interesse degli estensori di questo documento discutere la valenza probatoria dei fotogrammi; la identificazione positiva del furgone che compare in alcuni di essi con quello dell’imputato; la riconosciuta (dal consulente) impossibilità, viceversa, di effettuare la comparazione di alcune altre immagini del veicolo con quello del Bossetti e così via: dati pure rinvenibili da quanto emerso dall’udienza del 30 ottobre. I processi si fanno nelle aule giudiziarie. Ciò che qui preme ancora denunciare, come già in numerosi documenti di questo Osservatorio, è la degenerazione mediatica del processo penale, che assume forme e vesti nuove. Il meccanismo della comunicazione di notizie delle indagini in corso dalle fonti di accusa ai mezzi di informazione non è più collocabile, come accadeva fino a qualche tempo fa, all’interno del conosciuto e classico “scambio di cortesie” (io do una notizia a te; tu mi citi nel tuo “pezzo” giornalistico ed esalti la mia indagine) tra “professionisti” del mondo giudiziario (cui a volte, deplorevolmente, partecipavano e partecipano anche gli avvocati). Viceversa, si realizza da qualche tempo una vera e propria strategia mirata, diretta a far interagire le inchieste con la informazione giudiziaria sicché, parafrasando una frase celebre di Von Klausewitz, l’informazione giudiziaria altro non sta diventando, per le Procure, che la prosecuzione dell’indagine giudiziaria con altri mezzi. E, addirittura, talvolta, neppure di prosecuzione si tratta, ma di anticipazione: la stampa anticipa inchieste ed arresti “imminenti”, crea l’humus e prepara il terreno al trionfale cammino delle inchieste giudiziarie che, naturalmente, presentano i loro risultati come se fossero accertamenti processuali ormai definitivi ed irreversibili, grazie anche al contributo acritico – salve lodevoli eccezioni - dei mezzi di informazione. I connotati di questa degenerazione (che, essendo a senso unico in favore dell’accusa, assurge a vera e propria patologia, e si possono cogliere anche nella vicenda ora in esame) possono, nel caso concreto ma anche in via generale, così riassumersi:
a) La “notizia” (qui un filmato) è predisposta nel corso delle indagini preliminari ed ha, per stessa ammissione di chi la diffonde, finalità autopromozionali ed evocative della magnifica efficienza della “macchina da guerra” accusatoria;
b) La “notizia” (qui il filmato) sembra destinata, direttamente o indirettamente, alla demolizione mediatica, processuale e umana (si ricordi un altro filmato di Bossetti, in ginocchio, al momento dell’arresto), della figura di un imputato, con il risultato di indebolirne la posizione al momento del processo e di tentare di condizionare i giudici (togati e non) prima dell’inizio del dibattimento;
c) La decisione di come diffondere efficacemente la “notizia” (qui “montare” un filmato) è assunta di concerto dalle Procure della Repubblica con gli investiganti o, addirittura, con i consulenti tecnici dell’accusa che, in sostanza, anticipano a mezzo stampa già nella fase delle indagini preliminari le conclusioni del loro elaborato tecnico di cui dovrebbero riferire in dibattimento;
d) La diffusione della “notizia” avviene, nel corso delle indagini preliminari, eludendo il disposto dell’articolo 114 c.p.p.: o diffondendo atti di valenza probatoria prima ancora che siano noti all’indagato o, quand’anche noti (e dunque non coperti integralmente da segreto quanto al contenuto), eludendo il divieto di pubblicazione anche parziale (art. 114, II co. c.p.p.);
e) I mezzi di informazione (che nei giorni scorsi, per bocca di qualche rappresentante istituzionale, hanno finto ipocritamente di scandalizzarsi per il filmato di cui si discute) rischiano, salvo sporadiche eccezioni, di divenire il megafono acritico di queste iniziative autopromozionali prive di serio significato informativo, naturalmente sempre a senso unico, e cioè a sostegno delle impostazioni accusatorie e delle campagne giudiziarie che le assecondano.
L’Osservatorio Informazione giudiziaria e la Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane avvertono che vigileranno con sempre crescente attenzione sul predetto fenomeno patologico di mediatizzazione del processo penale e che non esiteranno a denunciare, non solo all’opinione pubblica, le situazioni in cui ciò dovesse accadere con violazione dei principi di deontologia e delle norme sostanziali e processuali. Sin d’ora si rende noto che la Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane e l’Osservatorio Informazione Giudiziaria si riservano di rivolgersi alle autorità competenti per far valutare i comportamenti che costituiscono oggetto del presente documento. La Giunta. L'Osservatorio Informazione giudiziaria. Roma, 12 novembre 2015.
Yara, circo mediatico e moniti tardivi. La protesta degli avvocati sul video dell’arresto di Massimo Bossetti, scrive Armando Di Landro su “Il Corriere della Sera” del 14 novembre 2015. Le critiche al lavoro del Ris sulle immagini del furgone di Massimo Bossetti sembrano aver svegliato da un lungo torpore l’Unione delle Camere Penali Italiane e l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria, che in un comunicato parlano di «patologica mediatizzazione del processo penale». Quasi un anno e mezzo dopo l’arresto del carpentiere ci si accorge quindi che il circo mediatico sull’omicidio di Yara Gambirasio sta travalicando la realtà. La bacchettata al Ris e alla Procura suona però parziale e priva di memoria. «L’invito a non spettacolarizzare - ha commentato Andrea Pezzotta, avvocato di parte civile della famiglia Gambirasio - andrebbe esteso ai colleghi che partecipano spesso a salotti televisivi». Riferimento ai difensori di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini. Ma il punto non è la mera partecipazione dei due avvocati alle trasmissioni tv, che è un diritto. È invece innegabile l’influenza e la distorsione della realtà tramite notizie spesso forzate e amplificate dal circo mediatico. C’è da chiedersi, ad esempio, quale corretta informazione giudiziaria abbiano fornito un paio di interviste della moglie dell’imputato, dietro pagamento. Oppure dove sia l’informazione equilibrata quando si rilanciano di continuo insinuazioni su alcuni accertamenti degli inquirenti, ricoprendo di parole a dir poco infamanti una ginnasta di vent’anni che ha la «colpa» di aver conosciuto Yara Gambirasio. E ancora, come si spiegano - se non con esigenze di spettacolo - le affermazioni di un consulente di parte sulle condizioni psicofisiche dell’imputato, completamente smentite dagli psichiatri del carcere. Infine, il delicatissimo fronte del Dna: un fiume di insinuazioni sulla prova regina si scontra con pareri al momento univoci - se proprio non ci si vuole fidare del Ris e della polizia scientifica - dell’Università di Roma Tor Vergata, dell’Università di Pavia e, per ben due volte ciascuno in sede cautelare, del gip di Bergamo, del tribunale del Riesame e della Cassazione. Di ieri, l’ultimo pronunciamento della Suprema corte: i dubbi sulla componente mitocondriale del profilo genetico non inficiano la prova del Dna nucleare. Il diritto di cronaca è uno strumento che deve garantire il confronto e può addirittura tutelare le parti di un processo, a maggior ragione se una vicenda drammatica, iniziata con l’omicidio di una ragazzina di 13 anni, rischia di finire con l’ergastolo di un padre di famiglia. Ma quando si interpreta quel diritto come la possibilità di dire e scrivere quel che si vuole e ancor peggio di insinuare di tutto, allora a essere garantito è esclusivamente «lo show che deve continuare». E la scollatura tra spettacolo e realtà può essere solo un danno, anche per l’imputato.
Le toghe, comunque, hanno fede nella loro posizione.
LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA DI LUGLIO, CHE AVEVA CONFERMATO IL CARCERE PER L’IMPUTATO. Yara, la Cassazione su Bossetti: «Il Dna non si discute». I giudici: le tracce sugli abiti di Yara sono dell’imputato, esistono diverse spiegazioni sull’assenza del mitocondriale, scrive “Il Corriere della Sera” del 13 novembre 2015. Mentre a processo la difesa di Massimo Bossetti cerca di smontare la validità della prova del Dna, la Cassazione deposita le motivazioni sulla sentenza con la quale, a luglio, ha confermato il carcere per il carpentiere accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio. E per la prima volta mette un punto nella diatriba tra Dna mitocondriale e nucleare. Per la difesa il fatto che non sia stato individuato il mitocondriale sulle tracce di «Ignoto 1» potrebbe mettere in discussione il valore della prova. I giudici della Cassazione, invece, danno ragione all’accusa: basta il Dna nucleare per dire che quelle sugli slip di Yara sono tracce dell’imputato. La prima sezione penale della Cassazione sottolinea che la difesa non può far valere in sede cautelare le discrepanze riscontrate nelle analisi del Dna mitocondriale su due delle tracce ritrovate, in cui non era individuabile il Dna mitocondriale di Bossetti, poiché invece i test sul Dna nucleare dicono che questo è sovrapponibile con quello di «Ignoto 1». Inoltre, la nuova legge sulle misure cautelari non ha «alcuna incidenza», «atteso che tale novella non ha in alcun modo intaccato la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere» a carico di Bossetti. La difesa aveva presentato una seconda istanza di scarcerazione o di sostituzione delle custodia cautelare in carcere, dopo che la prima era stata respinta, a seguito della perizia genetico-forense dei consulenti della procura sulle tracce rinvenute sul cadavere della ragazza. Secondo gli avvocati la conferma delle «incongruenze» tra la perizia e le conclusioni del Ris sarebbe stata la scelta dei pm di non chiedere il giudizio immediato. Tra i motivi di ricorso segnalavano anche il ridimensionamento del pericolo di reiterazione per il tempo trascorso in carcere, da valutare alla luce della nuovo legge, di maggio, sulla custodia cautelare. La nuova istanza era stata rigettata dal gip, il 10 febbraio di quest’anno, e poi dal riesame il 13 marzo, ribadendo la validità e la correttezza degli accertamenti scientifici. Sul caso c’è già un giudicato cautelare: la Cassazione chiamata a decidere una prima volta, il 25 febbraio 20015, aveva sottolineato come «l’identificazione di un essere umano si compie analizzando i marcatori autosomici del Dna nucleare» e il profilo genetico di «Ignoto 1» è sovrapponibile con quello di Bossetti «con un grado di affidabilità pari alla certezza statistica». Assunto sul quale si fonda il successivo giudizio del riesame, confermato dalla Cassazione nella sentenza depositata oggi. Secondo gli ermellini, «l’organo del riesame, nel farsi onestamente carico dell’incongruenza riscontrata nelle analisi del dna mitocondriale sulle tracce 31G19 e 31G20, in cui non era evidenziabile il Dna mitocondriale del Bossetti ha chiarito: da un lato che tale discordanza non poteva comunque mettere in discussione il rinvenimento del Dna nucleare dell’accusato sugli indumenti della vittima», «dall’altro che da parte di vari consulenti erano state fornite diverse possibili giustificazioni sulla rilevata non corrispondenza con marcatori genetici ipocondriali, tutte scientificamente valide».
Bossetti, i punti chiave del processo: dal furgone al caso Meredith. Dall’ora della morte al tracciato dei cellulari: tutti gli aspetti portati in aula, scrive Giuliana Ubbiali su “Il Corriere della Sera” del 13 novembre 2015.
1. L’ora e il luogo della morte. Per l’accusa, sulla base della consulente anatomopatologa Cristina Cattaneo, Yara è morta la sera stessa della scomparsa, al massimo alle prime ore del mattino dopo: lo indicano le tracce del pranzo delle 14; la digestione avviene in 4, 6 o 8 ore a seconda delle condizioni. Yara Gambirasio, 13 anni, fu uccisa il 26 novembre 2010. La bambina è morta nel campo di Chignolo d’Isola, dove è stata ritrovata tre mesi dopo la scomparsa da Brembate Sopra: lo indicano un ciuffo d’erba stretto nella mano destra e reperti botanici sulle ferite. Per la difesa dell’imputato, sulla base della consulenza del medico legale Dalila Ranalletta, il range si può estendere. Comunque si parla di ore e non di giorni. Yara è stata uccisa altrove e poi portata nel campo: fili tessili colorati trovati sul corpo indicano che è stata avvolta, forse in una coperta.
2. Stroncata dal freddo. Secondo la tesi dell’accusa, le otto ferite ai polsi, al collo, alla schiena e alla gamba destra da sole non potevano uccidere la bambina: Yara ha perso sangue, ma non c’è stata emorragia. Il cadavere di Yara fu trovato in un campo abbandonato a Chignolo d’Isola, il 26 febbraio 2011. La causa finale, unita ai tagli e alla botta alla testa, è stato il freddo: la presenza di acetone nel corpo è indicativa di un forte stress, come nei casi di ipotermina. I tagli sono stati inferti quando la piccola era ancora viva, ma non si è difesa (non ha segni su mani e braccia). Le spine sul corpo (difficilmente trasportabili) indicano che l’aggressione è avvenuta nel campo. Secondo la tesi della difesa, sulle cause della morte non è stata raggiunta nessuna certezza e tutta l’autopsia è in termini di possibilità. Le ferite alla gamba destra sono compatibili con un tentativo di difesa.
3. Il cellulare di Bossetti la sera del delitto. Alle 17.45 il cellulare dell’imputato ha agganciato la cella di via Natta, a Mapello, settore 3, che copre il centro sportivo e casa sua. Massimo Bossetti, 45 anni, carpentiere di Mapello. È sposato e ha tre figli. È la stessa cella che ha agganciato il cellulare di Yara, alle 18.49, per il settore 1 che copre il centro sportivo e casa della bambina. Per l’accusa è indicativo che Bossetti fosse in zona, perché quando si trovava a casa il suo cellulare agganciava prevalentemente la cella di via Carbonera, a Terno d’Isola. Per la difesa, invece, la compatibilità della cella anche con la casa di Bossetti indica che lui quella sera fosse a casa con la famiglia come ha detto e non attorno al centro sportivo.
4. Alle 19.11 il telefonino di Yara era già spento. Mamma Maura ha dichiarato a verbale e poi a processo che tentò di chiamare Yara la sera della scomparsa. Ha detto di aver sentito tre squilli e che poi era scattata la segreteria telefonica. Ma alla Vodafone risulta che il cellulare della bambina fosse spento a quell’ora. Il comandante del Ros ha confermato a processo di aver più volte sollevato il dubbio alla compagnia telefonica, ottenendo conferma della risposta. L’ultimo segnale del telefonino acceso è quindi alle 18.55, quando Yara riceve il secondo sms dell’amica Martina e aggancia la cella di via Ruggeri, a Brembate Sopra, compatibile con il centro sportivo e la casa della bambina.
5. Il furgone attorno al centro sportivo. Dalle 18 alle 18.47, e poi alle 19.57, un furgone Iveco Daily viene ripreso otto volte passare attorno al centro sportivo, nelle vie Rampinelli, Locatelli e Caduti dell’Aeronautica. Le immagini sono delle telecamere del Credito cooperativo, del distributore Shell e di due aziende. Per l’accusa è l’autocarro di Bossetti: partendo da 20.000 furgoni Iveco Daily immatricolati nel 1999 - come quello dell’imputato - , gli inquirenti ne hanno selezionati 4.500 fino ad arrivare solo a 5 di proprietà di bergamaschi. Ma nessuno di loro, tranne Bossetti, era nella zona di Brembate Sopra il giorno della scomparsa. Per la difesa, i furgoni immortalati nelle immagini possono essere qualsiasi. Non si vedono in modo nitido, tranne quello ripreso due volte in via Caduti dell’Aeronautica. Bossetti poteva essere passato da quella strada per tornare a casa.
6. Il Dna dell’allenatrice. Quando Yara è sparita, la sua istruttrice di ginnastica ritmica Silvia Brena è stata oggetto di verifiche, come tutto l’ambiente della palestra. Rinvenuto il corpo, su una manica del giubbotto della tredicenne c’era il Dna dell’allenatrice. Lei, il fratello e la sua cerchia di amicizie sono stati di nuovo oggetto di verifiche, anche attraverso le intercettazioni telefoniche. Non sono emersi sospetti. Questo, unito al fatto che il suo Dna sul giubbotto è spiegabile con la loro frequentazione, conferma la sua estraneità alla scomparsa della bambina.
7. Bossetti a Chignolo d’Isola. Pei tre mesi prima della scomparsa di Yara, il cellulare dell’imputato ha agganciato per tre volte celle compatibili con il campo di Chignolo d’Isola. Nei cinque mesi dopo, le ha agganciate 208 volte. Dieci solo il 29 e il 30 novembre, a ridosso dell’omicidio. Per l’accusa i dati indicano che è tornato sul campo per controllare lo stato del corpo. Per la difesa, invece, le celle non provano nulla perché coprono anche altre zone. Va detto che, in effetti, sulla zona del campo di Chignolo ne gravitano dieci e che due coprono anche la casa di Ester Arzuffi e del marito Giovanni Bossetti, a Terno d’Isola.
8. Il 18 maggio 2014 Bossetti ha navigato in Internet. Quel giorno, alle 9.55, risultano ricerche in Google con le parole «sesso con tredicenne». Gli inquirenti ritengono che le abbia compiute Bossetti sulla base di alcuni riscontri tecnici: l’imputato era a casa in malattia, il suo cellulare ha agganciato per tutta la mattina la cella di via Carbonera, a Terno d’Isola, quella che prevale quando si trova nella sua abitazione di Mapello. Il figlio era a scuola. La moglie Marita Comi era a casa alle 8.37 ma più tardi ha agganciato con il telefonino la cella di via Marconi, a Ponte San Pietro (incompatibile con casa sua).
9. Il caso Meredith e i dati sul Dna. La Corte d’Assise ha accolto la richiesta degli avvocati di Massimo Bossetti e ha disposto che il Ris integri la consulenza sul Dna di Ignoto 1, il presunto killer, poi identificato con il carpentiere di Mapello. Amanda Knox e Raffaele Sollecito sono stati assolti dall’accusa di avere ucciso l’amica Meredith Kercher. La sentenza è stata confermata dalla Cassazione. I difensori dell’imputato parlano di «parametri indicati dalla Corte di Cassazione». Si riferiscono al numero di test e ai kit utilizzati perché un profilo genetico sia scientificamente valido. Citano come esempio il caso di Meredith Kercher. È lo snodo decisivo del processo, perché tutto si gioca sulla validità della prova regina: il Dna dell’imputato presente, secondo l’accusa, sugli slip della ragazzina.
Caso Bossetti tra letteratura e realtà. Il profilo antropologico (e narrativo) del Bel Paese e delle sue vergogne...Di Gilberto Migliorini su Albatros Volando Controvento del 16 novembre 2015. Ci sono vicende e casi che sono caratteristici, al di là del loro contenuto palese e dei loro aspetti formali, per quei nessi intraducibili e misteriosi con l’animo di un popolo con tutti i suoi vezzi e le sue civetterie, rivelatori dei luoghi dell’inconscio collettivo di una nazione e delle proverbiali idiosincrasie di un Bel Paese perennemente votato a replicare i suoi schemi mentali, le sue rimozioni, gli immancabili pregiudizi. Riguardato da una prospettiva più esoterica (e introspettiva) il caso Bossetti risulta davvero emblematico non solo di un sistema giudiziario con tutte le sue curiose e peculiari modalità di funzionamento, le sue procedure e la sua forma mentis, ma anche dei modi con i quali l’ambiente psico-sociale di un Paese traduce i fatti e li rappresenta sotto forma di immagine culturale. La sinossi massmediatica raccoglie non solo dei dati antropometrici ma anche la mentalità e i valori di un italiano, sorta di Calandrino alla ricerca dell’elitropia come nell'omonima novella del Boccaccio, quella pietra che rende invisibile… più a noi stessi che agli altri, il quadrante cieco della nostra personalità collettiva che riusciamo a (intra)vedere nei personaggi letterari e nel transfertcon il quale investiamo emotivamente le vicende di cronaca. Il cold case diventa una sorta di commedia (o di romanzo) dove il protagonista non è l’imputato ufficiale, è quell’italiano descritto drammaticamente mediante l’alter ego del presunto colpevole, per interposta persona, rappresentato soprattutto nello spirito di un popolo e delle sue istituzioni sotto forma di modelli culturali radicati nella nostra storia millenaria. La radiografia di un Paese attraverso un caso giudiziario rappresenta un’occasione irripetibile per mettere a nudo le vergogne, quello che perfino l’occhio dismagato del cronista non riesce a cogliere del genio italico e delle sue fobie, avversioni e intolleranze, e soprattutto quegli stereotipi che scandiscono la nostra storia e la nostra cultura. L’abitante del Bel Paese - assuefatto ai déjà vu e alle profilazioni mediatiche - si è reso invisibile. Nascosto in un sistema ideologico chiuso in se stesso e permeato di cliché, sembra incapace di cogliersi da fuori o di fornire un ritratto introspettivo che ne sveli le pulsioni inconfessabili. Un Paese perennemente alla ricerca del suo profilo antropologico, ma costantemente ignaro dei suoi automatismi mentali. Le inconsce peculiarità espressive di un popolo e delle sue istituzioni rappresentano un ritratto sociologico convenzionale offerto dal sistema mediatico e dai suoi epigoni. I consueti metodi quantitativi dei comportamenti osservabili appaiono come radiografie di un italiano puramente virtuale. È la metafora letteraria che riesce ad aggirare le difese e le resistenze inconsce, a penetrare l’anima di un popolo oltre gli stilemi convenzionali e le profilazioni di maniera, a mettere alla berlina quell’immagine taroccata dell’utente mediatico. Nella finzione del romanzo, nella metafora letteraria, si realizza la disamina dei processi mentali e istituzionali, utilizzando il reagente delle figure e delle immagini dei procedimenti narrativi. La decodifica avviene in quella forma letteraria che non conosce le tipiche censure di un intellettuale inamidato, le preclusioni di tanto giornalismo copia e incolla e di quella pletora di opinionisti da salterio liturgico, criminologi per vocazione e per decreto televisivo. L’ambiente mediatico, soprattutto televisivo, è per sua natura opaco e ripetitivo, refrattario a qualsiasi auto-analisi, impermeabile ai procedimenti di verifica che non siano i soliti schematismi celebrativi, i narcisismi edificanti, o le classiche parodie di maniera per un pubblico di bocca buona. I media replicano una sorta di immagine caricaturale del civis italicus, una silloge antologica dove vengono rappresentati difetti e imperfezioni, in una descrizione artificiale del cold case d’attualità. Il caso Bossetti, in particolare, letto in filigrana e riguardato come evento mediatico ha tutte le caratteristiche di uno schermo dove si proiettano i vissuti e la mentalità di una nazione con tutti gli effetti speciali che danno alla vicenda l’attrattiva di un romanzo, non importa se criminale o semplicemente di costume, uno sceneggiato a puntate, uno zibaldone con tutti gli ingredienti dell’anima di un popolo, della sua identità caratteriale e dei suoi abiti mentali. Il modello è quello manzoniano dei Promessi Sposi, dei Renzo e Lucia che rappresentano metaforicamente i capri espiatori (sia pure nel lieto fine del romanzo), cartina al tornasole di quelle dinamiche sociali dove il potere si manifesta in una nemesi, la parodia della giustizia, salvata in extremis dall'intervento salvifico della provvidenza divina...Qualcuno storcerà il naso per un accostamento tanto azzardato, preferendo magari dello stesso autore il famoso Processo agli untori, Piazza e Mora, nella Storia della colonna infame, con i connessi meccanismi di psicosi in situazioni di stress collettivo (la peste o nell'attualità una crisi protratta di sistema). Gli eventi drammatici fungono da innesco e catalizzatore delle fantasmatiche proiezioni sociali, con l’immancabile capro espiatorio a risollevare il morale di un Paese sempre alla ricerca del Sacro Graal della giustizia e il classico escamotage per scaricare su qualche zimbello le contraddizioni sociali. Nel processo agli untori, nel 1630, era una giustizia protesa a dare consistenza di realtà alle fantasie di una donnetta, Caterina Rosa, in un procedimento giudiziario fondato sui consueti indizi fecondi e… inconsistenti. Il sistema giudiziario in mancanza di fatti concreti si affidava ai soliti procedimenti induttivi, ai nessi immancabili in un reticolo di collegamenti arbitrari, fantasiosi e gratuiti, ma purtuttavia provvidenziali per sviluppare un copione con tanto di tortura ed esecuzione capitale per un pubblico allegramente assiepato attorno al patibolo. Quelle inferenze induttive (gli indizi del tacchino di Russell) che l’epistemologia contemporanea (Popper) ha messo più volte alla berlina e che pure costituiscono il fondamento di tanti processi telegenici e di tante tirate sociologiche di retori e opinionisti del pulpito mediatico. Oggi si tratta di quel Dna. La biologia è un ingrediente come il prezzemolo, c’entra sempre, mentre l’indagine tradizionale per alcuni serve più che altro a far da contorno a dei reperti che proprio come nel caso manzoniano hanno l’attrattiva del marchio dell’untore e la pretesa della prova regina. Peccato che allora non ci fossero i RIS, si sarebbe pronti a scommettere che sul muro dove il Piazza, commissario di sanità, si era strusciato per salvarsi da uno scroscio di pioggia, avrebbero immancabilmente rilevato i germi pestiferi, e nella bottega del barbiere, il Mora, si sarebbe individuato l’unguento con tanto di analisi batteriologica che inchioda il colpevole. Allora bisognava accontentarsi del fiuto (e della diceria dell’untore) di investigatori non ancora attrezzati… con il laboratorio di biologia molecolare. Forse si preferirebbe al Manzoni qualche altro autore letterario, con riferimenti storici meno famosi, ma non meno importanti, come ad esempio Gadda (con Quer pasticciaccio brutto di via Merulana), non a caso romanzo a puntate dove il colpevole cambia in corso d’opera e il plurilinguismo descrittivo rappresenta una società italiana linguisticamente complessa, nel pastiche sintattico, una scrittura stratificata dove la stupidità è elemento comico e dove il patire è scoperta ridicola di una drammaticità incapace di sciogliere l’enigma di un delitto, se non trovando comunque un colpevole. Alla fine il caso appare insoluto, come senza soluzione appare l’enigma di una società italiana, inestricabile pasticciaccio di orrori e di incongruenze, sempre alla ricerca del suo profilo antropologico e di qualche colpevole, magari tarocco, che allenti conflitti e tensioni sociali. Si sa però che il popolo deve essere in qualche modo accontentato, blandito soprattutto quando trova una vittima sacrificale, un surrogato per quella cronica inadeguatezza istituzionale… e occorre approntare compensazioni mediatiche per tenere impegnato un utente altrimenti incline ad interrogarsi su altri cold case, quelli di un sistema paese propenso all’improvvisazione, alla corruzione, al pressapochismo e alla disinformazione. Nel caso il colpevole non lo si trova mai. Anzi come al solito lo si individua per interposta persona in qualche sciagurato protagonista, anonimo e insignificante. Il classico insetto che si può schiacciare, un po’ come un grillo parlante da spiaccicare sul muro. Ma nei Promessi Sposi il colpevole c’è davvero e sono, appunto, Renzo e Lucia attori inconsapevoli di un delitto di lesa maestà, quella protervia dei signorotti che possono bellamente imperversare con tutta l’attrattiva del potere. È quella legge inscritta nella proverbiale attitudine di un popolo di fare di necessità virtù e di piegarsi alla consuetudine di una autorità più o meno palese, più o meno legittima e competente, ma comunque sempre in grado di far sentire la sua voce e dispiegare i suoi strumenti persuasivi, anche quando la giustizia è soltanto un sistema convenzionale di procedure e di riscontri più o meno obiettivi, in grado di reperire tutto quello che serve per auto-promuoversi. Un colpevole lo si trova sempre, qualcuno viene comunque processato e magari condannato, non importa se si tratta della controfigura di un italiano perennemente alla ricerca del suo alter-ego. Nel testo manzoniano Don Abbondio è non solo rappresentante di una religiosità convenzionale, di un’etica approssimativa e di convenienza, è anche l’emblema di quel futuro italiano camaleontico e funambolico, perfino più realista del re, che si piega a una istituzione invariabilmente legittimata ogni volta che dimostri di possedere metodi e modi atti a rappresentarsi con autorevolezza, di possedere le prerogative e gli strumenti del potere. Basta leggere molti commenti on-line dei quotidiani per trovare il riscontro di una utenza variamente appiattita, omologata e uniformata secondo il canone di una informazione dove anche il dubbio ha una cadenza puramente retorica, messo lì più che altro per dare all’utente l’onere (e il piacere) di scioglierlo in un istante, di farsi correttore e interprete di un sospetto puramente interlocutorio che si determina in certezza; di sciogliere i nodi gordiani con un semplice colpo di spada… o con il classico sillogismo induttivo. I dubbi veri e gli interrogativi problematici, le sottigliezze analitiche e le disamine approfondite annoiano un lettore che sempre più ha bisogno di tagliare le notizie con l’accetta, di scorciatoie temerarie che consentano di arrivare al dunque rapidamente e senza inutili complicazioni. Il fruitore - senza tante accortezze riflessive, spregiudicato quanto basta - premia e asseconda l’informazione schematica e suggestiva, non sta a porsi tanti distinguo. Le formalità e gli espedienti retorici sono da sciogliere in fretta; le cose o sono bianche o sono nere, le gradazioni di colore sono perdite di tempo per una utenza assuefatta a un sistema divulgativo monocorde, rigido ed elementare, simile a uno sponsor pubblicitario dove lo slogan mette tutti d’accordo. La persuasione più che attraverso la forma logico-argomentativa, il prestigio morale e la competenza professionale, avviene mediante la rappresentazione e i simboli dell’autorità, occultata nella retorica e nelle immancabili proiezioni fantasmatiche, nei meccanismi psico-sociali e nei condizionamenti suggestivi di un potere invisibile, un sistema di persuasione dissimulato in forma allusiva. Il vero protagonista dei Promessi Sposi, eminenza grigia che sta sullo sfondo, è quel popolo italiano (di un’Italia ancora di là da venire) ma che però già esiste nelle sue proverbiali peculiarità espressive e nel suo assenso al potere in tutte le sue forme, nel mero opportunismo e nella paura (don Abbondio), in quella del servilismo camuffato da legalità (l’Azzeccagarbugli), ma più spesso in quel realismo acritico di tanti commentatori e opinionisti che in fondo amano mettersi dalla parte del potere senza se e senza ma. Si tratta di una sorta di riflesso condizionato, quell’attitudine atavica a capire dove soffia il vento, a comprendere quando non è d’uopo andare contro i pregiudizi, quando è meglio soprassedere, fare di necessità virtù… Serve soltanto quel sano ‘buon senso’, l’arte di adeguarsi al sentire comune, ai si dice, alla vulgata espressa dall’intellettuale organicamente colluso, zelante alle convenzioni e fedele ai modelli mentali e ai protocolli istituzionali, anche quando appaiono più che altro come orpelli che dissimulano l’inconsistenza di argomenti e la classica morale dell’accomodamento. L’opportunismo è inscritto nel Dna dell’italica gente, affinato nei secoli di dominazioni straniere e in quella attrattiva dell’autorità in grado di sedurre le anime semplici, gli arrivisti e i comprimari invitati al banchetto: l’Italia della mafia ma anche degli sbirri, degli azzeccagarbugli ma anche delle sirene ideologiche...Si tratta di quel prototipo dell’italiano che prima ancora dell’unificazione (nell'edizione manzoniana della ventisettana e nella quarantana) già si delineava in un ritratto sociologico straordinariamente attuale, quell’italiano un po’ qualunquista e un po’ trasformista che sforna giudizi sulla base un po’ del sentito dire e un po’ della proverbiale esperienza di chi sa come va il mondo, e di come occorre l’arte sopraffina del compromesso per tirare a campare. Nelle parole di un curato: “Lor signori son uomini di mondo, e sanno benissimo come vanno queste faccende. Il povero curato non c'entra: fanno i loro pasticci tra loro, e poi... e poi, vengon da noi, come s'anderebbe a un banco a riscotere; e noi... noi siamo i servitori del comune.” Un parroco di campagna dove l’attualità, quella vera, trapela in tutta la forza e la semplicità espressiva di quel topos emblematico, il luogo del delitto ricorrente dove prima o poi l’assassino, quello vero, ritorna sempre…Un italiano che al di là dell’evoluzione tecnologica e degli sviluppi economici conserva intatte le prerogative di una cultura in quella che uno storico come Le Goff ha definito la lentezza della storia, cioè quella immutabilità della mentalità, dell’idealtipo sociologico dove i cambiamenti epocali e le trasformazioni radicali sono soltanto eventi di facciata, mentre surrettiziamente continuano ad agire gli stereotipi, nascosti negli apparati tecnologici dall'apparenza avveniristica, incorniciati nel tablet, dispersi nel chip dello smartphone, disciolti negli illusionismi di una quotidiana informazione da rotocalco aggiornata alle ultime notizie. L’Italiano conserva intatti pregiudizi e idiosincrasie, modalità di risposta alla prevaricazione del potere anche quando tutto sembra muovere nella direzione del cambiamento. La giustizia è la struttura che più di ogni altra si nutre di un immobilismo che a fronte dei progressi culturali si fa interprete di quei procedimenti farraginosi, imbalsamati e ingessati dove la lentezza diviene una statuaria devozione ai formalismi di un linguaggio involuto e contorto, dove le aporie ciceroniane si occultano in procedimenti logici decettivi e contraddittori, involuti e bizantini, dove il latino serve da paludamento e da contorsionismo lessicale. Un sistema blindato in procedure farraginose e sibilline, in una logica astrusa, ma con la nuova vetrina sfavillante e attuale del metodo scientifico e del reperto declinato tout court come prova. Non si tratta del semplice dato problematico da interpretare sulla base di un contesto di relazioni e di fatti reali ma derubricato tout court con l’induzione suggestiva di macchine di sequenziamento che in automatico sciolgono e decifrano la complessità della realtà criminologica e danno dell’italiano il suo ritratto genetico incontrovertibile. Quello giudiziario è forse il sistema per antonomasia di un fermo immagine, che diviene fotografia di una salma ormai in avanzato stato di decomposizione, forse già mummificata, comunque aggiornata alle più avanzate metodologie tecnico-scientifiche, imbellettata con orpelli cosmetici e correttivi ornamentali: la fissità funzionale (o rigidità da baccalà) travestita da souplesse e modernizzata con rimmel e fondo tinta. La lentezza della storia sembra più che altro la replica di un copione che da tempo immemorabile trova consonanza in una informazione di maniera, in quegli opinionisti da salotto che quotidianamente danno ispirazione e lievito a una informazione di ricalco, ariosa e inconsistente, feroce e accattivante... ma sempre aggiornata alla voce che corre, al pettegolezzo dell’ultima ora. Quello che un tempo era il mondo di carta degli aristotelici è diventato l’habitat convenzionale dell’etere, quel paradigma aereo e impalpabile di tanto giornalismo da amanuensi ornamentali o al contrario da feroci giustizieri, giustificata dal carattere efferato di un delitto, dalla necessità di dare requie a un corpo sociale assetato di giustizia... sommaria. Si tratta dell’etereo mondo celeste, quello delle sfere e delle quintessenze incorruttibili della fisica aristotelica, quel mondo di verità convenzionali e artefatte dove tutto trova consonanza in teoremi costruiti un po’ su circonvoluzioni elicoidali e un po’ su quel materiale sospetto del quotidiano mestiere di vivere. Una narrazione suggestiva per un pubblico amante della dietrologia lugubre, perversa e inquietante, i moderni eredi degli spettatori che accorrevano attorno al patibolo per dare conforto al condannato...Nel Fermo e Lucia manzoniano, la prima stesura dell’opera, i personaggi hanno una valenza pittoresca, in sintonia con un tessuto verbale variegato. Poi il Manzoni predilige i toni meno accesi, un romanticismo che colga più in profondità il carattere dei personaggi e soprattutto la mentalità di un popolo. L’opera più famosa della letteratura italiana non è solo una storia di fantasia, non rappresenta soltanto l’affresco di una Italia del seicento sotto la dominazione spagnola, o, mutatis mutandis, l’Italia ottocentesca in procinto di attuare la sua unificazione (linguistica e politica). La storia di Renzo e Lucia conserva intatto l’affresco del Bel Paese attuale, sembra perfino violare la relatività generale con un viaggio nel futuro, il nostro tempo, dove al posto di un tessitore c’è un muratore, come se l’illustre milanese avesse buttato l’occhio ben oltre la dimensione romantica dell’ottocento, su quelle strutture mentali e antropologiche che caratterizzano il Bel Paese fin dalle sue origini remote. L’opera manzoniana è attuale perché l’Italia non cambia come nelle parole leopardiane dell’idillio alla luna “Era mia vita: ed è, né cangia stile…” un paese che nelle sue strutture profonde replica costantemente le sue radici culturali, gli schematismi mentali e le rigidità istituzionali. Un Bel Paese incapace di prendere le distanze dai suoi preconcetti, eppure modernizzato nei suoi strumenti tecnologicamente avanzati, con le protesi digitali, prolungamento e espressione di un sistema di stereotipi ripetitivi e di procedimenti seriali. Il carpentiere di Mapello trova la sua rappresentazione in tanta parte della nostra cultura (non solo giuridica) e della nostra vena letteraria che prima ancora del delitto della povera ragazza ha posto le basi interpretative di una sociologia e di una psicologia dell’attore sociale. Le coordinate interpretative del caso Bossetti sono in tutta la letteratura italiana già a partire dalle origini. Occorrerebbe il dissacrante Cecco Angiolieri per dare una scossa sarcastica a una società italiana dove i seriosi mezzibusti incravattati ci raccontano con tono solenne e compassato del carpentiere che sarebbe transitato non so quante volte attorno alla palestra (salvo poi scoprire che si tratta di una fiction ad uso mediatico); o magari lo spunto polemico di un Ariosto con quel suo incipit spumeggiante dell’Orlando: le donne, i cavallier, l'arme, gli amori, le cortesie, l'audaci imprese - sintesi di quella biografia di un lavoratore edile nella fenomenologia di un delitto con tutta la vita familiare radiografata e scannerizzata alla ricerca del classico pelo nell’uovo. Come non cogliere la comicità di tanti sillogismi giudiziari dove i teoremi si costruiscono dal niente: il Bossetti che non telefona alla moglie con la quale vive sotto lo stesso tetto (indizio sorprendente); Il Bossetti che va a comprare sabbia (elemento equivoco per un muratore); Il Bossetti che ritorna innumerevoli volte in quel di Chignolo, dove lavora (fatto intrigante); il Bossetti che tiene documenti in un cassetto del comò in camera da letto (fatto inquietante);il Bossetti che tenta di fuggire dall’alto di una impalcatura (fatto da acrobata). Materiale letterario per qualche nuovo romanzo d’appendice. Magari un Visconte dimezzato alla Italo Calvino con il prode guerriero diviso in due metà da una palla di cannone: il povero Medardo dimidiato in un protagonista nefando e malvagio e in quell’altra metà, quella sinistra, nobile e buona. Così il Bossetti dopo una vita integerrima da gran lavoratore e padre amorevole si scopre all’improvviso pedofilo e assassino, un emblematico caso di doppia personalità. Il visconte Medardo verrà ricucito delle due metà dalle mani esperte di un chirurgo e sposerà Pamela, contesa dal Gramo e dal Buono (le due metà finalmente riunite). Per il povero Bossetti non sappiamo ancora se il Dna nucleare e quello mitocondriale, parti eterogenee e incommensurabili, troveranno unità e riscontri che non siano solo quelli di un immaginario padre putativo. Magari un cavaliere inesistente, Agilulfo, mero protocollo di uomo robotizzato, un’armatura vuota. Il protagonista vuole dimostrare che il titolo di cavaliere gli spetta essendo la donna che ha salvato una vergine. In un turbine di parentele scombiccherate e in un rimescolamento di figli, fratelli e fratellastri si definisce nella storia calviniana una sorta di identità basata dalle convenzioni sociali e più modernamente sui riscontri genetici (ancora da verificare). Un Bossetti che talvolta chiosa e scherza di tumori inesistenti e durante il duro lavoro da carpentiere, per vincere la noia e la fatica, ironizza sui suoi acciacchi con qualche iperbole. Tutti immancabilmente elementi sospetti e lapsus emblematici che tradiscono il presunto assassino? Scherzare e motteggiare per celia può essere opportunamente inquadrato nel solito teorema per assurdo, quello dove perfino le lampade solari divengono segni di personalità borderline. Nel Barone rampante (ancora Calvino) Cosimo Piovasco di Rondò dopo il litigio col padre salirà sugli alberi del giardino di casa e non scenderà più. Il suo progetto di Costituzione di uno stato fondato sugli alberi trova consonanza con un sistema italico fondato sul caso indiziario, quello dove si può scoprire come anche le pinzillacchere e le bagatelle in realtà sono il segno rivelatore e il marchio caratteriale dell’assassino. Il novello Guglielmo da Baskerville aggiornato al paradigma della biologia molecolare può ricostruire tutto intero un delitto sulla base del nanogrammo rimasto per mesi all’addiaccio intonso e fresco come una rosa, sia pure orfano del suo confratello mitocondriale. Perfino lo humor delle Cosmicomiche con l’ironia galattica e dissacrante di un intellettuale capace di venir fuori dagli stereotipi dei luoghi comuni non riesce a tenere il passo della nuova forma mentis criminologica, esuberante e immaginifica. Il caso Bossetti con tutta la drammatica comicità della sua storia è in grado di far impallidire perfino il capolavoro di Italo Calvino. Non sarà facile per qualche nuovo prosatore rappresentare lo sviluppo letterario così antropologicamente rilevante del Bel Paese. Se non ci fosse di mezzo l’omicidio di una adolescente (con il vero assassino ancora da scoprire) si potrebbe immaginare un novello poema di argomento eroicomico, sul modello della Secchia rapita del Tassoni, emendato dallo stesso Urbano VIII per superare i controlli e le censure dell’Indice dei libri proibiti. Sembra un caso, ma siamo ancora attorno a quel 1630 del processo agli untori, però in quel di Venezia. L’immaginario conte di Culagna e il trofeo di guerra di una secchia di legno, intrattenimento goliardico per lo scanzonato lettore seicentesco, sono ben rappresentativi di una comicità che potrebbe ispirare un nuovo poema in ottave che abbia il povero Bossetti per protagonista indiscusso, o magari un nuovo capitolo manzoniano, una digressione come quella della Monaca di Monza con tutto il suo contorno di figli illegittimi e delitti. O magari una verghiana Storia di una capinera in versione underground. Tutto dipende da quanto fervida possa essere non solo la fantasia del lettore, quanto quella del prosatore... naturalmente insieme ai suoi epigoni e sostenitori mediatici…
E gli americani “condannano” Bossetti…, scrive Simonetta Caminiti il Pensavamo di averle viste tutte? Sicuramente no, soprattutto se abbiamo seguito la lunga, tortuosa, quasi fantascientifica traiettoria delle indagini sull’omicidio della giovane Yara Gambirasio. Se non altro, però, non ci aspettavamo di vedere questa complessa e particolarissima storia in una serie tv americana. Gli sceneggiatori del telefilm Law and Order, invece, ne hanno fatto la trama dell’ultima puntata. L’episodio inedito in Italia della serie, giunta ormai alla diciassettesima stagione, si chiama “Melancholy Pursuit”, “ricerca malinconica”. La vittima, attorno alla quale s’indaga, è una ragazzina di quindici anni: pressappoco l’età della piccola ginnasta di Brembate. Attorno a lei, gli sceneggiatori americani mettono una task force di investigatori sulle tracce biologiche dell’assassino: e a lui, esattamente come nel caso di Massimo Bossetti, si arriva attraverso una mappa di indizi a colpi di Dna. Quello decisivo appartiene a un autista deceduto 5 anni prima, che ha un figlio illegittimo. Ma lo sappiamo: in un serial televisivo, la clessidra della sceneggiatura si esaurisce in meno di un’ora; e quindi non c’è spazio per i dubbi, il colpevole ha un nome e un volto insindacabili: l’alter ego di Massimo Bossetti, qui, non ha scampo, e non c’è la possibilità che non sia lui il feroce assassino. Gli inquirenti di Law and Order, infatti, cercano la donna che potrebbe aver avuto una relazione segreta con l’autista scomparso il cui Dna presenta una stretta familiarità con quello in esame. Trovata la madre di quest’uomo (in Italia siamo abituati a chiamarlo “Ignoto1”), gli inquirenti sottopongono i suoi figli a un prelievo di materiale: Tra loro, uno lavora distribuendo bottiglie d’acqua con un furgone: eccolo, il suo profilo genetico è perfettamente compatibile con quella traccia di vita, il Dna che firma il delitto sul corpo della ragazzina…
Processo Yara, la battaglia sul Dna: un mese per il destino di Bossetti, scrive di Luca Telese su “Libero Quotidiano" del 14 novembre 2015.
Secondi. Solo pochi secondi dall’inizio dell’udienza e la Pm si infiamma: esattamente mentre scuote il ciuffo argenteo brizzolato e pronuncia la terza parola. È come quando in una partita di serie A, alla prima azione ci si picchia in area e tutti alzano le mani invocando il rigore.
«Scusi Presidente, ma l’istanza della difesa non va bene! Non va bene proprio!».
- In cosa, pubblico ministero?.
- Fin dalla premessa!
- E perché, cos’ha la premessa? Scusi Pubblico ministero, non capisco.
- No, avvocato Salvagni, lei lo sa benissimo! Già nella premessa chiedete che «tutti» i dati grezzi relativi all’indagine siano consegnati alla difesa. Cosa vuol dire «tutti»?
- (Braccia aperte, sorriso) Ehhhh… «Tutti» vuol dire «tutti»...
- (La Ruggeri scuote la testa). Eh no! Questo non è possibile!
- (Smorfia di Salvagni) Purtroppo mi aspettavo questa resistenza, da lei… Ma è necessario che sia fatto. E lo sa bene!
- (la Ruggeri alza la voce) Non è necessario per niente, avvocato!
- (Salvagni ora grida) È stato prescritto da questa Corte, lei lo sa. Ma me l’aspettavo! Me l’aspettavo!
- Anche noi ce lo aspettavamo avvocato Salvagni! Tant'è vero che lei è arrivato a dirlo persino in televisione che voleva tutti dati. Ed è impossibile!
- Non si permetta. Io sono la difesa e vado dove mi pare. Non si permetta di dirmi dove devo andare, chiaro? Cosa è possibile e cosa no, per fortuna, non lo decide lei!
Di nuovo guerra sul Dna. Di nuovo i capitani dei Ris - quelli che hanno fatto l’esame più importante - che si ritrovano a fare scena muta, davanti alle richieste della difesa (e in parte anche della Corte). Di nuovo una proroga sulla richiesta di consegna dei dati (la terza!) questa volta sostenuta con forza, come avete visto, dal Pubblico ministero Letizia Ruggeri. Sembra Ricomincio da capo, quella meravigliosa commedia dove Bill Murray si sveglia tutte le mattine nella stessa sperduta cittadina di provincia, e rivive la stessa festa della marmotta. Mentre accusa e difesa si scambiano fendenti con il consueto sovrappiù di acrimonia, i due ufficiali, pietrificati nella stessa posa in cui si trovavano sette giorni fa, restano muti, senza proferire parola.
Per un attimo li guardo negli occhi, i due capitani dei Ris, Nicola Staiti e Fabiano Gentile, seduti e immobili sul banco dei testimoni: a dirla tutta mi sembrano più imbarazzati, che sollevati, per questa granitica difesa. Non dicono nulla. Fanno parlare la Ruggeri, ma si vede che la linea che la pm segue, evidentemente per prendere tempo, in qualche modo li imbarazza, perché la Pm deve lasciare intendere che i due non siano in grado di trovare i dati dei loro stessi esami, nei referti che essi stessi hanno fornito: «Presidente» dice infatti la Ruggeri, «voglio spiegare questo: per i due capitani, andare a recuperare tutti i dati grezzi è davvero impossibile!» (brusio dell’aula). La pm continua: «Ne hanno consegnato una parte alla difesa, nel dischetto. Ma non è escluso che ce ne siano altri…. che possano saltare fuori dall’archivio dopo la data che verrà fissata per l’udienza». Pausa. La Ruggeri tiene per ultima la cosa più importante: «Dovete sapere che i laboratori dei Ris svolgono un numero importante di analisi, di tanti diversi casi, e per questo motivo è difficile estrarre tutti i Raw data relativi a quel caso. I Ris custodiscono insieme i referti di oltre 16mila Dna!».
Altra pausa, poi l’affondo: «Dunque chiedo che sia tolto questo aggettivo - “tutti” - dal documento della Difesa!». La richiesta della pm è questa: «Deve essere a cura e discrezione del laboratorio mettere a disposizione della Corte gli altri dati grezzi che eventualmente dovessero emergere».
Perché è così importante questo ennesimo
battibecco? Perché il venerdì prima la testimonianza dei due ufficiali dei Ris
si era interrotta proprio su questo punto, quando Stati e Gentile, giunti al
controinterrogatorio, avevano alzato le mani sostenendo che per rispondere alle
domande che gli venivano poste dalla difesa, sarebbe stato necessario «uno
sforzo mnemonico sovrumano».
Mi era sembrata una scusa, e proferita - per di più - a denti stretti. Ieri,
poi, per un puro caso, una ufficiale del reparto della polizia scientifica, la
dottoressa Paola Asili, poco dopo, nel corso della propria testimonianza,
esaltando con legittimo orgoglio l’efficienza del suo laboratorio, aveva
involontariamente ridicolizzato le asserite difficoltà dei Ris: «Siamo uno dei
quattro laboratori che ha il massimo accreditamento riconosciuto a livello
internazionale», dice con legittimo orgoglio. «Ogni caso da noi diventa un
fascicolo, di cui facciamo doppia copia, perché a ogni documento elettronico
aggiungiamo una stampata cartacea». Non solo: «Abbiamo realizzato la
tracciabilità totale di ogni reperto, ogni dato viene catalogato attraverso un
software dedicato, attraverso un numero e un codice a barre». Fantastico. Ecco
il quadretto: i cugini della polizia super efficienti, mentre due dei più
stimati ufficiali scientifici di Parma non riescono a trovare tutti i dati
richiesti nemmeno in sei mesi? Impossibile.
Evidentemente la settimana prima di questo racconto picaresco, l’immagine dei dati del delitto Yara introvabili perché confusi con quelli degli altri casi, come nel retrobottega di una drogheria, era un male necessario: serviva a prendere tempo perché in quel momento gli avvocati stavano martellando sul nodo decisivo, il cosiddetto “campione G20”, ovvero il campione preso sulla mutandina della ginnasta di Brembate dove è stata trovata la traccia di ignoto numero uno: è il reperto più importante, la chiave di volta di tutto il processo.
Possibile che in quella udienza i Ris non ricordassero nemmeno quante volte avevano esaminato la traccia? Possibile che non potessero ricordarlo nemmeno ieri? Il perito della difesa, Marzio Capra, aveva letto nei “dati grezzi” che i Ris avevano fatto “solo” quattro amplificazioni sulla traccia di Ignoto numero uno. Il che - con i kit dell’epoca - a suo parere bastava a fare un esame, ma non una controprova di adeguato valore processuale. Ieri, mentre volavano questi fendenti (con tanto di battuta caustica sul fatto che Salvagni avesse auspicato pubblicamente in tv - secondo la Ruggeri in modo inopportuno - che i dati arrivassero senza intoppi), i capitani sembravano quasi rassegnati. Così, tra un colpo e l’altro deve intervenire la presidente, Antonella Bertoja. La presidente è una donna elegante, bionda, con le mani affusolate, gli orecchini d’oro e l’aria angelica di una dama ottocentesca. Che però, quando serve, tira fuori una grinta da sceriffo nel saloon: «Io desidero che in questo tribunale siano seguite fino in fondo tutte le regole della convivenza! Se sento un altro mormorio, di qualsiasi tipo, faccio svuotare l’aula e procedo a porte chiuse!». E poi, sulla contesa, dando per una volta ragione agli avvocati: «Quello che accade fuori da qui non ci interessa!». Prende la palla al balzo Salvagni: «Sono d’accordo con lei. Ma tutti noi» dice l’avvocato, «siamo rimasti sconvolti dalle affermazioni circa la conservazione precaria di questi dati, stupefatti dal caos totale che a detta della Pm regnerebbe nel laboratorio dei Ris! Questo» conclude, «è di una gravità assoluta. Non possiamo accettare che l’accusa produca i dati a rate! Vogliamo tutte le radiografie che spiegano i referti contenuti nella consulenza di Staiti e di Gentile!». L’atmosfera è così grave che si alza anche Paolo Camporini, l’uomo che tra i due avvocati è “il poliziotto buono”. Camporini è un “proceduralista” convinto che non mette mai in discussione il processo. Stavolta il più adirato sembra lui: «Siamo» esordisce, «a una lesione gravissima del diritto di difesa! Abbiamo accettato una limitazione alle nostre domande. Abbiamo accettato, responsabilmente di circoscrivere le richieste a slip e leggins…». Camporini prende un respiro, come per rallentare il ritmo dell’invettiva: «Per ben cinque volte, cinque! - leggete a pagina 111 del verbale - a mia domanda specifica, i capitani hanno risposto che quelli erano tutti i dati! Tutti! Lo hanno detto loro, non io!». Anche l’avvocato si tiene un petardo per la fine: «Voglio credere che su questa traccia non sia possibile far apparire dati diversi. Se questo accadesse domanderemo una perizia per verificare i sistemi informativi. È chiaro?». Camporini prende un altro respiro: «La pazienza l’abbiamo avuta finora, adesso è finita!» (Gong). La Bertoja sospende ancora una volta l’udienza, per consultarsi. Presidente e giuria si ritirano in Camera di consiglio per pochi, lunghi minuti. Poi torna, con una nuova mediazione. I Ris dovranno rispondere solo alle domande sui campioni che contengono ignoto numero uno. Ma sulla consegna dei dati grezzi il suo tono non pare conciliante: «I consulenti si pronunceranno su tutti i dati, che allo stato attuale sono tutti quelli esaminati. Il loro ruolo di pubblici ufficiali imporrà loro di render noti tutti i dati che troveranno. La Corte giudicherà». A chi ha datto ragione? Lo scopriremo solo nell’udienza clou, perché da lei arriva anche la data dell’ultimo duello: «I capitani faranno in modo di consegnare la risposta alle domande della difesa per il nove dicembre. L’undici verranno controinterrogati».
Così, tra poco meno di un mese, per la terza volta, i Bill Murray dei Ris si risveglieranno in Aula per rispondere sui loro esami. Se arriveranno nuovi Raw-data la difesa salirà sulle barricate e potrebbe impugnare i verbali delle testimonianze rese sotto giuramento, e contestare dati grezzi nuovi e quindi ai suoi occhi “sospetti”. Ma questa volta sarà l’ultima, niente tempi supplementari. Una partita decisiva per il processo. Si attendono nuovi colpi di scena.
18 NOVEMBRE 2015. QUINDICESIMA UDIENZA. PARLANO ANDREA PICCININI ED EMILIO GIARDINA.
Bossetti, guerra sul Dna mitocondriale. Ma il genetista del pm smonta i dubbi. Nuova udienza, mercoledì 18 novembre, del processo a carico di Massimo Bossetti, accusato del rapimento e dell’omicidio di Yara Gambirasio. Sono stati ascoltati due consulenti dell’accusa, i genetisti Andrea Piccinini ed Emilio Giardina. Che hanno confermato le loro consulenze: il Dna di Giuseppe Guerinoni, padre di Massimo Bossetti, è identico a quello di Ignoto 1, per l’accusa l’assassino di Yara. E Giardina ha smontato i dubbi sul Dna mitocondriale, scrive “L’Eco di Bergamo”. Ancora presente l’imputato, che non ha mai saltato un’udienza, in jeans e felpa blu, e c’era anche la sorella con gli occhiali scuri perché reduce da un’operazione agli occhi (aveva denunciato di essere stata picchiata). Tra i due un saluto. Assente l’avvocato Claudio Salvagni, uno dei legali del muratore, c’erano invece l’avvocato Paolo Camporini, l’altro componente del pool difensivo di Bossetti, e la dottoressa Sarah Gino, genetista della difesa. Piccinini è il responsabile del Laboratorio di Genetica forense dell’Università degli Studi di Milano che, sulla base di campioni prelevati dal cadavere di Giuseppe Guerinoni, morto nel 1999 e la cui salma veniva era stata riesumata il 7 marzo 2013, aveva confermato il rapporto di paternità naturale tra Guerinoni e Ignoto 1 che corrisponde al 99,99999987%. Ricordiamo che Guerinoni è il padre di Massimo Bossetti, figlio illegittimo. Piccinini nella sua deposizione ha raccontato di come la salma di Giuseppe Guerinoni sia stata trasportata all’ospedale di Bergamo dal cimitero di Gorno e sia stata riconosciuta dai familiari. Nella bara c’era anche una lettera che i familiari avevano scritto al loro congiunto e aveva lasciato insieme a un fiore. Il genetista ha spiegato di aver prelevato dalla salma frammenti e tessuti, unghie e un pezzo di osso femorale. È stato paragonato il Dna dell’autista di Gorno con quello di Ignoto 1 e c’è stata corrispondenza su 28 marcatori su 28. Il test è stato ripetuto e ha dato lo stesso risultato, corrispondenza totale. L’avvocato Camporini, nel controesame, ha parlato di diverse incongruenze nella consulenza del genetista: il difensore ha stigmatizzato in primis la mancata corrispondenza tra i numeri contenuti nelle tabelle redatte dallo specialista e quelli relativi agli elettroferogrammi, ovvero il grafico che rappresenta le tracce del Dna. Piccinini ha riconosciuto che ci sono stati errori materiali nella trascrizione dei dati ma che non inficiano assolutamente il risultato finale. Mormorii ironici tra il pubblico con richiamo del presidente della Corte d’assise di Bergamo, il giudice Antonella Bertoja, a una maggiore compostezza. «Lei ha mai eseguito un Dna mitocondriale?» ha domandato la difesa di Bossetti a Piccinini, consulente della procura. «No», ha risposto l’esperto. «E non sa nemmeno che cosa è?», ha insistito l’avvocato Camporini. È stato su questo il botta e risposta che il giudice Bertoja ha severamente redarguito il difensore di Bossetti. «Avvocato - ha sottolineato il presidente - non siamo qui a fare gli esami ai consulenti, è una questione di educazione». «La corte - ha continuato il magistrato - ha più volte spiegato che non devono essere poste domande sul Dna mitocondriale a chi materialmente non se ne è occupato. Per il resto, possiamo acquisire ampia letteratura». La questione della mancata corrispondenza del Dna nucleare trovato sul corpo di Yara (attribuito a Bossetti) è quello mitocondriale (del quale non è stato possibile stabilire l’appartenenza) è stato spesso ricorrente nel processo. In più ordinanze con le quali sono state respinte le richieste di scarcerazione di Bossetti (nei giorni scorsi anche da parte della Cassazione) è stato scritto che è solamente il Dna nucleare ad avere una valenza identificativa di una persona ed è solo questo utilizzato in ambito forense. Giardina, che ha deposto dopo Piccinini, è il genetista dell’Università Tor Vergata di Roma al quale si che si era rivolta la polizia, quando era riuscita a risalire prima a Damiano Guerinoni e poi a Giuseppe Guerinoni di Gorno: servivano certezze che quest’ultimo fosse il padre di Ignoto 1. Il professor Giardina aveva elaborato un calcolo biostatistico che aveva certificato al 99,9999929% che era proprio così. Ma il professore è anche il responsabile del laboratorio che ha erroneamente comparato il dna mitocondriale del gruppo di donne - in cui era compresa Ester Arzuffi, la madre di Bossetti - con il mitocondriale di Yara e non di Ignoto 1, peraltro mai stato individuato dalle analisi. Nella sua deposizione Giardina ha evidenziato che se non si è trovato il Dna mitocondriale non vuol dire che non ci sia. Il genetista ha infatti spiegato che le tecniche di analisi del Dna mitocondriale sono rimaste indietro, mentre quelle per scovare il Dna nucleare, che è molto più importante, sono all’avanguardia. È come se nel primo caso si usasse il telegrafo e per il secondo un iPhone per dare un’idea della differenza di tecnologia. Le analisi sono arretrate perché il Dna mitocondriale non identifica con precisione una persona, il Dna nucleare sì. Fuori aula, l’avvocato Camporini, nel sottolineare che sul Dna mitocondriale gli esperti dell’accusa danno varie spiegazioni scientifiche che alla fine sono però lacunose, ha auspicato sul tema una perizia collegiale della Corte d’Assise. Il difensore di Bossetti ha polemicamente ricordato anche i 118 mila euro spesi per l’errata comparazione del Dna mitocondriale di 532 donne, tra cui Ester Arzuffi, con il mitocondriale di Yara e non con quello di Ignoto 1, domandandosi se dovrà essere il suo cliente a pagarli.
Processo Bossetti, l'esperto: "Guerinoni padre di Ignoto 1". Ma la difesa: "Troppi errori". "Corrispondenza fra Giuseppe Guerinoni e Ignoto 1 del 99,99999987%". Lo dice Lo dice Andrea Piccinini, dell'istituto di Medicina legale di Milano. Il difensore di Bossetti attacca: "Lei ha mai eseguito un Dna mitocondriale? Sa cos'è?" E ora sul dna di Guerinoni salta fuori un’altra anomalia, scrive “Bergamo Post il 19 novembre 2015. Cifre, sigle, termini tecnici. La nuova udienza del processo a Massimo Bossetti ha fornito materia per scienziati. I non addetti ai lavori, giudici popolari in primis, hanno faticato parecchio a seguire le testimonianze dei due genetisti consulenti della procura, Andrea Piccinini e Emiliano Giardina. Il primo, direttore del laboratorio di genetica forense dell’Università di Milano, ha effettuato l’analisi del dna sulla salma di Giuseppe Guerinoni, l’autista di Gorno deceduto nel 1999. Concludendo che l’uomo era il padre di Ignoto 1 «al 99,999999%». Poco dopo anche Giardina, responsabile del laboratorio di Tor Vergata, l’esperto che aveva scoperto la discendenza su base bio statistica ancora prima che biologica, ha ribadito di aver «stabilito con certezza la parentela diretta tra Guerinoni e Ignoto 1». Ovvero Bossetti, secondo le conclusioni dell’accusa. Fin qui le certezze, peraltro non nuove. Ma ci sono anche i dubbi. L’allele in più. Perché durante la sua deposizione Piccinini ha parlato di un risultato che in un primo momento sembrò «inatteso e inspiegabile», tanto da rendere necessarie più richieste di proroga per completare la perizia. Il riferimento è a un «allele», ovvero un gene, apparso in sovrannumero sul cromosoma 15: sbucò nel profilo genetico di Guerinoni, ma non in quello di Bossetti. Un’apparente «incongruenza», emersa però solo durante l’uso di un marcatore su 28, tra l’altro non impiegato dai Ris (che utilizzarono 23 marcatori anziché i 28 di Piccinini). Il professore ci pensò su, concludendo che doveva trattarsi di un allele «artefatto». Un termine che ha creato suspence in aula. La stessa presidente della Corte, Antonella Bertoja, ha chiesto di tradurre per i profani. Piccinini ha spiegato che in pratica si trattava di un «falso» provocato da un difetto del kit utilizzato durante il test. Il genetista interpellò la ditta produttrice per chiedere conferma di questa ipotesi e l’azienda rispose che sì, in effetti poteva capitare. Una sorta di «fantasma» genetico, scomparso durante analisi successive eseguite con criteri diversi. Altri 5 errori, non gravi. Scoglio dunque ampiamente superato per l’accusa, secondo cui il «99,9999999%» non è minimamente scalfito. Non così per la difesa, che darà battaglia quando a parlare sarà il super consulente Marzio Capra (ex Ris). «Mi risulta che un artefatto possa però capitare in posizione negativa e non positiva», ha anticipato l’avvocato Paolo Camporini (Salvagni era assente per la prima volta per altri impegni). A margine dell’udienza, Capra ha infatti spiegato che «è come dire che un incidente è capitato al km 10, invece è successo al km 25». Distinguo delicati e difficili, però determinanti per la tenuta della «prova regina» del dna. Alla lista si sono aggiunti anche cinque errori materiali di trascrizione nei risultati delle analisi che Piccinini ha dovuto ammettere a denti stretti. Niente di grave, però nemmeno una bella figura. Il pasticcio del dna mitocondriale. L’altro grande dubbio riguarda il dna mitocondriale. Come noto, quello di Bossetti non è mai stato trovato nella traccia biologica “mista” sugli slip di Yara. C’è il nucleare, e Giardina ha ripetuto che è l’unico affidabile per identificare una persona, mentre le analisi del mitocondriale sono rimaste ai primi anni duemila, che in genetica equivale più o meno all’età della pietra. Ma il professore di Tor Vergata non ha potuto che ammettere l’errore che ha determinato un ritardo di due anni nelle indagini. Giardina fu incaricato di confrontare il mitocondriale di 532 donne della Val Seriana (tra cui anche Ester Arzuffi, madre di Bossetti) con il mitocondriale attribuito inizialmente al presunto assassino. I confronti diedero esito negativo. Per forza. «Si scoprì dopo che il profilo confrontato, in realtà, conteneva solo i mitocondri della vittima – ha detto Giardina -. Quello dell’imputato non si vede, anche se non significa che non ci sia». La sequenza genetica analizzata era contenuta in una tabella consegnatagli dalla procura. Chi compilò quella tabella? Risponde direttamente il pm Letizia Ruggeri: «Questo mitocondriale fu estratto nel laboratorio di Firenze dal colonnello Lago, non in veste di comandante dei Ris ma in qualità di consulente privato». Un pasticcio cui si venne a capo solo quando in campo scese un altro genetista, Carlo Previderè: fu lui – secondo la versione ufficiale – ad accorgersi dell’errore. A quel punto le comparazioni furono fatte tra dna nucleari ed Ester Arzuffi risultò essere la madre di Ignoto 1. Di lì a Bossetti il passo fu breve. Il giallo del mitocondriale però resta, Camporini ha annunciato che chiederà alla Corte d’Assise una perizia per fare definitivamente chiarezza. Ora però si è aggiunto anche l’allele “artefatto”. Un altro punto su cui la difesa picchierà duro. Per trasferire tutti i dubbi nella testa dei giudici. (Ha collaborato Gabriele Moroni)
20 NOVEMBRE 2015. SEDICESIMA UDIENZA. PARLANO CARLO PREVIDERE’ E PIERANGELA GRIGNANI.
Il genetista: «Un Ignoto 1 come Bossetti? In 330 milioni di miliardi di pianeti...» «Potrebbe essere scovata una persona con il Dna di Ignoto 1, in pratica il suo gemello biologico, se ci fossero 330 milioni di miliardi di pianeti popolati di 7 miliardi di abitanti com’è la Terra». In pratica è più che impossibile. Parole del genetista Previderè, scrive “L’Eco di Bergamo”. Yara, in aula i genetisti che individuarono Bossetti.
Venerdì 20 novembre dalle 9,30 nuova udienza chiave del processo a Massimo Bossetti, il muratore di Mapello accusato di aver ucciso Yara Gambirasio. In aula il professor Carlo Previderè, dell’Università di Pavia, e la sua assistente Pierangela Grignani. Sono i genetisti che attraverso l’analisi del Dna nucleare nel giugno 2014 stabilirono il rapporto di maternità tra Ester Arzuffi e Ignoto 1 e che successivamente analizzarono il profilo genetico di Massimo Bossetti, estratto dal boccaglio dell’etilometro con cui il muratore era stato sottoposto dai carabinieri a un finto controllo stradale. Il confronto diede piena corrispondenza tra il Dna del sospettato e quello trovato sugli slip e sui leggings di Yara. Un risultato che ha spalancato le porte del carcere per Bossetti e che tuttora resta l’elemento decisivo per tenerlo ancorato alla pesantissima accusa di essere l’autore dell’omicidio di Yara Gambirasio. Previderè è anche l’autore della relazione sulle tracce pilifere trovate sul corpo di Yara, 7 delle quali sono risultate essere di origine umana, ma non appartenenti a Bossetti. Oltre a Previderè e Grignani, interverrà in aula anche Giorgio Casari, genetista del San Raffaele di Milano, consulente del pm che studiò il genoma di Ignoto 1 in fase di indagine con l’obiettivo di ricavare ulteriori indizi sui tratti somatici. Previderè, che si è anche occupato dell'analisi dei reperti piliferi trovati sugli indumenti di Yara (nessuno dei quali risultò essere di Bossetti, così come non furono trovati peli di Yara sul furgone del muratore) ha detti che esiste una possibilità di trovare lo stesso Dna "in 330 milioni di miliardi di mondi popolati da sette milioni di persone". Cifre che statisticamente, per l'esperto, "rendono l'identificazione praticamente certa", a fronte di un profilo "di ottima qualità" e che non avrebbe creato "problemi di interpretazione" ad alcun biologo.
Udienza fondamentale, quella di venerdì 20 novembre al tribunale di Bergamo, nel processo che vede sul banco degli imputati Massimo Bossetti, accusato di aver ucciso Yara Gambirasio. In aula il genetista Carlo Previderè, consulente dell’accusa. Il professor Previderè, dell’Università di Pavia, e la sua assistente Pierangela Grignani attraverso l’analisi del Dna nucleare nel giugno 2014 stabilirono il rapporto di maternità tra Ester Arzuffi e Ignoto 1 e successivamente analizzarono il profilo genetico di Massimo Bossetti, estratto dal boccaglio dell’etilometro con cui il muratore era stato sottoposto dai carabinieri a un finto controllo stradale. Il confronto diede piena corrispondenza tra il Dna del sospettato e quello trovato sugli slip e sui leggings di Yara. Un risultato che ha spalancato le porte del carcere per Bossetti e che tuttora resta l’elemento decisivo per tenerlo ancorato alla pesantissima accusa di essere l’autore dell’omicidio di Yara. Nella udienza del processo, presente come sempre Bossetti, in jeans e maglione bianco, così come la sorella dell’imputato. Previderè ha deposto insieme alla sua assistente Grignani e i due hanno ripercorso le varie tappe della loro indagine. Per la sua complessità, diciamo sinteticamente - ma i numeri sono assolutamente decisivi - che Ester Arzuffi è la madre di Ignoto 1 al 99,9999% e che potrebbe essere scovata «una persona con il Dna di Ignoto 1, in pratica il suo gemello biologico, se ci fossero 330 milioni di miliardi di pianeti popolati di 7 miliardi di abitanti com’è la Terra». In pratica è più che impossibile. Quanto al fatto che nella traccia 31G20, ovvero quella in cui c’è il Dna di Bossetti, non è stato rintracciato il mitocondrio, Previderè non ha dato una spiegazione assolutamente scientifica, che non c’è, ma ha parlato di vari studi che dicono che il mitocondrio sia di difficile identificazione in una traccia mista, come quella in cui è stato individuato il Dna di Bossetti. Ma ha precisato, come già aveva sottolineato nella scorsa udienza il genetista Giardina, che la mancanza del Dna mitocondriale non inficia minimamente il risultato.
Yara, i genetisti al processo «Il Dna è di Bossetti». I consulenti Previderè e Grignani: per la scienza non ci sono dubbi, scrive “Il Corriere della Sera”. È in corso oggi, venerdì 20 novembre, una nuova udienza del processo per l’omicidio di Yara Gambirasio, la ragazzina di Brembate Sopra (Bergamo), rapita e uccisa il 26 novembre del 2010. In aula — dove è presente Massimo Bossetti, il carpentiere di Mapello (Bergamo) imputato per l’omicidio — il capitolo sul Dna sta per essere completato. Oggi è ancora il turno dei consulenti del pm Letizia Ruggeri. In una seconda fase parleranno i consulenti della difesa. In aula ci sono il genetista Carlo Previderè e la sua collaboratrice Pierangela Grignani, e Giorgio Casari, che all’ospedale San Raffaele di Milano guida un gruppo di esperti del Dna. Hanno approfondito loro il profilo genetico di Ignoto 1 fino ad arrivare alla comparazione con Massimo Bossetti. Il match che ha fatto scattare il fermo, il 16 giugno dello scorso anno. In mattinata hanno già parlato Previderè e Grignani, che hanno fatto il confronto tra il Dna di Ignoto 1 e quello di Bossetti, dopo che al carpentiere di Mapello è stato prelevato il campione di saliva. Il confronto, hanno spiegato gli esperti in aula, è stato fatto con 21 marcatori più altre 17 particelle che individuano la linea paterna. I consulenti hanno parlato di «un’identificazione che per la scienza è certa». E il fatto che nella traccia mista (cioè in quella che c’è il Dna di Yara e quello di Ignoto 1) non sia stato rinvenuto Dna mitocondriale è un dato che ne rivela la complessità biologica, ma non ne inficia l’individuazione. Questo passaggio è importante perché nella traccia mista è stato trovato il Dna nucleare di Bossetti, ma non il suo Dna mitocondriale. Questo è un punto su cui la difesa insiste molto. Però oggi in aula i biologi hanno spiegato due aspetti importanti. Il primo: nella traccia mista questo può succedere. E il secondo: l’unico Dna che individua un soggetto è quello nucleare. In aula si è anche parlato della possibilità che un’altra persona abbia il Dna di Ignoto 1. Questa possibilità, secondo gli esperti, è pari a una su 330 milioni di miliardi di altri pianeti popolati ciascuno da 7 miliardi di persone. Lo stesso Previderè in aula ha spiegato che si tratta di «numeri fuori dalla comprensione, ma che fanno capire come l’individuazione sia certa dal punto di vista scientifico». Il Dna di Ignoto 1, che è stato analizzato prima di arrivare a Bossetti, ha una caratteristica (cioè un allele) molto particolare. E questo allele ha una diffusione dello 0,10% in Italia e in Europa. Si è arrivati a Bossetti anche perché questa caratteristica così rara ce l’ha anche Ester Arzuffi, madre del carpentiere di Mapello. Dopo l’intervento dei genetisti, tocca al contro esame della difesa. E già si preannuncia battaglia. È partendo dalla relazione di Previderè che gli avvocati di Bossetti avevano chiesto di nuovo la scarcerazione del muratore di Mapello, dopo i no del gip, del Riesame e della Cassazione. Altri tre giudici hanno dato la stessa risposta.
I consulenti della difesa: "Ecco perché questo non è dna di Bossetti". È del 99,99999987% il rapporto di paternità naturale tra Giuseppe Guerinoni, l’autista di Gorno morto nel 1999, e Ignoto 1, l’uomo che ha lasciato le sue tracce genetiche sul corpo di Yara Gambirasio e che è stato identificato in Massimo Bossetti, scrive Mario Valenza Mercoledì 18/11/2015 su “Il Giornale”. È del 99,99999987% il rapporto di paternità naturale tra Giuseppe Guerinoni, l’autista di Gorno morto nel 1999, e Ignoto 1, l’uomo che ha lasciato le sue tracce genetiche sul corpo di Yara Gambirasio e che è stato identificato in Massimo Bossetti. Lo ha detto stamattina nel corso dell’udienza del processo a Bossetti, Andrea Piccinini, responsabile del Laboratorio di Genetica forense dell’Università degli Studi di Milano. È stato lui ad eseguire gli esami sulla base di campioni prelevati da frammenti, tessuti, unghie e un pezzo di osso femorale della salma di Guerinoni, riesumata due anni fa. Tra il Dna dell’autista e quello di Ignoto 1 e c’è stata una corrispondenza di 28 marcatori su 28 in ogni ripetizione del test. Uno dei difensori di Massimo Bossetti, Paolo Camporini, ha lamentato "troppi errori" nella consulenza del medico Andrea Piccinini, che ha stabilito che il padre di Ignoto 1 era l’autista di autobus Giuseppe Gerinoni. In particolare, il difensore ha stigmatizzato la mancata corrispondenza tra i numeri contenuti nelle tabelle redatte dallo specialista e quelli relativi agli elettroferogrammi, ovvero il grafico che rappresenta le tracce del Dna. Errori materiali che, secondo Piccinini, non finiscono con inficiare il risultato ovvero la paternità di Guerinoni di Ignoto 1.
Processo Yara, ennesimo colpo di scena. Spunta una donna misteriosa: un suo capello era vicino al cadavere, scrive il 20 novembre 2015 Giangavino Sulas su “Oggi”. Un capello incastrato tra il giubbino di Yara e il campo di Chignolo. Il Dna che coincide con quello di Rosita Brena. Stesso cognome dell’insegnante della 13enne. Insomma, un nuovo giallo nel giallo. Alla sedicesima udienza del processo per l’omicidio di Yara è comparso in aula il fantasma di un’altra donna misteriosa. Una donna che lasciato il suo Dna mitocondriale in un capello incastrato fra il giubbino della vittima e il terreno sul quale il corpo di Yara era riverso nel campo di Chignolo. Questa donna, della quale non si era mai parlato in 5 anni di indagini e in 15 udienze processuali, si chiama Rosita Brena. Ha lo stesso cognome di Silvia Brena, la maestra di ginnastica di Yara che ha lasciato sul polsino del giubbino il suo Dna. Ma in questo momento nessuno, a parte forse la Procura, sa chi sia. Solo una omonimia con la maestra? Una parente? Dove abita? Mistero assoluto. Nessuno ha voluto parlare su questo colpo di scena esploso in aula durante il controesame di Carlo Previderè, il genetista dell’università di Pavia incaricato dal Pm Letizia Ruggeri di esaminare le formazioni pilifere sul corpo di Yara. “Per adesso basta così”, ha detto con aria sorniona Salvagni, l’avvocato di Bossetti. “Più avanti ne vedremo delle belle”. Previderè ha rivelato di essere partito dalla lista delle famose 532 donne consegnate dal comandante del Ris Giampietro Lago al professor Giardina, direttore della genetica forense all’università romana di Tor Vergata per scoprire chi fosse la madre di Bossetti, confrontando il loro Dna mitocondriale con quello di Ignoto 1. In realtà Giardina, indotto in errore dal Ris, lo confrontò con quello di Yara e non scoprì così che fra quelle 532 donne c’era anche Esther Arzuffi, la mamma di Massimo Bossetti. Una operazione costata 118 mila euro e conclusa con un flop. Carlo Previderè confrontando quei Dna con quelli ricavati dai capelli trovati su Yara ha scoperto che il profilo genetico di una di quelle donne corrispondeva esattamente al mitocondriale di uno di quei capelli. Questa donna è appunto Rosita Brena. Il suo capello era ancorato al terreno dal corpo di Yara, “Quindi”, ha aggiunto Salvagni, “non è volato in quel punto. C’era già quando Yara è stata aggredita”. Come è noto sul corpo e sugli indumenti di Yara furono scoperte circa 200 formazioni pilifere (capelli e peli) umane. 94 di queste avevano il profilo genetico mitocondriale di Yara, 101 non erano analizzabili e 7 avevano un mitocondriale di persone sconosciute. Questo sapevamo fino a oggi. Ma i difensori di Bossetti leggendo le 60 mila pagine del fascicolo hanno scoperto che almeno uno di quei sette capelli ha un nome e un cognome. Ma la Procura a questo nome e cognome ha dedicato, in 60 mila pagine, una sola riga. Quindi non avrebbe fatto alcun accertamento supplementare. O almeno non ce n’è traccia negli atti. Finita l’udienza naturalmente è scattata la caccia a Rosita Brena. Chi è? Come mai ha avuto un contatto con Yara negli ultimi istanti di vita della povera ginnasta? Sarà interrogata? Per il momento solo bocche cucite.
Yara, in vendita all'asta sul web l'auto di Massimo Bossetti: "E' un'occasione". A comunicare dell'asta in corso è Luca Matteja, amico di Bossetti, che su Facebook spiega come sono andate le cose: "Mi è stato chiesto di diffondere l'informazione che la famiglia di Bossetti vende la Volvo che purtroppo a lui attualmente non serve", scrive “ToDay” il 20 Novembre 2015. L'auto di Massimo Bossetti, l'uomo a processo per l'omicidio di Yara Gambirasio, è in vendita all'asta sul web. Un amico scrive: "Forza ragazzi, aiutiamolo". L'annuncio è "AAA Vendesi Volvo V40 colore grigio". A comunicare dell'asta in corso è Luca Matteja, amico di Bossetti, che su Facebook spiega come sono andate le cose: "Mi è stato chiesto di diffondere l'informazione che la famiglia di Bossetti vende la Volvo che purtroppo a lui attualmente non serve". "Sarebbe tra l'altro una occasione - continua - per dare una mano a questa famiglia in seria difficoltà! Chi è interessato mi scriva qui oppure in privato, a breve faccio un post con tutte le caratteristiche (...). Forza ragazzi!!! Chiedete anche ai vostri amici e conoscenti, spargiamo la voce: dimostriamo che la solidarietà aiuta le persone che hanno bisogno".
Libero commenta: Insomma, la vendita della macchina di Bossetti diventa una sorta di atto di solidarietà nei confronti dell'imputato, tanto che l'invito ad acquistarla viene "esteso a tutti quelli che devono cambiare macchina e vogliono una eccellente occasione spendendo veramente poco".
L'Eco di Bergamo nota come sul web in molti si siano sorpresi: La notizia ha suscitato reazioni e commenti a raffica. «È uno scherzo?», chiede una donna. «Assolutamente no», replica l’utente in Fb.
27 NOVEMBRE 2015. DICIASSETTESIMA UDIENZA. PARLANO GIANCARLO BONACINA, CINZIA CORNALI, FILIPPO LAURINO, PRIMINA LOCATELLI, STEFANIA CAROZZA, GIUSEPPE COLOMBI, MARCO BRIOSCHI, ALESSANDRO DONADONI, SIMONA ARZUFFI E QUATTRO DIPENDENTI DI DUE CENTRI ESTETICI.
Dopo tre giorni dalla sua entrata in scena nel caso dell'omicidio di Yara Gambirasio, Rosita Brena, la donna il cui dna mitocondriale coincide con il capello incastrato fra il giubbino della vittima e il terreno del campo di Chignolo dove è stato ritrovato il corpo della ragazza, ha spiegato la sua versione a "Pomeriggio Cinque" del 23 novembre 2015. "Mia figlia andava a scuola con Yara - ha spiegato la donna a una giornalista del programma di Barbara D'Urso - Erano nella stessa classe, per cui mi sembra più che probabile che ci fosse un capello di mia figlia sul suo corpo, perché ovviamente le ragazzine si abbracciano, si sta insieme in classe e può essere che sia successa questa cosa. La cosa più ovvia è questa". La donna, inoltre, ha lo stesso cognome di Silvia Brena, la maestra di ginnastica di Yara che ha lasciato sul polsino del giubbino il suo Dna e, in merito all’ipotesi che fosse sua parente, ha chiarito: "Non sono parente di Silvia Brena. Non ho parenti che si chiamano con questo nome. Non so neppure chi sia".
Caso Yara, scintille tra accusa e difesa. Nessuno fornisce alibi a Bossetti. Dopo diverse udienze molto tecniche con protagonisti il Dna di Ignoto 1 e i consulenti dell’accusa, venerdì 27 novembre 2015 - al processo a carico di Massimo Bossetti, il muratore di Mapello accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio - è stata la giornata delle testimonianze di diverse persone in relazione all’alibi dell’imputato, scrive "Bergamo News”. Bossetti, per giustificare la sua presenza a Brembate Sopra, paese della giovane ginnasta (che scomparve il 26 novembre di 5 anni fa e il cui corpo senza vita fu scoperto tre mesi dopo in un campo incolto di Chignolo), aveva sostenuto di essere stato in più riprese in zona perché si sarebbe recato dal meccanico, dalla commercialista e in diverse edicola ad acquistare le figurine per i figli. Dal lavoro degli inquirenti sono però emerse numerose discrepanze nel suo racconto: l’uomo sarebbe stato sì nel paese, ma in circostanze diverse rispetto a quelle da lui ricostruite. E le varie testimonianze di giornata non hanno in effetti consentito di ricostruire la giornata del 26 novembre di Bossetti. Tanti sono stati i «non ricordo» o i dubbi su quel giorno. L’unico aggancio è stato rappresentato da una fattura per materiale edile rilasciata a Villa d’Adda alle 14,30 del 26 novembre. Le testimonianze non sono state clamorose. Un’impiegata amministrativa di una ditta di materiali edili di Villa d’Adda ha raccontato di una fattura relativa a Bossetti il 26 novembre 2010 alle 14,30 (e dunque il giorno della scomparsa di Yara; il muratore non rientrò poi in cantiere), risulta una fattura per acquisto di sabbia in un’altra ditta, a Chignolo, il 9 dicembre 2010, la commercialista ha detto di non ricordare se il 26 novembre Bossetti si recò nel suo studio, non lo può escludere, anche se in teoria non era in quel periodo che il muratore ci sarebbe dovuto andare, mentre ci sono fatture dal 25 ottobre al 25 novembre 2010 (il giorno prima della scomparsa di Yara) in una trattoria di Palazzago (ha deposto una dipendente), dove il muratore lavorava in quel periodo. Infine, un carrozziere di Ambivere ha detto che il furgone di Bossetti era stato nella sua officina per una riparazione della metà a fine ottobre 2015 . Prima della pausa c’è stato un diverbio molto acceso tra la difesa e l’accusa, quando il pm Letizia Ruggeri ha annunciato a sorpresa che saranno sentite anche quattro ragazze dipendenti di centri estetici dove l’imputato andava. La difesa si è risentita moltissimo dicendo di non essere preparata per il controesame di questi testimoni perché non era a conoscenza che avrebbero deposto. «Abbiamo la necessità - hanno sottolineato i legali - di preparare scrupolosamente tutte quante le udienze, per fare domande ai testi». «È diritto del pm citare qualunque teste ritenga», ha risposto il magistrato. Il giudice Antonella Bertoja ha auspicato che durante la pausa accusa e difesa si accordino. Si è ripreso e sono stati ascoltati tre edicolanti e una tabaccaio con giornali, tutti di Brembate Sopra, ma anche in questo caso non ci sono state dichiarazioni di rilievo: tutti hanno parlato di Bossetti come di un cliente non abituale e sono stati tanti i «non ricordo». Nuova pausa fino alla 15, quando saranno ascoltate le quattro dipendenti dei centri estetici. L’avvocato Paolo Camporini, uno dei legali del muratore di Mapello, ha sottolineato che confida che in futuro ci sia maggiore collaborazione e siano evitati queste convocazioni di testi a sorpresa. Dalla testimonianza delle quattro dipendenti dei centri estetici, due di Brembate Sopra e due di Curno, è emerso che Bossetti ci andava una o due volte alla settimane, talvolta anche tre (l’imputato a quelle parole ha avuto un gesto di stizza), e che era stato a Curno tre o quattro giorni prima del fermo. Nel centro estetico faceva soltanto lampade o doccia solare. Bossetti è stato descritto come persona schiva e riservata.
Yara, quel metro cubo di sabbia comprato a Chignolo dopo il delitto. L’acquisto due settimane dopo l’omicidio. Il titolare della Edil Bonacina: «Non era un nostro cliente abituale, non lo vedevamo da tempo», scrive “Il Corriere della Sera” del 27 novembre 2015. Al processo per l’omicidio della piccola Yara Gambirasio, della quale ieri è stato il quinto anniversario della scomparsa, le deposizioni di genetisti e consulenti lasciano temporaneamente spazio a quelle dei testimoni legati all’imputato Massimo Bossetti. È il caso di Giancarlo Bonacina, socio della Edil Bonacina di Chignolo d’Isola, l’azienda alla quale Bossetti si era rivolto per l’acquisto di un metro cubo di sabbia il 9 dicembre 2010. Sono i giorni successivi alla scomparsa della tredicenne di Brembate Sopra, il cui cadavere verrà ritrovato il 26 febbraio 2011 tra le sterpaglie del campo di via Bedeschi, proprio a Chignolo. Per l’accusa, quel metro cubo di sabbia, registrato in una bolla di trasporto, è stata solo una scusa per permettere a Bossetti di passare nella zona del campo dove Yara era stata abbandonata agonizzante la sera del 26 novembre, due settimane prima. Interrogato dal pm Letizia Ruggeri, Bonacina ha dichiarato che Bossetti era stato un suo cliente saltuario per un periodo precedente alla fine del 2010 e che era da parecchio tempo che non si recava da lui. Gli avvocati del carpentiere di Mapello, 45 anni, moglie e tre figli, hanno invece insistito nel chiedere a Bonacina se sapesse di alcuni lavori in corso in quel periodo a Bonate Sopra, paese che si trova a soli 3 chilometri da Chignolo. Bossetti avrebbe effettivamente lavorato in quel cantiere, ma per gli inquirenti in un arco di tempo diverso. Hanno poi testimoniato la commercialista e il carrozziere di Bossetti, convocati perché il giorno del delitto lui sostiene di essere stato da loro. Cinzia Cornali, con ufficio a Brembate Sopra (questo giustificherebbe, per la difesa, la presenza di Bossetti vicino al luogo della scomparsa di Yara), ha spiegato che le scadenze di Bossetti erano a metà e fine mese. «Ma poteva succedere che a metà mese lui firmasse anche quelle successive», ha spiegato la professionista, che ha però dichiarato di non riuscire a ricordare se il 26 novembre 2010 Bossetti passò. Non può escludere il contrario. Anche il carrozziere Filippo Laurino di Ambivere ha detto di non essere in grado di escludere che quel giorno Bossetti era da lui, magari per controlli che non necessitavano registrazioni, come quelli che invece risulta abbia effettuato l’ottobre precedente. Prima della pausa di metà mattina da registrare l’ennesimo battibecco tra accusa e difesa. Il pm Ruggeri ha elencato i testimoni che saranno ascoltati nel resto della giornata: quattro edicolanti e quattro testimoni dei centri estetici frequentati da Bossetti. Questi ultimi non erano stati annunciati dal pm nell’udienza della scorsa settimana, cosa che ha fatto scattare l’avvocato Claudio Salvagni. «Non possiamo improvvisare - lo sfogo del legale -, così non viene garantita una giusta difesa». Con tono stizzito, Ruggeri ha ricordato che l’accusa non è tenuta ad anticipare i suoi testi e che potrebbe anche chiamarli a caso. «Li anticipo per gentilezza, come vuole il galateo processuale», ha precisato il pm. L’avvocato dei Gambirasio, Andrea Pezzota, si è infilato nello scambio per chiedere che non si perda tempo. A quel punto, il presidente della Corte d’Assise, Antonella Bertoja, ha invitato al buon senso.
Caso Yara, gli alibi di Bossetti passati ai raggi x: "Comprò la sabbia dopo il delitto". L’acquisto per tornare sul luogo dell’omicidio di Yara. Scintille in aula, scrive Gabriele Moroni su “Il Giorno”. Cinque anni dopo si torna a quel 26 novembre del 2010, ai luoghi dove Yara Gambirasio sparisce, all’uscita dal centro sportivo di Brembate di Sopra, per essere inghiottita dalla notte bergamasca e dal più nero dei destini. Dopo il diluvio sul Dna, autentiche lezioni accademiche di genetica, interventi di scienziati, nell’aula della Corte d’Assise di Bergamo è una sfilata di varia umanità. Massimo Giuseppe Bossetti, unico imputato per l’omicidio della ginnasta tredicenne, ritrova i personaggi che ha indicato come supporto del suo alibi per quel fosco pomeriggio. Tutti vengono sentiti come testi dell’accusa. Da una parte Bossetti non riceve aiuto perché nessuno conferma il suo alibi per il pomeriggio di quel 26 novembre, nessuno afferma di averlo incontrato. Dall’altra c’è chi «non lo esclude». Sono tanti i «non ricordo». Il pubblico ministero Letizia Ruggeri mostra a Primina Locatelli, impiegata in una ditta di articoli per l’edilizia, la bolla per un acquisto effettuato da Bossetti il 26 novembre del 2010. L’ora segnata sono le 14.30. Troppo presto per garantire all’imputato l’estraneità a un’azione che cade invece attorno alle 19, quando Yara esce dalla palestra di via Locatelli. La commercialista Cinzia Cornali non può ricordare quando il muratore è comparso nel suo ufficio di Brembate per firmare l’autorizzazione all’addebito in banca per il pagamento del modello F24, se nella giornata del 26 o in un’altra. Non esclude di averlo visto il 26 novembre, anche se non era quello il periodo in cui il carpentiere si sarebbe dovuto presentare nel suo studio. Non lo aveva come cliente abituale e non vedeva Bossetti da tempo Giancarlo Bonacina, socio della Edil Bonacina di Chignolo d’Isola, dove Bossetti compare per procurarsi un metro cubo di sabbia il 9 dicembre, due settimane dopo la morte di Yara. Secondo l’accusa l’acquisto sarebbe stato un pretesto per controllare la zona dove la vittima era stata abbandonata. Il pm mette sotto gli occhi di Stefania Carozza, ristoratrice di Palazzago, una serie di ricevute. Bossetti lavorava in un cantiere a Palazzago e ha consumato i pasti del mezzogiorno alla trattoria Ca’ Sabì, dal 25 ottobre al 25 novembre 2010, un giorno prima della sparizione di Yara. Gli edicolanti Giuseppe Colombi (il suo chiosco è di fronte al centro sportivo), Marco Brioschi, Alessandro Donadoni e la tabaccaia Simona Arzuffi dichiarano di non avere avuto il muratore di Mapello fra i loro clienti abituali. Sprizzano scintille ed è scontro tra accusa e difesa quando il pm annuncia che per il pomeriggio sono state citate quattro dipendenti di centri estetici. La difesa insorge parlando di «effetto sorpresa». Bossetti ha frequentato un centro estetico in via Don Angelo Gotti a Brembate, vicino alla casa dei Gambirasio e alla fermata dello scuolabus. Ma ci andava, per quanto più raramente, anche dopo che il solarium si era allontanato di qualche centinaio di metri. Ha frequentato un altro centro fitness, a Curno. Viene descritto come un cliente riservato che compariva senza appuntamento faceva soltanto lampade o doccia solare. Le sedute erano una o due volte alla settimana, a volte anche tre. A queste parole Bossetti nega con un evidente gesto di stizza. La difesa attacca: la dipendente che ha fatto l’affermazione lavorava solo per tre giorni alla settimana, impossibile che ogni volta si imbattesse nell’imputato.
Cinque anni senza Yara. Se la tragedia è solo talk show. Oggi l’anniversario della scomparsa della ragazzina, mentre è in corso il processo, scrive Giuliana Ubbiali il 26 novembre 2015 su "Il Corriere della Sera”. Yara Gambirasio è stata uccisa il 26 novembre 2010. Cinque anni senza Yara. Oggi. Fino a quando il presunto assassino era un fantasma, il 26 novembre ha avuto l’effetto di un martello che ingigantiva l’emicrania collettiva. Chi è? Che volto e che storia ha? La data della scomparsa della bambina, che è anche quella della morte, anno dopo anno ricordava che la verità era ancora nascosta in un Dna. La chiave del delitto, ma al tempo stesso lo scrigno che custodiva il nome del killer. C’era un profilo genetico maschile fortemente indiziario perché trovato sugli slip e sui leggings della vittima, poi è stato scoperto il padre di quello che rimaneva un’entità: Ignoto 1. E che non si scovava. Fino al 16 giugno del 2014, quando le indagini genetiche gli hanno dato il nome e il volto di Massimo Bossetti. Allora la data del 26 novembre è entrata in un nuovo corso, quello del confronto tra accusa e difesa per giungere alla verità, ora attraverso il processo. Ma oggi come in passato, una cosa non è cambiata. Anzi, è peggiorata. Si è persa di vista la vittima. Non vale certo per la famiglia Gambirasio, così protetta dalla discrezione di mamma Maura e papà Fulvio che parlarne sembra quasi di violarla. Per il resto, quante volte ci si è chiesti chi era Yara, che cosa sognava, che futuro si immaginava? L’inchiesta è coincisa talmente tanto con il rebus del Dna che nelle pagine degli atti e dei giornali la piccola è diventata un codice genetico. Poi l’hanno raccontata Maura e Fulvio, i primi testimoni. Hanno condiviso (per forza) con giudici, avvocati, giornalisti, con il pubblico che ha fatto la fila per vedere Bossetti, lacrime e scene di tenera quotidianità. Come quando il papà chiedeva a Yara di andare a prendergli un bicchiere e lei ubbidiva facendo la giravolta. Da allora il processo ha lasciato fuori dall’aula la piccola e si è concentrato sugli aspetti tecnici. Ci sta, perché per sentenziare se l’imputato è colpevole o innocente i giudici devono per forza scervellarsi sul Dna, ascoltando testimonianze al limite delle lezioni universitarie. Yara, però, non andrebbe persa di vista nemmeno quando non la si racconta. Bombette mediatiche su prove «taroccate», chiamate in causa di persone già rivoltate come un guanto dalle indagini, frecciate reciproche difesa-accusa e il tifo sul web che divide innocentisti e colpevolisti hanno il solo triste effetto di spostare l’attenzione dal faro della vicenda. Yara, uccisa a 13 anni. E pure da Bossetti, perché di mezzo c’è anche la sua vita. Vedere e ascoltare in aula Maura e Fulvio l’aveva ricordato. Ma a processo non ci sono anche se, forse, avrebbero voluto il contrario. Una scelta consigliata dai loro avvocati, per evitare altro strazio e la bolgia dei talk show.
Yara, 5 anni dopo una certezza oggettiva: poteva essere salvata. Era il 26 novembre 2010 quando la tredicenne fece perdere le sue tracce. Nel processo tanti tasselli e alcune verità: quella sera nessuno andò a cercarla, scrive il 26 novembre 2015 Carmelo Abbate su “Panorama”. Sono passati cinque anni. E come ogni 26 novembre siamo qui a ricordare Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate di Sopra scomparsa all'uscita della palestra e ritrovata senza vita tre mesi dopo nel campo di Chignolo d'Isola. Il processo in corso a Bergamo, dove l'accusa e la difesa se le stanno suonando di santa ragione, alla fine ci dirà se a ucciderla è stata il muratore Massimo Bossetti. Nell'attesa del verdetto finale, però, il dibattimento ci sta offrendo tanti piccoli tasselli investigativi che messi insieme ci permettono di trarre le prime conclusioni. Una su tutte è quella che forse ci fa più male, ovvero che Yara poteva essere salvata. È una verità dura da accettare, ma è così. Nessuno potrà mai essere incriminato quello che non è stato fatto e che si poteva fare, ma è un dato oggettivo che si è cristallizzato nel processo. Cristina Cattaneo, dell'istituto di medicina legale di Milano, lo ha detto chiaro nel corso della sua deposizione giurata: Yara è morta nel campo di Chignolo in un arco di tempo che va dalle 4 alle 6 ore successive alla scomparsa, quindi tra le undici e l'una di notte. La ragazza è stata colpita da un oggetto contundente alla testa, molto probabilmente un sasso, che l'ha tramortita, e poi seviziata e torturata con almeno una quindicina di coltellate, alcune superficiali, altre profonde, come quella che le ha spezzato il polso sinistro. La morte è sopravvenuta per la debolezza dovuta alle perdite di sangue. Nelle ore in cui Yara lotta con il suo assassino, il padre Fulvio Gambirasio si presenta alla caserma dei carabinieri di Ponte San Pietro per denunciare la scomparsa della figlia. Il brigadiere prova a tranquillizzarlo con la storiella dei giovani che a quell'età spesso si allontanano di casa, ma il papà di Yara racconta del carattere e delle abitudini della figlia e insiste: «Ho paura che sia successo qualcosa di brutto». Sono soltanto le 20,30. Il brigadiere interpella il nucleo investigativo di Bergamo che attiva un sistema di geolocalizzazione del telefonino dal nome Carro. Secondo Fulvio Gambirasio, emerge che il telefono si trova tra Monza e Novara, ma gli uomini dell'Arma, forti dei limiti oggettivi di un sistema oggi obsoleto che indicava soltanto delle macroaree, dicono che il responso indicava soltanto la zona del nord Italia. Fatto sta che Yara è in pericolo, ma ancora viva. Eppure nessuno, tranne la sua mamma e il suo papà, quella sera si prende la briga di andarla a cercare. Nessuna telefonata ai comandi dei vigili urbani, in questura, negli ospedali. Niente. Nessuna macchina dei carabinieri o della polizia esce per fare un giro e provare a cercarla. Il pubblico ministero di turno alla procura di Bergamo, Giancarlo Mancusi, nonostante la denuncia non apre neppure un fascicolo d'indagine sulla comparsa. Cosa che farà la collega Letizia Ruggeri alle 8 del mattino successivo. Così, oggi, a distanza di cinque anni da quel 26 novembre 2010, ci restano soltanto diversi se e perchè. E se avessero creduto al papà? E se non si fossero fatti cullare dall'ipotesi dell'adolescente che scappa a casa dell'amico o dell'amica? E se qualcuno l'avesse cercata? Molto probabilmente non l'avrebbe trovata. Ma una cosa è certa: Yara era viva e invocava aiuto. Alla fine si è aggrappata a un ciuffo d'erba.
Per lo sciopero degli avvocati contro la spettacolarizzazione dei processi, salteranno le udienze del 2 e 4 dicembre, si riprenderà venerdì 11 quando deporranno due capitani dei Ris sui dati grezzi del Dna di Ignoto 1.
5 DICEMBRE 2015. DEPOSITO DATI GREZZI.
Bossetti, i Ris consegnano 1.300 pagine di dati sul Dna, scrive “L’Eco di Bergamo” il 5 dicembre 2015. Depositata in Tribunale venerdì 4 dicembre l’integrazione della consulenza di Ignoto 1. Questione tecnica, ma importante per il processo. Il documento dei Ris di Parma contiene 1.300 pagine di dati che testimonierebbero le numerose conferme ottenute in laboratorio riguardo alla validità scientifica del Dna di Ignoto 1 (la chiave di volta del processo) poi risultato appartenere a Massimo Bossetti. Proprio il 4 dicembre scadeva il termine di consegna dell’integrazione alla consulenza sul Dna che era stata disposta nell’udienza del 13 novembre scorso dalla Corte d’Assise, presieduta dal giudice Antonella Bertoja, su sollecitazione della difesa dell’imputato. La questione è estremamente tecnica, ma importante: la difesa di Bossetti in aula aveva ricordato (citando la sentenza di assoluzione di Raffaele Sollecito e Amanda Knox per il delitto di Perugia) l’orientamento della Cassazione sulla prova scientifica: se non è ripetibile l’accertamento, deve essere stato validato e confermato da più ripetizioni (amplificazioni, nel caso del Dna) nel corso delle indagini in laboratorio.
11 DICEMBRE 2015. DICIOTTESIMA UDIENZA. SCHERMAGLIE SUI DATI GREZZI.
Yara, la difesa rinuncia all’interrogatorio. Prossima udienza il 16 dicembre, scrive “L’Eco di Bergamo”. Massimo Bossetti torna in aula. Si parla ancora di Dna con i Ris. Oggi nuova udienza del processo a carico di Massimo Bossetti, unico imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio. In aula, al banco dei testimoni, torneranno i capitani dei carabinieri Nicola Staiti e Fabiano Gentile, della squadra di Biologia del Ris di Parma. Si preannuncia un’udienza estremamente tecnica, ma rilevante ai fini processuali. I due esperti dovranno illustrare la loro risposta al quesito formulato dalla Corte – su sollecitazione della difesa dell’imputato – riguardante il numero di amplificazioni effettuate sul Dna di Ignoto 1, specificando quali kit commerciali sono stati utilizzati a tale scopo. Venerdì scorso i due capitani hanno depositato una relazione di circa milletrecento pagine sull’argomento. Una grossa mole di dati che – nella prospettiva dell’accusa – testimonierebbe le numerose conferme ottenute in laboratorio riguardo alla validità scientifica del Dna di Ignoto 1 (la chiave di volta del processo) poi risultato appartenere a Massimo Bossetti. Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, nelle precedenti udienze, avevano invece fatto capire che intendono mettere in discussione – con il loro consulente scientifico Marzio Capra – le conclusioni dei Ris di Parma sul punto. Avevano ottenuto dalla Corte che i Ris fornissero un quadro completo sul numero di amplificazioni «per verificare il lavoro svolto – aveva però puntualizzato la presidente Bertoja – non le conclusioni».
Udienza clou quella della mattinata di venerdì 11 dicembre per il processo Bossetti. Un’udienza molto tesa e con colpi di scena incredibili: presente in aula anche il procuratore di Bergamo Francesco Dettori, continua "L'Eco di Bergamo". Subito le tensioni sono esplose con la difesa che ha chiesto l’inutilizzabilità dei dati grezzi: «Noi dubitiamo che questi dati siano genuini - ha detto l’avvocato Claudio Salvagni -. Prima i Ris hanno dichiarato che i dati erano tutti emersi, ora ne hanno aggiunti il 400 per cento in più». Immediata la risposta del pm Letizia Ruggeri: «I dati aggiunti sono 15-18», ma Salvagni sottolinea: «È stato trovato un sistema per fare vedere dall’accusa alcuni dati e altri no, il modus operandi di questa procura non ci permette di operare e quindi dubitiamo dei dati grezzi». Dichiarazioni molto pesanti che sono rafforzate da quanto detto anche da Paolo Camporini, che affianca Salvagni nella difesa di Bossetti: «Questo sistema è inaccettabile, mi sono sentito preso in giro: quando facciamo domande, l’accusa chiede tempo e annuncia sorprese presentandosi con dati diversi». Da qui la richiesta di riesaminare tutti i reperti. Richiesta però inaccettabile secondo la Ruggeri che sottolinea: «Tutti i dati sono stati acquisiti e depositati in maniera regolare e già analizzati in Cassazione, al Tribunale del Riesame, dal gip e dal gup. I dati aggiunti sono 15-18 e chiediamo la trasmissione del verbale dei due legali all’ufficio del pm perchè le accuse su come ha operato la procura sono al limite della calunnia». E le tensioni sono proseguite: «È gravemente offensivo mettere in dubbio i dati» ha ribadito il pm Ruggeri. La Corte ha quindi deciso di ascoltare i due colonnelli dei Ris di Parma sulle analisi del dna e di valutare poi l’inaccettabilità o meno dei dati grezzi. Camporini, con un colpo di scena, ha però annunciato che la difesa non contro-interrogherà i due militari: «Rinunciamo al contro-esame perchè non ci fidiamo». «Sono state 103 le analisi svolte su 15 campioni di tracce in cui poteva essere contenuto il Dna di “ignoto 1” eseguite dal Ris di Parma, nell’ambito delle indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio. Settantuno di queste analisi diedero un risultato interpretabile, ovvero evidenziarono la presenza di “Ignoto 1” mentre altre 32 sono non interpretabili» hanno spiegato gli ufficiali del Ris di Parma. Il controesame si sarebbe dovuto basare sui cosiddetti «dati grezzi» che stanno alla base della relazione dei militari che estrapolarono il dna di «ignoto 1». Dopo il rifiuto degli avvocati il presidente Antonella Bertoja, ha deciso di esaminare gli ufficiali. Nel primo pomeriggio l’udienza è ripresa dopo la pausa del pranzo, sempre all’insegna di tecnicismi legati ai dati grezzi presi in esame. La Corte nel frattempo ha respinto le tre richieste della difesa: l’inutilizzabilità dei dati grezzi, l’acquisizione dei fogli di lavoro dei Ris e la possibilità di riesaminare i reperti. La difesa ha confermato la volontà di non contro-interrogare i due ufficiali del Ris di Parma, con una sola domanda fatta da Salvagni: l’avvocato ha chiesto se potrebbero esserci altri dati grezzi che potrebbero emerge. «Non lo possiamo escludere» è stata la risposta dei militari. Alle 14 l’udienza è terminata, si ritorna in aula il prossimo 16 dicembre per riprendere la questione del furgone con alcuni testimoni chiamati a deporre.
Yara, scontro sui "dati grezzi": difesa Bossetti rinuncia a controesaminare ufficiali Ris. La decisione della difesa viene dopo il deposito di una integrazione dei "dati grezzi" che, a suo avviso, costituisce una violazione del diritto di difesa. I legali hanno anche insinuato dei dubbi sulla "genuinità" di questi elementi, scrive “Il Giorno”. E' scontro in aula tra i legali di Massimo Bossetti e il pm alla Corte d'Assise di Bergamo dove si svolge il processo per l'omicidio di Yara Gambirasio. Gli avvocati della difesa di Massimo Bossetti hanno rinunciato, in polemica con "il modus operandi" della Procura al controesame degli ufficiali del Ris che hanno effettuato gli esami del Dna sulle tracce rinvenute sugli indumenti della vittima. Ad innescare lo scontro, le frasi dell'avvocato Claudio Salvagni: "Noi dubitiamo - ha detto - che questi dati siano genuini. Prima i Ris hanno dichiarato che i dati erano tutti emersi, ora ne hanno aggiunti il 400 per cento in più". La difesa ha quindi chiesto di riesaminare tutti i reperti. Richiesta che il pm Letizia Ruggeri ha chiesto di respingere. "Il materiale è tutto pienamente utilizzabile", ha detto, e ha ricordato che sulla legittimità dell'operato della Procura e delle forze dell'ordine impegnate nel processo si sono già espressi il gip, il gup, il Tribunale del riesame e la Cassazione. "I dati aggiunti sono 15-18", ha voluto precisare Ruggeri, che ha chiesto la trasmissione del verbale delle frasi pronunciate dai due legali all'ufficio del pm per "le accuse ai limiti della calunnia relativamente al modus operandi della Procura" per "assurgere a sistema un modo di fare che altererebbe i dati". "E' gravemente offensivo - ha aggiunto - mettere in dubbio la genuinità e la fondatezza dei dati così presentati". La Corte d'assise di Bergamo, ha quindi respinto la richiesta della difesa dell'imputato Massimo Bossetti di dichiarare l'inutilizzabilità dei dati grezzi del Dna diversi da quelli prodotti dal Ris."Non esistono problemi di utilizzazione di file documentali - ha detto il presidente della Corte d'assise Antonella Bertoja - sia pure messi a disposizione in una tappa successiva. La Corte respinge quindi la questione di inutilizzabilità". Il controesame, dopo la rinuncia della Difesa, è stato condotto dalla Corte. Come spiegato dagli ufficiali del Ris di Parma, sono state 103 le analisi svolte su 15 campioni di tracce in cui poteva essere contenuto il Dna di ignoto 1 eseguite dal Ris di Parma, nell'ambito delle indagini sull'omicidio di Yara. Settantuno di queste analisi diedero un risultato interpretabile, ovvero evidenziarono la presenza di 'Ignoto 1' mentre altre 32 sono non interpretabili.
Bossetti e la battaglia sul Dna. Quella sfilza di dati determinanti. Il Ris in aula: 103 analisi su 15 tracce isolate dai vestiti di Yara, in 71 casi si è arrivati al profilo di Ignoto 1. Lo scontro sui due campioni principali e il confronto sulle ripetizioni delle analisi, come nel caso Meredith, scrivono Armando Di Landro e Giuliana Ubbiali il 12 dicembre 2015 su “Il Corriere della Sera”. La difesa di Massimo Bossetti puntava a mettere in difficoltà la pubblica accusa sui cosiddetti «dati grezzi» del Dna, ovvero l’elenco degli orari in cui sono state effettuate le analisi, il tipo di kit utilizzati, la leggibilità dei singoli risultati. E la stessa difesa si è scatenata, protestando, perché i dati grezzi depositati dal Ris di Parma il 4 dicembre sono diversi, più completi e ordinati, di quelli che gli stessi avvocati avevano ricevuto a ottobre su un cd (leggi lo scontro in aula tra i due legali e il pubblico ministero). I nuovi dati grezzi sono stati però ritenuti utilizzabili dalla Corte d’Assise di Bergamo e si sono trasformati in una sorta di boomerang per la difesa stessa, con l’elenco di tutti i risultati positivi su Ignoto 1 letto di fronte ai giurati. La prima analisi è delle 9.13 del 3 maggio 2011. La seconda e la terza sono delle 15.24 del 4 maggio. Le quarta, quinta, sesta, settima e ottava delle 10.14 del 20 ottobre 2011. L’elenco prosegue fino a 18. Sono solo quelle sul campione con la maggiore quantità di Dna di Ignoto 1, ribattezzato Massimo Bossetti, isolato sugli slip di Yara Gambirasio. Le tracce in cui c’è quel profilo genetico sono 15 e sono state analizzate in tutto 103 volte. I dati chiesti dagli avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, si sono rivelati un autogol per la difesa. Almeno all’udienza di ieri, al netto di quando parleranno i loro genetisti Marzio Capra e Sarah Gino. Non sarà però prima di gennaio, perché i consulenti hanno bisogno di tempo per leggere i (nuovi) dati grezzi forniti dal Ris, un’integrazione a quelli già a disposizione con il dettaglio del numero delle ripetizioni dei test e i kit utilizzati. Gli avvocati fanno lo sciopero del contro esame agitando la bandiera del diritto della difesa leso e chiedendo l’inutilizzabilità dei nuovi dati, allora è la Corte (che poi respingerà la richiesta) a chiedere conto delle analisi ai capitani del Ris, Nicola Staiti e Fabiano Gentile. Giorno-mese-anno e orari che spaccano il minuto entrano nel processo come un bollettino di guerra che calamita l’attenzione anche dei giudici popolari. Non perdere una parola non è facile in un processo dal contenuto scientifico. I numeri danno conto della mole di lavoro che ha portato ad uno stesso risultato: in alcune più, in altre meno, ma in tutte quelle tracce c’è il Dna di Ignoto 1, che quattro anni dopo un altro laboratorio ha confrontato con quello dell’imputato trovando il match. Le domande dirette della presidente Antonella Bertoja facilitano la comprensione. «Gli ulteriori dati quanti sono? Si è parlato (la difesa ndr) del 400% in più», chiede. I capitani ridimensionano: «I dati in più sono 22». Quindi via con il bollettino. «Quante amplificazioni e ripetizioni avete fatto su ogni campione?», altra domanda. Le prime sono analisi vere e proprie, le seconde sono repliche di analisi già fatte per verificarne e, se è uguale, consolidarne l’esito. I capitani elencano i numeri per ciascuna delle 15 tracce. La prima volta, il Dna di Ignoto 1 è stato isolato l’8 aprile del 2011, alle 10.26. Il campione degli slip della bambina è il 31 G ext, dove «G» sta per la griglia virtuale in cui è stato suddiviso l’indumento ed «ext» sta per la parte esterna. È stato analizzato 13 volte, con kit diversi sia sui marcatori (particelle) che compongono il profilo genetico sia sul cromosoma Y che caratterizza i maschi di una stessa discendenza paterna. Numerose tracce sono state sottoposte al test 4 volte. Il G20 per 18 volte anche se, dicono i capitani, «non c’era bisogno di repliche perché si tratta di un profilo chiaramente interpretabile per la quantità esorbitante di Dna maschile presente». Quanto pesa tutto questo sull’imputato? Onere della Corte valutarlo. Quello che è evidente è che per la prima volta, oltre alle frasi ripetute sull’abbondanza e sulla buona qualità della traccia in cui è stato individuato Ignoto 1, in aula sono entrati i passaggi dettagliati delle analisi. È qui che la difesa cercava punti deboli. A margine delle precedenti udienze aveva citato la Cassazione sull’omicidio di Meredith Kercher, lasciando intendere che avrebbe fatto le pulci al numero delle ripetizioni e ai kit usati. Ieri la mossa a sorpresa: nessuna domanda, per protesta. Così il pm Letizia Ruggeri si è portato avanti. Ai suoi consulenti ha chiesto una implicita conferma: «Quando la quantità di Dna era al limite, le ripetizioni sono state numerose. Siamo in una condizione diversa da un recente caso di cronaca». La presidente la stoppa, perché non c’entra con questo processo. Allora il pm aggira l’ostacolo con una stoccata alla difesa: «Faccio la precisazione perché il caso viene spesso citato». Puntiglio ammesso: «Il pm ne ha facoltà ma non lo chieda al consulente».
Colpo di scena al processo, quella rivelazione sui kit del Dna, scrive Luca Telese su “Libero Quotidiano del 13 dicembre 2015. Claudio Salvagni è sarcastico: «Ma come? Questa traccia così pura e meravigliosa dello slip, fino a ieri risultava esaminata solo quattro volte. Oggi, con i nuovi dati presentati, ci risultano 18 amplificazioni! Non può essere consentito, è una grave lesione del diritto della difesa». Letizia Ruggeri è algida: «Non è possibile configurare nessuna inutilizzabilità dei nuovi dati. Chiedo che l'eccezione sia respinta!». L'avvocato, calmo ma terreo, attacca come mai prima: «Dubitiamo che siano genuini questi dati! Ci è stato detto che erano tutti, e non è così: vorremmo averli tutti davvero! Non solo quelli sugli slip. È il gioco delle tre carte!». La Ruggeri, tombale: «Sento qui, oggi, accuse al limite della calunnia! Chiedo da subito la trasmissione al mio ufficio dei verbali di questa seduta!». Salvagni si gira con un sorriso beffardo verso i giornalisti: «Vedete? Mi vuole denunciare. Ci manca solo questo, ormai!». Nell' ultima udienza dell'anno del processo Yara succede davvero di tutto, a metà fra dramma e commedia, tra momenti di tensione e involontari siparietti ironici. Breve sintesi: arrivano nuovi dati sugli esami di "Ignoto uno", la persona che avrebbe lasciato tracce sui vestiti della ragazzina uccisa, che saltano fuori nel dibattimento (fuori tempo massimo, ma ammessi dalla Corte), sul reperto più importante del processo (il famoso slip). Ci sono relazioni che non tornano, firmate dagli stessi autori ma discordanti fra di loro. Si verifica addirittura un inedito sciopero del controinterrogatorio da parte degli avvocati, poi viene ventilata una minaccia di denuncia da parte del pm (l'avete appena letta). Si produce persino un involontario momento-commedia all' italiana dell'ufficiale supervisore dei Ris di Parma, da cui si evince che - non solo per il processo Yara - i laboratori dei Ris per fare gli esami del Dna usavano spesso dei kit «tecnicamente scaduti», come gli yogurt (ma, in qualche modo, rigenerati!). Certo: era - e si sapeva già - una delle udienze chiave del processo. Era anche il terzo e ultimo atto dell'interrogatorio dei cosiddetti "capitani" - Nicola Staiti e Fabiano Gentile - che hanno condotto gli esami più delicati sul reperto più delicato, il cosiddetto G20 (ovvero la porzione di mutandina su cui è stato trovato il Dna di "Ignoto numero uno"). A inizio seduta prende la parola Salvagni, teso, corrucciato, nervosissimo: «Volevo mettere un punto fermo molto importante perché questo è un processo dna-centrico, è il fulcro nodale del processo». Su questo, almeno, non c' è dubbio: i cosiddetti «dati grezzi» di cui si discuteva erano stati richiesti la prima volta il 27 aprile 2015, poi di nuovo il 17 luglio (con l'udienza dell'ammissione delle prove), e infine l'11 settembre, quando la presidente Bertoja - malgrado una strenua opposizione della pm Ruggeri - aveva prescritto che il Ris producesse «tutti i dati disponibili». Come mai tanta resistenza dell'accusa? Mistero. Spiega Salvagni: «I dati grezzi sono come una radiografia, non il referto. La difesa ha bisogno della radiografia!». E aggiunge: «Abbiamo impostato il controesame sulla base di quel che ci ha stato detto. Quei dati hanno determinato le scelte difensive di questa fase istruttoria. E cosa è successo? Il caos - spiega l'avvocato -, consulenti che producono dati alla rinfusa, gli stessi autori non riuscivano a rispondere». Infine l'ultimo affondo: «In sede di controesame, a domanda della corte, i due capitani avevano ribadito: "In quel cd ci sono tutti i dati grezzi". Tutti!». E questo, effettivamente, è a verbale. Infatti il 26 ottobre era arrivato il dischetto, e poi era iniziata una danza processuale senza precedenti. I due capitani avevano detto in aula di non essere in grado di rispondere alle domande sul numero e sulla qualità degli esami, poi avevano chiesto una sospensione, l' avevano ottenuta, erano tornati in una nuova udienza, poi avevano lamentato la difficoltà di reperire i dati (nel loro stesso archivio!) spiegando che erano «confusi con quelli di altri casi», poi domandato una nuova sospensione, e infine ottenuto di essere risentiti una terza volta (!) rispondendo a domande scritte, e riservandosi di fornire «nuovi dati grezzi qualora li trovassimo» (e così è stato). Era possibile che dopo aver avuto bisogno di sei mesi per reperire quei dati, venisse loro concesso di produrne altri? Questa era la domanda che tutti si facevano. Ebbene, la presidente Bertoja, dopo aver riunito la Corte ieri ha detto di sì. Ieri i due capitani sono ricomparsi per la terza volta sul banco dei testimoni, spiegando che pochi giorni fa, il 4 dicembre, avevano prodotto la loro relazione scritta e il loro supplemento di dati. Prima sorpresa: «Su 15-20 nuovi ferogrammi prodotti» (quantificazione fatta da loro), si scopre che ben 14 riguardano proprio lo slip. Una incredibile anomalia, statisticamente («il quattrocento per cento in più!» dice Salvagni indignato). E Staiti e Gentile devono esserne consapevoli, se è vero che per attutire la portata di questo dato dicono: «Sul reperto G-20 ci sono 9 tracce in più su 18». Un piccolo escamotage: per dare quel numero i capitani computano sia amplificazioni che ripetizioni. Ma i casi sono due: o sono 9 nuove tracce su 13 esami (senza le ripetizioni), oppure sono 14 su 18 (in tutto): il dato di partenza è sempre 4. Salvagni non ci sta: «La difesa sta urlando la necessità di svolgere al proprio meglio il mandato difensivo. Se questi dati sono stati prodotti nella loro indagine, e se vogliamo ammettere che fossero presenti, perché non sono stati forniti? Perché regnava questo caos nei Ris? Vogliamo davvero credere che ci fosse? È evidente che questo è stato un sistema per far vedere alcune cose e non altre». Anche l'avvocato Camporini è duro: «L' integrazione è possibile solo se non si eccedono le circostanze prospettate. Questo non può essere ammesso mentre c' è una consulenza tecnica in corso». Ed è lo stesso difensore ad annunciare il colpo di scena: «Noi non ci fidiamo: non formuleremo domande nel controesame - annuncia - perché le risposte sarebbero inquinate». Così, in un clima surreale i due capitani illustrano i loro dati rispondendo alle domande della Bertoja. Con qualche discrasia curiosa. Nella loro relazione avevano detto di aver trovato sullo slip L'aplotipo Ypsilon. Che è importantissimo - soprattutto in questa indagine fondata su una indizio parentale - perché è quello con cui si trasmette il gene paterno. Ma nella sintesi della nuova relazione si scopre che su quel reperto i capitani scrivono di non aver usato il kit che individua «l'Ypsilon». Nell' intervallo mi avvicino a Stati: "Come è possibile?". La Pm, seduta davanti a lui, gli fa cenno «No-No» con la matita. Lui la guarda, si ferma, pare imbarazzato: «Mi spiace... ma... non sono autorizzato a rispondere». Chiedo al consulente della difesa, Marzio Capra: «Posso solo fare un'ipotesi: l'esame sull' Ypsilon lo hanno fatto su un altro reperto, e poi, sovrapponendo i risultati, lo hanno attribuito anche all' altro campione». Il Dna di "Ignoto uno" è stato quindi ricostruito come un puzzle? Mistero. In aula la Ruggeri chiederà proprio di quell' Ypsilon, e Staiti le risponderà: «Abbiamo fatto un errore materiale nella prima relazione». Ma se è vera la seconda relazione e non la prima, la domanda allora è: come mai non fare quell' esame così cruciale proprio sul campione considerato più importante? Altro mistero. La Corte si riunisce alle 12. Poi la Bertoja annuncia che ammette l'integrazione dei capitani: «Non sono dati nuovi, ma una nuova produzione di dati già elaborati». Sembra finita. Ma alle 13.30 arriva il tenente colonnello Marco Pizzamiglio, tenente colonnello del Ris. Salvagni fa una domanda che all'inizio pare folle: «Le risulta che i polimeri utilizzati per i test possano essere scaduti?». Risposta incredibile dell'ufficiale: «Sì, può capitare». Possibile? Spiega Pizzamiglio. «Le scadenze vengono riviste perché le date indicate dai produttori sono strette, per vendere di più. Se scadono noi ricontrolliamo». A questo punto l'avvocato incalza: «Nel caso specifico avete usato lotti con polimeri scaduti?». Risposta del Ris: «Allora non avevamo i controlli assoluti di oggi, ma che li facevamo su ogni singolo caso facevamo un controllo. Tante scadenze non sono reali... E poi avevamo così tante ripetizioni nel risultato che il problema si poneva». Chiede Salvagni: «Si può sapere su quali campioni sono stati utilizzati i lotti scaduti?». E l'ufficiale: «No, l'operazione del kit non viene tracciata, non è possibile saperlo». Ma la scena più divertente dopo tanta tensione è questa. Pizzamiglio è in aula perché è il firmatario del rapporto sul Dna, il più importante del processo. Su questo deve essere interrogato. Ma quando arriva la prima domanda, rivela: «Io però non ho visto nulla: né i reperti, né il corpo, gli esami, nulla. Il mio compito era solo di valutare che la relazione fosse chiara e coerente». E come poteva farlo, chiede l'avvocato? La risposta, capolavoro di burocratese. L' ufficiale è spavaldo, pare "il dentone" di Alberto Sordi: «Non ho visto nessun reperto e nessun esame, è vero: ma pur non avendoli visti sono perfettamente in grado di dare un giudizio». E come? «Io non vedo i reperti. Ma leggo, e giudico se ci sono fattori coerenti!». Risate in aula. Amen. Tra kit, alleli, polimeri e Y, Massimo Bossetti esce con faccia attonita: si prepara al suo Natale in carcere. Di Luca Telese.
Ci nascondono qualcosa su Bossetti? Clamoroso: tutti i verbali del processo..., scrive “Luca Telese su “Libero Quotidiano” del 14 dicembre 2015. I verbali del processo su Yara Gambirasio? Secretati fino al terzo grado, fino alla Cassazione. Chi volesse controllare un’affermazione, una cifra, un dato, in uno dei processi più complessi e scientificamente impegnativi (ed anche importanti, per i suoi effetti) può stare tranquillo: fino al 2020, circa, non si potranno consultare i resoconti stenografici delle udienze. Non solo: gli unici abilitati a poter riferire qualcosa di quello che è accaduto durante il dibattimento saranno soltanto i giornalisti o i pochissimi, visto che la capienza dell’aula del Tribunale di Bergamo è fissata a soli sessanta posti(!), spettatori del pubblico. Gli increduli si tranquillizzino: non si tratta di una bizzarria anacronistica di un qualche vituperato tribunale pontificio, e nemmeno della ricostruzione storica dei dettagli più paradossali di un qualche processo sovietico degli anni trenta. Ma è - purtroppo - una disposizione vergata di propria mano da Antonella Bertoja, la presidente della Corte che in questi giorni sta giudicando Massimo Bossetti nel processo di primo grado. Non ci credete? Leggere, per verificare, la risposta autografa che la stessa Bertoja ha vergato a penna in calce alla richiesta inoltrata ai suoi uffici da uno dei giornalisti che ha seguito il caso, in tutto l’arco dei cinque anni, con più rigore ed assiduità, Giorgio Sturlese Tosi, inviato di Quarto Grado. E dire che il quesito era semplice: «La presente lettera - scriveva Tosi per argomentare la propria richiesta - per chiedere copia dei verbali delle udienze del processo relativamente alle udienze o alle parti di udienze dove non si ravvisino - ad insindacabile giudizio del presidente - elementi lesivi della dignità della vittima e dei suoi familiari». Ed ecco l’incredibile risposta della presidente: «Visto, si rigetta la richiesta, la pubblicità dell’udienza e il diritto di cronaca - scrive la Bertoja - sono garantiti dalla presenza dei giornalisti in aula, mentre è compito della Corte impedire un possibile uso improprio dei verbali di udienza. Bg 10/12/2015 A. Bertoya». Riferisce ancora Sturlese Tosi: «A voce, mi si aggiunge, che il divieto vale fino a sentenza definitiva». Lo stesso cronista aveva chiesto un parere sul tema, prima di porre il quesito, al pubblico ministero Letizia Ruggeri, sentendosi rispondere: «Sono assolutamente contraria». Eppure erano favorevoli alla richiesta anche gli avvocati della parte civile che rappresentano la famiglia Gambirasio. Ironico e amarissimo, ovviamente, il racconto affidato da Tosi ad una lettera aperta indirizzata al gruppo cronisti lombardo: «Sul rispetto dell’ordinanza vigilano numerosi carabinieri e guardie private e due accessi con metal detector. Pubblico e giornalisti vengono, talvolta, perquisiti e invitati a togliersi persino le scarpe. Per graziosa concessione del presidente - chiosa Tosi - possono, però, come usava due secoli fa, entrare i pittori che vogliano riprodurre in vignette le fasi del dibattimento».
Eppure queste algide risposte al quesito meritano qualche parola di ulteriore spiegazione sulla gravità della scelta, rispetto a quello che è intuitivamente evidente. In primo luogo per dire che era già paradossale l’oscuramento televisivo del processo, con la scusa di tutelare la vittima. Ma se questo poteva essere comprensibile per alcune udienze (ad esempio quelle che discutono l’autopsia) come giustificare il divieto se si discute di Dna, di furgoni o di telefonia? Il problema è che i divieti non sono finiti qui e hanno fatto tornare Bergamo alle modalità giudiziarie dei primi dell’Ottocento: nessun telefonino può entrare in aula, e persino i registratori sono banditi. Perché? Mistero. Scrive giustamente Sturlese, cesellando con esattezza e ironia una citazione illuminante: «Decisiva, appare, per esempio, l’interpretazione di quanti e quali e con quali strumenti sono stati analizzati i “primes delle componenti alleliche mitocondriali risultate dall’amplificazione dei profili autosomici estratti dalla traccia 31G20”. Sembra assurdo - aggiunge il cronista - ma anche su questo si gioca la giustizia per Yara e la sorte dell’imputato Bossetti. E la decisione sarà un precedente giurisprudenziale straordinario per il futuro». Ecco perché, dopo ore e ore passate in Aula, e avendo riempito diversi quaderni, l’inviato di Quarto Grado (che su questo processo è una sorta di Accademia Criminologica) fa una richiesta assolutamente normale: poter verificare i passaggi, i lemmi, i dati più complessi. La risposta è un sorprendente «Niet». Potrei aggiungere anche io decine di esempi, ma mi faccio invece una domanda: perché questa strategia di oscuramento? Di cosa hanno paura l’accusa e, a questo punto anche la Corte? Quale mai sarebbe «l’uso improprio dei verbali di udienza»? La loro diffusione? La possibile conoscenza anche per chi non ha i soldi o il tempo di andare ogni settimana fino a Bergamo? L’idea che qualcosa che può essere pubblicato su un quotidiano possa restare secretato per cinque anni sembra davvero paradossale. Sturlese (e tutti noi giornalisti) vorremo non doverci fidare solo dei nostri taccuini. Ma evidentemente qualcuno a Bergamo vorrebbe di più, e forse questo diniego rivela la volontà che quei taccuini, quando non intonati, restino chiusi. Di Luca Telese.
A corredo della cronaca giudiziaria vi è ...
A SOTTO IL MONTE, CHE CONFINA CON IL PAESE DELL’IMPUTATO PER L’OMICIDIO DELLA TREDICENNE. Caso Yara, solidarietà in parrocchia. Offerte per la famiglia di Bossetti. Persone della zona lasciano buste destinate a Marita Comi e ai tre figli. Monsignor Claudio Dolcini: «È carità cristiana», scrive Armando Di Landro su “Il Corriere della Sera” del 10 dicembre 2015. Il caso di cronaca è tra i più esposti mediaticamente negli ultimi vent’anni, ma in molti casi, fin dalla scomparsa di Yara Gambirasio, la sete di notizie (o pseudo tali) del circo mediatico si è scontrata con una riservatezza tutta bergamasca, con le dinamiche di una provincia profonda, dove si sono svolti i fatti, spesso più abituata a fare, che a parlare. E nel silenzio corre anche la solidarietà di chi riconosce un semplice dato di fatto, senza pensare troppo al contorno: la vita dei familiari di Massimo Bossetti, che responsabilità non ne hanno di certo, è cambiata profondamente dal giorno dell’arresto in poi. La moglie Marita Comi e i figli non hanno più la fonte di reddito che fino al 16 giugno 2014 era garantita dal marito e papà, carpentiere in proprio. Anzi, rispetto al passato si sono aggiunte naturalmente anche le spese legali da sostenere, forse solo in parte coperte da alcune interviste dietro compenso (leggi «Notizie e linguaggio in tv: il caso Yara in una tesi»). In questo quadro non manca chi manifesta la sua solidarietà senza esporsi, portando una busta con un po’ di contanti alla parrocchia di Sotto il Monte Giovanni XXIII, che si estende fino a Piana di Mapello, e consegnandola a mano a monsignor Claudio Dolcini. «Don, porti questa a Marita...». Nient’altro. «Non intendo quantificare questo fenomeno - racconta il sacerdote - che comunque c’è e nasce tutto dal territorio. Chi viene in parrocchia per offrire un minimo di solidarietà economica non dice nulla sul processo in corso, lascia i soldi e basta. Non si tratta né di innocentisti né di colpevolisti, nel senso che io non chiedo nemmeno e non mi addentro in questi ragionamenti. La decisione sull’innocenza o la colpevolezza di Massimo spetta ai giudici del tribunale di Bergamo, ma in parrocchia certe dinamiche non entrano: questo è solo un esempio di carità cristiana». Il parroco lo chiama «Massimo», confidenzialmente. La sera di quel lunedì 16 giugno, giorno del fermo, si era recato anche all’abitazione della Piana di Mapello, a far visita a Marita e ai suoi figli, di 13, 8 e 5 anni. Ed è stato più volte anche in carcere, a trovare Bossetti: un supporto spirituale che si aggiunge a quello del cappellano del carcere, don Fausto Resmini. Ma è un punto sul quale il prete preferisce non dire nulla. La parrocchia ha comunque svelato, a domanda del Corriere, la discreta solidarietà in corso. Nella zona le difficoltà economiche di Marita sono note: la moglie dell’imputato è in cerca di un lavoro da più di un anno, un posto che non si trova. Qualcosa ha incassato con un paio di interviste. Lei stessa, in un’intercettazione ambientale in carcere di un anno fa, parlava di 20 mila euro netti da Gente e 17 mila da Matrix. Ma una precedente intercettazione della cognata Nadia (moglie di Agostino Comi) accennava alle spese da sostenere così: «Ma è vero che il criminologo costa 50 mila euro? Cioè dai, chi cavolo è? Non li chiede la genetista, li chiede il criminologo».
Yara, gli innocentisti lanciano online il merchandising «Je suis Bossetti». Tute per bebè e cover per cellulari. Su Facebook «Asta di beneficenza», continua Armando Di Landro. Il dubbio sulla colpevolezza è legittimo, fino a sentenza e se si vuole anche oltre.Ma da qui a creare tute per neonati o cover per cellulari con sopra la scritta «Je suis Bossetti», parafrasando il «Je suis Charlie» o «...Paris» ce ne passa. Eppure è quel che sta accadendo. Su Facebook è stata creata da pochi giorni la pagina «Asta di beneficenza per la famiglia di Massimo Bossetti», con poche decine di adesioni, al momento, che però sono in crescita. L’obiettivo è promuovere più raccolte fondi in favore dell’imputato e dei suoi parenti, partendo da un assunto: «Non si può restare indifferenti quando ad un cittadino italiano, colpevole o innocente che sia, vengono negati i diritti sanciti dalla Costituzione, compreso quello di difendersi adeguatamente, perché non appartiene al gotha dei benestanti e dei ricchi». Affermazione opinabile, comunque, si invitano gli aderenti alla pagina a mettere in vendita oggetti di loro proprietà per poi inoltrare un contributo a Marita Comi, moglie dell’uomo imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio. Oppure, la fondatrice della pagina, Kate Rosselli, da Genova, pubblicizza e vende allo stesso scopo collane create a mano. E un’altra protagonista del gruppo, Agnesina Beatrice Pozzi, lancia una linea di sassolini dipinti con immagini di cani e gatti. Ma c’è di più: la stessa Pozzi, giusto martedì mattina, ha pubblicato un elenco di merchandising intitolato «Je suis Bossetti» con tanto di costi vivi e offerta minima richiesta per ogni oggetto: dalla tutina bebè a 40 euro alle custodie per «iPhone o Samsung Galaxy» a 35, fino ai calendari, i grembiuli da cucina, le tazze o i segnalibri. Nemmeno fossimo in libreria, o all’ingresso dello stadio. L’iniziativa appare di impronta chiaramente innocentista: alla pagina aderiscono anche l’avvocato Claudio Salvagni e Luca Matteja, sempre presente nell’aula di Corte d’Assise dall’inizio del processo, tra i principali sostenitori dell’innocenza del carpentiere. Ma Kate Rosselli, la fondatrice, smentisce: «Non sono mai stata innocentista, ma non ho neanche sete di giustizia al punto di togliere dignità alle persone. Sulla questione io preferisco il dubbio alla certezza, qui si tratta di andare al di là di ogni ragionevole dubbio». E comunque, aggiunge: «La famiglia e i suoi figli, fosse anche Bossetti colpevole, meritano rispetto». Il punto, però, è che al lancio del merchandising si accompagna ben altro. Ad esempio invettive contro «celebri e spietati forcaioli» (giornalisti non allineati?). E spunta anche la copertina di un fotobook creato per beneficenza a Marita e famiglia, in cui la stessa Agnesina Pozzi scrive: «Bossetti è innocente e Yara dal cielo lo sa». Si raccolgano tutti i fondi ritenuti necessari e si inveisca contro chi si vuole, ma almeno non si chiami in causa chi, suo malgrado, non può più nemmeno parlare. E vivere.
Yara, il commento di Marita Comi. «Non vendo l’auto, non c’è nessuna asta». L’auto di Bossetti in vendita su Facebook? Tutine per bebé con la scritta «Je suis Bossetti» messe online al prezzo di quaranta euro? Ma anche custodie per I-phone, tazze, calendari e grembiuli da cucina, con offerte minime da 13 euro fino a salire a 70 euro, continua “L’Eco di Bergamo”. Marita Comi, la moglie di Massimo Bossetti rompe gli indugi e smentisce categoricamente ognuna di queste iniziative che viaggiano da alcune settimane sulla rete internet. «Anzitutto l’automobile è stata dissequestrata - dice - ma non l’ho mai messa in vendita, non c’è alcuna asta. In secondo luogo non sono al corrente di vendite di merchandising con la scritta “Je suis Bossetti”. Non so nulla di queste cose, non sono partite da me». Queste le parole di Marita Comi, affidate al parroco di Sotto il Monte Giovanni XXIII, monsignor Claudio Dolcini. Affermazioni dalla quali emerge chiaramente una profonda amarezza per il vortice di notizie che accompagnano ormai le sue giornate, divisa tra famiglia, casa e carcere. Sconcertata, preoccupata o che altro ancora? Marita non aggiunge altro, né rivela il suo stato d’animo – peraltro facilmente intuibile – chiudendosi nel silenzio. L’asta di oggetti con la scritta «Je suis Bossetti» sbandierata sul social network - «asta privata» - condita di diffide a citare l’artefice dell’iniziativa ha già suscitato reazioni di sgomento e le parole di Marita - «Non so nulla di queste cose, non sono partite da me» - non hanno bisogno di alcuna spiegazione. Il portafoglio - ovvero le condizioni economiche - della famiglia Bossetti, negli ultimi tempi è stato al centro di un’attenzione mediatica senza pari. A partire appunto dalla quella Volvo V40 di colore grigio di Massimo Bossetti che viaggia da tempo sui social network alla ricerca di un compratore. «Ma non l’ho mai messa in vendita, non c’è alcuna asta», ribadisce la moglie Marita Comi.
YARA, BOSSETTI CONFESSA AL FRATELLO: "SE MI INCHIODANO LA FACCIO FINITA". Continuano ad emergere novità dalle intercettazioni fatte a Bossetti, indagato per l'omicidio di Yara Gambirasio, scrive “Leggo”. "Ho paura di perdere tutto io, capito! (...)... non mi fanno più uscire ... eh! (...) mi inchiodano qua Fabio! lo so!". E' una conversazione bagnata dalle lacrime quella tra Massimo Bossetti, in carcere a Bergamo con l'accusa di aver ucciso la 13enne Yara Gambirasio, e il fratello minore. Un colloquio intercettato il 23 dicembre scorso e riportato nei 59 faldoni della recente chiusura dell'indagine sull'uomo sospettato di aver ucciso con crudeltà la giovane ginnasta di Brembate di Sopra, scomparsa il 26 novembre 2010. Un dialogo in cui il 44enne muratore, dietro le sbarre dal 16 giugno scorso dopo che la sua traccia biologica è stata trovata sul corpo della vittima, si interroga: "voglio sapere se quel Dna è mio, per...come cavolo ci sia finito li, come cavolo si sia trasportato li"...ma anche sulla strategia difensiva "sono innocente, innocente e lo dirò fino alla fine, (...) lo so che rischio grosso, rischio l'ergastolo" e minaccia: "se mi arriverà, se mi daranno la condanna io la faccio finita giuro, perché non è giusto che un innocente deve finire in carcere". Se per Bossetti l'omicidio di Yara è legato a una testimonianza resa dal padre della 13enne - pista analizzata dagli inquirenti ma che non ha portato a nulla -, il 44enne racconta in modo concitato i momenti dell'arresto quando le forze dell'ordine sono arrivate nel cantiere di Seriate e gli hanno stretto le manette ai polsi. "Non ci parli neanche, è un po' che le stiamo dietro, sono tre anni e mezzo che le stiamo dietro (...) stia zitto, stia zitto e abbassi la testa ...", le parole che avrebbero detto portandolo in macchina. "Siamo riusciti eh! dopo tre anni e mezzo siamo riusciti a incastrarti eh! che cazzo gli hai fatto vedere a quella povera ragazza!" e la replica "... ma di che cosa state parlando ... mi spiegate qual è il motivo ..." del presunto assassino. "Bossetti è inutile che neghi (...) è riuscito ad andare avanti con la sua routine quotidiana a non far vedere niente a nessuno, ma da lei qui è bloccato, è finito...", racconta. Il fratello Fabio gli chiede "in quel momento lì cosa ti è passato per la testa?" e Bossetti ammette: "non capivo più niente, non sapevo più niente e gli faccio ma mi spieghi: 'la spiego, conosce il caso Yara', si, chi non lo conosce, fa 'non ha niente da dirmi' fa, cosa le devo dire mi state inchiodando per quel caso, per la ragazza? Ma state scherzando o cosa? 'No no Bossetti, al cento per cento lei è il colpevole per noi', no vi state sbagliando, mollatemi, state sbagliando, fa 'stia calmo (...) aspetti di arrivare davanti al pm dopo vediamo che si sta sbagliando', allora non ho più parlato". E aggiunge: "mi stavano accusando di un omicidio che non ho mai fatto, mi tirano fuori dalla macchina, già da li guarda, li se non sono crollato, i cori che ho sentito guarda, mi sono ricordato quando hanno arrestato Veronica (Panarello, accusata di aver ucciso il figlio Loris Stival, ndr), davanti al carcere che gli dicevano di tutto, quando ha detto portatemi giù a letto sorvegliato a vista, mi sono ricordato quei momenti lì". Poi, "mi hanno portato li nella caserma alle Valli a Bergamo, mi hanno rinchiuso in una gabbia (...) Polizia di Stato, Ros di Brescia, carabinieri, casino di gente c'era dentro tutti che mi guardavano, facevano le foto, sono seduto lì, ammanettato in attesa che arrivava il pm e intanto si passavano a vicenda, seduti uno di qua uno di la, si passavano a vicenda il loro telefono 'fammi la foto', fa 'guarda, uscito bene, guarda, adesso la mando via subito', dopo la mandavano in facebook qualcosa così...". La vita del carcere è fatta anche di discussioni sugli altri casi popolari: dalla mamma di Cogne Annamaria Franzoni, alla condanna in appello a 16 anni per Alberto Stasi accusato dell'omicidio della fidanzata Chiara Poggi, senza dimenticare la detenzione di Fabrizio Corona o l'omicidio di Meredith Kercher a Perugia che vede alla sbarra Amanda Knox e Raffaele Sollecito, riferimenti presenti nelle intercettazioni contenute nelle quasi 60mila pagine dell'indagine. E la paura di Bossetti, presunto assassino di Yara Gambirasio, emerge in più tratti: "Ho paura di non uscire più da qua! ho paura che mi fregano a me qua".
Giustizia show e colpe degli altri, scrive Andrea Valesini. Il 3 dicembre 2015 su “L’Eco di Bergamo”. I processi non si fanno in televisione o sui giornali. Quante volte si è sentito questo giudizio, che dovrebbe essere ovvio, declamato come un sacro principio inviolabile. Pronunciato anche in diretta tv da avvocati e giornalisti in premessa ai talk show allestiti sui grandi casi di cronaca giudiziaria. «I processi non si fanno in televisione o sui giornali» è spesso il ciak di queste puntate, poi seguito da un effluvio di parole contundenti nella schermaglia fra accusa e difesa. In principio fu il plastico della villetta di Cogne nella grande aula giudiziaria di «Porta a Porta», con il procuratore Bruno Vespa a ricostruire gli ultimi momenti di vita del piccolo Samuele. Era l’inizio del 2002 e da allora ne sono passate di parole negli studi televisivi. Un modello che ha fatto scuola. Del resto il genere - il faro puntato sui delitti irrisolti - tira, come si dice nel gergo mediatico. Una parte del pubblico è attratta da queste vicende, metafora della condizione umana, della lotta perenne fra il bene e il male. Si identifica con le persone coinvolte, parteggiando. Nel migliore dei casi. Nel peggiore è un interesse malato di morbosità. Chi fa informazione conosce questo meccanismo e il senso di responsabilità dovrebbe definire il confine nella sollecitazione dell’interesse, fra quello legittimo e quello appunto malato. Sul tema però c’è molta ipocrisia. Si declamano i sacri principi ma poi ogni attore in causa - con responsabilità diverse - cerca di trarre maggior profitto possibile dalla gran cassa della giustizia mediatica. A questa evidenza non si è sottratto nemmeno il «caso Yara», purtroppo. Al punto di essere finito nel documento con il quale l’Unione delle camere penali italiane ha annunciato l’astensione dalle udienze, da lunedì scorso a domani. Gli avvocati infatti ritengono che «occorre intervenire per evitare la spettacolarizzazione dei processi e l’alimentazione dei circuiti mediatici, che finiscono per consegnare all’opinione pubblica giudizi preconfezionati, attraverso l’esibizione e la gogna degli arrestati». Parole giuste. Il populismo giudiziario è una degenerazione culturale tutta italiana, che non ha dato risposta alla domanda sacrosanta di giustizia ed ha relegato le difese in un ruolo scomodo. Quando il processo arriva in aula, preceduto da quello mediatico, ha già sul collo il fiato pressante dell’opinione pubblica che si è «formata» un giudizio attraverso i talk show, nel guazzabuglio di fatti e opinioni in sovrapposizione. In più c’è il connubio fra certe procure e i media, con le prime a fornire ai secondi carte delle inchieste allo scopo di agitare le acque e indirizzare l’opinione pubblica nel verso dell’accusa. E gli avvocati ad apprendere notizie sui loro assistiti da tv e giornali. Un sistema sbilanciato e dannoso, che avvelena il clima dei processi ai quali si arriva con le sentenze di condanna già emesse dalla «giuria popolare» del pubblico televisivo o dei lettori della stampa. Ma nel caso del processo Bossetti anche le difese dell’imputato non si sono certo sottratte al rito mediatico. Giocano le loro carte, ma con alcuni eccessi. L’assemblea dei penalisti bergamaschi ieri ha discusso anche di questo caso. Un pubblico ministero ha invitato la categoria che lo ospitava a fare autocritica. Ecco, a noi pare che in generale l’autocritica sia decisiva per una riforma della giustizia che è intralciata da corporativismi e arroccamenti. Ognuno dovrebbe fare autocritica - le procure in primis, tenendo conto di tanti processi mediatici che in aula si sono chiusi con l’assoluzione degli imputati - e non usare la parola come chiave d’intrusione nel campo avverso. Sollevando finalmente il velo d’ipocrisia che copre il dibattito sulla giustizia.
Caso Bossetti: si tratta di cronaca nera o di un test sul sistema costituzionale? Scrive Gilberto Migliorini su “Albatros Volando Controvento" del 1 dicembre 2015. Si potrebbe scrivere una sceneggiatura, ma ancora non è chiaro se siamo in presenza di un caso drammatico o di una storia tragicomica... per gli spettatori ovviamente, non certo per il malcapitato che deve fare da protagonista - suo malgrado - di una vicenda dove perfino le novelle boccaccesche impallidiscono di fronte a indizi stupefacenti. Tutto un sistema di elementi probatori sui generis fa da contorno alla singolarità di un Dna (di ottima qualità nonostante i mesi in balia delle intemperie) in attesa dei riscontri sui dati grezzi e di una verifica della paternità. Nei risvolti del caso c’è perfino qualcosa che va oltre la cronaca nera. Se non l’affaire Dreyfus, potrebbe riguardare più modestamente quel mondo mediatico-investigativo che cerca di scoprire fin dove si può spingere la realtà virtuale applicata a un delitto. Certo, per qualcuno, trattandosi di omicidio, basta e avanza per dire che non c’è da ridere e per ritenere che Bossetti abbia le physique du rôle dell’assassino. Però, per quanto sia tragico il delitto di una povera ragazza, non ci si può accontentare di un processo mediatico, giusto per offrire conforto a un pubblico amante del patibolo e del divertissement criminologico con il proverbiale desiderio di giustizia sommaria. Per definire un contesto da personalità borderline, la storia dovrebbe iniziare con le famose lampade che fanno tanto ambientazione per il perfetto pedofilo e gli assicurano un profilo inquietante e suggestivo ritagliato sul lettino solare. Non c’è dubbio che l’immagine è evocativa per quelle fantasie di sudore, depilazione, nudità che rappresentano - per un pubblico suggestionabile, e magari per una giuria emotivamente sensibile - l’anticamera del sesso e perfino della perversione tout court. Il nesso in realtà non è chiaro, anzi di primo acchito appare perfino problematico e difficile da orchestrare e da embricare col delitto. La frequenza dei bagni solari sembrerebbe per l’accusa di vitale importanza per definire l’esatta rilevanza non solo dei pigmenti ma anche dei nessi criminologici con la maggior o minore frequentazione del centro estetico. Qualcosa come una dipendenza tanoressica, la coazione a ripetere il bagno artificiale parrebbe a un osservatore neutrale qualcosa che non ha alcuna attinenza con la vicenda delittuosa. Di sicuro, però, qualche opinionista sui canonici canali televisivi potrà trovare le opportune coordinate psicopatologiche, con le immancabili coincidenze biografiche per delineare un profilo criminale in relazione all’abbronzatura artificiale… Il caso è emblematico di come all’occorrenza tutto possa all’uopo rientrare nella definizione di indizio. La latitudine interpretativa è ormai tale da poter includere qualunque azione, comportamento e fatto, con il sostegno della grancassa mediatica e con le idonee retoriche a supporto. D’ora in poi far le lampade solari non costituirà solo un rischio eventuale di carcinoma o melanoma, ma anche un evidente semioforo della cui natura perversa si formerà immancabilmente prova nel dibattimento con l’opportuna semeiotica interpretativa. Nel caso di un carpentiere - che lavorando sotto il sole si fa la pelle a scacchiera con mutande e calzini virtuali, canottiere e polpacci riprodotti sull’epidermide come decalcomanie - i raggi Uva sembrano avere il sapore della perversione e del comportamento psicopatologico. Un muratore con esigenze estetiche risulta individuo sospetto. Il solarium e la beauty farm offrono per qualcuno indicazioni probanti sulla natura perversa dell’imputato di un delitto. Chissà se invece delle lampade il carpentiere si fosse fatto una capigliatura fluente con i colpi di sole o dei tatuaggi allusivi? O magari avesse frequentato un corso bootcamp o un fit boxing? In fondo tutto può fungere da indizio una volta trovate le coordinate e le coincidenze appropriate, perfino le conversazioni telefoniche non effettuate, anche il non accaduto fa all’uopo come indizio. Con le opportune argomentazioni è possibile trovare le coincidenze e i collegamenti che portano a un colpevole, magari con una pletora di testimoni per delineare un affresco sul modello della Cappella Sistina… e con l’opportuno corredo di profeti e sibille che ad anni di distanza un po’ non ricordano, ma nemmeno smentiscono. Non solo si potrebbe citare a testimone la maestra delle elementari e il curato, la salumiera e lo stradino, ma all’occorrenza anche il meteorologo e l’astrologo, il rabdomante e il pranoterapista. Se poi perfino il medico di famiglia non ricordasse che l’imputato da bambino aveva fatto gli orecchioni o la scarlattina, sarebbe un segno inequivocabile… che l’alibi davvero non regge. Per la sabbia il discorso è più complesso, perfino problematico. Andare a comperare tre metri cubi di sabbia per non passare inosservato è come prendere come pretesto quello di affittare un elefante per fingere di aver l’auto in panne, o comprare tre quintali di pomodori con la pretesa di voler fare il ragù. E chissà poi dove l’avrà nascosta la sabbia… Fosse stato un medico o un avvocato a comprare sabbia, ci poteva anche stare, ma un muratore... suvvia... per forza a qualcuno puzza di escamotage! Di sicuro però poi avrà dovuto nascondere il corpo del reato, per non dare nell’occhio e per non lasciare intendere che si trattava solo di un diversivo utile per tornare sul luogo del delitto. Un acquisto meno ingombrante avrebbe dato nell’occhio…Al cimitero ci dicono che era stata installata una microcamera per visionare il volto del colpevole che torna sul luogo del delitto. Freudianamente si tratta del classico ritorno del rimosso, geniale intuizione di un investigatore aduso ai percorsi hitchcockiani e ai risvolti psicoanalitici, e soprattutto a trovare indizi incontrovertibili laddove una pletora di curiosi mediatici devono aver portato il loro affettuoso attestato di partecipazione. Peccato che la microcamera non abbia mai inquadrato, tra i tanti volti solidali, quello del Bossetti, altrimenti l’assassino non avrebbe avuto scampo nell’inquadratura. Sui camioncini taroccati si è già detto, ma non abbastanza per delineare un quadro indiziario da stalker che per passare inosservato abborda le sue vittime con l’autocarro di servizio. Si sa che il torpedone con cassone rappresenta un ottimo mezzo per mimetizzarsi, e per la vittima, che a detta degli inquirenti frequentava già il suo assassino, non poteva che essere un’attrattiva affascinante e insolita. Nessuno, né familiari né amici aveva mai visto il Bossetti. Sembra però che un testimone ricordi ad anni di distanza di aver visto la povera Yara insieme al muratore. Niente a che vedere con quelle centinaia di segnalazioni di persone che giurano di aver visto il terrorista Salah in giro un po’ in tutti i paesi europei. Per il Dna e la paternità Bossetti si sono già spesi fiumi di parole. Siamo tutti in attesa delle controdeduzioni dei consulenti della difesa per chiarire incongruenze e lati oscuri e, soprattutto, si attendono i tecnici dell’accusa che ancora devono consegnare integralmente il materiale richiesto. Tutti gli organi di informazione trattano il caso Bossetti come un caso di cronaca nera. Perfino i giornali garantisti seguono l'onda del caso emblematico del crimine per pedofilia. Al pubblico piace il copione condito di genetica, figli illegittimi e quel solito ingrediente - che fa tanto audience - delle perversioni sessuali. Se però dovesse risultare che Guerinoni è solo un padre immaginario e/o che i raw data (o dati primari) sono mancanti, incompleti o sono stati in qualche modo modificati (anche tenendo conto che non esistono più i reperti per eventuali controanalisi), allora non si tratterebbe più semplicemente di un caso di nera, ma di qualcosa che mette l'accento sulla tenuta del sistema costituzionale. La posta sarebbe davvero alta. Ci sarebbero in gioco carriere varie e l'attendibilità di molti opinionisti e dei loro ispiratori. Nel caso ipotetico (ma speriamo che tutto sia stato fatto alla luce del sole), proprio da un muratore e dai suoi avvocati dipenderebbe la credibilità e la tenuta di un sistema istituzionale in scivolamento su un piano inclinato vagamente orwelliano.
16 DICEMBRE 2015. DICIANNOVESIMA UDIENZA. PARLA ANDREA PINTON.
Bossetti, ancora scintille in udienza. Si parla ancora del furgone Iveco nell’udienza in programma nella mattinata di mercoledì 16 dicembre in Tribunale a Bergamo relativa all’omicidio di Yara Gambirasio, scrive “L’Eco di Bergamo”. È stato infatti ascoltato l’appuntato dei carabinieri Andrea Pinton, colui che si è occupato durante le indagini di effettuare le ricerche sul furgone Iveco di Massimo Bossetti, quel furgone che compare nelle foto e nei video che sono stati resi noti dagli inquirenti. Una ricerca di comparazione partita da un’indagine su Iveco e sui furgoni uguali a quello di Bossetti: ben 14.735 veicoli sono stati analizzati, stringendo le indagini sul Nord Italia e sulle caratteristiche specifiche di quello di Bossetti, dal cassone cambiato, alle sponde e al maniglione. Tutti dettagli visibili nelle foto e che hanno portato l’accusa a dichiarare di proprietà di Bossetti il furgone ripreso dalle telecamere. Da qui il contro interrogatorio del legale del muratore di Mapello, Claudio Salvagni, che ha contestato il numero dei veicoli comparati: il file originario partirebbe da 14.807 mezzi. Contestato anche e soprattutto il metodo: il militare avrebbe compiuto le comparazioni sulle fotografie e non sui frame dei video. Contestazioni che hanno fatto accendere la miccia e che hanno creato nuove tensioni in aula durante un dibattimento teso come la scorsa udienza. Analizzati anche i video con le riprese del furgone due ore prima e due ore dopo la scomparsa di Yara Gambirasio. Bossetti e l’identificazione del furgone. I Ris: «Corrispondevano 15 particolari». I Ris arrivarono a una identificazione «probabile» del Daily di Massimo Bossetti analizzando 7 fermo immagine ricavati dalle telecamere di sorveglianza piazzate nelle vie limitrofe alla palestra di Brembate Sopra (banca, distributore e ditta Polynt) e trovando una quindicina di particolari corrispondenti. Si è parlato ancora del furgone Iveco nell’udienza di mercoledì 16 dicembre in Tribunale a Bergamo relativa all’omicidio di Yara Gambirasio, continua “L’Eco di Bergamo”. In aula ascoltato prima l’appuntato dei carabinieri Andrea Pinton, colui che si è occupato durante le indagini di effettuare le ricerche sul furgone Iveco di Massimo Bossetti, quel furgone che compare nelle foto e nei video che sono stati resi noti dagli inquirenti. Una ricerca di comparazione partita da un’indagine su Iveco e sui furgoni uguali a quello di Bossetti: ben 14.735 veicoli sono stati analizzati, stringendo le indagini sul Nord Italia e sulle caratteristiche specifiche di quello di Bossetti, dal cassone cambiato, alle sponde e al maniglione. Tutti dettagli visibili nelle foto e che hanno portato l’accusa a dichiarare di proprietà di Bossetti il furgone ripreso dalle telecamere. Da qui il contro interrogatorio del legale del muratore di Mapello, Claudio Salvagni, che ha contestato il numero dei veicoli comparati: il file originario partirebbe da 14.807 mezzi. Contestato anche e soprattutto il metodo: il militare avrebbe compiuto le comparazioni sulle fotografie e non sui frame dei video. Contestazioni che hanno fatto accendere la miccia e che hanno creato nuove tensioni in aula durante un dibattimento teso come la scorsa udienza. Analizzati anche i video con le riprese del furgone due ore prima e due ore dopo la scomparsa di Yara Gambirasio. Sempre a proposito del furgone, Vincenzo Nobile, responsabile del laboratorio video fotografico del Ris di Parma, ha spiegato in aula che dal confronto eseguito tra il furgone e i fotogrammi delle telecamere è stata riscontrata la coincidenza in una quindicina di dettagli. Elementi che, secondo i Ris, comprendono le strisce sulle fiancate, il serbatoio, il tappo del carburante, le cassette degli attrezzi e le macchie di ruggine. Ma solo un’immagine, quella fornita dalla ditta Polynt, si è rivelata sovrapponibile al modello con «passo» (distanza tra assi delle ruote) uguale a quello dell’imputato, elaborato con un software fornito dall’Iveco. Su una scala di probabilità compresa tra 1 e 5, ha spiegato, la coincidenza tra il furgone di Bossetti e quello ripreso dalle telecamere ha ottenuto un punteggio di «4», quindi un livello di probabilità elevato. I Ris arrivarono a una identificazione «probabile» del Daily di Massimo Bossetti analizzando sette fermo immagine ricavati dalle telecamere di sorveglianza piazzate nelle vie limitrofe alla palestra di Brembate Sopra (banca, distributore e ditta Polynt). Gli altri fotogrammi non furono invece ritenuti utilizzabili perché poco chiari.
Yara, il furgone filmato a Brembate. Scontro in aula sull’Iveco di Bossetti. Il carabiniere del Ros: solo un camion in circolazione con quelle caratteristiche, scrive “Il Corriere della Sera”. Nuova udienza a Bergamo del processo per l’omicidio di Yara Gambirasio. In aula, stamattina, mercoledì 16 dicembre, il protagonista è il furgone di Massimo Bossetti, il carpentiere di Mapello imputato per l’omicidio della ginnasta tredicenne di Brembate Sopra. In tribunale si parla di come l’accusa sia arrivata a ritenere che il 26 novembre 2010 a Brembate, nel posto in cui è scomparsa Yara, ci fosse il furgone del carpentiere bergamasco, filmato vicino alla palestra. E anche questa volta non sono mancati i battibecchi tra accusa e difesa. In aula ha parlato un carabiniere del Ros, che ha fornito alcuni dati sui furgoni Iveco Daily come quello di Bossetti, un veicolo del 1999. In quell’anno, risulta che siano stati prodotti 14.735 furgoni Iveco Daily. Quelli immatricolati sono invece 4.450. Nel Nord d’Italia — ha spiegato il carabiniere del Ros — il 26 novembre del 2010 ce n’erano 1.929. Nella Bergamasca soltanto cinque, oltre a quello del carpentiere di Mapello. Il carabiniere ha però spiegato in aula che, di questi cinque, tutti con il cassone ribaltabile, non ce n’era nemmeno uno con le stesse caratteristiche di quello di Bossetti. Per esempio, uno dei cinque ha la stessa striscia rossa laterale come quello del carpentiere di Mapello, ma non ha la cassetta porta attrezzi, diversamente da quello di Bossetti. Nessun furgone di quelli immatricolati, secondo il Ros, ha le stesse caratteristiche di quello dell’imputato. In particolare, ai lati, il veicolo di Bossetti ha dei perni a forma di trapezio. Un particolare che ha soltanto questo furgone. I numeri sugli Iveco Daily hanno scatenato un battibecco in aula. Alla difesa di Bossetti i numeri non tornano. E i legali hanno chiesto al carabiniere del Ros di specificare meglio alcuni particolari relativi ai furgoni.
Dunque è il furgone di Bossetti? Secondo i Ris: «È molto probabile», scrive il 17 dicembre 2015 “Bergamo Post”. Dopo la battaglia sul dna, accusa e difesa si scontrano anche sul furgone di Bossetti. Un appuntato dei Ros spiega come si arrivò a individuare e esaminare 1.791 Iveco Daily circolanti nel Nord Italia, dello stesso modello di quello sequestrato al muratore, per capire se potevano essere passati da Brembate Sopra la sera dell’omicidio di Yara. Salvagni però fa notare che non tornano i conti della scrematura, partita da un totale di 14.735 veicoli e ridottasi a 4.328 mezzi dopo il filtro applicato dalla Motorizzazione. L’avvocato Pezzotta (parte civile) non gradisce quello che secondo lui è solo ostruzionismo: «Ma stiamo scherzando, lo fate per gli applausi?». Salvagni chiarisce che è necessario verificare la bontà del metodo e la Corte gli dà ragione. I carabinieri devono chiedere un time out per fare chiarezza. Si riprende dopo un’ora con l’emergere di un dato singolare: alla fine, i Daily con una configurazione simile a quello di Bossetti sono risultati solo cinque, tutti in provincia di Bergamo. Nessuno di questi, però, transitò da Brembate il 26 novembre 2010. Ma c’e di più. L’appuntato afferma che tra i 1.791 cassonati esaminati solo quello di Bossetti presenta i rinforzi laterali che si notano nel Daily ritratto dalla telecamera della ditta Polynt. Questi “frame” sono al centro della testimonianza del maresciallo Rossano Zamparini. È lui ad aver passato in rassegna le telecamere dopo la scomparsa e poi nuovamente dopo l’arresto di Bossetti. L’ufficiale ripercorre i presunti passaggi del Daily attorno alla palestra. Non esce nulla di nuovo, se non che in via Caduti dell’Aeronautica – la via che fiancheggia la palestra imboccata dai famosi cani molecolari – quella sera c’era un certo traffico. Oltre al Daily vengono notati una moto e un furgone bianco che lo precedono di pochi secondi. Sono le 18.35, un minuto dopo i due veicoli svoltano in via Locatelli, in direzione Brembate. E pochi istanti dopo il Daily fa altrettanto: tutti e tre passano davanti alle telecamere del distributore Shell davanti alla palestra. Il Daily passerà di nuovo alle 18.44 e poi un’ultima volta un’ora più tardi, alle 19.48. Nel mistero spunta anche una Mercedes nera con targa svizzera. Alle 18.39 si immette in via don Sala, giusto davanti alla Polynt, quella sera chiusa per lavori. Ne esce alle 19.07. L’uomo viene rintracciato: è domiciliato a Brembate, dice di essersi fermato a telefonare e per espletare un bisogno corporale. I carabinieri lo sottopongono a intercettazioni nel maggio 2011, ma nulla emerge. Quella telefonata serve però a stabilire l’orario esatto delle riprese delle telecamere Polynt, sfasate di 10 minuti, e di conseguenza di quelle della Shell, in anticipo addirittura di 63 minuti. Dopo la pausa, nel pomeriggio il furgone è tornato sotto la lente del Ris. Il luogotenente Vincenzo Nobile, capo del laboratorio videofotografico, ha spiegato che si arrivò a una identificazione “probabile” del Daily di Massimo Bossetti analizzando sette fermo immagine ricavati dalle telecamere di sorveglianza piazzate nelle vie limitrofe alla palestra di Brembate Sopra (banca di via Rampinelli, distributore Shell e ditta Polynt). Gli altri fotogrammi non furono invece ritenuti utilizzabili perché poco chiari. L’identificazione si è basata su 15 particolari che, secondo gli scienziati in divisa, mostrerebbero una corrispondenza tra il veicolo ripreso e quello sequestrato a Bossetti. Si va dalle strisce sulle fiancate al serbatoio, dal tappo del carburante alle cassette degli attrezzi, fino alle macchie di ruggine nelle stesse posizioni. Perché, nonostante questa massa di punti in comune, i Ris si sono limitati a dare un giudizio di identificazione “probabile” e non certa? La pm Letizia Ruggeri ha cercato di spingere oltre il luogotenente, insistendo sui particolari delle macchie di ruggine, «che non sono fornite dall’azienda costruttrice…». Ma Nobile è rimasto fermo sulla sua valutazione, motivandola con un «eccesso di cautela». In effetti, soltanto un’immagine del furgone, quella ricavata dalla telecamera della Polynt – i cd con i filmati della ditta furono acquisiti dai carabinieri solo il 4 febbraio, più di due mesi dopo la scomparsa di Yara – si è rivelata letteralmente sovrapponibile al Daily di Bossetti. Il confronto è stato fatto utilizzando un software fornito dall’Iveco: le linee della sagoma dell’autocarro dell’imputato e quelle del mezzo ritratto «coincidono perfettamente sia dal lato del guidatore che del passeggero» ha detto l’ufficiale del Ris. Alla fine l’avvocato Claudio Salvagni è soddisfatto: «Finalmente si è sgombrato il campo da ogni equivoco. Solo l’immagine di via Caduti dell’Aeronautica fa emergere una compatibilità probabile. Tutte le altre non ci dicono nulla». Lettura opposta quella di Enrico Pelillo, legale di Fulvio Gambirasio. «Mi pare che oggi stati sgombrati definitivamente i dubbi sul furgone. Nessuno può più parlare di tarocco…».
La retorica colpevolista della giustizia mediatica, scrive il 17 dicembre 2015 l’Unione delle Camere Penali Italiane. "La giustizia mediatica ha assunto dimensioni e incisività tali da offrire uno scenario processuale alternativo a quello legale, capace di radicarsi profondamente nell’immaginario collettivo." Nel suo inedito editoriale il Prof. Amodio interviene sulla degenerazione della giustizia mediatica analizzandone le cause e la necessità di porre limiti alla invadenza del giornalismo giudiziario. La retorica colpevolista della giustizia mediatica. L’onda impetuosa dei media si abbatte sul processo penale e ne deforma lo scenario fino a renderlo irriconoscibile persino a chi, come difensore, ha vissuto in prima persona le vicende giudiziarie che la stampa e la televisione scelgono di raccontare. E’ un fenomeno ben noto e da anni sottoposto al filtro di un dibattito tanto serrato, quanto improduttivo. Per di più negli ultimi tempi sta crescendo attorno alle distorsioni della giustizia mediatica una barriera protettiva che talvolta lascia il posto ad una sorta di filosofia della rassegnazione, quasi che si avesse a che fare con calamità naturali, al pari delle periodiche alluvioni generatrici di smottamenti di terreno fangoso. Tra i paladini della intangibilità della cronaca giudiziaria, c’è una parte del ceto politico che denuncia come intollerabile bavaglio qualsiasi proposta di arginare l’invadenza dei media. E nel partito dei rassegnati bisogna registrare quei giuristi che, pur riconoscendo gli effetti devastanti dell’informazione giudiziaria, alzano le braccia al cielo e auspicano un’autodisciplina dei giornalisti, ritenendo inconcepibile qualsiasi divieto. Infine, c’è una giurisprudenza a dir poco paradossale che fissa una regola azzeratrice di ogni possibile reazione di fronte alle deformazioni del giornalismo giudiziario perché esse sarebbero prive di qualsiasi impatto negativo sulle garanzie processuali. Siamo quindi di fronte ad un ventaglio di veti, rinunce e miopie che culminano nella negazione della patologia: i media alterano, stravolgono, sfigurano l’estetica della giustizia penale, ma non fanno male. Lo ha detto di recente una sentenza della Corte di cassazione in tema di rimessione del procedimento affermando che «le campagne stampa quantunque astiose, accese e martellanti o le pressioni dell’opinione pubblica non sono di per sé idonee a condizionare il giudice, abituato ad essere oggetto di attenzione e critica senza che sia menomata la sua indipendenza» (Cass. Sez. V, 12.5.2015, Fiesoli). E’ lo stereotipo del giudice con la corazza, insensibile ad ogni perturbazione esterna perché protetto dalla sua olimpica saggezza. Ma non basta. La stessa sentenza continua sostenendo che «anche il debordare della cosiddetta giustizia spettacolo, il vedere pagine di giornali o intere puntate di talk show occupate da vicende giudiziarie ancora in corso in cui si sviscerano tesi su tesi, talvolta fantasiose spesso l’una contraria all’altra, ha finito per diventare un fenomeno talmente normale che nessuno ci fa più caso». Qui c’è la sterilizzazione dell’inquinamento da overdose di informazione giudiziaria anche con riguardo all’opinione pubblica, che si immagina rinchiusa nel bozzolo di una assoluta imperturbabilità. Il nostro paese sarebbe dunque sul piano mediatico l’isola dell’ingiusto processo. Per tutto il resto dell’Europa valgono le regole messe a punto dalla Corte di Strasburgo secondo cui l’imparzialità dei tribunali garantita dall’art. 6 CEDU non consente ai giornalisti di formulare «dichiarazioni che risulterebbero idonee, intenzionalmente o no, a ridurre le chances per una persona di beneficiare di un processo equo» (sentenza Worm c. Austria, 29 agosto 1997) e tali da scalzare la fiducia dei cittadini nella amministrazione della giustizia. A configurare la violazione del diritto al fair trial basta il pericolo concreto di una lesione della imparzialità del giudice (Dupuis c. Francia, 7 giugno 2007, § 44). In Inghilterra, poi, è prevalente il modello della presunzione di offensività conseguente al solo fatto della pubblicazione di notizie rilevanti per il processo penale, in base alla disciplina del contempt of court, mentre nella common law statunitense si ritiene necessario l’accertamento in concreto dell’effetto lesivo delle notizie divulgate, anche se è ancora vivo l’insegnamento del giudice Brennan secondo cui «non si può seriamente dubitare che l’incontrollata pregiudizievole pubblicità prima del dibattimento possa distruggere la fairness di un processo penale» (Nebraska Press Association v. Stuart, 1976). Si può davvero pensare, dunque, che solo in Italia il giudice sia insensibile alla stampa colpevolista e il pubblico legga i giornali e guardi la tv con l’animo distaccato di chi finisce per sonnecchiare davanti allo spettacolo della marcia vittoriosa dei pubblici ministeri verso la sconfitta del crimine? E’ proprio vero invece che nel nostro paese la giustizia mediatica ha assunto dimensioni e incisività tali da offrire uno scenario processuale alternativo a quello legale, capace di radicarsi profondamente nell’immaginario collettivo. Basta pensare alla crescita esponenziale dell’agire comunicativo, ormai affrancato dai canoni della oggettività in una sequenza evolutiva impressionante: dalla cronaca al commento; dal commento alle ricostruzioni; dalle ricostruzioni alle inchieste parallele che si sovrappongono alle indagini della magistratura e nelle quali prevale lo spettacolo in ossequio alla tirannia dell’audience. Ormai con la sua invadenza il giornalismo giudiziario ruba la scena alla giustizia in toga. E impone il suo «statuto» che ribalta i principi su cui si regge il giusto processo. Anzitutto mediante la delocalizzazione, che privilegia le investigazioni rispetto al dibattimento, una fase troppo piena di oscillazioni causate dalla dialettica tra accusa e difesa per essere rappresentata come monolite colpevolista. La giustizia mediatica si nutre così di approssimazioni conoscitive e le trasforma in verità consacrate istillando nell’opinione pubblica l’idea della certezza a proposito di risultati che sono invece provvisori e non spendibili nel giudizio. In questo modo trionfa la retorica della colpevolezza che si alimenta della farina tratta dal sacco del pubblico ministero, nella ricerca di una perentorietà espressiva sulle acquisizioni delle indagini volta a placare l’ansia collettiva generata dall’allarme per i fatti criminosi. Deviazione del campo visivo e artificiosa rappresentazione di congetture elevate a verità sono i due pilastri su cui è edificata la presunzione di colpevolezza nella giustizia mediatica. Mentre la magistratura indaga e affronta con paziente analisi la lettura del quadro indiziario, la stampa lancia i suoi titoli in cui l’inquisito è «inchiodato» dal video di un anonimo furgone che attraversa un incrocio, dai monosillabi captati in una intercettazione telefonica ovvero dalle risultanze di uno screening di massa del DNA. Come si può negare l’impatto del convincimento mediatico colpevolista? Ne ha riconosciuto la portata deviante persino la stessa Cassazione nella sentenza sul processo di Perugia quando ha affermato, annullando la condanna di Amanda Knox e Raffaele Sollecito, che proprio la pressione mediatica aveva indotto gli inquirenti ad imboccare scorciatoie per consegnare al luccichio dello schermo televisivo l’immagine dei due ragazzi colpevoli. E’ dunque ormai tempo di mettere mano ad una politica dei limiti e dei divieti nei confronti dei media. Lo sappiamo tutti che ai pubblici ministeri fa comodo giovarsi della cronaca colpevolista, ma i togati della giudicante non sono sulla stessa lunghezza d’onda. Essi avvertono il fastidio e il disagio di veder offuscato il loro ruolo quando la televisione investe di funzioni oracolari il conduttore del talk show che pronuncia la sentenza di condanna in nome del popolo dei telespettatori. Cominciamo a chiudere le porte di quei salotti televisivi in cui sedicenti esperti ovvero familiari delle vittime, animati da comprensibile revench punitiva, si esibiscono in un coro colpevolista contro indagati in processi pendenti. Poi si potrà pensare a misure appropriate a ricondurre il giornalismo giudiziario al pieno esercizio del suo potere di esercitare una penetrante attenzione critica sulle modalità di funzionamento della giustizia penale con un equilibrio che impedisca alla libertà di stampa di trasformarsi nella pietra tombale della presunzione di innocenza.
18 DICEMBRE 2015. VENTESIMA UDIENZA. PARLANO GLI IVECO DAILY PEOPLE ED I DELATORI DELLA FINTA MALATTIA.
Processo Bossetti, il giorno dei «Daily». Testimoniano i proprietari di altri furgoni. Sarà il giorno degli Iveco Daily al processo contro Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara. Sul banco dei testimoni i proprietari di altri furgoni simili, scrive “L’Eco di Bergamo” del 18 dicembre 2015. Si tratta di cinque persone, tutte proprietarie di furgoni molto simili a quello dell’imputato: a loro verrà chiesto di ricordare dove si trovassero la sera della scomparsa della ginnasta. Non ci sono comunque solo le telecamere a indicare la presenza del furgone di Massimo Bossetti intorno al centro sportivo di Brembate Sopra la sera del delitto. C’è anche la testimonianza di un impiegato di Valbrembo, 49 anni: sostiene di aver visto un furgone simile a quello di Bossetti eseguire una «manovra da matti», curvando in via Morlotti, laterale alla palestra. L’uomo, F. F., fu sentito una prima volta il 9 dicembre 2010, quando ancora si cercava Yara,dai carabinieri di Ponte San Pietro. La sua testimonianza viene considerata importante perché, in tempi non sospetti, disse di aver visto un autocarro cassonato svoltare da via Locatelli (la strada del centro sportivo) in via Morlotti, ad alta velocità: «Sembrava un matto». La sua testimonianza è stata ripescata dopo il fermo di Bossetti, perché l’autocarro Iveco «Daily» del muratore di Mapello è proprio un modello con il cassone.
Bossetti: «Tumore? Una bugia, mi scuso. Ma in quel cantiere non mi pagavano». Il carpentiere di Mapello, dopo aver parlato al mattino, è intervenuto anche durante l’udienza del pomeriggio per scusarsi di aver raccontato la storia del tumore alla testa. «Ma in quel cantiere di Seriate non mi pagavano mai», continua “L’eco di Bergamo. Per la prima volta ha perso la pazienza. È scattato in piedi e indicando il testimone ha contestato le sue dichiarazioni: «Non è vero, non è vero, non è vero...». La voce di Massimo Bossetti è echeggiata nell’aula del Tribunale dove si sta celebrando il processo per l’omicidio di Yara Gambirasio, che vede nel carpentiere di Mapello l’unico imputato. «Non è vero che ho mai minacciato di uccidermi...» ha detto Bossetti rivolgendosi ad Ennio Panzeri, in quel momento sul banco dei testimoni. L’uomo stava ricostruendo i rapporti di lavoro con Bossetti, spiegando che il carpentiere gli aveva detto «che non andava d’accordo con la moglie e pensava di suicidarsi». Affermazioni che Bossetti ha contestato in modo plateale, venendo richiamato dal giudice. La presidente l’ha poi autorizzato a parlare: «Non è affatto vero, non ho mai detto di essere stato in crisi, e soprattutto non ho mai detto niente. Il soprannome “favola” mi è stato dato solo da Panzeri, con il quale si erano incrinati i rapporti di lavoro». Poi sulla discoteca «Sabbie Mobili», Bossetti ha ricordato come esistesse già in una precedente gestione a Sotto il Monte «ma io frequentavo il Gabbiano di Chignolo». Ma altre testimonianze di colleghi sono andate nella stessa direzione di quella del Panzeri: «Mi ha chiesto consigli sulla separazione perché anche io sono separato» ha aggiunto un testimone, ma Bossetti ha scosso la testa «Mi ha detto di volersi buttare dal ponte di Sedrina», gli ha fatto eco un altro, con Bosetti sempre più dissenziente. Dopo udienze in serie dedicate alla scienza, quella di venerdì 18 dicembre sul caso Yara ha visto il ritorno a confronti vis-a-vis. Attesi in aula la bellezza di 18 testimoni, tutti in qualche modo legati al furgone Daily di Massimo Bossetti: sia perché sostengono di averne visto uno simile la sera della sparizione di Yara, o perché possessori di un modello analogo. Il primo testimone, forse il più atteso, è stato Federico Fenili, 49enne di Valbrembo: la sera del 26 novembre 2010, stava accompagnando la figlia dl corso di nuoto agli impianti sportivi di Brembate Sopra, gli stessi dove Yara è stata vista per l’ultima volta. Fenili ha confermato quello che già aveva detto in tre deposizioni precedenti con polizia e carabinieri: «Stavo portando mia figlia al corso, che si tiene tra le 18,40 e le 19,30. Percorso il rettilineo dovevo svoltare a sinistra per parcheggiare. Dal lato opposto ho visto arrivare un furgone chiaro a tutta velocità». Una scena che il testimone, apparso inizialmente emozionato, dice di aver visto da circa una trentina di metri: «Erano le 18,40: ricordo di aver guardato l’orologio sul cruscotto perché ero in ritardo». Quindi nella fascia oraria compatibile con la sparizione di Yara Gambirasio. Claudio Salvagni e Paolo Camporini, legali di Bossetti, hanno cercato di mettere in discussione la veridicità del racconto di Fenili, sia in merito all’orario («In una deposizione aveva detto che erano le 18,41») che sulla distanza (Fenili avrebbe detto inizialmente 100 metri e non 30) e sul furgone: «Bianco o chiaro?». Da parte del testimone, qualche «non ricordo» ma ricostruzione sostanzialmente in linea con quelle rese alle forze dell’ordine nel periodo immediatamente successivo alla sparizione di Yara. Successivamente sono state sentiti 5 proprietari di veicoli simili a quelli di Bossetti (un furgone Iveco Daily), ma dalle loro testimonianze non è emerso nulla di rilevante. Bossetti ha parlato anche nel pomeriggio, quando ha parlato Claudio Andreolli, imprenditore di Bagnatica con un cantiere a Seriate, che ha spiegato di come Bossetti gli avesse raccontato di avere un tumore alla testa per assentarsi dal lavoro. L’imputato è intervenuto ammettendo di aver detto una bugia, ma soltanto per avere qualche possibilità lavorativa in più, visto che nel cantiere di Andreolli non veniva pagato: è emerso infatti che Bossetti era in credito di circa 10 mila euro. «Mi vergogno e mi scuso - ha sottolineato il muratore -, è vero,ho raccontato la storia del tumore alla testa soltanto perché era l’unica scusa valida che avevo pensato per assentarmi e trovare qualche lavoro in altri cantieri, visto che lì non ero pagato».
Un collega: Bossetti parlò di suicidio E lui sbotta in tribunale: «Non è vero, solo bugie su di me». Un artigiano che aveva lavorato con lui: «Un giorno disse che si sarebbe suicidato perché aveva problemi con la moglie». L’imputato parla alla Corte e si ripete nel pomeriggio: «Inventai bugia su un tumore per poter fare un doppio lavoro», scrive “Il Corriere della Sera”. Ha parlato per la prima volta da quando è sotto processo Massimo Giuseppe Bossetti, un anno e mezzo dopo il suo arresto, il 16 giugno del 2014. L’uomo accusato di aver ucciso Yara Gambirasio ha perso la pazienza durante la deposizione di un collega artigiano che ha un’impresa a Monte Marenzo (Lecco). Ennio Panzeri, questo il nome dell’imprenditore, è stato chiamato a testimoniare dall’accusa sull’atteggiamento che Massimo Bossetti aveva durante il lavoro. E ha raccontato che un giorno “Massimo aveva annunciato di volersi suicidare, perché aveva problemi con la moglie Marita”. È stato a quel punto che l’imputato si è alzato in piedi, rivolto a Panzeri e alla Corte d’Assise. «Non è vero, non è vero — ha urlato più volte — mi state solo denigrando, sono tutte bugie su di me. E solo Panzeri era il collega che mi chiamava “favola”, non altri». Nel quadro accusatorio la procura della Repubblica ha inserito comunque più testimonianze come quella di Panzeri: tutti colleghi che riferiscono di atteggiamenti strani dell’imputato sul luogo di lavoro. Ma a proposito di bugie sul luogo di lavoro lo stesso Bossetti è tornato a parlare di fronte alla Corte anche nel pomeriggio, quando un altro collega ha citato un «tumore inventato» che l’imputato disse di avere per assentarsi dal lavoro. «Confermo, l’ho fatto e me ne vergogno, ma solo per potermi recare in altri posti a lavorare. Non mi pagavano da mesi, ero sotto di oltre diecimila euro, e alla mia famiglia a fine mese non potevo portare a casa un sacco di sabbia. Così, dopo che la moglie di un mio collega era morta per malattia, ho pensato di fingermi anche io malato e di avere un tumore».
E' il giorno della ventesima udienza del processo per l'omicidio di Yara Gambirasio, scrive “Il Giorno”. In aula, è stato il turno di Federico Fenili, un 49enne di Valbrembo, nella Bergamasca: "Stavo portando mia figlia al corso di nuoto (nella struttura dove è stata vista per l'ultima volta Yara Gambirasio, ndr) che si tiene tra le 18.40 e le 19.30. Percorso il rettilineo dovevo svoltare a sinistra per parcheggiare. Dal lato opposto ho visto arrivare un furgone chiaro a forte velocità". La scena, ha raccontato Fenili, è stata osservata a circa una trentina di metri di distanza. "Erano le 18.40 - ha aggiunto - ricordo di aver guardato l'orologio sul cruscotto perché ero in ritardo". Un'orario compatibile con quello della sparizione della 15enne di Brembate di Sopra. I legali di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, hanno rilevato alcune discrepanze tra le diverse deposizioni di Fenili. Innanzitutto sulla distanza del furgone dal suo punto di osservazione, perché il teste avrebbe detto nella prima deposizione che era di 100 metri e non di 30, come affermato oggi. Il testimone ha affermato di aver visto che il furgone aveva una cassetta degli attrezzi installata dietro l'abitacolo di guida che sporgeva verso l'alto di 20/30 centimetri. La circostanza può essere rilevante perché il furgone cassonato sequestrato a Bossetti, di colore verdino-azzurro chiaro, è stato fatto allestire dal muratore di Mapello con un analogo contenitore. Oggi in aula sono attesi in totale 18 testimoni, per essere ascoltati su questioni legate al furgone Iveco Daily di Bossetti. C'è chi ha raccontato di aver visto un furgone simile in quelle ore, ma sfileranno davanti alla Corte anche i possessori di modelli analoghi al mezzo in possesso dell'imputato individuati dagli inquirenti. Oggi, Massimo Bossetti ha parlato per la prima volta in aula per smentire di aver detto che voleva suicidarsi. Ennio Panzieri, un imprenditore della provincia di Bergamo con cui in passato Bossetti ha collaborato, chiamato a testimoniare ha replicato all'avvocato della civile spiegando che Bossetti "Mi disse che stava passando un periodo difficile con sua moglie. E minacciò anche il suicidio". È a questo punto che Bossetti si è alzato in piedi e ha pronunciato le sue prime parole dall'inizio del processo, giunto alla ventesima udienza. "Non ho mai detto questo qua, non ho mai detto una cosa così, tutte bugie su di me", ha detto, prima di essere ripreso dalla presidente della Corte, che ha assicurato all'imputato che avrà tutte le opportunità per esprimere la sua testimonianza in un altro momento. Successivamente in aula altre testimonianze sono state sulla stessa lunghezza d'onda di quella di Panzeri. Altri ex colleghi hanno riferito all'incirca la stessa cosa: "Mi ha chiesto consigli sulla separazione perché anche io sono separato", ha aggiunto un testimone, mentre Bossetti ha scosso la testa. "Mi ha detto di volersi buttare dal ponte di Sedrina", gli ha fatto eco un altro testimone, con Bossetti sempre più dissenziente. "Non è vero che ho mai minacciato di uccidermi, non è affatto vero, non ho mai detto di essere stato in crisi, e soprattutto non ho mai detto niente..." ha detto Bossetti, intervenendo ancora in aula, e questa volta con l'autorizzazione del giudice, dopo che già in mattinata era sbottato mentre interveniva Ennio Panzeri. Bossetti ha inoltre spiegato che con Panzeri si erano incrinati i rapporti di lavoro e per questo l'ex collega gli aveva messo il soprannome di "favola". Bossetti è intervenuto anche in merito alla discoteca "Sabbie Mobili", nei pressi della quale venne trovato il corpo di Yara il 26 febbraio 2011. "Ne esisteva già a Sotto il Monte con una precedente gestione, ma io frequentavo il Gabbiano di Chignolo", ha precisato l'imputato. "Ho dovuto mentire inventando la storia del tumore alla testa, e me ne vergogno, perché non venivo pagato all'azienda per cui lavoravo e potermi quindi assentare per cercare altri lavori" ha detto Massimo Bossetti, imputato dell'omicidio di Yara Gambirasio, che ha chiesto di parlare, per la seconda volta durante l'udienza di oggi. Prima di oggi Bossetti, presente in aula in tutte le 20 udienze, non era mai intervenuto. "Da gennaio non percepivo soldi, circa diecimila euro. E siccome mi era stato intimato di non assentarmi neanche mezz'ora per fare altri lavori, perché loro sapevano che facevo altri lavori, e siccome non potevo dire che facevo altre attività lavorative perché mi avrebbero bloccato i pagamenti, mi è venuto in mente di mentire". Ha collaborato Gabriele Moroni.
VIDEO Massimo Bossetti: “Dna su Yara? Non è mio, oppure…”, scrive "Blitz Quotidiano" il 19 dicembre 2015. Nell’interrogatorio risalente al 6 agosto 2014, mandato in onda dalla trasmissione di Rete 4, Quarto Grado, Massimo Giuseppe Bossetti, il carpentiere di Mapello accusato dell’omicidio della tredicenne Yara Gambirasio, provava a spiegare la presenza del suo Dna sugli slip di Yara. Bossetti è incalzato dagli inquirenti ma continua a professarsi innocente. Poi le domande si spostano sulle presunte fantasie sessuali del carpentiere.
E venne il giorno del Bossetti furioso, scrive Luca Telese il 19 dicembre 2015. «No, non è vero! non ho mai detto questo fatto lì! Mai! Mai!». Accento bergamasco, un po’ intubato. Rabbia. Sconcerto. Per sette mesi la faccia di Massimo Bossetti è rimasta un enigma pietrificato, una maschera ineffabile, quasi inespressiva. Una sfinge per tutti: giornalisti e inquisitori, difensori e investigatori, colpevolisti e innocentisti, per tutti coloro che sono accorsi a scrutarlo in gabbia, nel grande circo di Bergamo, era un animale a sangue freddo. Per sette mesi nemmeno una parola. Per sette mesi e due ore, ad esser pignoli, fino a ieri mattina. Sono seduto casualmente solo tre posti dietro di lui, sto contemplando il suo profilo immobile, aguzzo, che mi pare come quello di un iguana al sole. Poi improvvisamente, pochi minuti dopo la pausa pranzo, quando sta parlando il suo ex socio Ennio Panzieri, il muratore di Mapello si anima, si colorisce, esplode. Tutto rosso in viso scatta in piedi sorprendendo i due piantoni che si stringono su di lui, il consulente della difesa Roberto Bianco che gli è seduto vicino, la presidente Bertoja, che con grande eleganza lo tranquillizza, e gli concede la possibilità delle dichiarazioni spontanee, con un tono quasi materno: – «Aspetti, Bossetti, faccia finire il teste, poi potrà parlare….».
– «Non è vero che….».
– «Stia tranquillo, però! Ce lo dirà tra breve». Suspence in Aula. Cosa lo avrà mai turbato?
E dire che di mattina sul banco dei testimoni del Tribunale di Bergamo si erano alternati in tanti: furgonisti, floricultrici, cameriere, tutti chiamati dall’ accusa, anche per minuzie, purché negative, per tratteggiare il quadro a più voci di un bugiardo cronico e mitomane. Tutto questo zelo produce simpatia per l’iguana che in dieci anni (pare) ha raccontato qualche cazzatella (come un’operazione inesistente e un’ordinanza restrittiva dei carabinieri mai ricevuta). Bossetti tace persino davanti a un teste che per l’accusa è molto importante, Federico Fienili, un genitore compìto che dice di aver incrociato un furgone simile a quello di Bossetti mentre parcheggiava: «L’ Iveco è sfrecciato a settanta all’ ora, a Brembate, per questo mi è rimasto impresso». Nulla, l’interessato lo guardava, ma come da un altro pianeta. Aveva testimoniato anche una cameriera, Antonella Ornago, di cui negli interrogatori gli inquirenti avevano ipotizzato – una provocazione per il prigioniero? – addirittura una (inesistente) relazione con l’imputato. Nulla.
La testimonianza (a favore dell’accusa) è lunga, tormentata, ma anche in questo caso, nulla. Bossetti, immobile, come una sfinge. La pm Letizia Ruggeri picchia duro. Parla apertamente con i testi di dissidi familiari, ne chiede conto ai muratori che avevano lavorato con Bossetti. Ma anche lì nulla da fare: l’occhio sbarrato del muratore-iguana, la sua proverbiale calma non erano state scalfite. Poi arriva Panzeri, un bergamasco tarchiato, con un cipiglio mascagnato che interrogato dai carabinieri aveva detto peste e corna dell’ex collega, e che invece – a sorpresa – sotto le domande della pm, desiderosa di ripetere i virgolettati, si mostra molto avaro.
– Ruggeri: «Lei ha detto che Bossetti è un cinico, un….».
– Camporini (inviperito): «Obiezione, vostro onore: la pm può constatare fatti e circostanze, non giudizi morali!».
– Bertoja: «Obiezione accolta».
– Ruggeri (sempre più determinata): «È vero che Bossetti era un tipo che non rispettava gli impegni!?
» – Camporini: «Fatti, deve parlare di fattiiii!!!!!
» – Ruggeri (infastidita): «Sto parlando di fatti…
» – Panzeri (titubante): «Non c’ è nulla che io possa dire di lui….».
– Ruggeri (arrabbiata): «Ma come? Lei ha detto…
» – Camporini (inviperito pure lui): «Ma insomma, depone lei o il teste???!!!».
E alla fine, lo sventurato Panzeri, ripete quello che aveva detto alla pm nell’ interrogatorio. Aveva litigato con Bossetti perché dopo aver lavorato due anni con lui, confidava nel suo aiuto per il cantiere di una casa in Val di Taro. E Bossetti, «quindici giorni prima», gli aveva risposto: «Non la faccio». Il costruttore si era imbufalito: «Da allora non ci siamo parlati più». Nella sua insignificanza l’aneddoto mi fa pensare: può essere questo un fatto importante in un processo per omicidio? Quanti verrebbero a scaricare il proprio rancore su di me, o su voi che leggete? Il tempo diacronico di Bergamo ti fa pensare anche a questo, senonché ecco la fiammata imprevista, innescata dal martellare della pm: – Ruggeri (davvero spazientita): «Ma lei ha detto di Bossetti….».
– Camporini (a piena voce): «Obiezioooooneeeee! Non può imboccarlo».
– Ruggeri (tutto d’ un fiato): «Lei ha detto: Bosssetti è un tipo che non ci pensa due volte a sotterrare qualcuno!».
Panzeri (imbarazzato): «Ho detto… Che… Il signor Massimo cercava sempre di avvantaggiare la sua parte a scapito degli altri…. Come molti uomini… Peraltro».
E qui si arriva al punto di non ritorno: – Ruggeri: «E cosa le diceva dei suoi fatti…?».
– Panzeri: «Nel 2006, credo, passò un periodo molto brutto, aveva picchiato sua moglie, litigato con lei, si voleva separare….».
Ed è proprio questa evocazione di Marita a fare infuriare il muratore: salta su in piedi, tutto rosso, tende il braccio stringendo l’indice e il pollice, come per piantare un chiodo nell’ aria: – Bosetti: «Ma quando?
Non è vero…».
– Panzeri (sorriso di soddisfazione): «Aveva questi problemi con la moglie, era, aveva uno stato d’ animo sottoterra…. Voleva divorziare… In cantiere lo chiamavano il favola, perché diceva delle bugie…. Ad esempio di essere stato operato al setto nasale…».
Ma qui è la Bertoja che interviene: «Mi dispiace, ma di questi fatti personali, della moglie, non ci importa proprio nulla!». Come promesso la presidente dà la parola all’ imputato. Silenzio di piombo in aula. Nemmeno una mosca. Quando arriva quella voce, alle orecchie di tutti, sembra che venga da un altro corpo, un poltergeist di Brembate.
– Bossetti: «Non è affatto vero che io gli abbia fatto queste confidenze. Non è vero che mi avessero dato quel soprannome. Lui me lo aveva dato, lui! Era lui che instillava queste storie contro di me: io quella casa non l’ho costruita per un motivo semplice…. Non mi pagava i lavori da mesi! E se non ci crede presidente, lo richiami dentro, quello lì, e gli chieda dei soldi!!». Ma già che c’ è Bossetti risponde anche alla questione che aveva prodotto un’ora di interrogatorio della cameriera. Lei aveva o meno parlato con «un certo Rudi» (sic!), incontrato una volta davanti al bar, e «di un giorno in cui i due si erano messi a parlare di quando da ragazzi andavano alla discoteca Sabbie Mobili di Chignolo». Un dettaglio non da poco, essendo il luogo dove era stato trovato il corpo di Yara.
La ragazza aveva negato questa affermazione (attribuita a lei), e anche Bossetti pare granitico: «Mai stato alle Sabbie mobili. Da ragazzo frequentavo il Gabbiano». E si parla della fine degli anni Ottanta. Può contare anche questo dettaglio precaduta del muro di Berlino? Bossetti che balla i Duran Duran con l’amico Rudi? Ma anche gli altri testimoni vengono sollecitati su questo punto. Ad esempio il muratore Giovanni Gherardi: – Ruggeri: «Che diceva?
» – Gherardi: «Si lamentava che la moglie lo tradiva… Mi parlò dell’idea del divorzio….». La Ruggeri è molto interessata: «Quindi lui…». Parte del pubblico rumoreggia.
Claudio Salvagni grida: «Ma è incredibile!». La Bertoja risolve la situazione a suo modo, con un tocco geniale. Prima con una sonora risata, e poi con una esclamazione che fa venire giù la sala. Si rivolge alla pm: «Lei non sa quante volte io vorrei divorziare da mio marito!!!».
Nell’ hellzapoppin di una giornata incredibile si celebra con questa stoccata imparabile il duello tra le due donne di questo processo: la presidente che sa passare dallo scalfarese all’ ironia. E la Pm che non ride mai. I colpevolisti si chiedono come mai Bossetti sia esploso per una questione di bisticci coniugali. I bossettiani si entusiasmano per l’iguana che diventa umano e leonino per la sua Marita.
L’ equivalente delle tifoserie si annulla nel mistero di un processo che non risparmia nemmeno un frammento del privato.
Giustizia giustizieri e giustiziati... istruzioni per l’uso, scrive Gilberto Migliorini il 17 dicembre 2015 su “Albatros Volando Controvento". C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico. Così cominciava una celebre lirica pascoliana. La novità è che nel Bel Paese si condanna in base a un movente che perfino il Procuratore Generale ha considerato con la consistenza dell’aria fritta. L’antichità è che l’inquisizione permea da sempre la mentalità dei tribunali italiani, ma con quella eleganza da manuale del galateo così ricco di contorsionismi retorici e di allusioni iconografiche. Ci sono moventi che sono come un passepartout, meglio di un jolly e perfino della classica matta pigliatutto, ma comunque non esaustivi della complessità indiziaria: come, ad esempio, la pornografia e il Dna. La prima è come l’araba fenice: che ci sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa. Fuori metafora l’oscuro oggetto del desiderio è talmente diffuso che oramai non lo si vede più… dissolto un po’ ovunque a insaporire come il prezzemolo e l’erba cipollina. No, non quella delle nudità o dei rapporti sessuali esplicitati in forma didascalica e con valenza didattico esemplificativa, ovviamente. No, per carità, quella è solo propedeutica all’orgasmo virtuale. Si tratta di quella pornografia dei casi dolorosi, delle storie edificanti, delle retoriche di regime nazional-popolare, di quella nudità di sentimentalismo e piagnistei che non fa scandalo e che addirittura sollecita a farne un modello culturale con tanto di imprimatur di una religiosità epidermica e convenzionale. Per quella di pornografia il movente sarebbe non solo assurdo, ma offensivo per quel comune sentimento del pudore, per quella diffusa e circostanziata e sentita afflizione, un patetismo che espone le vergogne senza remore e senza infingimenti, rimestando con sapiente alchimia come uno chef che mescola il fioretto giallo. Lì non c’è movente che tenga, si tratta di esibizionismo condito di leziosità e smancerie, di tante trasmissioni dove la vena pornografica è quella dell’esibizione del mostruoso apparato di piacere del pettegolezzo e della maldicenza o, al contrario, del caso edificante costruito col taglia e incolla: una conturbante e perversa retorica condita di masturbazioni mentali e depravate dietrologie. Figuriamoci se magari un lui o una lei si deliziasse di quegli show mantecati in un intruglio di voyerismo e scopofilia e poi si scoprisse il crimine… nessuno farebbe una piega o accennerebbe a un movente, sarebbe normale amministrazione con il classico delitto per interposta persona....Che poi invece un omicidio sia propiziato da qualche immagine pornografica sul computer (le classiche e insignificanti immagini da kamasutra) come movente e causa scatenante - la chiave di un teorema con tanto di lemmi, corollari e dimostrazione per assurdo - sembra un tantino umoristico, una barzelletta raccontata a mezza voce in un convento di suore di clausura. Il movente dovrebbe apparire come una teoria assiomatica, con quel timbro epocale da nostalgico tempo andato, una sorta di anacronismo alla Belle Époque, una pulsione assassina old fashion da romanzo ottocentesco, più che altro una fantasia della tv generalista adusa al Via col Vento con Rossella O’Hara. Un moderno san Paolo folgorato sulla via di Damasco potrebbe rivalutare il copione di un dramma manierato alla Giacosa, Come le foglie, o al Fogazzaro del Piccolo mondo antico rimasto all’ambiente borghese ottocentesco e di un criminologo addestrato alla logica apofantica. Ma tant’è, quando non c’è trippa per gatti anche la pornografia, quella da navigazione anatomica, diviene, con l’opportuno apporto semeiotico e le necessarie ermeneutiche psicoanalitiche, il recondito e surrettizio motivo scatenante di un delitto: l'immagine compromessa di ragazzo perbene e studente modello. Che poi come il Procuratore Generale osserva con logica ineccepibile, l’assassino non avesse provveduto a cancellare quel banale corpo del reato al quale avrebbe dato tanta importanza e valore da indurlo ad uccidere… anzi consegnando agli inquirenti il pc zeppo di quelle immagini pornografiche… pare davvero di una logica sibillina. Ma tant’è l’impianto della sentenza pare ineccepibile alla suprema corte. Sedici anni per un simile delitto sono quel classico colpo al cerchio e quell’altro alla botte, nell’incertezza se caso mai l’imputato fosse innocente, non sono troppi, ci sono sempre gli sconti per buona condotta e (forse) potrà in futuro ancora rifarsi una vita (ma sempre con il marchio indelebile dell’assassino). Ma non voglio parlare del caso Stasi (che detto per inciso ritengo del tutto estraneo all’omicidio della sua compagna, un povero ragazzo che pagherà per le colpe di altri). Certo parlare del singolo caso e sviscerarne tutti gli elementi costituisce la logica stessa di un sistema investigativo basato sugli specifici riscontri probatori. Però talvolta si può tentare di cogliere le strutture profonde di una cultura che ha le sue radici in quel sistema inquisitorio messo alla berlina da Pietro Verri e da Alessandro Manzoni nel celeberrima disamina sul Processo agli untori. L’attualità dei due autori (un illuminista e un romantico) a molti suona strano, si preferisce qualche rivista di carta più o meno patinata con gli immancabili criminologi, lo psichiatra e il genetista che fa tanto uptodate, oppure i format televisivi dedicati a sviscerare i cold case come se si trattasse di fornire una ricetta da nouvelle cuisine. Il fatto è che il Bel Paese non ha fatto tesoro delle intuizioni e degli approfondimenti di tanta nostra cultura rimasta come lettera morta, preferendo le elucubrazioni criminologiche di opinionisti da manuale Cencelli. Non parlerò del Piazza e del Mora, i due incolpevoli torturati e giustiziati nel lontano 1630, ma nemmeno di tutti quegli innocenti condannati a pene detentive e all’infamia della pubblica gogna, e neppure di quei colpevoli che la fanno regolarmente franca magari con qualche cavillo giudiziario o con l’omertà di un sistema corporativo che funge da ala protettiva per i suoi adepti e affiliati. Parlerò di quel sistema che si fonda sulla necessità di dare al corpo sociale risposte in sintonia con le aspettative e con le esigenze promosse da quell’ingegneria sociale orchestrata politicamente e rappresentata mediaticamente, il terreno di cultura dove crescono rigogliosi i pregiudizi e i luoghi comuni, o dove si forma quella mentalità dell’italiano medio, un acquirente che compra a scatola chiusa, ma ne assapora il contenuto ingurgitando con avidità... La cultura nazional-popolare un tempo era rappresentata dallo spettacolo del patibolo, non certo più impressionante del moderno feuilleton televisivo e di certo medium virtuale dal sensazionalismo eclatante in grado di rimestare nei visceri di un imputato più ancora di un Torquemada. Oggi il varietà indossa i paludamenti delle toghe (la spettacolarizzazione richiede anche effetti scenografici e mise appropriate) ma ha bisogno soprattutto di quell’ambiente mediatico nel quale siamo immersi anche quando crediamo di trovarci in mare aperto su una scialuppa di salvataggio, lontani da qualsiasi ormeggio… La solitudine e la privacy sono un lusso che neppure i naufraghi si possono permettere, le isole dei famosi sono ormai alla portata anche dei dispersi nel deserto e degli anonimi sul sentiero di Compostela in odore di santità. Intanto occorre dire che l’esigenza di trovare un colpevole è preponderante rispetto alla necessità della salvaguardia dei diritti civili e del classico al di là di ogni ragionevole dubbio che sembra più che altro lo slogan pubblicitario di una scatola di biscotti per la colazione del mattino. La cosa potrebbe apparire contraddittoria rispetto a tutti quei manigoldi che non vengono neppure sfiorati dalle penalità della giustizia. Il fatto è che esistono quelle reti di protezione, collusioni e reciproche tutele che per qualcuno sono una manna dal cielo. Per altri, i cani sciolti o non abbastanza immanicati col potere, la loro funzione sociale è appunto quella, alle bisogna, di fare da attore consumato, di professione vittima sacrificale, in uno status conclamato, di adattarsi al ruolo del colpevole e magari dell’assassino quando lo spettacolo lo richiede e soprattutto quando occorre dare risposta al grido di dolore che sale dal corpo sociale. È il classico osso da rosicchiare tenendo occupata e addestrata la platea mediatica a compiere inferenze criminologiche (e politiche) sull’onda emotiva, magari tirando un sospiro di sollievo quando, per usare l’immagine metaforica di Erasmo da Rotterdam, suona la cassetta delle elemosine e un’anima sale in cielo. Sì, si tratta di un sistema dove l’equilibrio dei poteri impone criteri negoziali e soprattutto scenografici, un copione che per quanto possa sembrare di natura casuale è invece un sistema coerente con tanto di surrogati e valvole di sfogo per uno spettacolo che ha una precisa funzione sociale. Un tempo ci si accalcava attorno al patibolo per cogliere in slow-motion gli spasmi e le contratture sul volto del condannato prima ancora di avvertire il rumore delle ossa rotte e le immancabili flatulenze intestinali. Altro che realtà virtuale, per gli aficionados era davvero come toccare con mano, almeno a chi si trovava proprio davanti al proscenio, sui palchi, non sulle curve, in galleria o alla buvette in attesa che si liberasse un posto possibilmente in prima fila dove assistere allo spettacolo esilarante ed educativo. Oggi ci si accontenta, si fa per dire, del gossip condito di tante illazioni ben confezionate... e poi c’è la scienza che immancabilmente da un capello e da qualche nanogrammo di materiale genetico ti squaderna tutta intera la dinamica e la filiera di un delitto. I benpensanti e gli estimatori sono davvero impressionati quando si parla di nucleotidi e sono pronti a scommettere con quella fede scientifica che fa all’uopo con il classico “spieghi come il suo Dna è finito sulle mutande?”. Per gli untori non ci sarebbe stato davvero scampo, e per il Manzoni sarebbe occorsa una Storia della Colonna infame di impronta genetica per tener testa alla vicenda nei suoi risvolti scientifici. Alla fine però anche gli assassini, quelli che premeditano il delitto e non già quelli presi da raptus omicida e da stress postraumatico, si faranno furbi, sempre che non l’abbiano già fatto facendo il lavoro con guanti da chirurgo e metodologia forense. In fondo sì, anche quella del delitto è un’arte da praticare con competenza da manuale e adeguate capacità organizzative. Purtroppo sono gli ingenui e sprovveduti che di solito finiscono nella rete della giustizia. Che siano colpevoli o innocenti capitati per caso sul luogo del delitto, magari a scoprire il cadavere, o davvero rappresentino l’assassino, in fondo poco importa. L’essenziale è che il ruolo sia assicurato e che qualcuno lo interpreti, magari con una regia che ne valorizzi i talenti cogliendo lo sguardo giusto, un po’ di traverso, dando lievito e carattere a una biografia troppo piatta e inadeguata allo status-ruolo - giocando sui suoni onomatopeici e sugli accenti, le assonanze e le allitterazioni - magari giostrando su quei passatempi caserecci che d’improvviso assumono il rilievo di un vero movente. In fondo basta davvero poco... e per ciascuno di noi, anonimi personaggi senza arte né parte, c’è un copione che di botto ci potrebbe rendere famosi, interpreti convincenti e perfino appropriati di un giallo mediatico infallibilmente di successo…
Yara, Bossetti in aula fa dietrofront: "Non volevo accusare nessuno". L’uomo accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio ha parlato dopo l’interrogatorio del collega Massimo Maggioni. Lo scorso luglio, Bossetti aveva chiesto di incontrare il pm e avrebbe cercato di gettare sospetti proprio su Maggioni, scrive Today il 21 Dicembre 2015. Le frasi pronunciate da Massimo Bossetti, imputato dell'omicidio di Yara Gambirasio, sul suo collega di lavoro, l'imbianchino Massimo Maggioni, sono state una "semplice esternazione di un possibile sospetto che potevo avere" e "non un'accusa" o il "voler rendere colpevole qualcuno". A dirlo è lo stesso muratore di Mapello, intervenuto stamane in aula con una dichiarazione spontanea davanti alla Corte d'Appello al termine dell'esame del suo collega Maggioni, parte civile e presente in veste di testimone. Bossetti, nel luglio scorso, aveva chiesto di essere ascoltato dal pm e avrebbe cercato di gettare sospetti su Maggioni sostenendo che gli piacevano le ragazzine e che potesse essere entrato in possesso del suo Dna con un fazzoletto usato da Bossetti, che aveva raccontato di soffrire di epistassi, per tamponarsi il sangue uscito dal naso. “Col pm sono stato sempre rispettoso, educato, gentile - ha affermato Bossetti - E ho sempre detto che non volevo accusare o rendere colpevole nessuno. Se uno ha dei sospetti o dei dubbi penso che debba essere ascoltato per verificarli. La mia - ha ripetuto - era una semplice esternazione. Se poi è infondata, bene. Non era mia intenzione fare nessuna calunnia".
BOSSETTI COLPEVOLE PER FORZA - LA PM NON TROVA UN MOVENTE PER L'OMICIDIO DI YARA E LA BUTTA SU AMANTI, DISCOTECHE, ACQUISTI ONLINE. E IL PROCESSO SI PERDE TRA PETTEGOLEZZI, SPECCHI DA 35 EURO E ''RAGAZZE CARINE''. LE SURREALI CRONACHE DELL'UDIENZA. Telese: Una cameriera che sente una confidenza tra due vecchi amici, una ragazza appariscente che compra uno specchio su Subito.it da un signore che si rivela essere Bossetti, un ex collega arrabbiato per un litigio sul lavoro. Tre insignificanti aneddoti che potrebbero stare in qualsiasi delle nostre vite, e che invece in un processo per omicidio diventano prove di accusa...Di Luca Telese per ''Libero Quotidiano'' del 20 dicembre 2015. «Da Giallo mi hanno detto che mi pagavano l'intervista se io accettavo il testo che avevano scritto loro, che però non corrispondeva a quello che gli avevo detto io». Pausa. «Gli ho risposto di no e...». La presidente Antonella Bertoja chiede: «E...?». Risposta: «Lo hanno pubblicato lo stesso». Brusio scomposto in aula. Sarà vero? Da poco meno di un'ora Antonella Ornago è sul banco dei testimoni. Venerdì mattina, tribunale di Bergamo. Un interrogatorio lungo, e a tratti esasperante, su un dettaglio quasi insignificante, una rivelazione che nell'idea dell'accusa diventa di enorme importanza. Invece, come spesso capita, salta fuori questa cosa. Se la cameriera del ristorante dove Massimo Bossetti andava spesso a mangiare non fosse sotto giuramento (e quindi a rischio di incriminazione per falsa testimonianza) forse non crederei a quello che sta raccontando. Però la Ornago è molto seria, consapevole della gravità di quello che ha detto sulla rivista diretta da Andrea Biavardi e questo è esattamente ciò che racconta. Oggi vi parlo di tre piccoli-grandi dettagli. Una cameriera che sente una confidenza tra due vecchi amici, una ragazza appariscente che compra uno specchio su Subito.it da un signore che si rivela essere Bossetti, un ex collega arrabbiato per un litigio sul lavoro. Tre insignificanti aneddoti che potrebbero stare in qualsiasi delle nostre vite, e che invece in un processo per omicidio diventano prove di accusa. Ma cosa aveva detto davvero la cameriera, al settimanale pop-criminologico, infine ai carabinieri e alla Corte? Aveva riferito di una conversazione orecchiata per caso, mentre serviva ai tavoli. La Pm Letizia Ruggeri ha in mano il testo della sua deposizione, l'avvocato di parte civile legge i passi dell'intervista a Giallo, e le chiedono di confermare che si trattasse delle "Sabbie Mobili" ma lei nega, e si trincera dietro una muraglia. Ecco i fatti come li ricorda lei: sei o sette anni fa Antonella vede Bossetti vicino a bancone del bar. Sta parlando con un suo amico di vecchia data, «un certo Rudi». Rudi nei suoi ricordi non ha un cognome. È uno che viene spesso a mangiare, dice due battute, ricorda la sua partita IVA per fare ricevuta e se ne va. Chiede l'avvocato di parte civile, Enrico Pelillo con una ironia che suscita una risata catartica e fragorosa nel pubblico: «Per caso ricorda quella partita Iva, allora?». E lei, candida: «No». Bene, tenetevi forte, perché secondo la Pm Ruggeri quello che sente Antonella è molto, molto importante dal punto di vista processuale. Bossetti borbotta qualcosa del tipo «Come stai?». Quello risponde «Bene». Poi Rudi-partita-IVA fa: «Ti ricordi come ci divertivamo quando eravamo ragazzi?». Bossetti risponde una cosa del tipo: «Eh». Sette anni fa. Ma Rudi dice di più: «Ti ricordi quando andavamo a ballare in quella discoteca... Come si chiamava... A Sotto il Monte...A Chignolo...». Il luogo esatto - come spesso nella vita - resta incerto. Il nome non si fa. E Bossetti annuisce: «Si, si, mi ricordo». Fine dell'aneddoto. Antonella ha simpatia per Bossetti. Ma nemmeno troppa confidenza. Ne parla con rispetto, si indigna quasi quando le chiedono se le abbia fatto delle avances: «Nooo!». È sicura: «Me ne ricorderei!». E che rapporti avevate? «Quelli che avevo con tutta la clientela». Che tipo di rapporti? Le chiede la Pm, non del tutto convinta. E lei: «Qualche battuta durante le ordinazioni». E poi? E poi? «Saluti e sorrisi al momento del conto». Parlavate del caso Yara? «No...». No, è sicura? «Forse qualche volta, c'era la tv, in sala». Quindi, ricapitolando tutti i fatti. Antonella serve ai tavoli, conosce poco più per nome due clienti che un giorno, vicino al bar sente parlare di quando - Bossetti è del 1970 - fra il 1984 e il 1990 - andavano in una discoteca. Quale? Il nome non lo dicono. Ma se fosse le "Sabbie Mobili" di Chignolo sarebbe perfetto, certo. Perché è il locale che sta di fronte al campo dove è stato ritrovato il corpo di Yara. Se fosse quella cambierebbe davvero qualcosa? Sarebbe importante appurare che l'imputato a sedici, diciassette o venti anni è stato a ballare "Sunday bloody Sunday" o "London Calling"" in un posto dove 25 o 30 anni dopo è stato ritrovato il corpo della vittima? Chissà. Le indagini degli inquirenti che hanno testimoniato in aula, infatti, dicono che Bossetti non aveva la tessera necessaria per entrare in quel locale. Di più: nessun testimone ricorda di averlo mai visto lì. E poi la Ornago non ha mai parlato delle "Sabbie Mobili", in nessuna delle interviste che aveva fatto prima di Giallo. Arriva dunque un collega di questo settimanale che le chiede di raccontare la storia di quella chiacchiera che ha sentito con Rudi. Il collega questa volta scrive che la Ornago avrebbe detto «La discoteca Sabbie Mobili». Bingo. Tutti noi vorremmo poter fare questo titolo: forse ha capito male, forse ha insistito in buona fede. O forse ha ceduto lei? Giallo annuncia querela e dice di poter esibire la registrazione. Sta di fatto che l'intervista viene letta dalla Pm e dalla parte civile. La ragazza viene interrogata, e poi chiamata a deporre. Ma in aula smentisce. Con molte contorsioni, riesce a spiegare perché - secondo lei - non ha mai detto "Sabbie Mobili": «C' era una discoteca dalle mie parti che si chiamava così... Ma io non ho mai detto che fosse a Chignolo. Il nome di cui parlavano loro doveva essere un altro». La Pm si spazientisce. La parte civile chiede chiarimenti. In aula si materializza un sospetto: o la ragazza è inattendibile o è confusa. Invece la presidente della corte dimostra una pazienza inenarrabile per dipanare il mistero e ci riesce: «Dunque lei ha sentito che parlavano di questa discoteca ma non pensa che fosse le "Sabbie Mobili"?». E lei: «Esatto». La Presidente prosegue: «Però ha sentito parlare di una discoteca "Sabbie Mobili" in un'altra località, giusto vicino casa sua?». La cameriera: «Dalle mie parti...». La presidente: «Però lei è sicura di non aver mai detto al giornalista che era "Sabbie Mobili" a Chignolo?». La ragazza si infervora: «Ecco, è così: non era esattamente quella l'intervista. Hanno scritto quello che volevano, mi hanno mandato una mail col testo, dicevano che mi avrebbero pagato se confermavo, e io gli ho scritto una mail dicendo di non pubblicare nulla. Invece loro l'hanno mandato in stampa». Così. Il mistero delle due località - invece - lo risolve l'avvocato Paolo Camporini che ha fatto ricerche: «Presidente, il fatto è questo, ed è compatibile con quello che dice la ragazza. La discoteca "Sabbie Mobili" ha avuto due gestioni. Prima era nel paese del Papa a Sotto il Monte, vicino a casa della Ornago, poi si è trasferita a Chignolo. Bossetti non l'ha mai frequentata». E più tardi Bossetti lo dice in modo esplicito: «Andavo alla discoteca "Il Gabbiano", a Chignolo». Ma se ci fosse stato alle "Sabbie Mobili", meritava davvero un'ora di processo? Pensate con attenzione a cosa si sussurra di voi nei bar, a cosa dite quando incontrate qualcuno. Può essere un indizio di colpa il fatto che l'accusa abbia trovato tre muratori che hanno lavorato con l'imputato e ricordano, in modi diversi, ma tutto sommato concordanti che Bossetti nel 2006-2008 abbia detto tre balle? È tutto vero: una volta ha raccontato di essersi operato al naso (e non era vero) una volta di essersi picchiato con la moglie Marita e di dover firmare in questura (e non era vero) e una volta (ad una sola persona) di avere un tumore alla testa (bugia anche questa). È importante che il signor Ennio Panzeri, un ex socio con cui Bossetti ha litigato nel 2008 per un lavoro da fare dica che in cantiere lo chiamavano "il favola"? Per la Pm si, e per almeno due motivi. Il racconto per lei dimostra che Bossetti non andava d' accordo con Marita, tant' è vero che la Ruggeri ha cercato di chiamare a deporre anche due (presunti) ex amanti della moglie (stoppata per ora dal presidente Bertoja). Per la Pm, che fatica a trovare un movente del delitto Yara, questi amanti e questa frustrazione sfociata nei litigi (due anni prima del delitto!) sono la prova che Bossetti era frustrato sentimentalmente, che cercava una rivalsa. Per la Pm la chiacchierata con il signor Rudi partita-Iva ascoltata nel 2008 dalla cameriera Antonella sarebbe stata la prova che Bossetti aveva un legame con la discoteca "Sabbie Mobili" e con il luogo del delitto. E la cameriera Antonella in una domanda era diventata (per un attimo), durante l'interrogatorio di Bossetti, persino una possibile amante. Non è bionda, carina, acqua e sapone, il tipo che piace a Bossetti? In questa inchiesta tutto diventa subito torbido, potenzialmente sospetto, con gusto a tratti morboso. L' avvocato Salvagni chiede all'ex socio avvelenato con Bossetti: «Ma chi usava il soprannome "favola" per Bossetti?». E lui, allargando le braccia: «Tutti». E Salvagni: «Sì, ma tutti chi?». E l'operaio: «Beh... Tutti!». Bossetti è rimasto imperturbabile per mesi, ma su questo chiede di parlare addirittura una seconda volta: «Presidente, io chiedo scusa, mi vergogno davvero: ma è vero, ho raccontato una bugia! Però lui non mi pagava, io dovevo lavorare e non è che ai miei figli gli potevo dare da mangiare sabbia e mattoni!». È sincero? Ma l'eventuale bugia per coprire un giorno di assenza (!) nel 2008 proverebbe che è un potenziale assassino e calunniatore? Ed ecco la vera perla, la fiammata per chiudere in bellezza. Eva Ravasi, 42 anni, labbra rosso fuoco, abbronzatura tropicale, seno prorompente incastonato in un giubbotto irideggiante. Dopo la sfilza dei magùtt, con camice flanellate, barbe e baffi di carta vetrata il pubblico si anima. Eva è stata rintracciata dalla polizia perché ha risposto all' annuncio per lo specchio messo da Bossetti su Subito.it (li hanno interrogati tutti!). Lui le aveva dato un appuntamento davanti al cimitero di Chignolo. Lei ha ribattuto: «Facciamo davanti a una fabbrica», meno lugubre. Bossetti voleva 60 euro, poi ha ceduto l'oggetto a 35 euro. E a questo punto si mette a fare il piacione: «Ho un'impresa, vuoi fare la segretaria per me?». Lei dice di no: «Casomai mia sorella». Lui improvoleggia ancora di più: «È bella come te?». La cosa non va in porto (purtroppo). A casa il colpo di scena. Lei ricorda un po' seccata: «Ho scoperto che non era di legno, ma di plastica!». Quindici minuti di show: e risata corale del pubblico. È importante perché Bossetti faceva il piacione? Perché si dimostra che è allupato? Perché l'oggetto non valeva 35 euro? Mistero. Se Massi mirava alla vamp o a sua sorella (classe 1976) poteva ambire anche all' angelica Yara? Difficile, data l'evidente diversità antropologica. Io, invece, torno a casa e penso cosa direbbe di me, se lo rintracciassero, il signore a cui ho venduto le barre Portatutto su Subito.it. Abbiamo tutti una colpa che ci manderebbe al patibolo, nell' armadio delle nostre vite. Tutti, se a frugare è una investigatrice sagace come la Ruggeri.
Intanto….Chiesti i domiciliari per Bossetti.
"Chiediamo di sostituire la misura di custodia cautelare in carcere con arresti domiciliari e braccialetto elettronico", ha detto l'avvocato Paolo Camporini, scrive “La Repubblica”. Secondo il legale non c'è pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e reiterazione del reato. "La casa di Bossetti è in un posto isolato, facilmente sorvegliabile". Bossetti è stato arrestato il 16 giugno 2014 e da allora è rinchiuso nel carcere di Bergamo.
La moglie: «Lo aspetto a casa». I legali dell’imputato hanno chiesto di sostituire il carcere con gli arresti domiciliari, anche con l’ausilio del braccialetto elettronico. L’avvocato dei genitori di Yara: «Sono sconvolto», scrive “Il Corriere della Sera” del 21 dicembre 2015. I difensori di Massimo Bossetti, imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio, hanno chiesto alla Corte di sostituire il carcere con gli arresti domiciliari, anche con l’ausilio del braccialetto elettronico. I legali del carpentiere di Mapello, che è accusato di aver ucciso la ginnasta tredicenne di Brembate Sopra, hanno spiegato in aula che le condizioni sono cambiate e l’esigenza cautelare può essere assicurata in questo modo, anche alla luce delle nuove disposizioni di legge. I legali di Bossetti hanno consegnato alla Corte una relazione di Marita Comi, moglie dell’imputato, in cui la donna spiega di essere disponibile ad accoglierlo a casa. La pm Letizia Ruggeri si è opposta alla richiesta dei legali, la Corte si è riservata di decidere e ha cinque giorni di tempo per farlo. La richiesta dei legali di Bossetti è arrivata durante l’udienza in cui ha parlato Massimo Maggioni, ex collega di Bossetti, che si è costituito parte civile per calunnia. I legali di Bossetti hanno già presentato, nell’ultimo anno e mezzo, due diverse istanze di scarcerazione bocciate in tutti i gradi di giudizio fino alla Cassazione. Ora questo nuovo tentativo basato sul venir meno delle esigenze cautelari. L’avvocato Enrico Pelillo, legale dei genitori di Yara Gambirasio, si è detto «sconvolto» dalle parole usate dalla difesa di Massimo Bossetti per chiedere i domiciliari. «L’imputato e la vittima appartengono a mondi diversi — ha detto Pelillo —. Il primo è vivo, Yara è al Creatore».
I legali: Bossetti a casa con il braccialetto. Entro cinque giorni la risposta dei giudici. Gli otto giudici hanno trascorso il pomeriggio di lunedì 21 dicembre impegnati in una lunga camera di consiglio. La luce dell’ufficio della presidente Antonella Bertoja, al secondo piano del Tribunale di via Borfuro, è rimasta accesa fino a tardi, ultima a spegnersi in una fredda serata di solstizio d’inverno, scrive “L’Eco di Bergamo” il 22 dicembre 2015. La Corte d’Assise è chiamata nuovamente a esprimersi su un’istanza di scarcerazione (la seconda a processo già avviato, la nona se si considerano anche le fasi precedenti) presentata dalla difesa di Massimo Bossetti. Una mossa un po’ a sorpresa, giunta nell’ultima udienza prima dello stop natalizio. La riserva dei giudici sarà sciolta a breve, comunque non oltre il termine di cinque giorni. In linea generale la custodia in carcere viene disposta quando, con il presupposto della gravità indiziaria (per Bossetti pesa il Dna), sussiste almeno uno tra i pericoli di fuga, inquinamento probatorio o di reiterazione del reato. Proprio quest’ultima è l’esigenza cautelare che tiene Bossetti in cella, sin dalla decisione del gip Ezia Maccora dopo l’interrogatorio di convalida del fermo (19 giugno 2014), confermata di fatto per altre 7 volte tra Riesame, Cassazione e la stessa Corte d’Assise. «L’imputato, se messo a casa con moglie, figli e braccialetto elettronico, non potrebbe ripetere alcun reato», ha affermato il legale Paolo Camporini, che poi ha ricordato il tempo già trascorso in cella da Bossetti, la sua incensuratezza, il suo stile di vita. Negativo il parere del pm Letizia Ruggeri: «Nulla è cambiato rispetto alle esigenze cautelari così come sono state valutate nelle precedenti otto decisioni, tutte contro la scarcerazione».
Bossetti vuole il regalo di Natale, scrive Luca Telese il 22 dicembre 2015. E l’avvocato Enrico Pelillo, gelido, sibilò nel microfono: «Ho sentito che il mio collega Camporini ha detto – per sostenere la sua richiesta! – che Yara e l’imputato abitano mondi diversi…». Pausa, fremito, la voce si alza: «Su questo sono d’ accordo». La conclusione diventa un ruggito: «Già! Abitano mondi diversi perché la vittima è al creatore, e l’imputato, invece, oggi è ancora vivo!». E sbàaam, rumore di microfono spinto di lato. Massimo Bossetti può ottenere gli arresti domiciliari? È bastato che risuonasse questa domanda – posta a sorpresa dagli avvocati alla fine di una udienza apparentemente a bassa intensità – perché nell’aula del Tribunale di Bergamo avvampasse la polemica. Ancora una volta il processo di Yara è diventato il terreno di una battaglia più grande, addirittura uno dei primi banchi di prova per testare le nuove norme sulla custodia cautelare, varate dal Parlamento ed entrate in vigore dopo l’ultimo pronunciamento sulla permanenza in carcere di Bossetti. Davvero è un processo in cui non ci si annoia. Prendete ieri: doveva essere una udienza-lampo, quattro testi minori dell’accusa. Senonché, quando al termine dell’ultima pausa nell’aula di Bergamo iniziano a scambiarsi gli auguri, improvvisamente si alza l’avvocato Paolo Camporini. Tono pacato e solenne, ma una qualche emozione: «Presidente, la difesa ritiene che sia giunto il momento di porre una istanza». Su tutti si abbatte il silenzio, e Camporini cala le sue carte. Sa che in questo momento del processo la Corte, cioè la presidente Antonella Bertoja e i giurati popolari, sono in tutto e per tutto sovrani sull’ imputato. E così l’avvocato spiega su cosa la Difesa li vuole chiamare a pronunciarsi: «Riteniamo – esordisce Camporini – che adesso abbiate un quadro più ampio della situazione, delle persone. Non ci interessa qui affrontare la questione dei gravi indizi di colpevolezza per non turbare la serenità della Corte. Ma vogliamo sollevare la questione della nuova legge votata dal parlamento, entrata in vigore a maggio, che contiene una novità dirompente sul tema della custodia cautelare». E la novità riguarda proprio il nuovo uso di uno strumento, il braccialetto elettronico: «Prima di questa legge – aggiunge Camporini – i giudizi di sorveglianza dovevano motivare perché lo adottavano. Adesso accade esattamente il contrario: se non si concede e si ricorre al carcere, bisogna spiegare perché». Camporini e Salvagni spiegano ai giurati, come ad un seminario per studenti di giurisprudenza, perché secondo loro Bossetti può tornare a casa: «In questo momento – osserva Camporini – potete constatare che non esiste pericolo di fuga, per almeno due motivi: primo, perché l’imputato ha una famiglia e non intende certo abbandonarla. E, secondo, perché non lo ha fatto in quattro anni. Non esiste pericolo di inquinamento delle prove, infine, perché l’inchiesta è finita… Bossetti quindi – conclude – è in carcere solo per due motivi giuridici: perché il suo reato é “grave”, e per il rischio della reiterazione del reato. Ma il motivo del cosiddetto “grave reato” è stato attenuato dalla nuova legge, e la reiterazione del reato è impossibile, soprattutto con un braccialetto al piede». Bossetti, si associa Salvagni, «è incensurato: in carcere ha tenuto un comportamento esemplare. Ha mostrato di accettare la pena. La possibilità che commetta un altro omicidio è nulla». Curioso. Mentre gli avvocati parlano, con tanta passione, noto che la presidente Bertoja sfoglia (quasi ostentatamente) ritagli di giornale: una manifestazione di indifferenza? Come molte donne riesce a fare bene due cose insieme? Camporini ha ancora l’ultima cartuccia da sparare: «Sapete che Bossetti abita in una via senza uscita: non può scappare, ed è facilmente sorvegliabile». Lui e Salvagni smettono di parlare, la Bertoja chiede a Bossetti se accetterebbe la misura: «Certamente!», esclama il muratore. E a quel punto tutto si accende. Subito prende la parola la pm Letizia Ruggeri: «Presidente – dice – lei sa che mi sono già pronunciata! Ma voglio aggiungere subito che non ritengo esistano, nello specifico le condizioni per questo provvedimento! Proprio no! Non sono intervenute a mio parere – aggiunge – le significative novità legislative illustrate dagli avvocati. E infine gli elementi a carico di Bossetti sono sempre gli stessi che hanno portato al rigetto dell’istanza da parte di altre Corti!». Ma il più arrabbiato stavolta è proprio Pelillo, legale della famiglia Gambirasio: «Sfruttando il clima natalizio, e ora capisco perché – sottolinea con malizia – un imputato che è rimasto silente davanti alle immagini più raccapriccianti, ha già preso, in pochi giorni, la parola tre volte. Bene – aggiunge Pelillo – la difesa dice che non c’ è il rischio della reiterazione del crimine evocando l’esempio del marito che non può uccidere due volte la moglie?». Altra pausa, tono teatrale: «Bene, io invece devo dire che di ragazzine di tredici anni in giro ne vedo tanteee!». Ogni volta che si vota una legge, in Italia, bisogna attendere il collaudo. Mai avrei pensato che il banco di questi provvedimenti garantisti diventasse proprio la giuria di Bergamo. Guardo la Bertoja, insolitamente silenziosa (di solido guida il processo con ogni poro), guardo i giurati, fascia tricolore, volti impassibili. Sono consapevoli che quello che decideranno, “de facto”, come dicono gli studiosi di legge, farà ancora una volta giurisprudenza? La Corte che ha ascoltato le due campane senza proferire parola, ha cinque giorni di tempo per pronunciarsi. Recependo lo spirito delle nuove norme riconoscerà che dopo un anno e mezzo di carcere (e senza nessuna condanna) Bossetti può tornare a casa? Oppure, continuando a seguire il regime di prima, seguirà ancora l’interpretazione preferita dei pm, quella per cui – anche senza pericolo di fuga, reiterazione del reato o inquinamento delle prove – il carcere cautelare diventa una sorta di anticipo della pena? Pochi giorni fa (anche se la decisione non è stata pubblicizzata) la Bertoja ha mostrato spirito garantista concedendo a Bossetti un permesso eccezionale di due ore per visitare (forse per l’ultima volta) il padre, malato terminale (per i medici è giunto agli ultimi giorni). Si commuove, la sorella gemella Anna Laura: «L’ ultima volta che si sono parlati, perché papà era cosciente, Massimo gli ha detto: “Papà, te lo giuro su quello che ho di più caro, sui miei figli. Non ho fatto nulla di quello che dicono!”». L’ ultima parola le si spezza in bocca. Si commuove anche lei. Se la Corte accetta, sarà un regalo di Natale di cui discuterà l’Italia.
Processo Yara, perché la richiesta dei domiciliari a Bossetti non verrà accolta. Gli avvocati Salvagni e Camporini hanno chiesto la scarcerazione dell'imputato, sulla base di nuove condizioni e della nuova legge, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”21 dicembre 2015. Nessuno se l'aspettava. Durante l'udienza di oggi del processo per l'omicidio di Yara Gambirasio, i difensori di Massimo Bossetti hanno chiesto alla corte la scarcerazione dell'imputato: arresti domiciliari con l'ausilio del braccialetto elettronico. Gli avvocati Claudio Salvagni e Massimo Camporini hanno motivato la richiesta sulla base della nuova normativa che nell'aprile 2015 ha riformato in senso restrittivo il ricorso alla custodia cautelare in carcere prima della sentenza di colpevolezza. Inoltre, secondo i legali, le condizioni sarebbero mutate e non ci sarebbe nessun rischio di reiterazione del reato, dato che Yara e Bossetti appartenevano a due mondi distinti che non avevano alcun punto di contatto. E in ogni caso, ha argomentato Camporini, il muratore bergamasco ha sempre fatto vita monastica nei quattro anni successivi all'omicidio della tredicenne: non è scappato, quindi può stare benissimo ai domiciliari. Il pubblico ministero ha fatto opposizione. Secondo Letizia Ruggeri, l'imputato faceva vita ritirata anche prima, per cui l'assassinio di Yara, rispetto alla sua quotidianità, arriva come un evento improvviso e occasionale. E siccome per la procura non ci sono dubbi sul fatto che sia proprio lui l'autore del delitto, ecco che niente può escludere la possibilità di reiterazione del reato. Già, è proprio questo il presupposto sul quale si fonda l'applicazione della misura di carcerazione preventiva. La prova dell'accusa è nelle ricerche al computer che Bossetti avrebbe effettuato fino a una ventina di giorni prima dell'arresto. Secondo i carabinieri del Ros, il muratore bergamasco avrebbe digitato le parole tredicenne e sesso nel motore di ricerca, in un momento in cui si trovava a casa, mentre i suoi figli stavano a scuola. La difesa sostiene che l'incidente sia frutto di un riempimento automatico successivo all'apertura di alcuni siti internet per adulti. Fatto sta che riguardo alla custodia cautelare di Bossetti, prima di oggi si sono pronunciati in senso favorevole diversi organi giudicanti, compresa, per ben due volte, la corte di Cassazione. L'ultima della quali è arrivata alcuni mesi dopo la riforma, quindi sulla base della nuove disposizioni di legge. Ecco anche perché, francamente, risulta difficile pensare che la corte del tribunale di Bergamo presieduta dal giudice Antonella Bertoja, finisca per concedere i domiciliari. La decisione è attesa nelle prossime ore.
Ed in effetti….come volevasi dimostrare…
Respinta la richiesta di scarcerazione. Salvagni: «Bossetti non ci sperava». La decisione martedì mattina intorno alle 11.40: respinta la richiesta di scarcerazione dalla Corte richiesta dagli avvocati della difesa: Massimo Bossetti resta in carcere, scrive “L’Eco di Bergamo” il 22 dicembre 2015. Gli otto giudici hanno trascorso il pomeriggio di lunedì e la mattina di martedì impegnati in una lunga camera di consiglio. La Corte d’Assise è stata chiamata nuovamente a esprimersi su un’istanza di scarcerazione (la seconda a processo già avviato, la nona se si considerano anche le fasi precedenti) presentata dalla difesa di Massimo Bossetti. Una mossa un po’ a sorpresa, giunta nell’ultima udienza prima dello stop natalizio. La riserva dei giudici è stata sciolta a breve e intorno alle 11.40 di martedì 22 dicembre è arrivata la decisione di non scarcerazione del muratore di Mapello. La decisione della Corte, secondo quanto si è appreso, è stata motivata dal presunto pericolo di reiterazione del reato che, secondo i giudici, non verrebbe scongiurato dai soli arresti domiciliari con braccialetto elettronico. Inoltre avrebbero pesato i precedenti pronunciamenti della Cassazione sempre in riferimento alle precedenti richieste. «Pensiamo che sia giunto il momento di chiederlo – aveva esordito uno dei legali del muratore accusato del delitto di Yara, l’avvocato Paolo Camporini, lunedì mattina in Tribunale – alla luce di quanto successo finora in dibattimento, dato che il quadro ora è più ampio per poter valutare. Non ne facciamo una questione di gravità indiziaria, la cui valutazione spetterà alla Corte, ma di sussistenza delle esigenze cautelari». In linea generale la custodia in carcere viene disposta quando, con il presupposto della gravità indiziaria (per Bossetti pesa il Dna), sussiste almeno uno tra i pericoli di fuga, inquinamento probatorio o di reiterazione del reato. Proprio quest’ultima è l’esigenza cautelare che tiene Bossetti in cella, sin dalla decisione del gip Ezia Maccora dopo l’interrogatorio di convalida del fermo (19 giugno 2014), confermata di fatto per altre 7 volte tra Riesame, Cassazione e la stessa Corte d’Assise, che aveva negato i domiciliari all’imputato respingendo un’istanza che faceva leva su asserite (ma ritenute infondate) tendenze autolesionistiche del muratore all’interno della casa circondariale. Nel caso di Bossetti, il supposto pericolo di reiterazione del reato deriva dalla gravità del fatto di cui è accusato. «Non può essere così – ha sostenuto lunedì Camporini – dopo l’entrata in vigore della legge 47 del 2015 che insiste proprio sul punto, disponendo che non si può ancorare la misura cautelare alla sola gravità del fatto contestato. Viene ribadito che il carcere deve essere l’estrema ratio e che è prevista la possibilità dei domiciliari con il braccialetto elettronico. Il giudice deve motivare il perché tiene in carcere una persona anziché concedere i domiciliari». Quanto al pericolo di reiterazione, Camporini ha esemplificato: «Non tutti gli omicidi sono uguali: chi ha ucciso la moglie, ad esempio, non può reiterare». E Bossetti? «L’imputato, se messo a casa con moglie, figli e braccialetto elettronico, non potrebbe ripetere alcun reato», ha affermato il legale, che poi ha ricordato il tempo già trascorso in cella da Bossetti, la sua incensuratezza, il suo stile di vita: «Su 3.500 contatti telefonici emersi dai tabulati prima e dopo i fatti contestati – ha detto Camporini – 2.500 risultano avvenuti mentre era a casa sua. Non è mai scappato in 4 anni prima dell’arresto. Inoltre è diventato una delle persone più note d’Italia: dove mai potrebbe andare?». E infine: «In questo caso vittima e imputato sono in due mondi diversi: quindi anche in caso di domiciliari non entrerebbero in contatto». Negativo il parere del pm Letizia Ruggeri: «Nulla è cambiato rispetto alle esigenze cautelari così come sono state valutate nelle precedenti otto decisioni, tutte contro la scarcerazione. La nuova legge? L’ultimo pronunciamento della Cassazione è successivo all’emanazione, quindi la Suprema Corte ne ha giù tenuto conto. Il pericolo di reiterazione non è stato valutato in astratto ma in concreto, sullo specifico fatto contestato e sullo specifico imputato. Bossetti conduceva una vita monacale tutta casa e lavoro? Bene, questo non gli ha impedito di commettere il reato in imputazione. Il tempo già trascorso in carcere? Diciotto mesi sono pochi rispetto alla gravità del fatto contestato». Ancor più duro, e un po’ a sorpresa se paragonato ai toni pacati che hanno sempre contraddistinto la parte, l’intervento di uno dei legali dei genitori di Yara, l’avvocato Enrico Pelillo: «Concordo con le osservazioni del pm – ha esordito lunedì – e a questo punto penso che una parola la debba dire anche chi rappresenta la parte civile. Penso che si sia avanzata un’istanza che vuole sfruttare il clima natalizio e ora capisco perché l’imputato ha parlato solo ora, mentre era rimasto impassibile quando furono mostrate le immagini della vittima. Sono rimasto sconvolto – ha sottolineato Pelillo – quando ho sentito dire che per l’imputato c’è “solo” il pericolo di reiterazione del reato. Se è vero che di moglie ce n’è una sola (citando l’esempio precedente di Camporini, ndr) di tredicenni in giro ce ne sono tante. Mi dispiace – ha aggiunto Pelillo – che il riserbo e il pudore dei Gambirasio vengano male interpretati. È vero, l’imputato e Yara sono in due mondi diversi: perché il primo è vivo e la bambina è al Creatore». Sulla decisione della Corte, il commento dell’avvocato Salvagni: «Se non fosse stato un processo mediatico quale è, Bossetti sarebbe stato libero da un pezzo. Un po’ ci speravamo, non so ancora la reazione di Massimo Bossetti: è possibile che neppure lui ci facesse tanto affidamento».
«Yara, una vittima scelta a caso. Assassino senza freni inibitori». Le motivazioni dei giudici che hanno rigettato la richiesta (la 9ª ) di scarcerazione di Bossetti, scrive Vittorio Attanà su “L’Eco di Bergamo” del 23 dicembre 2015. Poco più di due pagine fitte di considerazioni, per il «no» numero nove alla scarcerazione di Massimo Bossetti. Dopo il gip (tre volte), il Riesame (due volte) e la Cassazione (altre due), questa volta la firma in calce al provvedimento di rigetto è della presidente della Corte d’Assise di Bergamo, Antonella Bertoja, del giudice a latere Ilaria Sanesi e dei sei giudici popolari. Gli otto giurati in questa fase si pronunciano solo per quanto riguarda gli aspetti relativi alla custodia cautelare, ma sono gli stessi che alla fine del processo dovranno emettere un verdetto nei confronti del muratore di Mapello, accusato di aver ucciso Yara Gambirasio. La Corte d’Assise aveva già rigettato un’istanza di scarcerazione avanzata dalla difesa sulla base di asserite (ma ritenute infondate) intenzioni autolesionistiche dell’imputato in via Gleno. Ieri, invece, i giudici si sono pronunciati sul presunto pericolo di reiterazione del reato, che nel caso di Bossetti – sin dall’inizio – è desunto dalla gravità e dall’efferatezza del delitto contestato. «Non può essere così – aveva osservato lunedì in udienza uno dei difensori di Bossetti, Paolo Camporini – dopo l’entrata in vigore della legge 47 del 2015, che insiste proprio sul punto». Camporini aveva invocato per il suo assistito «gli arresti domiciliari con braccialetto elettronico», perché «a casa con moglie e tre figli Bossetti non potrebbe ripetere alcun reato». Il pm Letizia Ruggeri aveva espresso parere negativo e uno dei legali della famiglia Gambirasio, Enrico Pelillo, aveva criticato l’istanza dei difensori di Bossetti, ritenendola volta a «sfruttare il clima natalizio». La decisione della Corte è giunta ieri in tarda mattinata, 24 ore dopo la presentazione dell’istanza. Nel provvedimento i giudici ricordano che sul tema della custodia in carcere di Bossetti, dopo il (doppio) pronunciamento della Cassazione, si è formato un «giudicato cautelare». La giuria cita proprio l’ultima sentenza della Suprema Corte sul caso Bossetti per smontare le argomentazioni della difesa: «Alcuna incidenza sul giudicato può determinare la legge 47 del 2015, che non ha intaccato la presunzione di adeguatezza della custodia in carcere». Quanto al fatto che il presunto pericolo di reiterazione del reato sia stato desunto solo dalla gravità intrinseca del fatto – come osservato dalla difesa – la Corte ribatte sostenendo che, al contrario, la valutazione è stata fatta non in astratto, ma nello specifico del caso Bossetti-Yara, elencando «una pluralità di elementi specifici (particolare efferatezza nell’esecuzione del delitto,casualità nella scelta della vittima, circostanze di tempo e di luogo) dai quali è stata desunta una mancanza di freni inibitori tale da rendere altamente probabile la reiterazione di condotte aggressive». «Tale motivazione – si legge nel provvedimento – per ben due volte è stata ritenuta congrua dalla Suprema Corte; e questa Corte non ravvisa ragione per disattendere tale giudizio, stante la gravità non del delitto di omicidio in astratto, ma del delitto qui contestato, in relazione alle modalità esecutive della condotta (vittima attinta da una pluralità di colpi inferti con arma bianca e abbandonata agonizzante in un campo); alla persona della vittima, un’adolescente indifesa; alle condizioni di tempo e luogo (aggressione in orario serale, nel percorso della vittima verso casa); all’assenza di rapporti pregressi tra l’aggressore e la vittima». Per la Corte «l’incensuratezza e la vita regolare dell’imputato non assumono rilevanza apprezzabile ai fini cautelari, come del resto il tempo trascorso tra fatto e applicazione della custodia e tra fatto e momento attuale, tempo nel quale non si è verificato alcun cambiamento nelle condizioni di vita e personali dell’imputato tanto da far ritenere che, a fronte di analoga pulsione aggressiva, interverrebbe oggi un miglior meccanismo di controllo». La difesa aveva citato i tabulati telefonici come prova della vita tutta casa e lavoro di Bossetti prima e dopo l’omicidio, ma per la Corte «non assumono rilievo alcuno ai fini cautelari». Infine, sugli arresti domiciliari: «Non sarebbero in grado di scongiurare – scrivono i giudici – il descritto pericolo di reiterazione con le stesse garanzie» offerte dalla misura del carcere. Bossetti dunque trascorrerà il suo secondo Natale in cella. In attesa della prossima udienza, l’8 gennaio.
Buon Natale signor Bossetti..., scrive Massimo Prati il 25 dicembre 2015 su "Albatros. Volando Controvento". Signor Bossetti purtroppo è già Natale ed è già il secondo che trascorre rinchiuso in carcere. Non è una consolazione, lo so, ma pensi che c'è addirittura chi sta messo peggio di lei. Chi da innocente in galera vi ha trascorso più di vent'anni e chi, ancora in attesa della sentenza definitiva, senza prova alcuna si appresta a passarci il sesto Natale... e ha solo 27 anni. Vuole un consiglio che le permetta di tornare libero in men che non si dica? Prima di tutto deve accettare l'idea che l'Italia è il paese dei compromessi, poi deve mettersi il cuore in pace e non nutrire quelle speranze che un domani potrebbero farle male. Deve adeguarsi alla nuova vita da murato vivo e dopo essersi chiuso il naso pensare che ha il destino segnato e nulla potrà cambiarlo. Pensi a questo e poi chieda a chi può alleviare la sofferenza sua e dei suoi cari cosa dire per essere credibile. Infine abbandoni l'orgoglio e lasci il campo al popolo gaudente che per egocentrismo vuol sentirsi dar ragione. Altri prima di lei hanno accettato il compromesso. Perché quando ci si accorge che il destino è scritto nell'aria, in quella che ogni giorno respirano i piccolissimi microchip umani che vengono creati dal grande robot che forma a sua immagine la pubblica opinione, per poter vivere ancora la propria famiglia ci si rassegna a tutto. Vorrà mica cambiare la mente della magistratura istruita con la legge dei processi indiziari? Vorrà mica convincerli della sua innocenza solo perché gli indizi non sono né certi né concordanti! Lei è un illuso signor Bossetti. Lo sa che da decenni in Italia per essere condannati basta un'ipotesi di reato formulata da una procura scevra da dubbi? Pensi a Tortora e al fatto che per essere sputtanati a vita basta fornire le giuste carte al grande robot. Non importa siano vere o false. Il grande robot è un mostro che guadagna se si nutre del dolore altrui, che pubblicizza al popolo pecora il pan bagnato facendogli credere che sia una zuppa appetitosa. E in fondo a guardarla in video quella zuppa sembra buona... è a mangiarla che fa schifo. Ma il grande robot non se ne preoccupa e poco importa anche ai tanti opinionisti microchippati che lo occupano dalla mattina alla sera. In fondo anche loro guadagnano e mangiano sul dolore altrui. Non li biasimi, sono personcine a modo che il Natale lo trascorreranno da persone libere. Magari con la loro bella famigliola andranno pure in chiesa a liberarsi la coscienza, così da far posto alle nuove parole colpevoliste da dire contro nuovi indagati dopo aver citato la vittima per pararsi il dietro. Cosa mai può loro importare delle famiglie di quelli indagati che con parole acide spingono sotto la melma della maldicenza? D'altronde non è che per far capire cosa sia un'ingiustizia giudiziaria si possa mandare ingiustamente in carcere tutti gli italiani creduloni che accusano basandosi su quanto il grande robot trasmette quotidianamente. Non è che si possano spedire in galera quei quarantaquattro gatti in fila per sei che dopo aver ascoltato solo la voce della procura vedono colpevoli ovunque. Signor Bossetti, lei ci assicura di essere innocente e pretende che la giustizia trionfi in tribunale. Lei non si rassegna. Fa bene, ma deve capire che la giustizia viene impartita in nome del popolo da uno stato che seppur si dica creato a somiglianza dei suoi votanti è in effetti un apparato complesso che istruisce i suoi sudditi per renderli succubi di un potere di parte. Un apparato formato da istituzioni complicate e difficili da controllare e gestire. In quei luoghi oscuri tutti bramano il potere. E il potere pretende fedeltà assoluta dai suoi adepti. Si faccia una domanda: può una grande istituzione statale sputtanarsi e dire al suo pubblico che alcune sue componenti a volte lavorano male? Che alcuni suoi laboratori sono talmente oberati di lavoro e incasinati che può capitare di sbagliare le analisi? Che in alcune procure è mancato il polso del comando e chi ha preso in mano il potere ha ragionato e indagato in modo unilaterale anche scartando ipotesi investigative più probabili e provabili? A parer suo quanti sono i giudici italiani che hanno il coraggio di giudicar male chi della propria categoria sbaglia? Sono pochi e non si può chiedere di più, visto che ad oggi chi accusa e chi giudica mastica la stessa istruzione giuridica e ricama il suo verdetto usando lo stesso verbo giustizialista. Il sistema è questo signor Bossetti. La maggioranza assoluta di chi ha un buon lavoro, e chi lavora per la giustizia un buon lavoro ce l'ha, neppure ci pensa a rischiarlo per smuovere le acque e neppure prova a leggere in maniera convinta le carte della difesa, quelle che potrebbero cambiare il destino di famiglie umiliate e distrutte da accuse infamanti. Copia-incollare. Questo è il massimo che si riesce a fare. Siamo realisti signor Bossetti, il quadro è tutt'altro che roseo e pare proprio che il suo sia un destino segnato. Spiace dirlo, ma nonostante la preparazione superiore difficilmente lo cambierà la dottoressa Bertoja. Il giudice che presiede il suo processo. L'ha visto anche lei, come l'han visto altri, e anche lei avrà notato che mentre gli avvocati Salvagni e Camporini chiedevano la sua scarcerazione se ne stava girato di lato con gli occhi a guardar carte di sicuro più importanti della sua vita e di quella della sua famiglia. Inoltre avrà pure notato come lo stesso giudice invece di continuare la sua lettura, interessante quando parlava la difesa, abbia poi girato lo sguardo e ben ascoltato il pubblico ministero Ruggeri che alla buona linea difensiva si opponeva fermamente usando la sola immensa e potente forza della procura. Quindi dello stato. In fondo ci sarà un motivo se fra migliaia e migliaia di persone è stato scelto lei, se la procura e i suoi periti le hanno assegnato il ruolo del primattore. Lei non sa nulla signor Bossetti. Lei non sa difendersi e non ha neppure dei filmati, magari scaricati da qualche amico da una abitazione privata, che la ritraggono lontano da Brembate. Certo, la capisco, quando tutto è strano non si possono dare spiegazioni a ciò che si dimostra inspiegabile. Inspiegabile come l'atteggiamento ostile di chi dovrebbe alzare la voce solo quando capisce che in tribunale non si sta raggiungendo la verità. Ad esempio la famiglia della vittima che se davvero vuole giusta giustizia non deve mai salire a peso morto sul piatto colpevolista della bilancia. Eppure da troppo tempo assistiamo a marce nuziali che sanciscono l'unione fra l'accusa e gli avvocati di parte civile. Due entità che, una volta coalizzate, al giudice si mostrano fortissime. Due entità che appaiono in pubblico affiatate e mano nella mano. E' anche a causa di questo strano sposalizio se troppo spesso chi rappresenta la parte civile condisce i sui interventi con un "attuttu" melodrammatico, con una recita degna di una préfica, di una chiangimuerti estranea alla famiglia ma che dalla famiglia viene ricompensata in base alle lacrime che versa o fa versare. Gli esempi son tanti e li avrà tutti in mente. Ma non si può biasimare nessuno. Sia largo di vedute signor Bossetti. Lei non può uscire da quel carcere. Deve capire che una ragazzina di tredici anni è stata uccisa in modo barbaro e che qualcuno deve pagare per quel crimine orrendo. Lo pretende la pubblica opinione e chi da un anno e mezzo l'ha arrestata. Perché, almeno questo l'avrà capito, lei per la procura e per i media è l'eletto! Chi deve versar sangue per salvare la situazione. Solo una sua condanna può far chiudere il caso e liberare la magistratura e i suoi periti dai guai in cui si sono ficcati in quattro anni di strane indagini e perizie fatte al buio. Non si danni e non si affanni perché il potere non si combatte. Al potere ci si adegua piegandosi a novanta gradi, così che in appello e in cassazione arrivino le agevolazioni bonarie. Perché è questo che si fa da noi dove le assoluzioni faticano ad arrivare, dove anche quando mancano le prove si preferisce accorciare la pena piuttosto che liberare... sempre che l'imputato faccia silenzio e si adegui al potere altrui. Dia retta a me. So che è orgoglioso, ma per tornare presto libero deve smettere di combattere chi ha armi micidiali sempre cariche e mettere una bella croce sulla parola "libertà". Forse nei prossimi anni qualcuno leggerà Dostoevskij e ritrovando la propria coscienza cercherà di prendere il suo posto. Nel frattempo la Terra avrà girato e rigirato migliaia di volte, i magistrati migliorato il loro status e aiutato la propria prole a trovare un buon lavoro. Alcuni saranno in Parlamento, altri in cassazione o a capo di procure e tribunali prestigiosi. E' così che funziona...Sono solo consigli natalizi signor Bossetti, dettati dalla voglia di vederla passare le feste di Natale accanto alla sua famiglia, a sua moglie e ai suoi figli. So che non ne terrà conto e che non si adeguerà al potere costituito, che come tante altre persone ingiustamente incarcerate preferirà l'ergastolo, preferirà trascorrere tanti giorni di Natale in galera piuttosto che prostituirsi con una confessione buona solo ad alleggerire la posizione di chi accusa senza prove. Lei è un grande uomo e il suo processo farà epoca perché grandi uomini sono anche i suoi avvocati e gli esperti che li affiancano. Come lo sono quelle persone che volando controvento su internet cercano di aiutarla senza chiedere nulla in cambio. Buon Natale a lei e a tutti loro.
Intanto il giorno di Natale c’è una brutta notizia.
Omicidio Yara, morto il padre legittimo di Bossetti. Deceduto il genitore del muratore accusato per l’omicidio della giovane. La malattia dopo l’arresto del figlio. Il padre naturale era un altro, la scoperta durante le indagini, scrive “Il Corriere della Sera” il 25 dicembre 2015. È morto all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo Giovanni Bossetti, 73 anni, padre legittimo di Massimo Giuseppe, il muratore accusato di aver ucciso Yara Gambirasio. Successivamente al decesso non è mancata qualche polemica dell’avvocato difensore di Bossetti, Claudio Salvagni, che ha dichiarato: «Il dolore si aggiunge al dolore. Avrei voluto correre in carcere per dare la notizia a Massimo, rinunciando al pranzo di Natale ma mi è stato impedito da una burocrazia cieca, sorda e insensibile. Per me Massimo non merita questo trattamento». Bossetti che è stato comunque informato del lutto dal personale della casa circondariale. Giovanni Bossetti, marito di Ester Arzuffi, 68 anni, madre di Bossetti, da tempo era gravemente malato. Dalle indagini era emerso che il padre naturale del muratore era l’ex autista di autobus Giuseppe Guerinoni, morto nel ‘99. Giovanni Bossetti è morto alle 5 del mattino. Dalle indagini sul Dna effettuate per conto della Procura di Bergamo, infatti, era emerso che Bossetti non era in realtà figlio di Giovanni, ma di Giuseppe Guerinoni, l’autista di bus di Gorno morto nel 1999, nato da una presunta relazione extraconiugale della madre, che ha comunque sempre negato questa circostanza. Nell’ultimo mese Massimo Bossetti aveva potuto beneficiare di due permessi per visitare il padre Giovanni in ospedale, la cui malattia venne scoperta proprio nei giorni dell’arresto del figlio, il 16 giugno 2014.
Giovanni Bossetti, martedì i funerali. Il figlio in chiesa? Non ancora deciso. Era ammalato da tempo: secondo le indagini il vero padre naturale era Giuseppe Guerinoni, scrive “L’Eco di Bergamo” il 26 dicembre 2015. Giovanni Bossetti, padre di Massimo, l’uomo in carcere perché accusato di avere ucciso Yara Gambirasio, è morto nelle prime ore del mattino del 25 dicembre all’ospedale «Papa Giovanni XXIII»di Bergamo. Era ammalato da tempo, aveva 73 anni. Nell’ultimo mese Massimo Bossetti aveva potuto beneficiare di due permessi per visitare il padre Giovanni in ospedale, la cui malattia venne scoperta proprio nei giorni dell’arresto del figlio, il 16 giugno 2014. L’ultima visita in ospedale è dello scorso 17 dicembre, un incontro durato un paio d’ore. Dalle indagini sul Dna effettuate per conto della Procura di Bergamo era emerso che Bossetti non era in realtà figlio di Giovanni, ma di Giuseppe Guerinoni, l’autista di bus di Gorno morto nel 1999, nato da una presunta relazione extraconiugale della madre Ester Arzuffi, che ha comunque sempre negato questa circostanza. I funerali saranno celebrati martedì mattina, alle 10, nella chiesa parrocchiale di San Vittore a Terno d’Isola. La camera ardente sarà allestita proprio nella struttura ospedaliera e il feretro sarà portato in chiesa direttamente dall’ospedale. Non si sa, al momento, se alla cerimonia potrà partecipare anche Massimo Bosetti, né se potrà far visita alla camera ardente: saranno comunque chieste dai legali le relative autorizzazioni.
Bossetti, la morte del padre e il pianto. «Fatemi andare al funerale». L’imputato per il delitto Gambirasio ha saputo dal cappellano del carcere del decesso di Giovanni e ha presentato istanza per partecipare alla cerimonia, martedì. Decideranno i giudici, dubbi per l’ordine pubblico, scrive Giuliana Ubbiali su “Il Corriere della Sera” del 27 dicembre 2015. Alla fine dell’udienza del 21 dicembre, l’ultima del 2015, la sorella Laura Letizia gli si è avvicinata nella gabbia a vetri dell’aula della Corte d’Assise, poco prima che gli agenti lo riportassero in carcere. «Stai tranquillo che stiamo vicini noi a papà», l’ha rassicurato. Massimo Bossetti sapeva che Giovanni, il padre con cui è cresciuto, stava male. Più delle scorse settimane, quando in gran segreto era andato a trovarlo all’Hospice. Era preparato al peggio. Ma quando, la mattina di Natale, il cappellano del carcere di Bergamo, don Fausto Resmini, gli ha dato la notizia che era morto, lui si è lasciato andare in un pianto. Le lacrime di un figlio per la scomparsa del padre. Come è naturale che sia. Ma in questa vicenda molto è fuori dagli schemi. L’uomo della porta accanto, con moglie e tre figli, e le mani rovinate dal cemento per portare a casa lo stipendio, il 16 giugno del 2014 è diventato il presunto killer di Yara. Così, dopo il dramma senza eguali della famiglia Gambirasio, la sua famiglia è stata rivoltata come un guanto. Ed è esplosa la bomba: quel ragazzo di paese figlio di Ester Arzuffi è accusato di omicidio e — non ha dubbi la genetica — è il figlio naturale di un autista di Gorno che non ha mai visto e che è morto nel 1999. E Giovanni Bossetti, 73 anni, già malato, ha visto suo figlio finire in carcere e ha scoperto che non è nemmeno suo figlio naturale. Massimo vuole partecipare al funerale fissato per martedì alle 10, a Terno d’Isola. Ha presentato istanza in carcere ed è in attesa della risposta dalla Corte d’Assise che lo sta processando. La stessa che una settimana fa gli ha negato gli arresti domiciliari, anche con il braccialetto elettronico. In grande segreto, l’imputato era già uscito dal carcere due volte, scortato dagli agenti della polizia penitenziaria, per far visita al padre, gravissimo. Ora il suo desiderio di partecipare all’ultimo saluto potrebbe dover fare i conti con un’esigenza di sicurezza o di ordine pubblico. Per ora una premura umana ha già fatto i conti con il regolamento del carcere, che ha impedito all’avvocato Claudio Salvagni di dare a Bossetti la notizia della morte del padre. Non sono previsti colloqui con i difensori nei giorni festivi. E non c’è stato modo di fare uno strappo alla regola, nonostante il motivo. L’avvocato ha saputo del lutto la mattina di Natale, via sms dalla sorella del suo assistito. «Ho riflettuto su che cosa fosse giusto fare — dice —. I familiari non avrebbero potuto fargli visita, immaginavo che la notizia sarebbe trapelata a breve ma non volevo che la sapesse dalla televisione». Così ha preso il telefono e ha chiamato il carcere. Gli ha risposto l’ispettore di turno. «Nei giorni festivi, di regola non sono previsti incontri con gli avvocati. Ma mi ha detto di richiamare. Così ho fatto, la risposta però non è cambiata». Dal punto di vista formale «ineccepibile», non accenna a note polemiche il difensore. L’ispettore lo aveva comunque rassicurato: «Mi ha detto che in carcere c’era il cappellano e che avrebbe dato lui la notizia a Bossetti». Così è stato. Per Ester Arzuffi e Laura Letizia Bossetti parla l’avvocato Benedetto Maria Bonomo. Chiede «la massima riservatezza e il massimo rispetto per il dolore dei familiari. In questo momento pare indelicata e fuori luogo la descrizione di dettagli che riguardano più la sfera privata che la necessità di informazione relativa al processo Bossetti. La famiglia resta unita nel dolore per la perdita di Giovanni Bossetti, marito premuroso e padre affettuoso». Il processo riprende l’8 gennaio. Tra gli altri, parlerà Ezio Denti, il consulente della difesa che si è occupato dei filmati del furgone ripreso attorno alla palestra, la sera del delitto. Quello di Bossetti, è convinto il pm, che in aula ha già mostrato fotogrammi e illustrato il lavoro dei suoi esperti.
Bossetti, lacrime sulla bara del papà. La sorella: rilasciatelo per i funerali. Sul furgone della penitenziaria dal carcere alla camera ardente, dove ha incontrato anche la mamma Ester. L’imputato spera di poter dare l’addio durante le esequie: per esserci ha presentato istanza alla Corte d’Assise. Oggi la risposta, scrive Armando Di Landro su "Il Corriere della Sera" del 28 dicembre 2015. Poco più di un chilometro sul furgone della polizia penitenziaria, dal carcere di Bergamo alla camera ardente dell’hospice dove è morto suo padre: Massimo Bossetti ieri ha potuto lasciare la casa circondariale di via Gleno, dove è detenuto dal 16 giugno del 2014 con l’accusa di aver ucciso Yara Gambirasio, 13 anni. E ha raggiunto il feretro del papà Giovanni, morto il giorno di Natale dopo oltre un anno e mezzo di malattia. Padre all’anagrafe, ma anche padre nella vita: l’operaio della Val Seriana scomparso a 73 anni è l’uomo con cui Massimo Bossetti è cresciuto, da cui è stato accudito, insieme alla gemella Laura Letizia e al fratello, Fabio. Poco importa se le indagini scientifiche dicono che il papà naturale era Giuseppe Guerinoni, l’autista di autobus di Gorno morto nel 1999. Nel momento del dolore Bossetti ha voluto esserci, seguendo quel filo di sofferenza profonda che l’aveva colpito a Natale, quando era esploso in un pianto non appena ricevuta la notizia della scomparsa del padre dal cappellano del carcere, don Fausto Resmini. Le gambe gli hanno ceduto per un attimo, ieri mattina, appena varcata la porta della camera ardente, dopo aver incrociato il viso del papà scavato dalla malattia. Poi ancora lacrime, quasi con timidezza, una mano appoggiata sulla bara. E lo sguardo incrociato più volte con quello della sorella Laura e della mamma Ester Arzuffi, che aveva raggiunto l’hospice già alle 8 del mattino. Nessuna parola sul processo, nessun accenno al «Dna che non mente», parole che lui stesso, l’imputato, aveva rivolto alla madre durante un colloquio in carcere. Non era il momento, c’era spazio e tempo solo per pochi abbracci. Non è noto se ieri, al fianco di Bossetti, ci fosse anche la moglie Marita Comi: i fotografi sono stati tenuti a distanza dalla polizia, sia quando il detenuto è stato accompagnato da tre uomini della penitenziaria in borghese, sia quando è uscito, circa mezzora dopo, da una porta sul retro dei padiglioni sanitari di via Borgo Palazzo. Fine della visita, ma Bossetti spera che quello di ieri non sia da considerare l’ultimo saluto al papà Giovanni: ha infatti inoltrato un’istanza alla Corte d’Assise per partecipare ai funerali a Terno d’Isola, che saranno celebrati domani alle 10. La risposta dei giudici è attesa per oggi. La stessa Corte, una settimana fa, gli aveva negato gli arresti domiciliari, anche con l’ipotesi del braccialetto elettronico. «Auspichiamo che Massimo possa venire alle esequie — ha detto la gemella Laura Letizia —. È un grande dolore per tutti noi, condiviso anche da lui. Mio fratello era già stato autorizzato due volte a fare visita al papà, spero davvero possa esserci a Terno. Nostro padre aveva scoperto di essere malato circa un mese e mezzo prima di quel che è poi successo a Massimo. Ma non ha mai fatto pesare la sua sofferenza». Dalla camera ardente, nel tardo pomeriggio, esce un anziano, che aveva conosciuto Giovanni Bossetti sul lavoro: «Stava malissimo e con la stampa non ha mai voluto parlare. Ma è sempre stato convinto che suo figlio fosse innocente, al di là delle questioni familiari legate al Dna». Tutto era accaduto in quei giorni di metà giugno del 2014: mentre gli investigatori, nei laboratori dell’Università di Pavia, erano vicini a scoprire un legame di parentela diretto tra la traccia di Ignoto 1 e quella della madre Ester Arzuffi, per poi arrivare a lui, il figlio Massimo, il papà Giovanni veniva ricoverato per la prima volta. Da alcuni mesi si sentiva poco bene. Ed era a casa, prima di tornare nuovamente in ospedale, anche quel giorno in cui la foto di suo figlio aveva iniziato a rimbalzare sul piccolo schermo: il volto di un uomo accusato di un delitto atroce. La storia delle indagini si è intrecciata, inevitabilmente, con quella di due famiglie, i Bossetti e i Guerinoni. Ma ora è il momento di un privatissimo dolore.
Bossetti, la Corte d’Assise dice sì. Domani sarà ai funerali del padre dopo il pianto alla camera ardente. Il via libera dei giudici che stanno processando il carpentiere di Mapello. Alle 10 di martedì sarà a Terno d’Isola, dove viveva il papà Giovanni. Due agenti della polizia penitenziaria lo accompagneranno lungo il corteo funebre, scrive "Il Corriere della Sera" il 28 dicembre 2015. La Corte d’Assise di Bergamo, presieduta da Antonella Bertoja, ha dato il via libera: Massimo Bossetti potrà partecipare al funerale del padre Giovanni, morto a 73 anni il giorno di Natale. L’imputato raggiungerà quindi Terno d’Isola attorno alle 10 del mattino di domani (martedì 29 dicembre) per prendere parte al corteo funebre. La questura di Bergamo si sta già organizzando per evitare qualsiasi problema di ordine pubblico. Il sì dei giudici rappresenta un doppio via libera: era stata la stessa Corte d’Assise, si scopre questa mattina, ad autorizzare l’uscita di Bossetti dal carcere domenica, circa quaranta minuti per andare alla camera ardente del padre, all’hospice di Bergamo, dove il carpentiere detenuto è esploso in un pianto di fronte al feretro. Vicino a lui c’erano anche la madre Ester e la sorella Laura Letizia. Bossetti aveva scoperto di non essere figlio naturale di Giovanni nel giorno in cui è stato arrestato: le indagini su ignoto 1, prima di arrivare alla sua identificazione, avevano già rivelato, infatti, che la traccia organica isolata dai vestiti di Yara Gambirasio apparteneva a una persona figlia di un autista di autobus di Gorno, Giuseppe Guerinoni, morto nel 1999, ma nessuno, tra i suoi figli iscritti all’anagrafe, legittimi, corrispondeva a quel profilo genetico. Nonostante la circostanza svelata dall’inchiesta genetica è comunque Giovanni Bossetti l’uomo con cui l’imputato è cresciuto, da cui è stato accudito. Un legame forte: il detenuto è esploso a piangere anche a Natale, quando il cappellano del carcere gli ha dato la notizia della scomparsa di suo padre.
Bossetti legge al funerale del padre: senza i genitori non si è più nessuno. Chiesa blindata dalle forze dell’ordine. La famiglia ingaggia pure una guardia privata. Prima della fine il carpentiere sale sull’altare e prende la parola, scrive "Il Corriere della Sera" del 29 dicembre 2015. È un paese blindato, Terno d’Isola, dove questa mattina alle 10 si sono celebrati i funerali di Giovanni Bossetti. All’anagrafe è il padre di Massimo, l’uomo che lo ha cresciuto e che il carpentiere imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio ha sempre considerato la sua famiglia. Il feretro ha fatto il suo ingresso nella parrocchiale di San Vittore Martire alle 9.40. Un paio di minuti prima Massimo Bossetti, che ha ottenuto dalla Corte il permesso per assistere alla cerimonia, è stato scortato all’interno da un’entrata sul retro. Le guardie hanno fatto in modo che telecamere e obiettivi rimanessero a distanza, in modo da evitare le riprese. Già prima delle 8 intorno alla chiesa c’erano carabinieri e agenti della polizia penitenziaria in borghese, impegnati a tenere a distanza la stampa. Giovanni Bossetti, 73 anni, era malato da tempo. Ad accompagnare la bara, gli occhiali scuri per nascondere il dolore, la moglie Ester Arzuffi e la figlia Laura Letizia, gemella di Massimo, con il loro legale, l’avvocato Benedetto Maria Bonomo. Le donne hanno ingaggiato anche una guardia privata, che le attendeva davanti alla chiesa. La moglie di Massimo Bossetti, Marita Comi, è entrata invece qualche minuto più tardi, insieme al cognato, Fabio Bossetti. Durante la celebrazione Massimo era seduto tra una guardia e la madre. Ha pianto più volte. Prima della fine, è salito sull’altare e ha letto un suo pensiero suo: «Papà - ha detto -, questa tua perdita ha lasciato in tutti noi un vuoto incolmabile, un dolore nel dolore». E ancora: «Si può avere tutto nella vita. Si possono avere una moglie, dei figli, sorelle, fratelli. Ma quando vengono a mancare i genitori, non si è più nessuno». Terminata la messa, prima di essere riaccompagnato nel carcere di Bergamo, Bossetti ha stretto in un lungo, quasi interminabile abbraccio mamma Ester. Entrambi sono scoppiati in lacrime, come se non volessero separarsi. Poi è stata la volta della moglie Marita e infine, quando già aveva lasciato il banco, della sorella gemella.
Bossetti, la difesa ci riprova: «Deve essere scarcerato». Nuovo ricorso della difesa di Massimo Bossetti al Tribunale della Libertà di Brescia, per cercare di ottenere la scarcerazione (o quantomeno la concessione degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico) del muratore di Mapello, in attesa di giudizio al processo di primo grado per l’omicidio di Yara.Ben nove giudici o collegi giudicanti, nelle varie fasi del procedimento, hanno negato la scarcerazione di Bossetti: tre volte il gip Ezia Maccora, due volte il Tribunale della Libertà, due volte la Corte di Cassazione, altre due la Corte d’Assise presieduta da Antonella Bertoja, scrive “L’Eco di Bergamo” il 3 gennaio 2016.
Sabato mattina 2 gennaio gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini hanno depositato un nuovo ricorso al Riesame di Brescia, questa volta contro l’ordinanza emessa dalla Corte d’Assise poco prima di Natale, in cui veniva respinta l’istanza di scarcerazione della difesa basata su una presunta insussistenza delle esigenze cautelari, anche alla luce dell’entrata in vigore della riforma della custodia. I legali di Bossetti sottolineavano che il pericolo di reiterazione del reato non può essere desunto solo dalla gravità del fatto contestato e comunque il loro assistito non potrebbe reiterare alcun reato, se posto agli arresti domiciliari. Di diverso avviso la Corte d’Assise, secondo cui il pericolo di reiterazione si desume in maniera specifica per Bossetti dalle circostanze particolarmente efferate in cui è stato commesso il delitto della povera Yara. Venerdì, intanto, è in programma la prossima udienza del processo.
“Dissequestrate Massimo”: raccolta firme per la scarcerazione di Bossetti. Petizione on line ideata da una 40enne milanese per chiedere al ministro Orlando la scarcerazione del carpentiere di Mapello rinchiuso dal 16 giugno 2014 come presunto omicida di Yara Gambirasio, scrive Mauro Paloschi il 6 gennaio 2016 su “Bergamo News”. “Dissequestrate Massimo”. E’ il titolo della petizione on line ideata da Cristina Gibi, una 40enne milanese, per chiedere al ministro della giustizia Andrea Orlando la scarcerazione di Massimo Giuseppe Bossetti, il carpentiere 45enne di Mapello rinchiuso dal 16 giugno del 2014 per il delitto di Yara Gambirasio. Un’iniziativa lanciata in rete a inizio anno e che in pochi giorni ha già raccolto circa 150 firme, da parte di bergamaschi e non solo. “Petizione per consentire a Massimo Bossetti l’assegnazione ai domiciliari, a casa propria con braccialetto elettronico, al posto del carcere – si legge nel testo dell’iniziativa – ! Si chiede al ministro di giustizia onorevole Andrea Orlando di verificare perché la Corte ha disatteso la legge in vigore sulla carcerazione preventiva!”. Il riferimento è al rifiuto della Corte d’Assise presieduta dal giudice Antonella Bertoja di fronte alla richiesta avanzata nel corso dell’ultima udienza, lunedì 21 dicembre, da parte dei legali di Bossetti. Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini avevano presentato un’istanza di scarcerazione basata su una presunta insussistenza delle esigenze cautelari, anche alla luce dell’entrata in vigore della riforma della custodia. I due legali avevano aggiunto che il pericolo di reiterazione del reato non c’è e che comunque Bossetti non potrebbe reiterare alcun reato, se posto agli arresti domiciliari, magari con braccialetto elettronico. Di diverso avviso la Corte, che ha negato la richiesta, secondo cui il pericolo di reiterazione si desume in maniera specifica per Bossetti dalle circostanze particolarmente efferate in cui è stato commesso il delitto della giovane ginnasta. Un giudizio in linea con quello espresso da giudici o collegi giudicanti dopo le otto precedenti istanze, che hanno sempre negato la scarcerazione. Ma Salvagni e Camporini non mollano e sabato 2 gennaio hanno depositato un nuovo ricorso al Riesame di Brescia, contro l’ordinanza emessa dalla Corte d’Assise il 23 dicembre. Una battaglia per la libertà di Bossetti che ora trova il supporto anche della rete, con la raccolta firme “Dissequestrate Massimo”. “Fino al terzo grado di giudizio è giusto che Bossetti possa rimanere a casa con la propria famiglia – aggiunge Cristina Gibi, l’ideatrice della petizione che sta girando anche su Facebook – . Come è stato ad esempio per Alberto Stasi. Se non sono disponibili questi braccialetti elettronici, possiamo anche compraglielo noi. Non conosco personalmente Bossetti, mi batto solo per la giustizia. Tante cose non mi tornano in questa indagine”. “Ho preso parte nel 2011 al funerale di Yara – conclude – e ho un figlio che ora avrebbe la sua età. Posso capire cosa sta provando sua madre e voglio che si arrivi alla verità su questo caso”.
Bossetti, scatta online la petizione per i domiciliari: "Dissequestrate Massimo". L'autrice della raccolta firme vuole indirizzare la richiesta al ministro della Giustizia: "La Corte ha disatteso la legge in vigore sulla carcerazione preventiva". Petizioni online per chiedere i domiciliari per Massimo Bossetti, scrive “Il Giorno” il 6 gennaio 2016. Sono comparse sul sito Change.org nei primi giorni dell'anno, dopo che il 22 dicembre la Corte d'Assise di Bergamo ha deciso che il carpentiere di Mapello accusato in primo grado dell'omicidio di Yara Gambirasio, dovrà restare in carcere. Niente detenzione domiciliare con il braccialetto elettronico, come richiesto dai difensori. Massimo Bossetti deve rimanere incarcere. Non così per almeno due utenti della famosa piattaforma web usata in tutto il mondo per alimentare battaglie civili. L'utente Cristina Bigi, 40 anni di Milano in base a quanto riferiscono i dati sul profilo, ha aperto l'1 gennaio "Dissequestrate Massimo", una "petizione per consentire a Massimo Bossetti l'assegnazione ai domiciliari, a casa propria con braccialetto elettronico, al posto del carcere". La lettera "Chiediamo gli arresti domiciliari per Massimo Bossetti" verrà inviata al ministro della Giustizia, Andrea Orlando: "Si chiede di verificare perché la Corte ha disatteso la legge in vigore sulla carcerazione preventiva", afferma la promotrice dell'iniziativa. In sei giorni sono 178 le persone che hanno sottoscritto, convinte dal ragionamento: "Fino al terzo grado di giudizio è giusto che Bossetti possa rimanere a casa con la propria famiglia - ha sottolineato Cristina Gibi - Come è stato ad esempio anche per Alberto Stasi. Se non sono disponibili questi braccialetti elettronici, possiamo anche comprarglielo noi. Non conosco personalmente Bossetti, mi batto solo per la giustizia. Tante cose non mi tornano in questa indagine". A queste firme vanno aggiunti altri 29 che hanno firmato una simile richiesta intitolata: "Per principio di legge, Massimo Giuseppe Bossetti ai domiciliari", aperta da Stefano Grech e indirizzata alla Corte Costituzionale. Dal gip alla Corte di Cassazione le istanze di scarcerazione sono state opposte otto volte dai giudici. L'ultima volta, la nona, è avvenuta per decisione della corte d'Assise di Bergamo, presieduta dal giudice Antonella Bertoja, che ha ravvisato il rischio di reiterazione del reato. Di diverso avviso i legali Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che sabato 2 gennaio hanno depositato un nuovo ricorso al tribunale del Riesame di Brescia contro l'ordinanza emessa dalla Corte di Assise del tribunale di Bergamo il 23 dicembre. Una battaglia per la scarcerazione di Bossetti che ora trova il supporto anche nella rete con la raccolta di firme.
Yara, il noir che supera ogni paradigma. L’incredibile intreccio del giallo di Brembate, dove la realtà ha superato la fantasia, scrive Pierluigi Panza su “Il Corriere della Sera” del 26 dicembre 2015. Yara Gambirasio, 13 anni, di Brembate Sopra, è stata uccisa il 26 novembre 2010. Il suo cadavere fu ritrovato tre mesi dopo, il 26 febbraio 2011. Il caso della povera Yara ha inferto un colpo mortale a un certo genere di letteratura, come il giallo, il noir. C’è, infatti, nella storia delle Lettere, uno scrittore che sia riuscito a inventare un intreccio così diabolico, complicato ma conseguenziale, con così tante conseguenze psicologiche? Si potrebbe liquidare subito l’intera riflessione dicendo che è un caso in cui la realtà supera la fantasia. Solo che dal punto di vista di uno scrittore, è la fantasia che dovrebbe superare la realtà per costruirne una verosimile. E dunque ci si chiede: d’ora in poi come potrà superare la realtà generata dal caso di un piccolo paese come Brembate Sopra? Solo a riassumerlo - come si faceva per i romanzi a scuola - si viene inghiottiti in una trama impensabile a tavolino. Dunque... una ragazzina scomparsa da casa mentre tornava dalla palestra (dove doveva recarsi la sorella) viene trovata morta in un campo. C’è un cantiere edile vicino, ci sono i cani molecolari che fiutano e un sospettato marocchino, che viene arrestato facendo fermare una nave in mare aperto. Una traccia: il Dna di «Ignoto 1» sui leggings. Ovvero quindici coppie di numeri identificativi, gli alleli, che dipendono da nostro padre e nostra madre. Si scatena la caccia e un ragazzo che frequenta una discoteca vicina al campo ha alcuni alleli corrispondenti. Non è lui «Ignoto 1», ma può essere un suo parente. Dna a tappeto sui parenti: niente. E i lontani parenti? Ah! C’è un certo Giuseppe Guerinoni, autista di autobus morto nel 1989. I parenti hanno una vecchia lettera sulla quale aveva leccato il retro del francobollo per la spedizione. Dna anche al francobollo; incredibile: gli alleli di «Ignoto 1» per parte paterna corrispondono ai suoi. Lui è il padre di chi ha lasciato il Dna sui leggings di Yara. Ma i tre figli di Guerinoni non c’entrano niente e, dunque, vuoi vedere che «Ignoto 1» è figlio di una relazione clandestina? Uno scrittore, giunto a questo punto, non potrebbe trattenere la penna. Eccolo il seduttore in corriera, che ferma il mezzo, consuma, si sistema la cintura dei pantaloni e riparte per le valli. Già, ma con chi consuma? Questa volta tocca a tutte le donne della valle sottomettersi agli esami. Una potrebbe fuggire, ma se chiudesse improvvisamente baracca e burattini e partisse per il Sudamerica cosa penserebbe la vicina di casa? E il marito? E poi, forse, manco si ricorda. Oppure sì, ricorda, ma pensa che quei figli nati quarant’anni fa non siano frutto del fugace congiungimento con l’autista, bensì del normale ménage famigliare. Invece no, il diavolo si mette lì meglio dello scrittore. Riemergono storie in bianco e nero già consegnate all’oblio. La creatività viene sopraffatta. Ester: è lei. A questo punto, il presunto assassino scopre di essere figlio illegittimo; il padre scopre che non ha un figlio presunto assassino, ma che non ha nemmeno un figlio. Mentre i vicini ricordano, la giustizia arriva in cantiere, sequestra il furgoncino e finisce in piazza anche la vita della povera moglie del sospettato. E poi le celle telefoniche, la polvere di calce... C’è tutto. C’è Shakespeare e Dostoevskij, c’è la letteratura dell’Ottocento francese e il feuilleton... ma con un intreccio inarrivabile. Per questo straordinario potere della realtà, Zola consigliava agli scrittori di fare i giornalisti, di «buttarsi nella stampa proprio come ci si getta in acqua per imparare a nuotare». Émile Gaboriau, che seguì il consiglio, divenne cronista del «Petit Journal» e fortunato autore di romanzi polizieschi. Balzac e Hugo con la cronaca ci sguazzarono. Alexandre Dumas prese a frequentare il demi-monde per trovare soggetti adatti ad essere raccontati - come Marie Duplessis, la «Dama delle camelie» -, lo stesso fecero Henri Murger con la sua «Boheme» (appena ripubblicata dalle Edizioni Elliot), Eugène Sue con i «Misteri di Parigi», Maupassant e Dickens...La proliferazione di magistrati, ex magistrati, giornalisti diventati scrittori di gialli e thriller mostra l’inesausto seguito di questo genere, il cui successo è testimoniato dall’ottima audience che ottengono programmi televisivi come «Chi l’ha visto?» o «Quarto grado». Ma è proprio quest’alleanza tra la realtà e l’infinita narrazione in televisione che stringe come un cappio il romanzo e soffoca la cosiddetta «mitopoiesi». Quest’alleanza non lascia più spazio a gialli e feuilletons. Qualsiasi intreccio ci finirà tra le mani questo Natale sappiamo già che non potrà reggere la forza della realtà di Brembate Sopra. Un colpo mortale, sì, anche alla letteratura. Però, forse, può anche essere un colpo salutare. La narrativa sarà costretta a volgere lo sguardo altrove, reinventarsi, occupare uno spazio libero dalla televisione e dalla realtà.
Colpa dei processi indiziari. Colpa dei processi indiziari (se c'è chi sbaglia a indagare, a periziare, a sentenziare... e troppi innocenti vengono spediti in carcere e uccisi psicologicamente sui media). Gli sbagli della giustizia moderna denunciati dal dottor Imposimato già sei anni fa...Colpa dei processi indiziari. Di Ferdinando Imposimato su “Albatros Volando Controvento” del 28 dicembre 2015. Bisogna anzitutto partire da un dato. Nella realtà processuale, nell’esame dei diversi casi giudiziari, esistono due verità antitetiche: una verità reale e una processuale. Queste due verità non coincidono quasi mai. L’obiettivo fondamentale del giudice consiste nel fare emergere la verità storica, affinché tra questa e il giudizio finale vi sia una perfetta coincidenza. Questo risultato, tuttavia, difficilmente viene raggiunto per una serie di ragioni sia di ordine processuale che professionale. L’aspetto drammatico del processo è che il giudice, nel conflitto tra le due verità, è tenuto a seguire soltanto e semplicemente quella processuale. Questa contraddizione può manifestarsi in due modi: il giudice può avere la convinzione morale della colpevolezza della persona imputata nei confronti della quale però manchino le prove o queste non siano sufficienti. In questo caso il giudizio non può che essere di assoluzione. Nel secondo caso, il giudice può avere l’intima convinzione dell’innocenza di una persona, ma le prove processuali – testimonianze, riconoscimenti, perizie – depongono contro l’imputato. La conseguenza è drammatica: la condanna di un imputato è “giusta” sul piano processuale ma ingiusta su quello sostanziale. E’ la tragedia dell’Enrico VIII di Shakespeare, nella quale il duca di Buckingham, condannato a morte per le accuse calunniose dei suoi servi, non impreca contro i giudici ma ne accetta il verdetto: “Non nutro rancore contro la legge per la mia morte: alla stregua del processo essa doveva infliggermela, ma desidero che coloro che mi hanno accusato divengano più cristiani…”. Il giudice deve decidere solo in base alle emergenze processuali. Anche se intuisce la verità reale, egli ha l’obbligo di applicare la legge, quindi di tener conto delle risultanze processuali che molto spesso, portano lontano dalla verità reale. Rispetto a quest’ultima, le deviazioni sono dipendenti da diversi fattori: da errori dei testimoni nella percezione della verità (si confonde una persona con un’altra), degli investigatori nella ricerca delle prove, dei periti nella ricostruzione di un fatto storico, del giudice nell’esercizio del metodo deduttivo con il quale si risale da un fatto certo ad un altro fatto. Una deviazione assai frequente della verità storica è quella che nasce da perizie medico legali e psichiatriche errate. Nel caso di un delitto con autore ignoto e con molti sospettati, l’affermazione da parte del perito medico legale che si tratta dell’opera di un sadico, di un maniaco sessuale che ha certe caratteristiche fisiche e psichiche (si presume in alcuni casi di definire l’altezza e la corporatura dell’ignoto autore!!), unita alla conclusione del perito psichiatrico che la persona soprattutto è un soggetto che ha quelle caratteristiche descritte dal medico legale, producono come conseguenza pericolosa l’errore del giudice. Nella mia non breve esperienza, non è stato infrequente l’errore dei periti psichiatrici d’ufficio (cioè nominati dal giudice) nell’accertamento della “capacità di intendere e/o di volere di un soggetto”. Sovente essi hanno affermato che il soggetto rientrava in una certa categoria che era proprio quella nella quale il pubblico ministero aveva collocato l’autore del delitto. Ma non è stato raro il caso del privato che ha assecondato l’orientamento sbagliato della pubblica opinione. I periti, insomma, compiono spesso il loro lavoro sotto la spinta di fattori emotivi, di elementi extrascientifici che li conducono a conclusioni lontane dalla verità. E questa è una delle cause più frequenti dell’errore giudiziario. Non mi riferisco soltanto ai periti psichiatrici, ma anche a quelli balistici, grafici, ai medici legali in genere. Le perizie, specialmente nei grandi processi, sono un dato costante della ricerca della verità. Molto spesso allontanano dalla verità perché compiute da persone che non sono in grado di far bene il proprio lavoro – anche se solo raramente si tratta di persone in malafede. Esempio classico: nell’esame ordinato per l’omicidio del giudice Emilio Alessandrini ci fu un perito che affermò, con certezza assoluta, che l’arma che aveva sparato il proiettile mortale contro il giudice era una certa pistola. Siccome questa pistola proveniva da un certo terrorista, che era un uomo che aveva commesso un altro omicidio, il giudice disse: “Questo è l’uomo che ha ucciso Alessandrini”. Senonché, a distanza di quattro o cinque anni, venne fuori il vero assassino che confessò, aggiungendo di aver sparato con un’altra pistola. Altri periti, in seguito, confermarono che il primo aveva sbagliato. Da allora mi resi conto che quell’uomo avrebbe potuto subire un ergastolo per via di una perizia sbagliata, e che se non fosse venuto fuori il vero autore dell’omicidio, quell’errore non sarebbe mai stato scoperto. Ma il problema è che non sempre vengono fuori i veri autori di un crimine. Molto spesso, poi, il giudice non è in grado – un po’ per incapacità, un po’ per superbia, un po’ per gli errori altrui – di cogliere l’errore. Di qui le tragedie che si verificano: il numero degli errori giudiziari è molto superiore a quello che viene normalmente percepito nella realtà. Un’altra causa molto frequente di errore è costituita dai riconoscimenti personali: è molto facile che siano sbagliati. Nell’istruire il caso Moro, ricordo di aver ascoltato personalmente cinque o sei testimoni che affermavano con assoluta certezza di aver visto in via Fani un terrorista la cui descrizione corrispondeva a Corrado Alunni. Quest’ultimo, inevitabilmente, ricevette un mandato di cattura per concorso nel sequestro e nell’omicidio di Aldo Moro. Senonché, per sua fortuna, presto vennero fuori i veri autori della strage di via Fani, che esclusero categoricamente che Alunni fosse presente; in secondo luogo, non fu difficile appurare che egli, il giorno del sequestro, era detenuto. Ecco, questa vicenda rappresenta il classico esempio di errore compiuto dal giudice, ma provocato dall’errore altrui: il giudice è infatti obbligato a tener conto delle testimonianze di persone della società civile, disinteressate e che non conoscendosi tra loro facciano il medesimo riconoscimento personale nel rispetto delle garanzie stabilite dalla legge, quando per giunta affermano qualcosa “con assoluta certezza”. Un altro caso, legato all’omicidio di Girolamo Tartaglione: una ragazza confessò di essere responsabile dell’assassinio, chiamando in correità altre due persone. Nel leggere il testo della confessione di questa ragazza – molto precisa e dettagliata – mi resi conto che si trattava di un falso, per un paio di particolari rivelatori. Non volli accettare quella “verità” processuale, condivisa invece dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e dal pubblico ministero. Non volli assecondare la tesi della stampa che parlava di brillante soluzione del caso Tartaglione. Ero convinto, sulla base di due dati oggettivi, che la verità processuale emersa fino a quel momento non fosse corretta. Riuscii, col tempo, a convincere la donna a ritrattare e ad affermare che aveva confessato il falso. Per fortuna, perché poco tempo dopo vennero fuori i veri autori dell’omicidio (Valerio Morucci e Adriana Faranda). Ebbene, questo esempio serve a dimostrare ciò che vado da sempre ripetendo: la confessione non è “la madre di tutte le prove”, perché può accadere che anch’essa sia fonte di errore. Che cosa può consentire di capire quando qualcuno dica il vero e quando il falso? La professionalità di un giudice o di un investigatore, indipendentemente dall’esistenza di altri elementi che possano smentirlo. Uno dei più gravi fattori capaci di provocare l’errore giudiziario è poi la presenza, nel nostro ordinamento, del principio del libero convincimento del giudice (sancito dall’art.192 del codice di procedura penale). L’esistenza di un fatto può essere desunta non soltanto dalla prova, ma anche dagli indizi, purché siano gravi, precisi e concordanti. In realtà, l’art.192 afferma una regola – il fatto non può essere provato se non attraverso la prova legale – che prevede una sola eccezione: la presenza di indizi che abbiano le tre caratteristiche sopra accennate. Ma la realtà del nostro ordinamento è purtroppo diversa: l’eccezione è diventata una regola. I procedimenti sono ormai quasi tutti indiziari. Che cos’è un indizio? Un fatto desunto dall’esistenza di un altro fatto. In pratica, il risultato di una deduzione logica. E qui veniamo all’errore, perché troppo spesso l’indizio non è altro che un sospetto che si è trasformato in un indizio, prima di trasformarsi ulteriormente in prova. Questo è un grave vizio dell’ordinamento giudiziario del nostro paese, capace di portare alle situazioni processuali assurde e inaccettabili così frequenti nei tribunali italiani. Per molti casi clamorosi – piazza Fontana, strage di Bologna, omicidio Chinnici, comunque per il 60-70 per cento di fatti di straordinaria gravità – si sono avute decisioni contraddittorie a livello di giudici di merito: non dunque in Cassazione, ma tra il primo e il secondo grado di giudizio. Sentenze di condanna rovesciate in pronunciamenti assolutori, sulla base degli stessi elementi in punto di fatto. Molto spesso, un medesimo quadro probatorio è giudicato in maniera differente: sugli stessi elementi si pronunciano in maniera opposta i giudici di primo e quelli del secondo grado. Ma questo non può essere, perché gli elementi di prova devono essere valutati in modo uniforme da tutti i giudici. In caso contrario, si potrebbe parlare di un fatto arbitrario. Certo, in presenza di ulteriori elementi che completino, migliorino, rettifichino un certo quadro, d’accordo; ma quando questo quadro è esattamente lo stesso, allora vuol dire che c’è qualcosa che non va. Un qualcosa rappresentato proprio dal principio del libero convincimento del giudice, in virtù del quale alcuni giudici considerano certi indizi né gravi, né precisi, né concordanti; altri giudici, invece, si pronunciano in senso opposto. A questo punto, una serie spaventosa di errori giudiziari diventa inevitabile. Per quel che mi riguarda, credo purtroppo di aver quanto meno contribuito a commettere errori giudiziari, nella mia veste di giudice istruttore, organo monocratico che – secondo il vecchio rito penale – doveva ricostruire la verità nel corso della fase più difficile, quella della verifica delle prove raccolte dalla polizia o offerte dal pubblico ministero. Ma, potendo contare su una fortissima personalità, non mi è mai capitato di venire influenzato dalla polizia o dal pm. Molto spesso, anzi, mi è capitato di ricostruire un fatto in maniera decisamente diversa da quella seguita dal pubblico ministero. Perché sono convinto che anche quelle che sembrano verità elementari e pacifiche debbano sempre essere verificate. Esistono rimedi concreti al problema dell’errore giudiziario? A mio avviso, il vizio è ineliminabile. Al massimo lo si potrà ridurre, puntando verso due distinte direzioni. Da un lato, la professionalità del giudice, vale a dire la formazione del magistrato, la valutazione delle sue capacità, che non consistono soltanto nella conoscenza tecnica del diritto, ma anche nel saper ricostruire la verità attraverso la valutazione critica di tutte le prove. Una maggiore professionalità che va però richiesta anche ai periti, per evitare valutazioni errate capaci di pregiudicare il corretto andamento processuale e di generare errori giudiziari. Dall’altro lato, il libero convincimento del giudice: un principio da rivedere, prendendo spunto da altri sistemi (per esempio, quello anglosassone) nei quali la deduzione logica non ha valore probatorio, che è riservato invece esclusivamente a un elenco tassativo, sancito dalla legge. Senza essere esterofili – perché anche gli ordinamenti degli altri paesi sono caratterizzati da vizi di diverso tipo – ritengo che la possibilità di trasformare in prova un semplice indizio – il più delle volte privo di qualsiasi rilevanza probatoria – rappresenti un nodo che deve essere risolto prima possibile. Il rischio che una persona possa essere arrestata sulla base di elementi labili, che poi possono essere valutati o svalutati secondo l’umore del giudice di turno, è una delle circostanze maggiormente deprecabili del nostro sistema. Un dato che contribuisce ad affievolire la certezza del diritto. Ma l’errore ha anche altre radici, delle quali si discute molto negli ultimi anni. La più importante è l’interpretazione della legge contro l’intenzione del legislatore, come conseguenza della violazione stessa del principio dell’imparzialità del giudice. L’attività politica del giudice all’inevitabile scontrarsi delle ideologie a scapito della verità e dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. L’opinione di Cesare Beccaria circa l’arbitrio lasciato ai giudici, dal principio del libero convincimento, di orientarsi nell’interpretazione delle leggi recando le loro filosofie sociali e politiche illuminate: “Il sovrano sarà il legittimo interprete delle leggi, perché è il depositario delle libertà di tutti, non il giudice il cui ufficio è solo l’esaminare se il tal uomo abbia fatto, o non, un’azione contraria alle leggi. Non v’è cosa più pericolosa di quell’assioma che bisgona consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni. Questa verità, che sembra un paradosso alle menti volgari più percosse da un picciol disordine presente che dalla funeste ma remote conseguenze che nascono da un falso principio radicato in una nazione, mi sembra dimostrata”. E poi Beccaria traccia il quadro delle storture che derivano da un’interpretazione legata alle opinioni soggettive dei giudici: “Le nostre congnizioni e le nostre idee hanno una reciproca connessione: quanto più sono complicate, tanto più numerose sono le strade che ad esse arrivano e partono. Ciascun uomo ha il suo punto di vista, ciascun uomo in differenti tempi ne ha uno diverso. Lo spirito della legge sarebbe dunque il risultato di una buona o di una cattiva logica del giudice, di una facile o malsana digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue passioni, dalla debolezza di chi soffre, dalle relazioni del giudice con l’offeso, e da tutte quelle minute forse che cangiano le apparenze di ogni oggetto nell’animo fluttuante dell’uomo. Quindi veggiamo la sorte di un cittadino (colpevole o innocente, nda) cangiarsi spesse volte nel passaggio che fa a diversi tribunali, e le vite dei miserabili essere vittime dei falsi raziocinii, o dell’attuale fermento degli umori di un giudice, che prende per legittima interpretazione il vago risultato di tutta quella confusa serie di nozioni che gli muove la mente. Quindi veggiamo gli stessi delitti dallo stesso tribunale puniti diversamente in diversi tempi per aver consultato non la costante e fissa voce della legge, ma l’errante instabilità delle interpretazioni”. (C. Beccaria: “Dei delitti e delle pene”). Ludovico Antonio Muratori espresse un giudizio analogo e ancora più pessimistico sulla giustizia affermando che “misera è la condizione di chi deve litigare, egli si crede di andare a picchiare alle porte della giustizia, né si accorge che va a mettere il suo alla ventura di un lotto”.E questa condizione si ripete in tutti i luoghi e in tutti i tempi. Il nostro compito è quello di combatterle essendo sempre pronti a riconoscere l’errore. Prima di concludere mi viene alla mente l’immagine del giovane arrestato dalla magistratura come “mostro di Merano”. Il suo volto muto e disperato deve indurre alla riflessione. Luca Nobile era stritolato nella macchina della giustizia e non aveva voce per gridare la sua innocenza. Solo la ripetizione degli omicidi da parte del vero assassino ha salvato l’innocente da una probabile condanna all’ergastolo. La sua unica colpa fu quella di essere somigliante all’autore dei delitti.
8-15 GENNAIO 2016. VENTUNESIMA E VENTIDUESIMA UDIENZA. PARLA RUDY CASLINI ED EZIO DENTI.
Processo Bossetti, stop all’udienza. Duro scontro sulla laurea del consulente. Riprende venerdì 8 gennaio il processo a Massimo Bossetti. Nell’aula della Corte d’Assise sarà il giorno di Ezio Denti, criminologo investigativo che fa parte del pool di consulenti della difesa, scrive “L’Eco di Bergamo”. Il suo intervento dal banco dei testimoni punterà soprattutto a cercare di smontare la ricostruzione degli inquirenti riguardante il presunto passaggio ripetuto dell’autocarro di Massimo Bossetti attorno al centro sportivo di Brembate Sopra, la sera del 26 novembre 2010, quando Yara sparì. Un passaggio ripetuto che i carabinieri del Ris e del raggruppamento operativo speciale (Ros) desumono dalla visione dei filmati delle telecamere dislocate nell’isolato della palestra. Dopo Denti, sarà la volta della testimonianza di un certo Rudy, amico di gioventù di Bossetti: la cameriera di un locale di Merate ha sostenuto in aula di averli sentiti conversare, un giorno, ricordando i vecchi tempi, quando trascorrevano il sabato sera in una discoteca di Chignolo d’Isola. Quale discoteca? È la domanda che sarà rivolta a Rudy. Infine, testimonierà un consulente del pm che si è occupato dell’analisi chimica relativa alle micro sfere di metallo trovate sugli indumenti e sotto le suole delle scarpe di Yara.
Prima udienza del 2016 per il processo che vede Massimo Bossetti imputato dell’omicidio di Yara Gambirasio. Una giornata che si è rivelata incandescente e che ha determinato addirittura la sospensione dell’udienza dopo un violento scontro verbale tra il pm Ruggeri e l’avvocato Salvagni, legale di Bossetti, sul consulente della difesa Ezio Denti e tra lo stesso Salvagni e l’avvocato Pelillo, legale della famiglia Gambirasio, continua L’Eco di Bergamo”. Denti si è presentato dicendo di avere una laurea in Ingegneria e due specializzazioni, in balistica forense e ricostruzione e analisi della scena dei crimine. Il consulente della difesa ha contestato le modalità con cui gli investigatori hanno proceduto all’estrazione delle immagini delle telecamere di sorveglianza in base alle quali l’accusa ritiene che il muratore di Mapello si fosse aggirato, a bordo del suo furgone, intorno alla palestra da cui scomparve la tredicenne di Brembate di Sopra il 26 novembre 2010. Secondo Denti c’è stata un’errata modalità nell’acquisizione delle immagini, inoltre le tre telecamere interessate (quella della Polynt di Brembate Sopra, di una banca e di un distributore di carburante) non erano sincronizzate tra di loro e diverse immagini sono in bianco e nero di qualità scadente. Inoltre, sempre secondo Denti, non c’è una corrispondenza temporale tra le immagini del server e quelle di un cd relativi alla telecamera della Polynt: il criminologo ha sostenuto che non sono state rispettate le procedure peraltro descritte sullo stesso sito dei carabinieri. Per il consulente della difesa di Massimo Bossetti, Ezio Denti, la comparazione eseguita dal Ris dei carabinieri tra il mezzo del muratore e il furgone la cui immagine è stata estratta dalle telecamere di sorveglianza è «esclusivamente soggettiva e discutibile». Il consulente, avvalendosi di slide, ha messo in rilievo parti di altri furgoni Daily in comune con quello dell’imputato. Ad avviso di Denti l’attività svolta, per essere attendibile, avrebbe comportato che «si facesse transitare lo stesso mezzo, con le stesse condizioni, davanti alla stessa telecamera». È contestato il metodo utilizzato per stabilire passo e altezza del mezzo e le immagini in bianco e nero non consentono naturalmente di stabilire il colore dell’Iveco Daily. La deposizione di Denti è continuata ed è stata messa in dubbio anche l’attività investigativa svolta dai carabinieri sulla scorta della quale è stato scremato il numero di furgoni molto simili a quello di Bossetti. Il criminologo ha detto che le strade sono piene di furgoni simili e ha fatto l’esempio di 7/8 tipi di furgoni, fotografati soprattutto nella Bassa Bergamasca, che non compaiono né negli elenchi dell’Iveco, né in quelli della Motorizzazione, elenchi sui quali si sarebbe basata l’indagine degli investigatori. Ricordiamo che la rosa fu ridotta a cinque la rosa di mezzi simili, compreso quello di Bossetti. In base ai tabulati telefonici e alle testimonianza degli altri conducenti di Iveco Daily, gli investigatori trassero la convinzione che fosse proprio quello di Bossetti il furgone immortalato dalle immagini nel pomeriggio del 26 novembre 2010, quando Yara scomparve per esser trovata morta esattamente tre mesi dopo. Denti ha anche tentato di confutare la testimonianza di un uomo che vide un furgone andare ad alta velocità nei pressi della palestra da cui Yara scomparve il 26 novembre del 2010. L’esperto ha mostrato una simulazione filmata per dimostrare come un mezzo che andasse oltre i 50 chilometri all’ora per quella strada avrebbe subito dei danni per via di due dossi che ha definito «importanti». Quando ha preso la parola il pm Letizia Ruggeri, è esploso uno scontro accesissimo tra lo stesso pm e l’avvocato Claudio Salvagni, legale di Bossetti. Il pm ha chiesto conto a Denti dei suoi titoli di studio. Il criminologo ha risposto che la sua laurea è triennale e l’ha conseguita a Friburgo in Svizzera. In Italia ha il diploma di ragioniere. Il clima è diventato incandescente e, quando il pm Ruggeri ha replicato che a Friburgo con c’è l’Università di Ingegneria, ma soltanto un Istituto tecnico, Salvagni, non si è più trattenuto: «Adesso basta, è un processo al consulente o a Bossetti? Si stanno spendendo i soldi dei contribuenti per fare indagini sui nostri consulenti. A parte che per svolgere il lavoro di consulente non è necessaria una laurea, questa è un’aggressione incredibile. La difesa non ha i soldi infiniti della procure». Dalla sala si è levato qualche applauso, al che è intervenuto il giudice Antonella Bertoja che, dopo un minaccioso «Fuori tutti», aveva riportato un po’ di calma in aula. Ma la tensione è riesplosa ancora per un pesante battibecco tra l’avvocato Enrico Pelillo, il legale di parte civile della famiglia Gambirasio, e lo stesso Salvagni, cosicché il giudice Bertoja ha preferito sospendere definitivamente l’udienza. Il primo a intervenire come testimone stamattina era stato Rudy Caslini: una cameriera di un locale di Merate aveva sostenuto in aula di averlo sentito conversare, un giorno, con l’imputato sui vecchi tempi, quando trascorrevano il sabato sera in una discoteca di Chignolo d’Isola. L’uomo ha detto di conoscere Bossetti soltanto in modo superficiale, che la discoteca frequentata era «Il Gabbiano» di Chignolo d’Isola e che comunque lui non ricorda molto, anche perché è appena uscito da un coma farmacologico. Non è stato specificato da cosa sia stato causato il coma farmacologico.
Processo Bossetti, consulente difesa: "Furgone in telecamere non associabile a lui", scrive “Il Giorno”. Ezio Denti lo ha detto a processo, evidenziando "anomalie" relative soprattutto agli orari di ripresa delle immagini e a 13 dettagli considerati identificativi del furgone di Massimo Bossetti. Bergamo, 8 gennaio 2016 - Alta tensione con rissa verbale e seduta sospesa in tribunale a Bergamo nel corso del processo a carico di Massimo Giuseppe Bossetti, l'unico accusato per l'omicidio di Yara Gambirasio. E' successo durante il controesame di un consulente della difesa da parte del pm. L'investigatore privato aveva criticato le modalità "anomale" con cui sono state estratte le immagini che ritraggono il presunto furgone di Massimo Bossetti nelle telecamere di videosorveglianza intorno alla palestra di Brembate Sopra. Gli animi si sono surriscaldati quando l'argomento è passato sul titolo di studio di Ezio Denti. Il consulente della difesa aveva contestato le modalità con cui gli investigatori hanno proceduto all'estrazione delle immagini delle telecamere di sorveglianza in base alle quali l'accusa ritiene che il muratore di Mapello si fosse aggirato, a bordo del suo mezzo di lavoro, intorno alla palestra da cui scomparve la tredicenne di Brembate Sopra il 26 novembre 2010. Denti, investigatore privato, ha evidenziato presunte «anomalie» derivanti da una sua analisi dei file, relativa soprattutto alle due telecamere dell'azienda Olynt di Brembate di Sopra, sostenendo che, nel trattamento delle immagini, non sono state rispettate le procedure peraltro descritte sullo stesso sito www.carabinieri.it. "Non possiamo associare nulla a Massimo Bossetti", ha sostenuto Denti, che ha effettuato una ricerca personale di furgoni simili e per almeno 7 di loro, tutti della provincia di Bergamo, ha riscontrato forti similitudini che ha cercato di dimostrare mostrando in aula foto comparate di ciascun mezzo con quello di Bossetti. L'attività svolta, per essere attendibile, avrebbe comportato che "si facesse transitare lo stesso mezzo, con le stesse condizioni, davanti alla stessa telecamera". Le "anomalie non spiegabili" derivano dal fatto che "non risultano essere state applicate le regole per una corretta gestione" dell'acquisizione delle immagini, in modo da poter garantire "riproducibilità e ripetibilità"dei risultati. I video possono costituire "importanti elementi di prova", ha osservato. All'avvocato della Difesa che gli ha chiesto se esistano "linee guida"per una corretta estrapolazione dei filmati dai server delle telecamere di sorveglianza, Denti ha replicato citando il contenuto di un articolo sul sito dei Carabinieri dal titolo: "Le indagini video, approccio tecnico-giuridico". In particolare, in alcuni file il numero di frame sarebbe minore di altri, e ciò compromette la fluidità dei filmati, "che in alcuni casi restituiscono immagini a scatti". Un esito dovuto, probabilmente, secondo il consulente della difesa, ad una "errata estrapolazione" dei video, anche "è difficile dire quali sono i motivi". Inoltre Denti ha affermato che potrebbero mancare dei "video importanti" tra quelli a disposizione degli investigatori acquisiti dalle telecamere di sorveglianza. Denti ha messo sotto la lente uno"sfalsamento" negli orari di ripresa delle immagini e alcune dettagli riguardanti il presunto furgone di Bossetti inquadrato nelle stesse. Per quanto riguarda il primo punto Denti ha considerato, oltre agli occhi elettronici della Olynt, a lato del centro sportivo, anche quelli del distributore Shell di via Locatelli (di fronte alla palestra dove si allenava Yara) e quella della banca del Credito Cooperativo di Sorisole in via Rampinelli, strada in cui abita la famiglia Gambirasio. Il consulente ha fatto notere che rispetto all'ora legale in vigore in quel 26 novembre 2010, la telecamera della Olynt "sfalca" le lancette di 10 minuti in più, quella della banca di 10 minuti in più e quelle della Shell sono di 60 minuti avanti. Una volta concluso questo capitolo, Denti ha fatto proiettare l'immagine di un furgone Daily Iveco diverso per colore e cassetta porta attrezzi da quello di Bossetti. Il consulente ha quindi focalizzato l'attenzione su 13 punti considerati dagli inquirenti peculiari del mezzo in uso al muratore di Mapello. Dettagli considerati identificativi ma che invece risulterebbero uguali, quindi non unici, proprio a confronto con il furgone ritratto nell'immagine proposta dal consulente. Secondo l'investigatore la comparazione eseguita dal Ris dei carabinieri tra il mezzo del muratore e il furgone la cui immagine è stata estratta dalle telecamere di sorveglianza è «esclusivamente soggettiva e discutibile». La ricerca che ha portato all'individuazione, tra oltre oltre quattromila furgoni dello stesso modello, di 5 mezzi compatibili con quello di Bossetti, sarebbe dunque stata "vana a tutti gli effetti", secondo il consulente della difesa Ezio Denti, chiamato a testimoniare davanti alla Corte d'Assise di Bergamo. L'investigatore ha ripercorso quindi il modo in cui si è risaliti ai cinque furgoni simili a quello di Bossetti esaminati dai carabinieri, a partire da 4546 furgoni cassonati Iveco Daily, immatricolati in Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia Romagna e Trentino. "Perché non anche in Liguria, che è così vicina?", ha chiesto l'investigatore che ha poi ricordato: "Di questa cifra esorbitante ne abbiamo trovati 776 in Lombardia, a Bergamo abbiamo trovato poi 78 Iveco Daily. Di questi, cinque erano simili a quello di Bossetti". I proprietari interrogati hanno affermato di non essere a Brembate quella sera. Ma per Denti sono tutti furgono molto simili. Ma non è finita: "Attraverso mie ricerche ho appurato che in provincia ci sono altri 8 furgoni Iveco Daily che non sono compresi negli elenchi della motorizzazione. Come li ho trovati?". L'investigatore ha raccontato di aver compiuto una ricerca per le strade trovando e fotografando Fiat Daily che, a suo dire, sono simili a quelli dell'imputato sulla scorta degli stessi criteri usati dagli investigatori, ma non presenti negli elenchi della Motorizzazione consegnati al Ros dei carabinieri. Ha anche cercato di confutare la testimonianza di un uomo che vide un furgone andare ad alta velocità nei pressi della palestra da cui Yara scomparve il 26 novembre del 2010. L'esperto ha mostrato una simulazione filmata per dimostrare come un mezzo che andasse oltre i 50 chilometri all'ora per quella strada avrebbe subito dei danni per via di due dossi che ha definito «importanti». Denti ha fatto proiettare in aula un video girato alle stesse condizioni su un furgone analogo. Per il consulente, inoltre, la distanza da cui Fenili ha osservato la scena, valutata in 71 metri, non avrebbe consentito di valutare l'effettiva velocità del mezzo giudicata eccessiva e perfino pericolosa. Dopo la pausa per il pranzo la seduta è ripresa con il controesame da parte del Pm Letizia Ruggeri. Ma gli animi si sono talmente surriscaldati che la presidente Antonella Bertoja ha sospeso l'udienza. La decisione è arrivata dopo un duro scambio verbale tra difesa e parte civile dopo che il pm Ruggeri aveva messo in dubbio le competenze del consulente della difesa Ezio Denti, cosa che ha portato a un duro scontro a distanza tra l'avvocato Enrico Pelillo, difensore di parte civile, e Claudio Salvagni, legale di Bossetti. Il magistrato aveva chiesto a Denti dove si fosse laureato in ingegneria, come aveva dichiarato, e l'esperto ha mostrato una laurea conseguita a Friburgo, in Svizzera. «Non si sta facendo il processo al nostro consulente - avevano detto gli avvocati di Bossetti -, il pm faccia domande nel merito». Sempre il pm Ruggeri ha affermato che Denti aveva riportato una condanna per falso nel 2006 e la difesa aveva replicato duramente. Dai banchi della parte civile si è sentito dire: «Basta». «Basta a chi?» avevano risposto i difensori. Gli animi si sono esacerbati e, anche a causa di un precedente applauso da parte di qualcuno tra il pubblico, il presidente ha deciso di porre fine all'udienza, rinviandola al 15 gennaio. (Ha collaborato Gabriele Moroni).
Lettera di Bossetti ai genitori di Yara. Sarà recapitata dopo il processo. Già scritta tra le mura del carcere di Bergamo, è in possesso dell’avvocato Claudio Salvagni. Ma la difesa non vuole rivelare nulla sui contenuti. L’imputato, carpentiere di 45 anni, non ha mai ammesso alcuna responsabilità sull’omicidio, scrive "Il Corriere della Sera". Massimo Bossetti, imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio, ha scritto una lettera ai genitori e ai familiari della ragazzina, uccisa il 26 novembre del 2010. Il testo scritto da Bossetti tra le mura del carcere di Bergamo è in possesso di uno dei suoi due avvocati, Claudio Salvagni: il legale conferma la circostanza, emersa durante l’udienza odierna del processo, la prima del 2016. L’avvocato Salvagni spiega che la lettera sarà consegnata a Maura e Fulvio Gambirasio, mamma e papà di Yara, solo al termine del processo in corso di fronte alla Corte d’Assise: questo il volere di Massimo Bossetti, che avrebbe scritto la missiva a luglio, prima dell’inizio del processo, consegnandola sigillata al suo legale. «Nemmeno io conosco il contenuto del testo», si è limitato a dire il legale. La notizia della lettera è emersa in un giorno di forti tensioni a processo. Durante la deposizione dell’investigatore privato Ezio Denti, consulente della difesa, c’è stato un verio e proprio scontro tra i due avvocati di Bossetti e il pubblico ministero Letizia Ruggeri, ma anche tra uno dei due legali, Paolo Camporini, e l’avvocato di parte civile dei Gambirasio Enrico Pelillo.
Caso Yara, Bossetti dal carcere scrive ai genitori della vittima. Rissa verbale in aula, udienza sospesa. La lettera non verrà consegnata prima della fine del dibattimento. In tribunale, contestate le competenze del consulente della difesa: rissa verbale e tutti fuori, scrive "La Repubblica". Massimo Bossetti, unico imputato per l'omicidio della 13enne, dal carcere ha scritto una lettera ai genitori della ragazza. La lettera è in possesso di uno dei suoi difensori, Claudio Salvagni, il quale si è limitato a confermare spiegando che la lettera sarà consegnata a Fulvio e Maura Gambirasio solo alla fine del dibattimento in corso a Bergamo. Un processo nel quale la tensione resta sempre alta, con la presidente che oggi è stata costretta a sospendere l'udienza. La decisione è arrivata dopo un duro scambio verbale tra difesa e parte civile scoppiato nel momento in cui il pm Letizia Ruggeri ha messo in dubbio le competenze del consulente degli avvocati di Massimo Bossetti, Ezio Denti. Il presidente Antonella Bertoja ha sospeso l'udienza, rinviandola al 15 gennaio. Il duro scontro a distanza in aula è avvenuto tra l'avvocato Enrico Pelillo, difensore di parte civile, e lo stesso Salvagni, dopo che il pm Ruggeri aveva cominciato a fare domande sulle competenze del criminologo Denti, partendo ad esempio dalla domanda "dove si è laureato in ingegneria". L'esperto ha mostrato una laurea conseguita a Friburgo, in Svizzera, ma "l'interrogatorio" non è piaciuto ai difensore del muratore che hanno contestato la pertinenza delle domande. "Non si sta facendo il processo al nostro consulente - hanno lamentato gli avvocati di Bossetti - il pm faccia domande nel merito". Fatto sta che il pm ha ricordato la condanna per falso del 2006 a carico di Denti e l'episodio ha contribuito a scatenare una nuova reazione dei legali di Bossetti. Dai banchi della parte civile si poi è sentito gridare "basta", con i difensori ancora a ribattere "basta a chi?". C'era stato anche un applauso da parte di qualcuno nel pubblico. La presidente ha deciso così di porre fine all'udienza, rinviandola al 15 gennaio.
Processo Yara, seduta sospesa: rissa tra il perito di Bossetti, la pm Ruggeri e gli avvocati, scrive Luca Telese su “Libero Quotidiano”. Rissa verbale in aula e seduta sospesa: accade a Bergamo, all'inizio del contro-interrogatorio al teste più importante del processo contro Massimo Bossetti per l'omicidio di Yara Gambirasio, il perito di parte della difesa Ezio Denti, che analizza il video del presunto furgone dell'operaio di Mapello. Come accaduto per il medico legale Dalila Ranalletta, la pm Letizia Ruggeri ha iniziato il contro-interrogatorio al consulente contestandone competenza, merito e integrità morale. I due video contestati - Pochi minuti prima, Denti aveva piazzato due colpi, trasmettendo in aula foto e filmati. In particolare, aveva contestato l'identificazione del furgone di Bossetti attraverso le riprese delle ultime due videocamere "sopravvissute" al processo, la cosiddetta Polynt 2 e quella piazzata all'Istituto di Credito Bancario. Trasmettendo il filmato, Denti ha sostenuto: "Questo furgone, che secondo l'accusa è quello di Bossetti, ha una campata sopra i fari della cabina molto più alta di quella del furgone di Bossetti, vedete?". La stessa pm aveva domandato: "Mi fa rivedere quell'immagine?". Silenzio. Le riprese della seconda videocamera venivano contestate con il programma AutoCAD, in grado di misurare le proporzioni di oggetti in movimento. "Vedete? - sostiene Denti -. Il furgone di Bossetti ha un cassone lungo 3,450 metri, questo è lungo solo 3 metri". Tutti si aspettavano un contro-interrogatorio su questi punti, invece la pm è partita all'attacco. "Lei ha detto che si è laureato? Che si è laureato a Friburgo?". "Ma voi state contestando le analisi del perito o la sua vita?", ha protestato Claudio Salvagni, uno dei difensori di Bossetti. Sono volate parole grosse, a un certo punto l'avvocato di parte civile Enrico Pelillo esclama: "Ma adesso basta!". Salvagni: "Basta cosa? Sei tu che mi devi dire basta?". La presidente Antonella Bertoja si è lamentata: "Se continuate così sospendo la seduta". Invece sono continuati brusio e scambio di accuse, e a quel punto la Bertoja ha sbottato: "Vi avevo avvertito, la seduta è sospesa".
My name is innocent..., scrive Gilberto Migliorini. Non si facciano idee sbagliate i lettori. Come si usa dire “ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale”. La storia che vado a raccontare attinge, qua e là, dalla cronaca dei nostri tempi colmi di spunti e suggerimenti narrativi, materiale per un giallo, trasfigurato in forma letteraria, con un pizzico di suspense. Il genere thrilling non parrebbe appropriato per un pubblico ancora beatamente ipnotizzato da quel televisore che quotidianamente ci racconta la favola bella, imbastita di ninna nanne, canzoncine, tiritere e gli immancabili scioglilingua, senza farci mancare l’oroscopo e il quiz. Le suadenti veline danno al Bel Paese un carattere oleografico, infiocchettato e arzigogolato, quello di Bengodi, l’utopia dove gli assassini sono assicurati alla giustizia e le persone per bene guardano il format criminologico alla tivù. Se a qualche telespettatore ancora avvolto nel proverbiale oggetto transizionale, la coperta di Linus o l’orsacchiotto, capitasse di sintonizzarsi sul caso che sto per raccontare, non credo che ne sarebbe turbato. L’utente manterrebbe l’aplomb, nel suo corredino ideologico che lo tiene sempre in caldo e protetto dai dubbi perniciosi, all’occorrenza usando il telecomando per sintonizzarsi sulle news. La storia spero invece susciti interesse per un lettore che non disdegni il paradosso e che voglia provare l’ebbrezza del delitto, letterariamente parlando, senza dolersi di potersi imbattere nell’assassino. Potrebbe perfino far da vittima, in senso figurato, finendo virtualmente accoltellato e morto accoppato, o magari maciullato nel bel tritacarne mediatico... Poi, vivaddio, spogliati gli abiti di scena, ciascuno può tornare serenamente alle sue quotidiane occupazioni e continuare il solito tran tran abbandonando il presunto colpevole al suo destino. Se il lettore avesse per caso il sospetto riguardo a qualcuno di professione imputato, uno che gli è familiare, non si faccia illusioni, qui il mestiere è sempre e solo quello dell’assassino con tanto di diploma e attestato di specializzazione a seconda dell’arma, del movente, della crudeltà, della efferatezza e perfino dello stile delittuoso… La lettura di un libro mi ha dato il là, ma assicuro che non si tratta di plagio, il testo in questione mi ha solo fornito l’incipit per raccontare la mia di storia (il mio personaggio letterario) che per inciso è tutta farina del mio sacco, purtroppo della mia via crucis, ma non saprei dire se finirà in crusca come quella del diavolo o avrà gli onori di un link, sperando che non mi porti dritto in qualche girone infernale. Il libro che mi ha ispirato è “L’assassinio come una delle belle arti” di Thomas de Quincey, scrittore ottocentesco, erudito grecista e giornalista inglese. Lo so, il titolo sembrerebbe disdicevole nonostante si parli di Abele, di Cesare, del duca di Berry, di Guglielmo I d’Orange, dei tre Enrichi di Francia (brillante costellazione di omicidi politici) del duca di Buckingham - e via via, cammin facendo - tutti bellamente ammazzati da mano assassina. Per la nostra attualità omicidiaria non c’è che l’imbarazzo della scelta, comprese stragi e carneficine… Oggidì la cronaca ne offre per tutti i gusti e per qualsivoglia inclinazione al delitto, con alcuni esempi esteticamente ragguardevoli e di tutto rispetto... Ciascuno si può identificare con il presunto assassino, il sottoscritto secondo gli inquirenti, o con la vittima, anonima per una questione di privacy, per il gusto di fantasticare perfino della nobile arte del delitto, dei suoi esegeti, detrattori, epigoni e ispiratori. Ma ecco qua la mia storia. Quando erano venuti a prendermi ero intento alla mia occupazione, lavoro di concetto, impilar scatoloni con il muletto. Con me una decina di colleghi ciascuno dedito alle attività connesse al lavoro del magazzino. Nel trambusto generale, quando la polizia aveva fatto irruzione nel capannone, lì per lì non capivo cosa stesse accadendo. Non ne avevo avuto il tempo, in un attimo mi ero trovato immobilizzato, come i vitelli al rodeo, con quel rude e deciso protocollo, senza preamboli o infingimenti, strabaltato come una marionetta, piegato in due e poi in quattro come un plico postale. Dicono che volevo scappare. I nerboruti poliziotti mi avevano portato via di peso, ammanettato come fossi stato un pericoloso assassino... e a quanto pare, secondo il mandato di cattura, con mio grande stupore lo ero per davvero. I miei colleghi di lavoro mi avevano guardato come se avessero visto per la prima volta chi ero... sotto le mentite spoglie del magazziniere. Ero un manzo da portare al macello. Trattandosi solo di finzione letteraria, confesso che era stato divertente, perfino spassoso, come nei giochi televisivi… una fiction di quelle dove diventi ricco e famoso. Però intuivo già che la vicenda ne avrebbe avuto di colpi di scena… e non potevo che sentirmi lusingato di trovarmi così di punto in bianco con un ruolo da protagonista, indiscusso e acclarato, meritevole di primi piani e perfino di una claque che applaudiva e gridava parole euforiche e allusive, mentre l’auto della police mi portava via nell’entusiasmo e l’eccitazione generale. Ero già famoso e rinomato, addirittura pronto per la nomination. Davvero un’entrata in scena da divo del cinema di quelle che danno al pubblico in sala l’esatta percezione di quanto sia importante e di rilievo sociale il ruolo d’imputato di un delitto efferato. Ecco, la mia storia è cominciata letterariamente così, e ancora non ci credo che proprio io abbia avuto l’onore d’indossare la nobile veste dell’assassino, vero o taroccato non è poi così importante agli effetti del successo mediatico. Un caso giudiziario che avrebbe poi fatto versare fiumi di inchiostro e innescato quel dibattito acceso, talora virulento, tra opposte fazioni. Certo qualcuno dice che la letteratura è la vita e che da protagonista si interpreta la parte che ci è stata assegnata, vuoi per destino e vuoi per decreto. Fa fede il mio proverbiale ottimismo circa l’esito di tutta la vicenda, fidandomi della competenza dei miei giudici, ma soprattutto della divina provvidenza. Però non aspettatevi che parli del processo che poi ne è seguito, per quello occorrerebbe un intero romanzo, perfino un’enciclopedia tematica, una dissertazione scientifica con note a piè di pagina e apparato bibliografico. Non ne sono all’altezza... e nemmeno per un romanzo epistolare. Già per scrivere questo zibaldone ho dovuto dar fondo a tutta la mia vena creativa. A me qui interessa andare al sodo della vicenda, così come la interpreto in prima persona, descrivendo i miei vissuti da presunto criminale con i connessi stati d’animo in un accavallarsi di angosce, paure e illusioni. Soprattutto nutro la speranza dentro di me di venir prosciolto dal romanzo criminale nel quale mi hanno affibbiato il ruolo così impegnativo del colpevole. Insomma voglio raccontare tutto quello che passa per la testa a chi se ne sta dietro le sbarre e si chiede quale il finale della storia: commedia, dramma, tragedia… o magari slapstick? Altri, letterariamente, mi gratificano di epiteti evocativi e suggestivi, mi fanno fare da modello sul quale adattare l’abito dell’assassino, ritagliandomelo addosso con cura amorevole e appassionata dedizione. Molti mi danno già per un caso chiuso, attore consacrato in un film di sicuro successo, con l’esecuzione sommaria già programmata. L’accusa è d’omicidio intenzionale. Sarei un potenziale serial killer, assai pericoloso, dicono, con o senza il braccialetto elettronico. Mi è infatti stata negata la libertà provvisoria, per via del rischio di reiterazione del reato (mi aggiorno sulla terminologia con i format criminalisti dove figuro sempre in fotografie di repertorio con un’aria in sintonia col personaggio che devo interpretare). Per raccontare della pubblica accusa, degli avvocati, delle prove scientifiche, del dibattimento e di tutto l’ambaradan del caso giudiziario… occorrerebbe ben altro delle osservazioni di un povero imputato che a detta del pubblico ministero ha come unico titolo di studio quello del killer, per giunta in odore di serialità. Per parlare del processo ci vuole il consulente, l’esperto, lo scienziato, il criminologo… Eventualmente anche l’astrologo potrebbe spiegare come una perversa congiunzione astrale abbia scatenato la follia omicida o al contrario abbia inguaiato un innocente. All’interrogatorio, che ne era seguito, non avevo fatto scena muta, tutt’altro, mi ero fatto in quattro per spiegare e raccontare, in risposta alle contestazioni degli addebiti, credo che si dica così, che mi cadevano tra capo e collo. Avevo cercato di aiutare gli inquirenti supponendo scenari alternativi, per illustrare come fossi finito per errore a rivestire un ruolo che non era il mio. In perfetta buona fede ritenevo che per quella parte non avessi né il fisico adatto né le idonee credenziali. Non era giusto che interpretassi una parte talmente di rilievo senza averne l’adeguato background formativo e le necessarie competenze espressive. Soprattutto non mi sembrava corretto indossare gli abiti di un personaggio che non ero io. Il mio zelo aveva però finito per tirarmi la zappa sui piedi e per aggiungermi altri capi d’imputazione. Forse avrei dovuto starmene zitto, ma io purtroppo sono fatto così… e poi forse il copione lo prevedeva e io mi sono calato nel ruolo del protagonista con tutto l’entusiasmo e l’ingenuità dell’imputato ancora alle prime armi, del tutto ignaro dei trabocchetti delle procedure legali. Vorrei raccontare come sul cadavere c’era, a detta degli inquirenti, inequivocabile la mia firma biologica. Non voglio entrare nei dettagli, sono questioni da esperti. Hanno cercato di spiegarmi... Mi contestavano che sulla salma c’era proprio scritto il mio nome. Non vorrei passare per sprovveduto, ma lo confesso, per quanto cerchi di tenermi informato non sapevo a cosa alludessero. Mi hanno accennato a nucleotidi, Dna, nucleare, mitocondriale… ma per quanto abbia cercato di capire e di almanaccarmi con quel poco che conosco, per aver visto talvolta quark e qualche altra trasmissione di scienza divulgativa, confesso che non ci ho capito un’acca. Se mi avessero parlato in arabo o ostrogoto forse avrei afferrato qualcosa di più. Quel linguaggio criptico non mi incoraggiava, era come se mi parlassero della fisica della materia oscura. Mi si chiedeva con insistenza di spiegare come il mio Dna fosse finito sulle mutande della vittima. Con quel topos sfido chiunque a non preoccuparsi almeno un po’. La faccenda mi metteva in ansia soprattutto per il fatto che se avessero trovato che so la mia carta d’identità almeno avrei potuto por mente locale di dove l’avevo smarrita, ma per il mio autografo genetico… non saprei nemmeno dire come è fatto, di che colore è, se m’è caduto dal fazzoletto o per via della mia incontinenza l’ho perso per strada, se me l’hanno sottratto in modo fraudolento o se si tratta magari di uno sfortunato quiproquo... A conti fatti devo ammettere che non ne ho la più pallida idea. Insomma, non saprei proprio come spiegare qualcosa che nemmeno capisco bene cosa sia. Ne prendo atto... Alla fine mi son fatto l’immagine di una polverina magica, come nelle fiabe che ci raccontavano da bambini, impalpabile e invisibile, qualcosa che solo i maghi della scienza sanno vedere e maneggiare. Rimane il fatto, mi dicono, che sul cadavere e proprio là in quella posizione così singolare… c’era la mia sottoscrizione vidimata e ratificata, una sorta di prova regina, di quelle che non ti danno scampo e che altri sanno vedere e leggere in modo infallibile e con inequivocabile certezza. A complicare ulteriormente le cose ho scoperto che sono figlio illegittimo, almeno così dicono, per quanto non ne sia del tutto convinto. Attraverso una cronistoria che risale all’arca di Noé sembra siano arrivati proprio alla mia firma sul cadavere. Una sfiga pazzesca che dall’albero genealogico abbiano pescato proprio il nome del sottoscritto. Ma tant’è, anche per un personaggio di fantasia come me c’è il problema degli ascendenti... come ben sa la critica letteraria che non fa mistero del problema delle origini, anche se talvolta colloca l’autore in un contesto storico che non è il suo. Se non fosse che c’è di mezzo la scienza ci sarebbe perfino da sbellicarsi dal ridere, ma purtroppo è il sottoscritto ad esserci andato di mezzo. Per quanto io sia solo una finzione letteraria, protagonista magari innocente, non mi garba l’idea di rimanere imprigionato in questo giallo, fosse anche avvincente per chi lo legge. Non voglio comunque entrare nel merito della firma biologica, se sia la mia oppure no, son cose da esperti e da quel che mi è parso di capire ognuno ha una sua idea a riguardo, c’è chi la racconta in un modo e chi in un altro, chi sa essere più convincente e chi meno, chi grida più forte e chi fa lo gnorri. Per qualcuno la faccenda è palese e non merita di spenderci nemmeno un po’ di inchiostro, anche se, si sussurra, che il mio di caso sia un unicum nella storia della genetica, fatto talmente eccezionale (ma non chiedete a me il perché) che non se ne trova traccia in nessuna relazione, trattato e dissertazione scientifica. E questo, ovvio, mi rende vieppiù importante, caso eclatante, che rischia di diventare perfino più famoso dellaautenticità della sacra sindone. Da un lato la cosa mi inorgoglisce perché il mio caso sembra perfino antesignano di una nuova clamorosa scoperta, così dicono, che potrebbe perfino sconvolgere la biologia, d’altro lato però sembra che non giovi né punto e né poco alla mia condizione di imputato con un codice genetico che potrebbe essere perfino alieno, imparentato con qualche marziano. Le contraddizioni che per altri sono lì da vedere e pongono seri dubbi sull’autenticità del mio autografo, per l’accusa sono solo quisquiglie spiegate per via di straordinarie anomalie e con quei termini che per me sono come il cinese mandarino. In ogni caso i consulenti fanno a gara per dire che sono già con la corda al collo e pronto per il girone infernale (metaforicamente) e cotto a puntino. Soprattutto ora, so quanto incidono sull’opinione pubblica quei giornalisti che sanno impostare così bene il canovaccio usando il linguaggio appropriato e le formule più consone per farmi sentire inguaiato. Te la suonano e te cantano talmente bene che alla fine anche tu rischi di crederci. E il sospetto di essere l’assassino l’ho avuto per davvero quando mi hanno descritto per filo e per segno come avessi accalappiato la vittima, trasportata sul mio trabiccolo e lasciata agonizzante sul greto di un fiume. Il film me l’hanno raccontato così dettagliatamente che la storia della firma genetica mi aveva quasi convinto che soffrissi di qualche amnesia o fossi un caso esemplare di doppia personalità: buon padre di famiglia e… perverso criminale. Però per quanto avessi fatto una accurata analisi di coscienza, purtroppo per la resa letteraria e lo sponsor mediatico, ero e rimango innocente, per chi mi vuol credere. Il fatto è che i lettori, a differenza del sottoscritto, son tutti esperti di genetica, parlano come uno Spallanzani nella famosa controversia con Needham (vedete che qualcosina ho letto anch’io…). È pur vero che allora si parlava di animaletti rilevati dall’occhio armato del microscopio, la generazione spontanea per l’inglese. Oggi, mi dicono, è un software che fa tutto da solo e ti scodella lì bell’e pronto il nome dell’assassino con tutta la sua biografia, compresa la descrizione puntuale dei rapporti coniugali. Io purtroppo devo essermi perso qualche puntata di superquark. Inutile ribadire che sono innocente, soprattutto se il lettore è un colpevolista, inutile raccontare che ho sempre rigato dritto e lavorato duro per mantenere la famiglia, che non ho mai avuto nessun precedente con la giustizia. C’è sempre una prima volta direbbero gli scettici. Lo so e li capisco. Dicono tutti così, che sono innocenti, nei palazzi del potere... Poi a rendere la cosa ancora più intrigante son saltate fuori storie incredibili, fatti sconvolgenti come quelli che frequentavo una sauna svedese, che avevo acquistato un quintale di pomodori, che qualche volta sul lavoro sparavo qualche cazzata per rompere un po’ la monotonia… e tanti altri fatti che avevo sempre considerato cose innocenti e senza rilevanza penale. Per la sauna lo ammetto che avevo un debole, e per i pomodori era mia moglie che voleva aver la scorta di passata da tenere in cantina per il ragù. Sul computer, mi dicono, han trovato una ricerca sospetta sulla sessualità dei macachi. Ma non voglio perdermi in quisquiglie, c’è quel macigno della mia firma biologica che fa la differenza e trasforma perfino le mie puntate al gioco del lotto come un segnale di crisi del mio rapporto coniugale e possibile movente del delitto. Però una cosa la voglio dire in mia difesa e raccontare a tutti, anche quelli che mi hanno già considerato bell’e colpevole e condannato, che la verità non è double face come qualcuno pretende, che la verità è una sola, per quanto mi si dica che bisogna distinguere tra verità reale e verità processuale. Sarò anche colpevole, ma non sono stupido e per quanto si cerchi di arrampicarsi sugli specchi non mi convinceranno mai della dottrina della doppia verità. Ce ne parlava il curato a proposito di un certo Averroè… Sì, per quanto non abbia letto di greco e di latino, nel mio piccolo, ho assaggiato qua e là, non dico di essermi fatto una vera cultura, però una infarinatura quella sì, e so discernere chi te la racconta giusta da chi tenta di quadrare il cerchio. Sento dire che purtroppo le due verità non combaciano sempre, per qualcuno addirittura quasi mai. Io che non ho fatto il liceo e neppure l’università, ho solo la quinta elementare, ma un po’ autodidatta, sono però persuaso che la verità è sempre una sola. Se mi vengono a dire che la verità del processo sarà una cosa e la verità della realtà sarà un’altra cosa… allora mi arrabbio e dico senza mezzi termini che è un bell’inganno, che è come mettere le mani avanti per imbastire una scusante e per giustificare l’eventuale cantonata. Sono è vero ignorante e non so quale sia la logica processuale, ma di certo il buon senso mi dice che se le verità non collimano qualcuno di sicuro ha sbagliato e dovrebbe pagare proprio come me (se davvero fossi colpevole). Gli opportunisti direbbero che non tutte le ciambelle escono col buco, che il berlingozzo è comunque stato confezionato a dovere, seguendo minuziosamente la ricetta (che non so bene quale sia…). Lo so, si tratta solo di finzione letteraria… sono solo un personaggio di carta. Nella realtà le cose vanno sicuramente in modo diverso. Oppure no?
Quei centimetri che salvano Bossetti. Luca Telese su “Libero Quotidiano del 10 gennaio 2016: la mossa a sorpresa del perito. Una delle scene che non si scordano, nella giornata più folle del processo Yara, culminata con la sospensione dell’udienza, è il surreale siparietto di metà mattinata. Sta parlando Ezio Denti, investigatore privato, superconsulente della difesa. È seduto al banco dei testimoni, affiancato dal suo aiutante. Mentre illustra le prove, i filmati, i fotogrammi, le ingegnose misurazioni con cui sta provando a demolire le tesi dell’accusa, compaiono diversi carabinieri. Non quelli di guardia solitamente nel tribunale di Bergamo (sono in uniforme) ma due ufficiali in borghese. Uno si mette proprio dietro di lui, con un taccuino, e prende appunti, guardando direttamente sullo schermo del consulente. Dopo alcuni minuti l’avvocato Claudio Salvagni lo nota e insorge, rivolgendosi alla presidente della Corte, Antonella Bertoja:
- Camporini: «Presidente, scusi, si può evitare che ci siano delle persone dietro il nostro consulente che spiano?».
- Ruggeri: «Ma stiamo scherzando? Adesso per la Difesa un maresciallo dei Ris o un poliziotto che fa il suo lavoro passa per spione?».
- Camporini: «Io non ho mai visto una cosa di questo tipo in Aula!».
- Bertoja: «Scusi, avvocato, ma non posso pensare che ci sia un qualsiasi intento spionistico...».
- Camporini: «Ma perché allora sta proprio lì dietro, scusi?».
- Ruggeri: «Quel che sta dicendo è incredibile!».
- Bertoja (sorridendo): «Credo che, ragionevolmente, sia lì per l’affollamento che oggi c’è in aula. Se c’è un problema, ma solo di questo tipo, si può consigliare al signore che è lì dietro di sedersi più comodamente tra il pubblico».
- Salvagni (sarcastico): «Allora guardi, purché non resti lì dietro gli cediamo volentieri un posto tra i banchi della difesa!».
Qualunque fosse la vera motivazione, il sovraffollamento o la visuale sul computer di Denti, curiosamente, dopo il trambusto che segue a questo scambio di battute, l’ufficiale con il taccuino scompare, e si ritira nella stanza dei testimoni. Ma la tensione che questa ennesima polemica rivela, fotografa bene il momento drammatico di venerdì mattina. Ieri ho raccontato del colpo di scena con cui Denti ha apparentemente smontato i due fotogrammi dei furgoni che fino a ieri erano considerati dalla Pm come attribuibili a Bossetti (non essendoci stato controinterrogatorio nel merito, ma solo sulla biografia di Denti, si deve presumere che la Pm non avesse argomentazioni). Oggi è ancora più interessante entrare nei dettagli di come si è arrivati a questo colpo di scena, mettendo alla prova due inconciliabili ed opposti metodi di indagine, quello della procura e quello dell’investigatore. Per la sua esposizione Denti è partito in modo molto piano, senza effetti speciali. Poi, quando sta parlando della telecamera che secondo la Pm era la più attendibile, quella della Polynt 2, spiega che nell’incartamento degli atti, curiosamente, non compare nessuno schema di misurazione del mezzo. Gli inquirenti (stando a queste carte ed alle loro relazioni) pur avendo il mezzo sotto sequestro, non lo hanno usato per un sopralluogo a Brembate, magari per riprodurre la stessa immagine raccolta dalla telecamera. Hanno lavorato «al contrario», con uno schema di questo tipo: se questo è il mezzo di Bossetti, cosa lo identifica come tale? Nel farlo hanno individuato 14 punti distintivi. Denti ha esattamente ribaltato lo schema. Cinque mesi prima della sua udienza ha fatto regolare domanda, ha ottenuto il permesso di accedere al deposito giudiziario, si è messo a misurare e a fotografare ogni minimo particolare, fra l’altro dovendo fare i conti con un limite di tempo dato. È un’operazione inutile? Tutt’altro: come spesso capita, cerchi una cosa e ne trovi un’altra. Scattando decine di immagini sulle famose luci di ingombro che sono sul tetto del cassone, l’investigatore (senza ancora sapere che si dimostrerà un indizio decisivo) si trova quasi a cavalcioni della cosiddetta campata: ovvero di quella sbarra che attraversa la larghezza di quasi tutti gli automezzi. La campata serve per proteggere la cabina quando si ha un carico ingombrante, o un pezzo lungo, come ad esempio una scala. I Carabinieri avevano sicuramente notato che nell’immagine del furgone che attribuivano al muratore di Mapello questa sbarra era molto alta, ma non avevano dato una particolare importanza: in moltissimi furgoni, anche per facilitare i diversi carichi, c’è un accessorio molto utile che permette di modificare l’altezza della sbarra a seconda dell’ingombro. Era stato lo stesso colonnello Lago - ironia della sorte - a mostrare proprio quella sequenza, e quel frame in Aula. Ed è stato proprio in quel momento, in Tribunale, che Denti aveva fatto un salto sulla sedia. Si era ricordato che mentre armeggiava sopra la cabina del Daily di Bossetti, nel deposito giudiziario, lui e il suo assistente avevano dovuto scavalcare la sbarra per fotografare le luci. Torna in ufficio, prende il file con le foto, le visiona una per una. E poi si illumina: il furgone di Bossetti (fra l’altro comprato usato) non era regolabile. La barra di campata è saldata. Quindi il furgone della foto non può essere quello di Bossetti, anche perché, se si trattasse di una distorsione dovuta alla prospettiva, tutta la cabina dovrebbe risultare "allungata": Andare sul campo, dilungarsi in lunghe operazioni con il metro ha prodotto un risultato insperato. Ma non è il solo. L’ultima videocamera rimasta, l’ultimo fotogramma di furgone che secondo la Ruggeri era «indubitabilmente» di Bossetti è raffigurato nella telecamera 2 della ditta Polynt, in veduta laterale. Il cassone appare in tutta la sua lunghezza, ed è quello l’elemento distintivo su cui lavorano i carabinieri. Come fanno a misurarlo? Come stabiliscono che fra le tre lunghezze possibili (3 metri, 3.45 metri e 3.75 metri) si tratti proprio di un 3.45 metri, cioè quello di Bossetti? Ancora una volta, nei fascicoli dell’inchiesta, non risultano prospetti con dati di stima. E nemmeno fotogrammi lavorati con Autocad, il programma che il colonnello Lago, nella sua udienza, ha detto che era stato utilizzato dai periti dell’accusa. Così Denti decide di utilizzarlo lui stesso. Autocad è usato dagli architetti, dai progettisti, dagli inquirenti persino dagli arredatori quando devono fissare misure certe. Funziona tutto con il calcolo delle proporzioni: in un’immagine con diverse misure o distanze, bisogna avere almeno alcune misure certe, per poter calcolare quelle che non si conoscono. A complicare le cose, anche in questo caso, c’è il problema di quanto possa aver distorto il gioco di prospettiva o l’inclinazione della telecamera. Così l’investigatore della difesa ha una idea: vede che nel fotogramma è inquadrato un cancello di ferro, quello della stessa ditta, che - ovviamente - è parallelo alla carreggiata dove transita il furgone. Lui e i suoi assistenti si armano sia di metro che di misuratore laser. Vanno sul posto: appurano che il cancello è lungo sette metri, che è composto di 44 sbarre, ognuna larga quattro centimetri, con un intervallo di 10.05 centimetri tra l’una e l’altra. Ogni sbarra è alta 1.25 centimetri, la pianta è larga 35, l’altezza complessiva 1.70 metri. La distanza della telecamera dal cancello è 20.6. La larghezza della carreggiata, l’altezza dei marciapiedi sono tutte misurabili. Tutti questi dati, immessi su Autocad sono un tesoro. Ma per essere sicuro, per abbattere il margine di errore, a Denti serve una misura certa anche a bordo del furgone. Allora ritorna a prendere le famose foto del Daily fatte la mattina di cinque mesi prima a Parma. Si concentra sul dettaglio della cassetta d’acciaio Butti che sta sul cassonato. Sa con certezza che è lunga 55 centimetri. Ripete la misurazione, scattando le foto che mostrerà in aula nella sua esposizione. Immette anche quel dato e quando scopre la misura che Autocad stima per il suo cassone, lui e il suo assistente Marco Biella, finiscono per abbracciarsi. Secondo il programma il cassone del furgone è lungo 3 metri. Ma quello di Bossetti, come sappiamo, è lungo 3.45. Presi dall’entusiasmo i due si concentrano sull’ultimo tema: l’indagine con cui la Pm dice di aver vagliato tutti i furgoni simili a quello di Bossetti in tutta Italia. La procura ha proceduto così: prima ha acquisito tutti i dati sui furgoni immatricolati dalla motorizzazione. Poi ha selezionato cinque regioni del nord dal Veneto al Piemonte (escludendo, non si capisce perché, la Liguria, che pure per distanza chilometrica è molto vicina). Poi, tutte le stazioni dei comandi dei carabinieri sono andate a fare le foto di questi furgoni. Un lavoro titanico. Le hanno divise in simili e diversi. E poi - avendo stabilito che solo cinque erano simili, hanno interrogato i proprietari. Denti, scorrendo immagine per immagine, scopre che tra i furgoni scartati molto sono comunque simili a quelli di Bossetti. Ma non si accontenta. Scopre che il criterio di selezione (limitarsi al modello Daily 3.45 metri) è sbagliato, e in aula spiega perché: «Anche la Fiat 500 è prodotta sia con il motore 1.200 che il 1.600. Ma dal punto di vista estetico è perfettamente identico». Dimostra, con le riprese, che anche la selezione cromatica è sbagliata: «Il furgone di Bossetti è color verde acqua. Ma ripreso dalle telecamere in bianco e nero, quel colore, così come il celeste, diventa bianco. Tant’è vero che quasi tutti quelli che hanno visto le immagini in tv - spiega - sono convinte che sia bianco». Ma anche questo non gli basta. Così ribalta totalmente il criterio apparentemente scientifico (ma astratto) fissato dalla procura. Anziché partire dalla motorizzazione parte dalla strada. E piazzandosi con i suoi collaboratori nei crocevia della bergamasca, si mette a fotografare i Daily che passano. Poi controlla le targhe. Quando arrivano i responsi della motorizzazione, quelli del pool difensivo non credono ai propri occhi. Ben otto furgoni che hanno proprietari residenti nella provincia di Bergamo non compaiono nella lista della motorizzazione, e nemmeno in quella dei carabinieri. Denti scandirà questo elenco in aula per diversi minuti, esemplare per esemplare, finché la presidente Bertoja, comprendendo l’importanza non gli chiede: «È sicuro che non siano nella lista?». Denti Risponde proiettando le immagini. La Ruggeri si oppone: «Ma che lunghezza di cassone hanno? Lei per caso ha compreso anche quelli lunghi 3 metri?». Denti sgrana un sorriso criminale: «Negli otto di cui vi parlo, tutti appartenenti a proprietari residenti a Bergamo, ce ne sono sia lunghi 3 metri che lunghi 3.45 metri». In aula c’è grande brusio. In realtà ne basterebbe uno: se anche un solo furgone fosse sfuggito tutta l’indagine scientifica dei Ros diventerebbe carta per il camino. Però Denti cerca anche il colpo di teatro, e proietta l’immagine di un sito: «Guardate, questo è Autoscout24. Anche qui si trovano furgoni simili», Autoscout è il sito più visitato per il mercato dell’usato. Ma evidentemente la Pm non aveva pensato di visitarlo. Ancora una volta pragmatismo contro teorema. Ancora una volta fiuto contro teoria. Sembra che stavolta abbiano vinto i secondi. Luca Telese
Caso Yara, Massimo Giuseppe Bossetti scrive a Oggi del 12 gennaio 2016: “Sto da schifo”. Massimo Giuseppe Bossetti scrive una lettera a Oggi e si confida: "Dolore, rabbia, sofferenze affondano sempre più il mio desiderio di vita". Il muratore di Mapello scrive una lettera aperta e racconta i suoi timori e la solitudine in carcere: “Chi mi ridarebbe la vita, famiglia e dignità che totalmente mi hanno distrutto?” Massimo Giuseppe Bossetti si sfoga con una lettera a Oggi (in edicola mercoledì): “Volete sapere come sto veramente? Da schifo!!! Con una dignità completamente distrutta, continuamente stuprata dai media, e tutti i giorni, mesi e forse anni trascorsi ingiustamente in questa cella per i loro dannati sbagli”. Sotto processo dal 3 luglio 2015 con l’accusa di aver ucciso la giovanissima Yara Gambirasio, il muratore di Mapello si confida e accusa… “Sto terribilmente soffrendo per tutta questa lontananza dal mio amore Marita e i miei fantastici adorabili cuccioli, tutto perché al giorno d’oggi essere innocente si diventa altamente scomodo per tanti altri” scrive Massimo Giuseppe Bossetti e dal carcere di Bergamo fa sentire la sua voce e il suo dramma. Ma non solo. Bossetti punta il dito contro le modalità del suo arresto (avvenuto il 16 giugno 2014): “Dopo aver visto uno straziante, indegno, vergognoso video sul mio arresto, penso che non ci sia altro da dirvi visto le modalità che un italiano viene trattato nella maniera più indegna, schifosa… questa è una vergogna nella vergogna!!” spiega il muratore di Mapello nella lettera a Oggi. Consapevole che la sua vita non sarà mai più la stessa, Bossetti si lascia andare all’amarezza e alla rassegnazione. “Il mio dolore, rabbia, sofferenze affondano sempre più il mio desiderio di vita… Mi hanno vivisezionato la vita, la famiglia e dignità completamente distruggendola…” si legge nelle tre pagine scritte a mano dal muratore. “Nessuno può riuscire a togliermi, cancellare tutto il dolore che ho subito a causa di persone che hanno giocato sporco su di me, togliendomi tutti gli anni più belli della crescita dei miei cuccioli figli, tantissimo amati e ora terribilmente mancanti” scrive Bossetti. E poi conclude: “Una volta anch’io tenevo un cuore che gioiva, pulsava tanta voglia di poter vivere la propria vita piena d’amore. Ormai è solo un cuore molto fragile e infranto da tantissimo dolore che m’è stato causato senza motivo”.
Il caso Bossetti. Cold case, slapstick o... donizettiana opera buffa? Scrive il 14 gennaio 2016 Gilberto Migliorini su "Albatros Volandocontrovento". La circostanza che Alberto Stasi in una lettera si sia paragonato a Enzo Tortora sembra abbia fatto scandalo, suscitando le ire dei puristi, quelli che tengono i santini sul comodino e le immaginette sul cruscotto dell’automobile. Scandalo che il ragazzo che si proclama innocente abbia osato paragonarsi ad altri illustri tartassati dalla ‘Giustizia’, scandalo che dal carcere abbia gridato di non sentirsi un recluso ma un prigioniero, scandalo che il bocconiano abbia osato anche solo richiamare altri errori giudiziari analoghi a quelli di cui si sente vittima anche per via del sistema mediatico. Sì perché la memoria tante volte fa cilecca. All’epoca del famoso caso Tortora erano tutti colpevolisti, con i giornali a far da cassa di risonanza con trombe e tromboni. Perfino i garantisti erano tutti animali in via d’estinzione. Quando il noto presentatore gridava dal carcere la sua innocenza, era un coro di battute perfino più caustiche e sarcastiche di quelle che oggi riservano al ragazzo, reo di continuare a proclamare la sua estraneità al delitto. Certo dà fastidio che un condannato in via definitiva dica di sentirsi vittima di ingiustizia e si proclami prigioniero di uno Stato che conserva solo l’apparenza del diritto (è nel contenuto della sua lettera). Sembrerebbe un caso da rimuovere in fretta, potrebbe suscitare dei rimorsi nei colpevolisti, il dubbio atroce che magari un innocente sia stato condannato sulla base di elementi piuttosto evanescenti, per non dire del tutto inconsistenti? Bisognava sentire all’epoca cosa dicevano i commentatori, la gente comune, in tv e nei bar… il povero Enzo Tortora era il dispensatore di morte e un criminale incallito a detta di una vulgata, un fiume in piena, dove quasi tutti, come fossero esperti criminologi, giuravano sulla sua colpevolezza, con quella certezza dispensata con le solite argomentazioni passepartout. Si tratta di quegli stessi sillogismi che riaffiorano con regolarità nella logica di tanti altri casi giudiziari fin dal tempo del manzoniano processo. Chi si chiamava fuori dagli scomposti schiamazzi contro il presentatore era guardato come un ingenuo, nella migliore delle ipotesi, o come un complice morale nella peggiore. L’italiano sembra davvero non imparare mai, ogni volta è come fosse la prima. La memoria dell’abitante del Bel Paese è a breve termine, fatta di quegli automatismi pavloviani che gli impediscono di articolare un ragionamento che non sia basato sulla suggestione mediatica. Adesso i custodi della memoria di Enzo Tortora, convertiti in sacerdoti del verbo criminologico, riservano le battute ironiche a un ragazzo assolto due volte e poi condannato sulla base di due aforismi che non lascerebbero dubbi sulla sua colpevolezza. Il primo, il movente, suona più o meno così: Se l’ha ammazzata qualche motivo l’avrà avuto. Peccato che non sappiamo quale, non ce l’hanno detto perché probabilmente il solito jolly della pornografia era troppo smaccatamente ridicolo e pretestuoso, suonava come il classico disco rotto che oramai è il leitmotiv quando si vuole creare il background del perverso assassino. Quello della pornografia è diventato una sorta di terreno di cultura, l’humus sul quale far crescere il pregiudizio e far maturare condanne preventive. Ultimamente però l’escamotage si è un po’ inflazionato, è diventato l’ingrediente come il prezzemolo. Il secondo elemento, la prova del nove, è quello che aveva le scarpe pulite (come quelle dei carabinieri che però sapevano come camminare…). Sicuramente due macigni che inchiodano, come qualcuno ha detto senza neppure l’ombra di un dubbio ragionevole, ma con la logica supplementare che è come l’uovo di Colombo: Chi se non lui? Davvero prove schiaccianti per uno Stato che si suppone del diritto...Per il caso Bossetti siamo più o meno su una logica parallela, ma resa più complessa dalla "prova del Dna" che con il laboratorio aggiunge un’aura di infallibilità scientifica a differenza della camminata con tutte le sue indeterminazioni che fanno un po’ a pugni con i metodi quantitativi. Alcuni indizi sul carpentiere si stanno via via sgretolando, proprio mentre i tribunali del riesame bocciano la scarcerazione, perfino quella col braccialetto elettronico. Il muratore a detta dei giudici è davvero troppo pericoloso, potrebbe reiterare il reato. Peccato che l’uomo non sia così fotogenico… nemmeno le istantanee riescono a trasmetterci l’immagine del criminale. A qualcuno dispiace che l’icona del muratore appaia sempre con quel look di uomo normale, che le foto non siano evocative, che non presenti nessun tratto segnaletico del serial killer, ma solo l’aspetto del buon padre di famiglia. Per Alberto Stasi era stato diverso, qualche istantanea era venuta bene, era riuscita a cogliere l’attimo fuggente immortalando lo sguardo che faceva alle bisogna per l’idoneo trattamento mediatico…Nel caso Bossetti, il quadro probatorio - che già da tempo appariva un po’ troppo suggestivo e a tratti poco consistente - adesso comincia addirittura a scricchiolare. Ma non c’è da scoraggiarsi, se anche la prova del Dna alla fine dovesse rivelarsi inconsistente ci potrebbe essere sempre qualche altro elemento a supporto, magari che il muratore andava in discoteca o che sul computer c’era digitata la parola tredicenni, che nel comò della camera da letto veniva conservata qualche fattura relativa al suo lavoro, che aveva fatto un prelievo al bancomat...La sabbia che il muratore avrebbe dovuto utilizzare (secondo l’accusa) per occultare il cadavere, era invece servita al rifacimento di un marciapiede. Il camioncino - che tanto lavoro di fiction e adattamento mediatico aveva richiesto - non aveva le misure adatte per figurare nel film dove al muratore si fa interpretare il ruolo da protagonista. Comunque il carpentiere non girava attorno alla palestra alla velocità di un Niki Lauda. Magari talvolta ci sarà anche passato, visto che quello era il suo percorso abituale verso casa… Nell’immaginario collettivo quel camioncino continua a girare a tempi di record e il muratore come uno sparviero potrebbe ancora accalappiare una preda, se malauguratamente gli venisse concessa la libertà provvisoria… Ce l’hanno raccontato così tante volte il film che è come se lo avessimo visto per davvero. Le cosiddette "prove" però si stanno sciogliendo come neve al sole, a differenza di quel Dna che a detta degli investigatori si è mantenuto per mesi inalterato e di ottima qualità ai rigori invernali. L’impressione è però che siamo solo all’inizio. L’utente televisivo, abituato agli sceneggiati tipo CSI e ai format criminologici, avrà da raccapezzarsi parecchio prima di capire quale genere di film sta vedendo. La sceneggiatura rischia di sfuggire di mano e il regista non sa più bene quale sia il genere? La pellicola iniziata come un thrilling potrebbe inaspettatamente finire con un altro registro. Lo spettatore che credeva a un cold case potrebbe alla fine scoprire che non si tratta del classico giallo. Un venticello dall’aria verdiana faceva del muratore il perfetto assassino, l’assiduo frequentatore di luoghi di perdizione come quelli del solarium. Vero che non usava abbastanza assiduamente il cellulare per telefonare alla moglie (ci dicono segnale inequivocabile di una crisi coniugale). Nonostante una informazione che faceva eco alle veline istituzionali, era cominciato ad emergere qualche dubbio, qualche voce che cantava fuori dal coro. Nella platea mediatica, quella che non guarda solo i format criminologici alla tivù, sta montando il sospetto che il caso presenta risvolti singolari. Lo zoccolo duro e irriducibile continua però a mantenere quella incrollabile fedeltà al dogma colpevolista, sempre in sintonia con l’accusa "senza se e senza ma", conforme all’ortodossia istituzionale, un po’ per affetto e un po’ per convergenza, comunque fedele all’immagine del muratore assassino. Il meglio però potrebbe ancora arrivare, con il Dna e la paternità del presunto colpevole. Non sembrerebbe solo un presentimento, a giudicare dal primo vero assaggio con rissa e sospensioni, un antipasto di crudità, prima dei piatti più importanti del menù. Ci aspettano colpi di scena che faranno impallidire perfino il caso Tortora? Il film da drammatico potrebbe diventare surreale e assumere i tratti comici della commedia all’italiana? Nonostante il carattere serioso e formale del processo potrebbe emergere il nuovo genere. Potrebbe trattarsi dello slapstick (o slapstick comedy), genere fondato sulla comicità del cinema muto con l’immediatezza irresistibile delle gag. Si andava dalla scivolata sulla buccia di banana (e nel nostro caso specifico ce n’è già una sequela: dai camioncini taroccati alla sabbia) allo slow burn (il piccolo incidente nel dibattimento) perché si entri nella battaglia esilarante (che ricorda quelli delle torte in faccia ne La battaglia del secolo, con Stanlio e Ollio). La difesa di Salvagni dovrà davvero fare i salti mortali per reggere l’impatto del comico e grottesco che talvolta può imperversare anche in un tribunale, ma ne ha lo spirito battagliero e la necessaria ironia. Se poi le torte sono alla crema c’è perfino da ingolosirsi. In fondo si tratta proprio della Commedia dell'arte, con tutta l’enfatica gestualità del corpo e con quel battacio che produceva il rumore inconfondibile. Lo slap stick inglese, faceva in modo che gli attori si colpissero senza farsi male ma con una sonorità che simulava effetti di rilievo. Potrebbe anche trattarsi dell’opera buffa donizettiana con l’elisir del dottor Dulcamara e i suoi miracolosi e improbabili intrugli? O del film horror sanguinolento dove il comico e l’orroroso si confondono in uno splatterstick vagamente fantozziano? Ecco, il termine è arrivato quasi involontariamente con l’immagine de Il signor Robinson, mostruosa storia d'amore e d'avventure. Nella fattispecie è proprio il povero Bossetti ad esserci andato di mezzo come un Fantozzi di turno. La sua è una storia assurda e incomprensibile. Per quanto drammatica e crudele possiede tratti di indubbia comicità: un buon diavolo che non sa capacitarsi come possa essere finito in un topos così inverosimile, proprio come il personaggio di Paolo Villaggio. Noi siamo fiduciosi che alla fine si dimostrerà che il carpentiere è innocente, che non è lui l’assassino, e uscirà fuori dal catino infernale nel quale lo hanno messo (per infausto destino o per necessità di copione?). Siamo fiduciosi che Massimo Bossetti uscirà a riveder le stelle, tornerà dai figli e dalla moglie che lo stanno aspettando con trepidazione. In fondo anche Dante dalla nuova prospettiva di un Lucifero strabaltato e a gambe in su, aveva scoperto che il genio del male era soltanto un povero diavolo incastrato là... Tutta la vicenda di Bossetti, a fronte della tragedia vera della povera Yara e della sua famiglia, potrebbe risultare alla fine solo un’opera buffa come quella del famoso e immortale compositore bergamasco…
15 GENNAIO 2016. Sul banco dei testimoni ancora il criminologo Ezio Denti, consulente del pool difensivo del carpentiere di Mapello. Incalzato dalle domande del pubblico ministero Letizia Ruggeri, Denti ha ribadito la sua tesi: “Il passo del furgone è 3000, secondo i nostri rilievi Autocad”. “Però ci deve illustrare con esattezza il tipo di lavoro svolto – ha ribattuto il pubblico ministero – e dove ha preso le immagini per il confronto, perché se le ha trovate in internet non possono essere attendibili”. Ennesimo scontro in aula sul furgone di Massimo Giuseppe Bossetti al processo per l’omicidio di Yara Gambirasio: la mattina del 15 gennaio c’è stata la deposizione del consulente della difesa Ezio Denti, scrive Blitz Quotidiano”. Al centro del dibattimento le riprese video, nelle quali si vede un furgone che per la procura è quello di Bossetti, mentre per la difesa non è provato sia il suo. Il pm Letizia Ruggeri ha contestato a Denti di aver appreso della procedura di estrapolazione delle immagini delle telecamere da una rivista dei carabinieri. Denti ha rilevato alcune difformità di orari nelle telecamere di una ditta di Brembate Sopra che riprendono il passaggio del furgone Iveco Daily. Si è quindi discusso su una macchia di ruggine, che per la procura conferma che il furgone è quello di Bossetti, ma il perito di parte ha risposto di non poter dire che la macchia sia di ruggine. “Sono pilota di elicotteri e supero la visita medica ogni sei mesi”, ha evidenziato Denti. “Io invece sono miope ma la macchia la vedo”, ha ribattuto la pm. Quanto poi alle maniglie che proverebbero per la difesa che il cassonato de furgone è diverso da quello dell’imputato, il pm ha sostenuto che non si tratta di una maniglia, bensì della recinzione dell’azienda che oscura in parte la strada. “Le parti si limitino alle domande ammesse, senza commentare. E dal pubblico non devono arrivare brusii o commenti. È l’ultimo avviso, altrimenti le prossime udienze saranno a porte chiuse”. Si è aperta con questo richiamo del presidente della corte Antonella Bertoja l’udienza di questa mattina. Il richiamo è arrivato a seguito di quanto avvenuto nella precedente udienza, che era stata infatti sospesa per una discussione tra pm e il consulente della difesa Ezio Denti in merito alle sue qualifiche professionali. “Basta dibattiti e solo domande secche – ha precisato il giudice -: sono inoltre vietate domande ai testimoni su qualifiche personali o qualità morali”. Nel corso del dibattimento una spettatrice sorpresa a commentare è poi stata cacciata dal giudice e identificata dai carabinieri.
Processo Bossetti, udienza tesa, scrive “L’Eco di Bergamo”. Il presidente della Corte d'appello di Bergamo Antonella Bertoja ha minacciato di proseguire il processo per l'omicidio di Yara a porte chiuse se si ripeteranno le polemiche in aula tra le parti e i commenti e i brusii da parte del pubblico. Bertoja ha parlato di un comportamento complessivamente oltraggioso nei confronti della Corte e assolutamente pregiudizievole". Questo è "l'ultimo avviso per le parti e per il pubblico" ha detto. Dopo la sospensione della scorsa settimana, il ritorno in aula è stato piuttosto teso. Prosegue il controesame del pm Letizia Ruggieri nei confronti del consulente della difesa Ezio Denti. È ancora il furgone di Massimo Bossetti, con i fotogrammi delle telecamere, il tema chiave, si è tornati a parlare dell'identificazione del mezzo, già al centro di scontri fra accusa e difesa. Letizia Ruggeri ha contestato a Denti di aver appreso della procedura di estrapolazione delle immagini delle telecamere non da un protocollo come da lui dichiarato la scorsa udienza, ma da un articolo di una rivista pubblicato sul sito dei carabinieri.
Prosegue il processo a Massimo Bossetti. Folla in aula e fuori dal Tribunale. Il giudice bacchetta le parti e il pubblico dopo le tensioni della scorsa settimana: «Non tollereremo più comportamenti oltraggiosi». Espulsa una ragazza del pubblico. Controesame per il criminologo Ezio Denti, consulente della difesa, scrive “L’Eco di Bergamo”. È ancora il furgone di Massimo Bossetti, con i fotogrammi delle telecamere, il tema chiave del processo in corso a Bergamo. Nell’udienza del 15 gennaio si è tornato a parlare di come dell’identificazione del mezzo, già al centro di scontri fra accusa e difesa. Il pm Letizia Ruggeri ha chiesto alla Corte di chiamare a deporre sul tema alcuni tecnici della Iveco, oltre ai carabinieri del Ris e dei Ros. L’avvocato Paolo Camporini, che con il collega Claudio Salvagni difende Bossetti, ha invece chiesto di eseguire una perizia in contraddittorio, con un esperto nominato dalla Corte, per dirimere una volta per tutte la questione. Il giudice ha rigettato la richiesta del pm, mentre si è riservato sulla richiesta di Camporini. L’udienza si è aperta in un clima tesissimo, dopo la bagarre in aula che la scorsa settimana aveva portato alla sospensione del dibattimento. Il giudice Antonella Bertoja in aula ha lanciato un avvertimento forte alle parti e al pubblico: «È l’ultimo avviso alle parti e al pubblico – ha spiegato – : non sono ammessi comportamenti oltraggiosi nei confronti della Corte e pregiudizievoli per i lavori». «Le domande delle parti non devono contenere commenti né critiche, ma devono essere rivolte in maniera asettica. Sono inoltre vietate domande ai testimoni su qualifiche personali o qualità morali». E al pubblico (oggi sono arrivati in tantissimi, almeno 20 le persone che sono rimaste fuori dal Tribunale) l’avvertimento ad astenersi da commenti e brusii, in caso di violazione il giudice ha avvisato che scatterà «l’identificazione e l’espulsione», cosa che è già successa stamattina: una ragazza del pubblico è stata espulsa per i brusii ed è stata identificata dai carabinieri. Il giudice non ha escluso la possibilità di proseguire il processo «a porte chiuse» nel caso non vengano rispettate le regole. Dopo il monito, è partito il controesame del pm Letizia Ruggeri al criminologo Ezio Denti, consulente della difesa. In aula con Massimo Meroni (in qualità di procuratore in pectore dopo che Francesco Dettori è andato in pensione) il pm è tornato sul già discusso tema delle telecamere che hanno filmato il furgone identificato come quello di Bossetti. Letizia Ruggeri ha contestato a Denti di aver appreso della procedura di estrapolazione delle immagini delle telecamere da una rivista dei carabinieri e anche contestato il metodo di misurazione del consulente. Denti ha rilevato alcune difformità di orari nelle telecamere di una ditta di Brembate Sopra che riprendono il passaggio del furgone Iveco Daily. Si è quindi discusso su una macchia di ruggine, che per la procura conferma che il furgone è quello di Bossetti, ma il perito di parte ha risposto di non poter dire che la macchia sia di ruggine. «Sono pilota di elicotteri e supero la visita medica ogni sei mesi», ha evidenziato Denti. «Io invece sono miope ma la macchia la vedo», ha ribattuto la pm. Quanto poi alle maniglie che proverebbero per la difesa che il cassonato de furgone è diverso da quello dell’imputato, il pm ha sostenuto che non si tratta di una maniglia, bensì della recinzione dell’azienda che oscura in parte la strada. «Forse non sono stata abbastanza chiara all’inizio della seduta: serve maggiore rispetto per la corte, in modo che i lavori possano svolgersi regolarmente - ha detto la presidente, prima di sospendere la seduta per la pausa - È l’ultima possibilità, dopodiché chiuderemo davvero le porte». La ragazza che in mattinata era stata fatta allontanare dall’ aula per i suoi commenti e era stata poi identificata dai carabinieri, non potrà più partecipare alle udienze. La polemica della scorsa settimana aveva finito per oscurare, almeno parzialmente, le tesi difensive di Denti, che per tutta la mattina aveva sostenuto che l’autocarro inquadrato dalle telecamere nella zona del centro sportivo di Brembate Sopra non sarebbe quello di Bossetti, come invece ritengono gli inquirenti. «I filmati sono stati acquisiti senza seguire i protocolli», aveva affermato Denti, che ha rincarato la dose: «Il camioncino ripreso dalla telecamera Polynt 2 non può essere quello di Bossetti, perché quello ripreso è a “passo corto”, non medio, come dimostrano le mie misurazioni con il programma Autocad» e neppure quello ripreso dalle telecamere della Shell «perché la campata a protezione della cabina è più alta di quella del mezzo di Bossetti». Per Denti, dunque, l’indagine dei Ris sarebbe da buttare. Così come quella dei Ros, che analizzando 2 mila Iveco Daily nel Nord Italia erano giunti alla conclusione che quello di Bossetti aveva caratteristiche tali da renderlo un unicum. «Tredici punti su 14 individuati dai Ros sono comuni a tutti i mezzi» ha dichiarato venerdì scorso Denti, che poi ha presentato un elenco di otto camioncini individuati a caso da lui nella Bergamasca, che non figurerebbero tra quelli presi in esame dagli inquirenti. «Mi dica il passo di questi mezzi...» ha chiesto sempre venerdì scorso il pm Ruggeri, lasciando intendere che il consulente avrebbe preso in esame mezzi con passo diverso da quello di Bossetti (e per questo fuori dall’elenco degli investigatori).
Processo Bossetti, ultimo avviso della Corte: stop a brusii e polemiche in aula, scrive "Il Giorno". Il presidente della Corte d'appello di Bergamo Antonella Bertoja ha minacciato di proseguire il processo per l'omicidio di Yara a porte chiuse se si ripeteranno le polemiche in aula tra le parti e i commenti e i brusii da parte del pubblico. Nuova udienza nel processo a Massimo Bossetti, accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio. Il presidente della Corte d'appello di Bergamo Antonella Bertoja ha minacciato di proseguire il processo per l'omicidio di Yara a porte chiuse se si ripeteranno le polemiche in aula tra le parti e i commenti e i brusii da parte del pubblico. "Preso atto che nel corso del controesame del perito della difesa è stato tenuto in aula un comportamento complessivamente oltraggioso nei confronti della Corte e assolutamente pregiudizievole", ha detto Bertoja. Questo è "l'ultimo avviso per le parti e per il pubblico". Bertoja ha invitato a "contenere qualsiasi commento critico" e ha precisato che d'ora in poi le domande delle parti dovranno essere poste "in maniera secca. Non ci sarà - ha affermato - dibattito sui provvedimenti presi dalla Corte. Non saranno consentiti brusii di fondo da parte del pubblico, né commenti - ha proseguito -. In quel caso saranno identificati e allontanati i responsabili e nel caso i soggetti siano più d'uno, si procederà a porte chiuse". Al termine della premessa all'udienza di oggi, la presidente della Corte ha fatto entrare il perito della difesa Ezio Denti, che si è occupato delle registrazioni video dei furgoni di passaggio simili a quello di Bossetti nei pressi del luogo della sparizione di Yara. Al centro del dibattimento le riprese video, nelle quali si vede un furgone che per la procura è quello di Bossetti, mentre per la difesa non è provato sia il suo. Il pm Letizia Ruggeri ha contestato a Denti di aver appreso della procedura di estrapolazione delle immagini delle telecamere da una rivista dei carabinieri. Denti ha rilevato alcune difformità di orari nelle telecamere di una ditta di Brembate Sopra che riprendono il passaggio del furgone Iveco Daily. Si è quindi discusso su una macchia di ruggine, che per la procura conferma che il furgone è quello di Bossetti, ma il perito di parte ha risposto di non poter dire che la macchia sia di ruggine. «Sono pilota di elicotteri e supero la visita medica ogni sei mesi», ha evidenziato Denti. «Io invece sono miope, ma la macchia la vedo», ha ribattuto la pm. Quanto poi alle maniglie che proverebbero per la difesa che il cassonato del furgone è diverso da quello dell'imputato, il pm ha sostenuto che non si tratta di una maniglia, bensì della recinzione dell'azienda che oscura in parte la strada. Il clima è stato particolarmente teso per tutta la mattinata. Il giudice Antonella Bertoja ha più volte richiamato le parti, invitandole a non discutere tra loro. In aula, accanto alla pm Ruggeri titolare del caso, anche Massimo Meroni, in qualità di procuratore in pectore dopo che Francesco Dettori è andato in pensione. "Forse non sono stata abbastanza chiara all'inizio della seduta: serve maggiore rispetto per la corte, in modo che i lavori possano svolgersi regolarmente - ha detto la presidente, prima di sospendere la seduta per la pausa - È l'ultima possibilità, dopodiché chiuderemo davvero le porte". Una ragazza che in mattinata era stata fatta allontanare dall'aula per i suoi commenti era stata poi identificata dai carabinieri, non potrà più partecipare alle udienze. Vista anche la bagarre della precedente udienza, stamattina il pubblico presente era inoltre particolarmente numeroso e almeno una ventina di persona è dovuta restare in fila ai controlli di sicurezza perché l'aula era piena. Anche nel pomeriggio la seduta è stata incentrata sull'identificazione del furgone Iveco Daily. La Corte ha rigettato una richiesta del pm Letizia Ruggeri, che stamattina aveva chiesto di chiamare a deporre i periti dell'Iveco, oltre ai carabinieri del Ris e del Ros. Il giudice si è invece riservato di decidere su quanto chiesto dall'avvocato Paolo Camporini, uno dei legali di Bossetti, ovvero che venga eseguita una perizia in contraddittorio con un esperto nominato dalla stessa Corte, in modo da dirimere una volta per tutte la questione.
Gogne mediatiche in attesa di giudizio, scrive Paolo Pagliaro su “9 Colonne” il 18 gennaio 2016. Dura poco più di 4 minuti il filmato realizzato dalla questura di Bari in cui si vede il direttore amministrativo del Teatro Petruzzelli mentre intasca quelle che secondo l’accusa sono le tangenti pagate da alcuni fornitori. E’ un audiovisivo che in questi giorni molti hanno potuto apprezzare sulle edizioni on line dei principali quotidiani. Gli "stacchi" visivi alternano le riprese girate nell'ufficio del direttore indagato, con suggestivi squarci del Teatro. Il tutto accompagnato da una coinvolgente colonna sonora di musica classica. L’Unione camere penali ha protestato sdegnata contro quella che considera una violazione del segreto istruttorio. Il montaggio della videointercettazione – scrivono con sarcasmo i penalisti - segna un deciso passo in avanti nella speciale classifica del film festival degli investigatori italiani rispetto a quello dell’ormai celebre video del furgone dell'imputato Bossetti. Secondo l’Unione Camere penali il filmato - una sequenza di stralci di video e intercettazioni, e dunque di materiali di indagine non pubblicabili neppure parzialmente fino alla chiusura delle indagini preliminari - è stato addirittura trasmesso e diffuso prima che il difensore fosse messo a conoscenza degli atti, sui quali - peraltro - è fondata la richiesta di arresto e la relativa ordinanza di custodia. E’ l’ennesima polemica sul tema della giustizia-spettacolo, quella in cui il processo diventa un evento mediatico già nella fase delle indagini. In questi casi tra i diritti della difesa e l’effetto-gogna, è garantito solo il secondo.
"Montare" un video per esigenze mediatiche costituisce un elemento significante nel processo penale? Brevi note a margine della vicenda Bossetti, scrive Riziero Angeletti il 18/01/2016. Rileviamo dalla cronaca giudiziaria odierna che nell’ambito del procedimento penale che vede imputato Giuseppe Bossetti per l’omicidio della giovane Yara Gambirasio, durante una udienza celebrata nei giorni scorsi, il responsabile del RIS di Parma, Col. Giampiero Lago, chiamato a deporre nel contraddittorio delle parti dinanzi la Corte d’Assise di Bergamo, riferisce che un video contenente alcune immagini relative ai passaggi del furgone attribuito all’imputato Bossetti e divulgate attraverso mezzi di comunicazione di massa, in realtà sarebbe stato montato, “concordemente con la Procura…,” per la stampa (“…e i media ne hanno fatto l’uso che hanno creduto…”), a fronte delle pressanti, numerose e insistenti richieste di chiarimenti su questa emergenza…”, frutto quindi di una costruzione ideata, programmata e posta in essere (ad uso e consumo dei media) nel concerto delle volontà della Procura della Repubblica e dello stesso RIS; insomma, ciò è avvenuto per soddisfare le esigenze mediatiche che si accanivano sulla vicenda. Questa sostanzialmente la risposta fornita dal responsabile dei Ris alla specifica domanda postagli dalla difesa dell’imputato. Che il disegno così confezionato abbia sollevato innumerevoli reazioni da parte degli organi di stampa appare francamente immaginabile e giusto. Ciò che a noi desta preoccupazione e sollecita questo intervento è il tentativo di veicolare la questione su una deriva dicotomica che riduce il tutto alla relazione tra etici e non etici. Insomma, il dibattito sembra essere (forzatamente) contenuto in un confronto tra quei media che, invocando la lesione dei più elementari principi etici, si sentono offesi per esser stati strumenti di diffusione di una falsa notizia, terminali inconsapevoli di una condotta evidentemente tesa a soddisfare esigenze dai medesimi espresse, per l’appunto mediatiche, e quei media che, minimizzando l’evento, propongono da subito di andare oltre, ritenendo inconsistente o marginale l’affronto etico subito, rispetto alla complessità della vicenda, negandosi, in generale, dall’una e dall’altra parte, che a tale condotta possa e debba attribuirsi una valenza procedimentale di dirompente efficacia nel processo. Di ciò noi ci occupiamo e in queste poche righe intendiamo condensare il malessere di chi ha ancora a cuore la valenza sociale e giuridica delle regole del processo penale. Divulgare notizie che contribuiscono ad indirizzare la libera opinione non è comportamento di insignificante incidenza specialmente quando la fonte della notizia sia titolata e presa ad esempio dal normale ascoltatore. I RIS, come è noto, nello scibile dell’immaginario collettivo, assumono il ruolo di modello esemplare cui fare riferimento quando si disquisisce di riscontri scientifici, di professionalità elevate e di garanzie di totale credibilità. A loro, quasi sempre, l’uomo comune si associa; sulle conclusioni degli esperti gli uomini si adagiano e le decisioni che vengono prese sulla base delle prove da costoro fornite vengono puntualmente condivise. Si ripete ancora, però, che fattori estranei ed esterni al processo penale per nulla incidono sulle decisioni finali. Ed allora ci permettiamo offrire una considerazione, seppur sintetica, a chi legge: la Corte d’Assise è composta da giudici togati e giudici estranei all’ordine della magistratura. Quanto ai primi, lasciamo che passi la tesi della loro totale incorruttibilità intellettuale. Essi sanno far bene il loro lavoro e non lasciano che le decisioni che prendono siano il frutto di un inquinamento probatorio nato dalla infiltrazione mediatica sconquassata dalle iniezioni costruite a tavolino da parte di coloro che avrebbero ben altro compito istituzionale. Cosa possiamo dire, però, dei giudici onorari, quelli non togati che siedono accanto ai primi, scelti tra il popolo secondo criteri che nulla hanno a vedere con il mondo del diritto, totalmente estranei alle competenze dei legulei. Quelli che vengono estirpati dalle cucine, dagli impieghi, dalla disoccupazione e catapultati dentro un’aula di giustizia dove oggi più che mai i processi evolvono in una od altra direzione per questioni di stile, di nullità, di vizi più o meno eclatanti. Cosa offrono alla decisione queste persone, sagge, certamente ottimi padri e madri di famiglia, vissute di esperienze che hanno segnato nel tempo l’evolversi della società. Pensate che in loro non vi sia già stato un effetto condizionante, inquinante, contaminante e stravolgente, se il comandante del RIS e la Procura “montano” un video e, attraverso la stampa e la televisione, diffondono notizie distorte e distruttive su un fatto delittuoso così imponente? Cosa risponderebbero alla seguente domanda: “Secondo voi Bossetti è passato o no nei luoghi ripresi dalle telecamere con il suo furgone nelle occasioni rappresentate in TV?” Il fatto stesso che siamo qui a porci questa domanda, vuol significare che in astratto la decisione di un processo penale può essere assunta sulla scorta di un elemento indiziante estraneo al processo. E ove tale elemento abbia la forza della penetrazione interiore che ha, di regola, la notizia divulgata dai media, si avrà non più la astratta ipotesi inquinatoria ma il concreto pericolo che ciò avvenga. L’art. 533 co. 1 cpp richiama l’attenzione di tutti i destinatari del processo. Il Giudice condanna l’imputato se la sua colpevolezza è dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio. Le determinazioni del Giudice che trovano espressione negli enunciati argomentativi teleologicamente tesi a spiegare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio, non possono trovare supporto evidenziale nella persuasione bensì nella dialettica processuale. Solo e soltanto la dialettica processuale e, prima ancora procedimentale, possono permettere al Giudice di esprimersi legittimamente nei termini della colpevolezza. Il ricorso alla persuasione dell’uditorio-società attraverso il “montaggio” e quindi la correzione, l’adattamento di alcuni filmati per esigenze mediatiche, siamo sicuri che non abbia determinato un’illogica invasione della persuasione nell’ambito processuale ed abbia già investito irragionevolmente quell’uditorio giudiziale che sarà chiamato ad esprimere le determinazioni finali? E’ della possibile contaminazione della prova che si deve parlare; della capacità che una condotta, perfezionata nella fase delle indagini preliminari e rimasta fuori dal processo, possa aver sostanzialmente superato l’ostacolo procedimentale e sia sostanzialmente insediata all’interno del contesto processuale; insomma, si deve parlare, alla luce di questo “montaggio”, del processo intellettuale formativo del convincimento che conduce ad affermare o negare la colpevolezza dell’imputato. Si dirà che i fatti extra processuali restano al di fuori degli elementi che il giudice potrà prendere in considerazione ai fini della decisione sulla regiudicanda. Si dirà anche che il giudice non è traviato dal movimento tellurico che genera la lievitazione quotidiana dei fatti attraverso giornali e televisioni, si dirà infine che il giudice è terzo e non potrà che utilizzare ai fini della propria decisione gli atti legittimamente acquisiti al fascicolo del dibattimento. E ciò è vero perché la legge processuale lo prescrive e guai discostarsi dalle indicazioni che la legge impone, ci troveremmo nel baratro delle violazioni di legittimità che imporrebbero l’annullamento della sentenza che fonda il proprio convincimento sulla base di tali elementi di prova. Ma noi ci permettiamo di mettere in evidenza che il libero convincimento del giudice non possa essere condizionato, non solo in atto ma neppure in potenza, da eventuali “montaggi” persuasivi che, generati per esigenze mediatiche, mettano anche solo ipoteticamente a rischio la maturazione di quel libero convincimento. Non si tratta quindi di analizzare un semplice adattamento per video per fini mediatici, ad uso e consumo del pubblico, perfezionato da questo o quel giornalista, ma stiamo parlando del “montaggio” effettuato da una delle espressioni soggettive del potere giudiziario, la procura (e dai suoi ausiliari, Ris)! Il dubbio, il ragionevole dubbio, a prescindere da ogni attività istruttoria, si è già insediato in questo processo, dal momento che, riconoscendo l’accusa di aver “montato” e quindi lavorato una parte del materiale indiziario, anche e soltanto per esigenze mediatiche, non sia più logicamente possibile escludere che altre operazioni abbiano interessato altro materiale indiziario. (Altalex, 18 gennaio 2016. Articolo di Riziero Angeletti e Sergio Novani).
Cosa sappiamo davvero del mostro Bossetti. Ultime dal processo Yara: tra Dna e furgoni, l’accusa contro il muratore perde pezzi. Lui intanto invia lettere dal carcere, scrive il 18 Gennaio 2016 Luca D'Ammando su “Il Foglio”.
«Volete sapere come sto veramente? Da schifo! Con una dignità completamente distrutta, continuamente stuprata dai media, e tutti i giorni, mesi e forse anni trascorsi ingiustamente in questa cella per i loro dannati sbagli» (dalla lettera firmata da Massimo Bossetti, pubblicata mercoledì scorso dal settimanale Oggi). Giangavino Sulas, Oggi 13/1/216;
Massimo Bossetti, 45 anni, di Mapello, è stato arrestato il 16 giugno 2014 ed è sotto processo dal 3 luglio 2015 per l’omicidio della tredicenne Yara Gambirasio, scomparsa da Brembate di Sopra (Bergamo) il 26 novembre 2010 e ritrovata cadavere in un campo di Chignolo il 26 febbraio 2011. Nelle tre pagine di sfogo inviate a Oggi Bossetti si dipinge come una vittima, ingiustamente in cella da oltre cinquecento giorni e trattato «come se fossi un latitante mafioso». Parla anche del suo arresto: «Dopo aver visto uno straziante, indegno, vergognoso video sul mio arresto, penso che non ci sia altro da dirvi visto le modalità che un italiano viene trattato nella maniera più indegna, schifosa, questa è una vergogna nella vergogna». Giangavino Sulas, Oggi 13/1/216;
«Assenza di freni inibitori... Particolare efferatezza nell’esecuzione del delitto... Casualità nella scelta della vittima...». Queste le motivazioni con le quali, a fine dicembre, la Corte d’Assise ha respinto la richiesta di arresti domiciliari per Bossetti. Giangavino Sulas: «Più che valutazioni di merito sembrano motivazioni di una sentenza. Ma il processo è solo a metà strada. Devono ancora sfilare molti testimoni. Il mistero di quel Dna mitocondriale che non appartiene a Bossetti nessuno l’ha saputo spiegare». Giangavino Sulas, Oggi 31/12/2015;
All’inizio del processo sembravano esserci due elementi schiaccianti: il Dna ritrovato sui leggings e sulle mutandine di Yara compatibile al 99,99999987% con quello di Bossetti e le immagini del suo furgone, il cassonato Iveco Daily, che passa avanti e indietro per tre quarti d’ora davanti alla palestra di Brembate e alla casa della ragazzina la sera della sua scomparsa. Paolo Colonnello, La Stampa 28/2/2015;
Oggi questi elementi non sono più così certi. In particolare, per quanto riguarda il Dna, i due ufficiali dei Ris che hanno eseguito la perizia sugli indumenti di Yara – Nicola Staiti e Fabiano Gentile – interrogati dalla difesa venerdì 6 novembre, hanno ammesso di non poter rispondere alle domande sugli stessi dati che avevano fornito, il cosiddetti Raw data degli esami sul Dna, la «brutta copia» dei test decisivi che hanno incastro Bossetti. Non si ricordavano, ad esempio, quante volte abbiano ripetuto l’esame del Dna di «Ignoto 1» e quali kit (ossia i reagenti) abbiano usato per estrarlo. Luca Telese, Libero 8/11/2015;
Ha spiegato Luca Telese: «Qual è il grande problema dello slip di Yara, il reperto che incastra Bossetti? Che quando è stato esaminato il muratore di Mapello, come è noto, non era nemmeno stato individuato. Quindi l’esame non è avvenuto (non era possibile) né alla presenza dei suoi avvocati, come si dice, “in garanzia”. Chi e cosa, dunque, si chiedono gli avvocati, può garantire Bossetti dall’idea di un possibile errore? Contrariamente a tutte le altre prove, quel test del Dna non è stato nemmeno filmato. È diventato, insomma, un dogma di fede dei Ris». Luca Telese, Libero 8/11/2015;
Poi durante la ventiduesima udienza del processo, lo scorso 8 gennaio, nell’aula della Corte d’Assise si è vista franare sotto i colpi del consulente della difesa Ezio Denti, quella che l’accusa considera la seconda prova in ordine di importanza contro l’imputato Massimo Bossetti: le immagini del camioncino del muratore che per un’ora avrebbe girato attorno alla palestra in attesa di rapire Yara. Giangavino Sulas, Oggi 13/1/216;
Già questa prova era uscita molto compromessa dall’udienza nella quale il colonnello Giampietro Lago, comandante del Ris di Parma, era stato costretto ad ammettere che i Carabinieri, d’accordo con la Procura, avevano assemblato un collage di immagini del cassonato assolutamente illeggibili per ricavare un filmato da consegnare alla stampa. «Esigenze di informazione», aveva detto il colonnello. Un video fatto apposta per costruire la figura del predatore-Bossetti. Nel fascicolo processuale infatti sono rimaste solo due immagini del camioncino considerate attendibili. Le altre, lo ha detto lo stesso Pm, «non le abbiamo accluse agli atti». Giangavino Sulas, Oggi 13/1/216;
Nell’udienza dell’8 gennaio l’investigatore privato Ezio Denti ha incrinato anche l’attendibilità delle due immagini rimaste. Il camioncino mostrato nei fotogrammi delle telecamere della Polynt 1 e Polynt 2, un’azienda accanto alla palestra di Yara, non è quello di Bossetti per evidenti differenze: nel “passo” (ovvero distanza fra il centro della ruota anteriore e quello della ruota posteriore), nel portapacchi e nella cassetta portattrezzi sulla fiancata. Luca Telese, Libero 9/1/2016;
E Denti ha assestato un altro colpo mostrando ancora il video della Polynt. Pochi secondi dopo il passaggio del presunto camioncino di Bossetti nel filmato ne appare un altro proveniente in senso contrario. È bianco, identico (almeno nelle immagini in bianco e nero, perché quello di Bossetti non è bianco ma verde acquamarina) a quello del muratore di Mapello. «E questo automezzo di chi è? L’avete mai controllato? Eppure ha un “passo” identico a quello che voi attribuite a quello di Bossetti», dice Denti. Imbarazzo in aula. Solo la Pm chiede: «Me lo fa rivedere? Ma a che ora è passato?». Giangavino Sulas, Oggi 13/1/216;
Luca Telese: «Piovono furgoni. O meglio cadono, nel processo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Anzi, sarebbe ancora meglio dire che decadono, dal rango di prova regina della presenza del muratore di Mapello nei pressi della palestra di Yara, a quello di indizio forse addirittura insignificante (perché non più identificabile in modo certo). La difesa, per di più, riesce a dimostrare, addirittura, producendo fotografie e generalità dei proprietari, che ci sono altri furgoni (quasi identici a quello di Bossetti) non presenti nella lista di quelli esaminati dall’accusa. Otto di questi circolano addirittura nel territorio della provincia di Bergamo. Due di loro, non solo sono esteticamente simili, ma hanno addirittura lo stesso lo stesso cassone di quello di Bossetti, una lunghezza identifica a quella indicata dalla procura. Un terremoto». Luca Telese, Libero 9/1/2016;
Intanto Bossetti scrive molto in carcere a Bergamo, nella cella che condivide con un altro detenuto della sezione speciale. Di recente si è saputo che a luglio, prima che iniziasse il dibattimento, il carpentiere aveva consegnato una lettera a Claudio Salvagni, uno dei suoi due avvocati, indirizzata ai genitori di Yara: «Mi ha solo detto di darla nel momento che ritengo più opportuno. Credo sia la fine del processo». C’è poi la lettera che Bossetti ha letto dal pulpito, al funerale del padre Giovanni, il 29 dicembre, a Terno d’Isola: «Papà, questa perdita ha lasciato un vuoto incolmabile. Dolore nel dolore». Giuliana Ubbiali, Corriere della Sera 9/1/2016;
Armando Di Landro e Giuliana Ubbiali: «Finito il funerale, prima di tornare in carcere l’ultimo abbraccio per Bossetti è della sorella gemella Laura Letizia. Gli altri proseguono a piedi verso il cimitero, dove la moglie Marita Comi rimane nell’ombra della discrezione, per poi avvicinarsi alla suocera Ester Arzuffi e abbracciarla. La madre e la moglie, le due donne che il giorno dell’arresto di Massimo si sono scontrate. “Dovevi dirmelo”, le aveva urlato Marita riferendosi alle indagini sul Dna: il suo “Massi” è figlio naturale dell’autista di Gorno Giuseppe Guerinoni, non di Giovanni Bossetti». Armando Di Landro, Corriere della Sera 28/12/2015;
Tutto era accaduto in quei giorni di metà giugno del 2014: mentre gli investigatori, nei laboratori dell’Università di Pavia, erano vicini a scoprire un legame di parentela diretto tra la traccia di Ignoto 1 e quella della madre Ester Arzuffi, per poi arrivare a lui, il figlio Massimo, il papà Giovanni veniva ricoverato per la prima volta. Da alcuni mesi si sentiva poco bene. Ed era a casa, prima di tornare nuovamente in ospedale, anche quel giorno in cui la foto di suo figlio aveva iniziato a rimbalzare sul piccolo schermo: il volto di un uomo accusato di un delitto atroce. La storia delle indagini si è intrecciata, inevitabilmente, con quella di due famiglie, i Bossetti e i Guerinoni. Armando Di Landro, Corriere della Sera 28/12/2015.
20 GENNAIO 2016. VENTITREESIMA UDIENZA. PARLANO I RIS SULLE FIBRE DEL FURGONE.
Sul giubbetto che indossava Yara 29 fibre indistinguibili da quelle del Daily. Sul giubbetto che indossava Yara Gambirasio sono state trovate 29 fibre che, all’analisi dei carabinieri del Ris, sono risultate «indistinguibili» da quelle trovate sui sedili del furgone Daily di Massimo Bossetti, scrive “L’Eco di Bergamo”. Lo hanno spiegato un ufficiale e un sottufficiale del Ris sentiti mercoledì mattina, 20 gennaio, nel processo a carico del muratore di Mapello. Secondo gli investigatori, le fibre sono risultate «compatibili» e «indistinguibili» da un punto di vista chimico, merceologico e cromatico. Questo, tradotto, significa che le fibre sono identiche a quelle del furgone. La concentrazione delle fibre, sempre secondo il Ris, fa ipotizzare che queste siano state lasciate «per contatto». È stata un’analisi sofisticata e meticolosa quella che i Ris dei carabinieri di Parma hanno eseguito sulle oltre18 mila fibre trovate sul corpo della piccola Yara. Tanto meticolosa che i Ris, consulenti del pm, hanno impiegato nella nuova udienza del processo - iniziata alle 9,30 di mercoledì 20 gennaio - più di due ore solo per illustrare le tecniche e le strumentazioni utilizzate per il prelievo e le analisi dei campioni. La difesa del muratore di Mapello invece ha cercato di smontare la metodologia che ha portato gli esperti alla loro conclusione. Le analisi sulle 8.452 fibre erano iniziate il 27 febbraio del 2011 con gli accertamenti chimici e merceologici. Solo tre anni dopo, dal 18 giugno del 2014, i Ris hanno avuto a disposizione, dopo l’arresto di Bossetti, il materiale di confronto, raccolto dalla Volvo e dal furgone Iveco Daily del muratore di Mapello. Agli esperti del Ris toccava proprio il compito di spiegare perché si ritiene che quelle trovate sulla tredicenne di Brembate siano proprio quelle del furgone che Massimo Bossetti utilizzava per il suo lavoro. In particolare, secondo l’accusa, sul corpo sono state trovate fibre in tutto e per tutto compatibili con quelle dei sedili del mezzo del muratore di Mapello, e questo collocherebbe Yara sul furgone. Le 18.452 fibre sono state trovate in punti e abiti diversi della piccola Yara: 2.878 erano sul giubbino, 11.709 sulla felpa, 972 sulla maglietta, 1.626 sugli slip e 336 sulle calze. Intanto è stata fissata al 26 gennaio l’udienza, davanti ai giudici del Tribunale del Riesame di Brescia, per discutere il ricorso di Massimo Bossetti contro la decisione dei giudici della Corte d’assise di Bergamo che hanno negato gli arresti domiciliari al muratore. La notizia è stata resa nota a margine dell’udienza dedicata alla compatibilità tra le fibre dei sedili del furgone del muratore e quelle trovate sul corpo della tredicenne. Nuova udienza, in Tribunale a Bergamo, nel processo a Massimo Bossetti, accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio, scrive “Il Giorno”. Oggi è il giorno dell'accusa: hanno parlato gli esperti che hanno effettuato tutte le analisi sulle 18.452 fibre trovate sul corpo della 13enne. A loro è toccato il compito di spiegare perché si ritiene che siano proprio quelle del furgone che il muratore di Mapello utilizzava per il suo lavoro. Un ufficiale e un sottufficiale del Ris hanno detto che sul giubbetto che indossava Yara sono state trovate 29 fibre che, all'analisi dei carabinieri del Ris, sono risultate "indistinguibili" da quelle trovate sui sedili del furgone Daily di Massimo Bossetti. Secondo gli investigatori, le fibre sono risultate "compatibili" e "indistinguibili" da un punto di vista chimico, merceologico e cromatico. La concentrazione delle fibre, sempre secondo il Ris, fa ipotizzare che queste siano state lasciate "per contatto". Le 18.452 fibre sono state trovate in punti e abiti diversi della ragazzina: sul giubbino, sulla felpa, sulla maglietta, sugli slip e sulle calze. È stata fissata al 26 gennaio l'udienza, davanti ai giudici del Tribunale del Riesame di Brescia, per discutere il ricorso di Massimo Bossetti contro la decisione dei giudici della Corte d'assise di Bergamo che hanno negato gli arresti domiciliari al muratore imputato per l'omicidio di Yara Gambirasio. Lo si è appreso a margine dell'udienza di oggi.
“Non è certo la difesa che ha voluto alzare i toni dello scontro – ha spiegato Salvagni -, noi stiamo solo cercando di dimostrare con dati scientifici e con ragionamenti logici come le accuse siano fondate sul nulla. Se non per quell’aspetto del dna che dovrà ancora essere discusso. Quando non si hanno argomentazioni tecniche si scade nel personale. Stupisce che siano stati spesi i soldi dei contribuenti per fare indagini sui consulenti della difesa. Non è il processo ai consulenti della difesa, è il processo a Massimo Bossetti. Tutti ricordiamo il giorno dell’arresto di Bossetti quello che disse il ministro dell’interno Alfano. Questo processo nasce e si sviluppa sotto questa luca. E’ sotto gli occhi di tutti come quest’uomo e la sua intera famiglia sono stati massacrati. Anche qualora fosse assolto, i segni indelebili di questo massacro resteranno sulla pelle della moglie, dei figli e di tutta la famiglia. Chi ha detto che Bossetti è l’assassino dovrà chiedere scusa, ma non credo che le scuse basteranno”.
“Chi ha detto che Bossetti è l’assassino di Yara dovrà chiedere scusa”. “Chi ha detto che Bossetti è l'assassino dovrà chiedere scusa, ma non credo che le scuse basteranno”, parola di Claudio Salvagni, legale dell’unico imputato al processo in corso a Bergamo per l’omicidio di Yara Gambirasio, scrive Susanna Picone su Fan Page il 19 gennaio 2016 In attesa della prossima udienza del processo in corso a Bergamo per l’omicidio di Yara Gambirasio, Claudio Salvagni – uno degli avvocati di Massimo Giuseppe Bossetti – è intervenuto ai microfoni della trasmissione “Legge o giustizia” condotta da Matteo Torrioli su Radio Cusano Campus e ha parlato di quanto sta accadendo in aula. Ha parlato in particolare del “clima incandescente” che si respira in aula (nel corso dell’udienza di venerdì scorso la presidente ha minacciato di far continuare il processo a porte chiuse e ha anche espulso una donna dall’aula) e degli scontri continui tra accusa, difesa e parte civile. “Non è certo la difesa che ha voluto alzare i toni dello scontro, noi stiamo solo cercando di dimostrare con dati scientifici e con ragionamenti logici come le accuse siano fondate sul nulla. Se non per quell'aspetto del dna che dovrà ancora essere discusso”, ha spiegato Salvagni. Il suo assistito Massimo Bossetti, per l’accusa unico responsabile dell’omicidio della giovane di Brembate Sopra uccisa nel 2010, è in carcere dal 16 giugno del 2014 e da sempre dice di essere innocente. L’avvocato Salvagni ha fatto riferimento a quanto avvenuto nel corso delle ultime udienze del processo, quando in aula ha parlato Ezio Denti, consulente della difesa che si è scontrato con la pm Letizia Ruggeri. “Quando non si hanno argomentazioni tecniche si scade nel personale. Stupisce che siano stati spesi i soldi dei contribuenti per fare indagini sui consulenti della difesa. Non è il processo ai consulenti della difesa, è il processo a Massimo Bossetti”, ha detto Salvagni affermando anche che tutti ricordano quello che disse il ministro dell’Interno Angelino Alfano il giorno dell’arresto del muratore. Secondo il legale, dunque, il processo per l’omicidio di Yara Gambirasio “nasce e si sviluppa sotto questa luce”. “È sotto gli occhi di tutti come quest'uomo e la sua intera famiglia sono stati massacrati. Anche qualora fosse assolto, i segni indelebili di questo massacro resteranno sulla pelle della moglie, dei figli e di tutta la famiglia. Chi ha detto che Bossetti è l'assassino dovrà chiedere scusa, ma non credo che le scuse basteranno”, ha continuato parlando dell’uomo in carcere. Anche al termine dell’udienza di venerdì scorso Salvagni aveva parlato del suo assistito e in particolare della sua vita dietro le sbarre. “Un uomo che si dichiara innocente e che è innocente fino a sentenza definitiva, dopo 18 mesi di carcerazione, con un periodo di isolamento lunghissimo, non può che star da schifo. Io che lo vedo ogni tanto anche in carcere non posso che registrare questo suo stato d'animo di prostrazione”, aveva detto l’avvocato. Di “processo politico” ha parlato anche Ezio Denti, che ha affermato che non è possibile attaccare un consulente come ha fatto la pm Ruggeri nei suoi confronti mettendo in dubbio i suoi studi. Come si diceva, nelle ultime udienze del processo a carico di Bossetti per l’omicidio di Yara si è presentato dinanzi alla Corte Ezio Denti, che si è occupato del furgone apparso nelle registrazioni video nei pressi del luogo della sparizione di Yara. Il consulente di Bossetti, scontrandosi con la pm Ruggeri, ha di fatto contestato le modalità con cui gli investigatori hanno proceduto all’estrazione delle immagini delle telecamere. L’imputato, dal canto suo, ha fatto recentemente sentire la sua voce tramite una lettera fatta recapitare al settimanale “Oggi”. Nella lettera Bossetti accusa i media per il trattamento subito dal giorno del suo arresto e descrive la sua sofferenza per la vita in carcere, costretto a stare lontano dalla sua famiglia. L’ultimo “no” a Bossetti dei giudici alla richiesta di scarcerazione dei suoi avvocati è arrivato poco prima di Natale: per la seconda volta da quando è iniziato il processo e per la nona se si tiene conto anche della fase precedente dell’inchiesta i giudici hanno negato la libertà al muratore di Mapello. Il no della Corte è motivato dal pericolo di reiterazione del reato che non verrebbe scongiurato dal provvedimento degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico.
Come in un thriller, scrive di Umberto Brindani il 14 gennaio 2016 su Oggi.it - Blog del direttore -. Michael Connelly è, secondo me, il più grande scrittore di gialli vivente. Chi legge i suoi romanzi sa che vi si alternano (e a volte si incontrano) due protagonisti, che sono anche fratellastri. Il più noto è il poliziotto: Hieronymus “Harry” Bosch, che lavora per far condannare i cattivi e sbatterli in galera. L’altro si chiama Mickey Haller, è avvocato e il suo obiettivo è far assolvere gli imputati e metterli fuori, liberi. Ovviamente tra i primi, l’Accusa, e i secondi, la Difesa, c’è sempre qualcuno che gioca sporco (altrimenti che legal thriller sarebbero?). Alla fine, spesso non vince nessuno dei due, e non sempre trionfa la Giustizia. Proprio come nella realtà. Proprio come da noi. Perché vi cito Connelly? Per spiegare il senso della nostra copertina su Massimo Bossetti e l’omicidio di Yara Gambirasio. Una copertina che, lo so già, farà storcere il naso a più di un lettore. In particolare a coloro che sono graniticamente certi che il muratore di Mapello sia il carnefice della povera ragazzina. Chiarisco subito: né io né il nostro giornale siamo “innocentisti”. E neppure siamo “colpevolisti”. Chi siamo noi per saperlo? Chi siamo noi (o voi) per deciderlo? Per questo esiste la civiltà giuridica, esistono le indagini, i processi, gli indizi, le prove, i giudici. Per questo esiste la Giustizia con la G maiuscola. Che però talvolta, come nei romanzi di Connelly, non funziona a dovere. Purtroppo sta accadendo per Bossetti ciò che è già successo in molti altri casi di cronaca nera che hanno colpito tutti. C’è un omicidio che suscita sdegno (tanto più se compiuto ai danni di una innocente, una adolescente che potrebbe essere la figlia di ciascuno di noi), gli inquirenti lavorano, trovano un sospetto, lo incolpano formalmente, lo arrestano… e a questo punto, per l’opinione pubblica, il tizio è già condannato. Il mostro è lui (noi stessi, quando presero Bossetti, in redazione gridammo al “mostro”). Tutto il resto, il processo, il dibattimento, l’esame degli indizi eccetera, diventa un fastidioso contorno che rallenta l’esito considerato inevitabile. E’ successo con Amanda e Raffaele, con Raniero Busco, con Olindo e Rosa, con Alberto Stasi. Peccato che poi, dopo i vari gradi di giudizio, alcuni di questi “presunti colpevoli” siano stati condannati, e altri clamorosamente assolti. Le lezioni del passato dovrebbero dunque consigliare prudenza, soprattutto a chi ha la responsabilità di informare l’opinione pubblica, mentre spesso assistiamo a una acritica adesione alle tesi accusatorie (magari per tenersi buoni i magistrati che poi passano ai giornali le veline, oops, le notizie). Un po’ lo capisco. E’ un affare complicato quello di mettersi in discussione, andare a riesaminare ciò che sembra scontato, farsi venire dei dubbi. Non si può pretendere che lo faccia il comune lettore, e forse neppure il singolo giornalista. Ma altri dovrebbero farlo eccome. Nel nostro ordinamento, Accusa e Difesa hanno ovviamente ruoli diversi, come Bosch e Haller. Ma mentre la Difesa mira soltanto alla tutela dell’imputato, che egli sia colpevole o innocente, l’Accusa avrebbe in realtà un dovere duplice. E cioè anche quello di trovare eventuali prove a discarico. Se un pubblico ministero si imbatte in un’evidenza a favore dell’imputato, non può nasconderla, non può archiviarla. E sapete perché? Perché la Procura della Repubblica non dovrebbe puntare semplicemente alla condanna. Deve mirare alla ricerca della verità. L’intero processo va alla ricerca della verità dei fatti, tant’è vero che, si sa, le prove non sono nulla prima del dibattimento: le prove si formano durante il dibattimento. E quelle che prima sembravano prove inconfutabili, durante il processo possono rivelarsi abbagli, equivoci, fraintendimenti. E’ già successo, succederà ancora. Se però l’Accusa passa dalla ricerca della verità alla dimostrazione di un teorema, allora sbanda. Se si cercano conferme a una tesi precostituita non si fa un buon servizio alla Giustizia. Io non so se questo stia avvenendo con Bossetti, ma di sicuro, come potete leggere nei servizi, è in corso un processo piuttosto bizzarro. Personalmente, non sono interessato alla sorte del muratore: se sarà dichiarato colpevole, che marcisca in galera, e a volte mi viene da pensare che la galera sarebbe poco. Sono però fortemente interessato alla (vera) giustizia per Yara. E alla giustizia per tutti noi. Perché il processo in corso a Bergamo è un banco di prova per capire se e come funzionano le indagini, se e come funziona il meccanismo accusatorio. In definitiva se e come funziona la Giustizia in Italia.
I limiti strutturali del processo indiziario, scrive Luca Cheli. La natura del processo indiziario nel diritto penale italiano ha origine nella distinzione tra “prova diretta o storica” e “indizio” in quanto elementi di prova. Cercando di non complicare troppo le definizioni, a cui sono stati dedicati interi libri, la prova diretta o storica è la rappresentazione diretta del fatto da provare (tramite fotografia o testimonianza, per esempio), mentre l’indizio e un fatto (certo nella sua esistenza, almeno in teoria) dal quale può essere inferenzialmente dedotto il fatto da provare. Anche la prova diretta non è automaticamente “verità sicura”, perché le testimonianze devono essere valutate nella loro credibilità e le fotografie (per esempio) nella loro autenticità. Tuttavia, se tre persone vedono da pochi metri di distanza Tizio sparare a Caio e una delle tre persone riprende pure l’atto con il proprio smartphone, si può dire, una volta verificato che i testimoni non hanno motivo di mentire o di coalizzarsi contro Tizio e che il filmato ripreso non è stato alterato in qualche modo, che la colpevolezza di Tizio è provata oltre ogni ragionevole dubbio. Se invece il teste Uno riferisce di dissapori tra Tizio e Caio, il teste Due di aver visto, poco prima del fatto, Tizio vicino alla zona dove Caio è stato ucciso ed il teste Tre di aver sentito una volta Tizio parlare di una vecchia pistola che suo nonno aveva sottratto ai tedeschi in ritirata durante la Seconda Guerra Mondiale, allora siamo in presenza di indizi. Questo perché nessuna delle tre testimonianze è diretta rappresentazione del fatto da provare (che Tizio abbia sparato a Caio), ma ognuna riporta un fatto noto e certo (ma su questo torneremo), dal quale si potrebbe dedurre che Tizio abbia effettivamente sparato a Caio: perché ne aveva il movente (dissapori), il mezzo (pistola del nonno) e l’opportunità (è stato visto nelle vicinanze della zona del delitto poco prima che questo avvenisse). In questo secondo caso il processo a Tizio per l’omicidio di Caio sarebbe un processo indiziario. Ho volutamente presentato un caso di processo indiziario molto “semplice” che probabilmente farà propendere la maggioranza dei lettori per la “probabile” colpevolezza di Tizio. Ma persino così le cose non sono affatto “semplici”. In effetti, cosa lega i tre fatti noti (forniti dai tre testimoni) al fatto ignoto da provare (Tizio ha o non ha sparato a Caio)? Essenzialmente la nostra (del lettore o del giudice fa poca differenza) logica, ovvero il modo in cui la nostra mente ritiene che da certi fatti ne debbano, con maggior o minore probabilità, derivare degli altri. Insomma molti di noi penseranno che se Tizio ce l’aveva con Caio, se aveva una pistola ed era pure stato visto vicino alla scena del crimine poco prima che lo stesso avvenisse... deve essere con ogni probabilità colpevole. Il ragionamento costitutivo alla base del processo indiziario presenta una certa analogia con la formula che permette, nella geometria euclidea, di ottenere il valore di uno dei tre angoli interni di un triangolo conoscendo l’ampiezza degli altri due. In questa analogia si potrebbe dire che la prova diretta è costituita dalla misurazione diretta dell’angolo di cui vogliamo conoscere l’ampiezza, mentre gli indizi sono costituiti dal valore dell’ampiezza degli altri due angoli interni del triangolo. Ora, nella geometria euclidea i due modi di ottenere il valore di uno degli angoli interni sono equivalenti perché la somma dei tre vale sempre 180 gradi. Abbiamo cioè una regola certa, sicura ed invariante. Ma la realtà delle cose, degli eventi, della vita non fornisce mai la rassicurante certezza delle formule di Euclide. E allora cosa succede? Parlando con un linguaggio diverso e meno aulico rispetto a quello dei tomi di giurisprudenza, dirò che alla fine dei conti si va per “probabilità”, ma una probabilità non quantificata e ben difficilmente quantificabile: un “mi pare”, “mi sembra”, “credo”. Ovviamente nelle motivazioni i giudici togati usano altre espressioni, ma chi ha letto qualche sentenza si ricorderà di espressioni quali “è ragionevole ritenere”, “risulta credibile”, “questo Giudice ritiene” e così via, che sostanzialmente sono la rappresentazione in termini “giuridicamente corretti” (e presentabili) delle valutazioni a spanna di cui sopra. Perché, sia chiaro, i giudici professionisti conoscono senz’altro la procedura e gli aspetti tecnici del diritto meglio di un dilettante, quale l’autore del presente articolo, tuttavia, quando si tratta di applicare la “logica” in un processo indiziario alla fondamentale domanda “colpevole o innocente”, essi non hanno più strumenti del cittadino medio. E d’altronde di cittadini medi è formata la maggioranza (6 su 8) dei membri delle Corti di Assise e di quelle di Appello del nostro Paese. Non per caso, infatti, di “libero convincimento” del giudice parla il nostro ordinamento: per quanto possano essere nobili le origini storiche di quell’espressione, di fatto si parla sempre, in ultima analisi, di una convinzione soggettiva e individuale. Infatti, cosa lega la pistola del nonno di Tizio, la presenza del medesimo nelle vicinanze della zona del crimine e i suoi dissidi con Caio all’omicidio di quest’ultimo? Non c’è nessuna regola dei centottanta gradi, nessuna formula matematica: ci sono solo le nostre considerazioni su cosa riteniamo più o meno probabile o ragionevole. La pistola del nonno potrebbe essere un ferrovecchio arrugginito ed inutilizzabile che Tizio non sa nemmeno più dove sia o che può aver buttato per inutilità dopo averne parlato al teste Tre svariati mesi (o anni) prima del delitto, la presenza di Tizio in prossimità del luogo del crimine una mera coincidenza e i dissapori con Caio la rappresentazione amplificata post omicidio di piccole beghe che ognuno di noi può avere. Una certa linea di pensiero, molto sfortunatamente spesso in Italia fatta propria anche dalla Cassazione, sostiene che gli indizi vanno considerati globalmente, con l’implicito corollario che se anche ognuno di essi può essere spiegato diversamente, quando vengono considerati collettivamente allora assumono un valore probatorio non solo superiore ma addirittura determinante (in una delle peggiori sentenze recenti della Cassazione, questo processo è stato definito “valutazione osmotica”). Con buona pace dei Soloni più o meno variamente togati ed imparruccati di questo mondo, per quanto la presenza di più indizi certamente rafforzi un possibile quadro accusatorio rispetto ad un numero inferiore dei medesimi, ciò che essi vanno a formare è una possibile rappresentazione degli eventi, mai l’unica e spesso neppure la più probabile. Sì, certo, se a casa di Tizio dovesse essere trovata una Luger P08 la cui rigatura della canna coincide con i segni sulle pallottole estratte dal corpo di Caio, e magari pure un diario scritto di proprio pugno da Tizio in cui questi esprime il proprio odio per Caio e lo minaccia ripetutamente di morte, allora direi che la probabilità che Tizio sia colpevole è alta. Ma quanto, in percentuale? Ottanta, ottantacinque, novanta, novantacinque, novantanove per cento? Come potrei quantificarla? E se anche potessi quantificarla, quale sarebbe la “soglia” probabilistica oltre la quale sarebbe giusto condannare? E se, come spesso succede con le perizie, quelle rigature sono solo compatibili con quelle sui proiettili? E se Tizio avesse scritto frasi simili sul suo diario anni prima nei confronti di Sempronio e Calpurnia, senza mai aver poi fatto loro alcun male? Quanto cambierebbero le mie probabilità? Il punto fondamentale, alla fine di tutto, è che non abbiamo alcuna regola certa e matematica; pensiamo di avere una logica, ma anche questa, in ultima analisi, quanto si distingue dalle nostre sensazioni ed impressioni? Un’ultima parola la riservo alle famigerate prove scientifiche, che dovrebbero quantomeno portare qualche saldo elemento numerico-quantitativo nella nebbia probabilistica (ma sarebbe meglio dire “possibilistica”, visto che si parla di probabilità non propriamente quantificabili). Purtroppo, nella realtà delle perizie e consulenze tecniche come esse oggi sono in Italia, la prevalenza di espressioni qualitative quali “compatibilità”, “non incompatibilità”, nonché spesso “opinioni d’esperto” non suffragate da studi quantitativi, non fa che aggiungere altra foschia al già indistinguibile paesaggio della verità fattuale. Gianrico Carofiglio, nella sua opera “L’arte del dubbio” definisce il risultato di un processo come “individuazione di verità accettabili nella prospettiva dell’adozione di decisioni preferibili”. Verità accettabili, decisioni preferibili. E’ un linguaggio che mi suona tremendamente “politico”. Se dovessi decidere di condannare qualcuno a pene detentive, io vorrei avere verità certe e decisioni giuste, altrimenti non me la sentirei mai. Ma certo capisco che se uno ragiona in termini di mantenimento dell’ordine nella società (e questo è un ragionamento politico), allora si può ambire a verità credibili per la società stessa e a decisioni preferibili per l’effetto che esse hanno sulla stabilità della società medesima. Però sia chiaro che stiamo parlando di stabilità e controllo della società, non di giustizia per la vittima, per i famigliari, eccetera, eccetera. Abbandoniamo quindi una certa retorica facile a sentirsi sui giornali e in TV e chiediamoci semplicemente se in realtà non abbiamo bisogno del processo indiziario per scopi di ordine sociale e quindi, in ultima analisi, di stabilità dello Stato. Possiamo anche rispondere positivamente, ma a quel punto non stiamo più facendo giustizia, ma solo politica.
Bossetti a Brescia per i domiciliari. Tra pochi giorni la decisione del riesame. Ci vorranno alcuni giorni prima di conoscere la decisione del Tribunale della Libertà di Brescia presieduto dal giudice Michele Mocciola sulla richiesta degli arresti domiciliari per Massimo Bossetti, scrive “L’Eco di Bergamo” il 26 gennaio 2016. Il carpentiere di Mapello ha presenziato all’udienza nella mattinata di martedì 26 gennaio e, pur potendo fare dichiarazioni spontanee, ha preferito restare in silenzio. Con lui gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini. I legali hanno rinnovato la richiesta degli arresti domiciliari con braccialetto elettronico: si tratta della decima istanza. Il ricorso è contro la decisione della Corte di Assise di Bergamo presentata prima di Natale e rifiutata sempre in quei giorni con motivazioni ormai note. Massimo Bossetti secondo la Corte deve infatti rimanere in carcere perché «esiste ancora il pericolo di reiterazione del reato». «Abbiamo ribadito che secondo noi la sentenza della Corte d’Assise di Bergamo è carente di motivazioni» ha detto l’avvocato Claudio Salvagni al termine dell’udienza, durata mezz’ora. «La normativa propone un cambio epocale per applicare misure coercitive e lo abbiamo sottolineato» ha continuato Salvagni, che ha poi aggiunto: «Bossetti non ha parlato in aula ma confida nell’ accoglimento della richiesta. Processualmente stiamo assistendo ad un quadro accusatorio che si sta sgretolando sempre più». Presente anche il pm Letizia Ruggeri: «Sulla custodia cautelare in carcere non c’è più nulla da discutere - ha tagliato corto il pubblico ministero -. C’è già un giudicato cautelare con la Corte di Cassazione che si è già pronunciata due volte».
"La legge dice che la misura cautelare estrema deve essere applicata solo quando tutte le altre misure sono inadeguate. Devono spiegarci quali reati può commettere chiuso in casa ccon il braccialetto elettronico, scrive “Il Secolo XIX” . Oggi questa risposta non ci è stata data, ma questa è la legge". Lo ha detto Paolo Camporini, legale di Massimo Bossetti - accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio - al termine dell'udienza che si è svolta in tribunale a Brescia, durante la quale è stata chiesta la revoca della misura cautelare in carcere per lo stesso Bossetti. "Lui - ha spiegato l'avvocato - sta scontando preventivamente una pena che potrebbe non dover scontare". "Ci ha detto che spera che questa sia la volta buona", ha aggiunto il secondo legale, Claudio Salvagni.
I legali di Bossetti: "Le accuse si stanno sgretolando". "Abbiamo ribadito che secondo noi la sentenza della Corte d’Assise di Bergamo è carente di motivazioni", scrive Mario Valenza, Martedì 26/01/2016, su “Il Giornale”. "Abbiamo ribadito che secondo noi la sentenza della Corte d’Assise di Bergamo è carente di motivazioni". Lo ha detto l’avvocato Claudio Salvagni al termine dell’udienza, durata mezz’ora, davanti al tribunale del Riesame di Brescia, per discutere il ricorso del suo assistito Massimo Bossetti contro la decisione dei giudici della Corte d’assise di Bergamo che hanno negato gli arresti domiciliari al muratore imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio. "La normativa propone un cambio epocale per applicare misure coercitive e lo abbiamo sottolineato", ha spiegato Salvagni, che ha poi aggiunto: "Bossetti non ha parlato in aula ma confida nell’ accoglimento della richiesta. Processualmente stiamo assistendo ad un quadro accusatorio che si sta sgretolando sempre più". La difesa di Massimo Bossetti ha chiesto ai giudici della corte d’assise di Bergamo che sia disposta una perizia riguardo le fibre trovate sugli indumenti di Yara Gambirasio, che i Ris ritengono "compatibili" con quelle repertate sui sedili del furgone Fiat Daily del muratore di Mapello. Gli avvocati Claudio Salvagni e Claudio Camporini hanno più volte evidenziato delle presunte lacune e contraddittorietà nell’elaborato dei consulenti della procura. I giudici decideranno se disporre la perizia dopo aver sentito il consulente merceologico della difesa. La difesa, nelle precedenti udienze, aveva chiesto anche una perizia sulle immagini analizzate dai Ris, riguardanti un furgone (ritenuto quello di Bossetti), prese dalle telecamere di sorveglianza della zona della palestra dalla quale Yara scomparve il 26 novembre 2010. Il processo ricomincerà il 29 gennaio. Ci sarebbe una seconda lettera scritta a settembre da Massimo Bossetti per i genitori di Yara Gambirasio, dopo quella inviata nel luglio scorso, prima dell'inizio del processo, scrive “Il Giorno”. A riferirlo è l'avvocato Claudio Salvagni, uno dei legali del muratore di Mapello. Come avvenuto per la precedente missiva, anche in questo caso la lettera è stata trasmessa al legale. Bossetti, come per la prima epistola, ha chiesto la segretezza del contenuto e l'apertura solo a processo terminato.
Caso Yara, carpigiano in difesa di Bossetti. Carpi. L’ingegnere Vittorio Cianci esperto di analisi tessili consulente nel processo: «Gli accertamenti sui campioni di sedili e vestiti della giovane sono da rifare», scrive Rino Filippin su “La Gazzetta di Modena” del 26 gennaio 2016. Tra gli innocentisti sul caso Bossetti (come noto indagato per l’omicidio di Yara Gambirasio), c’è anche un carpigiano. Si tratta di Vittorio Cianci, ingegnere, specialista di analisi tessili con 50 anni di esperienza alle spalle e titolare in città del laboratorio Lart. Sarà proprio lui che venerdì mattina, in Tribunale a Bergamo, spiegherà al giudice perché è improbabile che le fibre tessili trovate sul vestito della povera Yara siano le stesse dei sedili del furgone che utilizzava Massimo Bossetti.
«Io non sono convinto che Bossetti sia il colpevole - commenta Cianci - ci sono troppe cose poco chiare per formulare una condanna certa. Per quanto mi riguarda sono stato nominato dalla difesa consulente per la questione delle fibre di poliestere: non è dimostrato che quel materiale individuato sui vestiti di Yara sia lo stesso prelevato sul furgone di Bossetti».
Perché il legale di Bossetti si è rivolto proprio a lei?
«Probabilmente perché abbiamo una reputazione a livello nazionale, ma anche perché non è stato trovato nessun altro laboratorio disponibile».
Da quanto tempo si sta occupando del caso?
«Da sei mesi e tenga presente che è tutto volontariato, nel senso che per questo impegno non percepisco un euro. Ho voluto impegnarmi per dare una mano a un povero diavolo che, ripeto, secondo me è innocente. D’altra parte anche i legali dell’imputato stanno lavorando gratuitamente: un muratore non può pagare...».
Cosa c’è che non va nelle analisi dei campioni tessili portate dalla pubblica accusa?
«Intanto la media delle misurazioni effettuate sulle fibre del furgone è stata fatta su 4 campioni mentre sarebbe stato utile farla almeno su 300 campioni. Poi manca l’analisi della composizione dei polimeri del poliestere prelevato. Credo che anche questo dato sarebbe stato molto utile ai fini della verità processuale».
Insomma analisi tutte da rifare?
«In laboratorio usiamo standard basati su protocolli e ritengo che certe analisi andrebbero ripetute».
In che modo?
«Di più non posso dire. Lo riferirò venerdì al giudice».
29 GENNAIO 2016. VENTIQUATTRESIMA UDIENZA. PARLA VITTORIO CIANCI ED IL RIS MATTEO DONGHI.
Processo Bossetti, volano parole grosse. Il giudice richiama il pm e gli avvocati. Sono volate parole grosse, con accuse di falso, alla nuova udienza del processo a Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio, scrive “l’Eco di Bergamo”. La prima parte dell’udienza: depone l’esperto della difesa. «Non si possono comparare le fibre trovate sul corpo di Yara Gambirasio con quelle del furgone di Massimo Bossetti». Lo sostiene l’esperto chiamato dalla difesa del muratore di Mapello. Gli avvocati dell’unico accusato per la morte della ragazzina di Brembate Sopra si sono rivolti a Vittorio Cianci, già noto alle cronache per essere stato in passato il consulente dei Ros dei Carabinieri sul caso di “Unabomber”. In alcuni casi, ha spiegato Cianci nel suo intervento, non c’è sovrapponibilità, quindi non c’è compatibilità fra le fibre trovate sul corpo e sul furgone. «Sulla base della mia perizia le fibre non si possono dunque comparare - ha detto Vittorio Cianci - e non c’è alcuna compatibilità per quanto riguarda il loro colore perché si tratta di due colori diversi». L’esperto ha poi contestato il metodo che è stato utilizzato per la raccolta dei campioni, cioè con strip adesive. Un metodo che - ha spiegato - non è riproducibile o ripetibile. Secondo Cianci serve uno strumento ad hoc per effettuare questi prelievi. Si è anche soffermato a sottolineare la quantità di materiale recuperato: le fibre trovate sul corpo assommano a 20 milionesimi di grammo, tanto da ottenere una fibra di 1,8 centimetri. Per l’esperto della difesa alcune analisi non sarebbero state effettuate con rigore scientifico, rispettando le normative Iso: in particolare i reperti sarebbero stati ingranditi, per essere paragonati, solo 100 volte invece che 500 e senza utilizzare l’olio di cedro, che mette in evidenza i particolari. Dopo la pausa l’udienza è ripresa in ritardo per un problema tecnico all’audio del testimone. I in aula è stata subito tensione quando il pm Letizia Ruggeri ha chiesto quali siano le competenze e i titoli di Vittorio Cianci, sottolineando anche che la sua società ha un certificato scaduto (accusa subito rispedita al mittente dal perito della difesa). Gli avvocati di Bossetti, Paolo Camporini e Claudio Salvagni, si sono ribellati, accusando il pm di soffermarsi solo sulle competenze dell’esperto e non sulla sostanza. Quando il pm ha sottolineato che l’esperto ha portato documenti falsi, perché a suo parere privi di valenza scientifica, e che li stava contrabbandando in aula, è stato il caos. Tanto che il presidente della Corte, Antonella Bertoja, ha fermato i lavori e ha definito come non più sopportabile il comportamento sia del pm che degli avvocati difensori, minacciando provvedimenti. Già una precedente udienza, durante l'audizione di un altro consulente della difesa, Ezio Denti, la presidente aveva sospeso la seduta proprio per il caos. Tornata la calma, l’avvocato Camporini ha ventilato l’idea di arrivare a chiedere un’altra perizia, sottolineando come ci voglia veramente poco per rifare l’esame.
La seduta è stata piuttosto tranquilla, con una sola interruzione, quando la presidente della corte Antonella Bertoja ha richiamato due ragazze del pubblico che disturbavano, scrive, invece, “Il Giorno”. Si torna in aula con il processo che vede imputato Massimo Giuseppe Bossetti per l'omicidio di Yara Gagambirasio. Al centro dell'udienza di questa mattina c'è l'acquisizione delle fibre dai sedili del muratore di Mapello e il loro confronto con quelle reperite sugli indumenti della 13enne. Secondo la Procura sui leggings di Yara sono state trovate fibre dei sedili del furgone di Bossetti. In aula è intervenuto il consulente tecnico della difesa Vittorio Cianci, esperto di analisi tessili e iscritto all'albo dei periti tessili del Tribunale di Treviso. Cianci ha contestato sia le modalità di acquisizione dei campioni, sia la validità dei confronti. "Le fibre a disposizione, stando agli atti, sono di soli 20 milionesimi di grammo - ha spiegato -. Inoltre le analisi devono seguire norme e protocolli scientifici che i Ris non hanno seguito". L'esempio più evidente sarebbe, a dire del perito della difesa, il fatto che, per le fibre del furgone, non sia stato usato un microscopio con ingrandimento di 500 volte, ma solo a 100 volte (per gli abiti, invece, è stato usato l'ingrandimento a 500). "Serve un rigore scientifico con norme internazionali che non sono state usate, per esempio, nell'utilizzo dello strip di tampone - ha detto Cianci -. Non ho inoltre trovato agli atti il tipo di intreccio dei tessuti. Inoltre lo spettro fotometrico non consente la sovrapponibilità delle curve dei colori delle fibre che, a mio avviso, sono dunque diversi". "Sulla base della mia perizia le fibre non si possono dunque comparare - ha aggiunto Vittorio Cianci - e non c'è alcuna compatibilità per quanto riguarda il loro colore perché si tratta di due colori diversi". Inoltre il perito della difesa ha sottolineato come fosse poco il materiale a disposizione, trattandosi di "29 fibre, poi ridotte a 12, per un peso complessivo di soli venti milionesimi di grammo". "Non è inoltre indicato il tipo di poliestere delle fibre prelevate dal furgone di Bossetti - ha aggiunto il perito - e per il confronto non è stato utilizzato nemmeno l'olio, previsto invece dalle norme scientifiche". Nella seconda parte dell'udienza il perito verrà poi interrogato dal pm Letizia Ruggeri nel controesame. La seduta è stata piuttosto tranquilla, con una sola interruzione, quando la presidente della corte Antonella Bertoja ha richiamato due ragazze del pubblico che disturbavano: "Non c'è il silenzio necessario, che deve essere quello assoluto - ha intimato -: è l'ultimo avviso, seguirà l'espulsione".
Yara, su vestiti migliaia particelle di ferro, scrive "Dazebao". Parla chiaro la relazione firmata dal colonnello Matteo Donghi, comandante della Sezione balistica del Ris di Parma sull’omicidio di Yara Gambirasio, la tredicenne scomparsa a Brembate di Sopra il 26 novembre 2010 e ritrovata morta tre mesi dopo in un campo di Chignolo d'Isola. Sui leggins, la giacca, la maglietta e le scarpe della giovane ragazza sono state rintracciate "migliaia" di microparticelle di ferro per lo più ossidate da ossigeno. Lo stesso materiale è stato poi prelevato dai sedili del furgone di Massimo Bossetti "in quantità similari". L'alto ufficiale, nominato consulente del pm Letizia Ruggeri, è stato ascoltato oggi come testimone nell'aula del processo a carico del carpentiere di Mapello, unico imputato. Il colonnello Donghi ha illustrato ai giudici della Corte d'assise di Bergamo i risultati della sua relazione, precisando che sugli indumenti della vittima la quantità di microparticelle di ferro era pari a 267 microgrammi per metro cubo una "quantità significativa", che secondo l'esperto del Ris potrebbe essere stata provocata da un'attività di tornitore o di fabbro saldatore: "Sono quantità assimilabili con quelle che si rintracciano normalmente sulle tute blu dei metalmeccanici", ha spiegato in aula il militare che, tra l'altro, ha condotto una sperimentazione su quattro coetanee di Yara "per verificare se qualche attività adolescenziale potesse generare una quantità di microparticelle di ferro di questa natura". I risultati sono stati negativi o solo debolmente positivi: "Nessuna attività tipica di un tredicenne può generare questa quantità di particelle". Perplessi i difensori di Bossetti. In particolare l'avvocato Paolo Camporini ha ricordato in aula che "il padre di Yara lavora nel campo dell'edilizia" e si è chiesto se le microparticelle ferrose analizzate o rintracciate sui vestiti della tredicenne possono essere il frutto di una contaminazione dai sedili dell'auto del padre. "Se il padre di Yara fa il saldatore o il tornitore, è possibile", è stata la risposta del colonnello del Ris. Il difensore di Bossetti ha poi domandato per quale motivo la sperimentazione sia stata effettuata su coetanei di Yara residenti nell'area di Parma, e non sui suoi amici più stretti, quelli che come lei vivono nella zona di Brembate e frequentano la polisportiva del paese. Il colonnello Donghi ha sottolineato che la localizzazione geografica dei giovani oggetto della sperimentazione non è un elemento significativo.
Intanto. Dieci "no" ai domiciliari per Bossetti. Ieri l’ennesimo ricorso dei suoi legali respinto dal Tribunale del Riesame Gli avvocati avevano chiesto gli arresti a casa col braccialetto elettronico, scrive Angela Di Pietro il 31 gennaio 2016 su “Il Tempo”. Decima richiesta bocciata: Massimo Bossetti resta in carcere. Ieri mattina il Tribunale del Riesame di Brescia ha rigettato il ricorso presentato dai legali del muratore di Mapello accusato di avere ucciso la ginnasta tredicenne Yara Gambirasio. Claudio Salvagni e Paolo Camporini, agguerriti difensori di Bossetti, avevano chiesto gli arresti domiciliari con l'applicazione del braccialetto elettronico, motivando l'ennesimo ricorso con una riflessione attraversata da accuse micidiali nei confronti (soprattutto, ma non solo) degli organi di stampa, accusati di aver individuato nel loro assistito l'unico e possibile omicida dell'adolescente di Brembate di Sopra, scomparsa la sera del ventisei novembre 2010 e ritrovata senza vita, nascosta tra le sterpaglie, tre mesi dopo. La ragazzina con l'apparecchio ai denti e la passione per l'aerobica era stata trafitta da otto coltellate lievi ed era morta di freddo la stessa sera del rapimento, guardando il cielo ghiacciato e senza stelle di Chignolo d'Isola. Gli avvocati hanno chiesto ai giudici, nel loro ultimo esposto, quali siano i motivi che li spingano a temere una «reiterazione del reato» da parte dell'operaio. E hanno aggiunto che «la vicenda ha assunto un tale clamore mediatico da far temere, come sta avvenendo, condizionamenti extraprocessuali da parte di un'opinione pubblica forcaiola, alimentata sin dall'arresto dell'imputato da informazioni distorte a senso unico, che stanno emergendo in dibattimento, peraltro soltanto all'inizio di una lunga istruttoria». I difensori hanno aggiunto che «la giustizia mediatica ha assunto dimensioni e incisività tali da offrire uno scenario processuale alternativo a quello legale, capace di radicarsi profondamente nell'immaginario collettivo». La pur volenterosa arringa arrivata al Tribunale del Riesame non ha spostato di una virgola le convinzioni dei magistrati. Va ricordato che tre ricorsi erano stati in precedenza rigettati dal Gip, due dalla Corte di Assise, due dalla Cassazione e tre (fra i quali quello di ieri) dal Riesame, da quando Bossetti è stato arrestato, il quattordici giugno 2004. Salvagni e Camporini hanno incassato esibendo il consueto piglio: il processo è lungo, hanno lasciato intendere. Contestualmente al diniego del Riesame, continuano a volare scintille durante le udienze del processo contro l'operaio accusato dell'omicidio di Yara. Venerdì scorso era stata la testimonianza del perito della Difesa Vittorio Cianci a provocare l'ennesimo scontro tra pubblico ministero e difensori. Cianci in sostanza ha dichiarato come «non si possano comparare le fibre trovate sul corpo di Yara Gambirasio con quelle del furgone di Massimo Bossetti», sconfessando di fatto la testimonianza degli esperti del Ris di Parma secondo i quali le fibre sono invece sovrapponibili. Letizia Ruggieri, il pm a cui si deve la sofisticata indagine che ha portato all'identificazione di Bossetti, ha replicato contestando i titoli acquisiti dal perito in questione e sostenendo come si stesse «contrabbandando» in aula una falsa verità. Apriti cielo. Il diverbio che ha fatto seguito alle dichiarazioni del pubblico ministero ha suggerito al presidente della Corte, Antonella Bertoja, di bacchettare tutti, pm e avvocati difensori.
3 E 12 FEBBRAIO 2016. VENTICINQUESIMA E VENTISEIESIMA UDIENZA. PARLANO I GENETISTI GIORGIO PORTERA, MARZIO CAPRA E SARAH GINO.
Il 2 febbraio, alla vigilia delle udienze dedicate alla questione del Dna, in programma il 3 e 5 febbraio, il genetista Marzio Capra, consulente della Difesa, dice al settimanale Oggi: “Comunque finisca questo processo, se il mistero (dell’assenza di Dna mitocondriale dell’imputato sulla traccia dove fu isolato il suo Dna nucleare) non sarà chiarito avremo una sentenza con un buco nero…”. Anche il colonnello Giampietro Lago, comandante del Ris di Parma, in aula aveva ammesso: “Non so spiegarmelo. Non mi era mai capitato”. Marzio Capra quindi prosegue: Gli altri avanzano solo ipotesi. Ma non hanno saputo dare una spiegazione scientifica. Non basta dire: è una anomalia. Perché in laboratorio le anomalie vanno contro le regole e le conoscenze. Vanno contro la scienza. E se per l’Accusa il Dna è la prova regina io dico che la prova regina manca. Non c’è. Vogliamo far finta di niente? Non si può. A Oggi Capra, che per più di un mese ha analizzato i cosiddetti dati grezzi, cioè la radiografia del lavoro fatto dal Ris per arrivare al Dna di Bossetti, dichiara ancora: “Io ho cercato i punti fermi, quelli dimostrabili. E sono arrivato a una conclusione: c’è stato un errore… Come mai è sparito il mitocondriale che è la parte più resistente del Dna? Mi rifiuto di pensare a una manipolazione. L’unica alternativa è l’errore umano”.
Yara, il vero processo inizia ora. La difesa “smonta” la prova del dna, scrive “Bergamo Post” il 4 febbraio 2016. C’è qualcosa che non va nella traccia di dna isolata sugli slip di Yara. Lo ha sostenuto ieri Marzio Capra, ex Ris e super consulente della difesa di Bossetti. Quella che per l’accusa (e per Giorgio Portera, consulente di parte civile) è una traccia che contiene il modo “inequivocabile” il profilo del muratore, per Capra è un campione che non dà certezze. Anzi contiene, secondo lui, addirittura un dna mitocondriale di un misterioso Ignoto 2. Quello dell’imputato invece non c’è, ed è acclarato. Secondo i consulenti della procura i motivi possono essere diversi (degradazione in primis), ma per Capra «non ci sono spiegazioni scientifiche». Punto su cui concorda l’altro pezzo da novanta ingaggiato dalla difesa, la professoressa Sarah Gino, genetista dell’Università di Torino, già consulente di Amanda Knox a Perugia. Conclusione: il profilo non può essere attribuito a Bossetti, semplicemente perché manca un “pezzo”. Capra è andato giù duro e ha stroncato le comparazioni genetiche del Ris parlando in alcuni casi di «esiti schifo». La pm Letizia Ruggeri ha incassato, chiedendo qualche giorno di tempo per preparare il controesame. Di sicuro, stavolta non potrà partire attaccando le competenze di Capra. Che è un genetista di fama indiscussa. Docente alla Statale, fu consulente della famiglia Poggi nel processo a Stasi e investigò anche sulle Bestie di Satana. Il vero processo inizia adesso.
Bossetti, la consulente della difesa: «Sui vestiti 7 peli non di Bossetti». Nell’udienza di mercoledì 3 febbraio le deposizioni dei genetisti. In aula per primo Giorgio Portera, consulente della parte civile della famiglia di Yara Gambirasio: ha spiegato come si arrivò a stabilire che Ignoto 1, che successive indagini stabilirono essere Massimo Bossetti, era figlio naturale dell’autista di autobus Giuseppe Guerinoni, morto nel 1999. Poi in aula anche la genetista Sarah Gino e il biologo Maurizio Capra, consulenti della difesa, scrive “L’Eco di Bergamo” del 3 febbraio 2016. Ad avviso del consulente dalla difesa Marzio Capra, già impegnato in numerosi casi, tra cui l’omicidio di Chiara Poggi, il fatto che non corrisponda il Dna nucleare di Massimo Bossetti con nessuno dei dna mitocondriali trovati sul corpo di Yara «non ha nessuna giustificazione scientifica». Marzio Capra, tra le altre cose, ha affermato a proposito del Dna nucleare che è stato attribuito a Bossetti che si tratta di «un pezzo di Dna e non di una traccia forense». Il biologo sta ripercorrendo quelle che a suo avviso sono le «anomalie» che si sarebbero verificate durante l’indagine scientifica. Per esempio, gli 11 dna scoperti sui resti della ragazzina: quelli di 7 peli che non appartengono a Bossetti, i due trovati su un guanto, quello dell’insegnante di ginnastica sul giubbotto e un dna mitocondriale che non è stato possibile affermare a chi appartenga nella traccia mista al centro del dibattito. Secondo Capra non sono stati approfonditi abbastanza. La genetista Sarah Gino, anche lei consulente della difesa, ha invece cominciato la sua deposizione valorizzando la presenza sugli indumenti che Yara Gambirasio indossava quando fu trovata uccisa di sette peli che non appartengono né alla vittima né al muratore di Mapello, unico imputato per l’omicidio della tredicenne. Un risultato, questo, a cui si giunse mediante l’analisi del Dna mitocondriale. La genetista ha ricordato come, dalle stesse indagini eseguite dagli esperti di Pavia, consulenti della Procura, era emerso che sul corpo della ragazza non erano state trovate formazioni pilifere riconducibili a Bossetti. Alcuni dei peli che sono risultati non appartenere né all’imputato né alla vittima furono trovati nella felpa della ragazza e, di conseguenza, per l’esperta, «non vi è stata contaminazione» sulla scena del crimine. Sarah Gino ha deposto unitamente all’altro consulente dalla difesa, il biologo Marzio Capra, già impegnato in numerosi casi, tra cui l’omicidio di Chiara Poggi. Prima di Sarah Gino ha deposto in aula Giorgio Portera, che ha ricordato come i dati ricevuti dalla Procura di Bergamo stabilissero una compatibilità tra la traccia di dna di Ignoto 1 e il dna di Guerinoni pari al 99,87%. «Facemmo un esperimento di laboratorio - ha detto il genetista - e stabilimmo che, con questa percentuale potevamo trovarci in presenza di una compatibilità casuale». Da qui la richiesta di riesumazione della salma di Guerinoni e successivi accertamenti che portarono ad una compatibilità del dna pari a 99,99% e la conclusione di essere arrivati ad una «paternità certa». Per il genetista Giorgio Portera, «in nessun caso il dna mitocondriale può avere valore identificativo». L’esperto lo ha detto nella sua deposizione nel processo per l’omicidio di Yara Gambirasio alla quale seguirà il controesame degli avvocati dell’unico imputato Massimo Bossetti. I difensori hanno più volte insistito sulla mancata corrispondenza tra il dna nucleare, che gli accertamenti hanno stabilito essere di Bossetti, e quello mitocondriale che invece non è del muratore di Mapello. Portera ha ricordato come l’analisi del dna nucleare avvenne all’inizio del 2011 mentre quello sul mitocondriale nel novembre-dicembre dello stesso anno. In quel periodo di tempo, secondo l’esperto, «potrebbe essere avvenuta qualsiasi cosa» in termini di variazione e quindi «sarebbero troppe le variabili». Il consulente ha concluso dicendo di riconoscersi totalmente negli accertamenti eseguiti dal Ris in ordine all’analisi del dna di Ignoto 1 e della sua compatibilità con quello di Giuseppe Guerinoni, l’autista morto nel 1999.
Bossetti, il processo si allunga. Mancano le relazioni, venerdì si salta. Quando Marzio Capra, genetista della difesa, conclude la sua interminabile esposizione, dai banchi della parte civile arriva la richiesta di ricevere la relazione scritta di quanto pronunciato durante il processo a Massimo Bossetti. «Ho parlato a braccio - replica Capra - ho le slide». Continua “L’Eco di Bergamo”. A questo punto l’avv. Andrea Pezzotta insorge: «Non è possibile lavorare in questo modo. È già accaduto in precedenza con i consulenti della difesa». Per dipanare la matassa, la presidente della Corte Antonella Bertoja si è rivolta alla stenografa per capire se vi fosse la possibilità di avere in tempi brevi la trascrivere degli interventi dei consulenti che hanno deposto per tutta la giornata di udienza che ha al centro la morte di Yara Gambirasio. «Sono più di sette ore di parlato», ha chiosato la stenografa, facendo capire chiaramente che sarebbe servito almeno un paio di giorni lavorativi per la trascrizione integrale delle deposizioni dei periti. E pertanto non in tempo utile per l’udienza già fissata per venerdì dedicata al controesame del consulente Capra da parte del pm Letizia Ruggeri. La mole di dati e considerazioni esposte dal genetista della difesa necessita del resto un approfondimento dell’accusa che intende preparare il controesame. Tutto ciò ha pertanto avuto come conseguenza l’annullamento dell’udienza fissata per venerdì e un aggiornamento dei lavori a venerdì 12 febbraio. E il processo si allunga.
Caso Yara, in aula la genetista: "Sui vestiti 7 peli non di Bossetti". Udienza cruciale dal momento che la corrispondenza tra il dna trovato sul corpo della 13enne e quello del muratore di Mapello è ritenuta la prova principale a carico dell'unico imputato, scrive “il Giorno” il 3 febbraio 2016. Nuova udienza del processo a carico di Massimo Giuseppe Bossetti, indagato per l'omicidio di Yara Gambirasio. Oggi, in aula, il primo a prendere la parola è stato il genetista Giorgio Portera, consulente della parte civile della famiglia della 13enne, che ha spiegato come si arrivò a stabilire che Ignoto 1, che successive indagini stabilirono essere Massimo Bossetti, era figlio naturale dell'autista di autobus Giuseppe Guerinoni, morto nel 1999. Portera ha ricordato come i dati ricevuti dalla Procura di Bergamo stabilissero una compatibilità tra la traccia di dna di Ignoto 1 e il dna di Guerinoni pari al 99,87%. "Facemmo un esperimento di laboratorio - ha detto il genetista - e stabilimmo che, con questa percentuale potevamo trovarci in presenza di una compatibilità casuale". Da qui la richiesta di riesumazione della salma di Guerinoni e successivi accertamenti che portarono ad una compatibilità del dna pari a 99,99% e la conclusione di essere arrivati ad una "paternità certa". Per il genetista Giorgio Portera, "in nessun caso il dna mitocondriale può avere valore identificativo". Portera ha ricordato come l'analisi del dna nucleare avvenne all'inizio del 2011 mentre quello sul mitocondriale nel novembre-dicembre dello stesso anno. In quel periodo di tempo, secondo l'esperto, "potrebbe essere avvenuta qualsiasi cosa" in termini di variazione e quindi "sarebbero troppe le variabili". La genetista Sarah Gino, consulente della difesa di Massimo Bossetti, ha cominciato la sua deposizione valorizzando la presenza sugli indumenti che Yara Gambirasio indossava quando fu trovata uccisa di sette peli che non appartengono né alla vittima né al muratore di Mapello, unico imputato per l'omicidio della tredicenne. Un risultato, questo, a cui si giunse mediante l'analisi del Dna mitocondriale. La genetista ha ricordato come, dalle stesse indagini eseguite dagli esperti di Pavia, consulenti della Procura, era emerso che sul corpo della ragazza non erano state trovate formazioni pilifere riconducibili a Bossetti. Alcuni dei peli che sono risultati non appartenere né all'imputato né alla vittima furono trovati nella felpa della ragazza e, di conseguenza, per l'esperta, "non vi è stata contaminazione" sulla scena del crimine. Inoltre, ci sono altri quattro codici genetici non riconducibili a Yara e ai suoi familiari da prendere in considerazione: tra questi, due impronte di uomo e donna sull'estremità dei guanti e una traccia sul polsino destro giubbotto (che appartiene all'istruttrice di ginnastica Silvia Brena, estranea alla vicenda ndr). Sarah Gino ha deposto unitamente all'altro consulente dalla difesa, il biologo Marzio Capra, già impegnato in numerosi casi, tra cui l'omicidio di Chiara Poggi. Secondo Capra il fatto che non corrisponda il Dna nucleare di Massimo Bossetti con nessuno dei Dna Mitocondriali trovati sul corpo di Yara "non ha nessuna giustificazione scientifica". Il genetista, tra le altre cose, ha affermato a proposito del Dna nucleare che è stato attribuito a Bossetti che si tratta di "un pezzo di Dna e non di una traccia forense". Il biologo sta ripercorrendo quelle che a suo avviso sono le "anomalie" che si sarebbero verificate durante l'indagine scientifica. Si tratta, quindi, di un'udienza cruciale del processo dal momento che la corrispondenza tra il dna trovato sul corpo di Yara e quello del muratore di Mapello è ritenuta la prova principale a carico dell'unico imputato per l'omicidio della 13/enne. Non a caso, in aula, sono presenti oggi tutti in consulenti sia della Procura sia della difesa.
Caso Yara, l’avvocato di Bossetti: “Ho ricevuto minacce di morte”. "Ho ricevuto minacce di morte. Denuncerò chi mi insulta sui social network". Lo afferma l'avvocato Claudio Salvagni, legale di Massimo Bossetti, il carpentiere 45enne di Mapello in carcere per l’omicidio di Yara Gambirasio, scrive "Bergamo News” il 3 febbraio 2016. “Ho ricevuto minacce di morte. Denuncerò chi mi insulta sui social network”. Lo afferma l’avvocato Claudio Salvagni, legale di Massimo Bossetti, il carpentiere 45enne di Mapello in carcere per l’omicidio di Yara Gambirasio ai microfoni della trasmissione “Legge o giustizia”, condotta da Matteo Torrioli su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Il legale di Bossetti non ha mai mancato di salire alla ribalta per i suoi atteggiamenti o le sue accuse. Riguardo i numerosi commenti offensivi ricevuti sui social network, Salvagni ha dichiarato: “Scrivono cose indicibili, a me e al mio assistito – ha aggiunto Salvagni -. Ci dovrebbe essere una maggiore presa di coscienza. La critica anche aspra fa parte della libertà di pensiero e deve continuare ad esistere. Ma quella becera, di basso livello, i commenti disgustosi andrebbero evitati. Agirò per vie legali contro chi mi insulta. E’ finito il momento di essere stilosi e accettare il confronto supinamente. Certi commenti fanno accapponare la pelle. Ho ricevuto anche lettere con minacce di morte. Ma questo non mi fermerà, sono convinto dell’innocenza di Bossetti e andrò avanti”.
Dove eravamo rimasti? Ah! Già?! Al caso Bossetti, scrive il 2 febbraio 2016 Gilberto Migliorini su “Albatros Volando Controvento”. La caccia al carpentiere di Mapello è iniziata nel 1719, così ci è stato raccontato con un pizzico di orgoglio investigativo. Nonostante l’epoca, i lumi della ragione non c’entrano per davvero, forse bisognava risalire più indietro, ai Visconti di Milano o all’età dei comuni. Un lavoro davvero certosino tornando al capostipite della famiglia Guerinoni. Magari partendo dai Longobardi i nostri intrepidi investigatori avrebbero avuto più fortuna nel rintracciare gli antefatti genetici e le coordinate genealogiche? E pensare che invece non serviva andare tanto lontano. Il caso Tortora, solo trent’anni fa avrebbe offerto più di un suggerimento interpretativo senza bisogno di recedere, per via dell’abbrivio, magari fino al 1630 col celeberrimo processo agli untori immortalato dal Manzoni. Quello che sorprende nella ricostruzione dell’indagine è la (s)proporzione dei mezzi impiegati, davvero imponenti, nelle competenze messe in campo e nei procedimenti logico-argomentativi utilizzati, ma soprattutto nella spesa per effettuare uno screening di massa che coinvolge un database di dimensioni colossali (decine di migliaia di prelievi; fotografati migliaia di camioncini; monitorate milioni di telefonate, e senza dimenticare la profilazione dei consulenti della difesa perfino nel voto alla maturità e nei titoli accademici…). Un lavorio incessante, puntiglioso, meticoloso, certosino… e perfino commovente per tanta abnegazione e affiatamento, per l’affezione e la devozione per la prova del Dna ormai considerata regina (e nonostante che a livello internazionale gli errori non si contano). Un puzzle di incastri mirabolanti, di alleli, mitocondri e nucleotidi in un affresco di genealogie, ha scombiccherato parentele e paternità, ridisegnando discendenze e affinità elettive... Per non parlare di test di paternità effettuati con le tracce del Dna salivale sui francobolli leccati nel lontano 1980, come da convalida del timbro postale, e con la marca da bollo della patente del povero Giuseppe Guerinoni a far da imprimatur, e infine la riesumazione della salma del padre (immaginario?) di Massimo Bossetti (poi cremata per un moto di pietas?). Davvero un lavoro ciclopico di percorsi investigativi embricati attraverso analisi stratigrafiche, psicologia di coppia, figli illegittimi, araldiche, pettegolezzi, anagrafi, cambi di residenza, illazioni, ardite inferenze deduttive… e tanta caparbia certezza, di trovarsi sulla pista giusta a fiutare le tracce dell’assassino. Quale il risultato ottenuto a fronte di un simile impegno di risorse senza precedenti per dar lustro a un’indagine che forse farà scuola, come è stato detto non senza un moto di compiacimento per il metodo innovativo? Quale conclusione cercando figli illegittimi in una ricerca rocambolesca sottoponendo a tampone le donne frequentate dal Guerinoni fino ad arrivare di scrematura in scrematura, di centinaia di candidati, fino alla signora Ester? Quale il mirabolante risultato in una gigantesca stratigrafia di anagrafi e tabulati, un database degno come complessità di quello del primo sbarco dell’uomo sulla luna, o perfino già in anticipo sull’impresa marziana? Una clamorosa e gigantesca patacca? Una colossale montagna di analisi che ha partorito… neppure quel classico topolino che sarebbe apparso perlomeno come premio di consolazione per cotanto impegno investigativo? Ci si può chiedere se per caso non ci sia l’errore, che qualche elemento abbia potuto trarre in inganno un detective così zelante e abbia dato un input farlocco a tutta la procedura di indagine. Forse qualcuno riproverà a computare e dedurre cercando nella pletora di dati incrociati, di test, di alberi genealogici, di scremature, di campioni, di tabulati, di matrilinearità, di laboratori genetici, di tamponi salivari se magari non sia stata presa la cantonata più colossale che si ricordi a memoria d’uomo… No, speriamo di no….Il lavoro da chef di quel Dna è un po’ come il prezzemolo che c’entra sempre... anche nei casi giudiziari e soprattutto quando un cadavere è in avanzato stato di decomposizione o quando non c’è trippa per gatti. Il test genetico è comunque sempre provvidenziale e cade a puntino, una sorta di prodigio quando per il resto non si cava il classico ragno dal buco. Miracoli della scienza e della tecnica, ormai per trovare l’assassino è sufficiente introdurre il campione nella macchina di sequenziamento e con il software appropriato… puff salta fuori il nome con tanto di albero genealogico e un profilo psicologico con depravazioni, perversioni e magari, perfino, il ritratto dei rapporti coniugali. È come tirar fuori un coniglio dal cappello. Seguendo questa analisi retrospettiva non sarà però che qualcuno confonde il fatto tecnico con quello procedurale? È la fotografia di tanto nostro paese perduto nelle complicanze di un sistema istituzionale sempre più farraginoso e bizantino (sì forse nel caso bisogna davvero risalire alla burocrazia borbonica o magari al caso Girolimoni di epoca fascista). In fondo la storia si ripete, mutatis mutandis, al di là delle etichette di sistema. Decine di migliaia di prelievi… e caso davvero sorprendente non è stato fatto l’unico che avrebbe tagliato la testa al toro (un semplice test di paternità di Massimo Bossetti con il padre legale) se non altro per dimostrare che tutto l’ambaradan non poggi eventualmente sulla merde o su qualche imperscrutabile retroscena. Anzi, ci è perfino stato detto, in un impeto di ottimismo investigativo, che perfino l’altro figlio (non quello gemellare) è figlio illegittimo. Sarà tutto vero, però pare strano che non si sia proceduto da parte dell’accusa a una elementare controprova. Con sussiego si è andati avanti in una indagine sulla base di camioncini taroccati, francobolli umettati, presunti metri cubi di sabbia da inumazione, Dna che resistono per mesi alle intemperie, contraddizioni tra mDna e nDna… Sembrerebbe perfino che non ci sia somiglianza tra il Guerinoni e Massimo Bossetti, e che la fisionomia del carpentiere di Mapello sia invece la stessa del padre legale Giovanni Bossetti. Sembra incredibile che a fronte di una situazione non controllata (esattamente l’opposto di quello che richiede la metodologia scientifica) come quella di un omicidio, di un corpo lasciato all’addiaccio per mesi, di un francobollo leccato non si sa da chi, di un cadavere vecchio di lustri, di analisi genetiche contraddittorie… e via dicendo si dichiari una paternità genetica al di là di ogni ragionevole dubbio e senza neppure provvedere al più elementare confronto con il padre legale, stante anche il fatto che la signora Ester a più riprese e in modo perentorio ha dichiarato che Massimo è figlio dell'uomo che ha sposato. Un omicidio non rappresenta di certo una normatività per la quale valgano le normali procedure del metodo sperimentale, quelle ad esempio di una analisi medica, di un test di paternità, di un prelievo biologico quando tutto avviene in una situazione controllata nella quale tutte le variabili sono sotto controllo e soprattutto i test sono riproducibili e replicabili. C’è da chiedersi se i tribunali del riesame siano lì a esercitare un controllo su atti giudiziari che possono eventualmente essere caratterizzati da mancanze, omissioni e incongruenze o se invece si tratta solo di un pro forma, elemento puramente decorativo e ornamentale, giusto un cerimoniale, come l’etichetta alla corte del sovrano, noblesse oblige, camminando all’indietro come è d’uopo per non mostrare il deretano e per non offendere i privilegi nobiliari di casta. Non è che un testo costituzionale ha impedito che il povero Tortora abbia fatto le spese di tanto fango mediatico e di una superficialità investigativa da rabbrividire. Non è che un sedicente stato democratico abbia eliminato i privilegi di casta, immunità di status e impunità di esercizio del potere? No!? È ancora come essere alla corte del re Sole, dove al posto del sovrano c’è un potere discrezionale con controlli puramente di facciata? Il povero presentatore direbbe ancora “dove eravamo rimasti?”, e la domanda avrebbe davvero un senso oltre che drammatico anche umoristico per il fatto che è come nel coro dell’Aida, un partiam partiam senza mai smuovere il culo: la risposta ovvia è che siamo rimasti sempre lì. Dove? Ciascuno può immaginare il topos a suo piacimento, comunque dove si era ieri e l’altrieri, perfino quello di manzoniana memoria, quello del processo agli untori. L’Italia è un paese che cambia sempre e soltanto in superficie, quella patina che dà l’apparenza del rinnovamento e che è più che altro lo strato di vernice fresca a coprire le vergogne. Le strutture profonde nella mentalità, nel costume e nei costrutti mentali rimangono impronta indelebile di un popolo perso nelle nebbie un po’ dei moralismi e un po’ dei luoghi comuni, una cultura formata tra telenovele, giochi a quiz, spettacoli circensi, festival e… l’immancabile opinionista che ti scodella la verità in pillole. Si ritorna sempre surrettiziamente a quello ‘stato etico’ che si ammanta di retorica e demagogia (basta ascoltare le prolusioni di tanti nostri politici) in una amministrazione della giustizia (e non solo) farraginosa ed elefantiaca che procede ciecamente sulla base di automatismi, incapace di mettersi in discussione e fare una revisione dei propri schemi concettuali, priva di strumenti epistemologici (salvo qualche lodevole eccezione) ma che pontifica dell’infallibilità del Dna (illusione di uno scientismo meta-fisico) così come i cardinali del Sant'Uffizio giudicavano della teoria tolemaica e di quella copernicana. Un sistema che anche quando si riveste di modernità e usa i ritrovati della tecnologia lo fa con una sorta di inerzia dogmatica, confondendo il piano astratto dei costrutti teorici con la realtà effettuale che richiede flessibilità e inventiva, rispetto del cittadino, e soprattutto un po’ di sano buon senso...Si dice spesso che la giustizia italiana non funziona. Al contrario, funziona benissimo con una logica che non è quella formale, è una inferenza dove la logica classica è soltanto un elemento decorativo rispetto alla vera funzione del diritto che è quella di costruire dei castelli di carta, di embricare concetti e di arzigogolare costrutti e parole in un puzzle di non sensi consequenziali. Le istituzioni del Bel Paese considerano le persone come cose senza diritti e senza garanzie. Di fatto è un ritorno al vecchio stato di polizia dove il cittadino (vezzeggiato nelle tornate elettorali) possiede diritti solo se fa parte dell’organigramma del potere, altrimenti è solo uomo qualunque, carne da macello da immobilizzare come un vitello, buono solo quando c’è da segnare la preferenza sulla scheda elettorale. La lettura del caso Bossetti, così emblematico di tanti altri casi dove è stato trovato un colpevole a furore di popolo e magari con i complimenti del ministro, dovrebbe essere letto da una diversa prospettiva per evitare altri casi analoghi per il futuro? Ma quanti sono i casi Bossetti nel Bel Paese? Non sappiamo ancora come la storia andrà a finire, c’è sempre il classico colpo di coda di chi non vuole ammettere i propri errori, però la sensazione è che tutto il sistema probatorio si stia proprio sgretolando come dicono i difensori (e forse il ‘meglio’ deve ancora venire). Viceversa non esiste statistica di quanti mascalzoni ben ammanicati col potere la fanno regolarmente franca (e nel caso in genere non si tratta di muratori). Per una legge di compensazione, una spesa di svariati milioni di euro per il caso Yara comporta inevitabilmente un ridimensionamento per tanti altri casi magari meno eclatanti che però incidono profondamente nel tessuto sociale creando sfiducia e lassismo nell’opinione pubblica che finisce per non credere più nella giustizia: non si denunciano sopraffazioni, soprusi, violenze e danneggiamenti. Si tratta di quella parte immersa di un iceberg di illegalità che sfugge a qualunque statistica. Ci sono vaste categorie che di fatto godono di una sorta di immunità per effetto della posizione sociale, per appartenenza a consorterie congreghe corporazioni… e di un sistema legislativo che all’occorrenza può essere interpretato secondo le bisogna utilizzando le classiche circonvoluzioni ciceroniane. E poi c’è tutta quella platea di Renzi e Lucie che in genere possono contare solo su qualche azzeccagarbugli quando va bene o sperare che la protervia di qualche ‘signorotto’ delegato istituzionalmente non li prenda di mira. E per fortuna, si fa per dire, che c’è quel bel parlamento così onorevolmente rappresentato che non fa gli interessi di camarille lobby e consorterie, ma proprio del paese, di tutti i cittadini…Si tratta di un sistema genetico-amministrativo (in qualche modo la genetica rientra dalla finestra, ma non nel senso dell’acido desossiribonucleico), un Dna culturale che informa da tempo immemorabile una mentalità delle istituzioni carica di arroganza e di pregiudizi, sistemi politico-giudiziari che considerano le persone come cose, oggetti da prillare e rivoltare, senza l’ombra di qualche diritto, se non in una interpretazione che fa del dettato costituzionale un flatus vocis, un nominalismo interpretabile ad arbitrio e secondo la vulgata del momento. Quello che nel sistema anglosassone di common law è l’habeas corpus, cioè la sacrosanta pretesa che l’accusa abbia sostanziale consistenza di prove, non è riferito soltanto alla libertà individuale, al divieto di incarcerare senza giusta causa, ma anche alla dignità e al rispetto della persona, alla inviolabilità della sua sfera privata. Non si tratta solo della ingiusta detenzione, la mostruosità più eclatante, non solamente dei processi svolti mediaticamente con opinionisti che fungono da pubblici ministeri per un pubblico assetato di diritto e… di esecuzioni sommarie, ma anche di tutti quei provvedimenti per i quali un cittadino è chiamato a render conto di qualcosa anche quando nei suoi confronti non esiste alcun procedimento, né prova e né indizio. Non è solo la salvaguardia della libertà individuale contro l’azione arbitraria dello Stato, ma anche contro la violazione della privacy, il diritto alla propria sfera privata e alla propria dignità di persona. Non è solo Bossetti la vittima di un sistema che ormai di democratico ha soltanto il nome, siamo tutti sottoposti a una profilazione che non risparmia nessun aspetto della nostra vita, a un controllo attraverso canali insospettabili. Quello che un tempo era proprio di uno stato di polizia appare oggi come la normale prassi di un sistema che considera il cittadino, dal supermercato, ai programmi televisivi e alla polizia scientifica, come un semplice oggetto di serie, non solo numerato, ma riguardato in ogni aspetto della sua vita (comportamenti, acquisti, letture, conversazioni telefoniche, identità biologica…) in una acquisizione più o meno automatizzata di dati che di fatto rendono ciascuno uno schedario vivente, variamente utilizzabile con finalità decise di volta in volta da parte di chi possiede i dati di milioni di persone (a fini economici, politici, elettorali, in una parola di controllo e di influenza su una massa amorfa e strumentale). La nostra costituzione che dovrebbe tutelare la libertà del cittadino è stata nel corso del tempo aggirata surrettiziamente e di fatto il prelievo a tappeto del Dna è la dimostrazione che ormai qualunque procedura invasiva appare del tutto normale presso l’opinione pubblica (ma anche nel mondo della cultura che in genere non sembra scandalizzarsi). Si considera regolare che si possano tranquillamente sottoporre migliaia di persone a prelievi salivari senza che nei loro confronti esista il ben che minimo indizio o prova di alcunché. Non solo si è sperperato una quantità enorme di denaro pubblico che avrebbe potuto essere utilizzato per combattere molti altri crimini, ma si è anche dimostrato che non esiste più nessun confine certo nella dimensione privata e intangibile della persona, segno di un potere che considera l’uomo qualunque un mero oggetto di controllo e di manipolazione. È il ritorno a quel machiavellismo per il quale il fine giustifica i mezzi. Nell’indagine su Bossetti non c’è stato solo un ingente spiegamento di forze, c’è stata anche tanta arroganza e presunzione, nessuna consapevolezza che più cresce la mole di dati in qualsiasi indagine e più aumenta anche la possibilità di errore. Lo sanno gli informatici che al proliferare delle istruzioni applicano delle verifiche periodiche di debugging, consapevoli che con la complessità cresce in modo esponenziale il pericolo di bachi (e talvolta anche la possibilità di inserire surrettiziamente istruzioni perverse e con scopi non dichiarati). Al di là del fatto poi che un programma (un software) è commisurato al problema che si vuole affrontare, è del tutto inutile creare programmi mastodontici quando con poche istruzioni, se il problema lo consente, si possono ottenere risultati concreti e senza il rischio di introdurre errori. Talvolta la ridondanza dell’algoritmo utilizzato giustifica non tanto la complessità del problema da risolvere, quanto le ricadute economiche e il profilo di spesa per il committente. Non c’è da nascondersi dietro a un dito. Nelle forze dell’ordine esistono competenze e capacità, e molti di questi nostri tutori devono aver storto il naso per un’indagine costruita su quella inutile mole di analisi, un obice gigantesco e spropositato rispetto a un omicidio, invece di utilizzare l’arma efficiente di una indagine tradizionale effettuata con lo scrupolo e la discreta abilità investigativa del vero detective che sa scremare dove serve e affondare dove conviene. Ma ormai quella del Dna (prova carica di potenzialità investigative e… soprattutto di ricadute economiche e di prestigio) è diventata un fiore all’occhiello… la logica di un sistema per far lavorare laboratori pubblici e privati a spese del contribuente. Per non parlare del mercato delle consulenze. Qualcuno assicura che il processo a Bossetti cambierà il modo di indagare e giudicare, forse perfino le nostre vite. Molti se lo augurano. Così come il caso Tortora ha prodotto soltanto fiumi di parole e pochi fatti, così il caso Bossetti è probabile che purtroppo non farà scuola e non produrrà alcun cambiamento. Il sistema di fronte alla debacle che si sta profilando con tutta una serie di indizi farlocchi si chiuderà a riccio in difesa dei privilegi di casta e dell’immunità di fatto di fronte a colpe gravi e errori macroscopici? Il mondo politico dal canto suo avrà un’arma di ricatto in più per azzittire chi gli fa la morale. Il caso in parola non solo non produrrà maggiore consapevolezza nel paese in una opinione pubblica ormai ottusa e irreggimentata da una organica disinformazione, ma probabilmente fornirà ulteriori pretesti al sistema per rinserrare i ranghi e blindare il suo potere sempre più senza controllo. Ciascuno può liberamente decidere quanto grave sia il caso Bossetti in ragione di una violazione delle regole elementari del buon senso prima ancora di quelle di uno stato di diritto. Superficialità e pressapochismo sono gli ingredienti palesi. Ma la storia puzza di un non so che... Ma il vero scandalo, bisogna dirlo, è una informazione che sul caso in oggetto, salvo eccezioni sporadiche, ha costantemente assecondato il processo mediatico di colpevolezza anche quando le incongruenze e le montature erano palesi. Siamo ancora in uno stato di diritto o si tratta soltanto di una veste esteriore di legalità costituzionale illusoria e inconsistente, con un sistema dell’informazione ortodossa complice e connivente di poteri forti ormai fuori controllo? Oppure nella migliore delle ipotesi la stampa nazionale, e le varie testate giornalistiche, garantiste per vocazione e spirito democratico, dormono, o sognano qualcos’altro per cronaca nera, mentre un muratore viene massacrato mediaticamente sulla base suggestiva di metri cubi di sabbia, lampade solari, furgoncini taroccati e un Dna fresco come una rosa rimasto per mesi all’addiaccio? Per l’utente mediamente mediatico sembra non ci siano più molte speranze, si è assopito ormai da tempo in quell’antinferno dantesco degli ignavi. Chissà che con un moto di amor proprio non provi a vincere lo stato di sonnambulismo nel quale da tempo immemorabile sembra vivere di riflesso. Per il caso Bossetti non ci sarà neppure la vergogna. Il sistema saprà digerire la farsa con nonchalance, come sempre, e con la connivenza della solita maggioranza silenziosa resa orfana del solito capro espiatorio sul quale sfogare una parte delle proprie frustrazioni.
Caso Yara, scintille e muro contro muro tra il genetista Capra e il pm sul Dna. È ripreso stamattina, venerdì 12 febbraio, il processo a carico di Massimo Bossetti, accusato di aver ucciso Yara Gambirasio. In programma, nella 27ª udienza, il controesame del pm Letizia Ruggeri a Marzio Capra, consulente e genetista della difesa, scrive “L’Eco di Bergamo” il 12 febbraio 2016. Il controesame a Capra era in programma venerdì scorso, ma è stato spostato di una settimana in quanto gli stenografi hanno avuto bisogno di tempo per trascrivere l’interminabile esposizione del genetista che aveva parlato per ben sette ore due mercoledì fa. La mole di dati e considerazioni esposti da Capra esigeva un approfondimento dell’accusa in preparazione del controesame e come conseguenza ha avuto l’annullamento dell’udienza fissata per venerdì 5 e un aggiornamento alla giornata odierna. Prima di Capra c’è stato però il controesame di Sarah Gino, medico legale esperto in Genetica forense e pure lei consulente della difesa, che ha sottolineato come sotto la felpa di Yara ci fossero formazioni pilifere che non potevano essere state trasportate successivamente e ci fossero 11 profili genetici tutti significativi. Profili che avrebbero meritato un approfondimento. Da segnalare che non è presente l’avvocato Claudio Salvagni, uno dei due legali di Bossetti. Presente invece l’avvocato Stefano Camporini. Si è intanto saputo che nell’estate 2014 la famiglia Bossetti, per vederci chiaro, aveva commissionato privatamente un’indagine all’Università di Torino perché verificasse la paternità di Giovanni Bossetti verso l’imputato e si è avuta la conferma che Massimo Bossetti non è figlio naturale di colui che era considerato suo padre. Il dettaglio è emerso durante il controesame a Sarah Gino, consulente della difesa. A lei l’avvocato Andrea Pezzotta, che assiste la famiglia Gambirasio, ha chiesto conto di alcuni esami sulla paternità fatti eseguire privatamente dai Bossetti dopo l’arresto del familiare Massimo, il 16 giugno 2014. «Sì, nell’estate del 2014 fui incaricata dall’Università di Torino, alla quale si rivolse la famiglia Bossetti, di verificare se Giovanni fosse il padre di Massimo», ha detto Gino. «E il risultato qual è stato?», ha chiesto l’avvocato Pezzotta. «L’esito del test è stato negativo - ha replicato la genetista -. Massimo è figlio di un altro uomo». Non è chiaro se l’imputato fosse a conoscenza di questa verifica chiesta dai familiari: quando se n’è parlato in aula, il muratore - come sempre seduto di fronte alla corte, a destra della presidente - si è limitato ad abbassare lo sguardo. È venuto quindi il momento del controesame a Capra e sono state scintille, un muro contro muro, con il pm Ruggeri. Tanto che il genetista della difesa, quasi urlando, ha protestato con il pm dicendo non doveva permettersi di mettere in dubbio le sue capacità professionali perché lui ha pieno titolo per studiare il Dna. Capra ha criticato il lavoro dei Ris proprio sul Dna e ha sollevato la questione dei due profili genetici, denominati Donna1 e Uomo2, rintracciati sui guanti di Yara. Il genetista non ha capito perché non si è indagato di più su questi due profili, visto che - almeno secondo lui - non c’è traccia di comparazioni nelle 60 mila pagine dell’inchiesta. La tensione è rimasta alta e Capra, parlando della relazione dei Ris, ha sottolineato di non spiegarsi come la traccia dal quale è stato estrapolato il Dna di Ignoto1 è stata definita ottima e come invece sia stato impossibile individuare a che sostanza sia riconducibile. E ha espresso anche dubbi su come si sia arrivati alla traccia di Ignoto1. La Pm Letizia Ruggeri ha contestato la definizione di “anomalia” fatta da Capra per alcuni esiti degli esami effettuati sul corpo di Yara. In particolare, la pm ha messo in discussione che si possa parlare di “anomalia”, come asserito dal genetista, per il fatto che non sono state trovate tracce di materiale genetico sul corpo della vittima ma solo sui vestiti, e ha affermato che è stato trovato materiale genetico sotto le sue unghie in quantità sufficiente per effettuare esami, al contrario di quanto affermato da Capra. “Sono stati trovati 100 psicodrammi di materiale genetico mentre lei ha detto che non è stato trovato nulla”.
Processo Bossetti: conferme dal test in famiglia. Lui è Ignoto 1, suo padre è Guerinoni. Punto fermo dall’esame del dna compiuto dalla difesa. Poi scintille con pm, scrive Gabriele Moroni su “Il Giorno” del 13 febbraio 2016. Massimo Bossetti rimane silenzioso. Si limita ad abbassare il capo. Forse non era al corrente dell’iniziativa dei suoi familiari. È l’udienza dedicata al controesame dei genetisti forensi Sarah Gino, dell’università di Torino, e Marzio Capra, consulenti della difesa dell’uomo processato per l’omicidio di Yara Gambirasio. L’avvocato Andrea Pezzotta, parte civile per la famiglia Gambirasio, ha appena chiesto alla genetista torinese degli esami di paternità chiesti privatamente dai Bossetti dopo l’arresto di Massimo, il 16 giugno del 2014. In contemporanea, era venuta la rivelazione choc che il padre biologico del muratore di Mapello e della gemella Laura Letizia non era l’uomo che li aveva allevati ma Giuseppe Benedetto Guerinoni, conducente di autobus, morto nel 1999. «Ci è stata richiesta - risponde Sarah Gino - nell’estate del 2014. Abbiamo risposto con una relazione del 4 ottobre. L’oggetto era verificare la paternità di Giovanni Bossetti per i tre figli». E quale è stato l’esito per il solo Massimo? «Massimo Bossetti non era figlio del signor Giovanni». È un punto fermo. La domanda del sostituto procuratore Letizia Ruggeri è invece se il profilo genetico di “Ignoto 1” rimasto sullo slip e i leggings di Yara sia compatibile con quello dell’imputato. La risposta della genetista è affermativa con riserva: «Non cambio idea. Se si legge la tabella (redatta dai consulenti della Procura di Bergamo - ndr) i numeri sono evidenti. Lo vede anche un bambino di cinque anni. C’è corrispondenza. Abbiamo delle riserve sui dati grezzi da cui si è arrivati a quei risultati». Sulla spinosa (e dirimente) questione dna nucleare e dna mitocondriale, la consulente dichiara che l’esame del mitocondriale per le tracce miste è “assolutamente sconsigliato”. Altra questione. Sotto la felpa di Yara, quindi in un luogo riposto, sono state trovate formazioni pilifere che non potevano essere state trasportate in un secondo tempo. «Da momento - dice la genetista - che non si sa come sia avvenuto l’omicidio, questi undici profili genetici sono tutti significativi. Sarebbe stato opportuno un esame più approfondito». Controesame di Marzio Capra. È muro contro muro e sono scintille con la rappresentante dell’accusa. Il genetista illustra quelle che considera anomalie. Anomalo che sotto i margini ungueali di Yara non sia stato trovato materiale genetico, nemmeno il suo». «Non è vero - rintuzza il pm -. Il Ris dice che su nove dei dieci margini ungueali c’erano tracce genetiche della vittima». Anomalo, per Capra, che siano stati identificati profili biologici sugli indumenti della ragazzina, ma che i tamponi non abbiano rilevato nulla sulla cute. «Strano perché si è trattato di un’aggressione prolungata, come testimoniano i numerosi tagli sul corpo. Mi sarei atteso saliva, sangue. Mi faccio una domanda: non è che il corpo della vittima è stato ripulito prima di essere abbandonato?». Capra critica il lavoro del Ris sul Dna e solleva la questione dei due profili genetici (denominati Uomo 1 e Donna 2) sui guanti di Yara. «Non capisco perché non si è indagato di più su questi due profili. Non c’è traccia di comparazione nelle 60mila pagine dell’inchiesta». Lo scontro divampa poco dopo. «Lei - saetta il pm - mi può dimostrare che ha svolto attività sul dna mitocondriale? Lei non ha esperienza». «Pubblico ministero - è la replica piccata, ad alta voce, del consulente -, la prego di rispettare la mia professionalità». Controreplica dell’accusa: «Lei non ha esperienza di mitocondriale. Lei ha la stessa esperienza che ho io». Intervento deciso del presidente Antonella Bertoja e scuse reciproche. Capra solleva ancora la questione di un altro dna nucleare (non di Bossetti) sullo slip di Yara e quindi di una presenza “nuova”. Avanza l’ipotesi di una possibile contaminazione dei kit usati per gli esami. Evoca il sangue trovato sui calzini della piccola Gambirasio. Ripropone come anomalia principe il cavallo di battaglia della difesa: nella traccia di “Ignoto 1” è assente il dna mitocondriale di Bossetti. Dal pubblico ministero esce ancora la definizione di “un po’ fazioso”... È l’ultimo sussulto polemico della ventiseiesima udienza.
Processo Bossetti: io credo a Marzio Capra e al pool difensivo...scrive Massimo Prati su “Albatros Volando Controvento” il 12 febbraio 2016. Diciamola la verità, quella vera e non quella sparsa in salsa rosa dai soliti noti, e diciamola a tutti, anche agli italiani ignaviche forse non la comprenderanno perché da troppo si adeguano a brucare l'erba coltivata dal potere. Diciamolo a tutti che dopo mesi di processo si è scoperto che contro Massimo Bossetti c'è solo il nulla di un'immensa campagna mediatica colpevolista agevolata dalle parole del ministro Alfano e dalla stima che le persone comuni nutrono per chi "viaggiando alla grande" in televisione si adagia a peso morto sulle italiche "sempre infallibili" istituzioni. Diciamolo che niente di quanto la maggioranza assoluta dei media racconta da un anno e mezzo si è materializzato in tribunale, che nonostante questa verità, portata a nostra conoscenza solo dalla millesima parte della stampa (l'unica davvero presente alle udienze), l'aria mediatica continua a soffiare sul popolo l'odore acre della colpevolezza. E' fumo, nulla di concreto che però tanti fenomeni mediatici, neanche entrati al tribunale di Bergamo, trasformano in nebbia fitta. E' un metodo già collaudato in altri casi, Taranto docet, usato per impedire alla pubblica opinione, da anni fidelizzata, di vedere e comprendere quale sia la realtà dei fatti. Le procure comandano e le ricostruzioni accusatorie, anche se incredibilmente assurde, vengono appoggiate sui media da opinionisti e simpatizzanti che amano l'audience fornito a piene mani dalla maggioranza della pubblica opinione, da ex appartenenti agli apparati statali e giuridici, da chi per le procure ha già periziato, da chi per le procure vorrebbe invece lavorarci in futuro e cerca con ogni mezzo di mostrare la sua acritica fedeltà istituzionale per accreditarsi e ottenere incarichi ben retribuiti e nuova notorietà, da giornalisti che poco si informano e raccontando sempre la stessa tiritera finiscono per convincersi e convincere che non si tratta di una filastrocca inventata per addormentare i sensi e la mente, ma di una storia vera. Possono le persone intelligenti, se in buona fede, non accorgersi dei mille dubbi e delle mille incongruenze che assediano le fantasmagoriche ricostruzioni accusatorie usate per chiedere condanne pesanti che spesso servono a salvare la facciata di una categoria sempre più in crisi? Incredibile a dirsi, ma ad ascoltare e leggere i media pare proprio che molte intelligenze nazionali soffrano di cecità a fasi alterne. E così resteranno fin quando il giudice di un processo famoso non le bacchetterà mettendo ordine e trasmettendo ai media l'input giusto, l'input che faccia capire che ci sono regole e leggi da rispettare. Dev'essere un giudice con le spalle larghe, con la schiena dritta e il polso fermo. Dev'essere un giudice professionista che ama il suo lavoro e la sua categoria, un giudice senza paura e non influenzabile né da fattori interni né da fattori esterni. Un giudice idealista non abituato ad adagiarsi alle procure e dalla mente aperta. Può essere il giudice Bertoja ad accollarsi questa responsabilità? Il processo che presiede è famosissimo e in fondo non ci vuole molto a far capire che la giustizia è una cosa seria, che è davvero uguale per tutti e la colpevolezza o l'innocenza di un imputato non la possono stabilire quattro ospiti seduti comodi in poltrone sistemate a modo in improvvisati tribunali mediatici. Questo accade oggi in Italia. I processi si celebrano in tivù sin dal momento in cui avviene il crimine che stuzzica l'emotività del telespettatore. Si parte scavando sul primo sospettabile di turno, iniziando a rovinargli la reputazione, poi se le indagini vanno in altre direzioni si persevererà col lavoro di smantellamento cambiando bersaglio e infierendo su chi per le procure è diventato il solo e unico indagato. Quindi sin dalle prime fasi sui media inizia la solfa colpevolista che influenzerà certamente la mente del popolo e, di conseguenza, quella dei futuri giudici che dovranno sentenziare (togati e popolari). E questa indegna metamorfosi processuale, mai criticata a dovere nelle sedi opportune, sta bene alla pubblica opinione spesso frustrata da una vita scialba. Sta bene ed eccita quei popolani volgari che per credersi vivi si immedesimano negli opinionisti famosi senza pensare che un domani potrebbe capitar loro di diventar "mostri" da prima pagina. Perché la storia è ciclica e presto qualcun altro diventerà, anche per l'opinionista che tanto ha amato e appoggiato, un famoso assassino e, suo malgrado, finirà per subire la gogna giuridica e mediatica che in precedenza spargeva pure lui. Non lo dico io, lo dice la storia recente e passata. E chissà se una volta arrestato, con tanto di telecamere e giubilo popolare, "sarà così fortunato" da avere accanto un pool difensivo appassionato che lotterà per ristabilire la verità, che lotterà per tenere unita una famiglia distrutta dagli stessi opinionisti da talk show che prima della tragedia ammiravano e seguivano ad occhi chiusi. Chissà se qualcuno andrà a trovarli in carcere e li ascolterà quando la loro foto campeggerà sui settimanali colpevolisti, quando più verranno additati a mostri e più l'emotività degli ignavi, che per primi affossano in massa il colpevole di turno, salirà facendo guadagnare i media, quando più verranno screditati gli avvocati e i periti della difesa e più probabile sarà, per il nuovo mostro mediatico, una condanna all'ergastolo. Non tutti, al momento in cui la sfortuna e la procura si accaniscono, trovano sulla loro strada persone serie e preparate capaci di scrollarsi di dosso lo stress, persone che sacrificano la loro psiche e anni di vita tranquilla prendendosi a cuore una sorte che pare segnata. Bossetti, nella sfortuna, è uno dei pochissimi imputati "fortunati" ad avere accanto un pool difensivo di prim'ordine, un pool che studia le carte nella maniera migliore, che analizza, che smonta anche il più piccolo indizio e non ha timore di denunciare le mancanze e gli strafalcioni di chi accusa. Questo può solo significare che gli avvocati di Massimo Bossetti e i loro consulenti sono sicuri di quanto dicono e non temono nuove perizie. C'è da chiedersi cosa potrebbe cambiare, sia per Bossetti che per la giustizia italiana che per i media (nel caso venissero sbugiardati in tribunale), se il giudice Bertoja decidesse di riunire i migliori professionisti italiani e incaricarli di rifare tutte le perizie che nella sua aula si sono mostrate storpie, se decidesse che per sentenziare in scienza e coscienza occorre osservare un quadro probatorio privo di dubbi, che per condannare all'ergastolo non basta un'accusa confezionata come un costume d'Arlecchino rappezzato alla bell'e meglio. In fondo alla dottoressa Bertoja converrebbe ordinare perizie terze in grado di schiarire le idee e dissipare le nubi. Converrebbe perché dovrà in futuro motivare in maniera seria e impeccabile un'eventuale sentenza d'ergastolo se non vuole scadere di professionalità e finire nell'inferno dantesco assieme a quei giudici ignavi che copiano e incollano gli atti delle procure perché incapaci di sentenziare e motivare con la loro mente. E dovrà, se dovesse giustificare una simile condanna, motivarla a modo e spiegare come mai non nutre dubbi. Quindi far sapere dove pensa sia morta la piccola Gambirasio (al campo di Chignolo o altrove, come indicato dalla dottoressa Ranalletta?) e spiegare perché, nonostante avesse le scarpe ai piedi, ci fosse sangue sui suoi calzini. Uno dei particolari omessi dall'accusa, anche ai media, e portati a processo dall'ex vice-comandate del Ris Marzio Capra (non dall'ultimo arrivato). Dovrà spiegare come mai i tagli su entrambi i polsi siano identici e di una misura non compatibile con lame da coltello (4,3 millimetri di larghezza). Dovrà spiegare i peli incastrati fra giubbotto e maglia e le fibre trovate su tutte le ferite (peli non di Bossetti e fibre diverse da quelle degli abiti che aveva addosso la piccola Gambirasio), anche su quelle non esposte all'aria. Dovrà dire quali furgoni abbiano percorso le vie di Brembate Sopra alle 18.40 del 26 novembre 2010 (c'era quello di Massimo Bossetti oppure, come fa dedurre la posizione del cellulare, si trovava nella zona opposta alla palestra?) e per quale motivo quelli del Ris non si siano accorti, nonostante abbiano scritto e firmato una perizia, che le fibre dichiarate compatibili con quelle dei sedili erano, e sono, di un colore più chiaro... quindi diverse. Ma, soprattutto, dovrà spiegare che tipo di Dna abbiano isolato e analizzato al Ris, visto che si parla di una prova granitica, perché ormai sappiamo che si tratta di un Dna più che raro, addirittura inesistente in natura, un Dna che ha agito autonomamente e piuttosto che degradarsi assieme a quello della vittima (la traccia trovata era mista e la degradazione doveva colpire in maniera identica tutti i dna che la componevano) ha preferito riprodursi e rigenerarsi, ma solo nuclearmente, abbandonando il suo mitocondrio, più forte in natura, pur di farsi ritrovare in condizioni ottimali dagli analisti di Parma. E alla fine dovrà pure spiegare come mai quel Dna sia stato trovato solo in un unico punto, dato che in altri, al contrario di quanto i media ci hanno detto, non c'era. Un unicum quasi incredibile se si pensa a un'aggressione. Un unicum isolato su un pezzettino di stoffa che una volta analizzato si è autodistrutto... puff...Insomma, se la pubblica accusa, che i media ancora adesso ci dicono avere assi in mano mentre dopo le deposizioni dei consulenti della difesa si trova a dover giocarsi la partita con degli scartini (ma c'è da star certi che se avesse avuto a che fare con un arrendevole avvocato d'ufficio sarebbero rimasti assi), non riuscisse a dare risposta a queste domande nemmeno nel contro-interrogatorio al dottor Marzio Capra in programma per oggi (ndr. Venerdì 12 febbraio), tutti dovrebbero scandalizzarsi e protestare perché non è tollerabile che un padre di famiglia venga massacrato da una procura appoggiata acriticamente dalla massa mediatica che come condor sta posizionata sul capezzale dell'imputato in attesa di sbrandellarlo. Io sto con Marzio Capra e con gli avvocati della difesa e credo che dopo l'odierna udienza tutti gli italiani dovrebbero capire che non si può imbastire un processo senza avere in mano neppure piccoli indizi concordanti. Che non si può giocare con la vita altrui né sui media né in altri luoghi perché la vita altrui potrebbe un giorno diventare la nostra vita...
AL PROCESSO YARA, LA PM RUGGERI SI ARRENDE: “LA SCOMPARSA DEL DNA MITOCONDRIALE DI BOSSETTI? POSSIAMO ANCHE ASPETTARCI DI NON TROVARE UNA SPIEGAZIONE. PUÒ RIMANERE UN MISTERO” - IL DNA ERA LA CARTA VINCENTE NEL PROCESSO, OGGI NON È PIÙ COSÌ. Il consulente della difesa Marzio Capra: “Yara aveva subìto un’aggressione selvaggia ma sotto le sue unghie non avete trovato nulla. Forse avete usato dei tamponi non adatti. Sui calzini di Yara non sono presenti tracce di liquidi cadaverici, come sostenete, ma di sangue. Basta esaminare i campioni. Come lo spiegate?”… Scrive Giangavino Sulas per “OGGI” del 17 febbraio 2016. «La scomparsa del Dna mitocondriale di Bossetti? Possiamo anche aspettarci di non trovare una spiegazione. Può rimanere un mistero». È una dichiarazione di resa quella che il Pm Letizia Ruggeri ha fatto durante l’ultima udienza? Il Dna era considerato la carta vincente nel processo per l’omicidio di Yara. Oggi non è più così. Quel Dna è un pozzo pieno di misteri. Eppure, per il confronto con il consulente della difesa Marzio Capra, il pm ha schierato in aula, come consiglieri e suggeritori, tutta l’artiglieria pesante a sua disposizione. I genetisti Emiliano Giardina e Carlo Previderè, il comandante del Ris di Parma Giampietro Lago e i due capitani che hanno scoperto il Dna nucleare sugli slip di Yara. Ma nessuno di loro, come era già capitato ad altri illustri genetisti, è riuscito a spiegare il mistero. Capra, solo contro tutti, ha tenuto testa, ha controbattuto punto per punto, ha spiegato e ha posto domande rimaste senza risposta. Alla fine il più convincente è stato lui quando ha insinuato: «Io non faccio nessun atto di fede sul lavoro del Ris. Solo in una traccia costruita in laboratorio il Dna mitocondriale può sparire. Ecco perché pongo domande e attendo risposte. Ma non arrivano». «Manipolazione?», ha chiesto Andrea Pezzotta avvocato della famiglia di Yara. «No. Contaminazione. Sui reagenti accidentalmente è finito dentro qualcosa d’altro. Quindi contaminazione», ha replicato Capra, «del resto se si usano kit scaduti da un anno e mezzo può capitare. Perché le prime due analisi hanno dato un risultato che è una schifezza e la terza un risultato buono? Quell’analisi andava ripetuta. Perché i dati del Ris non corrispondono. Sulla traccia 31G20, che è il reperto migliore, l’analisi fatta lo stesso giorno ha dato due risultati diversi». «Ma il Dna mitocondriale non identifica una persona», taglia corto il pm. La risposta è scontata: «E allora perché nel settembre 2011 avete affidato una consulenza privata al colonnello Lago che si è rivolto a un istituto di medicina legale di Firenze per avere il mitocondriale di Ignoto 1? A cosa vi serviva? Forse c’erano dei problemi con il nucleare». Nel muro contro muro, le risposte potrebbero arrivare da una superperizia che i difensori di Bossetti si apprestano a chiedere. Ma il materiale biologico è stato consumato tutto. Impossibile qualunque perizia. «E allora ci sarà un colpo di scena. Alla ricerca di altre tracce, chiederemo che siano riesaminati gli abiti che Yara indossava quando è scomparsa. Sempre che siano stati conservati», dice a Oggi l’avvocato di Bossetti, Claudio Salvagni. «A disposizione, infatti, non c’è altro, dopo che si è consentito che il corpo di Yara fosse cremato. Con i progressi che la scienza ha fatto in questi anni sarebbero state possibili ben altre analisi». Ma i problemi non sono solo questi. «Yara aveva subìto un’aggressione selvaggia ma sotto le sue unghie non avete trovato nulla. Forse avete usato dei tamponi non adatti. Io su una prostituta uccisa che era rimasta per tre mesi nelle acque del Po ho trovato tracce di Dna», ha aggiunto Marzio Capra, «Sui calzini di Yara non sono presenti tracce di liquidi cadaverici, come sostenete, ma di sangue. Basta esaminare i campioni. Come lo spiegate?».
Che un muratore chiamato Bossetti salvi l’Italia!! Scrive Gilberto Migliorini su “Albatros – Volando Controvento” del 17 febbraio 2016. L’Italia è una casa che crolla sotto il peso di corruzione, pressapochismo, incompetenza? C’è un muratore che con sabbia, cemento e cazzuola può consolidare quei muri dove le crepe sono del tutto evidenti? Qualcuno storcerà il naso, eppure il caso Bossetti è la radiografia e il termometro della nuova Italia, anzi una diagnosi che infallibilmente ne restituisce lo stato di salute, che mette in bella evidenza tutte le magagne e forse indica a chi vuol vedere quale terapia d’urto possa servire a svegliare i dormienti sanremesi e tutti quelli abbioccati ad ascoltare il criminologo di turno. Si tratta di quel film che da più di duemila anni fa parte del repertorio: ci sono gli svegli e i dormienti. Certo, se lo spettacolo non è avvincente la pennichella è d’obbligo, per quanto al risveglio ci si trovi a vedere qualche altro film… Chissà se finalmente la maggioranza degli italiani si renderà conto che da tanto tempo sta guardando dalla parte sbagliata, che sta dando credito a una stampa che è come il 1984 orwelliano, a una Giustizia che è come l’isola che non c’è, a un governo che è come la Storia delle mie disgrazie, a una intellettuale organico del finché la barca va lasciala andare. Il carpentiere di Mapello, è la vittima di tanti mali italiani, ma soprattutto di quella platea di ignavi che si fanno beatamente menare per il naso, che corrono a gridare offese quando qualcuno viene portato in galera a sirene spiegate, prima ancora di sapere il perché e il percome, felici di aver trovato un capro espiatorio per il proprio disagio esistenziale. È l’italiano, non il muratore, il protagonista di una storia che conosce l’ignavia contenta di sé, quel connazionale un po’ maggioranza silenziosa (i gregari che portano l’acqua) e un po’ minoranza (quella che sta al potere sempre e comunque) perché nel frattempo tutti, o quasi, in base allo share, stanno ascoltando la solita canzone sanremese...Che altro si può dire del caso Bossetti? Quello che non si potrebbe dire in nessun modo, troppo pericoloso e sconfortante, troppo incredibile e troppo osceno, troppo improvabile… salvo per tutti quelli, di sicuro la maggioranza del Paese, che leggendo i giornali e ascoltando la tivù si sono convinti di aver capito e compreso come va il mondo. Tutti furbi e navigati, capaci di fare analisi criminologiche e attrezzati con nozioni di biologia molecolare, anche se forse la genetica è solo il classico specchietto per le allodole. In fondo i format a quello servono: a strutturare le menti e predisporre alla beata innocenza, a farsi quell’idea suggestiva, divulgativa, immaginifica… da microscopia elettronica che ci persuade che trattasi davvero di scienza. Forse è solo un ritornello come una filastrocca o una tiritera, forse un motivo orecchiabile, forse il classico déjà vu di tante altre italiche rime baciate. Le canzoncine a quello servono: a costruire l’Italia dei festival canori, con le sirene che ce la cantano e ce la suonano… Tutti persuasi in un modo o nell’altro di aver capito anche grazie ai divulgatori che ti spiegano nel dettaglio… talmente bene che sembra di trovarsi proprio dentro nell’aploide del Dna. La scienza mette tutti d’accordo e crea quell’alone un po’ di una ratio da specialisti e un po’ da acchiappa fantasmi di quei nucleotidi che inchiodano l’imputato di turno. Ci avevano quasi convinti che si trattasse di paternità, Dna, mitocondri, alleli e quant’altro. Si pensava, per dirla con il film di Troisi, che fosse amore e invece era un calesse. No, la genetica con tutto l’ambaradan di storte, provette, alambicchi software genetico-molecolari… c’entra come i cavoli a merenda, un reality giusto per imbastire una storia che abbia il fascino suggestivo del romanzo a puntate, il thrilling dove ci sono tutti gli ingredienti per la suspense in un pubblico aduso al cold case, alla scienza divulgativa e… al festival canoro. Qualcuno cercherà giustamente riscontri nei reperti e nei referti, soprattutto in quella catasta di faldoni che si può immaginare alta come la colonna traiana, e cercherà di comprendere il caso Bossetti in tutto quel repertorio di data accumulati in anni di indagine, dove la genetica la fa da protagonista principale (insieme a qualche altro elemento accidentale) con camici bianchi e laboratori immacolati. Tutto quell’alone da Big Science, con nomi così evocativi e suggestivi, è in grado di impressionare perfino un pubblico aduso a Quark e a Wikipedia... un festival di alleli, mitocondri e genomi: come trovarsi sull’ottovolante della doppia elica. Il contraddittorio tra accusa e difesa ci ha perfino illuso che si stava parlando di un delitto, di prove e riscontri, o al contrario di indizi labili, di un processo con tutto il suo sistema di procedure, codici, giurie, testimoni… tutto quello che permette alla fine una sentenza. L’impressione tuttavia è una sorta di imputato fantasma. Un muratore sì, con tutta la sua concretezza di lavoratore manuale, ma chissà come arrivato lì, forse caduto dal cielo come un Gesù Bambino, concepito in provetta con tutto il fascino della fecondazione assistita, perfino venuto alla luce in qualche agitatore molecolare, forse è un caso eccezionale di adulterio consumato direttamente in qualche alambicco. Ma forse la genetica non c’entra. Questo è il dubbio che comincia a insinuarsi nelle menti assai poco scientifiche, che scambiano un mitocondrio con un nucleotide, o peggio che confondono il mDna con l’album di Madonna, orribile a dirsi e a concepirsi perfino per un genoma alieno. Poco male, ormai alcuni l’han capito, il Dna non c’entra né punto e né poco, è soltanto un calesse per dirla col film perché in altro modo potrebbe toccare la suscettibilità di qualche chef dell’acido desossiribonucleico. Si tratta di un reality costruito in modo così geneticamente persuasivo e convincente che al confronto il Truman Show sembra solo una recita parrocchiale. Niente da invidiare al Grande Fratello, perfino più ‘incerto’ e ‘imprevedibile’ di una nomination all’Isola dei famosi. Gli elementi ci sono tutti per una sceneggiatura esilarante, se immaginiamo un pubblico che dalle poltrone di un cinema veda il film. Non noi che ci siamo dentro come comparse e ci immedesimiamo nel reality come se fosse tutto vero. Per gli opinionisti e il regista-demiurgo la serietà è d’obbligo, così come per i consulenti che recitano la loro parte con compunta e solenne gravità… Truman Burbank, frutto di una gravidanza indesiderata, era stato adottato da un network televisivo e fatto vivere su un isolotto, ignaro di essere protagonista di un reality e inconsapevole che la location fosse solo un gigantesco studio televisivo dove perfino il giorno, la notte e il meteo erano artificiali. Nel nostro di reality, al protagonista hanno trovato un padre biologico diverso da quello legale, in fondo sempre meglio un padre putativo (quale sia non si sa ed è davvero fin troppo facile indovinare che non si troverà mai), di una condanna all’ergastolo. Se poi di padri se ne ha più di uno - o per dirla papale papale mater semper certa est pater numquam - tutti usciranno con la testa alta e, come in qualunque lieto fine, saremo felici e contenti. Anche noi che finalmente potremo votare da casa... e sarà ancora una volta loshare a decidere il successo del reality e della nomination...
19 FEBBRAIO 2016. VENTISETTESIMA UDIENZA. PARLANO GIUSEPPE SPECCHIO E RUDI D’AGUANNO, DANIELE APOSTOLI E NICOLA MAZZINI.
Bossetti, duro colpo per la difesa. I periti informatici lasciano il pool. Gli esperti informatici Giuseppe Dezzani e Paolo Dal Checco hanno lasciato il pool difensivo di Massimo Giuseppe Bossetti. Oggi nuova udienza, scrive “L’Eco di Bergamo”. Proprio nell’udienza di oggi, venerdì 19 febbraio, in Tribunale si inizierà a parlare dei computer dell’imputato (sono previste le deposizioni dei consulenti dell’accusa) e delle sue presunte ricerche web a luci rosse con parole chiave come «tredicenni» accostate a inequivocabili dettagli di natura sessuale. Un duro colpo per la difesa dell’imputato, dato che Dezzani e Dal Checco, dello studio Difob (Digital forensics bureau) di Torino, sono esperti di fama, già consulenti di parte della Costa Crociere nella perizia sulle scatole nere della nave Concordia, ma anche consulenti della Procura di Asti nel caso dell’omicidio di Elena Ceste. Dezzani, classe 1969, è un ex sottotenente del Genio militare e ha svolto incarichi come perito in diversi tribunali e procure italiane. Dal Checco è un esperto nel settore della sicurezza e privacy delle comunicazioni. «Non intendiamo rilasciare dichiarazioni – ha dichiarato Dezzani telefonicamente a L’Eco di Bergamo – e precisiamo che non ci sono stati dissapori o diversità di vedute con la difesa di Bossetti». Dezzani ha aggiunto solo che «incarichi istituzionali che abbiamo assunto di recente ci impediscono di proseguire». Come mai una defezione proprio a ridosso delle udienze in cui avrebbero dovuto deporre come consulenti di parte? «Niente di strano – precisa Dezzani – i legali di Bossetti sanno da tempo che avremmo lasciato l’incarico». A quanto sembra, per il momento, gli esperti non sono stati sostituiti nel pool difensivo del muratore di Mapello, capitanato dagli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini. Una sorta di incompatibilità tra il proseguire il proprio lavoro e altri incarichi provenienti dall'autorità giudiziaria ed anche dall'Arma dei Carabinieri, in particolare dal Ros. Incompatibilità che per uno dei legali, Paolo Camporini, "non sussiste perché è un incarico assunto in precedenza e poi c'è un dovere di mandato: prima di rinunciare ad un mandato, visto che c'è un imputato che rischia l'ergastolo, ci vogliono ragioni vere, valide", scrive “L’ansa” e “Panorama” In un silenzio glaciale, in aula due carabinieri del Racis e due consulenti informatici hanno elencato le ricerche a sfondo pornografico compiute sul pc di Bossetti riguardanti "tredicenni per sesso" e "ragazzine". Una ricerca di questo tipo risale al 29 maggio del 2014, circa 15 giorni dell'arresto. Ricerche anche su Youtube, mentre ha fatto impressione sentire che con uno dei computer fu visto un video dal titolo "Come rimorchiare una ragazza in palestra". E il pensiero è tornato a quel pomeriggio del 26 novembre del 2010 quando Yara uscì dal centro sportivo di Brembate di Sopra e non fece mai più ritorno a casa. Altre ricerche riguardavano "Fatti di cronaca nera in merito a rapimenti e violenza sessuale su minore". I difensori non si sono scomposti e hanno ricordato come già un Tribunale del Riesame aveva scritto che non vi è la certezza che quelle ricerche siano state fatte proprio da Bossetti.
Bossetti, la mamma e la moglie deporranno in aula il 24 febbraio. Prosegue il processo a carico di Massimo Bossetti, muratore di Mapello accusato del delitto di Yara. Lui potrebbe essere sentito il 4 marzo, scrive “L’Eco di Bergamo”. Nell’udienza del 24 febbraio saranno sentite Ester Arzuffi, la mamma di Bossetti, e Marita Comi, la moglie, con altri familiari dell’imputato. Per Massimo Bossetti, invece, l’esame potrebbe iniziare il 4 marzo. Nell’udienza di oggi, 19 febbraio, al centro dell’attenzione i computer di Bossetti. Il tenente Giuseppe Specchio ed il maresciallo Rudi D’Aguanno, carabinieri del Racis, hanno risposto alle domande del pm Letizia Ruggeri. I due esperti hanno spiegato di aver analizzato due pc di Bossetti (uno fisso e uno portatile), 5 pendrive e una decina di cellulari: sui pc risultano ricerche di contenuti a luci rosse legate a ragazzine. Una ricerca databile risale al maggio del 2014, circa un mese prima dell’arresto. I due consulenti hanno spiegato che sul pc c’erano tre account di accesso: quello di Bossetti, il profilo «amministratore» il profilo «ospite». In aula è stato detto anche che la sera della scomparsa di Yara, il 26 novembre 2010, il pc di Bossetti risultava accesso alle 23,37. Il controesame dei due carabinieri da parte della difesa, invece, è stato rinviato. L’avvocato Paolo Camporini, che difende Bossetti insieme al collega Claudio Salvagni, ha infatti ha formulato due richieste alla Corte: il rinvio del controesame e la sostituzione dei due consulenti della difesa che hanno lasciato il pool difensivo, richieste che sono state accolte. I consulenti informatici della difesa, ha spiegato Camporini, hanno lasciato l’incarico per «questioni di opportunità» in quanto, di recente, hanno assunto degli impegni di carattere istituzionale, compresa una consulenza per il Ros dei carabinieri. «Non vi è stato alcun contrasto nè con la difesa, nè con l’imputato», ha chiarito il difensore. Consulenti, secondo il legale, a fronte di questi nuovi incarichi, hanno manifestato «un profondo disagio» nel proseguire l’attività con i difensori del muratore.
Omicidio Yara Gambirasio: le ricerche pornografiche sui dispositivi di Massimo Bossetti. Tre requisiti nella cronologia di ricerca: capelli rossi, vergine e tredicenne. Gli indizi costituirebbero delle prove importanti, considerando le caratteristiche fisiche della piccola Yara, scrive di Giulia Bordin su “Pontilenews”. Capelli rossi, vergine e tredicenne. Questi i requisiti delle ricerche pornografiche compiute da Massimo Bossetti tra il 31 gennaio 2010 fino al giorno del suo arresto, il 14 giugno 2014. A darne conferma sono gli esperti informatici dei Ris e del Racis dei carabinieri, che hanno analizzato i dispositivi informatici sequestrati al muratore di Brembate, unico imputato dell'omicidio di Yara Gambirasio, riscontrando del materiale pornografico: 2 pc, un Toshiba portatile e un Acer fisso, 5 pen drive e il disco rigido. Gli indizi costituirebbero delle prove importanti, considerando le caratteristiche fisiche della piccola Yara che, per l'appunto, aveva i capelli rossastri ed era tredicenne. Non solo ricerche pornografiche su siti come sesso.it, porno.it, diciottenni.com ecc., Bossetti avrebbe tentato anche di cancellare la cronologia delle ricerche da lui effettuate utilizzando programmi appositi in grado di fornire una navigazione anonima, come: Ccleaner, Inprivate Browsing e Sandbox. In questo arco temporale, che andrebbe dal 31 gennaio 2010 fino al giorno del suo arresto, il 14 giugno 2014, Bossetti avrebbe anche effettuato ricerche digitando parole chiave relative a fatti di cronaca nera, rapimenti e violenza sessuale su minorenni, leggendo anche del caso di Matteo Meneghello di Bovolenta, l'uomo arrestato per violenza sessuale nei confronti di una minore. È quanto emerso in aula dalla relazione degli investigatori. Sono passati sei anni e l'unico imputato per l'omicidio di Yara Gambirasio è sempre e solo lui, Massimo Bosseti. Mercoledì 24 febbraio è prevista la prossima udienza che sarà sicuramente una delle più seguite: in aula, infatti, verranno chiamati a testimoniare Ester Arzuffi, Fabio Bossetti, Marita Comi insieme al fratello Agostino, rispettivamente madre, fratello, moglie e cognato dell’imputato.
Yara, spuntano ora le prove sul pc che incastrano Bossetti, scrive Adriana Costanzo su "Rete News” il 20 febbraio 2016. Spuntano segreti (ormai non più tali) dai due computer di Massimo Bossetti, imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio. Come documenta il quotidiano Il giorno, il tenente Giuseppe Specchio e il maresciallo Rudi D’ Aguanno, del Racis, il Raggruppamento carabinieri investigazioni scientifiche, come consulenti della Procura, hanno analizzato i due pc sequestrati all’imputato (un Acer fisso e un notebook Toshiba), cinque pen-drive e dieci telefonini. Siti porno – Nel computer fisso è stata trovata una “copiosa quantità di materiale pornografico”. Dall’esame del notebook sono emerse ricerche di contenuti a luci rosse legati a “ragazzine rosse”. Una ricerca viene effettuata alle 9.55 del 29 maggio del 2014, solo diciassette giorni prima del fermo, quando “Massimo” digita la parola “ragazzine”, seguita da dettagli pornografici. Succede lo stesso il 30 novembre del 2011, a un anno dalla morte di Yara. La ricerca è quella di “tredicenni per sesso”. In questo caso, precisano però i consulenti, è risultato impossibile chiarire se si è trattato di una vera ricerca da parte di chi stava usando il computer, oppure di un “suggerimento” venuto da Google. Due consulenti del pubblico ministero, Daniele Apostoli e Nicola Mazzini, vengono interpellati. La difesa – L’avvocato Enrico Pelillo, parte civile per la famiglia Gambirasio, chiede se c’ è stata attività sul pc anche nella serata del 26 novembre 2010, quando Yara sparisce. “Sì, ma è impossibile dire chi l’abbia acceso e per cosa l’abbia usato”. Dal pc viene anche cercato “come rimorchiare una ragazza in palestra”. Risultano accessi a siti d’incontri e altri come “diciottenni.com”. Secondo il difensore Claudio Salvagni “non c’è nessuna certezza su chi fosse il reale utilizzatore dei computer e che l’utilizzo non si poteva attribuire con sicurezza alla mano di Bossetti”.
Ricerche porno nei pc di Bossetti, e ora tocca alla moglie difenderlo. Udienza sul materiale elettronico del carpentiere e le sue ricerche in internet: "Ragazzine e delitti di giovani". Settimana prossima in aula i parenti, scrive Mauro Paloschi il 20 febbraio 2016 su "Bergamo News". Dopo l’omicidio di Yara Gambirasio, dal computer di Massimo Giuseppe Bossetti furono cercate notizie su quel delitto e su quelli di altre minorenni digitando su Google: “Fatti di cronaca nera in merito a rapimenti e violenza sessuale su minore”, o sul caso di Matteo Meneghello di Bovolenta, arrestato per violenza sessuale nei confronti di una minore. E’ uno dei particolari emersi nel corso dell’udienza di venerdì 19 febbraio al processo sul brutale omicidio della tredicenne di Brembate Sopra. Unico imputato il carpentiere 45enne di Mapello che forse sarà interrogato il 4 marzo. Di fronte alla Corte d’Assise presieduta dal giudice Antonella Bertoja, i tecnici dei Ros e del Racis, consulenti della procura che hanno analizzato il materiale elettronico sequestrato a casa Bossetti: due computer (uno fisso e uno portatile), cinque chiavette USB e una decina di cellulari. Gli esperti hanno risposto solo alle domande del pubblico ministero Letizia Ruggeri e dell’avvocato della famiglia Gambirasio, Enrico Pelillo. Hanno invece chiesto alla Corte e ottenuto di rinviare il controesame i legali di Bossetti, Caludio Salvagni e Paolo Camporini, in quanto proprio alla vigilia dell’udienza sui computer, i periti informatici Giuseppe Dezzani e Paolo Dal Checco, hanno rinunciato alla difesa di Bossetti. Per altri impegni, ha spiegato Salvagni. Ma cosa è emerso dai computer di Bossetti? “Ragazze rosse con poco pelo sulla vagina”, “Giovani piccole scopate”, “Ragazza nuda rossa imbragata”. Queste alcune delle ricerche effettuate dal 31 gennaio 2010 fino al giorno del suo arresto, il 16 giugno 2014. I tecnici hanno parlato di “copioso materiale pornografico” e ricerche su siti come “sesso.it, porno.it, diciottenni.com, sessosadomaso.com, easyincontri.com”. Fin qui non ci sarebbe nulla di penalmente rilevante. Ma sono le parole chiave usate per le ricerche soprattutto su Google e di video su Youtube a far scendere il gelo nell’aula, quando vengono citate: “Ragazzine con vagine rasate” (ricerca fatta alle 9,55 del 29 maggio 2014), “Ragazze vergini rosse” (27 novembre 2013 alle 22,14), “Ragazzine rosse tredicenni X sesso”, “Orge di ragazze che si fanno scopare da tutti”, “Verginità”, “Ragazze fighette” e “Perdere la verginità senza dolore ragazze” (nell’ordine una ricerca fatta su Google e un video visualizzato su wikihow.com l’8 gennaio 2014 alle 23,26). E ancora: “Teen porn sex video”, “Ragazzine porche con vibratori”, “Sesso con ragazzine giapponesi”, “Teen pompino”, “Teen topa rossa piena di lentiggini con la pelle bianca”, “Come rimorchiare una ragazza in palestra” (video visualizzato sul sito video.virgilio.it). Di questa ricerca dagli aspetti ossessivi, gli inquirenti sono riusciti a tracciarne con esattezza solo una parte. Per molti altri è stato impossibile stabilire con certezza la cronologia e il modo in cui ci si è arrivati, perché Bossetti ha usato programmi come Ccleaner, Inprivate Browsing, Sandbox, per cancellare la cronologia o per fornire una navigazione anonima. In aula Bossetti ha ascoltato impassibile, come sempre, la relazione degli investigatori. Si vedrà se e come reagirà alla prossima udienza mercoledì 24 febbraio, che di sicuro sarà una delle più seguite. In aula, fra gli altri, a testimoniare ci saranno la mamma Ester Arzuffi, il fratello Fabio Bossetti, la moglie Marita Comi e il cognato Agostino.
24 FEBBRAIO 2016. VENTOTTESIMA UDIENZA. PARLANO ALMA AZZOLIN, RODOLFO LOCATELLI, ESTER ZUFFI, MARITA COMI, FABIO BOSSETTI, OSVALDO MAZZOLENI.
Caso Yara, la testimone ribadisce «Vidi Bossetti in auto con lei». L’udienza del 24 febbraio si è aperta con la deposizione di Alma Azzolin, la donna di Trescore Balneario che ha raccontato di aver visto Bossetti a Brembate Sopra in compagnia di una ragazzina. La difesa: non era lui, scrive "L'Eco di Bergamo". «Vede qui in aula la persona che ha descritto?». «Sì, è lui». Quando l’avvocato Enrico Pelillo, legale della famiglia Gambirasio, ha chiesto ad Alma Azzolin se riconosceva Bossetti nell’uomo che aveva visto a Brembate Sopra l’estate prima del delitto la donna non ha avuto dubbi e ha indicato il muratore di Mapello. È uno dei passaggi chiave dell’udienza del 24 febbraio, che si è aperta verso le 10 in un Tribunale di Bergamo affollatissimo (aula vietata a fotografi e videocamere come le altre volte) e con misure di sicurezza rafforzate. Alma Azzolin è una delle persone chiamate a testimoniare nella giornata di oggi insieme ai familiari di Bossetti. La donna, di Trescore Balneario, nell’estate del 2010 era stata a Brembate Sopra per accompagnare la figlia agli allenamenti di ciclismo. Azzolin ha raccontato di aver visto in due circostanze un uomo in cui ha riconosciuto Bossetti. La prima volta nel parcheggio del cimitero, che si trova vicino al centro sportivo: «L’uomo è arrivato a bordo di una station wagon – ha raccontato in aula – poco dopo è arrivata una ragazzina con i capelli lunghi ed è salita in auto. L’uomo mi fissava». La seconda all’Eurospin: «Ero nel supermercato a prendere delle bibite e alla cassa ho rivisto lo stesso uomo con delle birre, l’ho riconosciuto», ha raccontato Azzolin. Dopo il fermo di Bossetti, il 14 giugno 2014, guardando una trasmissione televisiva che mostrava anche il parcheggio del cimitero si era ricordata della circostanza e ne aveva parlato con i carabinieri, poi era stata convocata dai militari per deporre. Dopo una breve sospensione, l’udienza è ripresa con il controesame della difesa. L’avvocato Claudio Salvagni ha mostrato in aula un video con il tragitto compiuto da Azzolin il giorno in cui la donna avrebbe visto Bossetti al cimitero, mentre il collega Paolo Camporini ha rivolto alcune domande riguardanti alcuni dettagli riferiti dalla donna. Per esempio, ha chiesto il colore dei capelli della ragazzina: «Marrone scuro» ha risposto Azzolin, mentre il legale le ha le contestato che in un’altra occasione aveva detto castano chiari. Anche per quanto riguarda la vettura station wagon, Camporini ha fatto notare che in passato la donna aveva detto il colore dell’auto, ma non aveva specificato il modello. Alma Azzolin comunque si è detta sicura del fatto che «la ragazzina sull’auto era Yara, ho intravisto anche l’apparecchio ai denti». «La polizia – ha aggiunto – mi mostrò alcune fotografie di Yara e l’ho riconosciuta nella ragazzina che avevo visto». Anche in aula è stato mostrato ad Azzolin un album di fotografie di Yara, tra le quali le donna ha riconosciuto quella più vicina al suo ricordo, la stessa foto che indicò all’epoca agli investigatori. La tensione è salita quando l’avvocato Camporini ha chiesto alla Corte (contraria la pm Ruggeri) di acquisire le informazioni meteo di giovedì 9 settembre 2010, giorno che la testimone aveva definito caldo e afoso. Il difensore ha sostenuto a gran voce di poter documentare che Bossetti non è stato a Brembate Sopra in nessun martedì e giovedì (giorni degli allenamenti della figlia di Azzolin) di agosto e settembre. La verifica sul meteo servirebbe a verificare se i ricordi della testimone coincidono con la realtà. La deposizione di Azzolin si è conclusa verso le 13.
«Dì che Bossetti ha confessato». Ma il compagno di cella non accettò. Nell’udienza del 24 febbraio è stato sentito (a porte chiuse) anche Rodolfo Locatelli, che è stato compagno di sezione di Massimo Bossetti nel carcere di via Gleno. «Un altro detenuto mi chiese di avvalorare la sua tesi raccontando che Bossetti aveva confessato il delitto, ma io dissi di no», scrive "L'Eco di Bergamo". Rodolfo Locatelli ha parlato in aula per circa mezz’ora a porte chiuse, dietro un paravento. Prima di lui aveva parlato Alma Azzolin. Il detenuto ha raccontato che in carcere un altro detenuto (Loredano Busatta, il pregiudicato che raccontò di avere raccolto confidenze di Bossetti, riguardanti il delitto) gli suggerì di avvalorare la sua tesi, dicendo «che Bossetti aveva confessato», una richiesta che Locatelli rifiutò perché da Bossetti non aveva sentito nulla di questo e perché «una persona seria queste cose non le fa». Il compagno di cella ha specificato di non aver mai parlato con Bossetti di Yara in modo specifico: «Abbiamo parlato qualche volta di aspetti processuali, ma le nostre conversazioni non sono mai state specifiche», nessuna confessione dunque. Sempre Locatelli ha raccontato in aula che «una volta in parlatorio Bossetti fece degli apprezzamenti su mia sorella di 19 anni, gli dissi di smetterla, ma fu nulla di eccessivo» e che Bossetti in un’occasione, guardando una rivista, si soffermò a guardare le immagini di ragazzine. E ancora: «Un altro detenuto mi riferì che a Bossetti erano stati sequestrati 500 mila euro all’estero, in Germania», ha spiegato Locatelli, che in un’altra fase della deposizione ha raccontato: «Bossetti mostrò a un detenuto marocchino una ferita che aveva sulla schiena, sostenendo che era una ferita d’arma da fuoco, ma a me non sembrava».
Il giorno dei sentimenti al processo. Parlano la mamma e la moglie di Bossetti. Dopo le tante udienze di natura tecnica, in cui si è parlato di Dna e delle indagini, mercoledì 24 febbraio è il giorno dei sentimenti, dell’emozione e del fattore umano nel processo Bossetti, visto che sul banco dei testimoni parleranno anche la mamma Ester Arzuffi e la moglie Marita Comi, scrive "L'Eco di Bergamo". Dovrebbero (non sono obbligate a farlo essendo parenti dell’imputato, ma sembra che lo faranno) essere ascoltate nel primo pomeriggio, verso le 15, di una giornata che si preannuncia molto intensa, visto che sono convocati anche Fabio Bossetti, fratello dell’imputato, e due cognati. Ma saranno sentiti pure un uomo che raccontò di aver visto Bossetti in auto con una ragazzina e un detenuto che condivise la cella con il carpentiere accusato di aver ucciso Yara Gambirasio. È la seconda volta, dopo la prima udienza nello scorso luglio, che parlano i familiari delle persone implicate in un caso che è diventato ben presto nazionale: nella scorsa estate sul banco dei testimoni ci fu infatti l’intervento dei genitori di Yara, Fulvio Gambirasio e Maura Panarese. C’è naturalmente grande attesa e curiosità per ascoltare ciò che diranno Ester Arzuffi, la mamma di Bossetti, che ha sempre negato il suo rapporto con l’autista di pullman Giuseppe Guerinoni (morto nel 1999), che l’esame del Dna ha stabilito essere il padre naturale di Massimo, e Marita Comi, la moglie del carpentiere, che ha sempre difeso in pubblico il marito.
Bossetti, mamma e fratello in aula. «Preferiamo non rispondere». Ester Arzuffi, la madre di Massimo Bossetti, imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio, si è avvalsa della facoltà di non rispondere in quanto congiunta dell’imputato. Lo stesso ha fatto il fratello, Fabio Bossetti. Ester è arrivata in Tribunale poco prima delle 15 di mercoledì 24 febbraio per deporre come testimone nell’udienza a carico del figlio accompagnata dal suo legale e da due guardie del corpo, scrive "L'Eco di Bergamo". Ha preferito di avvalersi della possibilità di non rispondere in quanto congiunta Ester Bossetti Arzuffi, madre di Massimo Bossetti, nel processo a carico del figlio per l’omicidio di Yara Gambirasio. La deposizione della donna pertanto è durata pochi istanti. Ester Arzuffi si è seduta sul banco dei testimoni e ha rivolto un saluto con la mano e un sorriso al figlio. Dopo essere stata avvertita dal presidente della corte che poteva avvalersi della facoltà di non rispondere ha deciso in tal senso. La donna ha sempre negato, come invece stabilito dalle indagini, che Massimo Bossetti sia figlio dell’autista di autobus morto nel 1999, Giuseppe Guerinoni. Anche accertamenti scientifici esperiti dalla famiglia in forma privata hanno stabilito che Massimo non è figlio di Giovanni Bossetti. Si è avvalso della facoltà di non rispondere anche Fabio Bossetti, fratello di Massimo, che in aula ha detto: «State facendo un grave errore, mi avvalgo della facoltà di non rispondere». La madre di Massimo Bossetti è giunta in Tribunale poco prima delle 15 in compagnia del suo legale, Benedetto Maria Bonomo, ed è rimasta impassibile di fronte alla folla di cameraman che hanno ripreso il suo arrivo. «Fate passare», hanno detto i due bodyguard che hanno accompagnato la donna. Sempre nel pomeriggio è prevista la deposizione della moglie di Bossetti, Marita Comi, che è arrivata in auto poco prima di Ester. Nella mattinata sono stati invece sentiti Alma Azzolin e Rodolfo Locatelli.
Bossetti, si parla dei siti a luci rosse. Lui sbotta in aula: «Basta, è intollerabile». Le dichiarazioni in aula di Marita Comi, moglie di Massimo Bossetti, durante l’udienza del 24 febbraio. «Massimo non ha mai fatto ricerche su tredicenni in internet». Tensione in aula quando un legale chiede dei siti hard, l’imputato sbotta: «È intollerabile», scrive "L'Eco di Bergamo". Marita Comi, moglie di Massimo Bossetti, contrariamente alla madre dell’uomo Ester Arzuffi, ha scelto di rispondere alle domande nel processo a carico di suo marito per l’omicidio di Yara Gambirasio. La sua deposizione è durata circa 2 ore e mezza. Rispondendo alle domande di Letizia Ruggeri sulle ricerche trovate nei due computer di casa ha spiegato di non aver «mai fatto ricerche su tredicenni». Per quanto riguarda le ricerche a sfondo pornografico, Marita Comi ha detto che «qualche volta le facevo io, qualche volta insieme, oppure io da sola». Massimo Bossetti, durante la deposizione della moglie ha esclamato: «È intollerabile, basta!». È successo quando il legale di parte civile della famiglia Gambirasio, Enrico Pelillo, ha cercato di stabilire chi avesse fatto alcune ricerche a sfondo sessuale su internet, elencandole una ad una. La moglie di Bossetti ha detto più volte «non posso escluderlo», ribadendo però di non aver mai effettuato ricerche riguardanti tredicenni. Alla moglie è stato chiesto anche come mai durante un colloquio intercettato in carcere (dicembre 2014) avesse chiesto ripetutamente al marito dove fosse il 26 novembre: Marita ha risposto di aver rivolto quelle domande «per vedere se si ricordava qualcosa». Sul punto ha insistito in modo particolare l’avvocato di parte civile Andrea Pezzotta. Marita ha spiegato che se Massimo Bossetti non le avesse detto la verità «sarebbe crollato subito» e ha evidenziato che era «travolta dalle notizie che arrivavano, che sembravano certezze e io volevo verità». Marita Comi ha aggiunto che qualora suo marito fosse stato colpevole, l’avrebbe lasciato «anche per tutelare i miei bambini». Nel corso della giornata hanno deposto in aula anche Alma Azzolin, la donna che dice di avervisto Bossetti in auto con Yara a Brembate Sopra, e Rodolfo Locatelli, che è stato compagno di cella di Bossetti. Nel pomeriggio, dopo Marita, la deposizione di Osvaldo Mazzoleni, cognato di Bossetti.
Bossetti, mamma e fratello in aula. «Preferiamo non rispondere». Ester Arzuffi, la madre di Massimo Bossetti, imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio, si è avvalsa della facoltà di non rispondere in quanto congiunta dell’imputato. Lo stesso ha fatto il fratello, Fabio Bossetti. Ester è arrivata in Tribunale poco prima delle 15 di mercoledì 24 febbraio per deporre come testimone nell’udienza a carico del figlio accompagnata dal suo legale e da due guardie del corpo, scrive "L'Eco di Bergamo". Ha preferito di avvalersi della possibilità di non rispondere in quanto congiunta Ester Bossetti Arzuffi, madre di Massimo Bossetti, nel processo a carico del figlio per l’omicidio di Yara Gambirasio. La deposizione della donna pertanto è durata pochi istanti. Ester Arzuffi si è seduta sul banco dei testimoni e ha rivolto un saluto con la mano e un sorriso al figlio. Dopo essere stata avvertita dal presidente della corte che poteva avvalersi della facoltà di non rispondere ha deciso in tal senso. La donna ha sempre negato, come invece stabilito dalle indagini, che Massimo Bossetti sia figlio dell’autista di autobus morto nel 1999, Giuseppe Guerinoni. Anche accertamenti scientifici esperiti dalla famiglia in forma privata hanno stabilito che Massimo non è figlio di Giovanni Bossetti. Si è avvalso della facoltà di non rispondere anche Fabio Bossetti, fratello di Massimo, che in aula ha detto: «State facendo un grave errore, mi avvalgo della facoltà di non rispondere». La madre di Massimo Bossetti è giunta in Tribunale poco prima delle 15 in compagnia del suo legale, Benedetto Maria Bonomo, ed è rimasta impassibile di fronte alla folla di cameraman che hanno ripreso il suo arrivo. «Fate passare», hanno detto i due bodyguard che hanno accompagnato la donna. Sempre nel pomeriggio è prevista la deposizione della moglie di Bossetti, Marita Comi, che è arrivata in auto poco prima di Ester. Nella mattinata sono stati invece sentiti Alma Azzolin e Rodolfo Locatelli.
L’umanità dell’uomo stanco. Alla fine Bossetti piange in aula. Alla fine non ha retto. Quel groppo in gola che si ingrossava ad ogni ricordo dei figli, snocciolati con un fil di voce dalla moglie Marita, si è rotto e Bossetti non ha più trattenuto le lacrime. Emanuele Roncalli, scrive "L'Eco di Bergamo". I corsi di nuoto e di majorettes, la ginnastica ritmica, le risate e il pranzo della domenica con i cognati. I flash di una vita quotidiana che non c’è più sono tornati come lampi d’emozione nella testa del muratore. E in un crescendo di ansia e tensione, appena Marita ha rievocato i ritorni a casa, la sera, del marito con le figurine o un giochino per i bimbi, con la tavola già apparecchiata, lui si è messo le mani al volto, bagnato da un pianto subito soffocato. Che non sarebbe stata un’udienza facile per il muratore di Mapello e per tutti si è capito subito. Uscito dal furgone della Polizia penitenziaria, Bossetti ha fatto anticamera più di mezz’ora, da solo, in un corridoio vicino all’aula, camminando in lungo e in largo nervosamente, quasi a contare i passi e i minuti. Stretto nel pullover bianco, non si è perso una parola della moglie Marita. E quando la stessa è stata incalzata dalle domande del pm Ruggeri e dell’avv. Pelillo in merito alle ricerche a luci rosse in internet a un certo punto è sbottato: «È intollerabile, adesso basta».
Una testimone: "Vidi Bossetti in auto con una ragazzina, per me era Yara", scrive “Il Giorno”. Nuova tappa del processo a Massimo Bossetti, accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio. Una giornata segnata dalla presenza in aula di Ester Bossetti Arzuffi (madre del muratore di Mapello) e di Marita Comi (moglie di Bossetti) e dalla testimonianza di Alma Azzalini. Ester Arzuffi e Fabio Bossetti, rispettivamente madre e fratello di Massimo Bossetti, imputato dell'omicidio di Yara Gambirasio, chiamati a testimoniare davanti alla Corte d'assise di Bergamo, si sono avvalsi dellafacoltà di non rispondere, consentita loro in quanto congiunti dell'imputato. "Vorrei ribadire che state facendo un grosso errore", ha detto Fabio Bossetti prima di annunciare la sua indisponibilità alla testimonianza. Oggi in aula Alma Azzolini, ha ricordato di aver visto nell'estate del 2010 (in un giorno collocato tra fine agosto e inizio settembre), Massimo Bossetti, nel parcheggio di un cimitero, in compagnia di una ragazzina che era salita a bordo della sua auto. La donna ha raccontato che l'uomo che aveva visto in auto con quella ragazzina (che poteva avere 13-14 anni) l'aveva "fissata intensamente, tanto che ho provato disagio". Vede quell'uomo in quest'aula? Le è stato chiesto: "quell'uomo è Massimo Bossetti". Azzolini ha quindi raccontato di aver rivisto Bossetti una seconda volta in un supermercato. "L'ho riconosciuto come il signore del parcheggio. E sono sicura che fosse lui perché aveva gli stessi occhi e lo stesso sguardo" anche se questa volta aveva uno sguardo normale. Dell'uomo le era infatti rimasto particolarmente impresso anche il colore degli occhi, particolarmente chiaro. Secondo la testimone la ragazza che vide in auto nell'estate 2010 a bordo di un'auto con quello che ritiene essere Massimo Bossetti, era Yara Gambirasio. La donna, durante la sua deposizione, ha spiegato che, una volta viste le immagini di Yara quando era scomparsa, si convinse di averla già vista. Solo dopo aver visto le immagini di una trasmissione televisiva che ritraeva il cimitero avrebbe fatto mente locale. "La ragazza che vidi in macchina aveva l'apparecchio per i denti ed aveva le guance molto rosse". I difensori di Massimo Bossetti, durante il controesame la testimone, hanno spiegato di avere degli elementi in base ai quali sono convinti di poter dimostrare che Bossetti quel giorno non era dove ha raccontato la testimone. Poiché, infatti, la donna accompagnava la figlia agli allenamenti di ciclismo il martedì e il giovedì e dal momento che la donna colloca l'episodio tra metà agosto e l'inizio dell'anno scolastico, secondo i difensori l'unico giorno che può essere preso in considerazione è il 9 settembre. "Possiamo dimostrare - hanno spiegato gli avvocati - che in tutti i martedì e i giovedì di quel periodo Bossetti si trovava a pranzo lontano. E possiamo anche dimostrare che non c'era neanche il 9 settembre 2010". Marita Comi, moglie di Massimo Bossetti, contrariamente alla madre dell'uomo Ester Arzuffi, ha scelto di rispondere alle domande nel processo a carico di suo marito per l'omicidio di Yara Gambirasio. Rispondendo alle domande di Letizia Ruggeri sulle ricerche trovate nei due computer di casa, ha spiegato di non aver «mai fatto ricerche su tredicenni». Per quanto riguarda le ricerche a sfondo pornografico, Marita Comi ha detto che «qualche volta le facevo io, qualche volta insieme, oppure io da sola». Quando il legale di parte civile Enrico Pelillo ha cercato di stabilire chi avesse fatto alcune ricerche a sfondo sessuale dai pc di casa Bossetti, Marita Comi ha risposto: "Ma è lecito o no?". L'avvocato Pelillo a quel punto ha risposto polemico: "Se vuole una consulenza legale passi dal mio studio, qui risponda alle domande". Da qui la reazione stizzita di Bossetti, presente come sempre alle udienze: "E' intollerabile, basta!". Se Massimo Bossetti non le avesse detto la verità, «sarebbe crollato subito». Questa la convinzione della moglie del muratore di Mapello, Marita Comi, ribadita in aula durante il processo per l'omicidio di Yara Gambirasio. La donna, che durante i colloqui in carcere aveva posto al marito domande pressanti, ha spiegato che era «travolta dalle notizie che arrivavano, che sembravano certezze e io volevo verità». Marita Comi ha aggiunto che qualora suo marito fosse stato colpevole, l'avrebbe lasciato «anche per tutelare i miei bambini». Oggi, protetto da un paravento, ha testimoniato protetto anche l'ex compagno di cella dall'ottobre 2014 al febbraio 2015 di Massimo Bossetti, detenuto insieme a lui nella sezione "protetti" del carcere di Bergamo. "Con Bossetti non abbiamo discusso specificamente della morte di Yara Gambirasio - ha detto - Abbiamo discusso più volte dell'inchiesta, che abbiamo seguito dalle trasmissioni televisive", parlando principalmente delle diverse fasi dell'indagine. "Bossetti è sempre stato una persona molto chiusa e mi ha colpito perché non l'ho mai sentito dire qualcosa sulla ragazzina, ma era concentrato sulle fasi processuali. Non parlava mai della ragazzina". L'uomo, però, aveva mostrato interesse per la sorella dell'altro detenuto che aveva incontrato diverse volte durante i colloqui. "Mia sorella all'epoca aveva 19 anni - ha spiegato - è una ragazzina carina, acqua e sapone e sembra anche più giovane". Complimenti e apprezzamenti che Bossetti "ha fatto due volte, ma in ambiente carcerario succede spesso". Il 9 dicembre 2010, mentre Massimo Bossetti stava lavorando per il cognato Osvaldo Mazzoleni in un cantiere a Bonate e Mazzoleni, che di solito si occupava degli acquisti di materiale edile, gli "chiese il piacere" di acquistare della sabbia per ultimare la gettata di cemento del marciapiede esterno della casa che stavano ristrutturando. Lo ha spiegato lo stesso Mazzoleni: "Dovevamo finire il marciapiede esterno della casa e chiesi a Massi di farmi un piacere", ha spiegato in aula Mazzoleni, sottolineando però di "non sapere dove sia andato a comprare la sabbia" necessaria a completare i lavori. L'uomo ha sottolineato che proprio quella mattina "due persone, padre e figlio, dovevano venire a vedere una villetta nel cantiere di Palazzago che avevamo preso in permuta, con l'intenzione di acquistarla". Proprio per questo Mazzoleni, che nel pomeriggio ha acquistato 1,9 tonnellate di sabbia fine, per intonaci, da un fornitore abituale, aveva chiesto a Bossetti, in via del tutto eccezionale, di andare lui a comprare la sabbia mista per ultimare i lavori esterni. Il ricordo "è affiorato una o due settimane fa - ha spiegato l'uomo - mentre guardavo la trasmissione Quarto Grado e ho visto le foto scattate quel giorno dall'architetto Trivella", che aveva curato la progettazione del cantiere di Bonate, e "l'agenda" del professionista dov'erano elencati tutti i lavori. "Mi è tornato in mente tutto quando ho visto la foto di Massimo accanto al quale c'ero io", ha detto il cognato. Al pm Letizia Ruggeri, ai carabinieri di Bergamo l'uomo aveva sempre detto di non ricordare di aver chiesto a Bossetti di acquistare la sabbia. (Ha collaborato Gabriele Moroni).
Bossetti, una testimone in aula: "L'ho visto in auto con Yara". La difesa: "Non era lui". Alma Azzolin: "Colpita dai suoi occhi azzurri chiarissimi, come quelli di una volpe". E sulla ragazzina: "L'ho riconosciuta dai capelli e dall'apparecchio". La madre e il fratello non rispondono. La moglie: "Facevo ricerche porno ma mai sulle tredicenni". L'imputato sbotta: "Basta", scrive "La Repubblica". Una giornata calda e carica di momenti di tensione al processo contro Massimo Bossetti accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. In programma le audizioni di una teste e dei parenti dell’imputato. Dopo il primo colpo di scena con la signora Azzolin che dice di aver visto il muratore di Mapello in auto con Yara e dopo i silenzi della madre e del fratello dell’imputato, durante la deposizione della moglie sule ricerche porno fatte su Internet, Bossetti esplode in un “Basta è intollerabile”. La prima protagonista dell’udienza è Alma Azzolin, casalinga di Trescore Balneario (Bergamo), che dice di aver visto Bossetti in un periodo che va "da dopo Ferragosto ai primi di settembre del 2010, prima dell'inizio delle scuole" in compagnia di una ragazzina a bordo di una station wagon grigia nel parcheggio del cimitero di Brembate di Sopra (Bergamo). Quella ragazzina, secondo la donna, era Yara. La signora Azzolin ha spiegato di averla riconosciuta da una fotografia nella quale la 13enne ha i capelli sciolti e si vede che porta l'apparecchio. La donna ha spiegato anche di aver riconosciuto Bossetti "dallo sguardo quasi spiritato" e dagli "occhi azzurri chiarissimi, che sembravano quasi bianchi, come quelli di una volpe", con i quali l'aveva "fissata con forte intensità" in occasione del loro incontro. "Accompagnavo tutti i martedì e i giovedì mattina - ha spiegato la donna - mia figlia agli allenamenti della sua squadra di ciclismo", che partivano proprio dal centro sportivo di Brembate. "Una mattina avevo bisogno di andare in bagno - ha aggiunto la teste - e sapevo che nel parcheggio del cimitero c'era un cassone. Quando ho posteggiato è arrivata anche una station wagon grigia che si è posizionata davanti a me". L'uomo alla guida "aveva occhi chiarissimi e mi ha fissato con insistenza", poi "ha fatto un giro con la sua macchina ed è andato a piazzarsi vicino alla siepe che delimita il parcheggio". A quel punto la donna è uscita dall'auto ed è entrata nel cimitero per utilizzare la toilette. "Proprio in quel momento è arrivata una ragazza che avrà avuto 13, 14 o 15 anni e indossava una maglietta rosa scuro, salmone scuro e aveva le gambe scoperte, ma non ricordo che pantaloncini avesse. La ragazza - ha aggiunto la testimone - aveva i capelli lunghi, mossi: è arrivata correndo e si vedevano ondeggiare. E poi è salita in auto". I difensori di Bossetti, controesaminando la signora Azzolini, hanno spiegato di avere degli elementi in base ai quali sono convinti di poter dimostrare che Bossetti quel giorno non era dove ha raccontato la testimone. Poiché, infatti, la donna accompagnava la figlia agli allenamenti di ciclismo il martedì e il giovedì e dal momento che la Azzolini colloca l'episodio tra metà agosto e l'inizio dell'anno scolastico, secondo i difensori l'unico giorno che può essere preso in considerazione è il 9 settembre. "Possiamo dimostrare - hanno spiegato gli avvocati - che in tutti i martedì e i giovedì di quel periodo Bossetti si trovava a pranzo lontano. E possiamo anche dimostrare che non c'era neanche il 9 settembre 2010". Nella seconda parte dell'udienza si è presentata in aula Ester Arzuffi, la madre di Bossetti, che si è avvalsa della facoltà di non rispondere alle domande delle parti in quanto parente dell'imputato. Stessa scelta anche per Fabio Bossetti, fratello di Massimo. Ha invece deciso di rispondere alle domande Marita Comi, moglie dell'imputato. Al pm Letizia Ruggeri ha spiegato che le ricerche di materiale pornografico sul computer di casa "qualche volta le facevo io, qualche volta insieme, oppure io da sola". Ma ha precisato di "non aver fai fatto ricerche su tredicenni". "E' intollerabile, basta!". Massimo Bossetti è sbottato così durante il controesame della moglie Marita Comi da parte dell'avvocato, Enrico Pelillo, che ha incalzato la donna su chi fosse l'autore delle ricerche elencandole una dopo l'altra. La teste ha replicato a tutte le domande con un "può darsi, non posso escluderlo". E di fronte alle ripetute richieste del legale la moglie di Bossetti ha risposto: "Ma è lecito o no?". L'avvocato Pelillo a quel punto ha risposto polemico: "Se vuole una consulenza legale passi dal mio studio, qui risponda alle domande". Da qui la reazione stizzita di Bossetti, presente come sempre alle udienze: "È intollerabile, basta!". Nella sua deposizione Marita Comi ha ripetuto di essere convinta che se suo marito non le avesse detto la verità "sarebbe crollato subito". La donna, che durante i colloqui in carcere aveva posto al marito domande pressanti, ha spiegato che era "travolta dalle notizie che arrivavano, che sembravano certezze e io volevo verità". La Comi ha aggiunto che qualora suo marito fosse stato colpevole, l'avrebbe lasciato "anche per tutelare i miei bambini".
Marita Comi, rivelazione hot: così difende Bossetti, scrive di Salvatore Garzillo su “Libero Quotidiano”. Quell'uomo mi ha colpito perché aveva gli occhi talmente chiari che mi sembravano bianchi, come una volpe che avevo visto quell' agosto». È il giorno del supertestimone. Alma Azzolin racconta in aula di ricordare Massimo Bossetti mentre era in auto con una ragazzina che crede fosse Yara. Paragona il carpentiere di Mapello a una volpe, ricorda gli occhi di ghiaccio che incrociarono il suo sguardo in una assolata giornata d' estate tra l'agosto e il settembre del 2010. Si trovava nel parcheggio all' esterno del cimitero di Brembate Sopra, proprio davanti alla palestra che frequentava la ragazzina uccisa, stava aspettando la figlia dagli allenamenti di ciclismo quando accanto alla sua auto s'è fermata una station wagon grigia. Come la vettura di Bossetti. Pochi minuti dopo è arrivata la presunta Yara: «Avrà avuto 13, 14, 15 anni» ha raccontato Azzolin in aula, «aveva una maglietta color salmone e i capelli mossi che si muovevano mentre correva». È a questo punto che l'avvocato Enrico Pelillo, legale di Maura Panarese (la madre di Yara) le ha chiesto come mai quell'uomo incrociato per così poco tempo l'abbia colpita tanto. «Gli occhi». Quasi bianchi, indimenticabili, a suo dire. Quegli occhi che avrebbe incontrato una seconda volta non molto tempo dopo: «È stato al supermercato Eurospin di Brembate Sopra. L'ho riconosciuto, ma quella volta mi ha colpito meno perché era intento a fare altro e non mi ha fissato. Non ho dubbi che fosse il signor Bossetti». La domanda che tutti si pongono è perché la donna abbia aspettato tanto per farsi avanti e lei spiega che solo al momento dell'arresto di Bossetti, nel giugno 2014, ha collegato l'episodio e ha deciso di parlarne ai carabinieri. Durante il controinterrogatorio della difesa, Azzolin ha fornito ulteriori dettagli su quel giorno rispondendo alle domande dell'avvocato Paolo Camporini, per esempio che quando la ragazzina le è passata accanto «ho intravisto che portava l'apparecchio ai denti (come Yara, ndr)». Camporini: «Era Yara quella ragazzina?». Risposta: «Per me, sì». La testimone, incalzata dalla difesa, ha spiegato che ogni volta che in tv appariva il volto della vittima aveva l'impressione di averla già incontrata da qualche parte ma solo alla pubblicazione della foto del presunto assassino è riuscita a trovare la casella nella sua memoria. I legali di Bossetti hanno continuato a sostenere l'inattendibilità della teste avvalendosi anche dell'aiuto del meteo. Sostengono infatti che il giorno dell'incontro ci fosse maltempo mentre Azzolin dice che splendeva il sole. Il giorno in questione sarebbe il 9 settembre ed è stato individuato dai difensori con un calcolo delle probabilità. La donna accompagnava la figlia agli allenamenti il martedì e il giovedì attorno a mezzogiorno e poiché il periodo indicato è tra agosto e settembre, secondo loro l'unica data utile è quella. «Possiamo dimostrare» hanno dichiarato, «che in tutti i martedì e i giovedì di quel periodo Bossetti si trovava a pranzo lontano. E possiamo dimostrare che non c'era neanche il 9 settembre 2010». La madre Ester Arzuffi e il terzo fratello, Fabio, si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. L' unica che ha parlato è stata la moglie di Bossetti, Marita Comi. Che l'ha difeso dalle accuse del pm Letizia Ruggeri, si è presa la responsabilità delle ricerche trovate sul pc di casa, ha detto che era sempre «da sola o insieme a Massimo» e che nessuno dei due ha mai digitato la parola «tredicenni». Di fronte alle pressioni di Pelillo su questo, ha spiegato che lei cliccava su tutto, aprendo in questo modo all' ipotesi che una ricerca del genere possa essere stata fatta ma in totale inconsapevolezza. Ed è proprio allora che, d' improvviso, Bossetti è sbottato: «È intollerabile, basta!». Punto focale, però, restano le conversazioni che la donna ha avuto col marito nella sala colloqui del carcere di Bergamo. Comi gli chiede della sera dell'omicidio, quel 26 novembre 2010 di cui l'uomo dice di non avere ricordi. «Come fai a non ricordarti» gli domanda con insistenza, «cosa hai fatto quella sera lì? L' Agostino (il fratello di Marita, ndr) se lo ricorda, perché tu no?». L' arrestato non risponde. Eppure la moglie non ha dubbi sulla sua innocenza. «Uscivano notizie date per certe e io volevo sapere la verità da lui. Sono certa che sarebbe crollato, se fossero state vere. Lo conosco».
26 FEBBRAIO 2016. VENTINOVESIMA UDIENZA. A 5 ANNI DAL RITROVAMENTO DEL CORPO DI YARA. PARLANO NADIA ARRIGONI, MONICA E LUISELLA MAGGIONI.
«Massimo, un uomo dolce e affettuoso. La moglie è certa della sua innocenza». Bossetti, la cognata parla nell’udienza del 26 febbraio: «Massimo è un uomo dolce e affettuoso. Commentammo insieme il caso Yara, preoccupati per i nostri figli», scrive “L’Eco di Bergamo”. Nadia Arrigoni è la moglie di Agostino Comi, fratello di Marita Comi. Nadia e Marita sono legate da una profonda amicizia e confidenza. In aula ha risposto alle domande dell’avvocato dei Gambirasio, Enrico Pelillo, e dei difensori di Bossetti, gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini. «Massimo è una persona dolce e affettuosa - ha spiegato Arrigoni in aula - se Marita non fosse convinta della sua innocenza l’avrebbe lasciato». La cognata e il marito frequentavano spesso i coniugi Bossetti e, come ha raccontato Arrigoni in aula, in alcune occasioni avevano commentato il caso Yara esprimendo «preoccupazione per i nostri figli». Nadia Arrigoni in aula ha raccontato anche che in passato la famiglia Bossetti aveva avuto problemi economici in seguito ai quali aveva cambiato casa.
«Bossetti e le accuse a nostro fratello. Assedio sotto casa, non vivevamo più». Nell’udienza del 26 febbraio hanno parlato anche le sorelle di Massimo Maggioni, il collega di cantiere verso il quale Bossetti avanzò dei sospetti durante l’interrogatorio nel 2014, scrive “L’Eco di Bergamo”. Monica e Luisella Maggioni hanno parlato dopo Nadia Arrigoni, cognata di Bossetti. Hanno spiegato il loro stato d’animo e quello del fratello per la vicenda delle accuse formulate da Bossetti che aveva tirato in ballo il collega di cantiere. I fatti risalgono a luglio 2014, durante l’interrogatorio: in quella circostanza, il muratore di Mapello aveva affermato di soffrire di epistassi e di perdere spesso sangue, «anche mentre lavoravo» e di gettare il fazzoletto sporco di sangue nell’immondizia del cantiere di Palazzago, aggiungendo che Maggioni era presente spesso nel cantiere e poteva avere a disposizione quanto si gettava via. In sostanza, secondo Bossetti, il collega avrebbe potuto avere tracce del suo Dna prese da uno straccio o da un attrezzo del cantiere sporco di sangue: accuse che sono valse a Bossetti l’accusa di calunnia dopo le verifiche degli inquirenti. Le sorelle in aula hanno spiegato che Maggioni dopo le accuse «non dormiva più» e che «eravamo assediati dai giornalisti, non potevamo uscire di casa e abbiamo dovuto togliere i nomi dai citofoni. Ci sentivamo tutti gli occhi addosso». Sulla vicenda, lo scorso dicembre, proprio Bossetti aveva rilasciato dichiarazioni spontanee in aula precisando: «Non volevo accusare nessuno e ho avanzato solo un mio sospetto. In questa occasione mi sono visto accusare di calunnia, in modo ingiusto. Non volevo calunniare nessuno. Se poi vengo accusato di calunnia, non capisco il motivo. Se uno ha un dubbio o un sospetto, dovrebbe essere ascoltato».
Processo Bossetti, la cognata: "Caso Yara, Massimo era preoccupato per figli", scrive "Il Giorno". "Massimo è un uomo dolce e affettuoso" ha sottolineato la cognata di Bossetti tribunale nel processo sul caso Yara. La cognata di Bossetti ha dichiarato in tribunale nel processo sul caso Yara che "Massimo è un uomo dolce e affettuoso. Commentammo insieme il caso Yara, preoccupati per i nostri figli". Nadia Arrigoni è la moglie di Agostino Comi, fratello di Marita Comi, moglie di Bossetti. Nadia e Marita sono legate da una profonda amicizia e confidenza. In aula ha risposto alle domande dell'avvocato dei Gambirasio, Enrico Pelillo, e dei difensori di Bossetti, gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini. "Se Marita non fosse convinta dell'innocenza di Bossetti, l'avrebbe lasciato", ha dichiarato la cognata dell'imputato. Lei e il marito frequentavano spesso i coniugi Bossetti e, come ha raccontato Arrigoni in aula, in alcune occasioni avevano commentato il caso Yara esprimendo "preoccupazione per i nostri figli". Nadia Arrigoni in aula ha raccontato anche che in passato la famiglia Bossetti aveva avuto problemi economici in seguito ai quali aveva cambiato casa. Nell'udienza sono state sentite anche le sorelle di Massimo Maggioni, collega di cantiere verso il quale Bossetti avanzò dei sospetti durante l'interrogatorio nel 2014. Monica e Luisella Maggioni hanno parlato dopo Nadia Arrigoni. Hanno spiegato il loro stato d'animo e quello del fratello per la vicenda delle accuse formulate da Bossetti. I fatti risalgono a luglio 2014, durante l'interrogatorio: in quella circostanza il muratore di Mapello aveva affermato di soffrire di epistassi e di perdere spesso sangue, «anche mentre lavoravo» e di gettare il fazzoletto sporco di sangue nell'immondizia del cantiere di Palazzago, aggiungendo che Maggioni era presente spesso nel cantiere e poteva avere a disposizione quanto si gettava via. In sostanza, secondo Bossetti, il collega avrebbe potuto avere tracce del suo Dna prese da uno straccio o da un attrezzo del cantiere sporco di sangue: accuse che sono valse a Bossetti l'accusa di calunnia dopo le verifiche degli inquirenti. Le sorelle in aula hanno spiegato che Maggioni dopo le accuse «non dormiva più» e che «eravamo assediati dai giornalisti, non potevamo uscire di casa e abbiamo dovuto togliere i nomi dai citofoni. Ci sentivamo tutti gli occhi addosso». Sulla vicenda, lo scorso dicembre, proprio Bossetti aveva rilasciato dichiarazioni spontanee in aula precisando: «Non volevo accusare nessuno e ho avanzato solo un mio sospetto. In questa occasione mi sono visto accusare di calunnia, in modo ingiusto. Non volevo calunniare nessuno. Se poi vengo accusato di calunnia, non capisco il motivo. Se uno ha un dubbio o un sospetto, dovrebbe essere ascoltato».
Yara, la cognata di Bossetti in aula: "Era preoccupato per i figli". Il processo per l'omicidio della 13enne. La teste: "Uomo dolce e affettuoso, la moglie è convinta della sua innocenza altrimenti lo avrebbe lasciato". La sorella di un collega che lavorava nel cantiere: "C'era un uomo misterioso sempre davanti alla palestra, poi è sparito", scrive "la Repubblica" (ansa). "Abbiamo commentato molto la scomparsa di Yara. Eravamo preoccupati e spaventati, perché anche noi abbiamo figli piccoli. Questo avvenimento ci ha sconvolto. Se Marita non fosse convinta dell'innocenza di Bossetti, l'avrebbe lasciato". Lo ha detto in aula Nadia Arrigoni, la cognata di Massimo Bossetti, testimone al processo che vede il muratore unico imputato. Dopo la deposizione della moglie dell'uomo, oggi è stata la volta della moglie di Agostino Comi, fratello di Marita, che di Bossetti ha detto: "Ha un carattere dolce e affettuoso". La donna ha spiegato di avere un "rapporto costante" con la moglie di Bossetti, la vedeva una o due volte a settimana. Ha parlato del rapporto tra i due coniugi: quando litigavano "Massimo voleva far pace subito mentre lei stava un pò più sulle sue". Arrigoni ha escluso che Bossetti potesse avere avuto un atteggiamento aggressivo nei confronti della moglie e ha raccontato anche che in passato la famiglia Bossetti aveva avuto problemi economici e che per questo fu costretta a vendere la casa. Per la famiglia "è stato un brutto periodo", ha detto. Riguardo alle domande incalzanti fatte dalla moglie al marito, e venute fuori dalle intercettazioni ambientali, la testimone ha riferito di averne parlato con la cognata: "Marita si confida con me. E quando voleva chiarimenti chiedeva a Massimo se quello che veniva scritto dai giornali fosse vero o no. E ogni volta ne usciva sempre tranquillizzata" altrimenti "sicuramente avrebbe cambiato atteggiamento" e l'avrebbe piantata in asso, "sicuramente". In primo piano nella nuova udienza del processo, anche la vicenda che è costata al muratore di Mapello un'accusa di calunnia. Un interrogatorio nel quale Bossetti indicò un suo collega di cantiere come possibile autore del rapimento e dell'uccisione della tredicenne di Brembate. In aula sono state sentite le sorelle di Massimo Maggioni, il collega verso il quale Bossetti avanzò quei sospetti. Monica e Luisella Maggioni hanno spiegato il loro stato d'animo e quello del fratello. I fatti risalgono a luglio 2014, durante l'interrogatorio: in quella circostanza il muratore di Mapello aveva affermato di soffrire di epistassi e di perdere spesso sangue, anche al lavoro, e di gettare il fazzoletto sporco di sangue nell'immondizia del cantiere di Palazzago, aggiungendo che Maggioni era presente spesso nel cantiere e poteva avere a disposizione quanto si gettava via. In sostanza, secondo Bossetti, il collega avrebbe potuto avere tracce del suo Dna prese da uno straccio o da un attrezzo del cantiere sporco di sangue: parole che sono valse a Bossetti l'accusa di calunnia dopo le verifiche degli inquirenti. Le sorelle in aula hanno spiegato che Maggioni dopo le accuse "non dormiva più" e che "eravamo assediati dai giornalisti, non potevamo uscire di casa e abbiamo dovuto togliere i nomi dai citofoni. Ci sentivamo tutti gli occhi addosso". Sulla vicenda, lo scorso dicembre, proprio Bossetti aveva rilasciato dichiarazioni spontanee in aula precisando: "Non volevo accusare nessuno e ho avanzato solo un mio sospetto. In questa occasione mi sono visto accusare di calunnia, in modo ingiusto. Non volevo calunniare nessuno. Se poi vengo accusato di calunnia, non capisco il motivo. Se uno ha un dubbio o un sospetto, dovrebbe essere ascoltato". Monica Maggioni però ha raccontato anche che, prima della scomparsa di Yara, aveva notato più volte un uomo nell'auto della polizia locale che sostava nelle strade tutte intorno alla palestra. "Era un poliziotto solo in auto nelle ore serali vicino alla palestra. Era un ragazzo abbastanza alto. Quando lo vedi una o due volte vabbè, ma quando lo vedi sempre... mi era sembrata una presenza strana. Dopo la scomparsa di Yara è sparito".
Processo Yara, le domande di Marita a Bossetti, i dubbi in aula. La moglie dell'imputato racconta che il 26 novembre non ha notato nulla di strano. Ma allora perché lo tempesta di domande sulla sera in cui scomparve la ragazza? Scrive Carmelo Abbate su “Panorama” del 29 febbraio 2016. La sera del 26 novembre 2010, quando Yara Gambirasio esce dalla palestra e sparisce nel nulla, Marita Comi, la moglie dell'uomo accusato dell'omicidio della tredicenne di Brembate, era a casa e non ha notato nulla di strano. La donna si è presentata a testimoniare davanti alla Corte d'assise di Bergamo e ha raccontato che il marito è tornato alla solita ora e hanno fatto le solite cose di tutti i santi giorni: cena con i figli, televisione sul divano, computer, nanna. Dopo aver ascoltato le sue parole, l'avvocato Andrea Pezzotta, che rappresenta la famiglia Gambirasio, ha opposto alla donna le parole pronunciate durante una visita in carcere al marito. La conversazione, intercettata, è del 4 dicembre 2014 ed è riportata agli atti del processo. Marita ha un diavolo per capello: “No, ne abbiamo parlato anche negli anni scorsi, ci ho pensato Massi...Eri via quella sera, non mi ricordo a che ora sei venuto, e non mi ricordo neanche cosa hai fatto...Perché all'inizio mi ricordo che eravamo arrabbiati, quindi non te l'ho chiesto. È uscita dopo per la storia, così della scomparsa. E non mi hai mai detto che cosa hai fatto". In buona sostanza, Marita Comi sta dicendo che lei e il marito, negli anni precedenti l'arresto, hanno parlato più volte di cosa lui avesse fatto la sera in cui scompare Yara. Non nell'immediatezza, dice, perché erano arrabbiati. Circostanza, questa dell'arrabbiatura, che trova riscontro oggettivo nei tabulati telefonici, che non fanno registrare nessuna attività tra lei e il marito nei giorni successivi alla sparizione della ragazza. Ma quando la notizia della scomparsa monta sui giornali e le televisioni, ecco che Marita, stando alle sue parole intercettate, si rende conto che lui non le aveva detto nulla di quella sera. L'ho voluto interrogare io stessa per capire se mi aveva mentito. Questa la spiegazione fornita dalla donna all'avvocato Pezzotta riguardo al piglio incalzante delle domande rivolte al marito in carcere. L'ho messo sotto stress e ho capito che mi aveva detto la verità. Ci può stare. Il comportamento della moglie è plausibile. Ma il punto però è un altro. Se, come stai raccontando al processo, la sera in cui scompare Yara non registri alcun atteggiamento o fatto anomalo in tuo marito, per quale motivo nei mesi successivi, negli anni successivi, a più riprese, anche in presenza di tuo fratello Agostino, gli chiedi conto di quella sera? E riesci a fissare in quei giorni perfino un normale, banale litigio fra marito e moglie. Allora la domanda che pone Pezzotta è legittima: forse hai notato qualcosa di strano? Hai registrato un elemento di distorsione rispetto alle normali abitudini? Superata l'arrabbiatura, quando si diffonde la paura generale del rapimento di Yara, dopo che nei primi giorni nell'opinione pubblica non si escludeva una fuga a casa di qualche amica, forse Marita Comi ha avvertito qualche stranezza nel marito al punto da pressarlo con domande su quella fatidica sera del 26 novembre? Secondo Claudio Salvagni, l'avvocato difensore di Massimo Bossetti, non è possibile stabilire quando la donna rivolge queste domande al marito, e in ogni caso lo fa per aiutarlo nello sforzo di memoria. Un aiuto nella collocazione temporale lo fornisce il fratello della donna, Agostino Comi, che a precisa domanda rivolta dalla corte risponde che queste interrogazioni vanno collocate non molto lontane dalla sparizione di Yara. Dopo che hanno fatto pace, Marita vuole sapere che cosa ha fatto quella sera. E tutto ciò lo ricorda quattro anni dopo quando va a trovarlo in carcere.
Caso Yara, la madre di Bossetti: “Ecco perché non ho risposto in Aula. "Volevo tutelare la mia immagine di donna, moglie e madre, per questo ho preferito avvalermi della facoltà di non rispondere", scrive Mauro Paloschi il 29 febbraio 2016 su “Bergamo News”. “Volevo tutelare la mia immagine di donna, di moglie e di madre, per questo ho preferito avvalermi della facoltà di non rispondere”. Ester Arzuffi, la madre di Massimo Giuseppe Bossetti, il carpentiere di Mapello a processo come unico imputato per il brutale delitto di Yara Gambirasio, spiega così la decisione di non parlare all’udienza in cui era stata convocata come testimone. La 67enne, attraverso il suo avvocato Benedetto Maria Bonomo, ha voluto chiarire il motivo del cambio di rotta dopo l’annuncio attraverso un articolo su Bergamonews di non avvalersi della facoltà di non rispondere di fronte alle domande del pubblico ministero Letizia Ruggeri e dei legali di suo figlio e della famiglia Gambirasio. “Confermo che l’intenzione iniziale era quella di parlare. Ma dopo l’uscita di quell’articolo – spiega la donna tramite il suo legale – all’interno di diverse trasmissioni televisive nazionali è tornato in discussione il discorso della paternità di mio figlio. Temevo che potesse così riemergere anche in Aula, e non mi andava di affrontarlo di fronte a tutti. Anche perchè la verità ormai è nota e l’argomento credo possa considerarsi chiuso”. Una questione, quella della paternità dell’imputato (e della sorella gemella Laura Letizia), che finora ha fatto da contorno al processo, ma che è stata fondamentale per gli inquirenti nell’arresto di Bossetti dopo le tracce di dna ritrovate sul cadavere della giovane ginnasta. Se Massimo è sempre stato convinto di essere primogenito di Giovanni Bossetti, deceduto lo scorso 25 dicembre all’ospedale di Bergamo dopo una lunga malattia, prima del suo arresto la procura aveva invece scovato un’altra verità. Secondo le comparazioni del dna, il presunto omicida e la gemella sono figli di Giuseppe Guerinoni, l’autista di Gorno morto nel 1999. Una tesi confermata da un’indagine che la famiglia Bossetti fece eseguire privatamente nell’estate del 2014 all’Università di Torino, per verificare appunto la paternità di Massimo. Al di là di questo discorso, Ester Arzuffi rimane comunque convinta che il suo “Massi”, nonostante gli indizi a suo carico e quel codice genetico ritrovato su slip e leggins della piccola Yara, non c’entri nulla con l’omicidio della ragazzina di Brembate Sopra. “Anche se lo avessi detto in Aula, non sarebbe cambiato molto a livello processuale. Spero solo che la verità possa venire a galla e che il mio Massi possa tornare a casa dalla sua famiglia”. E prima di uscire dall’Aula dopo aver annunciato la sua decisione, la donna ha voluto mandare a un bacio a suo figlio seduto al banco degli imputati.
Gina, la donna che manda lettere in carcere a Bossetti. La questione è stata sollevata nel corso dell'interrogatorio in Aula della moglie dell'imputato: "Lei sa qualcosa dei rapporti di suo marito con una certa Gina?", scrive Mauro Paloschi il 27 febbraio 2016 su "Bergamo News". La domanda del pubblico ministero Letizia Ruggeri a Marita Comi non è stata accolta dalla Corte d’Assise. Ma la curiosità, tra il pubblico, è rimasta: ci sarebbe una donna, una certa Gina, detenuta a Bergamo, che da alcune settimane invia lettere a Massimo Giuseppe Bossetti, il carpentiere 45enne di Mapello a processo per il brutale delitto di Yara Gambirasio. La questione è stata sollevata nel corso dell’interrogatorio in Aula della moglie dell’imputato, quando la pm Ruggeri le ha chiesto: “Lei sa qualcosa dei rapporti di suo marito con una certa Gina?”. Una domanda che ha sorpreso Marita, che ha risposto: “No, non ne so nulla”. Per poi aggiungere però “Ah sì, quella delle lettere…”, prima di essere fermata dall’intervento degli avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che hanno chiesto e ottenuto al giudice Antonella Bertoja l’inammissibilità della domanda perché ritenuta fuori luogo. Gina sarebbe una donna detenuta, come Bossetti, nel carcere di via Gleno a Bergamo. Non è chiaro quante volte abbia scritto al carpentiere e quale sia stato il contenuto delle sue lettere, tanto da insospettire il pubblico ministero che ha seguito le indagini sull’omicidio della tredicenne di Brembate. Fatto sta che Bossetti, di fronte a questa richiesta, ha abbassato lo sguardo, come se fosse in imbarazzo.
Bossetti, il carcere e l'ammiratrice Gina, scrive Matteo Pandini il 28 febbraio 2016 su “Libero Quotidiano”. C'è un'altra detenuta nel carcere di Bergamo, una certa Gina, che da tempo è diventata una specie di amica di penna di Massimo Bossetti, il carpentiere accusato dell'omicidio della tredicenne Yara Gambirasio. La notizia è spuntata durante l'interrogatorio della moglie dell'imputato, Marita Comi, la quale prima ha detto di non saperne nulla e poi s' è ricordata: «Ah sì, quella delle lettere». La faccenda è morta lì, perché gli avvocati di Bossetti hanno chiesto e ottenuto dal giudice Antonella Bertoja l’inammissibilità della domanda. Fuori dal tribunale, i legali Claudio Salvagni e Paolo Camporini hanno detto di ignorare l'identità di Gina. E davanti alle telecamere hanno domandato con una punta di veleno: la procura come fa a conoscere la corrispondenza dell'imputato? Posta controllata - La posta di Massimo Bossetti non è più setacciata come nelle prime settimane di detenzione, quando era in una cella singola (per un periodo è stato accanto a quella di Antonio Monella, l'imprenditore condannato per aver ucciso un malvivente che gli era entrato in casa e gli stava rubando il suv). Ora tutte le lettere vengono aperte davanti al carpentiere, ma l'unico obiettivo è verificare che nella busta non ci sia qualcosa di proibito, per esempio qualche banconota. Il contenuto della missiva non viene letto. Ma il mittente, quando c' è, salta agli occhi. E da tempo c' è una corrispondenza tra Bossetti e un'altra detenuta: dopo aver visto l'uomo di Mapello in televisione, la donna ha deciso di scrivergli ricevendo risposte puntuali. I due non si possono vedere né si sono mai incontrati durante gli spostamenti all' interno della casa circondariale. Ma evidentemente scambiarsi qualche scritto è di reciproco conforto. Bossetti viene descritto come un detenuto modello. Poche parole con gli agenti di polizia penitenziaria, ancora meno con i compagni di sventura. Ora è ospitato in un'ala che custodisce gli uomini accusati o condannati per reati di tipo sessuale. Sono una ventina in tutto. Bossetti divide la cella con un'altra persona, un italiano, e non ha mai dato problemi. Condividono uno spazietto che prevede anche un bagno con porta battente. Sole e carte - Il carpentiere, in galera ormai dal giugno 2014, ha mostrato di gradire due attività tra tutte: d' estate, ama prendere il sole. Quando c' è l'ora d' aria si sdraia per terra cercando di catturare più tepore possibile. Poi c' è il biliardino: ci gioca volentieri. La sveglia in carcere è data verso le 8, ma volendo il muratore potrebbe stare a letto ancora per altre ore. E lui stesso ha confessato - in una lettera di quasi un anno fa - di dormire come non aveva mai fatto in vita sua, ammazzando il tempo tra partite di scala 40 e qualche visita: lo psicologo, il cappellano, l'avvocato, i parenti. Giornali e tv - Ora non ha limitazioni, a parte l'accesso a internet che resta escluso: può vedere la tv in chiaro e può leggere i giornali che vuole. Ha a disposizione un piccolo budget da spendere per farsi acquistare beni di prima necessità, dal sapone alle lamette da barba, e per quanto riguarda la biancheria affida i panni sporchi ai familiari che vengono a trovarlo e che gli portano i vestiti puliti. Lo fanno tutti i detenuti, tranne quelli che fuori dal carcere non hanno nessuno, e che quindi si rivolgono al buon don Resmini. Inutile dire che anche la biancheria viene sottoposta a controlli. Mentre fuori dal carcere Bossetti è ricercatissimo dalle tv, dentro è considerato un signor nessuno. Praticamente invisibile. Sibila qualche «buongiorno» e «buonasera» e nulla di più, anche se s' è lamentato perché qualcuno lo chiama «ammazza-bambini». Forse, è così sulle sue perché scottato da un precedente compagno di cella, Loredano Busatta, che aveva spifferato presunte confidenze di Bossetti sul delitto. Racconto che non ha trovato riscontri mentre un altro detenuto, Rodolfo Locatelli, ha spiegato di non aver mai raccolto confessioni dal presunto omicida di Yara, descrivendolo assai riservato. La difesa di Marita - Ora è spuntata questa Gina, con una domanda che la pm ha buttato lì a Marita Comi, poco dopo che la moglie del grande accusato s' era presa la responsabilità di aver navigato in siti pornografici. «È inammissibile!» era saltato su il Bossetti, furibondo per l'incalzare di domande così intime. Marita ha detto il vero, oppure ha mentito per proteggere l'uomo che ama? A quel punto ecco l'interrogativo della pm Letizia Ruggeri: «Lei sa qualcosa dei rapporti di suo marito con una certa Gina?».
Yara, venerdì è il giorno di Bossetti. Il suo legale: «Non vede l’ora di parlare». Il giorno di Massimo Bossetti. Venerdì 4 marzo il muratore di Mapello sarà chiamato a rispondere alle domande di accusa e difesa, scrive il 3 marzo 2016 “L’Eco di Bergamo”. Nel corso delle precedenti udienze, l’imputato ha chiesto solo in un paio di circostanze di intervenire con dichiarazioni spontanee. È accaduto quando si è parlato di una presunta crisi con la moglie Marita Comi e quando si è trovato di fronte a un imprenditore, che aveva ricordato le bugie del muratore per assentarsi dal cantiere. Anche la scorsa settimana è intervenuto mentre veniva interrogata la moglie. Bossetti non è invece mai intervenuto quando si è discusso del suo Dna nucleare, né quando sono state mostrate, durante un’udienza a porte chiuse, le immagini del corpo martoriato della ginnasta tredicenne di Brembate Sopra. Venerdì 4 marzo cosa dirà dunque Bossetti? Come potrà difendersi di fronte alle accuse che gli vengono mosse? Va anche precisato che le norme processuali prevedono che l’esame abbia luogo solo su richiesta o consenso dell’interessato. Il mancato consenso non può essere valutato dal giudice in senso negativo, perché è una scelta che attiene alla strategia difensiva. L’imputato inoltre non è vincolato all’obbligo di rispondere secondo verità, né è imputabile di falsa testimonianza. Dire il falso può, però, comportare conseguenze dal punto di vista processuale. «Massimo Bossetti non vede l’ora di parlare» ha già annunciato il suo legale Paolo Camporini qualche settimana fa. Ma Bossetti sarà interrogato solo nel pomeriggio. Nella mattinata i protagonisti saranno ancora gli ingegneri informatici Daniele Apostoli e Nicola Mazzini. Sono loro i primi ad essere sentiti nell’udienza di venerdì 4 marzo: consulenti del pm hanno analizzato i due pc della famiglia Bossetti, rilevando tracce di ricerche riconducibili a siti a luci rosse. Nella mattinata del 4 marzo i due ingegneri saranno contro interrogati dalla difesa.
4, 11 e 16 MARZO 2016. TRENTESIMA, TRENTUNESIMA E TRENTADUESIMA UDIENZA. PARLA MASSIMO BOSSETTI. PARLANO GIOVANNI BASSETTI E LUIGI NICOTERA. RIPARLANO GIUSEPPE SPECCHIO E RUDI D’AGUANNO, DANIELE APOSTOLI E NICOLA MAZZINI, GIOVANNI RUGGIERI, GIOVANNI TERZI, MAURO ROTA, DOMINIC SALSAROLA.
In coda alle 7 per il giorno di Bossetti. Aula piena, il muratore arrivato alle 9.30. C’è chi è arrivato alle 7 per essere sicuro di prendere posto in aula. E se si pensa che i cancelli del Tribunale aprono alle 8.30 si può intuire che quella di venerdì 4 marzo è un’udienza molto attesa: Massimo Bossetti sarà chiamato a rispondere alle domande di accusa e difesa. Come per la prima udienza, anche per questa si è riproposta la folla mediatica: cameramen e fotografi, ma anche tanto pubblico per riuscire ad ascoltare il muratore di Mapello. Alle 9.30 Massimo Bossetti è arrivato con il furgone della polizia penitenziaria. Alla stessa ora anche il pm Letizia Ruggeri, mentre il pool della difesa Claudio Salvagni e Stefano Camporini sono arrivati in Tribunale alle 8.30. In aula la sorella gemella di Massimo Bossetti, Laura Letizia Bossetti. Non si sono viste la mamma del muratore nè la moglie Marita Comi. Tutti in attesa di ascoltare Bossetti: «È carico, tranquillo e determinato a raccontare la sua verità», ha spiegato l’avvocato Claudio Salvagni, che con il collega Paolo Camporini difende Bossetti. Prima dell’interrogatorio di Bossetti deporranno i consulenti informatici, poi prenderà la parola il muratore di Mapello, in carcere dal 14 giugno 2014 con l’accusa di aver ucciso la ragazza. Accusa che ha sempre respinto nonostante il suo Dna sia stato trovato sul corpo della vittima. Dopo i due carabinieri sul materiale informatico recuperato dai computer di Massimo Bossetti, dopo le polemiche sul dna e lo spionaggio informatico, oggi è il giorno del muratore di Mapello accusato della morte di Yara Gambirasio, scrive “L’Eco di Bergamo”. Prevista la pausa pranzo fino alle 15.30, Massimo Bossetti non ha ancora iniziato a rispondere alle domande del pm Letizia Ruggeri. Nella pausa dopo la mattina una lunga coda si era formata davanti alla porta del Tribunale per accaparrarsi il posto in aula. La ripresa dell’udienza è infatti iniziata con le prime tensioni. Gli avvocati della difesa hanno chiesto di iniziare per primi con l’interrogatorio. Si oppongono sia il pm che la parte civile con la Corte che si è ritirata per decidere. «È carico, tranquillo e determinato a raccontare la sua verità» aveva commentato Claudio Salvagni che nei giorni scorsi l’ha visitato in carcere. Nel corso delle precedenti udienze, l’imputato ha chiesto solo in un paio di circostanze di intervenire con dichiarazioni spontanee. È accaduto quando si è parlato di una presunta crisi con la moglie Marita Comi e quando si è trovato di fronte a un imprenditore, che aveva ricordato le bugie del muratore per assentarsi dal cantiere. Anche la scorsa settimana è intervenuto mentre veniva interrogata la moglie. Bossetti non è invece mai intervenuto quando si è discusso del suo Dna nucleare, né quando sono state mostrate, durante un’udienza a porte chiuse, le immagini del corpo martoriato della ginnasta tredicenne di Brembate Sopra. Cosa dirà dunque Bossetti? Come potrà difendersi di fronte alle accuse che gli vengono mosse? Va anche precisato che le norme processuali prevedono che l’esame abbia luogo solo su richiesta o consenso dell’interessato. Il mancato consenso non può essere valutato dal giudice in senso negativo, perché è una scelta che attiene alla strategia difensiva. L’imputato inoltre non è vincolato all’obbligo di rispondere secondo verità, né è imputabile di falsa testimonianza. Dire il falso può, però, comportare conseguenze dal punto di vista processuale. Intanto la Corte ha deciso di non prendere in considerazione il materiale presentato dalla difesa e tratto da Wikileaks, organizzazione no profit che mette allo scoperto documenti riservati, riguardante il processo Bossetti. Il materiale presentato da Salvagni e Camporini è stato ritenuto «non pertinente alla materia». Nel frattempo sono stati nominati i due nuovi consulenti della difesa: Giovanni Bassetti e Luigi Nicotera, mentre lo stesso avvocato Camporini ha chiesto l’analisi dei reperti: dagli indumenti di Yara Gambirasio ai reperti fotografici. Si oppone Letizia Ruggeri: la richiesta, secondo la pm, è ormai tardiva. Anche se questo la Corte si riserva di decidere nei prossimi giorni.
«Contenuti hard, ma non pedoporno». Mattinata di controesame per i due consulenti informatici dei Carabinieri: il sottotenente Giuseppe Specchio e il maresciallo Rudi D’Aguanno del Raggruppamento carabinieri investigazioni scientifiche di Roma (Racis) parlano ancora di «copioso materiale pornografico», scrive “L’Eco di Bergamo”. Materiale inteso come tracce di navigazione su siti a luci rosse (alcune non databili) sia attraverso il pc desktop (nel quale è stata rilevata anche una «assenza di attività nel periodo a cavallo della scomparsa di Yara») sia con il notebook con l’unico profilo utente attivo, chiamato «Massimo». Se per l’accusa il materiale informatico costituisce di per sé un indizio a carico del muratore di Mapello, per la difesa no. I due consulenti informatici nella mattinata di venerdì 4 marzo hanno parlato delle fotografie recuperate dai cellulari, i computer e la macchina fotografica della famiglia, dicendo che «le foto sono riguardano solo la famiglia di Bossetti». Più complessi i dati dei pc: qui sono stati rintracciati contenuti (cosa diversa dalle ricerche, ndr) pornografici, ma non pedopornografici, secondo quando dichiarato dai consulenti. L’accusa ha invece puntato il dito su ricerche con parole chiave riconducibili anche a materiale pedopornografico. L’avvocato della difesa Stefano Camporini ha allora approfondito come avvengono le ricerche in Google, con i consulenti che hanno spiegato come opera il motore di ricerca. In sostanza, in base a quanto viene digitato e allo stile della digitazione Google dà suggerimenti, «ma non suggerisce materiale pedopornografico se non viene effettivamente digitato dall’utente». Nella precedente udienza, l’accusa aveva puntato il dito sulle ricerche su Google con parole chiave come «ragazze vergini rosse» e i termini «ragazzine» e «ragazze vergini rosse» accostati a dettagli di natura sessuale, effettuate da quei pc, un fisso Acer Aspire (dal 2002 al 2009) e un portatile di marca Toshiba (dal 2010 al 2014). Testimonierebbero, per gli inquirenti, un presunto interesse sessuale dell’utilizzatore per le teenager, come le diverse ricerche con parola chiave «verginità». Un presunto interesse che – nella visione accusatoria – potrebbe celare il movente del delitto. C’è poi una traccia, scovata in un angolo latente della memoria del Toshiba, ancor più suggestiva: rimanda a una pagina web, generata da una precedente ricerca che recitava «ragazzine rosse tredicenni per sesso». Tredici anni: la stessa età che aveva Yara quando fu uccisa. Nella precedente udienza gli ingegneri informatici Daniele Apostoli e Nicola Mazzini, consulenti del pm, avevano parlato anche di aver rintracciato anche un’attività di pulizia del computer tramite l’esecuzione del software C Cleaner da un dispositivo esterno (hard disk o chiavetta) e tracce di navigazione privata. Hanno individuato anche navigazione su siti di news, una di queste relativa a un articolo de Il Mattino di Padova: «Violenza sessuale su una minore, uomo agli arresti domiciliari». Ma sono stati rinvenuti altri elementi suggestivi, come la navigazione sul contenuto «come rimorchiare una ragazza in palestra».
E la difesa parla di «Dna artificiale», scrive “Bergamo Post”. Si sta tenendo proprio in queste ore al Tribunale di Bergamo la nuova udienza del processo sull’omicidio di Yara Gambirasio. Un’udienza molto attesa visto che è quella in cui deporrà Massimo Bossetti, l’imputato accusato di aver ucciso la notte del 26 novembre 2010 la tredicenne di Brembate Sopra. Com’era prevedibile, sin dalle 7.30 all’esterno del Tribunale di Bergamo c’era una numerosa folla, composta sia da giornalisti che da semplici curiosi, tutti desiderosi di assistere all’udienza, una delle più attese di tutto il processo dopo quella del 24 febbraio in cui ha invece parlato la moglie del muratore di Mapello, Marita Comi (la madre, Ester Arzuffi, si era invece avvalsa della facoltà di non rispondere, così come il fratello Fabio). I legali dell’uomo, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, giunti in Tribunale poco dopo le 8.30, hanno affermato che Bossetti «è carico, tranquillo e determinato a raccontare la sua verità». Nelle precedenti udienze del processo partito nel luglio scorso, Bossetti è intervenuto con dichiarazioni spontanee soltanto in rare occasioni, per lo più per lamentarsi degli interrogatori del pm Letizia Ruggeri alle persone chiamate in aula a deporre. Ultimo episodio del genere è avvenuto proprio nell’udienza in cui a parlare è stata la moglie dell’imputato. Il colpo di scena della difesa: le mail di Hacking Team. Intanto, però, in mattinata hanno parlato i due consulenti informatici dell’accusa, che hanno riferito in aula quanto è stato rinvenuto su pc e materiale informatico di proprietà di Bossetti. Ma a far molto discutere è stata la rivelazione della difesa. Salvagni e Camporini, infatti, hanno sollevato il giallo su Hacking Team, la società milanese specializzata in software spia i cui archivi sono stati violati l’estate scorsa, con tanto di mail interne alla società messe online nei mesi scorsi da Wikileaks, l’organizzazione no profit fondata da Julian Assange nota per la pubblicazione di documenti riservati. Da quelle mail si è appurato che nella Hacking ci sono diversi esperti che hanno collaborato con polizia, carabinieri e probabilmente servizi segreti italiani in diverse delicate indagini. Proprio nel luglio 2015, a processo appena iniziato, la Procura di Bergamo aveva però assicurato di non aver mai avuto rapporti con quell’azienda. E invece… E invece, secondo la difesa di Bossetti, le cose sarebbero andate diversamente. Tra i documenti riservati della Hacking Team pubblicati da Wikileaks, infatti, ce ne sarebbero anche alcuni che fanno esplicito riferimento alle indagini sulla morte di Yara. Come una mail datata 17 giugno 2014 (il giorno successivo all’arresto di Bossetti), dove un responsabile dell’azienda e l’amministratore delegato di Hacking Team, David Vincenzetti, si scrivevano: «Diamoci una pacca sulla spalla… I Ros ci hanno contattato ringraziandoci per il prezioso contributo, per la buona riuscita di una loro operazione. Chiunque abbia visto i tg ieri sera dovrebbe sapere di cosa parlo. […] Naturalmente non posso dirvi molto. Naturalmente non conosco i dettagli. Ma, come è già successo numerose volte in passato per casi celeberrimi e molto più grandi di questo, il merito del successo di questa indagine va a una certa tecnologia investigativa informatica prodotta da un’azienda a noi molto nota». Questi documenti, secondo la difesa di Bossetti, dimostrerebbero che anche i computer del loro assistito potrebbero essere stati violati e dunque le prove potrebbero risultare inquinate o manipolate. L’ipotesi del Dna artificale, il pm: «Mail farneticanti». Ma c’è di più: l’avvocato Claudio Salvagni ha infatti fatto riferimento a un’altra mail riconducibile alla Hacking Team e pubblicata da Wikileaks, nella quale si parla della costruzione di Dna artificiale in Israele. In questo caso, però, non ci sarebbe alcun riferimento al caso della morte di Yara o alle indagini su Bossetti. Da qui la veemente reazione del pm Letizia Ruggeri e di Andrea Pezzotta, legale della famiglia Gambirasio, i quali si sono opposti all’acquisizione nel processo del materiale presentato dai difensori di Bossetti. La Ruggeri ha così commentato: «Si tratta di mail farneticanti, mere allusioni a interventi dei Carabinieri nella configurazione di informazioni informatiche o genetiche. O la difesa prova che il materiale è verificato e comprovato o questo materiale non ha valore. I Carabinieri non hanno fatto altro che effettuare quanto commissionato dalla Procura e questo materiale non ha dignità neppure per entrare come documenti irrilevanti negli atti processuali». La Corte d’Assise preseduta dal giudice Antonella Bertoja ha preso in consegna i documenti presentati da Salvagni e Camporini e si è riservata di decidere circa la loro acquisizione come prove agli atti del processo.
Yara: Bossetti: "Non l'ho mai conosciuta e vista". Muratore interrogato per la prima volta in aula a Bergamo, scrive “L’Ansa”. "Non ho mai visto né conosciuto Yara Gambirasio": è quanto ha detto Massimo Bossetti, rispondendo per la prima volta alle domande del pm Letizia Ruggeri in aula a Bergamo. Il muratore, dopo aver raccontato la sua vita lavorativa, è entrato nel merito del suo interrogatorio affermando di non aver mai conosciuto nessun componente della famiglia Gambirasio se non, di vista, il padre della tredicenne Yara. "Dottoressa io non sto mentendo, cosa che hanno fatto quelli che hanno preso questo posto prima di me", ha detto Bossetti, rispondendo alle domande del pm. "Salvo i miei consulenti qui hanno mentito tutti".
"Non ho mai conosciuto Yara, né nessuno dei membri della sua famiglia. Conoscevo solo il signor Gambirasio e solamente di vista. Non ho mai visto Yara", scrive “Libero Quotidiano”. Lo ha detto Massimo Bossetti interrogato dalla pm Letizia Ruggeri davanti alla Corte d'Assise di Bergamo. Incalzato dalla pm che gli ha chiesto come mai gli edicolanti di Brembate di Sopra (Bergamo), e in particolare i gestori del chiosco davanti alla palestra, dai quali il muratore di Mapello dice di aver acquistato praticamente ogni sera "figurine, Gormiti o braccialetti" per i figli prima di rientrare a casa, non si ricordassero di lui come un cliente abituale, ha ribattuto: "Non sto mentendo, come tanti altri che si sono seduti su questa sedia prima di me", gli edicolanti "hanno mentito". Bossetti ha anche detto, mettendo in imbarazzo i giudici: "Mia moglie mi ha fatto ben più di un interrogatorio. Mi ha messo al muro, mi ha fatto molte più domande di lei". Il muratore di Mapello ha anche detto di non ricordare "a distanza di così tanto tempo" cosa aveva fatto il 26 novembre 2010, il giorno della scomparsa di Yara Gambirasio, né che tempo facesse quel giorno. La pm, invece, gli ha contestato che in un colloquio in carcere, intercettato, con la moglie Marita Comi, aveva detto che "in quel periodo pioveva o nevicava". A quel punto il muratore ha detto di non ricordare con precisione il particolare e ha aggiunto che la consorte gli ha rivolto moltissime domande perché "le mancava la fiducia e il rispetto nei miei confronti".
Bossetti: io non sto mentendo. «Lo hanno fatto quelli prima di me». Prima il pm Letizia Ruggeri, poi la parte civile e infine la difesa. Questo l’ordine deciso dalla Corte per l’interrogatorio di Massimo Bossetti, scrive “L’Eco di Bergamo”. Il muratore di Mapello è risultato tranquillo e come sempre imperturbabile. Numerose le tensioni della giornata, tra la questione di Wikileaks, la richiesta di analizzare nuovamente i reperti da parte della difesa e la proposta sempre della difesa di iniziare prima con l’interrogatorio. Oltre alla folla di curiosi che si sono visti fuori dal Tribunale di Bergamo dalla mattina presto. Richiesta non accolta quella di far iniziare la difesa per prima, tanto che alle 16.30 il pm Letizia Ruggeri ha posto la prima domanda a Massimo Bossetti. «Lei conosceva Yara?» ha domandato il pm. «Non la conoscevo, non l’ho mai vista - ha detto Bossetti -. Come me nessun membro della mia famiglia la conosceva. Conoscevo, per lavoro, il papà e solo di vista». E poi, la seconda domanda: «Dove si trovava il 26 novembre 2010?». Immediata la risposta di Bossetti: «Per l’ennesima volta glielo ripeto, sono qui apposta per dirglielo: non me lo ricordo. Io sono una persona abitudinaria, normale, banale. Sono una persona ripetitiva e faccio sempre le stesse cose. Non me lo ricordo e non ricordo neppure cosa ho mangiato ieri sera». Bossetti sottolinea di non ricordare neppure le condizioni meteo di quel giorno: «Lo ripeto, non ricordo. Anche mia moglie quando è venuta da me in carcere mi ha sempre fatto l’interrogatorio, il terzo grado: mi ha messo con le spalle al muro, ma non ricordo nulla di quella data». Camporini ha tranquillizzato Bossetti, così come il presidente della Corte Antonella Bertoja, spiegando che le domande si possono ripetere per la necessarie informazioni che devono essere date alla Corte. Il muratore è parso tranquillo e molto determinato nelle sue spiegazioni e nei suoi interventi. A seguire il pm ha chiesto informazioni sul lavoro di Bossetti, che ha iniziato a spiegare la sua attività del carpentiere. E aggiunge: «In quel periodo di novembre lavoravo sia a Bonate sia a Palazzago». Con una domanda da parte della Ruggeri riferita alla strada che Bossetti faceva dal lavoro a casa: «Facevo sempre la stessa strada». E Bossetti ha aggiunto: «Dottoressa io non sto mentendo, cosa che hanno fatto quelli che hanno preso questo posto prima di me». Sottolineando: «Salvo i miei consulenti qui hanno mentito tutti». E ripete la questione ormai nota delle figurine: «Tornando a casa mi fermavo spesso a prendere le figurine in edicola per i miei figli. Mia moglie Marita si arrabbiava sempre e litigavamo perchè diceva che viziavo troppo i bambini». Ma il pm sottolinea che gli edicolanti hanno più volte smentito la sua dichiarazione. Bossetti si è allora limitato a descrivere minuziosamente dove parcheggiava il suo furgone e addirittura dettagli su come posizionava il mezzo, «che sfiorava la locandina dell’edicola». Dettagli minuziosi di un uomo che con determinazione vuole provare la sua innocenza. Dopo esattamente un’ora di interrogatorio, l’udienza viene sospesa e aggiornata all’11 marzo.
Massimo Giuseppe Bossetti: “Mai conosciuta Yara Gambirasio”, scrive "Blitz Quotidiano". “Non ho mai visto né conosciuto Yara Gambirasio”. Queste le parole dette in tribunale da Massimo Giuseppe Bossetti, rispondendo alle domande del pm Letizia Ruggeri durante il processo per l’omicidio della ragazzina morta a Brembate Sopra, in provincia di Bergamo. Il muratore, dopo aver raccontato la sua vita lavorativa, è entrato nel merito dell’interrogatorio affermando di non aver mai conosciuto nessun componente della famiglia Gambirasio, a parte il padre, ma solo di vista. Qualche ora prima è andato in scena un duro scontro tra difesa, accusa e parti civili, relativo ad alcune e-mail inviate dall’amministratore delegato di Hacking Team, David Vincenzetti a personale interno alla società e ad investitori in cui il manager scriveva di presunte congratulazione da parte del Ros dei carabinieri riguardo la soluzione del caso. Le mail lette dai legali di Bossetti erano dei giorni successivi al fermo del muratore di Mapello, il 14 giugno del 2014. Il pm Letizia Ruggeri e i legali di parte civile si sono opposti alla lettura delle mail perchè “non sappiamo da dove provengano”. I difensori hanno spiegato che i documenti erano stati ricavati dal sito di Wikileaks.org. “Ci opponiamo alla lettura – hanno spiegato i legali di parte civile – perchè tra le altre cose vi potrebbero essere anche dei reati legati alla violazione della privacy, in quanto non sappiamo come queste mail siano state acquisite”. La lettura delle mail per i legali aveva rilevanza in relazione alla testimonianza di due carabinieri, che avevano estrapolato, nelle fasi iniziali dell’inchiesta i dati contenuti nei pc nella disponibilità della famiglia Bossetti. In una delle mail inviate da Vincenzetti si faceva inoltre riferimento a un Paese, Israele, e alla possibilità di creare un Dna artificiale. L’avvocato Giuseppe Pezzotta, parte civile per la madre di Yara Gambirasio, Maura Panarese, si è opposto alla lettura (la Corte si è riservata) con toni molto decisi: “Io non posso presentarmi con un documento che mi ha dato mia sorella e leggerlo alla Corte. Tra le altre cose, vi potrebbero essere estremi per un reato”. Il pm Letizia Ruggeri ha definito la vicenda “semplicemente esilarante”.
Caso Yara, Bossetti in aula: "Mai conosciuto quella ragazza". Cameraman, fotografie, giornalisti, ma anche tanto pubblico ad ascoltare le parole del muratore di Mapello. Consulenti informatici: "No materiale pedopornografico". Respinta acquisizione mail Hacking Teamsetti. "Non ho mai visto né conosciuto Yara Gambirasio", scrive Grabriele Moroni su “Il Giorno”. Lo ha detto oggi pomeriggio in aula Massimo Bossetti, rispondendo alla prima domanda del pm Letizia Ruggeri. Il muratore, dopo aver raccontato la sua vita lavorativa, è entrato nel merito dell'interrogatorio affermando di non aver mai conosciuto nessun componente della famiglia Gambirasio, a parte il padre, ma solo di vista. Poi, la seconda domanda: "Dove si trovava il 26 novembre 2010?". Immediata la risposta di Bossetti: "Per l’ennesima volta glielo ripeto, sono qui apposta per dirglielo: non me lo ricordo. Io sono una persona abitudinaria, normale, banale. Sono una persona ripetitiva e faccio sempre le stesse cose. Non me lo ricordo e non ricordo neppure cosa ho mangiato ieri sera". A seguire il pm ha chiesto informazioni sul lavoro e il carpentiere ha iniziato a spiegare la sua attività. Poi ha aggiunto: "In quel periodo di novembre lavoravo sia a Bonate sia a Palazzago". Numerose le persone presenti ad ascoltare le parole dell'uomo, non solo giornalisti, cameraman e fotografi. Bossetti è a processo davanti alla Corte d'Assise di Bergamo per la morte di Yara Gambirasio, scomparsa da Brembate, il 26 novembre del 2010, mentre faceva ritorno a casa dalla palestra e ritrovata morta in un campo di Chignolo d'Isola esattamente tre mesi dopo, il 26 febbraio 2011. I giudici della corte d'assise di Bergamo hanno respinto la richiesta della difesa di acquisire delle e-mail trasmesse dall'amministratore delegato di Hacking Team formulata dalla difesa. I giudici hanno ritenuto i documenti "non pertinenti alla materia" in discussione. I giudici si sono poi riuniti in camera di consiglio per stabilire l'ordine con cui porre le domande. La difesa, infatti ha chiesto di potere sentire per prima Bossetti, mentre normalmente, le prime domande spettano al pubblico ministero. Colpo di scena, questa mattina, in aula: i legali Stefano Camporini e Claudio Salvagni hanno sollevato il caso della società Hacking Team e delle mail interne alla società che sono state messe online nei mesi scorsi da Wikileaks, organizzazione no profit che mette allo scoperto documenti riservati. Tra questi documenti ce ne sarebbero alcuni riguardanti il caso di Yara Gambirasio. Sarebbe stata infatti pubblicata una email del giugno del 2014 - per la precisione del 17 giugno 2014, tre giorni dopo l’arresto del muratore di Mapello, in cui Claudio Vincenzetti, Ceo della società, scriveva: "Naturalmente non posso dirvi molto. Naturalmente non conosco i dettagli. Ma, come è già successo numerose volte in passato per casi celeberrimi e molto più grandi di questo, il merito del successo di questa indagine va a una certa tecnologia investigativa informatica prodotta da un’azienda a noi molto nota". Vincenzetti si mostrava entusiasta del suo capitale, grazie alla quale era stato incastrato Bossetti. "Insomma - ha continuato - ci hanno appena chiamato i Ros di Roma. Per complimentarsi e ringraziarci. Davvero queste sono cose che riempiono il cuore di gioia e di soddisfazione professionale". Il dubbio dell’avvocato Claudio Salvagni è quindi che il computer di Massimo Bossetti, da cui spuntano ricerche sospette, possa essere stato violato. Ma non basta: l’avvocato Claudio Salvagni ha fatto riferimento a un’altra mail riconducibile all’Hacking Team, in cui si parla della costruzione di Dna artificiali in Israele. Un messaggio che, però, non era riferito direttamente al caso Yara e alla presunta soluzione del giallo con l’arresto del carpentiere di Mapello. "E' una cosa assolutamente esilarante, mi fa molto ridere" ha commentato in aula il pubblico ministero Letizia Ruggeri. L’avvocato di parte civile (per la famiglia Gambirasio) Enrico Pelillo ha quindi chiesto a Salvagni quale sia la fonte di tali informazione. Mentre il collega Andrea Pezzotta ha sottolineato che i dati di cui si parla non sono agli atti del processo. Ad inizio udienza hanno deposto i consulenti informatici: il sottotenente Giuseppe Specchio e il maresciallo Rudi D’Aguanno del Raggruppamento carabinieri investigazioni scientifiche di Roma (Racis). I due hanno parlato ancora di "copioso materiale pornografico", materiale inteso come tracce di navigazione su siti a luci rosse, ma non pedopornografico. L’avvocato della difesa Stefano Camporini ha allora approfondito come avvengono le ricerche in Google, con i consulenti che hanno spiegato come opera il motore di ricerca. In sostanza, in base a quanto viene digitato e allo stile della digitazione Google dà suggerimenti, "ma non suggerisce materiale pedopornografico se non viene effettivamente digitato dall’utente".
Bossetti: «In questo processo hanno mentito tutti. Non ho mai conosciuto Yara». La prima deposizione dell’imputato dura un’ora e mezza. A più riprese chiede al pm quasi di essere compreso, chiamandola «dottoressa...». «Mai conosciuto quella povera ragazza, solo il padre Fulvio». E aggiunge: «Qui solo i miei consulenti han detto il vero», scrive Armando Di Landro e Giuliana Ubbiali su “Il Corriere della Sera”. Sembra voler ribaltare il quadro di incertezze emerso dai primi interrogatori, subito dopo l’arresto del 16 giugno 2014, Massimo Bossetti, il carpentiere accusato dell’omicidio pluriaggravato di Yara Gambirasio, 13 anni, di Brembate Sopra. E appena la presidente della Corte d’Assise lo chiama per la sua deposizione appoggia i gomiti sul tavolo di fronte a lui, si avvicina al microfono e incrocia le dita delle mani, quasi per farsi forza. Accenna anche a un sorriso, con il volto tirato, guardando la gemella Laura, seduta nel pubblico in una sala stracolma: non in pochi sono rimasti fuori dal tribunale. «Ha mai conosciuto Yara Gambirasio?» gli chiede il pubblico ministero Letizia Ruggeri. E lui risponde: «No, mai conosciuto Yara, né io né nessuno dei membri della mia famiglia». «Ma io le chiedo di lei...». «No, mai conosciuta. Ho solo conosciuto di vista il papà, Fulvio». Sembra essersi preparato, l’imputato, sa bene che l’accusa vuole contestargli in aula una serie di contraddizioni in cui sembrerebbe essere incappato nei primi interrogatori, più di un anno e mezzo fa. E appena il sostituto procuratore gli chiede conto di quel giorno, il 26 novembre del 2010, lui tenta di ribaltare il quadro: «Potevo benissimo dirle “non ricordo”, già nei primi interrogatori dottoressa...e invece ho cercato di ricordare, in ogni modo. Che poi chiedermi cosa ho fatto quattro o cinque anni fa, mi pare una domanda totalmente insensata». Ma a quel punto è il pm a rilanciare, citandogli un’intercettazione ambientale in carcere, durante un colloquio con sua moglie Marita: «Ricorda di aver detto a Marita che quel giorno nevicava, o pioveva...?». «E chi se lo ricorda? Come posso?». «No, lei in carcere dice a sua moglie che quel giorno pioveva o nevicava, perché?». Secondo l’accusa il dettaglio è importante: un imputato che sostiene di non aver memoria di quel 26 novembre che durante un colloquio sfodera il dettaglio del meteo. «Può darsi — la risposta — che mia moglie qualche tempo prima mi avesse riferito che tempo c’era quel giorno. O magari i miei familiari, o i miei avvocati». Più che una domanda una battuta, quella successiva del pm: «Quindi, lei non ricorda, ma i suoi familiari o i suoi avvocati nominati nel 2014 invece sì? Non abbiamo trovato traccia di questo». L’accusa passa poi a ricostruire i percorsi abitudinari, in quei giorni di fine 2010, del carpentiere. «Uscivo dal cantiere a Palazzago e, anche se la strada era più lunga, per evitare la statale trafficata, passavo da Brembate Sopra. Potevo passare da tre edicole diverse e fermarmi a tutte e tre, per acquistare figurine o braccialetti per i miei figli». «Ma nessuno degli edicolanti ricorda questi acquisti», è stata la frase del pubblico ministero che ha fatto arrabbiare l’avvocato Camporini. «No, insomma, un edicolante la ricorda — specifica la presidente della Corte —, magari non così nello specifico degli acquisti». Ed è l’imputato, allora, ad attaccare: «Non sto mentendo, come hanno fatto tanti altri seduti qui al mio posto in questo processo, su questa sedia». «Chi ha mentito?». «Tutti, faccio salvi i miei consulenti, ma tutti, sì anche gli edicolanti». Un’ora e mezza di deposizione, poi seduta sospesa. Si proseguirà tra una settimana.
Massimo Giuseppe Bossetti, chi è il presunto assassino di Yara. Dalla famiglia all'amore per gli animali, per i vicini è "un bravo ragazzo, dalla vita tranquilla, andava sempre a messa". Sul suo profilo Facebook ci sono molte foto di moglie e figli, cani e gatti, scrive il 16 giugno 2014 “La Repubblica”. "Un bravo ragazzo, un muratore in proprio che conduceva una vita tranquilla. Così i vicini di casa di Massimo Giuseppe Bossetti, il presunto assassino di Yara Gambirasio fermato oggi, descrivono l'uomo che vive in una frazione di Mapello, in provincia di Bergamo, assieme alla moglie e alle due figlie piccole (Bossetti ha anche un terzo figlio, più grande). "Non è di qua", tengono a sottolineare i vicini, "è arrivato qui e si è sposato con una ragazza del posto. Speriamo solo che non sia vero", concludono. E poi: "Lui e la sua famiglia andavano sempre a messa". Il presunto assassino di Yara Gambirasio, sarebbe il nipote biologico (non anagrafico perchè figlio illegittimo) della donna di servizio della famiglia Gambirasio. Non si esclude, dunque, che l'uomo conoscesse Yara. La madre di Massimo Giuseppe Bossetti, inoltre, fu sottoposta al test del dna alcuni mesi fa. La svolta è avvenuta grazie alla segnalazione di un vecchio amico di Giuseppe Guerinoni. E' quanto rivelato dall'inviato Giorgio Sturlese Tosi durate la diretta dello speciale "Segreti e delitti" in onda su Canale 5. Sempre durante la trasmissione, l'inviata Ilaria Cavo ha detto che la mamma di Bossetti si chiamerebbe Ester e vivrebbe a Terno d'Isola, un altro paesino a pochi chilometri da Brembate e Mapello. "Perdona sempre chi ti ha fatto del male". Biondo, in forma, con una famiglia all'apparenza perfetta e la passione per cani e gatti. E' quello che emerge dal profilo di Facebook di Bossetti, individuato grazie al confronto del Dna con le tracce trovate sul corpo della tredicenne di Brembate di Sopra. Nell'ultimo aggiornamento di due settimane fa visibile a tutti Bossetti mostra tutto il suo amore per gli animali: "Se porgi la mano a un animale lui avrà un solo modo per dirti grazie: semplicemente ti amerà". E poi: "Perdona sempre chi ti ha fatto del male... passaci sopra", una scritta allegata alla foto di un mezzo che asfalta una strada da cui spuntano i piedi di qualcuno. Famiglia e cucciolate. Nella sua galleria fotografica tante le istantanee dei figli: un maschio (il maggiore) e due femmine. Una foto ritrae tutta la famiglia al mare: i figli tutti biondi e con gli occhi chiari come il padre, e la moglie che li abbraccia, teneramente ("i miei veri amori", diceva lui). Ma moltissime sono anche le istantanee con gli animali che la famiglia Bossetti ha in casa: chihuahua, cucciolate, gatti di ogni tipo. Una persona, insomma, apparentemente insospettabile.
Processo Bossetti, l’avvocato in tv: «Chiederemo una perizia sul dna». «Bisogna capire se quel dna è veramente il suo. Le discrepanze ci sono». Claudio Salvagni, avvocato di Massimo Bossetti, presunto omicida di Yara Gambirasio, è intervenuto durante la trasmissione «I Fatti vostri» per ribadire l’intenzione di fare chiarezza sull’indizio principe del processo: il dna trovato sui vestiti della vittima, secondo gli inquirenti inequivocabilmente di Bossetti, scrive “L’Eco di Bergamo” il 7 marzo 2016. Il suo legale la pensa diversamente: «Noi non abbiamo parlato di prove a rischio, ma con la massima trasparenza abbiamo voluto portare alla corte ogni elemento che abbiamo trovato a sostegno della nostra tesi. Ogni cosa va portata al vaglio della corte, perché è un processo molto complesso. L’elemento fondamentale è la discrepanza che abbiamo evidenziato tante volte sul dna e a breve valuteremo di chiedere una perizia. Ci sono spiegazioni scientifiche che devono essere date. Bisogna capire se quel dna è veramente di Bossetti. E le discrepanze ci sono. Per arrivare a un giudizio al di là di ogni ragionevole dubbio bisogna dare risposte a tutte le anomalie».
«Mi diffamò sulle analisi del Dna». E Bossetti querela il professore. Da imputato a parte offesa. Massimo Bossetti sarà in Tribunale anche giovedì prossimo, 10 marzo, non nei panni di accusato del delitto di Yara, bensì in quelli di presunta vittima del reato di diffamazione. Ha denunciato un genetista per un’intervista in tv, scrive “L’Eco di Bergamo” il 5 marzo 2016. Il muratore di Mapello ha presentato tempo fa una denuncia, tramite il suo avvocato Claudio Salvagni, nei confronti del professor Fabio Buzzi, all’epoca dei fatti responsabile dell’Unità operativa di Medicina legale e Scienze Forensi dell’Università di Pavia. Il dipartimento di Buzzi era stato incaricato dalla Procura di Bergamo di analizzare i reperti (peli e capelli) sopra e intorno al corpo di Yara Gambirasio, trovato nel campo di Chignolo d’Isola il 26 febbraio 2011. Il 27 giugno 2014, pochi giorni dopo il fermo del carpentiere inguaiato dal Dna, in un’intervista in tv per la trasmissione «Segreti e Delitti» di Canale 5, Buzzi affermò in maniera chiara che erano stati trovati anche peli di «Ignoto 1» (e quindi di Massimo Bossetti, per gli inquirenti) sul corpo e sugli indumenti di Yara. La fonte era autorevole, era una notizia clamorosa e come tale venne accolta dai media (che la rilanciarono con ampio risalto) perché confermava le risultanze delle analisi genetiche già condotte sugli slip e sui leggings della ragazzina. Peccato che non c’era nulla di vero. Buzzi era incappato in un autentico scivolone televisivo e, poco dopo, nella stessa serata, era stato costretto a rettificare: «Non so se mi sono espresso male io, e in tal caso me ne dolgo – aveva dichiarato – oppure se c’è stato un fraintendimento con il giornalista che mi ha posto le domande, ma devo precisare che il confronto tra le formazioni pilifere e il Dna di Ignoto 1 è tuttora in corso, non è concluso». Anche il professor Carlo Previderè, che materialmente era stato incaricato dalla Procura di analizzare le tracce pilifere, intervenne per smentire e lo stesso fecero gli inquirenti: «Non risulta». Oggi l’esito di quelle analisi è noto: sono state trovate 7 tracce umane, nessuna però appartenente all’imputato Bossetti. Di quell’infausta intervista di Buzzi rimane ora solo un procedimento penale per diffamazione, di cui però la Procura di Bergamo (titolare del fascicolo è il procuratore aggiunto Massimo Meroni) ha chiesto l’archiviazione, evidentemente non ravvisando gli estremi per procedere contro il professore. Alla richiesta di archiviazione si è formalmente opposta la difesa di Bossetti e per questo il giudice per le indagini preliminari Marina Cavalleri ha fissato un’udienza in camera di consiglio per giovedì prossimo. Sentite le parti, il giudice potrà emettere un decreto di archiviazione, come chiesto dalla Procura, e porre fine a questa vicenda giudiziaria. In alternativa potrà disporre nuovi accertamenti o l’imputazione coatta dell’indagato. Che questa volta non è Bossetti, ma uno fra quelli che sul suo conto indagava (in qualità di capo dipartimento). In un processo ad alto tasso mediatico, accade anche questo.
«Bossetti diffamato in trasmissione tv». I legali: non archiviate. Il giudice si riserva. Nella mattinata del 10 marzo a Bergamo si è tenuta l’udienza in cui Massimo Bossetti figura come parte offesa dopo aver denunciato il professor Fabio Buzzi per le affermazioni sul Dna a «Segreti e Delitti» su Canale 5. Il giudice si è riservato sull’opposizione all’archiviazione, la decisione nei prossimi giorni, scrive “L’Eco di Bergamo” il 10 marzo 2016. La presenza di Bossetti in aula non era stata confermata, invece poco prima di mezzogiorno il muratore di Mapello è arrivato Tribunale con gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini che lo assistono anche nell’altro procedimento, quello per l’omicidio di Yara. Alla richiesta di archiviazione presentata dalla Procura si sono formalmente opposti i legali di Bossetti, che in aula hanno chiesto al gip Marina Cavalleri di acquisire il video integrale della trasmissione «Segreti e delitti» e di chiamare a testimoniare il giornalista Giorgio Sturlese Tosi, autore del servizio, oltre che Carlo Previderè e Pierangela Grignani, gli esperti dell’Università di Pavia che hanno eseguito materialmente le analisi sul Dna nel dipartimento diretto da Buzzi. Il gip si è riservato e la decisione dovrebbe arrivare nei prossimi giorni: il giudice potrà emettere un decreto di archiviazione, come chiesto dalla Procura, e porre fine a questa vicenda giudiziaria, oppure disporre nuovi accertamenti o l’imputazione coatta dell’indagato. La vicenda. Il muratore di Mapello ha presentato tempo fa una denuncia, tramite il suo avvocato Claudio Salvagni, nei confronti del professor Fabio Buzzi, all’epoca dei fatti responsabile dell’Unità operativa di Medicina legale e Scienze Forensi dell’Università di Pavia. Il dipartimento di Buzzi era stato incaricato dalla Procura di Bergamo di analizzare i reperti (peli e capelli) sopra e intorno al corpo di Yara Gambirasio, trovato nel campo di Chignolo d’Isola il 26 febbraio 2011. Il 27 giugno 2014, pochi giorni dopo il fermo del carpentiere inguaiato dal Dna, in un’intervista in tv per la trasmissione «Segreti e Delitti» di Canale 5, Buzzi affermò in maniera chiara che erano stati trovati anche peli di «Ignoto 1» (e quindi di Massimo Bossetti, per gli inquirenti) sul corpo e sugli indumenti di Yara. La fonte era autorevole, era una notizia clamorosa e come tale venne accolta dai media (che la rilanciarono con ampio risalto) perché confermava le risultanze delle analisi genetiche già condotte sugli slip e sui leggings della ragazzina. Peccato che non c’era nulla di vero. Buzzi era incappato in un autentico scivolone televisivo e, poco dopo, nella stessa serata, era stato costretto a rettificare: «Non so se mi sono espresso male io, e in tal caso me ne dolgo – aveva dichiarato – oppure se c’è stato un fraintendimento con il giornalista che mi ha posto le domande, ma devo precisare che il confronto tra le formazioni pilifere e il Dna di Ignoto 1 è tuttora in corso, non è concluso». Anche il professor Carlo Previderè, che materialmente era stato incaricato dalla Procura di analizzare le tracce pilifere, intervenne per smentire e lo stesso fecero gli inquirenti: «Non risulta». Oggi l’esito di quelle analisi è noto: sono state trovate 7 tracce umane, nessuna però appartenente all’imputato Bossetti. Di quell’infausta intervista di Buzzi rimane ora solo un procedimento penale per diffamazione, di cui però la Procura di Bergamo (titolare del fascicolo è il procuratore aggiunto Massimo Meroni) ha chiesto l’archiviazione, evidentemente non ravvisando gli estremi per procedere contro il professore. Alla richiesta di archiviazione, come detto, si è formalmente opposta la difesa di Bossetti.
Il muratore di Mapello nel 2014 denunciò per diffamazione un genetista, scrive Michele Andreucci il 10 marzo 2016 su "Il Giorno". Questa volta ha varcato l'ingresso del tribunale in qualità di parte offesa e non come imputato. Massimo Bossetti, in carcere con l'accusa di essere l'assassino di Yara Gambirasio, è comparso questa mattina davanti al gip Marina Cavalleri nella veste di presunta vittima del reato di diffamazione, frutto di una denuncia che il muratore di Mapello ha presentato tempo fa nei confronti del professor Fabio Buzzi, all'epoca dei fatti responsabile dell'Unità operativa di Medicina legale e Scienze Forensi dell'Università di Pavia. Il dipartimento di Buzzi era stato incaricato dalla Procura di Bergamo di analizzare i reperti (peli e capelli) sopra e intorno al corpo di Yara, rinvenuto nel campo di Chignolo d'Isola il 26 febbraio 2011. Il 27 giugno 2014, pochi giorni dopo il fermo del carpentiere inguaiato dal dna, nel corso di una intervista in tv per la trasmissione "Segreti e Delitti" di Canale 5, Buzzi affermò che erano stati trovati anche i peli di "Ignoto 1" (e quindi di Massimo Bossetti, per gli inquirenti) sul corpo e sugli indumenti di Yara. La notizia venne rilanciata con ampio risalto dai media perchè confermava le risultanze delle analisi genetiche già condotte sugli slip e sui leggings della ragazzina. Peccato che non c'era nulla di vero e poco dopo Buzzi, nella stessa serata, era stato costretto arettificare. Oggi l'esito di quelle analisi è conosciuto: sono state trovate 7 tracce umane, nessuna però appartenente a Bossetti. Di quell'intervista rimane ora un procedimento penale per diffamazione cui però il procuratore aggiunto di Bergamo, Massimo Meroni, ha chiesto l'archiviazione. Alla richiesta si è opposta la difesa di Bossetti e ieri era in programma l'udienza in camera di consiglio, che si è tenuta nell'aula della corte d'Assise, la stessa dove si celebra il processo per l'omicidio di Yara. Il gip Marina Cavalleri, sentite le parti, si è però riservata la decisione, che sarà resa nota settimana prossima. Poco prima che terminasse l'udienza Bossetti ha preso la parola per invocare la condanna di Buzzi. "Chiedo che venga perseguito per questo reato", si è limitato a dire. I legali del muratore di Mapello, gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, hanno chiesto al giudice di acquisire il video integrale della trasmissione "Segreti e Delitti" e di chiamare a testimoniare il giornalista Giorgio Sturlese Tosi, autore del servizio, oltre che Carlo Previderè e Pierangela Grignani, gli esperti dell'Università di Pavia che hanno eseguito materialmente le analisi sul dna nel dipartimento di Buzzi. Il procuratore aggiunto ha invece insistito sulla sua richiesta di archiviazione del procedimento affermando che la querela è stata presentata tardi e che la reputazione di Bossetti non è stata lesa in quanto da parte di Buzzi non c'è stato dolo. Inoltre il professore ha parlato di "Ignoto1" e non ha fatto il nome di Massimo Bossetti. Domani, intanto, Bossetti torna in aula per il processo per l'omicidio di Yara. Proseguirà il suo interrogatorio, iniziato venerdì scorso, da parte del pm Letizia Ruggeri.
Processo Bossetti, l’ipotesi assurda che tolgano i figli alla moglie. Marita Comi, l’ipotesi assurda che le tolgano i figli non è cronaca ma solo un atto di sadismo. Lo scrive il giornalista Enrico Fedocci l'8 marzo 2016 su “Bergamo News”. Enrico Fedocci, giornalista di Mediaset sul proprio blog “Cronaca Criminale” affronta l’ipotesi assurda che a Marita Comi, moglie di Massimo Bossetti presunto assassino di Yara Gambirasio, le tolgano i figli dopo la sua deposizione in tribunale a difesa del marito. Arrivo in redazione, trovo la mazzetta dei giornali. La mia attenzione è attirata da un settimanale. Una foto a tutta pagina di Marita Comi – stiamo parlando della copertina – e una più piccola di Massimo Bossetti, oltre a un titolo: “Era lei a cercare oscenità sul computer. Rischia grosso la moglie di Bossetti. Le toglieranno i figli?” Io credo che sia necessario fermarsi un attimo, fare il punto su ciò che sta accadendo a Bergamo e in tutti noi. La settimana scorsa, durante il suo interrogatorio, Marita Comi si è attribuita la navigazione in siti hard. Peraltro, va precisato che solo ieri i consulenti del Racis hanno dichiarato in aula che non c’è assolutamente prova di navigazione (digitazione umana) in siti pedopornografici nei pc di casa Bossetti. Il presidente della Corte d’Assise, Antonella Bertoja, proprio durante la deposizione della stessa Comi, ha dichiarato che non sarebbe comunque reato cercare contenuti pornografici su internet. Neanche – ma questo non è mai avvenuto – se fosse stata digitata la parola 13enne. Ora, quello che ho letto è che sulla base di ciò che Marita Comi ha dichiarato in aula potrebbero esserle tolti i figli. Attenzione: nessun magistrato ha detto questo. Non è stato detto in aula. Non è stato ipotizzato da nessuno che abbia titolo a farlo. Nessuna trasmissione di atti al tribunale dei minori. Insomma, non esiste alcuna indagine in tal senso. Ma ugualmente qualcuno si permette di evocare sui giornali uno scenario che mai e poi mai si concretizzerà. Ciò che mi ha colpito in questi anni è stato vedere questi bambini che andavano a trovare il padre in carcere. Deve essere una sofferenza grande, ancora più grande per chi è così piccolo. In particolare, ho negli occhi una scena: era il 24 dicembre del 2014, tutti vestiti bene, il fratellino e le sorelline piccole. Lui, il primogenito, davanti, come se fosse l’ometto di casa. Le piccole, invece, mano nella mano con la mamma, con i capelli ben spazzolati, puliti, eleganti con il loro piumino. Vestiti a festa, perché il Natale, anche dietro alle sbarre, deve essere Natale. Ho avuto l’impressione di bambini molto educati, a modo. In quel frangente, ma anche in altre occasioni sempre in compagnia dei bimbi, ho visto una donna molto protettiva nei confronti dei suoi piccoli. Una madre appropriata. Ora, che questi tre bambini, dopo aver perso il padre, debbano avere paura (ripeto: è una cosa che non accadrà mai) di essere allontanati anche dalla madre è una vergogna a cui voglio ribellarmi. Con le opportune cautele, trattandosi di minori, sarebbe giusto riferire la cosa se, effettivamente, ci fosse una procedura del genere in atto. Se davvero i giudici avessero ravvisato nelle parole della donna elementi che facessero temere per l’educazione dei bambini. Ma così potrebbe risultare solo un modo per fare notizia, laddove la notizia non c’è. E – grazie al cielo – non ci sarà mai. Il tempo ci dirà – ne sono certissimo – che evocare scenari simili sarà stato solo un inutile esercizio di sadismo. Nella speranza che i tre figli di Massimo Bossetti e Marita Comi non riportino traumi conseguenti a queste ipotesi “giornalistiche” strampalate.
Venerdì 11 marzo 2016. Bossetti, aula piena e code fuori. In Tribunale c’è anche la moglie Marita. L’hanno vista entrare con discrezione poco prima dell’udienza. In aula ad ascoltare le risposte di Massimo Bossetti anche la moglie Marita Comi, che era assente la scorsa settimana, scrive “L’Eco di Bergamo” l’11 marzo 2016. Alle nove e trenta di venerdì 11 marzo il processo prosegue con l’interrogatorio al muratore di Mapello. La giornata sarà dedicata interamente al suo interrogatorio da parte dell’accusa, delle parti civili e della difesa. Marita Comi è arrivata a piedi con Ezio Denti, il criminologo consulente della difesa. Seduta in aula, è vestita con un pantalone beige e una maglia nera. In aula anche Claudio Salvagni e Paolo Camporini. Marita, prima dell’inizio dell’udienza, si è fermata a parlare con i legali. Massimo Bossetti, come sempre sul furgone della polizia penitenziaria, è arrivato intorno alle 9.15. Aula pienissima, fuori una ventina di persone che sono in attesa per verificare se si liberano dei posti. Si prevede un’udienza fiume, in cui il pm Letizia Ruggeri contesterà all’imputato tutti gli indizi a suo carico, mentre lui continuerà a proclamarsi innocente.
«Dna strampalato, tirate fuori le prove». Bossetti smentisce la Azzolin. «Come mai non mi avete fatto il test?» Botta e risposta tra Bossetti e il pm. Dal maggiore alle estetiste Bossetti addita i suoi «pinocchi». Massimo Bossetti l’aveva già accennato la scorsa udienza: «Chi si è seduto qui e ha parlato contro di me, ha mentito. Hanno mentito tutti, tranne i miei consulenti». Nell’udienza di venerdì 11 marzo ha ultimato l’opera fornendo la lista di coloro che, a suo dire, non avrebbero detto la verità, scrive “L’Eco di Bergamo”. Dall’edicolante che aveva smentito che l’imputato fosse suo cliente abituale alle estetiste che avevano dichiarato che Bossetti faceva lampade anche due volte la settimana. E ancora: i colleghi di cantiere, l’ufficiale dei carabinieri che bloccò Bossetti sulle impalcature al momento dell’arresto, i periti informatici dell’accusa che avevano trovato sul pc di casa Bossetti compare una ricerca della parola «tredicenni» abbinata a morbose caratteristiche sessuali. Marita non aveva escluso la possibilità di aver digitato il termine «ragazze» («Ma tredicenni no»). Venerdì l’imputato è stato più categorico: «Non possiamo aver fatto quel tipo di ricerca né io, né mia moglie. La verità è che non esiste tale ricerca, e bisognerebbe guardare meglio».
«Quel dna non mi appartiene». Per la prima volta, Massimo Bossetti, imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio ha messo in dubbio, nel corso del suo interrogatorio, che il dna trovato sul corpo della ragazza uccisa sia suo. Continua “L’Eco di Bergamo”. «È un dna strampalato, e che per metà non corrisponde», ha detto il carpentiere a proposito della mancata corrispondenza tra il dna nucleare e quello mitocondriale. L’interrogatorio è iniziato alle 9.40. In aula anche la moglie Marita Comi. È botta e risposta tra il pm Letizia Ruggeri e Massimo Bossetti. «È dal giorno del mio arresto che mi chiedo come sono finito in questa vicenda - ha proseguito Bossetti - visto che non ho fatto niente e voi lo sapete». Il pm Letizia Ruggeri ha ribattuto che un giudice ha ritenuto che dovesse rimanere in carcere e un altro che gli elementi a suo carico sono stati giudicati tali da sostenere un giudizio. «Evidentemente la vicenda non è strampalata come dice lei» ha ribattuto il pm. E poi Bossetti, molto carico e determinato nelle risposte, ha ribadito: «Quel dna è a metà, è pieno di errori: tirate fuori le prove vere». Il muratore ha anche parlato della conoscenza con il papà di Yara, Fulvio Gambirasio: «L’ho visto qualche volta in un cantiere a Palazzago, dopo la scomparsa di Yara. E poi a un distributore di benzina, davanti alla palestra». Smentita la testimone Alma Azzolin: «Non è possibile che mi abbia visto all’Eurospin a comprare birre e lamette da barba: io non compro la birra lì: in quel supermercato ci sono sotto-marche». Facciamo un passo indietro sulla teste oculare: in una mattina («Dalle 10 alle 12, martedì o giovedì, non so essere più precisa») di tarda estate del 2010 («Da metà agosto a metà settembre, non so essere più precisa») Alma Azzolin, che da Trescore due volte la settimana portava la figlia quindicenne agli allenamenti di ciclismo a Brembate Sopra («Poi di solito la aspettavo per due ore in auto, all’incrocio tra via Caduti dell’Aeronautica e via Locatelli»), era nel parcheggio del vicino cimitero. «Ero ancora in auto, quando arriva una macchina grigia familiare - ha raccontato in aula -. Al volante un uomo con gli occhi chiari, il viso scavato e i capelli corti. Mi fissava e il suo sguardo mi ha impressionato, messo a disagio. Poteva fermarsi più in là, visto che il parcheggio era vuoto, e invece è venuto verso di me. Ma mi sono tranquillizzata, quando ho visto arrivare di corsa una ragazzina: avrà avuto 13/ 15 anni, alta 1,60, con capelli mossi e lunghi e l’apparecchio ai denti. È salita in auto. Pensavo fosse un padre che stava aspettando la figlia. Poi quell’uomo l’ho rivisto giorni dopo al supermercato Eurospin, poco distante dalla palestra. Quella volta mi guardò in modo normale». La donna, quando comparvero le foto di Yara dopo il delitto, cominciò a rimuginare: «Ero certa di averla vista, ma non ricordavo dove». La stessa cosa quando venne arrestato Bossetti. Poi, l’illuminazione arriva guardando la tv: «Mostrarono la foto dall’alto del parcheggio del cimitero e allora realizzai: ecco dove avevo visto quei volti». «È sicura, signora?», le chiede il pm. «Sì», risponde lei. Addita Bossetti in aula: «È lui l’uomo che mi fissava». Poi indica la stessa foto di Yara che aveva indicato al momento dell’interrogatorio del 24.11.14: «È la ragazza che era salita sull’auto». La moglie Marita, dall’inizio dell’interrogatorio, lo guarda fisso negli occhi. In aula anche un giornalista tedesco, Ugo Gumpel, corrispondente per la tv Rtl. Massimo Bossetti ha dovuto rispondere anche alle domande sul numero di volte che andava al centro estetico e dall’edicolante. «A fare le lampade 2-3 volte al mese» ha detto, ma la pm: «L’estetista dice 2 volte alla settimana». E sull’edicola, ancora lo scontro: «Ci andavo quasi tutte le sere a comprare le figurine per i miei figli» ha ribadito come la scorsa settimana. «L’edicolante dice di no» ha sottolineato il pm. Poi Letizia Ruggeri si è concentrata sui rapporti con la famiglia, e in particolare con la mamma Ester Arzuffi. «In tv abbiamo visto la faccia di Giuseppe Guerinoni e ne abbiamo parlato dato che i miei genitori lo conoscevano: era autista del pullman che usava mia madre per andare da Ponte Selva a Villa d’Ogna». Poi una domanda sibillina: «Si è chiesto come mai sia nato a Clusone e non a Ponte San Pietro?». «No», ha detto Bossetti, «era un desiderio di mia madre». Ma il pm insiste: «Però suo fratello è nato a Ponte San Pietro». E poi ancora sul dna: «Non si è stupito che a sua madre sia stato fatto l’esame del dna? Non ha collegato la cosa a Giuseppe Guerinoni?». «Ma no, lo stavano facendo a tante persone» ha risposto Bossetti. «Ma stavamo cercando un uomo...» ha commentato la pm. «A quel punto Bossetti ha sbottato: «Ma cosa vuole che ne sapessi se si poteva fare anche alle donne. E poi lei non può continuare a insistere su questo dna» ha detto alterato. Il muratore di Mapello già qualche minuto prima aveva ribadito: «Non ho fatto niente e lo sapete». Si parla in aula anche delle ricerche sul computer: «Non ho mai fatto ricerche su ragazzine o tredicenni» ha detto, smentendo quando invece risulta dall’analisi dei suoi due computer di casa. «No, assolutamente - ha risposto -, sono sincero, non esistono ricerche di questo genere nei nostri computer, assolutamente». Bossetti ha aggiunto che talvolta «in intimità, quando i bambini erano a letto» lui e la moglie guardavano dei siti pornografici. Mai, però, quelli riguardanti ragazzine. «A me piace anche la cronaca nera», ha aggiunto e, per questo, faceva ricerche o leggeva i giornali. Durante l’interrogatorio si parla anche di un foglio word trovato sul pc di casa: si tratterebbe, secondo quanto spiegato dal pm, di una proposta a un rapporto sessuale con Marita Comi, firmato «Massi». «Non sono io e non ne so nulla», «non so chi sia» ha risposto Bossetti, anche se le indagini sono già risalite all’autore del biglietto, identificando l’uomo che lo avrebbe scritto. Non faccio sport, leggo il giornale, “L’Eco di Bergamo”». E navigare in Internet? «Non sono capace, sono negato» ha detto, con Letizia Ruggeri che ha insistito: «Non le crede nessuno che non sia in grado di fare una ricerca su Google». In aula un brusio con l’avvocato Camporini che ha ribattuto ironico: «Noi sì», frase ripetuta anche da qualcuno in aula. Il pm si è addentrata sulla questione delle navigazioni online: «Alle 9.55 del 29 maggio 2014 sul pc di casa sua è stata trovata una ricerca di link a ragazzine con espliciti riferimenti sessuali». Bossetti quella settimana era in ferie: «Ero in giro a fare preventivi, non ricordo dove fossi quella mattina, ma non sono stato io a fare ricerche di questo tipo». Anche il legale Camporini ribatte: «La cella lo identifica nella zona di casa, ma si tratta di un raggio di 30 km». Si torna sempre sulla questione del dna: «I carabinieri - ha proseguito il carpentiere - non mi hanno mai chiamato di effettuare il test del dna e mi sono stupito: io passavo tutti i giorni davanti alla palestra di Brembate». E aggiunge: «È una cosa troppo anomala». Il pm commenta: «Signor Bossetti, la sua utenza ha agganciato la cella compatibile alla zona del centro sportivo alle 17.45. Le indagini si sono concentrate sui numeri individuati dopo le 18, parliamo di oltre 120 mila movimenti telefonici». «Ma forse voi eravate concentrati su un furgone bianco» non si fa trovare impreparato Bossetti. E il pm: «Sta di fatto che il dna è suo e non di altri».
«Neanche Totò Riina trattato così». Bossetti e l’arresto. «Avevo paura, circondato da una trentina di poliziotti. Sono stato trattato in maniera vergognosa, schifosa». Poco prima della pausa pranzo, Massimo Bossetti racconta i momenti concitati del suo arresto, avvenuto in un cantiere di Seriate il 16 giugno 2014: «Avevo paura, sono stato trattato in maniera schifosa, direi vergognosa. Peggio di uno spacciatore, di un mafioso. Peggio di Totò Riina». E aggiunge: «Mi hanno circondato, hanno circondato il cantiere. Che cosa pensavano? Che scappassi? Avevo i piedi ne cemento - spiega -. Mi hanno detto di stare zitto, di non guardarli negli occhi, di non parlare o fare domande». Una descrizione approfondita della paura e dell’angoscia con la stessa moglie Marita Comi che pare turbata dal racconto. E proprio Marita Comi è stata «assalita» dai media quando è uscita dal Tribunale di Bergamo per la pausa pranzo: con gli avvocati della difesa si è diretta al bar Duse per il pranzo. Fuori dal Tribunale, nel frattempo, già una lunga coda di chi aspetta per rientrare.
«Chi ha fatto questo a Yara non era solo». Bossetti: io in carcere, là fuori c’è chi ride. «Chi ha fatto male a Yara non può aver agito da solo». Lo dice Massimo Bossetti durante l’interrogatorio fiume di venerdì mattina 11 marzo. «Non è giusto che io sia in carcere mentre là fuori due persone ridono» ha detto il carpentiere. E il pm Letizia Ruggeri subito gli ha domandato. «Perchè due?». «Perchè chi ha fatto del male a Yara non può essere stato da solo». Questo botta e risposta arriva dopo una lunga parte dell’interrogatorio in cui Bossetti spiega perchè aveva sospettato di Massimo Maggioni, titolare della ditta per cui stava lavorando nel 2010, sul quale aveva avanzato sospetti nel corso di un interrogatorio davanti al pubblico ministero dopo l’arresto. «Nessuna calunnia, non volevo calunniare o ingiuriare nessuno, ma dopo 137 giorni di isolamento terrificanti, ho continuato a pensare con chi avevo avuto dei contatti». E Bossetti ricorda degli episodi: «Ricordo gli apprezzamenti dopo il passaggio di uno scuolabus, gli avevo anche detto se non era un pedofilo» dichiara in aula. E poi ricorda che Maggioni lo aveva aiutato dandogli uno straccio di cotone in un’occasione in cui si era tagliato. In sostanza il collega avrebbe potuto avere tracce del suo Dna prese da uno straccio o da un attrezzo del cantiere sporco di sangue. «Lo potrebbe aver fatto per mettere nei guai me» ha commentato Bossetti, che aggiunge altri dettagli: «Ricordo che sotto il sedile del furgone aveva un coltello e una volta, sempre nel suo furgone, ho sentito uno strano odore, una puzza come di cadavere». E aggiunge: «Pensai dopo il mio fermo che Yara Gambirasio era stata uccisa per mettermi nei guai».
Udienza sospesa, si torna in aula alle 15 e fuori dal tribunale c'è già la coda di persone in attesa di entrare.
«Non c’è sera che non preghi per Yara». Si parte con la questione del furgone bianco il pomeriggio dell’interrogatorio di Massimo Bossetti. Ancora incalzato dal pm Letizia Ruggeri, scrive "L'Eco di Bergamo". «Riconosce il suo furgone?». È la domanda del pm a Bossetti in merito al furgone bianco e al tanto dibattuto filmato che già è stato visionato in aula nelle scorse udienze. «Escludo categoricamente che sia il mio. La cabina è uguale, ma il cassone è diverso». Secondo Bossetti, «molti elementi» del suo furgone Fiat Daily sono diversi rispetto a quelli del mezzo che compare nelle immagini. Il muratore di Mapello ha chiesto di poter vedere di nuovo il video, al fine di spiegare le differenze e indicare le varie discrepanze. Una richiesta accordata dal pm e che verrà messa in atto forse già dalla prossima udienza. Bossetti è tornato ancora sulla testimone oculare: «Lo ribadisco: all’Eurospin andavo solo con mia moglie e non sono andato a prendere le birre. Così come non sono mai stato nel parcheggio del cimitero dove la signora mi avrebbe visto». Intorno alle 16 ha preso la parola l’avvocato Andrea Pezzotta della Parte civile che ha fatto riferimento a una pagina de L’Eco di Bergamo che qui alleghiamo del 28 novembre 2010: «Qui c’è la descrizione dettagliata della scomparsa di Yara Gambirasio - ha detto Pezzotta -. Lei ha detto di leggere “L’Eco di Bergamo”: si è quindi domandato dove era la sera della scomparsa della ragazza?» ha chiesto il legale della famiglia. Ma Bossetti dice di non aver ricostruito la sua serata: «Non mi ricordo nulla di quella sera». Questo anche se in carcere Bossetti sarebbe stato incalzato anche dalla moglie Marita in merito a quella serata: «Lei era via quella sera secondo quanto vi siete detti in carcere, non ricorda? Perchè non ha ricostruito dove era?» chiede Pezzotta. «Forse l’ho anche detto a Marita dove sono andato - ha commentato Bossetti -. Ma io non me lo ricordo». Dopo Pezzotta è stata la volta della difesa con Paolo Camporini, legale di Bossetti insieme a Claudio Salvagni, che ha chiesto a Bossetti di raccontare la sua vita in carcere: «Una vita di isolamento - ha detto il muratore trattenendo le lacrime -. Una vita umiliante, terribile, con i detenuti che mi sputavano, mi insultavano. Dopo 40 giorni mi hanno portato la televisione e su ogni canale vedevo la mia faccia o quella di Yara. Continuavo a piangere, a non dormire. È vero, ho pensato al suicidio. Mi ha salvato solo la fotografia della mia famiglia». E poi ancora: «Se uno è innocente, su che cosa deve cedere?» Lo ha detto Massimo Bossetti, rispondendo alle domande dei suoi avvocati che gli chiedevano se avesse subito pressioni, in carcere, perché confessasse. «Ho ricevuto pressioni da tutti», ha spiegato senza fare dei nomi. Bossetti ha aggiunto che sua moglie, durante i colloqui, gli fece il “quarto grado”: se avessi mentito me lo avrebbe letto negli occhi». Stizza dell’avvocato Pezzotta a un commento di Bossetti: «Papà Fulvio non è per me un papà normale - ha detto -. Fossi stato io il padre di Yara avrei lasciato il lavoro, avrei lasciato tutto, e sarei andato a cercarla». Il muratore di Mapello fa questo commento riferendosi agli incontri che aveva in carcere con Fulvio Gambirasio: «Lo incontravo sul lavoro, e dentro di me pensavo a questa cosa». Alla dichiarazione di Bossetti, il gesto di stizza di Pezzotta: l’avvocato ha sbattuto la mano sul tavolo. Anche l’avvocato Claudio Salvagni ha preso la parola, chiedendo subito a Bossetti di parlare della sua relazione con la moglie Marita: «Siamo una coppia affiatata, normalissima. Tra noi una grande intesa» ha commentato il muratore di Mapello. A livello intimo? «Una forte intesa» ha ribadito. Regali particolari li ha mai fatti a Marita? Bossetti ha parlato di un regalo speciale di lingerie. Infine sulle minacce subìte da Massimo Bossetti: «A Terno d’Isola, dai miei concorrenti: prendevo tanti lavori e questo indispettiva molti. Ho ricevuto anche lettere anonime con ritagli di giornale e mi è stato manomesso il furgone: ho dovuto cambiare anche la serratura del furgone». Il muratore torna a parlare del carcere e di Yara: «Non c’è sera che non preghi per lei: lei ha pagato con la vita. È stata una brutalità che le ha strappato la sua innocente quotidianità». L’interrogatorio è terminato alle ore 18: prossima udienza mercoledì 16 quando sarà la Corte a interrogare Massimo Bossetti.
Il presunto omicida della tredicenne di Brembate ha ribadito la propria innocenza, ma alla fine è caduto in contraddizione, rendiconta con un tono colpevolista Mauro Paloschi il12 marzo 2016 su “Bergamo News”. Ha ribadito la propria innocenza, ha attaccato inquirenti e agenti, ma alla fine è anche caduto in contraddizione. A 634 giorni dall’arresto, Massimo Giuseppe Bossetti ha raccontato tutta la sua verità al processo che lo vede come unico imputato per il brutale delitto della tredicenne Yara Gambirasio. Dopo il primo spezzone di una settimana fa, con un’ora scarsa di domande dal pubblico ministero Letizia Ruggeri (Leggi qui), c’era grande attesa per l’udienza fiume di venerdì 11 marzo. E le aspettative, anche del numeroso pubblico presente (quasi totalmente suoi sostenitori), non sono andate deluse. Maglioncino con cerniera aperta sul petto, pantaloni beige, scarpe da ginnastica, il carpentiere è arrivato in aula più carico e determinato che mai, per cercare di distruggere il castello accusatorio eretto dalla Procura nei suoi confronti. A partire da quel suo (pesante) dna ritrovato su slip e leggins del cadavere della giovane ginnasta: “Vi dico che non appartiene a me. Non è mio. Non riuscite nemmeno a capire che fluido sia, avete fatto delle indagini strampalate – attacca il pm –. Tiratemi fuori le prove vere piuttosto”. Chewing gum in bocca, alza spesso lo sguardo in segno di disapprovazione. Mostra l’orgoglio da maschio ferito poi, quando la dottoressa Ruggeri legge una mail ricevuta dalla moglie Marita Comi (presente in aula per la prima volta) da parte di un certo “Massi”, per una serata hard in cui viene invitata a “sbarbarsi completamente”: “Se trovo chi l’ha scritta lo sbarbo io”. Ma poi ammette: “Lo so chi è l’autore, è Massimo Bonalumi”. E racconta: “Con Marita alla sera, dopo aver messo a letto i figli, guardavamo video porno sul computer. Le facevo anche regalini da sexy shop. Siamo una coppia felice, come tante”. Il 45enne parla spesso al presente e al futuro, come se fosse convinto che la Corte lo dichiarerà innocente e potrà uscire dal carcere. Si commuove vistosamente quando parla dei suoi figli: “Gli faccio un sacco di regalini e glieli farò sempre. Sono la mia unica ragione di vita. Lavoro e famiglia. E la domenica in chiesa”. Un idillio interrotto il 16 giugno 2014, quando venne arrestato nel cantiere di Seriate mentre stava lavorando: “E’ avvenuto in modo indegno, vergognoso. Sono arrivati 40 agenti, come se dovessero prendere uno spacciatore di droga. Avevo paura che mi picchiassero. In carcere poi sono stato in isolamento fino al 26 ottobre – ricostruisce insieme ai suoi avvocati Caludio Salvagni e Paolo Camporini –. Mi deridevano, mi sputavano addosso. Piangevo spesso e ho tentato il suicidio. Mi hanno trattato peggio di Totò Riina”. Sulla sera del 26 novembre 2010, quella del delitto di Yara, invece i ricordi sono offuscati: “Non mi viene in mente cosa ho fatto con precisione, sono passati troppo anni. Penso di essere tornato a casa, come sempre, a cena”. “Eh no signor Bossetti – replica l’avvocato Andrea Pezzotta, legale del padre della ragazzina –, perché la sua signora in carcere, intercettata, le ha detto che è rientrato più tardi quella sera. Che avevate litigato. Eppure non ha ricostruito cosa avesse fatto”. Il carpentiere ha anche ribadito più volte: “Non sono capace nemmeno di accendere un computer, me lo prepara già aperto mia moglie quando lo devo usare”. E ancora che “il profilo Facebook l’ha creato Marita stessa, io non so usarlo”. Ma poi l’avvocato Enrico Pelillo, della madre di Yara, gli chiede di una foto con un aliante sulla sua pagina e lui risponde: “L’ho scattata e l’ho postata io direttamente da lì. Mi sembrava una cosa simpatica da fare, fingendo che fosse mio quel mezzo. L’ho pubblicata per questo”.
L’alibi impossibile del «favola»: quella voragine nella difesa di Bossetti. L’unico imputato per la morte di Yara Gambirasio ha ribadito negli interrogatori la sua innocenza. Ma su quel 26 novembre 2010 continua a dire: «Non ricordo nulla», continua con lo stesso tono colpevolista Stefano Rizzato il 12 marzo 2016 su “La Stampa”. Il 29 novembre 2010, poco dopo le 9, Massimo Bossetti parla al telefono con la sua commercialista. «Me lo ricordo bene. Le ho dato l’ok per un pagamento. Erano 3.500 euro». Il 27 novembre 2010, di prima mattina, Bossetti è in cantiere. Lavora anche di sabato. E si ricorda tutto anche di quel giorno: «Abbiamo scaricato perline e travetti, e montato cinque gazebi». Invece l’artigiano di Mapello non rammenta nulla del giorno prima. Nulla di quello che ha fatto il 26 novembre 2010. Il giorno in cui, verso sera, sparisce una ragazzina a Brembate di Sopra. Eccolo qui, in mezzo a tantissimi punti deboli, il vero enorme punto debole della difesa fornita da Massimo Bossetti in tribunale: non avere un alibi. Dimentichiamo per un attimo il dna, e concentriamoci su questo. Nelle due giornate di interrogatorio - quelle del 4 e 11 marzo - l’unico imputato per la morte di Yara Gambirasio ha risposto a tutte le domande del pm Tiziana Ruggeri e dei suoi stessi legali. Davanti alla corte d’assise di Bergamo, ha negato su tutti i fronti: sulle ricerche a sfondo pedopornografico, sul camion che si vede nei video di sorveglianza, sul dna trovato sul corpo di Yara. «Un dna strampalato», l’ha definito. Ma ha lasciato senza risposta la domanda più importante: dov’era e cosa faceva quel giorno di fine novembre? La sua non-risposta Bossetti l’ha ripetuta come un mantra: per lui quel 26 novembre 2010 fu un giorno qualunque. «Come faccio a ricordarmelo? Dovrebbe essere successo un evento particolare. Un colpevole se lo ricorderebbe, ma io sono innocente: per me è impossibile». Quel giorno, a collocare il muratore nei dintorni della palestra di Brembate di Sopra, quella dalla quale Yara sparì poco prima delle 19, ci sarebbero i famosi video delle telecamere di sorveglianza. E il suo furgone bianco che passa e ripassa. Ma anche su questo Bossetti nega: «Non è assolutamente il mio furgone, lo escludo». Eppure non spiega davvero in cosa esattamente quello che si vede nei video sia diverso dal suo veicolo. Un punto fisso, su quella giornata, lo mette uno dei tanti documenti depositati agli atti: la ricevuta di un acquisto - strumenti da lavoro e un giubbotto - fatto da Bossetti alle «Forniture edili» di Villa D’Adda. Una fattura datata 26 novembre 2010 alle 14.30. A quell’ora l’abitudinario Bossetti sarebbe dovuto essere in cantiere, invece era altrove. «Ne ho preso atto dai documenti - dice lui - e presumo che fossi lì perché quel giorno era brutto e non si potessero svolgere lavori all’esterno. Forse avevamo deciso di dar buca quel giorno e rimandare i lavori all’indomani». Ma di quell’acquisto dice di non ricordare nulla. E nemmeno dove pranzò, se e quando passò per Brembate, a che ora tornò a casa. Proprio per provare a capire cosa potesse aver fatto quel giorno, negli interrogatori in carcere e in quelli in tribunale Bossetti ha dovuto ricostruire tutti i suoi legami con Brembate di Sopra. È lì che ha vissuto fino ai 29 anni e lì vive ancora il fratello. Lì andava ogni tanto al bar «Il piacere». Lì aveva la commercialista e ogni tanto si fermava a fare la spesa. E lì faceva anche le lampade, ma sulla frequenza ci sono due versioni che discordano: due o tre volte al mese secondo Bossetti, una o due volte ogni settimana secondo la testimonianza delle estetiste del centro. Ma soprattutto Brembate fa parte dell’itinerario giornaliero del muratore, tra casa e lavoro. Abitualmente, a suo dire, Bossetti frequentava un’edicola a pochi metri dalla famosa palestra. «L’edicola del nonno, la chiama mio figlio - ha spiegato - e lì mi fermavo tornando dal lavoro, per prendere figurine o altro per i miei figli. Mi fermavo anche tre o quattro volte la settimana, sempre la sera dopo il lavoro». Eppure l’edicolante, sotto giuramento, ha detto che Bossetti non era un cliente così abituale. Che lo vedeva di rado, e sempre di mattina. «Non è vero - rilancia il muratore - ed è impossibile per lui non ricordare. Parcheggiavo sempre davanti all’edicola, nel posto dei disabili. A volte mi capitava di buttar giù la locandina dei quotidiani, e un paio di volte il giornalaio se n’è pure lamentato». Sono molte, per la verità, le incongruenze tra quello che dice Bossetti e quello che sostengono gli altri testimoni del processo. Ce ne sarebbero altre, sul giorno del ritrovamento del corpo di Yara e su svariati altri punti. Il muratore è arrivato a dire che hanno mentito tutti, tranne i suoi consulenti di parte. Insieme ai sui avvocati, l’artigiano soprannominato “il favola” ha provato a costruirsi una posizione da vittima di un complotto. Nato chissà come e chissà perché. Ma è qui che dobbiamo ricordarci del dna. Perché quella prova - il materiale genetico di «ignoto1» trovato sugli slip di Yara - è praticamente impossibile da smontare. Specialmente senza uno straccio di alibi.
Caso Yara, Bossetti: "Pensai omicidio fatto per inguaiarmi. Quel dna non mi appartiene". In aula il muratore di Mapello assicura: "Mai fatto ricerche su ragazzine o tredicenni. Non so neppure usare Google". Poi ricorda il giorno dell'arresto: "Fu una cosa indegna, ebbi paura", scrive con tono più imparziale Gabriele Moroni su “Il Giorno”. Caso Yara, Bossetti: "Se uno è innocente non cede, quel dna non mi appartiene". In aula il muratore di Mapello assicura: "Mai fatto ricerche su ragazzine o tredicenni. Non so neppure usare Google". Poi ricorda il giorno dell'arresto: "Fu una cosa indegna, ebbi paura". Consulente difesa: "Il dato genetico c'è ed è stato confermato". E' terminato alle 18 l'interrogatorio di Massimo Bossetti, unico indagato per la morte di Yara Gambirasio. Prossima udienza mercoledì 16 quando sarà la Corte a interrogare il muratore. Dopo la pausa pranzo, è ricominciato con la questione del furgone bianco, l'interrogatorio a Massimo Bossetti, unico indagato per l'omicidio di Yara Gambirasio. Sempre incalzato dal pm di Bergamo Letizia Ruggeri, il muratore ha "escluso categoricamente" che il furgone ripreso dalle telecamere di sorveglianza di Brembate di Sopra la sera della scomparsa di Yara sia il suo. Ha infatti sottolineato che da "alcuni elementi visti nel video" è evidente "che non si tratta del mio autocarro". "In giro ce ne sono tanti simili - ha detto - la cabina è uguale in tutti i furgoni Iveco ma la morfologia del cassone è molto diversa dal mio". Bossetti esaminerà dunque, probabilmente già nella prossima udienza, i fotogrammi ripresi dal filmato per indicare ai giudici le divergenze tra quel camion e il suo. Bossetti ha anche negato che sia stato lui l'uomo che una testimone ha raccontato di aver visto nel parcheggio del cimitero di Brembate con Yara Gambirasio. "Non ho mai messo piede in quel cimitero, né in quel parcheggio". L'imputato ha anche escluso di essersi recato presso l'Eurospin da solo, dove la donna lo avrebbe riconosciuto per un seconda volta. "Lo escludo totalmente perché non ero io. Ci andavo con mia moglie. Non ho mai messo piede all'Eurospin da solo, né ho mai comprato una birra o le lamette da barba (come ha affermato la testimone, ndr), ma quando ci sono andato ho acquistato solo bibite e generi alimentari. Mi fermavo lì perché era sul tragitto". Poi ha preso la parola Giorgio Portera, consulente famiglia Gambirasio: "Le giustificazioni sulla parte genetica devono essere date dai suoi consulenti. Lui nella sua posizione può dire quello che vuole ma il dato genetico c'è ed è stato confermato. Il Dna c'è e lo identifica". Dopo Pezzotta è stata la volta di Paolo Camporini, legale di Bossetti insieme a Claudio Salvagni, che ha chiesto a Bossetti di raccontare la sua vita in carcere: "Una vita di isolamento - ha detto il muratore trattenendo le lacrime -. Una vita umiliante, terribile, con i detenuti che mi sputavano, mi insultavano. Dopo 40 giorni mi hanno portato la televisione e su ogni canale vedevo la mia faccia o quella di Yara. Continuavo a piangere, a non dormire. È vero, ho pensato al suicidio. Mi ha salvato solo la fotografia della mia famiglia". E ancora: "Se uno è innocente, su che cosa deve cedere?". "Ho ricevuto pressioni da tutti", ha spiegato senza fare dei nomi. Bossetti ha sottolineato che sua moglie, durante i colloqui, gli fece un "quarto grado". "Se avessi mentito me lo avrebbe letto negli occhi". Poi Bossetti ha detto: "Papà Fulvio non è per me un papà normale - ha detto -. Fossi stato io il padre di Yara avrei lasciato il lavoro, avrei lasciato tutto, e sarei andato a cercarla". Il muratore di Mapello ha fatto questo commento riferendosi agli incontri che aveva in carcere con Fulvio Gambirasio: "Lo incontravo sul lavoro, e dentro di me pensavo a questa cosa". Poi l'avvocato Claudio Salvagni ha preso la parola, chiedendo subito di parlare della sua relazione con la moglie Marita: "Siamo una coppia affiatata, normalissima. Tra noi una grande intesa" ha commentato il muratore di Mapello. A livello intimo? "Una forte intesa" ha ribadito. Infine sulle minacce subìte da Massimo Bossetti: "A Terno d’Isola, dai miei concorrenti: prendevo tanti lavori e questo indispettiva molti. Ho ricevuto anche lettere anonime con ritagli di giornale e mi è stato manomesso il furgone: ho dovuto cambiare anche la serratura del furgone". Il muratore è poi tornato a parlare del carcere e di Yara: "Non c’è sera che non preghi per lei: lei ha pagato con la vita. È stata una brutalità che le ha strappato la sua innocente quotidianità". Poco prima della pausa pranzo, Massimo Bossetti, imputato per l'omicidio di Yara Gambirasio, ha raccontato i momenti concitati del suo arresto, avvenuto in un cantiere di Seriate il 16 giugno 2014: "Avevo paura, sono stato trattato in maniera schifosa, direi vergognosa". Quel giorno "sono arrivati 30 o 40 carabinieri con le auto e le pettorine, come se fossi uno spacciatore di droga, neanche per Totó Riina". Bossetti ha detto di aver provato "una paura, ma una paura", parlando di quell'arresto come di "una schifezza", una "cosa indegna". "Avevo pensato che mi picchiassero - ha aggiunto - tutti lì insieme. In quel momento stavo svenendo". Il carpentiere di Mapello ha spiegato anche che "nessuno gli ha spiegato cosa stesse succedendo, né perché mi stessero portando via". L’interrogatorio è iniziato alle 9.40. In aula anche la moglie Marita Comi, seduta in prima fila, subito dietro al marito. La donna non si è fermata a parlare con i giornalisti. La settimana scorsa, invece, quando il carpentiere di Mapello ha iniziato a rispondere alle domande del pm Letizia Ruggeri, la donna non era presente. Il carpentiere ha quindi negato di aver tentato la fuga: "Sfido chiunque a correre nel getto e riuscire a correre nella soletta - ha detto - e poi scappare da dove? Perché non mi hanno detto il motivo per cui eravate lì - ha detto rivolto al Pm - Ho avuto paura perché non mi avete tardato un motivo, perché mi è stato detto di non parlare, e di abbassare lo sguardo. Ho avuto una paura tremenda". E quindi, rivolto alla pm, che ha insistito sui motivi di avere paura dei carabinieri: "Vorrei vederla al mio posto, con 30/40 persone tutte assieme. Ho chiesto da bere due volte, poi mi hanno dato l'acqua da una bottiglia non alzandola, ma ho dovuto inginocchiarmi io per riuscire a bere. Non capivo più niente in quel momento lì". Dopo il suo fermo, ha sempre raccontato Bossetti, pensò che Yara Gambirasio "era stata uccisa per mettermi nei guai". Il carpentiere lo ha detto quando il pm Letizia Ruggeri gli ha chiesto per quale ragione volle essere interrogato e disse di sospettare del collega Massimo Maggioni, ai danni del quale è imputato per calunnia. "Era una detenzione devastante, cruda - ha aggiunto - e io pensai alle persone che avevo vicino in cantiere". Bossetti pensò che Maggioni nutrisse del malanimo nei suoi confronti e lo chiamò in causa per cercare di spiegare come il suo Dna potesse essere stato trovato sul corpo di Yara. "Mi scuso con Maggioni Massimo - ha concluso Bossetti - per aver detto queste cose sbagliate". "Quel dna non mi appartiene". Per la prima volta, Massimo Bossetti, imputato per l'omicidio di Yara Gambirasio ha messo in dubbio, nel corso del suo interrogatorio, che il dna trovato sul corpo della ragazza uccisa sia suo. È un continuo botta e risposta tra il pm Letizia Ruggeri e Massimo Bossetti. "È un dna che per metà non corrisponde e per metà è pieno di errori. Un dna strampalato", ha detto il carpentiere a proposito della mancata corrispondenza tra il dna nucleare e quello mitocondriale. "È dal giorno del mio arresto che mi chiedo come sono finito in questa vicenda - ha proseguito Bossetti - visto che non ho fatto niente e voi lo sapete". Il pm Letizia Ruggeri ha ribattuto che un giudice ha ritenuto che dovesse rimanere in carcere e un altro che gli elementi a suo carico sono stati giudicati tali da sostenere un giudizio. "Evidentemente la vicenda non è strampalata come dice lei". "Tirate fuori le vere prove " ha aggiunto Bossetti, rispondendo sempre alle domande del pm e quando il magistrato gli ha chiesto se sapesse come mai il suo Dna è finito sui vestiti della ragazzina ha risposto: "Assolutamente no, quel Dna non mi appartiene". Bossetti ha ribadito che conosceva la ragazzina "solo di vista". Anche nella scorsa udienza aveva detto di non aver mai visto, né conosciuto la tredicenne. "Prima di me in quest'aula hanno mentito tutti", aveva affermato nel corso di un interrogatorio durato circa un'ora. Il pm ha fatto domande anche su Guerinoni e Bossetti ha spiegato: "Ero a casa dei miei genitori a Terno d'Isola quando ho visto la sua immagine, per la prima volta, in una trasmissione televisiva". E ancora: "Mio padre Giovanni aveva detto di conoscerlo e gli aveva chiesto il favore di dare un passaggio alla moglie qualora l'avesse incontrata a piedi. Era autista del pullman che usava mia madre per andare da Ponte Selva a Villa d’Ogna". Poi, si è passati al percorso tra il cantiere di Palazzago, luogo di lavoro del muratore, e la sua abitazione a Mapello: "Passavo nella via dove è sparita Yara quando c'erano posti di blocco o autovelox. E poi parcheggiavo all'angolo di quella strada per andare in edicola ad acquistare le figurine per i miei figli". Il pm ha subito sottolineato il fatto che l'edicolante di Brembate di via Locatelli non lo ricorda come un cliente abituale. Un'altra contestazione riguardo quanto detto sulla commercialista e sulla frequentazione del centro estetico: Bossetti parla di "due o tre volte al mese", mentre le addette del centro di "tutte le settimane". Il pm ha poi chiesto se ha qualche hobby e Bossetti: "No, solo lavoro e famiglia". Alla domanda sulla sua assenza al cantiere di Palazzago dal 29 maggio al 3 giugno 2014, qualche giorno prima dell'arresto, il muratore ha ammesso: "Tardavano i pagamenti e mi ero trovato dei lavori privati. Chiedo scusa e mi vergogno di aver raccontato di avere un tumore al cervello". In aula si parla anche delle ricerche sul computer: "Non ho mai fatto ricerche su ragazzine o tredicenni" ha detto, smentendo quando invece risulta dall’analisi dei suoi due computer di casa. "No, assolutamente - ha risposto -, sono sincero, non esistono ricerche di questo genere nei nostri computer, assolutamente". Bossetti ha aggiunto che talvolta "in intimità, quando i bambini erano a letto" lui e la moglie guardavano dei siti pornografici. Mai, però, quelli riguardanti ragazzine. "A me piace anche la cronaca nera", ha aggiunto e, per questo, faceva ricerche o leggeva i giornali. E navigare in Internet? "Non sono capace, sono negato»" ha detto, con Letizia Ruggeri che ha insistito: "Non le crede nessuno che non sia in grado di fare una ricerca su Google". Ma lui: "Solo se vengo aiutato da qualcuno". La pm si è addentrata sulla questione delle navigazioni online: "Alle 9.55 del 29 maggio 2014 sul pc di casa sua è stata trovata una ricerca di link a ragazzine con espliciti riferimenti sessuali". Bossetti quella settimana era a casa: "Ero in giro a fare preventivi, non ricordo dove fossi quella mattina, ma non sono stato io a fare ricerche di questo tipo". Durante l’interrogatorio si parla anche di un foglio word trovato sul pc di casa: si tratterebbe, secondo quanto spiegato dal pm, di una proposta a un rapporto sessuale con Marita Comi, firmato "Massi". "Non sono io". Le indagini sono già risalite all’autore del biglietto, identificando l’uomo che lo avrebbe scritto.
Il Resoconto senza intermediari. Il botta e risposta tra il pm e Bossetti. L’imputato: «Tirate fuori le vere prove». «Signor Bossetti, ci dica: perché c’è il suo Dna su Yara Gambirasio?». È solo il calcio d’inizio, ma il pm Letizia Ruggeri cerca subito il gol con pallonetto a sorpresa da centrocampo, scrive “L’Eco di Bergamo” il 12 marzo 2016. Ecco una significativa sintesi del botta e risposta tra il pm e l’imputato che ha respinto con forza le accuse. «Dna? Figuriamoci: non siete nemmeno riusciti a capire di che fluido biologico è fatto». Poi passa al contropiede: «Quello è un Dna strampalato, per metà non è sicuramente il mio. Tirate fuori le prove vere!». È solo l’inizio ma la partita è già nel vivo. Dopo 6 ore di interrogatorio la sintesi della versione di Bossetti è che gli inquirenti hanno sbagliato o mentito.
Pm: «Ha mai visto la mamma di Yara?»
Bossetti: «No, mai».
Pm: «Guardi che al gip disse una cosa diversa».
B.: «Allora me lo dica lei», ribatte il muratore ruminando l’immancabile chewing gum.
Pm: «Al gip, dopo l’arresto, disse che la vide uscire dal cimitero una volta».
B.: «Non è vero».
Pm: «Se non è vero allora perché lo ha dichiarato al gip? Ma cambiamo argomento: frequentava l’Eurospin di Brembate Sopra?».
B.: «A volte con mia moglie».
Pm: «Però la teste Azzolin Alma l’ha vista, da solo, a comprare birre e lamette da barba».
B.: «Non è vero».
Pm.: «L’ha vista anche nel parcheggio del cimitero con una ragazzina».
B.: «Mente».
Letizia Ruggeri cerca di disorientare Bossetti pescando qua e là fra le carte dell’inchiesta.
Pm: «Che rapporto ha con sua madre Arzuffi Ester?».
B.: «Bellissimo», dice lui, ma il pm è interessato a sapere di quel giorno (27.07.2012) in cui la donna venne chiamata in questura per il test del Dna: «Mia madre mi disse: chiameranno anche te - ricorda Bossetti - e io pensai: ben venga. Piuttosto: mi stupisco che voi non mi abbiate mai chiamato». Ruggeri glielo spiega: «Avevamo preso i nomi di chi agganciava la cella di Brembate dalle 18 in poi ed erano già 120 mila. Comunque saremmo arrivati presto a chiamare suo fratello Fabio che era nell’elenco».
B.: «E quelli col furgone banco?»
Pm.: «Li abbiamo chiamati tutti, signor Bossetti, ma quello con il Dna sugli slip della vittima è lei».
B.: «Ancora con questo Dna...»
Il confronto si sposta sulle ricerche a sfondo sessuale sui pc.
Pm: «Le ha fatte lei?».
B. :«No, mia moglie o noi due insieme».
Pm: «Anche quelle sulle ragazzine?»
B.: «Assolutamente no, non sono quel tipo di persona».
La battaglia arriva infine alla sera della scomparsa di Yara.
Pm: «Nelle intercettazioni dei colloqui in carcere lei ricorda che il suo telefonino era spento, poi ricorda di aver suonato il clacson per salutare un certo Massi, si ricorda che il mattino dopo montò 5 gazebo in cantiere, e non ricorda cosa fece quel venerdì sera, 26 novembre 2010?».
B.: «Un colpevole non dimentica, ma un innocente come può ricordare e fornire un alibi?»
Pm: «Certo, perché lei l’alibi non ce l’ha».
Mercoledì 16 marzo la continuazione dell’interrogatorio di Bossetti.
Caso Yara, Marita Comi: "Massi non c'entra, l'ho interrogato come un pm e so sempre se dice bugie". La moglie di Massimo Bossetti in aula: "Sono qui per dargli coraggio, le accuse ora appaiono meno solide", scrive Paolo Berizzi il 12 marzo 2016 su “La Repubblica”.
Come va? "Bene, abbastanza bene". Capelli sciolti, niente trucco, maglioncino nero e leggins beige. Marita Comi accenna un sorriso nel corridoio fuori dall'aula. Mezzogiorno: prima pausa dell'udienza. Dieci minuti per raccontarsi.
Perché è venuta in aula?
"Mi sembra una cosa normale, no? Non potrò esserci sempre, ma se ce la faccio, bambini permettendo, voglio venire. Sono le udienze più importanti del processo, c'è l'interrogatorio di Massi, voglio stargli vicino".
Gliel'ha chiesto suo marito di venire? O gli avvocati?
"No, perché? Sono sua moglie. E sono qui (seduta dietro ai legali della difesa, accanto al consulente Ezio Denti)".
Come ha trovato suo marito?
"Combattivo, sicuro di sé. Ma anche molto teso. Lui è così, è uno spontaneo, uno che non ha paura di dire la verità. Fino in fondo. È diretto. Dimostrerà la sua innocenza".
Quando è entrato in aula l'ha salutata: una stretta di mano...
"Sì, ci siamo salutati. Il clima e l'ambiente sono quelli che sono. Avevo paura, con la mia presenza, di agitarlo. Invece no: forse, anzi, l'ho incoraggiato. Sono qui per dargli forza. E perché possa venire fuori la verità su questa storia orribile".
Qual è la verità?
"Sono convinta che Massi sia innocente. Che non c'entri niente con la morte della povera Yara, ma non voglio dire di più, non sarebbe corretto, c'è un processo in corso".
Le sembra rassegnato suo marito?
"Per niente. Il contrario. Ha accettato di sottoporsi a un esame incrociato, cosa che tanti imputati accusati di un reato come questo non hanno fatto. Vuole spiegare tutto, rispondere punto su punto a ogni indizio a suo carico".
Come sta vivendo lei questi mesi di processo?
"Con grande ansia e preoccupazione. Ma quello che sta uscendo dalle udienze mi fa essere ottimista. Molte delle accuse contro mio marito si stanno rivelando meno solide di quanto sembravano all'inizio. Devo essere ottimista, per forza".
Continua, dunque, a credere all'innocenza di suo marito? Dai vostri colloqui in carcere sembrava che la sua fiducia vacillasse.
"Volevo capire, e per capire gli ho chiesto tutto quello che mi sembrava giusto chiedergli. Ha detto che sono stata più incalzante della pm. Io per prima volevo essere convinta della sua innocenza. Conosco troppo bene mio marito. Se racconta bugie me ne accorgo subito".
Come stanno i vostri figli?
"Abbastanza bene. Loro si distraggono, hanno la scuola, gli amici, le loro cose. In tutto questo tempo ho cercato di proteggerli. Spero di esserci riuscita".
E lei, come passa le sue giornate?
"Stando dietro ai bambini. Vorrei anche lavorare, ne abbiamo bisogno ma niente, impossibile... ".
Cioè?
"Ho mandato in giro curriculum, ho anche fatto colloqui. Ma è difficilissimo, nessuno pare disposto a offrirmi un lavoro. Dicono che non vogliono scocciature, giornalisti appostati davanti alla ditta. La risposta è sempre la stessa. È una conseguenza di tutta questa vicenda".
A fine udienza gli agenti della polizia penitenziaria permettono a Marita Comi di salutare il marito nel retro dell'aula dove si svolge il processo, lontano dagli occhi del pubblico e dei cronisti.
Che cosa vi siete detti?
"Ci siamo abbracciati. Gli ho detto di non mollare e che i bambini gli mandano un bacio".
Al processo contro Massimo Bossetti, il muratore di Mapello indagato per l'omicidio di Yara Gambirasio, è stata chiesta una superperizia sugli indumenti della 13enne di Brembate. E spunta inoltre un inquietante colpo di scena su un possibile fratellastro dell'uomo. Come sottolinea il settimanale "Oggi" il genetista che analizzò i capelli sugli abiti di Yara, Carlo Previderè, nella relazione consegnata alla Procura nel gennaio del 2015 non esclude l’ipotesi che Bossetti abbia un fratellastro. Il padre biologico del muratore Guerinoni avrebbe messo al mondo un secondo figlio illegittimo con un’altra donna diversa da Ester Arzuffi.
Intanto a proposito della querela contro Buzzi, qual è la verità comoda sulla sua archiviazione: tardività o mancata lesività alla reputazione di un omicida?
«Bossetti, denuncia tardiva». Archiviata. E mercoledì il muratore torna in aula. È stata archiviata la querela per diffamazione sporta da Massimo Bossetti contro il medico legale Fabio Buzzi che aveva parlato in televisione, scrive “L’Eco di Bergamo” il 15 marzo 2015. La querela è stata depositata fuori tempo massimo. È con questa motivazione, in particolare, che il gip Marina Cavalleri ha disposto l’archiviazione della denuncia per diffamazione presentata da Massimo Bossetti, il muratore a processo per l’omicidio di Yara, nei confronti del professor Fabio Buzzi. Il 27 giugno 2014 il professor Buzzi, nelle vesti di responsabile dell’Unità di Medicina legale e Scienze forensi dell’Università di Pavia, rilasciando un’intervista alla trasmissione «Segreti e delitti» su Canale 5, dichiarò che nei laboratori del suo dipartimento – incaricati di svolgere le analisi – erano stati trovati anche peli di «Ignoto 1» (quindi di Massimo Bossetti, secondo l’accusa) fra le circa 200 tracce pilifere repertate sul corpo di Yara e nelle vicinanze. Le dichiarazioni innescarono un putiferio perché sembrava che, stando alle parole di Buzzi, oltre al Dna sugli slip della vittima l’accusa potesse contare anche su quello delle tracce pilifere. La notizia però era falsa, evidentemente frutto di una clamorosa svista del professor Buzzi, che ritrattò la sera stessa, dicendo che le analisi erano ancora in corso. Gli inquirenti smentirono e intervenne persino il professor Carlo Previderè (il genetista che aveva ricevuto l’incarico dalla Procura), di fatto per contraddire il suo capo: non erano stati trovati (e non sono mai stati trovati) peli di Ignoto 1 sul corpo della vittima. Per quella vicenda Bossetti aveva comunque sporto querela tramite i suoi legali Claudio Salvagni e Paolo Camporini. Del fascicolo si è occupato il procuratore aggiunto di Bergamo, Massimo Meroni, che tuttavia ha concluso per una richiesta di archiviazione. Gli avvocati di Bossetti si sono opposti e la questione è finita perciò in udienza, giovedì scorso, davanti al gip Marina Cavalleri. Il giudice ha sciolto la riserva, disponendo l’archiviazione del procedimento per tardività della querela (come avevano fatto notare gli avvocati difensori di Buzzi, Angela Fortunati e Carlo Enrico Paliero), proposta circa 8 mesi dopo i fatti dalla difesa di Bossetti, anziché entro i tre mesi previsti. Va detto che i legali del muratore non si erano dimenticati: hanno proceduto solo quando entrati in possesso della perizia sulle tracce pilifere, per essere sicuri che le affermazioni di Buzzi effettivamente non corrispondessero al vero. Intanto, però, i termini per la querela erano scaduti. Nel frattempo si attende mercoledì 16 marzo per una nuova udienza del caso Bossetti: il carpentiere sarà in aula, interrogato dalla Corte dopo aver risposto alle domande del pm Letizia Ruggeri, dell’avvocato della famiglia Gambirasio e dei suoi legali. «Ne abbiamo viste di tutti i colori in quest’aula», ha accusato il muratore di Mapello, quando si è parlato dei filmati che per gli inquirenti ritraggono il suo autocarro mentre gira attorno alla palestra: «Quel video lo avete montato voi per i media: non è il mio camioncino» ha detto Bossetti. Interviene la presidente della Corte, Antonella Bertoja: «Noi abbiamo le registrazioni, valuteremo con quelle: lei ci spiegherà nei dettagli perché non lo ritiene il suo». Bossetti lo farà proprio mercoledì.
Il genetista non diffamò Bossetti: procedimento archiviato. Il gip ha archiviato il procedimento che vedeva il muratore di Mapello parte offesa di diffamazione da parte del professor Fabio Buzzi, scrive invece Michele Andreucci su “Il Giorno” il 14 marzo 2016. In attesa di terminare, mercoledì mattina, il suo interrogatorio nel processo che lo vede imputato dell'omicidio di Yara Gambirasio, Massimo Bossetti incassa una prima sconfitta. Il gip Marina Cavalleri, accogliendo la richiesta del procuratore aggiunto di Bergamo Massimo Meroni, ha infatti archiviato il procedimento che vedeva il muratore di Mapello parte offesa di diffamazione da parte del professor Fabio Buzzi, responsabile dell'unità operativa di Medicina Legale e Scienze forensi dell'Università di Pavia. I legali di Bossetti, gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, si erano opposti nel corso dell'udienza del 10 marzo e il giudice si era riservato. Questa mattina è arrivata la decisione che dà torto al carpentiere bergamasco. Tutto nasce il 27 giugno 2014 quando Buzzi, rilasciando un'intervista alla trasmissione "Segreti e Delitti" su Canale 5, dichiara che nei laboratori del suo dipartimento - incaricati di svolgere le analisi - erano stati trovati anche peli di "Ignoto 1" (quindi di Massimo Bossetti, secondo l'accusa) fra le circa 200 tracce pilifere trovate sul corpo di Yara. Peccato che la notizia è totalmente falsa. Lo stesso Buzzi ritratta la sera stessa, affermando che le analisi sono ancora in corso. Gli inquirenti smentiscono: non erano stati trovati (e non sono mai stati trovati) peli di "Ignoto1" sul corpo della vittima. Per la vicenda Bossetti sporge querela, ma il procuratore aggiunto Massimo Meroni conclude per una richiesta di archiviazione. Secondo il magistrato, in sostanza, sarebbe difficile sostenere che Bossetti abbia percepito come lesa la sua reputazione per le affermazioni di Buzzi, ancorchè non veritiere, dato che si trovava già in carcere per omicidio. Inoltre, sebbene frutto di leggerezza, le parole di Buzzi sarebbero riconducibili ad un mero errore, privo di dolo (aveva anche rettificato), quindi senza intento diffamatorio. Di tutt'altro avviso la difesa di Bossetti, che aveva chiesto al gip di disporre nuove indagini: l'acquisizione integrale della video intervista e la convocazione come testimone dell'autore, il giornalista Giorgio Sturlese Tosi, nonchè del professor Carlo Previderè, il genetista che effettivamente aveva ricevuto l'incarico di consulenza dalla Procura e che aveva smentito qualsiasi compatibilità di profili genetici. La difesa di Buzzi, retta dagli avvocati Carlo Enrico Paliero e Angela Fortunati, concordando con le tesi del pm, aveva ricordato che il prof rettificò e aveva sottolineato una presunta tardività della querela presentata dal muratore di Mapello.
16 marzo 2016. Bossetti, oggi nuova udienza chiave. Risponderà alle domande della Corte. Caso Yara, mercoledì 16 marzo si torna in aula per il processo a carico di Massimo Bossetti. Questa volta l’imputato sarà sentito dalla Corte che lo deve giudicare, scrive “L’Eco di Bergamo”. Le domande non sono finite per Massimo Bossetti e quelle in programma per lui questa mattina sono le più importanti: verranno infatti dalla Corte che lo deve giudicare, presieduta dal giudice Antonella Bertoja (a latere Ilaria Sanesi e sei giudici popolari). Le domande verranno formulate dalla presidente, ma potranno provenire da chiunque fra i giurati, quindi anche dai giudici popolari: anche per questo l’udienza di oggi comincerà leggermente in ritardo (verso le 10), per consentire alla Corte un ultimo confronto interno. Per una volta le domande saranno quasi più interessanti delle risposte, perché potranno lasciar trasparire, se non un orientamento della Corte, quantomeno un suo specifico interesse ad approfondire questo o quell’aspetto dell’istruttoria. Sarà la terza udienza dedicata all’esame dell’imputato, accusato dell’omicidio di Yara. È prevedibile tuttavia che le domande della Corte copriranno solo una parte del tempo a disposizione. Perciò, a seguire, inizieranno a essere sentiti i testimoni citati dalla difesa di Bossetti. Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, in sede di ammissione delle prove, avevano presentato una lista mastodontica di testimoni a difesa (700 nomi) ma appare scontato che l’elenco verrà sfrondato, sulla base del criterio della rilevanza e in base all’istruttoria già compiuta nelle precedenti udienze. Fra le persone che dovrebbero comparire oggi in aula figura Dominic Salsarola, archeologo forense che si occupò, in équipe con la professoressa Cristina Cattaneo, delle operazioni di recupero della salma di Yara sul campo di Chignolo d’Isola e dei prelievi di terreno necessari per le analisi di laboratorio. Salsarola è un nome assai noto nel settore: già in campo nel caso delle Bestie di Satana, è stato recentemente incaricato anche nelle ricerche dell’arma del delitto di Lidia Macchi, a Varese. Dovrebbe testimoniare anche Vincenzo Scavongelli, di Rosignano (Livorno) uno dei conduttori dei cani “Human Blood detection dog” che vennero impiegati nelle ricerche di Yara.Così come dovrebbe testimoniare anche Giovanni Terzi, che aveva fornito uno dei computer alla famiglia Bossetti, e Vincenzo Coppola, produttore di tessuti che vengono montati anche sui sedili degli autocarri Iveco (Bossetti utilizzava un Iveco Daily). Ci sarà anche un minorenne: all’epoca dei fatti aveva 12 anni e frequentava il centro sportivo. Disse alla polizia di aver visto una ragazzina fuori dal centro sportivo, con un disegno di Hello Kitty sul giubbotto, la sera della scomparsa di Yara. Dettagli e orari non combaciavano, quindi la sua testimonianza, dopo essere stata vagliata dagli inquirenti, venne accantonata.
Bossetti: ecco perchè il furgone non è mio. Marita porta in aula gli album di figurine. Solo una domanda per Massimo Bossetti dalla Corte: si parla del famoso furgone bianco. E il muratore ribadisce: non è mio, scrive “L’Eco di Bergamo”. Dopo essersi riunita per decidere le domande da fare al muratore di Mapello, accusato della morte di Yara Gambirasio, la Corte ha deciso di porre una sola domanda al muratore. «Lei dice che esclude che il furgone sia suo sulla base della consulenza e della sua visione?». Al centro quindi il furgone con cui Massimo Bossetti andava al lavoro, al centro da sempre della tesi dell’accusa. «Dalla mia visione» risponde Massimo Bossetti, che aggiunge: «avrei preferito mostrarvi i motivi delle mie dichiarazioni attraverso i filmati». A Bossetti è stato invece fornito un album con le foto dei fotogrammi del furgone: tre i motivi e le differenze principali evidenziate dal muratore. «Il cavalletto dietro la cabina in queste foto è molto alto, il mio è più basso - ha spiegato in aula -; la cassetta sul cassone è doppia con due manici mentre la mai ne ha solo uno. Infine i ganci basculanti per ribaltare il cassone sono diversi dal mio». Subito la contestazione del pm Letizia Ruggeri che non ha condiviso le risposte del muratore, con un acceso dialogo tra i due, ma con Massimo Bossetti fermo sulle sue posizioni.
Il camioncino ripreso dalle telecamere di sorveglianza di Brembate di Sopra (Bergamo) la sera del 26 novembre 2010 quando è scomparsa Yara Gambirasio "è simile al mio, ma non è il mio", scrive “La Presse”. Lo ha detto Massimo Bossetti, rispondendo all'unica domanda dei giudici della Corte d'Assise di Bergamo. I giudici gli hanno chiesto quali elementi l'hanno portato ad escludere a colpi d'occhio che il camioncino Iveco dei filmati fosse il suo. Bossetti, analizzando alcune immagini tratte da quei video, ha spiegato che "in quell'autocarro il cavalletto" posto a protezione della cabina "è più alto rispetto al mio" perché "il mio resta massimo 2, 3 o 4 centimetri più alto rispetto alla cabina". Bossetti ha spiegato che il cavalletto posto a protezione della cabina del suo autocarro era stato montato male e che gli stessi rivenditori gli avevano fatto notare questo difetto. "L'autocarro nelle immagini invece - ha spiegato - monta un cavalletto adatto" alle attività che deve svolgere, installato dunque correttamente per evitare che i carichi pesino sulla cabina di guida. Bossetti ha anche fatto notare che il veicolo nelle immagini "ha installata una cassetta doppia rispetto alla mia. Il mio ha solo una maniglia di apertura ma questo ne ha due". La moglie di Massimo Bossetti, il muratore di Mapello a processo per la morte di Yara Gambirasio, ha portato in aula una decina di raccolte di figurine, due scatole di latta contenenti alcune card e altre raccolte tenute assieme da elastici. Bossetti, su invito dei suoi difensori, ha esaminato le figurine e ha detto che sono quelle che "era solito acquistare" ogni sera prima di fare rientro a casa in diverse edicole nella zona di Brembate di Sopra, tra cui il chiosco dei giornali proprio di fronte alla palestra. "Non tutte sono disponibili in edicola - ha aggiunto - e avevo lasciato il mio numero agli edicolanti, in modo tale che quando arrivavano alcune serie mi chiamassero perché io dovevo completare tutte le raccolte". In aula tre rivenditori, titolari dei chioschi dove Bossetti ha detto che era solito fermarsi, hanno detto che il carpentiere non era un cliente abituale e lui si è difeso dicendo che quei testimoni hanno mentito.
Dopo la Corte, l’avvocato Paolo Camporini (assente Claudio Salvagni) ha preso parola, mostrando in aula gli album di figurine che Marita Comi ha portato in Tribunale a dimostrazione delle parole di Massimo Bossetti: «Sono questi gli album e le figurine che dice di aver comprato?», scrive “L’Eco di Bergamo”. «Sì - risponde Bossetti -, ma sono anche molti di più. Addirittura l’edicolante aveva il mio cellulare e mi chiamava quando arrivavano le serie mancanti». Da qui la richiesta della difesa di acquisire i tabulati dei telefoni degli edicolanti citati da Massimo Bossetti. Più volte Bossetti ha infatti raccontato d’essere solito acquistare tutte le sere le figurine per i suoi bambini, mentre tornava dal lavoro. Si tratta di 10 album, e alcune raccolte che il carpentiere di Mapello ha riconosciuto. Nelle scorse udienze, tre edicolanti in aula avevano sostenuto di non riconoscere Bossetti come cliente abituale. Quando era stato sottolineato come gli edicolanti non l’avessero riconosciuto come abituale frequentatore, Bossetti aveva affermato: «Mentono». Termina così l’interrogatorio di Massimo Bossetti, durato tre udienze. La difesa ha poi chiamato a rispondere alle domande Giovanni Ruggeri, 17 anni, accompagnato dai genitori in aula. All’epoca dei fatti il ragazzo aveva 11 anni e aveva raccontato di aver visto fuori dal centro sportivo di Brembate, «qualche settimana dopo la scomparsa di Yara», un furgone bianco, ma un modello chiuso, con fuori una ragazza e tre uomini. Ruggeri frequentava il centro per gli allenamenti di nuoto e ai tempi dei fatti aveva specificato e descritto quanto aveva visto, sottolineano che la ragazza era «vestita di nero, con i capelli raccolti e un giubbino che sulla schiena aveva stampata l’immagine di Hello Kitty». Interrogato ora, il giovane non ricorda più questi dettagli.
Il tecnico informatico: Bossetti inesperto. «Avvisai Marita di chiudere il profilo Fb». Ascoltato anche Giovanni Terzi, il tecnico informatico che si è occupato di installare il pc della famiglia Bossetti, scrive “L’Eco di Bergamo”. Giovanni Terzi, 45 anni di Mapello, conosce dal 2001 la famiglia di Massimo Bossetti e in particolare Marita Comi che ha lavorato in una delle aziende della famiglia di Terzi. In aula è arrivato anche l’avvocato di Bossetti Claudio Salvagni, che ha interrogato il tecnico informatico: «Mi sono occupato io di installare l’Acer della famiglia Bossetti e confermo: Massimo Bossetti non è esperto di computer e sono stato io a installare l’anti-virus e il programma di cancellazione dei file temporanei». Il tecnico ha raccontato che spesso veniva contattato perchè la famiglia aveva difficoltà a usare il pc, «in particolare quando dovevano collegarsi ai registri elettronici». E ha sottolineato: «Non mi hanno mai chiesto informazioni sulla navigazione e su come si formatta un pc». Terzi sottolinea che è stato lui, dopo l’arresto di Massimo Bossetti, a mandare un sms a Marita dicendole di chiudere il profilo Facebook del marito, dove erano raccolte foto dell’uomo, già salvate e utilizzate dai media nazionali.
Bossetti, la difesa chiede i filmati. E tira in ballo altri due giovani morti. Il processo Bossetti continua a Bergamo con nuovi colpi di scena. La difesa ha iniziato a interrogare i suoi testimoni e nel primo pomeriggio sono stati sentite altre tre persone, scrive “L’Eco di Bergamo”. Tra i testimoni anche Mauro Rota, papà di una ragazza che frequentava il centro sportivo di Brembate e che conosceva Yara Gambirasio. L’uomo ha ricordato un episodio avvenuto il martedì precedente la scomparsa della ragazzina, con due uomini fermi nel parcheggio del centro sportivo che lo avevano compito e «lo fissavano». A seguire è stato il turno di Dominic Salsarola, archeologo forense che si occupò, in équipe con la professoressa Cristina Cattaneo, delle operazioni di recupero della salma di Yara sul campo di Chignolo d’Isola e dei prelievi di terreno necessari per le analisi di laboratorio. L’archeologo si era occupato anche delle ricerche sul cantiere, dopo quelle dei cani molecolari, ricerche sospese quando fu ritrovato il cadavere della ragazza nel campo. Dalla difesa però c’è l’intenzione di allargare il campo delle indagini e tornare anche sul cantiere, così come richiesta dei legali di Massimo Bossetti di acquisire i filmati delle riprese video effettuate dalle telecamere di un’azienda di via Bedeschi: materiale video dal giorno della scomparsa di Yara al giorno del ritrovamento del corpo che la difesa non avrebbe mai visionato. Una richiesta che il pm contesta e giudica tardiva. Ma il colpo di scena arriva a fine udienza quando ancora i legali della difesa chiedono alla Corte di acquisire i fascicoli degli atti relativi all’omicidio di Eddy Castillo (ucciso vicino al campo di Chignolo quaranta giorni prima del ritrovamento di Yara) e del decesso di Sarbjit Kaur, ventunenne indiana trovata priva di vita nel fiume Serio a Cologno un mese dopo la scomparsa della tredicenne di Brembate Sopra: il caso era stato archiviato come suicidio. Una richiesta, tra l’altro, che la difesa aveva già fatto alla Corte e che era stata rigettata perchè non attinente al caso. Con Camporini che in aula però sottolinea: «Le lesioni sul corpo della giovane indiana sono simili a quelle sul corpo di Yara». Ha detto Camporini, "sembra disperso". "Per noi è importantissimo dal punto di vista medico-legale - ha spiegato l'avvocato - perché le lesioni ritrovate su Yara sono sorprendentemente simili a quelle ritrovate sulla donna". Contraria alle richieste della difesa il pubblico ministero Letizia Ruggeri, che ne ha chiesto il rigetto perché "intempestive ed eccessive". Ruggeri ha ricordato che alle richieste formulate "è stato già detto di no" perché "non pertinenti e non rilevanti". Il caso del suicidio, ha aggiunto, "non ha nessuna pertinenza con questo". Sulle richieste del collegio di difesa di Bossetti la Corte si è riservata di decidere. Ora la prossima udienza è in programma per venerdì mattina: si proseguirà con i testimoni portati dalla difesa di Massimo Bossetti.
Dalla Corte solo una domanda all'imputato riguardo il furgone. Oggi sono sentiti alcuni testimoni citati dalla difesa del muratore di Mapello, scrive Gabriele Moroni su "Il Giorno" il 16 marzo 2016. Nuova udienza del processo a carico di Massimo Bossetti, accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio. Questa volta l’imputato è stato sentito dalla Corte, presieduta dal giudice Antonella Bertoja (a latere Ilaria Sanesi e sei giudici popolari), che lo deve giudicare. Poi, è stato il turno di alcuni testimoni della difesa del muratore. Infine, i legali della difesa hanno rinnovato la richiesta di "produzione e messa a disposizione" di tutti i filmati delle telecamere di sorveglianza della ditta Clamar di Chignolo d'Isola, che si trovano in un punto prospiciente al campo dove è stato ritrovato il cadavere della 13enne di Brembate Sopra. I due legali hanno anche ribadito la richiesta di acquisizione degli atti relativi ad un fascicolo riguardante l'omicidio di Eddy Castillo (ucciso vicino al campo di Chignolo quaranta giorni prima del ritrovamento di Yara) e a un caso archiviato come suicidio di una donna che, ha detto Camporini, "sembra disperso". "Per noi è importantissimo dal punto di vista medico-legale - ha spiegato l'avvocato - perché le lesioni ritrovate su Yara sono sorprendentemente simili a quelle ritrovate sulla donna". Contraria alle richieste della difesa il pubblico ministero Letizia Ruggeri, che ne ha chiesto il rigetto perché "intempestive ed eccessive". Ruggeri ha ricordato che alle richieste formulate "è stato già detto di no" perché "non pertinenti e non rilevanti". Sulle richieste del collegio di difesa di Bossetti la Corte si è riservata di decidere. La prossima udienza è in programma per venerdì mattina: si proseguirà con i testimoni portati dalla difesa di Massimo Bossetti. La difesa ha iniziato a interrogare i suoi testimoni e nel primo pomeriggio sono stati sentite altre tre persone. Tra queste anche Mauro Rota, papà di una ragazza che frequentava il centro sportivo di Brembate e che conosceva Yara. L’uomo ha ricordato un episodio avvenuto il martedì precedente la scomparsa della ragazzina, con due uomini fermi nel parcheggio del centro sportivo che "lo fissavano". A seguire è stato il turno di Dominic Salsarola, archeologo forense che si occupò, insieme alla professoressa Cristina Cattaneo, delle operazioni di recupero della salma di Yara sul campo di Chignolo d’Isola e dei prelievi di terreno necessari per le analisi di laboratorio. L’archeologo si era occupato anche delle ricerche sul cantiere, dopo quelle dei cani molecolari, ricerche sospese quando fu ritrovato il cadavere della ragazza nel campo. Salsarola è un molto conosciuto nel settore: già in campo nel caso delle Bestie di Satana, è stato recentemente incaricato anche nelle ricerche dell’arma del delitto di Lidia Macchi, a Varese. In mattinata, terminato l'interrogatori di Bossetti, sono stati sentite altre persone. Primo tra tutti, un ragazzo minorenne, G.R., 17 anni, accompagnato dai genitori in aula. All’epoca dei fatti il ragazzo aveva 11 anni e aveva raccontato di aver visto fuori dal centro sportivo di Brembate, "qualche settimana dopo la scomparsa di Yara", un furgone bianco, ma un modello chiuso, con fuori "una ragazza e tre uomini". Il giovane frequentava il centro per gli allenamenti di nuoto e ai tempi dei fatti aveva detto di aver visto una ragazza "vestita di nero, con i capelli raccolti e un giubbino che aveva stampata l’immagine di Hello Kitty". Poi, è stato il turno di Giovanni Terzi, che aveva fornito uno dei computer alla famiglia Bossetti. L'uomo racconta di aver venduto e installato il computer fisso in casa Bossetti e un pc portatile". Alla domanda sulle conoscenze e abilità di Bossetti con i computer, Terzi ha risposto: "Non ho mai operato in sua presenza, ma a volte parlando mi diceva di rivolgermi a Marita perchè lui non capisce nulla in materia". Dopo essersi riunita per decidere le domande, la Corte posto solo una domanda al muratore. "Lei dice che esclude che il furgone sia suo sulla base della consulenza e della sua visione?". "Dalla mia visione" ha risposto Massimo Bossetti. Questo sulla scorta di differenze "morfologiche" tra il suo mezzo e quello ripreso. Il muratore, guardando le fotografie e la comparazione tra i mezzi fatta dagli investigatori, ha sottolineato che "sulla base della mia visione" il cavalletto posteriore posto a protezione della cabina del suo Fiat Daily è "più basso" di quello del furgone ripreso. Altro particolare, a suo dire, è il fatto che una cassetta posta in basso a sinistra nel cassone differisce da quella del suo perché "è doppia". E ancora: "Avrei preferito mostrarvi i motivi delle mie dichiarazioni attraverso i filmati". A Bossetti è stato invece fornito un album con le foto dei fotogrammi del furgone: tre i motivi e le differenze principali evidenziate dal muratore. Immediata la contestazione del pm Letizia Ruggeri che non ha condiviso le risposte. Dopo la Corte, l’avvocato Paolo Camporini, assente Claudio Salvagni, ha preso parola, mostrando in aula dieci album di figurine (una decina e alcuen figurine legate con un elastico) che Marita Comi ha portato in Tribunale a dimostrazione delle parole di Massimo Bossetti: "Sono questi gli album e le figurine che dice di aver comprato?". "Sì - risponde Bossetti -, ma sono anche molti di più. Addirittura l’edicolante aveva il mio cellulare e mi chiamava quando arrivavano le serie mancanti". Da qui la richiesta della difesa di acquisire i tabulati dei telefoni degli edicolanti citati da Massimo Bossetti. Nelle scorse udienze, tre edicolanti in aula avevano sostenuto di non riconoscere Bossetti come cliente abituale. Quando era stato sottolineato come gli edicolanti non l’avessero riconosciuto come abituale frequentatore, Bossetti aveva affermato: "Mentono". Terminato l'interrogatori di Bossetti, vengono sentiti i testimoni della difesa del muratore. Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini avevano presentato una lista di circa 700 nomi. Il primo a rispondere alle domande della difesa è un ragazzo minorenne, G.R., 17 anni, accompagnato dai genitori in aula. All’epoca dei fatti il ragazzo aveva 11 anni e aveva raccontato di aver visto fuori dal centro sportivo di Brembate, "qualche settimana dopo la scomparsa di Yara", un furgone bianco, ma un modello chiuso, con fuori "una ragazza e tre uomini". Il giovane frequentava il centro per gli allenamenti di nuoto e ai tempi dei fatti aveva detto di aver visto una ragazza "vestita di nero, con i capelli raccolti e un giubbino che aveva stampata l’immagine di Hello Kitty". Poi, è stato il turno di Giovanni Terzi, che aveva fornito uno dei computer alla famiglia Bossetti. L'uomo racconta di aver Venduto e installato il computer fisso in casa Bossetti e un pc portatile". Alla domanda sulle conoscenze e abilità di Bossetti con i computer, Terzi ha risposto: "Non ho mai operato in sua presenza, ma a volte parlando mi diceva di rivolgermi a Marita perchè lui non capisce nulla in materia". Più tardi dovrebbe testimoniare Dominic Salsarola, archeologo forense che si occupò, insieme alla professoressa Cristina Cattaneo, delle operazioni di recupero della salma di Yara sul campo di Chignolo d’Isola e dei prelievi di terreno necessari per le analisi di laboratorio. Salsarola è un molto conosciuto nel settore: già in campo nel caso delle Bestie di Satana, è stato recentemente incaricato anche nelle ricerche dell’arma del delitto di Lidia Macchi, a Varese. In aula anche Vincenzo Scavongelli, di Rosignano, nel Livornese, uno dei conduttori dei cani “Human Blood detection dog” che vennero impiegati nelle ricerche di Yara. E Vincenzo Coppola, produttore di tessuti che vengono montati anche sui sedili degli autocarri Iveco.
Intanto…Il grande accusatore? Condannato. Ora Bossetti spera: l'ultima svolta, scrive “Libero Quotidiano” il 16 marzo 2016. Era uno dei grandi accusatori di Massimo Bossetti e aveva riferito agli inquirenti di presunte rivelazioni raccolte in carcere sulla morte di Yara Gambirasio: secondo la sua testimonianza, Bossetti, in cella, avrebbe confessato l'omicidio della ragazzina di Brembate di Sopra. Ma ora Loredano Busatta è stato condannato a scontare 9 anni e 4 mesi di carcere per una serie di rapine commesse assieme ad altri uomini (anche loro in carcere con condanne che vanno dai 4 ai 12 anni per un totale di 46). La banda colpiva nel bresciano, nella bergamasca e nel mantovano: negli ultimi anni avevano svaligiato diversi supermercati.
L’affaire Bossetti: senza un Emile Zola... ma con gli zelanti valletti mediatici a servizio del Potere, scrive Gilberto Migliorini su "Albatros Volando Controvento”. Oggi (mercoledì 16) Massimo Bossetti sarà interrogato dalla dottoressa Bertoja e dovrà convincerla coi fatti che chi lo accusa di omicidio in questi mesi nella sua aula ha portato solo menzogne. Il giudice continuerà il dialogo interrotto venerdì scorso, molto interessato a capire se quel 26 novembre 2010 il suo furgone transitò accanto alla palestra oppure no. Per non sbagliare nulla potrebbe chiedere anche l'ausilio del filmato registrato dalle videocamere della ditta Polynt, quello portato ai carabinieri ben tre mesi dopo la scomparsa di Yara. Insomma, sembra che il giudice voglia oltrepassare le apparenze ed ingegnarsi per entrare all'interno della vera storia. Sembra, e speriamo che sia davvero diverso dalla massa di ignavi che si bevono tutto. Da loro non c’è verso di pretendere che si ingegnino a capire oltre le apparenze... si farebbero ‘vendere’ la fontana di Trevi da Totò, chiaramente pagando la caparra in contanti e convinti di essere astuti acquirenti e aver fatto l’affare del secolo. Ormai gli italioti sono libri aperti scritti con parole identiche dalla lunga mano che ha messo in atto l’esperimento Bossetti, forse il più importante del dopoguerra, per testare la tenuta del ‘sistema’ attraverso una simulazione mediologica per verificare fino a che punto ci si può spingere in una messinscena di psicologia sociale e in un infingimento da cold case. Il muratore di Mapello è solo il pretesto per un test con un formidabile apparato di misurazione dell’efficienza dei sistemi di persuasione: il gruppo di controllo in uno screening di massa dove migliaia di prelievi salivari non sono niente rispetto ai milioni di utenti televisivi che sono il vero gruppo sperimentale con lo share e tutto il sistema quotidiano di rilevazione in tempo reale. La tecnologia mediatica ha alzato l'asticella e portato l'omicidio di una tredicenne a divenire format di riferimento, cartina al tornasole dove conformità e rispondenza agli standard emozionali rappresentano l’abito mentale di un’intera nazione. Il caso è lampante di come sia facile, perfino irrisorio, costruire scenografie e indurre comportamenti in un’opinione pubblica irreggimentata secondo il modello delle carte fedeltà. Da anni i comunicatori di massa, soprattutto con il piccolo schermo, sono riusciti a implementare quella forma mentis in una platea mediatica disarmata per strumenti culturali e disarmante per l’ingenua disponibilità a ingurgitare qualsiasi cosa. Sulla base degli input appropriati il target nazionale ‘sa’ ormai dare le risposte volute, sa assumere atteggiamenti ortodossi e manifestare il consenso nelle sue varie forme: politico, ideologico e di consumo. Nel caso in parola si tratta di una colossale simulazione per misurare la capacità del sistema di indottrinare le coscienze e persuadere l’audience. Una suggestiva telenovela a puntate si sviluppa nel corpo stesso di un paese trasformato in un’Isola dei famosi dal vivo, un Truman Show nel quotidiano mestiere di vivere, una sorta di videogioco e incarnazione dell’inconscio collettivo. Dai castelli di sabbia alla navigazione on-line, dai camioncini tarocchi a un Dna alieno, dalle prove di paternità fantasma al fantomatico tentativo di fuga dall'alto di una impalcatura… si crea pressoché dal nulla (o sarebbe meglio dire da una regia di sistema) un affaire che ha tutti i caratteri di uno spot colossale e le credenziali di un esperimento di ingegneria sociale nelle viscere di un Paese macellato, fatto a pezzi, disossato ed esposto in vetrina con tanto di frattaglie e cotechini. Meglio sputare addosso all'assassino di turno che al governo...Indizi inconsistenti e farlocchi fanno presa su un pubblico da decenni addestrato ai programmi spazzatura, al pettegolezzo e ai beceri luoghi comuni, a promuovere l’insipienza e la superficialità, ad agire sulla base di impulsi momentanei. È l’addestramento sistematico a dare risposte emotive. Una nazione in balia dei poteri che controllano i canali informativi e i comportamenti dell’utente, l’animo di un popolo confinato dentro un chip, scomposto in file e directory, immagine di sintesi e ologramma, un Paese senza più identità. L’italiano è il protagonista del reality. Il povero Bossetti è solo la controfigura, suo malgrado, alter ego e avatar col quale sviluppare una sceneggiata... Il sistema mediatico è ormai in grado di formattare le menti e programmare l’utenza con gli algoritmi del conformismo e del disimpegno, in grado di costruire un pantheon di santi e beati e di condannare al rogo quelli idonei a far da capro espiatorio o da cavia sperimentale. Contraddizioni, omissioni e incongruenze non rappresentano ostacolo o défaillance per un’opinione pubblica assuefatta e condizionata al marketing di sistema. I principi sono quelli classici della psicologia sociale: fanno credere all'italiano che le conclusioni a cui giunge sono farina del suo sacco e non suggestioni subliminali e pseudorazionali delle agenzie del minculpop. La formula è quella dei ‘suggerimenti per gli acquisti’, un sistematico lavaggio cerebrale spacciato per rispettosa autonomia del target. La propaganda non ha la faccia del Grande Fratello, è quella anonima e insignificante del mezzobusto, dell’opinionista televisivo dai toni garbati e accattivanti, dello ‘scienziato’ che propina verità in pillole e dell’intellettuale che fa da sponsor alle voci che corrono. Un consumatore che trova conferma nel suo delirio di onnipotenza persuaso che è lui il sovrano dell’etere. I canali sono quelli di tutto il sistema mediatico, con opinionisti di rango e intellettuali di grido. Per misurare lo share e le dissonanze cognitive un cold case è meglio perfino di un festival della canzone. Il caso Bossetti rappresenta l’emblema di un Paese in balia del marketing ideologico, un sistema organizzato secondo l’indottrinamento e la persuasione. L’affaire di un muratore incensurato che abita nelle vicinanze del luogo di un delitto è la radiografia del sistema dell’agenda setting e del gatekeeping, che inventa la notizia come profezia che si autoadempie. La creazione dal nulla è l’evento per antonomasia dei new media che sono in grado di trasformare in link anche il rumore di fondo. È sufficiente creare il grassetto, dare tono e buttar lì con nonchalance il riferimento allusivo, un italic bold appena in rilievo, quasi un intercalare casuale… e l’utente può immaginare che sia davvero lui a cavar fuori la notizia dal vuoto pneumatico. Nella fenomenologia del consenso non può mancare la figura emblematica dell’intellettuale organico, promotore e sponsor del potere. Il caso italiano mostra la singolarità di un Bel Paese dove i privilegi di casta hanno la loro ragion d’essere in un sistema feudale di rapporti vassallatico-beneficiari dove la testa d’uovo ha un posto di rilievo come persuasore baciato dalla buona sorte, in posizione di vantaggi e prerogative, di prebende e di benefit. Il maître à penser, osannato e riverito quando acquista fama e gloria, è poi il classico supporter del Potere nelle forme sacrali della cultura e della scienza. Circonfuso di sapere epistemico, con l’aureola del cherubino e in odore di santità, magari eletto tra i beati nel trapasso, è il classico opportunista che tira a campare per mantenere i privilegi e la nobiltà da camaleonte del sistema mediatico di cui è fedele e incondizionato servitore anche quando, in una apparenza scanzonata, si fa critico e proverbiale censore. Non sembra esserci nel Bel paese un Emile Zola col coraggio di andar controcorrente rischiando di perdere i privilegi di casta: piaggeria e servilismo, stereotipi e luoghi comuni sembrano prerogativa di tanta intellighenzia nostrana. L’intellettuale italiano non ha la stoffa né il coraggio di rischiare di alienarsi simpatie, sostegni e vantaggi. Le battaglie di principio e le idealità non appartengono a una cultura del trasformismo opportunista...
Processo a Bossetti, la nuova testimonianza shock insinua il sospetto: hanno spostato il cadavere di Yara? Scrive Giangavino Sulas su “Oggi” il 16 marzo 2016. Nuova, incredibile testimonianza al processo per la morte della ragazzina di Brembate. Che getta una nuova ombra sulle indagini. E sulle accuse al muratore di Mapello. Una nuova testimonianza choc scombina ancora una volta le carte nel processo contro Massimo Bossetti, imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio. Parole sconvolgenti quelle pronunciate in aula. Che lasciano intuire un nuovo, terribile sospetto. Che il cadavere di Yara sia stato spostato, il giorno prima del suo ritrovamento nel campo di Chignolo d’Isola. Il 25 febbraio 2011, poche ore prima che Yara venisse ritrovata nel campo di Chignolo d’Isola, la Procura di Bergamo cercava ancora il suo corpo nel famoso cantiere di Mapello, dove stava sorgendo un grande centro commerciale. Lo stesso cantiere dove tre mesi prima gli inquirenti erano stati condotti, seguendo le tracce odorifere di Yara, da ben tre cani molecolari, usati separatamente. E dove la sera in cui scomparve Yara (26 novembre 2010) lavoravano solo il custode, Mohamed Fikri e Giuseppe Benozzo, impegnati nella gettata dei pavimenti. Fikri è il marocchino arrestato su un traghetto diretto in Marocco e poi scagionato dal Gip su richiesta del Pm, mentre Benozzo è comparso nella vicenda solo come testimone. Anche l’ipotesi del cantiere di Mapello era già stata scartata dal magistrato inquirente perché, disse: “I cani possono aver sbagliato”. E invece oggi, durante la 34° udienza del processo contro Massimo Giuseppe Bossetti, Dominic Salsarola, un archeologo del pool del medico legale Cristina Cattaneo, specializzato nelle tecniche di scavo e nella topografia per la posizione dei corpi, citato come testimone, ha rivelato in aula che ancora il 25 febbraio, il giorno prima del ritrovamento di Yara a Chignolo, aveva fatto un sopralluogo nel cantiere di Mappello, su incarico dello stesso Pm Letizia Ruggeri, alla ricerca proprio del cadavere di Yara. Salsarola notò subito, durante questo sopralluogo, che nel cantiere erano nel stati aggiunti «elementi costruttivi» (nuovi fabbricati) dei quali ipotizzò subito la demolizione per poter fare ricerche più approfondite. Il giorno dopo l’incarico gli fu revocato perché, nel primo pomeriggio, il corpo di Yara fu ritrovato nel campo di Chignolo. Solo un caso? Ricordiamo che quel campo di Chignolo fu sorvolato per tre mesi dagli elicotteri della Protezione civile, dei carabinieri e della polizia, oltrechè dal comandante Iro Rovedatti, del Volo a vela di Valbrembo, che non notarono mai nulla. “Se ci fosse stato lo avrei notato durante i miei voli”, disse a Oggi Iro Rovedatti. La testimonianza dell’archeologo Dominic Salsarola ha subito fatto sorgere un sospetto: Yara per tre mesi è stata tenuta nascosta all’interno del grande cantiere e, appena si prospettò l’ipotesi di alcune demolizioni, nella notte fra il 25 e il 26 febbraio 2011, fu portata via e abbandonata nel campo incolto più vicino. Ma l’udienza ha riservato anche un’altra clamorosa sorpresa. Prima della testimonianza dell’archeologo, ha deposto in aula Giovanni R., un ragazzo di 17 anni, appassionato di ciclismo e nuoto. Si allenava nel Centro sportivo di Brembate. Pochi giorni dopo la scomparsa di Yara, si ricordò (e lo raccontò ai genitori) che la sera del 26 novembre 2010 (era sicuramente un venerdì, giorno di allenamenti), mentre aspettava che i genitori lo venissero a prendere, nel parcheggio del Centro sportivo notò un furgone bianco chiuso, con portellone scorrevole laterale, e tre uomini che parlavano con una ragazza. Non la riconobbe perché gli dava le spalle, ma notò che aveva i capelli raccolti sulla nuca a “cucù”, termine dialettale per indicare lo chignon. A differenza di quanto si vede nella FOTO ESCLUSIVA pubblicata da Oggi in edicola. Dopo di lui Mauro Rota, il papà di una ragazza che faceva ginnastica artistica nella palestra frequentata da Yara, ha rivelato che tre giorni prima della scomparsa della ragazza aveva notato due individui sospetti che si aggiravano nel parcheggio della palestra. In conclusione, i difensori di Bossetti hanno chiesto alla Corte di poter esaminare il fascicolo sulla morte di Sarbjit Kaur, una ragazza indiana trovata senza vita sul greto del fiume Serio alla fine di dicembre del 2010, un mese dopo la scomparsa di Yara. “Perché”, hanno detto, “le sue ferite presentano una incredibile rassomiglianza con i tagli trovati sul corpo di Yara”. Il Gip Tino Palestra ha già concesso la visione degli atti ma, “il fascicolo non si trova più: è sparito», hanno detto gli avvocati di Bossetti. La Corte si è riservata di decidere.
Al processo Bossetti insulta il papà di Yara: "Non è normale", scrive “Libero Quotidiano”. Colpo di scena al processo in corso a Bergamo per l'omicidio di Yara Gambirasio. L'unico imputato per la morte della 13enne di Brembate, Massimo Bossetti, mai prima aveva rivolto parole al riguardo dei genitori della ragazzina. Ma, come riporta il settimanale di cronaca "Giallo", il muratore nel corso dell'ultima udienza ha usato parole durissime contro Fulvio Gambirasio, il padre della vittima: "Mi sono meravigliato - ha detto Bossetti ai giudici in aula - di averlo visto là al lavoro mentre tutti cercavano sua figlia, e ho pensato che non è un papà normale uno che fa così. Del lavoro cosa importa in questi casi!". E ancora, a rincarare la dose: "Io al suo posto mi sarei comportato diversamente da lui, sarei andato in giro coi carabinieri a cercare mia figlia. Mia figlia è mia figlia, al diavolo il lavoro. Ho pensato "questo non è un papà normale".
18 MARZO 2016. TRENTATREESIMA UDIENZA. PARLA CINZIA FUMAGALLI, WALTER BREMBILLA.
Bossetti, parla la donna di Ambivere: «Ho sentito un grido e visto il furgone. Udienza venerdì mattina 18 al processo contro Massimo Bossetti, il muratore di Mapello accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio. È ufficialmente cominciata la carrellata di testimoni a discarico, citati dalla difesa dell’imputato. Tra i testimoni della mattina spicca Cinzia Fumagalli, di Ambivere: 50 anni, la donna il 26 novembre del 2010, qualche minuto prima delle 19, stava portando fuori l’immondizia. «Ho sentito un grido strozzato e ho visto passare un furgone chiaro passare a gran velocità» ha detto alla difesa. La donna ha raccontato di non aver visto la cabina, ma solo la parte posteriore del furgone che era chiuso: «Mi è passato a distanza di 10-12 metri, non ho visto la direzione, andava a tutta velocità - e ha aggiunto -. Non ho parlato di questa cosa se non a mio marito e agli inquirenti, ma solo il 1° dicembre quando si parlava delle ricerche di Yara anche nella nostra zona». Ricordi molto nitidi e una spiegazione molto dettagliata: «Ho sentito un grido di una persona giovane, non so dire se maschio o femmina, era un grido mozzato a metà». Nella scorsa udienza hanno deposto, fra gli altri, l’archeologo forense Dominic Salsarola, che era stato interpellato il 25 febbraio 2011 per un sopralluogo al cantiere di Mapello: si ipotizzava di demolire alcuni manufatti per cercare il corpo di Yara o tracce del suo passaggio, ma l’intervento non fu poi necessario perché il corpo della ragazzina venne trovato da tutt’altra parte, il giorno successivo, nel campo di via Bedeschi a Chignolo d’Isola. La pista del cantiere era ormai definitivamente tramontata. Mercoledì aveva testimoniato anche Giovanni Terzi, il tecnico informatico che si occupava della riparazione e dell’assistenza ai computer di casa Bossetti: l’uomo ha assicurato di aver utilizzato lui il software di pulitura dei dati, di cui è stata trovata traccia d’esecuzione nelle memorie dei pc analizzati dagli inquirenti. Ora dovrebbero testimoniare due residenti di via Rampinelli, a Brembate Sopra, padre e figlia: la sera del 26 novembre 2010, all’orario in cui Yara scomparve, stavano cambiano una gomma alla loro automobile, proprio lungo la strada che la tredicenne avrebbe dovuto percorrere a piedi per rincasare. La difesa ha citato anche Walter Brembilla, il custode del centro sportivo di Brembate Sopra. Potrebbero essere sentiti anche alcuni testi che la difesa ha detto di aver citato già per la scorsa udienza, ma che non si sono presentati. Citato anche Antonio Coppola, un produttore di tessuti per interni di autoveicoli, montati anche sui mezzi Iveco come quello di Bossetti.
Yara, «il custode è solo testimone». La difesa: «Per adesso». Tensioni in aula. È stata una deposizione ad alta tensione quella che si è svolta nell’aula della Corte d’assise di Bergamo di Walter Brembilla, il custode del centro sportivo dal quale sparì Yara Gambirasio il 26 novembre del 2010, scrive “L’Eco di Bergamo”. “Dopo mezzanotte è venuta da me l’istruttrice Laura Capelli – ha raccontato – e mi ha detto che non si trovava più la Yara, la Gambirasio Yara. Abbiamo acceso tutte le luci della palestra e abbiamo iniziato a cercarla lì, pensando fosse rimasta dentro. Ma niente. Allora controllammo anche all’interno del campo da calcetto. Nulla. Guardammo anche all’interno di una casetta in muratura utilizzata come deposito di attrezzi. Ma non c’era”. L’uomo ha parlato anche di quando ha conosciuto Yara: “Me l’ha presentata Fulvio, suo padre, nel 2008. La incontravo solo raramente. L’avrò vista un paio di volte in tutto. La sera del 26 novembre non l’ho vista”. L’uomo, incalzato dalle domande dei difensori di Massimo Bossetti, che gli facevano notare le contraddizioni riguardo ai suoi movimenti di quel pomeriggio ha risposto: «Ho avuto paura che, se non rispondevo in modo giusto, avrei potuto essere sospettato in quanto custode». Nel primo verbale, infatti, 5 giorni dopo la scomparsa di Yara, l’uomo aveva riferito di essere stato in casa, che si trova all’interno del complesso, dalle 17,40 alle 19,00. Poi aveva raccontato di essere andato a prendere un ragazzo che si doveva allenare alla stazione di Ponte san Pietro e di averlo riportato. «Io non ho visto niente», ha detto più volte Brembilla. Poi l’avvocato della Difesa Paolo Camporini ha fatto una domanda specifica a Brembilla: «Lei ha un cellulare?». «Sì» risponde il custode. E dei video? «Sì». Quali?, chiede il legale. «Si può capire» risponde Brembilla, con il pm Letizia Ruggeri che insorge: «Si tratta di un testimone, non di un imputato», ma Camporini a voce alta commenta: «Per adesso...». Dopo questo scambio di battute, il presidente della Corte d’assise di Bergamo Antonella Bertoja ha sospeso l’esame del custode della palestra perchè è venuta meno «qualsiasi genuinità delle prove». A dare manforte al pm anche l’avvocato della Parte civile Andrea Pezzotta: «Il teste è stato sottoposto a prelievo del dna, è stato intercettato e pedinato» ha detto il legale della famiglia. Camporini si è però spiegato: «Lo dicono gli atti che il testimone è stato reticente». Con una verifica dell’elenco dei testimoni della difesa che saranno chiamati a deporre nelle prossime udienze, il processo è rinviato a mercoledì 30 marzo.
Nel corso della deposizione il custode, incalzato dalle domande dei difensori di Massimo Bossetti, ha risposto: "Ho avuto paura che, se non rispondevo in modo giusto, avrei potuto essere sospettato in quanto custode", scrive Gabriele Moroni su “Il Giorno”. Nuova tappa del processo a Massimo Bossetti, accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio. Una giornata carica di tensione. Dopo alcuni scambi di battute fra gli avvocati di Massimo Bossetti e la corte, il presidente della Corte D'Assise di Bergamo Antonella Bertoja ha sospeso l'esame di Walter Brembilla (custode della palestra dove è stata vista per l'ultima volta Yara Gambirasio prima della sua sparizione il 26 novembre 2010) perchè era venuta meno "qualsiasi genuinità delle prove". È successo quando l'avvocato Paolo Camporini ha posto alcune domande al testimone e il pm Letizia Ruggeri ha fatto notare loro che si trattava di un testimone e non un imputato. "Per ora", ha esclamato Camporini. Il presidente della Corte ha quindi sospeso la sua deposizione. L'avvocato di parte civile Andrea Pezzotta ha ricordato che il teste era già stato intercettato, pedinato e sottoposto al test del prelievo del Dna. A quel punto Camporini ha ribattuto: "Lo dicono gli atti che il teste è stato reticente". Nelle quattro testimonianze rese a verbale in date diverse da Walter Brembilla, ci sarebbero delle discrepanze perché "avevo paura che mi davate la colpa perché ero il custode. Ero sotto pressione, sono stato in Questura una casino di volte". Lo ha detto lo stesso Brembilla, incalzato dagli avvocati della difesa di Massimo Bossetti. "Come mai ha cambiato più volte versione sulla ricostruzione di quella sera - hanno più volte chiesto i legali - dicendo, la prima volta, che era stato in casa fra le 17.40 e le 19"? "Ho avuto paura che se dicevo che ero sceso di casa alle 18.30 avrebbero sospettato di me", ha spiegato il custode, che ad una domanda dei legali della difesa ha aggiunto: "Non avevo niente da nascondere, non mi ha minacciato nessuno". Brembilla ha quindi confermato la sintesi della corte. "Se non fossi stato in grado di dare risposte molto precise sugli orari, avrebbero sospettato di me". "Ma io - ha aggiunto -non ho visto niente". Il custode ha spiegato che quel pomeriggio si era recato a prendere alla stazione con il furgone della palestra un ragazzo alla Stazione di San Pietro, e di essere rientrato in palestra attorno alle 17.10, prima di riaccompagnarlo, dopo l'allenamento, di nuovo in stazione alle 18.40/45. Tra i due orari Brembilla ha affermato di aver ricevuto due telefonate. Nella mattinata odierna ha deposto Cinzia Fumagalli, di Ambivere. La donna ricordato come, intorno alle 19 del 26 novembre 2010, giorno in cui la tredicenne scomparve, uscendo di casa per buttare la spazzatura vide davanti a casa sua un furgone chiaro da cui sentì provenire un "grido mozzato a metà". La teste, stando a quanto riferito si trovava a una distanza di circa 10-12 metri. La donna ha ripercorso le dichiarazioni che fece agli inquirenti il primo dicembre 2010. "Ho sentito un grido di una persona giovane, non so dire se maschio o femmina, era un grido mozzato a metà". La donna ha parlato di un "furgone chiuso, non con la cabina e il cassone". La testimone, citata dalla difesa di Massimo Bossetti, non ha saputo riconoscere il modello del mezzo. Dopo è stato sentito un bibliotecario di Brembate di Sopra, in servizio nella biblioteca in cui Yara era solita prendere libri in prestito.
Bossetti e quelle frasi sul padre di Yara, le stesse degli inquirenti. Il muratore di Mapello in udienza critica il padre di Yara perché assente durante le ricerche della figlia. I giornali attaccato Bossetti per le sue frasi. Ma ai tempi dicevano le stese cose, forze dell'Ordine comprese. Gli investigatori misero delle "cimici" nella casa della famiglia Gambirasio e definirono l'atteggiamento di Fulvio "anomalo", scrive Enrico Fedocci il 21 marzo 2016 su “Bergamo News”. Enrico Fedocci, giornalista del Gruppo Mediaset, cura il blog Cronaca Criminale. Ora mi salteranno tutti addosso. Perché non si può neanche pensare la cosa che sto per scrivere: era novembre del 2010, da Brembate Sopra era scomparsa una ragazzina, Yara Gambirasio. Rapita? Uccisa? Allontanata volontariamente? In quei mesi, prima del ritrovamento del corpo, il mistero era fittissimo. La protezione civile, i carabinieri, la polizia, i volontari. Tutti a cercarla. E noi, i giornalisti, dietro a loro per documentare con le telecamere i grandi sforzi di tutta la comunità per ritrovare la bambina. Di lei non c’era alcuna notizia, nessun appiglio per orientare le ricerche. Quindi, si cercava a caso, ma in maniera capillare. Dappertutto: case abbandonate, edifici in costruzione, stazioni, prati, boschi, specchi d’acqua. Davvero ovunque. C’era un freddo che ti mangiava i muscoli. Io partivo da Milano per andare a Brembate Sopra alle 6 e mezza di mattina e rimettevo piede in casa alle 21.30, se non c’erano dirette con le trasmissioni serali. Così per 45 giorni di seguito. Natale e Capodanno compresi. Una volta a casa, la sera, a letto senza mangiare per quanto ero stordito dal gelo. Poi daccapo il giorno dopo: la diretta con il Tg5 delle 8, il collegamento con Mattino 5, i tg del pranzo. Poi, proprio nel pomeriggio quando si aveva un po’ di stacco dalle dirette e dalle edizioni del telegiornale, si andava con il cameraman al seguito dei volontari, in attesa del tg serale. Si documentava ciò che facevano. Già che eravamo lì, si dava anche noi un’occhiata intorno. Pensavo a quanto fosse facile tralasciare una buca o un cespuglio. Magari proprio lì poteva essere stato nascosto qualcosa. I volontari erano encomiabili, ma era umanamente impossibile guardare ovunque. E se in quel fosso o in quell’altro non si fosse guardato bene, quel pezzetto di territorio sarebbe stato comunque archiviato tra quelli controllati. Non è un caso che Yara sia stata trovata dove le ricerche erano già passate. Il lavoro della protezione civile di Brembate Sopra, coordinato dall’alpino in pensione Giovanni Valsecchi, era preziosissimo, ma era come cercare un ago in un pagliaio. Ricordo la frase un po’ cinica, ma realistica, di un collega inviato di un importante quotidiano: “Con i primi caldi Yara la troverà un cacciatore, per caso, da qualche parte…”. Ma ricordo anche che – tra una battuta di ricerca e l’altra – anche io ero concentrato a dare il mio contributo di attenzione mentre riprendevamo con la telecamera e raccontavamo lo sforzo degli altri. E proprio mentre cercavo la piccola, pensavo, tra me e me: “Come mai il papà di Yara non viene? Se io fossi lui, se fosse mia figlia, vorrei essere certo che i volontari guardino ovunque. E solo con la mia presenza potrei accertarmene. Uscirei la mattina presto e tornerei la sera tardi, cercando di motivare gli altri con la mia forza e la mia speranza”. Interrogativi a cui io stesso davo una risposta: “Ognuno reagisce a suo modo. Non si può mai giudicare.” Ma che Fulvio Gambirasio andasse a giocare al videopoker in quelle ore era strano e, proprio questa cosa – non andare a cercare la figlia e dedicarsi al gioco delle macchinette – aveva attirato anche la curiosità delle forze dell’ordine che definirono l’atteggiamento anomalo. Non a caso nella villetta della famiglia della 13enne erano state messe “cimici” per intercettare le conversazioni. Sfido chiunque a dire il contrario. In quel momento si sospettava di tutti. E tutti dovevano – giustamente – essere controllati. Gli accertamenti e i fatti dimostrarono inequivocabilmente che quella di Fulvio Gambirasio era solo una reazione. Molto umana, peraltro, forse di rifiuto di ciò che stava avvenendo. Probabilmente dilaniato dall’ansia, dallo stress, dal dolore, cercava di tenersi su con le distrazioni a cui era abituato. Aveva altri tre figli a casa, non dimentichiamolo. Doveva pensare anche a loro. Quel che ho tratto da quell’esperienza è che non bisogna mai giudicare le reazioni degli altri. C’è chi davanti alla morte di un congiunto si dispera, chi si chiude nel silenzio, chi reagisce uscendo subito di casa come se nulla fosse. E magari dentro di sé vorrebbe morire. Sono modi diversi per declinare lo stesso dramma. Ma farsi le domande è legittimo. E le domande se le è fatte anche Massimo Bossetti. Durante il suo interrogatorio dei giorni scorsi ha esposto il suo ricordo di quei fatti. Un pensiero che ha attraversato la mente di molti in quei giorni. Ecco l’esatta trascrizione di ciò che ha detto il 45enne ai giudici: “Mi sono meravigliato di avere visto Fulvio Gambirasio al cantiere mentre tutti cercavano sua figlia, e ho pensato che non è un papà normale uno che fa così. Del lavoro cosa importa in questi casi. Io mi sarei comportato diversamente da lui. Sarei andato in giro con i carabinieri a cercare mia figlia. Mia figlia è mia figlia, al diavolo il lavoro. Ho pensato: questo non è un papà normale”. Apriti cielo: tutti a dare addosso a Bossetti. “Insensibile”, “Si vergogni”, “Farabutto”, “Assassino”. Li ho visti io, in aula, gli avvocati di Parte Civile indignarsi facendo cenno di tirare il Codice sul tavolo mentre il muratore di Mapello faceva queste considerazioni. Ora: Bossetti potrà pure essere un assassino – per ora solo presunto – ma che non possa dire ciò che molti hanno pensato e detto proprio quando questi fatti accadevano è frutto di un atteggiamento ipocrita da cui mi dissocio con decisione. E quindi intendo ribattere a chi si indigna per quelle parole rilanciando in prima persona, mettendoci la faccia: anche io ho pensato le stesse cose che ha detto Bossetti su Fulvio Gambirasio. E non sono un presunto assassino. Sfido tutti gli altri che le hanno dette e pensate quelle identiche cose a non nascondersi dietro al paravento dell’ipocrisia e a tirare su la mano dicendo “io c’ero” tra quelli che rimanevano perplessi per quel comportamento. Questo episodio, accusare Bossetti di ogni male del mondo, è sintomatico di un preconcetto, paradigmatico di un modo di pensare a senso unico. In questo processo non c’è distacco. Sicuramente non c’è tra la gente. Perfino i giornalisti che dovrebbero incarnare la sobrietà e l’equidistanza dai fatti sembrano parti in una contesa. Per giudicare Bossetti occorre equilibrio. Comincino i giornalisti a riferire le cose che sono accadute in aula esattamente per come sono accadute. Sono certo che seguirà anche la gente comune ad esprimere pareri più rilassati, di attesa. Dando per scontato (non è una chimera!) che i giudici della Corte d’Assise non si lascino influenzare dall’opinione pubblica, dall’esorbitante costo delle indagini, da chi sta sugli spalti con il pollice verso. Emettendo, con serenità e senza pregiudizi, una sentenza “oltre ogni ragionevole dubbio”. Non come è accaduto recentemente a Mestre dove Monica Busetto, incastrata dal proprio Dna finito accidentalmente nel posto sbagliato, è stata condannata a 24 anni per un omicidio che aveva commesso un’altra persona. Solo per un colpo di fortuna è stata scarcerata, con tante scuse. E anche allora c’era chi diceva: “Non può che essere stata lei ad uccidere quell’anziana. E’ il Dna che la incastra”.
Tutto è contro Bossetti (eccetto le prove). L'imperativo è condannare. Ma sappiano i giudici che saranno autori di uno strazio, scrive Vittorio Feltri, Sabato 19/03/2016, su “Il Giornale”. Il processo a Bossetti, presunto assassino di Yara, uccisa nei dintorni di Brembate (Bergamo), va avanti da mesi tra finti colpi di scena da cui non emerge nulla di nuovo, e proseguirà inutilmente per altri mesi, nonostante l'imputato sia già stato virtualmente condannato all'ergastolo. Tutto congiura contro di lui, il quale qualsiasi dichiarazione rilasci a propria discolpa viene guardato dalla corte e dagli addetti all'informazione come un povero mentecatto, addirittura incapace di rammentare quel che accadde alla vittima e a se stesso la sera in cui si consumò la tragedia. Infatti, gli rimproverano di non ricordare ciò che egli stesse facendo mentre la fanciulla spariva e si accingeva a essere ammazzata. Come se fosse facile ricostruire i particolari della propria vita vissuta ieri; figuriamoci di quella vissuta due o tre anni orsono. Alla base delle accuse rivolte al muratore c'è appunto la smemoratezza. Gli rimproverano di avere scordato cosa combinò il giorno del delitto, dove era quel pomeriggio, dove andò, quale percorso scelse per rincasare. È assurdo. Se a me chiedono quale cibo ho mangiato 24 ore fa a cena, rimango muto. Mi confondo. Nessuno è in grado di descrivere la propria attività di mercoledì scorso, mentre il povero Bossetti sarebbe obbligato, per non apparire bugiardo, a stendere un verbale inequivocabile di ciò che ha effettuato mesi, anni fa. Ma questo è ancora niente. I magistrati e le magistrate, specialmente le Pm, amano la precisione e la pretendono da tutti tranne che da se stessi. Propongo un ragionamento elementare. Bossetti ha caricato sul proprio furgone Yara e si ignora a quale scopo. Possederla? Forse. Per quale motivo ella avrebbe dovuto salire sul mezzo del carpentiere senza battere ciglio? Mettiamo che lui l'abbia presa con la forza. Alle sei di sera? Nel pieno centro del Paese? Nessuno ha visto la scena? Lei non ha gridato? Si è adagiata tranquillamente sulla poltroncina del camion? Non è escluso che i due si frequentassero, dice qualcuno. Già. Ma due che si frequentano e si danno un appuntamento lo concordano. Quando e come? Sui telefonini di lei e di lui non vi è traccia di comunicazione. Neanche una conversazione pur breve. Neanche lo straccio di un sms. Dubito che essi abbiano raggiunto un'intesa telepatica. Una testimone, tardivamente rivelatasi tale, sostiene di aver notato giorni prima l'adolescente (riconosciuta dall'apparecchio dentario) su un'automobile simile a quella di Bossetti (inconfondibile per via degli occhi celesti). Il dettaglio, se fosse accertato, dimostrerebbe che la coppia aveva una consuetudine. Ma se così fosse è fatale che sui cellulari di entrambi i soggetti esisterebbe qualche traccia della loro amicizia. Invece, non esiste nulla. Segno che non si erano mai parlati, che non avevano avuto alcun abboccamento. E allora dove sono le prove? Si giura che il furgone dell'operaio abbia gironzolato a lungo nella zona di Brembate nelle ore della sparizione della bambina. Ma bisogna sottolineare che di furgoni del tipo di quello posseduto da Bossetti, nella zona, ne circolano a migliaia, tutti uguali o simili, della medesima marca e con le stesse caratteristiche. Non è semplice identificarli. Ovvio. Che altro c'è di significativo per inchiodare il lavoratore del mattone? Il famoso Dna, ricavato dalle mutandine della vittima che corrisponde a quello dell'imputato. Stando alla vulgata, questo elemento sarebbe decisivo per negare l'innocenza dell'uomo. In effetti la scienza non è da sottovalutare, non sbaglia. Però chi la maneggia, invece, essendo una persona, quindi fallace come tutte le persone di questo mondo, può sbagliare e andare incontro a una clamorosa topica. Soprattutto, se si considera che l'esame in questione è irripetibile. Pertanto non è assoluta la sua attendibilità. Se non c'è l'opportunità di eseguire una controprova, non c'è prova. Mi sembra evidente. Però Bossetti è un povero cristo, un perfetto agnello sacrificale da immolare sull'altare della giustizia a ogni costo. Ecco perché non si salverà. Le indagini sono costate decine di milioni. L'attesa di una sentenza esemplare è molto forte. L'opinione pubblica è stata negativamente influenzata da una stampa ostile e da una televisione ancora più accanita contro di lui. Qualsiasi affermazione egli pronunci in aula per difendersi gli si ritorce contro. Le cronache lo dipingono ormai come l'assassino da punire e non c'è verso di assistere a un contraddittorio serio e fondato sulla concretezza. Le circostanze vengono distorte. La moglie che lo protegge è fatta passare quale fedifraga priva di moralità. Per tacere della famiglia di lui, sputtanata fin dall'apertura dell'inchiesta. La mamma di Bossetti che fa figli con chi capita eccetto che col marito, il quale per altro è morto di crepacuore. La prole dell'imputato che va a scuola nel paesino in cui tutti sanno tutto di tutti, additata alla pubblica opinione quale progenie di una famiglia scucita e da considerare della peggior specie. Il risultato è sotto gli occhi della comunità: è stato ridotto a strame non solo Bossetti, ma anche il suo nucleo di ascendenti e discendenti. Uno schifo così non si era mai visto. L'imperativo è condannare. Ma sappiano i giudici che saranno autori di uno strazio.
Il processo a Bossetti: se la difesa porta in aula chi non ha visto nulla. I testimoni che hanno sfilato in tribunale la scorsa settimana e i prossimi chiamati a deporre erano nei paraggi della palestra quando Yara fu prelevata dal suo assassino. La tesi degli avvocati è che il rapimento avvenne dentro il centro sportivo, scrive Giuliana Ubbiali (gubbiali@corriere.it) su “Il Corriere della Sera” il 21 marzo 2016. «Portate una persona che abbia visto Yara. Se non l’hanno vista, i testimoni non sono ammessi». La presidente della Corte d’Assise, Antonella Bertoja, è stata chiara con i difensori di Massimo Bossetti: devono sfoltire la lista dei loro 700 testimoni. Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini lo stanno facendo. Ma su un punto «non siamo d’accordo - hanno detto -. Per noi è importante anche chi non ha visto». Si è notato all’udienza di venerdì, quando tre genitori di ragazzine che frequentavano la palestra di Brembate Sopra da cui era sparita Yara sono venuti in aula a dire che erano andati a riprendere i figli, tra le 18.30 e le 19.15, ma che non hanno visto nulla. Non Yara, non Bossetti, non un furgone. Ma nemmeno altro che attirasse la loro attenzione. Viene da chiedersi che peso abbia tutto questo «non visto». Gli avvocati lo spiegheranno nelle conclusioni. Intanto, anche da alcune loro esternazioni post udienze, si può intuire: nessuno ha visto Bossetti perché non era lì, e nessuno ha visto Yara perché non era uscita dal centro sportivo (il complesso in cui si trova la palestra). Non a caso la difesa, con il consulente Ezio Denti, investigatore privato, a novembre e di nuovo un mese fa, ha simulato un rapimento all’interno del complesso per verificare se qualcuno sentisse le urla: «Nessuno». Quindi? Yara è stata rapita da non si sa chi, dentro il centro? La Corte ha già bacchettato la difesa quando, venerdì, ha torchiato il custode della palestra: «L’imputato è uno». Come dire: a processo non si fanno indagini parallele. La linea della difesa si scontra con quella del pm Letizia Ruggeri: Bossetti era lì e lo dimostra l’Iveco Daily ripreso dalle telecamere con 16 caratteristiche in comune con il suo; Yara è uscita dalla palestra, il papà di una bambina l’ha incrociata verso la porta. E - è il ragionamento dell’accusa - è vero che non si conoscono il punto preciso e come la vittima sia sparita, ma sui suoi slip e sui suoi leggings c’è il Dna dell’imputato. Per il 30 marzo e il primo aprile la difesa citerà più di 20 persone che la sera della scomparsa di Yara erano in zona. Chi faceva footing e chi portava a spasso il cane. Ecco, non hanno notato nulla. Come Colombo Rota, 71 anni, casa in via Morlotti, il percorso di Yara. Il 29 novembre 2010 ai carabinieri disse: «Sono arrivato a casa alle 19/19.10, in macchina. Non ho notato nulla di insolito, c’erano le solite auto». Brian Belotti, 19 anni, allenatore di Rugby, il 14 gennaio 2011 riferì: «Conoscevo Yara, avevamo fatto catechismo insieme. Il 26 novembre sono andato al centro in bicicletta, verso le 17.55. Alle 18.50 sono andato a casa e non l’ho incontrata». Lo stesso Marco Nani, 53 anni, dirigente della polisportiva: «Ho cercato di fare mente locale per ricordare qualche dettaglio utile, ma nulla ha colpito la mia attenzione».
Bossetti, la difesa «taglia» i testimoni. Da 711 a 160, anche il figlio del muratore. La Corte aveva fissato una sorta di ultimatum, scaduto lunedì, e la difesa di Massimo Bossetti lo ha rispettato, producendo una nuova lista testimoni ampiamente sfrondata: da 711 a 160 nomi circa, che i legali del muratore di Mapello, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, ritengono però «irrinunciabili», scrive “L’Eco di Bergamo” il 23 marzo 2016. La Corte potrebbe decidere di ammetterli tutti oppure solo una parte, in base al criterio della rilevanza e in base all’attività istruttoria sin qui condotta, ma potrebbe anche ovviare, in alcun casi, con l’acquisizione dei verbali di sommarie informazioni testimoniali contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, in caso non vi fossero obiezioni da parte di pubblica accusa e parte civile (buona parte dei testi a difesa è infatti già stata sentita dagli inquirenti nel corso delle indagini). Nell’elenco finale dei testimoni che la difesa vorrebbe portare in aula per cercare di smontare gli elementi a carico dell’imputato, o comunque instillare il dubbio nei giudici, figurano diverse categorie di persone. Ci sono frequentatori del centro sportivo di Brembate Sopra, che quella sera si trovavano lì in orario compatibile alla scomparsa. Ci sono residenti di Brembate Sopra che gravitavano nell’isolato palestra - casa di Yara, che non hanno visto l’imputato né la vittima (una delle tesi alternative adombrate sin dalle prime battute del processo dalla difesa è che Yara non sia uscita dalla palestra per andare incontro al suo assassino, ma che le sia accaduto qualcosa all’interno di quelle mura). Nella lista è confermato fra i testi irrinunciabili per la difesa anche il figlio maggiore di Bossetti, quattordicenne, per cui è stata chiesta l’audizione protetta. Nell’intento dei difensori, dovrà confermare le abitudini di vita dell’imputato e le sue qualità di buon padre di famiglia. Prossimo appuntamento in aula mercoledì 30 marzo, con una prima carrellata di testimoni.
30 MARZO 2016. TRENTAQUATTRESIMA UDIENZA. PARLA GIOVANNI BASSETTI, SABRINA RIGAMONTI ED ALTRI 15.
A differenza delle ultime udienze, in aula non è presente Marita Comi, moglie di Bossetti, mentre sedeva nel pubblico Laura Letizia, sorella gemella dell’imputato.
Ricomincia dopo la mini-pausa di Pasqua il processo a carico di Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio, scrive “L’Eco di Bergamo”. Esaurita la lista testi di accusa e parte civile, prosegue la carrellata di testimoni a difesa. Gli avvocati difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini hanno citato per l’udienza di mercoledì 30 marzo una quindicina di persone, fra cui uno dei consulenti informatici di parte che tenterà di smontare le tesi dell’accusa riguardo alle ricerche hard scoperte nelle memorie dei computer di casa Bossetti, in particolare quelle ritenute più compromettenti dal pm Letizia Ruggeri perché indirizzate verso ragazzine. La difesa del muratore ha prodotto nei giorni scorsi una nuova lista testimoni ampiamente sfrondata rispetto a quella depositata all’inizio del processo: da 711 a 160 nomi circa, che i legali del muratore di Mapello ritengono però «irrinunciabili». La Corte potrebbe decidere di ammetterli tutti oppure solo una parte, in base al criterio della rilevanza e in base all’attività istruttoria sin qui condotta, ma potrebbe anche ovviare, in alcun casi, con l’acquisizione dei verbali di sommarie informazioni testimoniali contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, in caso non vi fossero obiezioni da parte di pubblica accusa e parte civile (buona parte dei testi a difesa è infatti già stata sentita dagli inquirenti nel corso delle indagini). Nell’elenco finale dei testimoni che la difesa vorrebbe portare in aula per cercare di smontare gli elementi a carico dell’imputato figurano diverse categorie di persone. Ci sono frequentatori del centro sportivo di Brembate Sopra, che quella sera si trovavano lì in orario compatibile alla scomparsa. Ci sono residenti di Brembate Sopra che gravitavano nell’isolato palestra - casa di Yara, che non hanno visto l’imputato né la vittima (una delle tesi alternative avanzate sin dalle prime battute del processo dalla difesa è che Yara non sia uscita dalla palestra per andare incontro al suo assassino, ma che le sia accaduto qualcosa all’interno di quelle mura). Ci sono poi le presunte piste alternative: i legali intendono citare nelle prossime udienze, ad esempio, anche una ragazza che aveva denunciato di essere stata seguita da un autocarro a Brembate Sopra nei giorni precedenti alla scomparsa di Yara, una fisioterapista che disse di essere stata importunata quello stesso 26 novembre 2010, ma anche alcuni ragazzi che frequentavano un punto d’incontro chiamato «Gazebo» nei pressi del centro sportivo.
«Nessuna ricerca online illecita». Una teste: non c’era il furgone in palestra. Non ha visto l’hard-disk dei due computer di casa di Massimo Bossetti ma dalla documentazione che ha analizzato, e che è negli atti del processo, l’informatico forense Giovanni Bassetti parla di nessuna ricerca illecita fatta dal muratore di Mapello, scrive “L’Eco di Bergamo”. «Nei due pc si rivelano semplici ricerche pornografiche, ma non pedopornografiche - ha detto il teste chiamato dalla difesa di Massimo Bossetti -. Non ci sono illeciti, nè chat o ricerche intenzionali a materiali pedo-pronografici: non c’è nessuna evidenza di ricerche che denotino un interesse particolare» nei confronti delle ragazzine. E chiarisce: «La parola “13enne” non è riconducibile all’utente: alcuni banner conservano le query e rimandano a termini non per forza cercate dall’utenza». Bassetti sottolinea: «Tutti i siti che sono stati navigati da Bossetti aderiscono a un programma contro la pedo-pornografia». Con una aggiunta. «Le ricerche in questione e vagliate dall’accusa sono in tutto tre e risalgono a un lasso di tempo molto esteso: dal 2002 al 2014». Giovanni Bassetti lo ha spiegato davanti alla Corte d’assise di Bergamo, di fronte alla quale è in corso il dibattimento, ma, rispondendo alla domande del pm, ha detto che effettivamente quella del 29 maggio 2014, riguardanti ragazze e a sfondo sessuale è stata effettivamente una ricerca anche se non è possibile attribuirla al muratore. L’analisi dei computer trovati a casa di Bossetti che avevano evidenziato ricerche riguardanti tredicenni era stata svolta dal Racis dei Carabinieri e dai consulenti della procura e l’esperto della difesa ha inteso ora «contestualizzarli», partendo dal riconoscimento della corretta metodologia usata dagli investigatori. Ad ascoltare l’informatico c’è come sempre in aula Massimo Bossetti, maglione blu e jeans. Non è presente la moglie Marita Comi, ma c’è la sorella gemella. L’udienza, la numero 35 di questo processo per l’omicidio di Yara Gambirasio, è iniziata in orario. Esaurita la lista testi di accusa e parte civile, prosegue la carrellata di testimoni a difesa. Gli avvocati difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini hanno citato per l’udienza di mercoledì 30 marzo una quindicina di persone, fra cui appunto Giovanni Bassetti che ha tentato di smontare le tesi dell’accusa riguardo alle ricerche hard scoperte nelle memorie dei computer di casa Bossetti, in particolare quelle ritenute più compromettenti dal pm Letizia Ruggeri perché indirizzate verso ragazzine. Dopo Bassetti è intervenuta Sabrina Rigamonti di Mapello: il 26 novembre 2010 era in palestra, per un corso di fitness: «Non c’era nulla di strano, neanche nel parcheggio. Non c’erano furgoni» ha dichiarato la donna. La difesa del muratore ha prodotto nei giorni scorsi una nuova lista testimoni ampiamente sfrondata rispetto a quella depositata all’inizio del processo: da 711 a 160 nomi circa, che i legali del muratore di Mapello ritengono però «irrinunciabili». La Corte potrebbe decidere di ammetterli tutti oppure solo una parte, in base al criterio della rilevanza e in base all’attività istruttoria sin qui condotta, ma potrebbe anche ovviare, in alcun casi, con l’acquisizione dei verbali di sommarie informazioni testimoniali contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, in caso non vi fossero obiezioni da parte di pubblica accusa e parte civile (buona parte dei testi a difesa è infatti già stata sentita dagli inquirenti nel corso delle indagini). Nell’elenco finale dei testimoni che la difesa vorrebbe portare in aula per cercare di smontare gli elementi a carico dell’imputato figurano diverse categorie di persone. Ci sono frequentatori del centro sportivo di Brembate Sopra, che quella sera si trovavano lì in orario compatibile alla scomparsa. Ci sono residenti di Brembate Sopra che gravitavano nell’isolato palestra - casa di Yara, che non hanno visto l’imputato né la vittima (una delle tesi alternative avanzate sin dalle prime battute del processo dalla difesa è che Yara non sia uscita dalla palestra per andare incontro al suo assassino, ma che le sia accaduto qualcosa all’interno di quelle mura). Ci sono poi le presunte piste alternative: i legali intendono citare nelle prossime udienze, ad esempio, anche una ragazza che aveva denunciato di essere stata seguita da un autocarro a Brembate Sopra nei giorni precedenti alla scomparsa di Yara, una fisioterapista che disse di essere stata importunata quello stesso 26 novembre 2010, ma anche alcuni ragazzi che frequentavano un punto d’incontro chiamato «Gazebo» nei pressi del centro sportivo.
Dopo la breve pausa di Pasqua, si torna in Tribunale a Bergamo con il processo a carico di Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio. Terminata la lista testi di accusa e parte civile, prosegue la carrellata di testimoni a difesa. Oggi dovrebbero presentarsi una quindicina di persone, scrive Gabriele Moroni su “Il Giorno”. Dopo la breve pausa di Pasqua, si torna in Tribunale a Bergamo con il processo a carico di Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio. Terminata la lista testi di accusa e parte civile, prosegue la carrellata di testimoni a difesa. Oggi dovrebbero presentarsi una quindicina di persone. In aula Giovanni Bassetti, consulente informatico della difesa che ha esaminato il lavoro dei consulenti informatici della Procura sui due pc (un fisso e un portatile) di Massimo Bossetti. Il dottor Bassetti nella sua indagine ha rilevato quante volte compare la parola "ragazzine" e ha raggruppato la parola in cinque "evidenze". Secondo Bassetti da questi elementi non emergerebbe materiale illecito e non vi sarebbe stata alcuna ricerca su internet vicina a contenuti pedopornografici. Il quadro che emergerebbe dall'uso del pc da parte del muratore di Mapello è quello di un utente medio, che sa usare internet e google. Secondo l'esperto infatti, nei due computer sequestrati in casa del muratore "non c'è nessuna evidenza di ricerche che denotino un interesse particolare" nei confronti di ragazzine. I siti consultati dai due pc, inoltre, sono di argomento pornografico ma non pedopornografico e aderiscono tutti alla campagna contro la pedopornografia. Giovanni Bassetti lo ha spiegato davanti alla corte d'assise di Bergamo, di fronte alla quale è in corso il dibattimento, ma, rispondendo alla domande del pm, ha detto che effettivamente quella del 29 maggio 2014, riguardanti ragazze e a sfondo sessuale è stata effettivamente una ricerca anche se non è possibile attribuirla al muratore. Nel processo a carico di Massimo Bossetti è stata sentita oggi in aula una serie di testimoni, citati dalla difesa, che alla fine del 2010, quando la ragazza scomparve, frequentavano il centro sportivo da cui la ragazza sparì. Molti hanno detto di non aver mai conosciuto la tredicenne, tutti di non avere mai visto Massimo Bossetti prima del fermo, il 16 giugno 2014. Tutti testimoni, in gran parte genitori di ragazzi che frequentavano il centro sportivo, hanno spiegato che, pur avendo fatto mente locale dopo aver appreso la notizia della scomparsa, non ricordavano nulla di strano in quel tardo pomeriggio del 26 novembre 2010. Presente in aula anche il responsabile di un'azienda del Torinese che produce tessuti (e ha parlato dei tessuti utilizzati per i furgoni Iveco) e un ex compagno di catechismo di Yara. Nei giorni scorsi, la difesa del muratore di Mapello ha presentato una nuova lista testimoni: da 711 a 160 nomi circa, che i legali del muratore di Mapello ritengono però "irrinunciabili". Ci sono frequentatori del centro sportivo di Brembate Sopra, che la sera in cui è scomparsa Yara sera si trovavano lì e ci sono residenti di Brembate Sopra che gravitavano nell’isolato palestra. I legali intendono citare nelle prossime udienze anche una ragazza che aveva denunciato di essere stata seguita da un autocarro a Brembate Sopra nei giorni precedenti alla scomparsa di Yara, una fisioterapista che disse di essere stata importunata quello stesso 26 novembre 2010, ma anche alcuni ragazzi che frequentavano un punto d’incontro chiamato 'Gazebo' vicino al centro sportivo. Il pm Letizia Ruggeri si è opposta alla ammissione di alcuni testimoni che, a suo avviso, dovrebbero testimoniare su "circostanze che sono del tutto indifferenti" al capo di imputazione. Tra questi alcuni testimoni che dovrebbero riferire sulle conoscenze e sui rapporti famigliari del muratore di Mapello. Il pm si è anche opposto all'ammissione dei famigliari di una delle insegnanti di ginnastica ritmica di Yara della quale una traccia di Dna fu trovata sul giubbotto della ragazza uccisa. Sulla figura dell'insegnante furono svolte delle indagini che esclusero che avesse avuto un ruolo nella vicenda. Gli avvocati di parte civile della famiglia Gambirasio si sono associati alle richieste del pm e uno di loro ha definito quella della difesa di Bossetti una "istruttoria esplorativa". I giudici decideranno sull'ammissione dei testi probabilmente nell'udienza di venerdì prossimo.
Bossetti, «qualcuno ha visto qualcosa?».
In aula contro la difesa: testimoni irrilevanti. «Non si può continuare con testimonianze che portano prove negative». Il giudice Antonella Bertoja che preside il processo Bossetti chiede un cambio di rotta alla difesa. Rincara la dose il legale della famiglia, scrive “L’Eco di Bergamo”. «Qualcuno ha visto qualcosa? Per ora tutti non hanno visto nulla» commenta Andrea Pezzotta. Il legale punta il dito sull’irrilevanza delle testimonianze, con la stessa Bertoja che chiede testimonianze in orario compatibile con la scomparsa di Yara Gambirasio e non solo «negative». Nel processo a carico di Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio è stata sentita infatti in aula una serie di testimoni, citati dalla difesa, che alla fine del 2010, quando la ragazza scomparve, frequentavano il centro sportivo da cui la ragazza sparì. Molti hanno detto di non aver mai conosciuto la tredicenne, tutti di non avere mai visto Massimo Bossetti prima del fermo, il 16 giugno 2014. Tutti i testimoni, in gran parte genitori di ragazzi che frequentavano il centro sportivo, hanno spiegato che, pur avendo fatto mente locale dopo aver appreso la notizia della scomparsa, non ricordavano nulla di strano in quel tardo pomeriggio del 26 novembre 2010. Nel frattempo è stato sentito anche un giovane compagno della ragazzina, coetaneo di Yara: frequentavano catechismo insieme e nel cellulare del giovane sono stati trovati 109 contatti con la ragazza, tra sms e telefonate. Ma in rubrica il numero di Yara non è mai stato salvato.
Processo Bossetti, battaglia sui testimoni. Il pm Ruggeri: «Molti sono irrilevanti». Il processo a Massimo Giuseppe Bossetti, presunto omicida di Yara Gambirasio, entra nella fase della battaglia per i testimoni, scrive “L’Eco di Bergamo”. La difesa vorrebbe chiamare in aula persone che la sera del 26 novembre 2010 erano nella zona del centro sportivo di Brembate Sopra. Si tratta di tante persone, già chiamate dagli inquirenti a fornire informazioni sui fatti di quella sera. Il pubblico ministero Letizia Ruggeri ha deciso di opporsi alla richiesta della difesa perché, secondo l’accusa, «testimoni chiamati a deporre su circostanze irrilevanti e indeterminate. Saremo chiamati a sentire una serie di persone che non hanno visto e ci potranno rispondere solo con “non ricordo e non so”. Possono rientrare nella categoria dell’indifferenza. Non ce n’è uno che sia pertinente con l’oggetto dell’imputazione. Chiedo che non siano ammessi». Anche Enrico Pelillo, avvocato della famiglia Gambirasio, sottolinea che i testimoni ascoltati anche nella giornata di mercoledì 30 non hanno portato contributi rilevanti. L’avvocato Paolo Camporini, difensore di Bossetti, è invece convinto della lista presentata. I legali dell’accusato vogliono chiamare i ragazzi che si trovavano spesso dietro alla palestra, alcuni testimoni che hanno assistito a un litigio tra una ragazza e altre persone Chignolo d’Isola il 26 novembre 2010 alle 19.10, i genitori e il fratello di Silvia Brena (insegnante di ginnastica artistica) e anche il criminologo Alessandro Meluzzi. I giudici si sono riservati di decidere quanti e quali testimoni saranno ammessi.
Smentita la tesi pedopornografica, scrive il 31 marzo 2016, "Bergamo post". Si è tenuta mercoledì 30 marzo la 35esima udienza del processo nei confronti di Massimo Bossetti, l’uomo accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio. Al Tribunale di Bergamo si sono susseguiti una serie di testimoni chiamati a deporre davanti alla Corte d’Assise presieduta dal giudice Antonella Bertoja da Paolo Camporini e Claudio Salvagni, ovvero i legali dell’imputato. Negli scorsi mesi, la difesa aveva presentato una lista di testimoni con oltre 700 nomi (711 per la precisione), tanto che la Corte era arrivata a chiedere un “taglio”. Qualche settimana fa, i due legali hanno dunque sforbiciato la lista ad “appena” 160 nomi, ritenuti però tutti «irrinunciabili» al fine della corretta difesa dell’imputato. A differenza delle ultime udienze, in aula non è presente Marita Comi, moglie di Bossetti, mentre sedeva nel pubblico Laura Letizia, sorella gemella dell’imputato. Il perito della difesa: nessuna ricerca pedopornografica. Tra le deposizioni più rilevanti, in mattinata c’è stata quella di Giovanni Bassetti, ovvero uno dei nuovi periti informatici del pool difensivo. Sebbene Bassetti non abbia ancora potuto analizzare fisicamente gli hard disk dei dispositivi di proprietà di Bossetti, analizzando i documenti degli informatici forensi dell’accusa e il lavoro svolto dai colleghi che lo hanno preceduto, Bassetti ha sostenuto davanti alla Corte che nessuna delle ricerche svolte dall’imputato risulta essere illecita. Si tratterebbe, dunque, di «normale pornografia». Ha poi aggiunto che «la parola “ragazzine” (su cui si è concentrata molto l’accusa, ndr), tra le ricerche sul web, c’è cinque volte, ma è tutta normale pornografia. Si tratta in parte di ricerche e in parte di clic su vari banner comparsi durante la navigazione». Bassetti ha infatti precisato che «sia YouTube sia Google hanno tolleranza zero per la pedopornografia. Nelle ricerche sui computer utilizzati da Massimo Bossetti, invece, tutto è lecito. Credo che se si vuole cercare la droga non si vada in piazza ma nei vicoli bui. E quindi c’è un dark web in cui chi vuole va a cercare ciò che è illecito. Ma non lo fa su Google o YouTube». Secondo il consulente della difesa, dunque, nei dati estrapolati dai dispositivi di Bossetti non risultano esserci elementi pedopornografici, come invece sostenuto dalla Procura, aggiungendo anche che «le ricerche indicate dall’accusa come illecite sono solo tre e vanno dal 2002 al 2014. Solo tre in 12 anni praticamente». Dopo le parole del consulente informatico, che ha risposto con precisione alle domande del pm Letizia Ruggeri, la difesa ha chiamato a deporre Sabrina Rigamonti, donna residente a Mapello che la sera del 26 novembre 2010, ovvero quella della scomparsa di Yara, si trovava presso il centro sportivo di Brembate Sopra per seguire un corso di fitness. Rigamonti, rispondendo alle domande degli avvocati, ha sottolineato come quella sera non abbia notato assolutamente nulla di strano, né all’interno del centro né nel parcheggio esterno, dove non ha notato neppure furgoncini sospetti. Successivamente è stato ascoltato un ragazzo coetaneo di Yara, il quale frequentava catechismo con l’allora tredicenne e che spesso si sentiva con lei: sul cellulare del giovane sono stati trovati 109 contatti con Yara, tra sms e telefonate, ma sul cellulare della 13enne risulta che il numero del ragazzo non era mai stato salvato. Dopo di lui sono stati chiamate a deporre molti altri testimoni che, alla fine del 2010, frequentavano abitualmente il centro sportivo di Brembate Sopra. La maggior parte di questi ha dichiarato di non aver mai conosciuto la ragazza e tutti hanno negato di aver visto Bossetti prima del suo arresto, avvenuto il 16 giugno 2014. Tutti hanno spiegato che, pur avendo fatto mente locale dopo aver appreso la notizia della scomparsa, non ricordavano nulla di strano in quel tardo pomeriggio del 26 novembre 2010. Proprio questa serie di testimonianze hanno scatenato la reazione del giudice Antonella Bertoja, la quale ha rimproverato i legali di Bossetti sottolineando come «non si può continuare con testimonianze che portano prove negative». In altre parole, la Bertoja ha chiesto alla difesa di cambiare strategia, puntando a portare sul banco dei testimoni soggetti in grado di portare realmente qualche novità processuale o necessari a smentire alcune delle tesi presentate dall’accusa, e non soltanto testimoni “negativi”, ovvero usati solamente per dimostrare un’assenza di contatti tra il loro assistito e la vittima. Andrea Pezzotta, legale della famiglia Gambirasio, ha poi rincarato la dose: «Qualcuno ha visto qualcosa? Per ora nessuno ha visto niente». La Bertoja ha dunque chiesto a Camporini e Salvagni di presentare testimoni i cui racconti vertano su fatti avvenuti quantomeno in orari compatibili con quelli della scomparsa di Yara dal centro sportivo di Brembate Sopra. L’ultima a intervenire sul tema è stata Letizia Ruggeri: il pm, infatti, ha deciso di opporsi alla richiesta della difesa di chiamare a deporre in aula così tante persone, affermando che si tratta di «testimoni chiamati a deporre su circostanze irrilevanti e indeterminate. Saremo chiamati a sentire una serie di persone che non hanno visto e ci potranno rispondere solo con “non ricordo e non so”. Possono rientrare nella categoria dell’indifferenza. Non ce n’è uno che sia pertinente con l’oggetto dell’imputazione. Chiedo che non siano ammessi». La Corte d’Assise si è dunque riservata di decidere quanti e quali testimoni saranno ammessi. Ma il pubblico ministero Letizia Ruggeri si è opposto: «Mi oppongo in generale a buona parte della lista dei testimoni perché possono rientrare nella categoria dell’indifferenza, almeno per quanto riguarda quelli chiamati oggi, scrive “Il Corriere della Sera”. C’è stata una processione di persone che riportano solo dei “non ricordo” o cose “non viste”. Molti, tra quelli in lista, sono irrilevanti, incluse le persone che frequentavano il cosiddetto gazebo di Brembate Sopra (uno spazio spesso occupato dai giovani dietro la palestra, ndr), oppure il sacerdote citato per interpretare i “segni” sul cadavere di Yara Gambirasio. Non c’è nulla da interpretare».
1 APRILE 2016. TRENTACINQUESIMA UDIENZA. PARLANO ALTRI 15 TESTIMONI A DISCARICO.
Bossetti, ancora testimoni a discarico. La Corte decide sulla lista dei testi. Udienza numero trentacinque, venerdì 1° aprile, al processo contro Massimo Bossetti, il muratore di Mapello accusato di aver ucciso Yara Gambirasio, scrive “L’Eco di Bergamo”. Proseguirà la carrellata dei testimoni a discarico citati dal pool difensivo dell’imputato, guidato dagli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini. Una quindicina le persone convocate: sulla falsariga dell’udienza precedente, si tratta almeno in parte di persone che frequentavano il centro sportivo e che testimonieranno di non aver notato (o addirittura di non aver mai visto in vita loro) Yara Gambirasio la sera del 26 novembre 2010, né tantomeno l’imputato o il suo autocarro. Prove «negative» secondo la difesa, perché queste persone (così come alcuni residenti delle vie Morlotti e Rampinelli) sarebbero come «telecamere viventi» che possono riferire alla Corte cosa hanno (o in questo caso non hanno) visto la sera della scomparsa. Prove da «istruttoria esplorativa» e di nessuna utilità secondo l’avvocato Enrico Pelillo, che con Andrea Pezzotta assiste i genitori di Yara, e prove del tutto inammissibili secondo il parere del pubblico ministero Letizia Ruggeri, che si è opposta all’audizione di una serie di testimoni citati dalla difesa di Bossetti. Proprio sulla lista testi, mercoledì 30 marzo, si è consumato l’ennesimo scontro tra accusa e difesa in aula: forse già venerdì la Corte scioglierà la riserva e comunicherà quanti e quali testi della corposa lista difensiva (già decurtata dagli stessi legali, da 711 nomi a 160) saranno ammessi e ascoltati nelle prossime udienze. Il pool di Massimo Bossetti vorrebbe sentire, ad esempio, una fisioterapista del centro sportivo di Brembate che disse di essere stata molestata la sera della scomparsa di Yara, ma anche un sacerdote che dovrebbe interpretare i presunti segni (per gli inquirenti si tratta di ferite e basta) trovati sul corpo di Yara, nonché i familiari di Silvia Brena, istruttrice di ginnastica il cui Dna era stato repertato sul giubbotto della vittima. Testimoni su cui la difesa insiste e che l’accusa ritiene di nessun rilievo rispetto all’imputazione contro il muratore di Mapello. La parola alla Corte, forse già nell’udienza odierna.
Processo Bossetti, la suggestione: un furgone bianco che sfreccia via. È scattata, venerdì 1° aprile, la 35ª udienza del processo Bossetti ed è continuata la serie di testimonianze di persone, chiamate dalla difesa, che gravitavano nelle ore della scomparsa di Yara Gambirasio nella zona del centro sportivo di Brembate Sopra, scrive “L’Eco di Bergamo”. Persone che hanno confermato di non aver visto né l’imputato, né il suo furgone aggirarsi nei pressi quel giorno. Si tratta, come si dice in gergo tecnico, di «prove negative» che hanno importanza secondo la difesa, ma sono irrilevanti sia per l’accusa, sia per i legali della famiglia Gambirasio. Hanno parlato, per il momento, una dozzina di persone, tra le quali diversi genitori che quel giorno, il 26 novembre 2010, avevano accompagnato i figli al centro sportivo, una guardia giurata, un dirigente di un club di basket, una donna delle pulizie e un passante che era in auto con la moglie. E proprio quest’ultimo ha raccontato di aver visto alle 18,55 un furgone bianco chiuso, con un faro spento e un portatutto sul tetto, che - da dietro il centro commerciale «Il Continente» di Mapello - è sfrecciato a tutta velocità in direzione di Ponte San Pietro. Una suggestione, la difesa non l’ha sottolineato apertamente, ma si tratta di una testimonianza che si avvicina a quella di una donna di Ambivere che era uscita di casa per portar fuori la spazzatura e aveva notato un furgone bianco allontanarsi velocemente. Ha parlato pure un uomo che lavora in un’azienda vicina al campo incolto di Chignolo d’Isola, dove il corpo senza vita di Yara venne scoperto tre mesi dopo la scomparsa, e ha raccontato di come quel campo fosse un posto frequentato dalle prostitute e fosse usato come una discarica. Nulla, comunque, di rilevante. Intanto, almeno stamattina, il processo sembra essere scemato d’interesse, nessuna ressa e poco pubblico. Presente invece, come sempre, l’imputato, in jeans e maglione viola. Si è intanto saputo che alcuni testimoni non si presenteranno per vari motivi.
Omicidio Yara. Venerdì 15 aprile sarà interrogato il figlio di Bossetti. Una lunga serie di "non ho sentito", "non ho visto nulla di strano" sono le dichiarazioni fotocopia della quindicina di testimoni che si sono alternati davanti al giudice durante la 35esima udienza del processo per l'omicidio di Yara Gambirasio, il cui unico imputato è Massimo Bossetti che anche oggi era in aula seduto al fianco dei suoi legali sempre impassibile, attento e all'apparenza rilassato, continua "L'Eco di Bergamo". Solo qualche sorriso d'intesa diretto alla sorella Letizia seduta a pochi metri da lui, il resto del tempo concentrato sulle parole dei testimoni. E' continuata così la strategia della difesa chiamata della "prova negativa", ovvero il voler dimostrare che nessuno di coloro che ha frequentato i dintorni del centro sportivo di Brembate di Sopra nella fascia oraria della sparizione di Yara cioè tra le 18.30 e le 19 del 26 novembre 2010, abbia notato particolari sospetti e tanto meno la presenza di Bossetti. Una strategia a cui comunque il giudice Antonella Bertoja ha dato un taglio deciso: dai 711 testimoni si è passati a circa 160 e ora dei quasi 100 ancora da sentire presumibilmente si passerà a una decina. Tutti gli altri sono stati considerati non rilevanti non pertinenti o sovrabbondanti. Anche per questo motivo salta l'udienza di settimana prossima e invece si torna in aula venerdì 15 aprile alle 9.30. Lo stesso giorno alle 15 sarà sentito il figlio 14enne di Bossetti, Nicolas, ma il giudice proprio per tutelare il minore ha deciso che l'interrogatorio sarà a porte chiuse.
E intanto i legali di Bossetti annunciano che molto probabilmente chiederanno la perizia sul dna. Una settimana di sosta al processo per l’omicidio di Yara Gambirasio, scrive Gabriele Moroni su “Il Giorno” il 2 aprile 2016. Alla ripresa, il 15 aprile, il maggiore dei tre figli di Massimo Bossetti, che oggi ha quindici anni, deporrà davanti alla Corte d’Assise come teste a difesa. Si inizierà alle tre del pomeriggio, a porte chiuse. La Corte presieduta da Antonella Bertoja ha ulteriormente sfoltito la lista testi della difesa (già scesa da 711 a 160), ammettendone una cinquantina. Circa quaranta sono già stati ascoltati, ne rimangono quindi una decina. Tra questi, oltre al figlio dell’imputato, una fisioterapista che dichiarò di essere stata importunata nel centro sportivo di Brembate la sera del 26 novembre del 2010, quando Yara scomparve, un tecnico della Vodafone, due testimoni scelti dalla difesa fra amici e conoscenti dell’imputato. Vengono eliminati, fra gli altri, perché le loro testimonianze sono ritenute sovrabbondanti o non pertinenti le persone presenti nella palestra la sera di quel 26 novembre, quanti si trovavano a Chignolo d’Isola per le ricerche, quanti non hanno visto niente, i responsabili dei cani “molecolari”, i giovani frequentatori di un gazebo dietro la palestra, il prete che avrebbe dovuto decifrare come “segni” le ferite su Yara, il criminologo Ezio Denti, già sentito come consulente della difesa. L’udienza potrebbe chiudere l’istruttoria dibattimentale. Esistono però due variabili. La difesa chiederà una perizia sul Dna rimasto sugli indumenti della vittima, risultato assolutamente compatibile con quello dell’imputato. «E’ inevitabile - hanno detto gli avvocati Paolo Camporini e Claudio Salvagni all’uscita -. Ci stiamo consultando con i nostri genetisti per preparare la richiesta. Secondo: la Corte deve pronunciarsi sulla richiesta dei difensori di una perizia sull’autocarro del muratore di Mapello. L’udienza scorre con una nuova sfilata di testi a difesa. Nessuno conosceva Yara, tranne uno che la ricordava a messa. Nessuno ha mai conosciuto Bossetti, tranne un uomo che ne ha parlato come di un ricordo giovanile. Nessuno ha visto la ginnasta tredicenne e l’artigiano in quella serata novembrina, nessuno si è accorto, nel fitto andirivieni attorno al centro sportivo, della presenza di un furgone sospetto, di qualcosa di strano, di un episodio anomalo. Un paio di testimonianze riservano qualche suggestione. Raffaele Verderame, di Mapello, stava rincasando in auto con la moglie poco prima delle 19 del 26 novembre 2010 quando incrociò un furgone che procedeva in senso contrario a forte velocità. Era bianco, chiuso, con un fanale spento, un portatutto sul tetto. Una testimonianza che richiama quella di una donna di Ambivere che negli stessi minuti vide passare, davanti alla sua abitazione, un furgone bianco e chiuso, da cui giunse il grido strozzato di una voce giovanile. Annibale Consonni è il factotum di un’azienda in via Bedeschi a Chignolo d’Isola accanto al grande campo dove, il 26 febbraio del 2011, venne ritrovato per pura casualità il corpo di Yara. Una delle sue mansioni era quella di eliminare arbusti e rovi nel terreno della ditta. Non scorse nulla. Non avvertì mai odori particolari, tranne in una occasione. Ma si trattava della carcassa di un cane.
Massimo Bossetti e quella toccante lettera scritta in carcere al papà, scrive l'1 aprile 2016 Giangavino Sulas su “Oggi”. A quasi due anni dall’arresto e dopo 35 udienze del processo (che è circa a metà strada), il muratore di Mapello scrive un pensiero al padre scomparso da poco. Parole toccanti, pubblicate in esclusiva da Oggi. Massimo Bossetti ha scritto dal carcere a Oggi. Che ha raccolto la sua richiesta: “So che fra tre giorni ci sarà la Festa del Papà”, scrive il muratore di Mapello, “le chiedo se cortesemente pubblica questo mio pensiero per mio Amato papà… così capiscono il dolore che mi hanno procurato nel non poterlo assistere nei suoi momenti peggiori di sofferenza in cui voleva che io gli stessi più vicino e invece non mi è stato possibile… e questa è una grave ingiustizia privato nell’accudire il proprio padre in un momento di tantissima sofferenza”. Massimo Bossetti, dopo 35 udienze di processo per l’omicidio di Yara Gambirasio, si macera nel dolore e rivolge i suoi pensieri alla famiglia e soprattutto a suo padre morto da pochi mesi. Le lettere che escono dal carcere viaggiano lentamente. Impiegano una settimana per giungere a destinazione e anche la sua è arrivata sei giorni dopo la Festa del papà. Ma è l’ennesima nella quale, con il suo italiano stentato e non sempre corretto, ci parla dell’ingiustizia che, secondo lui, sta subendo e del dolore che prova per la lontananza dai suoi affetti: “La vita e la “libertà” di un uomo che deve crescere dei bambini ha un valore inestimabile, che mi sembra chiaro che non interessa più di tanto, nessuno lo considera, troppo troppo male stanno recando ai miei figli…”. Poi rivolge il pensiero a suo padre Giovanni e gli dedica parole di gratitudine e di grandissimo affetto che pubblichiamo qui sotto. “Caro Amato papà, immagino sempre una carezza sul viso, nel buio della notte, quando tutto solo nella mia branda sono immerso nei miei pensieri, sarebbe un attimo di pace tra queste fiamme dell’inferno… O, asciugare le mie lacrime che nel mio silenzio cominciano a scendere sentendomi tutto solo con la paura che mi assale… Tutto questo per me sarebbe troppo bello e invece è solo e per sempre un unico sogno lontano dalla realtà…Papà mi manchi moltissimo, troppo ti voglio bene, un bene vero, sincero ed eterno… Purtroppo la vita terrena è breve per tutti mentre quella eterna sarà per noi tutti una vita infinita, presto o tardi ci rincontreremo e mai più nessuno potrà separarci… Questo te lo prometto!! Papà sei stato un grandissimo padre, un perfetto marito e questo mai lo dimenticherò… Papà riposa in pace. Ciao papà. Tuo amatissimo figlio Massy”.
15 APRILE 2016. TRENTASEIESIMA UDIENZA. PARLANO LUIGI NICOTERA, NICHOLAS BOSSETTI E LA FISIOTERAPISTA.
Il primo a deporre in aula il 15 aprile è stato il consulente della difesa Luigi Nicotera, perito informatico che lavora, tra l’altro, per il Tribunale di Padova, scrive “L’Eco di Bergamo”. L’esperto ha illustrato le sue analisi sui cellulari di Yara Gambirasio e Massimo Bossetti, nel corso delle quali si è cercato – tramite le celle telefoniche – di stabilire se fosse possibile individuare la posizione geografica dei due terminali la sera della scomparsa della ragazzina (26 novembre 2010) tra le 17,30 e le 18,55. Nicotera ha evidenziato che una cella telefonica più raggiungere un’ampiezza notevole, fino a 5 chilometri quadrati, e che per questo non è possibile avere la posizione esatta di un telefonino, ma solo stabilire un’area dove probabilmente si trova. Nel dettaglio, secondo il consulente, alle 17,45 il cellulare di Bossetti risultava collegato alla cella di Mapello (via Natta, settore 3) e che quello di Yara alle 18,49 era agganciato alla stessa cella (ma nel settore 1): erano dunque nello stesso posto? Secondo il perito non è possibile stabilirlo proprio per l’ampiezza della cella. Altre informazioni riguardano il modo in cui Bossetti usava il telefonino: tra il 2010 e il 2011 secondo il consulente il muratore ha telefonato sempre alle stesse persone e con la stessa frequenza, nessuna anomalia dunque e nessun cambio di abitudini nel periodo successivo alla sparizione della ragazzina. Nel pomeriggio è attesa la testimonianza del figlio di Bossetti, «importante per tratteggiare la figura del padre» ha spiegato l’avvocato Claudio Salvagni, il quale ha precisato che la deposizione «avverrà con tutte le cautele del caso». Oggi sempre la difesa dovrebbe chiedere una perizia sul Dna trovato sul corpo della ragazza che, secondo l’accusa, appartiene a Massimo Bossetti.
Bossetti, la difesa cita una fisioterapista. «Al centro sportivo un uomo mi infastidì». Nel corso dell’udienza del processo per l’omicidio di Yara Gambirasio, la difesa di Massimo Bossetti ha citato una fisioterapista che lavora nella palestra dalla quale scomparve il 26 novembre del 2010 la tredicenne poi trovata uccisa, scrive “L’Eco di Bergamo”. La donna, che con un collega ha lo studio all’interno dell’impianto sportivo, ha ricordato come circa una settimana prima del giorno in cui scomparve Yara, un paziente, un immigrato, durante una seduta le aveva rivolto degli apprezzamenti che non gli erano piaciuti e, pertanto, aveva deciso di interrompere la seduta stessa. Lo stesso uomo, nel pomeriggio in cui Yara scomparve si ripresentò nello studio. «Stavo trattando un altro paziente - ha raccontato la fisioterapista - e lui bussò alla porta dicendo di volermi vedere, non so se per fini personali o professionali». Gli dissi che doveva prendere appuntamento alla reception - ha proseguito - Quando sono uscita dalla stanza non c’era più». Il pm Letizia Ruggeri ha detto che, subito dopo la deposizione della donna, nel 2011, l’immigrato era stato perquisito, intercettato ed erano stati sentiti alcuni suoi parenti ma non era emerso nulla in relazione al delitto della ragazza. Il processo ricomincia alle 15 con la testimonianza a porte chiuse del figlio di Massimo Bossetti, che è minorenne.
La difesa chiede una valanga di perizie. Pm: agli atti le lettere infuocate di Bossetti. Udienza importante quella di venerdì 15 aprile per il processo Bossetti con la difesa che ha chiesto una valanga di perizie e il pm Letizia Ruggeri che sia prodotta la corrispondenza «infuocata» tra l’imputato e una detenuta e un supplemento d’indagini sulle telecamere che, il giorno della scomparsa di Yara Gambirasio, ripresero il furgone che per l’accusa è quello di Bossetti, per la difesa no, scrive “L’Eco di Bergamo”. I legali del carpentiere di Mapello hanno chiesto cinque perizie: ovvero quella sul Dna, che rappresenta per l’accusa la prova schiacciante che inchioda Bossetti per l’omicidio della ginnasta tredicenne, una medico-legale che stabilisca l’esatta ora del decesso, il tempo di permanenza di Yara nel campo incolto di Chignolo d’Isola e la dinamica dei fatti, una relativa alle telecamere che ripresero il furgone, e una sulle sferette e una sulle fibre, materiali rinvenuti sul furgone di Bossetti. Inoltre Salvagni e Camporini, i due legali della difesa, vorrebbero sentire altri testimoni. Si è avuta l’impressione che i due avvocati puntino a un nuovo processo nel processo con costi e tempi che si dilaterebbero ulteriormente. Il pubblico ministero ritiene invece che sia necessaria produrre la corrispondenza, dal contenuto più che sentimentale, diciamo infuocata, intercorsa tra Bossetti e una detenuta in cui il carpentiere parlerebbe anche di una sua predilezione relativa a un aspetto dell’organo sessuale femminile. Inoltre il pm chiede un supplemento di indagini sulle telecamere, che sono state oggetto da parte dei Ris di Parma di ulteriori approfondimenti per ribaltare le conclusioni a cui era arrivato Ezio Denti, criminologo che lavora per la difesa, conclusioni che sono considerate dal pm totalmente inattendibili e che falsano la realtà. Il giudice Antonella Bertoja, davanti alla valanga di richieste della difesa, ha sottolineato che si attende entro il 20 aprile le istanze scritte e che nell’udienza del 22 la Corte d’Assise si ritirerà subito per decidere sulle varie istanze. Intanto, è stato ascoltato il figlio 14enne di Massimo Bossetti. Un’udienza a porte chiuse alla quale non hanno potuto assistere nemmeno i giornalisti. Il figlio maggiore dell’imputato era arrivato in tribunale su una Renault Clio a bordo della quale c’erano la mamma Marita Comi e alla guida Denti.
Bergamo, in aula la deposizione protetta del figlio di quindici anni, scrive Gabriele Moroni su "Il Giorno". Una luce rossa (piccola piccola) si accende nell’aula severa della Corte d’Assise di Bergamo. Accade quando il pubblico ministero Letizia Ruggeri chiede ai giudici che vengano acquisite quattro o cinque delle circa quaranta lettere fra Massimo Bossetti e una detenuta del carcere di Bergamo indicata come “Gina”. Corrispondenza dai contenuti infuocati per non dire scabrosi, nella quale il carpentiere di Mapello parlerebbe anche di certe sue precise predilezioni. Secondo il pubblico ministero esiste un collegamento fra le missive hard dell’imputato e il contenuto delle ricerche sul computer individuate dai consulenti informatici della Procura. Come quella effettuata su Google nel mese di maggio del 2014, un mese prima del fermo, su “ragazzine depilate”. Più in generale, secondo il pm, il tono della corrispondenza fra Bossetti e la detenuta è indicativo di una “certa personalità dell’imputato”. La difesa si oppone all’acquisizione, giudicata né rilevante né pertinente. La Clio nera entra nel cortile interno del tribunale dieci minuti prima delle 15. Al volante Ezio Denti, accanto a lui il figlio non ancora quindicenne di Massimo Bossetti. Marita Comi, la madre, ha preso posto sul sedile posteriore. Il maggiore dei tre figli dell’uomo processato per l’omicidio di Yara Gambirasio è citato come teste a difesa del padre. Depone per circa mezz’ora, a porte chiuse. Per quanto trapela il ragazzo è stato sentito sull’uso dei due computer di casa, un fisso e un portatile. Al termine nessuna dichiarazione da parte dei difensori e un commento severo, invece, da parte di uno dei legali di parte civile della famiglia Gambirasio. I difensori vanno all’attacco. La richiesta è quella di numerose perizie e se venisse accolta significherebbe un allungamento dei tempi, se non addirittura il rifacimento, del processo a Massimo Bossetti. I difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini attaccano il Dna, per l’accusa la prova regina contro Bossetti: la traccia 31 G20, la “firma” dell’aggressore rimasta su leggings e slip di Yara. «Macroscopiche anomalie - è la tesi d’attacco esposta da Salvagni - sono state evidenziate dai consulenti e non sono mai state risolte. La questione della mancanza del Dna mitocondriale è stata affrontata ed è stata tentata una spiegazione, ma non è stata trovata una soluzione. Nel farlo, i consulenti dell’accusa si sono contraddetti fra di loro, a differenza dei nostri due consulenti. L’assenza del Dna mitocondriale invalida la prova scientifica, ma anche il Dna nucleare presenta numerosi problemi». Inoltre, saetta il difensore, sono utilizzati kit scaduti, anche da mesi se non da oltre un anno, e i test non sono stati reiterati come si sarebbe dovuto. Prima richiesta: perizia su questa traccia biologica, il Dna di “Ignoto 1” (identificato con Massimo Bossetti). Seconda richiesta: esame dei reperti (i tamponi sul corpo della vittima, gli indumenti, i margini delle unghie) perché il perito verifichi la presenza di eventuali tracce di Bossetti o di altri. Confronto genetico fra i due Dna, uno maschile e l’altro femminile, rintracciati sui guanti di lana di Yara e i campioni piliferi rimasti vittima. La difesa chiede anche una perizia medico legale sulle modalità dell’omicidio che verifichi se l’assassino di Yara fosse destrimano o mancino l’arma da taglio impiegata, l’ora della morte, ,il tempo di permanenza del cadavere nel campo di Chignolo d’Isola dove venne ritrovato, a tre mesi dalla scomparsa. Perizie sulle fibre e le sferette metalliche trovate sul corpo, i leggings e il giubbotto di Yara, La difesa chiede infine un allineamento delle tre telecamere (due di una ditta e la terza di un chiosco) che la sera del 26 novembre 2010 ripresero un furgone come quello di Bossetti. L’orario segnato dal time code delle telecamere sarebbe almeno 10 minuti in ritardo rispetto a quello effettivo.
I diari della moglie di Bossetti: "Ora ho paura per i miei bimbi". Ecco la seconda parte del memoriale della donna: "Tremo pensando che a scuola possano chiamarli i figli del mostro", scrive Andrea Acquarone, Venerdì 15/08/2014, su "Il Giornale". Una detenzione che comincia a somigliare a un «sequestro». Di persona. Massimo Bossetti, langue in cella da 2 mesi, contro di lui una traccia del suo Dna trovato sul cadavere della vittima. Indizio pesante, certo. Per il resto, finora nulla. Almeno ufficialmente. Dunque? Perché non permettergli di affrontare un processo, da presunto colpevole ma uomo libero? Come del resto già accaduto in tanti casi analoghi. Attorno al muratore quarantaquattrenne di Mapello, accusato di aver ucciso Yara Gambirasio il 26 novembre 2010, si cerca di far quadrare il cerchio di un'inchiesta che non ha mai davvero convinto. Zeppa di errori, silenzi, piste sbagliate, qualcuna invece forse trascurata o dimenticata. Un'indagine quasi chiusa e all'improvviso riaperta. Fino al coup de théâtre finale. Da quasi 60 giorni la procura di Bergamo, aspetta dal «mostro» sbattuto in prima pagina dal ministro Alfano, una confessione che non arriva. Continua a proclamarsi innocente lui, il «temerario». Così sotto torchio, nella speranza di trovare un fatidico «inciampo» ecco finire la sua famiglia. L'altro ieri 2 ore d'interrogatorio sono toccate alla suocera, Adelina Bolis. Ha 73 anni, vedova, malata. Vive nella stessa casa di Bossetti, al piano terra, lui sopra. «Mi mancano i suoi abbracci, le sue coccole quotidiane. E non è vero che litigasse con mia figlia: erano una coppia serena», ha ripetuto agli investigatori che continuavano a chiederle dei suoi ricordi. Una vita cadenzata, come quella di Massimo. Che tutti i giorni si fermava a tenerle un po' di compagnia. E che la domenica la invitava a pranzo da lui. Sempre. Ieri la pm Letizia Ruggeri avrebbe voluto scovare quei segreti che non si trovano chiamando di nuovo in caserma la moglie di Bossetti. Un buco nell'acqua. Marita Comi avrebbe parlato volentieri, chiedeva solo di avere al fianco l'avvocato, Claudio Salvagni. Di fronte a un no si è avvalsa della facoltà di non rispondere. Non è indagata, lei. Ancora una volta, però, si confessa attraverso il settimanale «Gente». Pensa a proteggere i suoi bambini. Sa che a settembre non saranno più Nicolas, Alice e Aurora soltanto, «ma i figli del «mostro». «Da quel momento saranno senza lo schermo familiare che con apprensione abbiamo costruito attorno a loro e che pare reggere», spiega Marita parlando a occhi bassi. «Ora mi sembrano sereni, anche se capisco che certi aggettivi stridono con la nostra situazione..., forse è meglio dire tranquilli. Loro non fanno più domande. «Se vedono trambusto fuori casa si limitano a chiedere: Sono venuti per noi?». Marita, ricorda il giorno dell'arresto del marito: «Quando i carabinieri vennero a casa, alla Piana di Mapello, erano dovunque, sulle scale e nelle stanze: mi sentii come sotto un bombardamento. È la casa di Bossetti questa? chiese quello che comandava. Certo, ma è successo qualcosa? Suo marito è in stato di fermo... conosce la storia di Yara? Sì che la conosco, ma che c'entra? Dov'è mio marito? Cosa volete dal Massi, io Massimo lo chiamo così, dove l'avete portato? Non capivo più nulla, non sapevo che cosa fare... La conosce quella storia? - ripeté il carabiniere - il Dna è di suo marito. Adesso si calmi. Ma io non riuscivo a riprendermi, ero spaventata, piangevo, non sapevo se sedermi o restare in piedi, a chi aggrapparmi. Dobbiamo perquisire la casa, dissero. Fatemi chiamare qualcuno, implorai. Telefonai a Fabio, il fratello di Massi. Intanto, visto il trambusto, era arrivato mio fratello Agostino, che abita lì vicino, e mia cognata. Poi ci trasferirono in caserma per gli interrogatori. Eravamo tutti là, anche la famiglia di mio marito. Io, stordita e incredula, pensavo ma non ricordo neppure a che cosa. Il Dna è del Massi, il Dna... Ed è stato lì che mi hanno detto che mio marito non era figlio di Giovanni, mio suocero, ma dell'autista di Ponte Selva, che mia suocera Ester l'aveva avuto da lui, non da Giovanni». Fu in quel momento che Marita rivolse la famosa frase: «Ma come, Ester, non ci hai detto niente? Perché»? «In realtà, credo di averle detto che se Massimo non era figlio di Giovanni Bossetti ma di Guerinoni sarebbe stato bene ammetterlo subito piuttosto che scoprirlo così. Che altro potevo dirle? Ora mi rendo conto che forse non aveva alcun senso. Se lei giura che non è vero che ha avuto rapporti con Guerinoni, che il Dna dà un risultato sbagliato, cosa avrebbe dovuto dirci prima? Come poteva raccontarci quella che lei ritiene una storia non vera? Non ci ha detto niente perché dal suo punto di vista non c'era niente da dire... A questa cosa ci penso, ma non sono arrivata a una conclusione né a una convinzione. Io non sono una biologa. E se Ester giura che c'è un errore penso che potrebbe essere davvero così». Se mentisse? «Ho sentito dire che è ininfluente, che basterà stabilire se il Dna sulla piccola Yara è di mio marito o no, che il resto non conta, ma io so che non sarà così: tutto sarà sviscerato... tutte le cose di famiglia saranno passate al setaccio, davanti a tutti».
Marita Comi. Una Signora d'altri tempi, donna di classe, moglie e madre coraggio..., scrive Gilberto Migliorini il 14 aprile 2016. Nel panorama di veline e letterine della nostra tv così edificante ed educativa, ci sono donne costruite un po’ col trucco fotogenico e un po’ con le frasi fatte e le retoriche di circostanza. Un repertorio di luoghi comuni che piace tantissimo all'audience, soprattutto per quelle femministe di maniera e quelle signore con tanto di pedigree e l’aria fatale da primedonne in carriera…È sempre più difficile reperire persone, nell'attuale teatrino mediatico, che si mostrino vere e non siano solo l’immagine della donna convenzionale a cui ci stanno abituando. Sul palcoscenico dove recita il personaggio a la page si trova una variegata fenomenologia riguardo al gentil sesso: una donna un po’ arrivista con lo sguardo furbo della femmina in carriera, un po’ suffragetta da Cahier de Doléances des femmes, un po’ mezzobusto androgino, un po’ indossatrice di paccottiglia ideologica e formattata secondo gli attributi e gli accessori del politicamente corretto. I media ci propinano una femmina alla moda, assemblata secondo i canoni estetici e culturali del fotoromanzo, della rivista patinata e dello standard ecumenico. Ci spacciano per donna moderna "un’eroina in tanga e guêpière", una vamp dalle trasparenze allusive che recita, male, la battuta studiata a tavolino, oppure l’intellettuale con il suo repertorio di frasi ad effetto e di abiti mentali nella classica passerella del prêt-à-porter. Si tratta di una silloge variegata, ideologicamente testata e certificata: imitatrici, collaboratrici, adescatrici, sostenitrici, imbonitrici… L’universo femminile è trattato all'apparenza con un occhio di riguardo, con le retoriche di maniera, con un galateo da cicisbei in un formalismo di bon ton servizievole e infingimenti galanti, malcelata supponenza da parte di un maschilismo collusivo. Stupisce che possano esistere ancora mogli e madri che ricordano personaggi femminili d’altri tempi quando la donna non era quel idealtipo convenzionale e artefatto che la tv ci propina a getto continuo educando generazioni di ragazze al culto dell’apparire secondo i dettami delle convenzioni sociali e dell’icona di successo. In qualche caso è la solita tirata ideologica della casalinga impegnata sul fronte del ménage familiare e del politichese, magari casa e chiesa, testimone dell’impegno ideologico-filantropico, madre devota al culto del proselitismo e della ricerca salvifica. Oppure si tratta di un femminismo arrapato e inconcludente, che scimmiotta le educande, o al contrario le incazzate... ma con l’intimo di classe e l’abito firmato. La donna a la page fa tanto immagine fashion e soprattutto ricaduta commerciale vendendo insieme anche il logo in un banner d’etichetta e l’e-commerce dello slogan dell’eterno femminino nella celebre definizione goethiana. Donna simbolicamente gravida un po’ nello spot e un po’ nel kamasutra e nella palingenesi della pubblicità-propaganda. Il diavolo e l’acqua santa per una lei che se non proprio acqua e sapone è perlomeno costruita secondo i dettami dell’ultima moda, dove il trucco non si deve vedere nemmeno quando la ricostruzione ne appiattisce l’immagine con un lifting che bamboleggia sorrisi inamidati e istantanee da cartongesso. Sul piccolo schermo l’elemento femminile appare sempre più irrigidito in un involucro plastificato, donne con la consistenza delle taglie standard, l’audacia della scollatura e delle trasparenze osé confezionate come pacchetti regalo o come trespoli dell’alta moda, mannequin da rappresentanza dove appendere l’ideologismo in-formato, ‘presenziatrici’ e ‘prezzemoline’ ad effetto arredo, intellettuali con la proverbiale puzza sotto il naso e sotto il vestito il solito slogan ad effetto, magari in decalcomania o direttamente con tatuaggio scarnificato sul margine delle vergogne. Emancipazione da integrate alla pari, rispetto a un maschio lenone e padre padrone: condivisione dei ruoli e del potere, se non nella sostanza almeno nelle prebende e nella capacità di sedurre assatanati che sbavano per corpi con la consistenza dei pneumatici da fuoristrada, un po’ siliconati e un po’ formattati con o senza intimo di ordinanza. Una lei in atteggiamenti fatali, inquietudini romantiche tra abbandoni e riconciliazioni, illusorie Case di bambola alla Ibsen, sofferte conversioni alla Storia di una capinera, Ermione illuse dalla d’annunziana favola bella. L’immagine culturale della donna sulla pagine delle riviste patinate ha sempre più la consistenza dell’oggetto virtuale, un ectoplasma delle trasparenze anatomiche di un erotismo da catena di montaggio con le chiappe di serie e gli attributi invarianti anche quando la posa dovrebbe essere sensuale e allusiva: manichini con un’anima polimerica e un corpo carrozzato e accessoriato di gadget, riprodotto con stampi come da catalogo, labbra e zigomi testati secondo le iniezioni e le protesi comprese nel format. La signora Marita Comi materializza un tipo di donna che si credeva estinto definitivamente con i nuovi modelli artificiali della tivù commerciale. Una signora che non solo ha coraggio e fegato da vendere, una dignità di donna da far impallidire tutte quelle prefiche che veleggiano nell’etere, ma che offre un modello autentico e non contraffatto di moglie e compagna accanto a un marito bersagliato dalla cattiva sorte e da accanimento giudiziario. Si rimane sorpresi che esistano ancora donne vere, non alterate e assemblate come certe comparse televisive dove non sai mai bene se sotto lo chassy ci sono davvero muscoli e nervi o solo pulegge e ingranaggi che muovono corpi al silicone e con un’anima di sintesi modulare. Stupore per una madre coraggio e una moglie devota che parla della pornografia della quale il benpensante si scandalizza come se la televisione che guarda giornalmente non ne fosse colma fino all'orlo. No, quella non si vede, troppo dispersa negli opportunismi di maniera e nelle procedure autorizzate mostrando le vergogne, quelle vere, sotto forma di moralismi accattivanti, luoghi comuni da contorsionisti ed equilibristi che ciurlano nel manico con una faccia di bronzo così disinvolta da fare invidia a una campana. Non la pornografia delle nudità, ma quella dei conformismi, degli opportunismi e delle ipocrisie, quell'Italia intramontabile alla don Abbondio, di una pruderie da bacchettoni e baciapile che non si scandalizzano per i potenti che hanno fatto del Paese un immenso commercio di anime svendute a prezzo di saldo. Una donna che fa scandalo per i bigotti che non battono ciglio di fronte allo spettacolo inverecondo, per non dire postribolare, di quel sottobosco politichese. Tutto un sistema di corrotti, corruttori e corruttibili fanno del Paese il più bell'esempio di modello di falsi devoti, un mondo di lenoni e di fedifraghi dove del sesso se ne fottono per davvero. La signora Comi spicca invece come una donna vera, senza infingimenti e senza trucco, con un coraggio e una dignità da far invidia a tanto gentil sesso di maniera, quella nobiltà di parvenu e aristocrazia da salotto in una tivù di donzelle costruite con l’ago e il filo, imbastite con gli accessori di battute già pronte e il solito copione di luoghi comuni precotti, surgelati, e tanta panna montata. La signora Marita di fronte a un Italia che vive di compromessi, mezzucci e ipocrisie, è una donna che canta davvero fuori dal coro, moglie e madre che dimostra come nell'Italia dei media esistono ancora donne autentiche, di spessore morale, di cuore e di valore.
22 APRILE 2016. TRENTASETTESIMA UDIENZA. LA DECISIONE SULLE RICHIESTE DI PERIZIE E LETTERE HARD.
Bossetti e le lettere alla detenuta. La difesa: devono essere acquisite tutte. Se deve entrare nel processo la corrispondenza, talvolta dal contenuto scabroso, tra Massimo Bossetti, imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio, e una detenuta del carcere di Bergamo, Gina, questa deve essere acquisita tutta. È la richiesta dei difensori del muratore di Mapello, in risposta all’istanza del pm Letizia Ruggeri che aveva appunto chiesto l’acquisizione di alcune di queste lettere, scrive “L’Eco di Bergamo”. «Queste lettere - ha detto l’avvocato Paolo Camporini - vanno contestualizzate e si tratta di lettere sintomo di una situazione affettiva compromessa, tanto che in paese più civili del nostro, sono allo studio dei provvedimenti proprio sull’affettività in carcere». «Si tratta - ha proseguito il legale - di corrispondenza tra adulti e che non contiene riferimenti alle ricerche nei computer (di Bossetti, ndr), come sostenuto dall’accusa. Se serve per delineare la personalità dell’imputato in quelle lettere vi è una ripetuta proclamazione di innocenza e di fiducia nei giudici. Vi sono anche parole riguardanti la vittima che, se non sincere, non avrebbero senso, dal momento che Bossetti stava intrattenendo una corrispondenza con una persona che non aveva mai conosciuto». L’udienza del 22 aprile si è aperta con l’ennesimo scontro tra difesa e accusa. L’avvocato Claudio Salvagni ha voluto far mettere a verbale gli «apprezzamenti pesantissimi» che il pm avrebbe rivolto ai difensori parlando con i legali di parte civile. «Non so di che cosa stia parlando - ha replicato l’avvocato Andrea Pezzotta -: è incredibile che si parli in aula di affermazioni che, come dice la difesa, sarebbero state riferite dal pubblico ai difensori». Dopo l’intervento del pm Letizia Ruggeri e quello della parte civile, la Corte d’Assise di Bergamo dovrebbe leggere nel pomeriggio una ordinanza sulle prove chieste all’esito del dibattimento. Tra queste anche una perizia sul Dna, sollecitata dalla difesa.
Bossetti, il pm si oppone alle 5 perizie. La Corte riunita per decidere. Il pm Letizia Ruggeri nell’udienza del 22 aprile si è opposta a tutte e 5 le perizie chieste dalla difesa del muratore di Mapello imputato per l’omicidio di Yara. La Corte si è riunita per decidere, nel pomeriggio il verdetto, scrive “L’Eco di Bergamo”. Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, difensori di Bossetti, nella scorsa udienza avevano invocato ben cinque perizie, chiedendo alla Corte di disporle. I legali avevano sostenuto la necessità di nuovi accertamenti tecnici in materia genetica (Dna), medico legale (dinamica dell’omicidio), chimica (fibre e micro sfere) e videofotografica (sulle telecamere). Nell’udienza di oggi il pm Letizia Ruggeri si è opposta a tutte e 5 le richieste di perizia, sostenendo che si tratta di argomenti già «ampiamente istruiti e approfonditi». In materia di telecamere, invece, era stato proprio il pm a chiedere l’acquisizione di indagini integrative svolte di recente dai Ris con la collaborazione del dipartimento di Ingegneria civile dell’Università di Parma «che confermano le nostre conclusioni», riguardo alla identificazione probabile del mezzo ripreso nei video con l’autocarro in uso a Bossetti e «dimostrano che le misurazioni del consulente della difesa (sull’argomento aveva testimoniato il criminologo Ezio Denti, ndr) sono inattendibili». Anche sulla richiesta della difesa di acquisire tutte le lettere tra Bossetti e la detenuta Gina, il pm ha detto no: è sufficiente, secondo il magistrato, acquisire 5 lettere ritenute rilevanti per le indagini. Per quanto riguarda la perizia sul Dna, la parte civile invece ha deciso di non opporsi formalmente, anche se i legali ritengono che non sia necessaria: «Non ci opponiamo mai ad accertamenti che puntano a trovare la verità – ha spiegato l’avvocato di parte civile Andrea Pezzotta, che assiste la famiglia di Yara con il collega Enrico Pelillo – anche se in questo caso una perizia del genere non porterebbe nulla di più». L’avvocato Pelillo ha aggiunto che il dibattimento ormai «può dirsi concluso» e si potrebbe passare alle conclusioni del processo. I giudici della Corte d’Assise di Bergamo dopo aver ascoltato le parti si sono riuniti comunicando che leggeranno non prima delle 15,30 l’ordinanza sulle prove chieste dopo la fine del dibattimento. Se la Corte dovesse respingere le istanze delle parti, il processo si avvierebbe alle conclusioni e le prossime udienze verrebbero fissate per la requisitoria finale del pubblico ministero e le arringhe dei difensori. Poi, la sentenza. Se invece dovessero essere disposti accertamenti tecnici, i tempi inevitabilmente si allungherebbero, in attesa dei risultati.
Bossetti, respinte tutte le cinque perizie. Caso Yara, la sentenza attesa per l’estate. La decisione della Corte d’Assise di Bergamo sulle 5 perizie richieste dai difensori del muratore di Mapello a processo per il delitto di Yara, scrive “L’Eco di Bergamo”. La Corte oggi era chiamata a decidere se disporre o meno le perizie richieste dagli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, difensori di Bossetti. Tutte e cinque sono state respinte. Nel dettaglio, i legali nella scorsa udienza avevano sostenuto la necessità di nuovi accertamenti tecnici in materia genetica (Dna), medico legale (dinamica dell’omicidio), chimica (fibre e micro sfere) e videofotografica (sulle telecamere). Nell’udienza di oggi, 22 aprile, il pm Letizia Ruggeri si è opposta a tutte e 5 le richieste di perizia, sostenendo che si tratta di argomenti già «ampiamente istruiti e approfonditi». Il pm si è opposto anche al richiesta, formulata sempre dalla difesa, di acquisire tutte le lettere tra Bossetti e la detenuta Gina: bastano, secondo il magistrato, 5 lettere ritenute rilevanti per le indagini. Il giudice Antonella Bertoja ha spiegato che «in materia di dna ogni ulteriore approfondimento si palesa come non decisivo». Sui filmati delle telecamere l’approfondimento è stato giudicato «superfluo», così come sulle fibre. Per quanto riguarda le telecamere, invece, era stato proprio il pm a chiedere l’acquisizione di indagini integrative svolte di recente dai Ris con la collaborazione del dipartimento di Ingegneria civile dell’Università di Parma «che confermano – aveva spiegato – le nostre conclusioni», riguardo alla identificazione probabile del mezzo ripreso nei video con l’autocarro in uso a Bossetti e «dimostrano che le misurazioni del consulente della difesa (sull’argomento aveva testimoniato il criminologo Ezio Denti, ndr) sono inattendibili». Gli avvocati parte civile parte civile invece non si sono formalmente opposti alla richiesta di perizia sul Dna, pur ritenendola non necessaria: «Non ci opponiamo mai ad accertamenti che puntano a trovare la verità – è la dichiarazione dell’avvocato di parte civile Andrea Pezzotta, che assiste la famiglia di Yara con il collega Enrico Pelillo – anche se in questo caso una perizia del genere non porterebbe nulla di più». L’avvocato Pelillo ha poi aggiunto che il dibattimento ormai «può dirsi concluso».
Caso Yara, giudici: no alla richiesta di perizie, il processo va avanti. I giudici hanno respinto le richieste di perizie sul Dna e sull'allineamento delle telecamere di sorveglianza chieste dai legali della difesa di Bossetti. Accolta la richiesta di relativa alla corrispondenza tra Bossetti e una detenuta: saranno acquisite tutte le missive, scrive Gabriele Moroni Bergamo il 22 aprile 2016 su “Il Giorno”. Nuova tappa del processo sul caso Yara. Nel pomeriggio i giudici della Corte d'Assise di Bergamo hanno respinto le richieste di perizie sul Dna e sull'allineamento delle telecamere di sorveglianza chieste dai legali della difesa di Massimo Bossetti. I giudici non hanno accolto la richiesta ritenendo "non decisivo ogni ulteriore accertamento" sul punto nell'ambito del dibattimento. È invece stato ritenuto "superfluo" l'accertamento chiesto dalla difesa sulle telecamere che avrebbero ripreso il furgone di Bossetti il giorno della scomparsa di Yara. Il processo pertanto prosegue. Questa mattina a tener banco è stata anche la corrispondenza tra Massimo Bossetti (accusato dell'omicidio della ginnasta tredicenne di Brembate) e una detenuta. Accolta la richiesta della difesa di far entrare l'intera corrispondenza (talvolta dal contenuto definito "scabroso") a processo. Si tratterebbe di un epistolario di circa quaranta lettere. La richiesta dei difensori di Bossetti è arrivata in risposta all'istanza del pm Letizia Ruggeri che aveva appunto chiesto l'acquisizione di alcune di q cinque missive. "Queste lettere - aveva sottolineato l'avvocato Paolo Camporini, uno dei legali di Bossetti - vanno contestualizzate e si tratta di lettere sintomo di una situazione affettiva compromessa, tanto che in paese più civili del nostro, sono allo studio dei provvedimenti proprio sull'affettività in carcere". "Si tratta - aveva proseguito il legale - di corrispondenza tra adulti e che non contiene riferimenti alle ricerche nei computer (di Bossetti, ndr), come sostenuto dall'accusa. Se serve per delineare la personalità dell'imputato in quelle lettere vi è una ripetuta proclamazione di innocenza e di fiducia nei giudici. Vi sono anche parole riguardanti la vittima che, se non sincere, non avrebbero senso, dal momento che Bossetti stava intrattenendo una corrispondenza con una persona che non aveva mai conosciuto". Anche stamani non sono mancati alcuni momenti di tensione. L'udienza si è infatti aperta con l'ennesimo scontro tra difesa e accusa. L'avvocato Claudio Salvagni ha voluto far mettere a verbale gli "apprezzamenti pesantissimi" che il pm avrebbe rivolto ai difensori parlando con i legali di parte civile. "Non so di che cosa stia parlando - ha replicato l'avvocato Andrea Pezzotta -: è incredibile che si parli in aula di affermazioni che, come dice la difesa, sarebbero state riferite dal pubblico ai difensori". La sentenza per i processo a carico di Massimo Bossetti, imputato per l'omicidio di Yara Gambirasio verrà pronunciata dopo il 10 giugno. La Corte ha rinviato le udienze al prossimo 13 maggio, quando è prevista la requisitoria del Pubblico ministero. A seguire, nelle settimane successive, le requisitorie della parte civile e della difesa.
Caso Yara, intervista esclusiva all’avvocato di Massimo Bossetti: “Lettere agli atti clamoroso autogol dell’accusa”. Intervista esclusiva di UrbanPost il 28 aprile 2016 a Claudio Salvagni, avvocato di Massimo Bossetti: dalle lettere scabrose dell’imputato a una detenuta, al "no" della Corte a una nuova perizia sul Dna. Ecco come il legale ha risposto alle nostre domande. Il "no" della Corte d’Assise di Bergamo a una nuova perizia sul Dna, la decisione, invece, di accogliere la richiesta dell’accusa e acquisire agli atti del processo le presunte lettere scabrose scritte da Massimo Bossetti a una detenuta. La insoluta discrepanza tra Dna nucleare e mitocondriale della traccia biologica mista trovata sui leggings e gli slip di Yara Gambirasio, che per l’accusa appartiene alla vittima e al carpentiere unico imputato al processo sull’omicidio della ginnasta di Brembate. A poche settimane dalla sentenza di primo grado, di queste ed altre tematiche UrbanPost ha parlato direttamente con Claudio Salvagni, difensore, insieme a Paolo Camporini, di Massimo Bossetti. Ecco come il legale ha risposto alle nostre domande:
"No" a nuove perizie, in primis quella sul Dna, e sì, invece, alle presunte lettere scabrose tra Bossetti e la detenuta Gina, che entreranno dunque nel processo. Lei come giudica questa decisione della Corte?
“Non è semplice interpretare il pensiero della Corte, io parto sicuramente da un dato certo: allora, nella fase cautelare in sede di Riesame, il tribunale di Brescia aveva detto che le anomalie che la difesa aveva evidenziato (mi riferisco alla mancanza del mitocondriale di Ignoto 1) necessitavano di una risposta. Quindi, questa risposta sarebbe dovuta arrivare attraverso una perizia o un incidente probatorio; questo avevano detto i giudici del Riesame. La Cassazione, alla quale noi ci siamo rivolti impugnando quel provvedimento, ha evidenziato come il tribunale del Riesame si era fatto onestamente carico del problema, però non poteva entrare nel merito della questione, essendo giudice di legittimità e non di merito, e non poteva dirimere questa controversia. Il dibattimento sicuramente non ha dato delle risposte, non ha chiarito come mai c’è questa mancanza (del Dna mitocondriale ndr), se c’è una risposta scientifica a questa mancanza; ha lasciato aperti tutti gli interrogativi che c’erano allora … Quindi la domanda è: come mai la Corte ha deciso di non concedere questa perizia? Io credo perché a quell’interrogativo non vi sia risposta, quindi anche sentire un perito in più non avrebbe portato un elemento scientifico dirimente; per questo ritengo che quella parte di indagine non potrà essere usata, questa è la mia conclusione, ecco, ed ha una logica sia giuridica che processuale.”
Tornando alle missive tra Massimo Bossetti e la detenuta, a suo giudizio il loro contenuto potrà inficiare l’andamento del processo? Queste lettere potranno influenzare negativamente la Corte?
“Credo che questo sia stato un clamoroso autogol da parte dell’accusa: produrre parte della corrispondenza tra due detenuti con l’intento di mettere l’occhio nel buco della serratura, per scrutare le propensioni sessuali di un detenuto, è secondo me non soltanto operazione voyeuristica che nulla ha a che vedere col processo, ma in questo caso sarà come un boomerang e spiego il perché. Estrapolare una riga su una, due pagine di lettere è un’operazione non corretta, infatti noi prima di opporci all’acquisizione ci siamo riservati la lettura – cosa che abbiamo fatto – e la lettura ci restituisce un contenuto molto diverso da quello che invece era stato prospettato in maniera così sintetica, ovvero: anzitutto Bossetti continua a proclamarsi innocente nelle lettere, ha delle parole molto belle anche nei confronti della vittima, evidenzia il suo stato di prostrazione, il desiderio di avere un rapporto non soltanto fisico, ma anche affettivo, quindi sono parole, come dire, molto tenere … E poi, ovviamente, c’è anche il contenuto più ‘oltre’ – chiamiamolo così, ecco – che fa parte dell’essere, della vita dell’uomo. Quindi noi abbiamo chiesto l’acquisizione di tutta la corrispondenza proprio per inquadrare perfettamente la persona e la Corte in questo senso ha accolto la nostra richiesta, quindi le lettere entreranno a far parte del compendio processuale. Se queste avranno un riscontro positivo o negativo lo scopriremo con la sentenza, io non posso che vederlo positivamente”.
A proposito della “prova regina” del Dna, che è il perno stesso dell’impianto accusatorio a carico di Bossetti: se per l’attribuzione di un profilo genetico a un individuo viene fatto riferimento solo al Dna nucleare, per quale motivo voi in questo caso ritenete che questo non sia sufficiente a dimostrare che quella traccia ematica appartenga al vostro assistito?
“Guardi è molto semplice: è come con le moltiplicazioni, quando a scuola facevamo la cosiddetta “prova del 9” per verificare se la moltiplicazione l’avevo svolta in maniera corretta … questa è la stessa cosa. Il Dna mitocondriale non è qualcosa che in natura ha più o meno importanza, il Dna mitocondriale deve “mecciare” con il suo nucleare. Il mitocondriale è quello che ci dà la nostra mamma, se ce n’è un altro vuol dire che è stato sbagliato il nucleare o che sono sbagliati tutti e due. Sicuramente c’è qualcosa che non va … il Dna nucleare è sufficiente a identificare le persone, è vero, ma se poi io vado a fare la prova del 9, e non torna, vuol dire che c’è un errore. Questo è il ragionamento semplicissimo e sintetizzato, questo è il punto”.
Diversamente da altri imputati, che spesso si avvalgono della facoltà di non rispondere, Massimo Bossetti ha scelto di prendere parola al processo. Quindi lui ha parlato, ha addirittura ‘affrontato’ la Corte mettendo, in alcuni passaggi, anche in discussione l’onestà di alcuni testimoni. Secondo lei questo atteggiamento si rivelerà controproducente per il suo assistito?
“Non lo so, io posso soltanto dire che questo è il signor Massimo Bossetti, nel senso che non ha sicuramente assunto un atteggiamento per ‘captare la benevolenza’ della Corte, cioè non ha detto delle cose per imbonirsi la Corte. Ha detto quello che lui riteneva giusto dire in quel momento, quello che per lui è la verità. Quindi se ci sono stati dei testimoni che in dibattimento hanno detto il falso – e ce ne sono stati tanti, questo glielo posso certificare io – lui lo ha espressamente denunciato. Non è possibile sentire dei testimoni dire delle cose palesemente false e poi essere smentiti dal teste successivo … falsi in questo senso, ecco, perché sicuramente uno dei due ha detto una cosa falsa, bisogna capire chi. Quindi questo è il personaggio Bossetti: davanti alla Corte ha ribadito la sua verità, con forza e convinzione, senza timore di esprimere il suo pensiero”.
Per quanto riguarda la testimonianza al processo del figlio minorenne di Bossetti: era così indispensabile coinvolgerlo in prima persona in questa situazione già di per sé delicata, le sue parole avranno un peso alla fine? Era così importante chiamarlo in causa?
“Per noi sì, era importante. Era il tassello che serviva per chiudere un mosaico, perché è un ragazzo di 15 anni, certamente molto provato per tutto quello che è successo ma che ha conservato una sua genuinità, e che ha una sua freschezza, una sua spontaneità che ha restituito alla Corte. Quindi sentir parlare il figlio maggiore di Bossetti è stato secondo me molo importante perché con la spontaneità di quell’età ha detto delle cose molto importanti”.
LE LETTERE A GINA. Nella puntata di Quarto Grado in onda il 29 aprile 2016 per la prima volta vengono letti alcuni stralci delle famose lettere che Massimo Giuseppe Bossetti ha inviato in carcere a una amica conosciuta proprio tramite le missive. Bossetti e la sua “amica di penna” non si sono infatti mai visti ma si sono conosciuti proprio per corrispondenza, scrive Procopio Filomena su “Ultime Notizie Flash” il 30 aprile. Lui e Gina si sono mandati molte lettere dal contenuto amichevole, lettere di cui però si è molto parlato anche nelle aule del tribunale di Bergamo durante il processo per l’omicidio di Yara Gambirasio. Secondo l’accusa infatti le lettere scritte da Bossetti avrebbero dei contenuti “hot” che ne descriverebbero la natura. Ieri, per la prima volta, abbiamo capito quali siano questi contenuti. Nella puntata di Quarto Grado infatti, l’avvocato Salvagni porta le lettere del suo assistito e spiega che sono normali lettere. “In carcere tutto diventa diverso, c’è un modo di vivere che noi non possiamo capire e nascono anche questo genere di rapporti” dice l’avvocato. Ma cosa racconta nelle sue lettere Bossetti? Alla sua amica Gina spiega di essere innocente, le dice che nella sua cella ha una foto di suo padre, che è felice di sapere che lui e Yara in Paradiso si sono incontrati perchè adesso entrambi sanno la verità. Parla con loro e prega affinchè possa dimostrare la sua innocenza. Si dice felice di avere una nuova amica con cui parlare, un’amica a cui ha deciso di mandare molte lettere per sfogarsi. Parla di quanto sia difficile stare in aula per tante ore, di come sia difficile difendersi dalle accuse. Ma quando i toni cambiano Bossetti le fa anche delle confidenze. In una delle lettere che viene mostrata in tv, Bossetti si descrive, racconta di essere biondo, di avere degli occhi particolari, color ghiaccio che al sole cambiano. Di come ci tenga alla forma fisica e anche al suo aspetto tanto da depilarsi sempre. Le spiega che si depila anche nelle parti intime; lo ha fatto una volta perchè è stata Marita a chiederle di farlo e da quel momento ha continuato. Le chiede poi di aprirsi, di essere sincera come lui ha fatto con lei. In queste lettere Bossetti avrebbe anche detto alla sua amica di preferire la “vagina rasata” parole che aveva anche cercato sul web, secondo l’accusa. Parole quindi che ritornano nelle ricerche fatte dal computer.
Bossetti schiavo del sesso? Le lettere porno alla detenuta Gina svelano dettagli hot, scrive Procopio Filomena su “Ultime Notizie Flash” il 4 Maggio 2016. In esclusiva sul numero di Giallo in edicola questa settimana le lettere dal contenuto “hot” che Massimo Bossetti ha mandato alla detenuta Gina, sua amica di penna, negli ultimi mesi. Già qualche giorno fa vi avevamo parlato delle lettere che Bossetti ha scritto alla sua amica, facendovi leggere i contenuti delle lettere di cui si era parlato nella trasmissione televisiva Quarto Grado. Sulla rivista dedicata alla cronaca però, vengono oggi pubblicate delle lettere diverse e i contenuti sono più spinti rispetto a quelli che avevano potuto “leggere” fino a questo momento. Bossetti, in carcere con l’accusa di essere l’assassino di Yara Gambirasio, scrive a Gina per distrarsi e con lei parla un pò di tutto. “Cara Gina, spesso di notte ti penso. Non sai quanto mi piacerebbe venire lì da te, nella tua cella. Devi sapere che ci tengo tantissimo al mio corpo. Sai, sono depilato” è questo uno stralcio di una lettera che Bossetti ha scritto alla sua amica. Ma perchè l’accusa ha chiesto che queste lettere venissero portate a processo? Perchè alcune frasi scritte da Bossetti troverebbero strane corrispondenze con le ricerche fatte sul pc di casa sua: “Mi piaci per come sei… Mi piace che lasci una striscetta solo sopra… Che senza niente è come piace a me”. Per l’accusa queste parole sono importanti perché rimandano proprio alle ricerche pedopornografiche trovate dai periti informatici sui computer dell’imputato. Il quale ha negato di averle fatte, ma la frase che riferisce a Gina nella lettera fa pensare esattamente il contrario. Un altro straccio di lettera che leggiamo nel servizio curato dal settimanale Giallo: “Oh, non sai quanto mi piacerebbe venire lì con te, nella stessa cella, senza avere paura che loro pensino che potremmo fare sesso… Ti confido che con quel buon profumo che ti porti sulla dolce pelle per me sarebbe dura evitare di non toccarti. In sincerità il tuo profumo mi manda in delirio, ti stringerei forte forte a me e mai ti mollerei…”. Bossetti e la sua amica Gina sembrano essere davvero molto in confidenza tanto che il presunto assassino di Yara scrive: “Sì, forse è meglio cambiare discorso, perché io sono già arrapato, sentendolo qui sempre sotto il naso sulle tue lettere…È fantastico credimi, questa buona fragranza, capisci che per me è un problema non toccarti, quanto ti desidero per averti in branda con me per abbracciarti… Ai colloqui maschili ho intravisto una ragazza con la coda bionda che continuava a fissarmi, ma io non ti conosco, come posso sapere che sei tu o qualcun’altra? Cara Gina, spesso di notte ti penso, sai che dormo pancia in giù, accarezzo l’angolo del tuo cuscino perché immagino come quando toccavo il seno di mia moglie… Ora mi immagino con te e spesso mi alzo bagnato e molto arrapato, perché sogno di fare l’amore come quando lo facevo a casa con mia moglie.” E chiudiamo con una frase davvero molto particolare: “Gina, credimi, sono sincero perché potrebbe capitare un giorno, una volta fuori, di incontrarci e per questo ti dico che la verità prima o poi viene a galla… Niente, mi disse: “Bossetti, complimenti, che mazza”… Ti giuro, non voglio vantarmi, ma su questo aspetto la natura ha fatto un bella cosa…”. Ricordiamo che le lettere sono state pubblicate in esclusiva sul settimanale Giallo in edicola da oggi. Nel servizio dedicato al caso potrete leggere altre lettere che Bossetti ha scritto alla sua amica Gina.
Massimo Giuseppe Bossetti, lettere parlano di carattere e…scrive Blitz Quotidiano il 30 aprile 2016. Di cosa parlano le lettere di Massimo Giuseppe Bossetti alla detenuta Gina che sono state acquisite dalla Corte d’Assise di Bergamo? Secondo la trasmissione Quarto Grado, in onda la sera del 29 aprile su Rete 4 e che ne ha fatto vedere alcuni stralci, le lettere parlano del carattere di Bossetti e del suo rapporto con gli inquirenti durante la detenzione per l’accusa di omicidio di Yara Gambirasio. In una prima lettera, datata 17 gennaio 2016, l’uomo accusato di aver ucciso Yara Gambirasio parla del padre morto di recente: “Lo prego sempre (…) adesso ha la piena certezza sulla mia innocenza perché – ne sono più che sicuro – Yara si è confidata con mio padre vedendo come soffro, dandogli l’assoluta certezza sulla mia verità dei fatti”. Nella lettera Bossetti si lamenta degli inquirenti e assicura che continuerà a proclamarsi innocente: “Farò di tutto per lottare e combattere per far sì che la Presidente e i Giudici Popolari mi capiscano. Mi vogliono incastrare, usarmi come capro espiatorio o per i loro fottuti sbagli creati a regola d’arte su di me. (…) La posta in gioco è molto alta, loro non vogliono rischiare le proprie carriere e ti assicuro che tanti salterebbero tra Procura, Ris e Ros e tanti altri, e io non voglio rimetterci la mia vita per loro”. Nella seconda lettera, firmata anche questa ‘Massy’, Bossetti si lascia andare a confidenze più intime: “Il mio carattere è un buon carattere, molto dolce, educato, gentile, romantico e credimi molto affettuoso e dispensatore di coccole, quello che mi sarei aspettato al contrario di mia moglie. (…) Adoro l’abbronzatura. (…)”.
Bossetti, lettere a detenuta Gina: “Complimenti, che mazza”, continua "Blitz Quotidiano" il 4 maggio 2016. Massimo Giuseppe Bossetti scriveva delle lettere molto piccanti alla detenuta Gina. Lettere in cui si vantava delle dimensioni del proprio pene e in cui assicurava che l’avrebbe eccitata a dovere. Si va dall’aneddoto dell’infermiera che si sarebbe complimentata con lui: “Complimenti Bossetti, che mazza” alla certezza che la farebbe godere “più e più volte”, passando per la cura del proprio corpo “con la crema Nivea” ai tradimenti della moglie Marita Comi. Il contenuto delle 40 lettere sono stati pubblicati da Giallo, in un articolo a firma di Gian Pietro Ferro (articolo ripreso e pubblicato da Dagospia). Perché queste lettere sono importanti ai fini processuali? Secondo la pm Letizia Ruggeri, che rappresenta l’accusa nel processo per la morte di Yara Gambirasio (per il quale Bossetti è al momento l’unico indagato) si sposerebbero con le ricerche che secondo l’accusa Bossetti avrebbe fatto su internet nel corso degli anni (ricerche che, si sospetta, avrebbero avuto come oggetto ragazzine minorenni). I riferimenti, spiega questo articolo di Giallo, andrebbero ricercati soprattutto quando si parla di depilazione dei genitali femminili (come quelli ad esempio di una ragazzina). Ecco le lettere più importanti pubblicate dal settimanale Giallo: Ecco le lettere in ordine cronologico. Il 30 settembre del 2015 Bossetti scrive: «Gina e tutti voi del reparto femminile, credetemi, fate bene a essere convinti della mia innocenza, perché io sono assolutamente innocente. Sono estraneo a questi fatti accaduti e lo dimostrerò fino alla fine… Mai e poi mai mi arrenderò per i loro schifosi errori, sbagli fatti a tavolino e a regola d’arte su di me. Credetemi, tutto quello che a me ingiustamente è successo, a chiunque potrebbe veramente succedere, è sufficiente trovarsi in un posto e allo stesso momento sbagliato ed ecco qua che finisci in un maledetto ingranaggio facendo il possibile per non essere stritolato, e che ti sembra possibile uscirne…». Andiamo avanti con le lettere. È il 14 dicembre 2015 quando Bossetti scrive queste parole alla detenuta Gina: «Gina, parla e confidati se vuoi, dì tutto quello che vuoi o sapere su di me e io farò altrettanto… Tra due amici non ci sono segreti di nessun genere. Gina, cosa è un amico? Per me è un altro me stesso e chi guarda un vero amico in realtà e come se si guardasse in uno specchio. Non credi? Per cui io apro il mio cuore al tuo, se tu vorrai. Pure io tengo tantissimo al mio corpo: ogni giorno faccio una doccia al mattino e una alle 20 e mi cospargo sempre di crema Nivea, subito a ogni doccia, perché mi piace sentirmi morbido, idratato e profumato. È una bellissima sensazione di freschezza e pulizia». In questa missiva Bossetti comincia a fare le prime confidenze a Gina riguardo alla cura “maniacale” del suo corpo. Lo stesso giorno l’imputato scrive: «L’unica cosa che ti chiedo è l’amicizia, io credo sia più duratura dell’amore, penso che l’amore non sia per sempre… Giusto? Però mi fa piacere che sono riuscito a confonderti, anche mia moglie l’avevo fatto sentire confusa inizialmente… Ricevo molte lettere da altri carceri, soprattutto da donne che intendono conoscermi e quanto gli sarebbe piaciuto tenere un marito come me… In verità in tutto questo mi sento fiero…». Passiamo ora alla lettera del 2 gennaio 2016, in cui Bossetti torna a parlare della cura del corpo e, per la prima volta, di depilazione. Scrive: «…Sì, è vero, sono pochi gli uomini che si cospargono con la crema due volte al giorno… Io mi cospargo tutto il corpo… Sai sono depilato e per me stenderla è un attimo. Oh, non sai quanto mi piacerebbe venire lì con te, nella stessa cella, senza avere paura che loro pensino che potremmo fare sesso… Ti confido che con quel buon profumo che ti porti sulla dolce pelle per me sarebbe dura evitare di non toccarti. In sincerità il tuo profumo mi manda in delirio, ti stringerei forte forte a me e mai ti mollerei…». In una lettera datata 7 gennaio Bossetti parla dei tradimenti della moglie Marita: «Sai, io sono stato tradito, ma ho perdonato, ma non riesco a dimenticare. Poi una volta fuori ti devo parlare e dire tante cose di persona… Vorrei scriverle ma non posso». Il 13 gennaio, il muratore scrive quest’altra missiva: «Gina, ti devo fare i complimenti, stavolta. Per la prima volta ho baciato le tue bellissime labbra. Sono stupende e belle carnose, mi piacciono davvero e le bacerei all’infinito. Grazie per questo bellissimo pensiero molto apprezzato da parte mia, ho cercato di sentire il tuo sapore delle labbra». Quando parla di baci, Bossetti in realtà si riferisce al profumo che emanano le lettere che gli manda Gina, dal momento che i due detenuti non si sono mai visti di persona. Eccolo il passaggio in cui l’imputato dice di depilarsi le parti intime. L’argomento viene ripreso nella lettera del 17 gennaio, in cui Bossetti scrive: «Sono alto 1,70, peso 60 kg, corpo esile, carnagione chiara, amo il sole e le lampade abbronzanti, mi piace il colore che la pelle assume, adoro l’abbronzatura. La depilazione che faccio io, per intenderci una volta e per tutte, si tratta di ascelle, petto e tutto sotto. Ho subito l’operazione di ernia inguinale e mi ricordo che dopo 15 giorni di medicazione la caposala decide ti togliermi i punti e mi abbasso tutti i boxer e lei mi disse nel vedere. Gina, credimi, sono sincero perché potrebbe capitare un giorno, una volta fuori, di incontrarci e per questo ti dico che la verità prima o poi viene a galla… Niente, mi disse: “Bossetti, complimenti, che mazza”… Ti giuro, non voglio vantarmi, ma su questo aspetto la natura ha fatto un bella cosa…». In un’altra lettera, senza data, Bossetti scrive: «…Tu? Alla domenica giornata di festività, che odio per assenza di tutto, e allora la spezzo prendendomi cura di me stesso: barba, capelli, depilazione, doccia, una bella incremata tutto il corpo, tutto completamente, mi improfumo e poi riparto a scriverti, ok? Sai, il mio compagno mi dice “sei peggio di una donna”, e lo so, anche mia moglie me lo diceva spesso, ma è più forte di me sentirmi a posto con il mio corpo e, poi, mi piace essere ben curato dappertutto! Ciao, ciao, a presto, dammi trequarti d’ora, 50 minuti e ti riscrivo…. Ciao Miciona. Tuo amico Massy». Passiamo alla lettera del 21 gennaio. Scrive il muratore: «Lo stesso per te, immaginati o toccati pure adesso, non preoccuparti per Dany, se ti sta guardando, digli che è colpa mia, che te l’ho detto io e che in questo momento Massi è qui con me e al sesso non si comanda, per cui mettiti comoda con te stessa… Levati le mutandine, immergi nella tua bocca l’indice e il medio della mano destra, mi sembra di vederti, passale delicatamente sul tuo grilletto, che lo sento già molto stimolato, vero? Sì, bene così, in moto rotatorio… Fai conto di sentire la mia lingua nella tua f…. Uh, come ti sento già bagnato». Dello stesso tenore la lettera del 23 gennaio: «Non ti immagini come le mie mani ti massaggerebbero tutto il tuo corpo liscio, sfiorandoti dolcemente quel bellissimo e apprezzato pelo che ti ritrovi, scommetto che solo al contatto con le mie mani, sentirle scorrere delicatamente su tutto il tuo corpo, ti farei bagnare e venire più volte… E la mia lingua si sente senza sosta sul tuo clitoride». Passiamo all’ultima lettera, che risale al 27 gennaio: «Sono stanco di soffrire, troppe giornate vuote, troppe giornate immerse nei pensieri dolorosi, pensieri che ti dilaniano o ti distruggono sempre più la voglia di vivere, troppi pianti ingiusti. Che Dio aiuti sempre te e tutte voi, per continuare in questo maledetto nostro inferno».
Le noiosissime lettere “porno” di Massimo Bossetti. Per giornali di gossip e cronisti navigati sono la prova che l'uomo è "schiavo del sesso", ma perfino Leopardi avrebbe potuto scrivere epistole più hard, scrive Giovanni Drogo, mercoledì 04 maggio 2016, su "Next quotidiano”. Sbatti il mostro in prima pagina, questa deve essere più o meno la linea editoriale di GIALLO (rigorosamente maiuscolo), il settimanale che si occupa dei più efferati casi di cronaca nera. In fondo fanno qualcosa di simile a Quarto Grado, perché non dovrebbero farlo su una rivista di gossip di quelle che si trovano dal barbiere o dall’estetista? Il mostro in questione questa settimana è Massimo Bossetti, l’uomo accusato dell’assassinio di Yara Gambirasio. Dalla prima lettera di Massimo Bossetti a Gina: mi depilo (e sticazzi?). Il processo nei confronti di Bossetti non si è ancora concluso, ma questo non significa che i tribunali del popolo improvvisati negli studi televisivi e sui vari social network non abbiano già emesso il loro verdetto. Non sappiamo se il carpentiere di Mapello sia colpevole o innocente, secondo l’ordinamento giuridico italiano è ancora da considerarsi innocente, ma non è rilevante qui discutere del merito del processo. È più interessante indagare l’attrazione morbosa di certa stampa per la vita sessuale dell’uomo, in particolare analizzando nel dettaglio le lettere che Bossetti ha scritto ad una detenuta che al grande pubblico è nota con il nome di “Gina”. Il rapporto epistolare tra i due – che non si sono mai visti – è stato attentamente sviscerato a Quarto Grado, con tanto di discussione sull’abitudine di Bossetti a depilarsi le parti intime (“perché – spiega in una missiva – non tengo alcun segreto”). Naturalmente anche Bossetti è curioso di sapere che aspetto abbia la sua Gina e quando commenta la sua passione per le vagine depilate ecco che i giornalisti d’assalto fanno subito il collegamento con il fatto che a Bossetti piacciano le ragazzine molto giovani. Insomma tutti coloro che hanno questa preferenza sono dei potenziali pedofili? Non è chiaro, ma a quanto sembra questo riferimento nella lettera a Gina fa il paio con alcune ricerche “hard” effettuate da Bossetti sul suo PC. Tutto torna! Un detenuto che non tocca una donna da due anni diventa “schiavo del sesso”. Ma non sono i fatti inerenti alle indagini a suscitare l’attenzione dei giornalisti di gossip quanto piuttosto gli aspetti della normalità della vita di due carcerati. Fortunatamente non serve andare in carcere per capire che il fatto che un detenuto scriva “delle porcate” ad una detenuta non è scandaloso. Andando a leggere poi il tono delle lettere è davvero difficile definirlo un maniaco sessuale per aver scritto – ad esempio – che accarezza il cuscino pensando che fosse il seno di Gina o per essersi vantato di avere “una gran bella mazza”. Questo genere di letteratura non sarebbe degna nemmeno del più spinto degli Harmony, per non parlare di Uccelli di rovo o de L’Amante di Lady Chatterley. Volendo essere davvero sinceri lo stile “letterario” di Bossetti è più consono a romanzi ottocenteschi che non al modo in cui si fa sexting al giorno d’oggi. Dire che è schiavo del sesso solo perché scrivere delle lettere – invero molto caste – definendole porno, senza tenere conto del fatto che da qualche anno non ha contatti con una donna è davvero fuori luogo. Stupisce poi che i diritti di un detenuto (in fondo si tratta di conversazioni private) non solo possano essere rese pubbliche e pubblicabili ma anche possano anche essere utilizzate per provare che – siccome gli piace la vagina depilata o con una striscia di pelo sopra (come il suo pizzetto!!1) – allora è un pedofilo. Che Massimo Bossetti sia un assassino o no è qualcosa che non si deduce da queste lettere semmai da un quadro probatorio più ampio che dovrebbe essere discusso in tribunale, ma questa è solo l’ennesima fuga di notizie del caso Gambirasio. Sarà meglio iniziare a farci l’abitudine?
Le lettere hot di Massimo Bossetti alla detenuta Gina, scrive Bergamo News” il 04 maggio 2016. “Cara Gina, spesso di notte ti penso. Non sai quanto mi piacerebbe venire lì da te, nella tua cella. Devi sapere che ci tengo tantissimo al mio corpo. Sai, sono depilato”. E’ solo una parte delle lettere scritte da Massimo Bossetti, dalla sua cella del carcere di Bergamo, a Gina A., detenuta nello stesso penitenziario con una condanna per truffa. Come emerso durante una delle ultime udienze del processo a carico del presunto killer di Yara Gambirasio, Bossetti e Gina hanno iniziato a scriversi nel 2015. Dopo averle lette, il pm Letizia Ruggeri, che al processo rappresenta la pubblica accusa, aveva chiesto che venissero messe agli atti cinque di queste 40 lettere, dal contenuto piuttosto spinto e con chiarissimi riferimenti sessuali. Le lettere, pubblicate mercoledì 4 maggio dall’ultimo numero del settimanale Giallo, rappresenterebbero dei documenti importanti per l’accusa perché, secondo il pm Ruggeri, rimanderebbero alle ricerche pedopornografiche fatte con il computer di casa Bossetti. I testi di queste cinque lettere, scritte dall’imputato, contengono infatti riferimenti espliciti a “genitali femminili completamente depilati”. “Gina, parla e confidati se vuoi, dì tutto quello che vuoi o sapere su di me e io farò altrettanto… – scriveva Bossetti il 14 dicembre 2015 -. Tra due amici non ci sono segreti di nessun genere. Gina, cosa è un amico? Per me è un altro me stesso e chi guarda un vero amico in realtà e come se si guardasse in uno specchio. Non credi? Per cui io apro il mio cuore al tuo, se tu vorrai. Pure io tengo tantissimo al mio corpo: ogni giorno faccio una doccia al mattino e una alle 20 e mi cospargo sempre di crema Nivea, subito a ogni doccia, perché mi piace sentirmi morbido, idratato e profumato. È una bellissima sensazione di freschezza e pulizia”. “…Sì, è vero, sono pochi gli uomini che si cospargono con la crema due volte al giorno… Io mi cospargo tutto il corpo… Sai sono depilato e per me stenderla è un attimo – scriveva invece il 2 gennaio scorso -. Oh, non sai quanto mi piacerebbe venire lì con te, nella stessa cella, senza avere paura che loro pensino che potremmo fare sesso… Ti confido che con quel buon profumo che ti porti sulla dolce pelle per me sarebbe dura evitare di non toccarti. In sincerità il tuo profumo mi manda in delirio, ti stringerei forte forte a me e mai ti mollerei…”. Il 13 gennaio, il muratore scrive quest’altra missiva: “Gina, ti devo fare i complimenti, stavolta. Per la prima volta ho baciato le tue bellissime labbra. Sono stupende e belle carnose, mi piacciono davvero e le bacerei all’infinito. Grazie per questo bellissimo pensiero molto apprezzato da parte mia, ho cercato di sentire il tuo sapore delle labbra”. Ma quando parla di baci, Bossetti in realtà si riferisce al profumo che emanano le lettere che gli manda Gina, dal momento che i due detenuti non si sono mai visti di persona. “Capisci che per me è un problema non toccarti, quanto ti desidero per averti in branda con me per abbracciarti… Ai colloqui maschili ho intravisto una ragazza con la coda bionda che continuava a fissarmi, ma io non ti conosco, come posso sapere che sei tu o qualcun’altra? Cara Gina, spesso di notte ti penso, sai che dormo pancia in giù, accarezzo l’angolo del tuo cuscino perché immagino come quando toccavo il seno di mia moglie… Ora mi immagino con te e spesso mi alzo bagnato e molto arrapato, perché sogno di fare l’amore come quando lo facevo a casa con mia moglie…”. “Sono alto 1,70, peso 60 kg, corpo esile, carnagione chiara, amo il sole e le lampade abbronzanti, mi piace il colore che la pelle assume, adoro l’abbronzatura. La depilazione che faccio io, per intenderci una volta e per tutte, si tratta di ascelle, petto e tutto sotto. Ho subito l’operazione di ernia inguinale e mi ricordo che dopo 15 giorni di medicazione la caposala decide ti togliermi i punti e mi abbasso tutti i boxer e lei mi disse nel vedere. Gina, credimi, sono sincero perché potrebbe capitare un giorno, una volta fuori, di incontrarci e per questo ti dico che la verità prima o poi viene a galla… Niente, mi disse: ‘Bossetti, complimenti, che mazza’… Ti giuro, non voglio vantarmi, ma su questo aspetto la natura ha fatto un bella cosa…”.
Lettere hot di Bossetti al processo, l’avvocato: “Uno scempio per la sua famiglia”. "Ci voleva più rispetto nei confronti di Bossetti. La sua vita è stata stravolta e, anche qualora venisse assolto, non potrà mai più essere come quella precedente", scrive il 7 maggio 2016 “Bergamo News”. “E’ stato fatto scempio di Bossetti e della sua famiglia. Ricordiamoci che ha 3 figli minorenni”. Claudio Salvagni, avvocato di Massimo Bossetti, in carcere da 16 giugno 2014 come presunto omicida di Yara Gambirasio, commenta così la proposta del pubblico ministero Letizia Ruggeri, accolta da giudice Antonella Bertoja, di inserire come materiale del processo le lettere hard con Gina, una detenuta del carcere di Bergamo. “E’ stata dimenticata la presunzione d’innocenza sancita dalla nostra Costituzione – le parole di Salvagni a Radio Cusano Campus – . Ci voleva molto più rispetto nei confronti di Bossetti. La sua vita è stata stravolta e, anche qualora venisse assolto, non potrà mai più essere come quella precedente. E’ stata stravolta anche la vita di tutta la sua famiglia. Si è voluto mettere l’occhio nel buco della serratura per andare a vedere le abitudini e i comportamenti sessuali di Bossetti che vanno contestualizzati. Bossetti è un uomo che da due anni è in carcere, è stato 4 mesi in isolamento. Chi scrive e chi parla non conosce la situazione carceraria italiana. Una parola di una persona che ti offre amicizia e complicità, in quella situazione estrema, in molti farebbero fatica a non accoglierla. Purtroppo anche questo fatto è stato strumentalizzato. Questa è l’Italia”. Come emerso durante una delle ultime udienze del processo a carico del carpentiere di Mapello, Bossetti e Gina hanno iniziato a scriversi nel 2015.Dopo averle lette, il pm Letizia Ruggeri, aveva chiesto che venissero messe agli atti cinque di queste 40 lettere, dal contenuto piuttosto spinto e con chiarissimi riferimenti sessuali. Il presidente della Corte d’Assise, Antonella Bertoja, ha invece stabilito che venga inserita l’intera corrispondenza tra i due. Le lettere più hot, pubblicate mercoledì 4 maggio dall’ultimo numero del settimanale Giallo, rappresenterebbero dei documenti importanti per l’accusa perché, secondo il pm Ruggeri, rimanderebbero alle ricerche pedopornografiche fatte con il computer di casa Bossetti. I testi di queste cinque lettere, scritte dall’imputato, contengono infatti riferimenti espliciti a “genitali femminili completamente depilati”.
BOSSETTI, ORMAI È PORNOPROCESSO PUBBLICATE LE SUE LETTERE EROTICHE. Scrive Luca Telese per “Libero Quotidiano” il 5 maggio 2016. Dunque, letto in integrale il carteggio erotico con la Gina, le cose stanno così. Massimo Bossetti è prima di tutto un perfetto italiano medio, che se vede un culo che gli piace lo valuta, e ama condividere il giudizio con altri maschi complici. In secondo luogo (questo lo sappiamo dai suoi interrogatori) è - anzi era - un consumatore più o meno abituale di pornografia, in compagnia della moglie, come accessorio propedeutico, corroborante del rapporto di coppia. Infine è (era) un marito sessualmente soddisfatto della propria compagna fino all'ostentazione. Come milioni di italiani, dunque, Bossetti ha un immaginario erotico. Come centinaia di migliaia di italiani, poi, ha una cura narcisistica del suo corpo, e - se puó - lo esibisce. Cosa irrilevante, direi, anche se in questo processo è diventato indizio di colpa persino l'accesso ad un solarium per lampadarsi (non si capisce se perché prova di grave narcisismo, o se - come ha cercato di dimostrare l'accusa - come alibi per essere vicino alla sua potenziale vittima). Anche se adesso pare quasi temerario dirlo, a mio parere nessuna di queste passioni è o può essere considerata un indizio di reato. Ma è evidente che se ti metti a frugare nelle mutande di un uomo, e poi lo sputtani sui giornali o in tribunale con quello che ci trovi, la percezione che il pubblico ha di lui cambia. Anche facendo solo caos, anche alzando la povere dagli angoli bui, qualcosa resta. Se non altro per ipocrisia: quello che la pm Letizia Ruggeri ha trovato nelle lettere e nelle intercettazioni di Bossetti è il dieci per cento di quello che si può sentire in qualsiasi spogliatoio dopo una partita di calcetto tra scapoli e ammogliati. Ma evidentemente alla Ruggeri questa corrispondenza deve sembrare una scoperta sensazionale, o - il che è ancora peggio - una potente arma di discredito. Bossetti scrive che ama le vagine rifilate con una sottile linea di pelo? Tendenzialmente dovrebbero essere affari suoi, ma se hai provato a dimostrare per tutto il processo che la ricerca "vagine rasate" su Google è una prova di colpevolezza, anche questa miseria ti sembra un colpo di scena investigativo. Qui a me pare che se c'è morbosità in chi scrive, ce ne sia altrettanta in chi legge. Mi chiedo cosa farebbe la pm allo scrittore Massimiliano Parente, che conduce da anni su Dagospia una battaglia culturale contro la moda della rasatura femminile, diventata tendenza persino nel mondo del porno, a prescindere da qualsiasi età delle attrici, con grande rammarico di Parente (che rimpiange i tempi cantati da Elio e le Storie Tese, del «triangolino che ci esalta»). Miserie. Però ci sono altri due dettagli importanti da prendere in considerazione: il primo è che Massimo Bossetti è accusato di un omicidio immerso in uno scenario di pedofilia latente. E poi Bossetti è un carcerato privato della sua libertà, che sublima tutte queste fantasie in un dialogo con questa detenuta ultra 40enne che si chiama Gina: sei bagnata, sono bagnato, ho una mazza che fa paura, anche se amo mia moglie, mi sento duro quando ti penso, anche se sono innocente ti immagino morbida quando ti tocchi, eccetera eccetera. In un Paese normale queste lettere non le avremmo nemmeno lette. In un Paese anormale, e in un processo che presenta ancor più grandi distorsioni, l'uso del privato e del morboso sono diventati una strategia comunicativa del pm. Anche contro la logica, e cercherò di dimostrarlo, dopo aver seguito questo lungo filo durante il processo di Bergamo. Provate a ragionare. Dimenticatevi per un attimo se l'immaginario di Bossetti è simile o diverso dal vostro, se vi piace o meno. Non solo non c'è relazione fra questi dettagli e l'accusa, ma casomai c'è un contrasto logico. Un pedofilo non si arrapa sia per le bimbe che per le milf. A un pedofilo le tette fanno schifo. Uno che sbavava per Yara non si interessa alla Gina. Allo stesso modo, nel rinvio a giudizio si trovavano altre morbosità investigative: un ex compagno di giochi adolescenti di Bossetti rintracciato dai carabinieri che confessava una masturbazione (a 14 anni!) condivisa con il futuro muratore di Mapello. Una ragazza - che abbiamo visto anche in tribunale - a cui Bossetti aveva venduto uno specchio su Subito.it e con cui poi aveva fatto il provolone, chiedendogli anche (un classico) se aveva una sorella bona come lei. Di nuovo, delle due l'una: se Bossetti era criptogay, non poteva essere contemporaneamente un pedofilo interessato a una ragazzina che ha l'età di suo figlio. Se era un mandrillone-provolone, non poteva essere pure rimorchiatore di siliconate. L'accusa ha a lungo indugiato anche sulla vicenda dei presunti amanti di Marita Bossetti, è arrivata ad esibire ricevute di motel in aula. Tutto spettacolare, mediatico, pruriginoso. Ma la domanda è:
1) Bossetti sapeva di essere stato tradito? (Dai suoi interrogatori risulta il contrario).
2) Se anche avesse saputo di essere tradito, si può seriamente pensare che la frustrazione per un adulterio possa diventare il presupposto emotivo di una vendetta su una minorenne?
Ovviamente no, altrimenti l'Italia sarebbe un cimitero. La vicenda delle lettere a Gina, la goffa spavalderia di queste avance di carta (fra l'altro accompagnate da promesse di fedeltà a Marita) sembrano davvero un goffo tentativo di evasione dalla prigione sessuale del carcere. Mi viene in mente la frustrazione di Totó Cuffaro, quando l'ho intervistato per questo giornale, nel raccontare la sofferenza della masturbazione carceraria, che in cella diventa un rito occulto ma anche condiviso. Mi viene in mente la follia di alcuni regolamenti carcerari in cui i direttori, per un presunto principio di "tutela" del detenuto, arrivano a vietare le riviste per adulti e i prodotti a luci rosse («così non diventiamo ciechi!» ha gridato sarcastico uno di loro durante un convegno a Rebibbia). Quindi bisogna scegliere: o Bossetti è davvero un mandrillone (e può esserlo sia con sua moglie che con la Gina, sia de facto che oniricamente) oppure è un orco pedofilo. Entrambe le cose non si danno. Con buona pace degli appassionati al nuovo fortunato filone inaugurato a Bergamo: quello del pornoprocesso.
Lettera aperta a Massimo Bossetti di Gilberto Migliorini del 5 maggio 2016. "Gentilissimo signor Bossetti, mentre i media la crocifiggono e da buoni cristiani dell'ultima ora si scandalizzano per quanto in privato ha scritto alla signora Luigina, signora incarcerata per truffa che chissà perché ha cercato un rapporto epistolare proprio con lei, osservo il quadro probatorio a suo carico e mi accorgo di trovarmi di fronte a una silloge a dir poco ridicola e pretestuosa neppure degna di una comica simil-fantozziana. Per questo mi corre l'obbligo di manifestarle il mio disgusto per quanto sta accadendo a lei e alla sua famiglia. Quello che le stanno facendo non ha nulla da invidiare a certe torture praticate nel passato e purtroppo ancora oggi in certi Paesi. Strano Paese il nostro che, pronto a mobilitarsi giustamente quando c’è di mezzo un’altra nazione, non fa una piega e al mondo si mostra cieco e muto se le magagne sono sue. Predica bene ma razzola male. In violazione dell’Habeas corpus è stato perfino possibile giustificare la sua cattura mentre si rompeva la schiena nel duro lavoro quotidiano, sfiancato dalla fatica con i piedi ancora nel calcestruzzo, come se si fosse trattato di un pericoloso criminale, uno di quelli che se ne vanno in giro con la pistola in tasca. Ci hanno mostrato un carpentiere platealmente immobilizzato come fosse un pregiudicato armato fino ai denti e pronto a sparare con il badile, non semplicemente un padre di famiglia che poteva essere convocato in una questura per esprimere le sue ragioni e controdeduzioni. La Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo nel 1948 ha sancito il diritto della salvaguardia della libertà individuale contro l’azione arbitraria dello stato: “Nessun individuo potrà essere arbitrariamente arrestato, detenuto o esiliato”. C’erano elementi per l’arresto e la detenzione o c’era soltanto un po’ di aria fritta? Un Dna dimezzato come il calviniano Visconte Medardo di Terralba e miracolosamente scampato per mesi in quel campo alla De André? Di più, la sua cattura è avvenuta con quella spettacolarizzazione da operazione da film poliziesco: piegato in due e in quattro, filmato, ammanettato, con l’encomio di un ministro e quella folla di comparse plaudenti alla gazzella sfrecciante a sirene spiegate, tutori dell’ordine circonfusi in un alone di esemplare fierezza e neutrale efficienza, il mostro già giudicato e arrostito sulla graticola come nella migliore tradizione dei processi agli untori. Ci hanno mostrato una scena di caccia, quasi si fosse trattato di un colpevole ancora con il coltello in mano e non con la cazzuola e il frettazzo. Il tutto è avvenuto senza che nessuno avesse da eccepire qualche rilievo in ordine all’habeas corpus ad subjiciendum judicium. Ma forse per l’ermeneutica giudiziaria lei signor Bossetti, in quanto muratore, non poteva godere di garanzie, al di là delle grandi petizioni di principio strombazzate a destra e a manca nelle feste comandate. Si sa che lo spettacolo mediatico riguarda non solo il supermercato commerciale, ma anche quel market politico-ideologico dove si vende il prodotto impalpabile che si chiama consenso, prestigio e, perché no, anche esibizione di un potere di intimidazione per il popolo bue. Il dibattito sulla sua responsabilità ha fatto seguito dopo la cattura, termine adeguato per dare consistenza di colpevolezza ancor prima di un giudizio, in un crescendo di illazioni e indiscrezioni amplificate dagli apparati mediatici e dai megafoni dei fiancheggiatori e dei supporter istituzionali. Un approfondimento ben amalgamato, orchestrato e sincronizzato, ha poi suonato la grancassa, un Bolero dove i tamburi azzittivano perfino le trombe e i tromboni nel segno di una colpevolezza acclarata e, per usare la terminologia appropriata, con tutto un sistema di prove che inchiodano. Più che un contraddittorio pareva una decalcomania dove si disquisiva dell’arte della magia e della stregoneria, con un aggiornato Malleus Maleficarum a ripercorrere, trasfigurati, gli stereotipi di una moderna demonologia con tutte le simbologie del moderno inquisitore. Il camioncino ha sostituito la scopa, mentre la sabbia ha fatto all'uopo per il decotto e gli infusi dell’apprendista stregone, fino ai suoi occhi così chiari che a detta di taluno non sembravano quelli di un cristiano... Anche il gatto nero e i capelli rossicci erano senz'altro considerati emblemi di stregoneria, nella sua foto ricorrente così suggestiva ed evocativa. Insomma, al suo personaggio è stato ritagliato l’abito adatto con tutti gli accessori per darle il ruolo da protagonista indiscusso e far breccia nell'immaginario collettivo come il perfetto assassino. Le esprimo la mia solidarietà per la sventura che le è capitata tra capo e collo, quella di essere stato scelto per interpretare uno sceneggiato non solo inverosimile, ma anche infarcito di luoghi comuni, pregiudizi e stereotipi che si credevano storicamente archiviati, un mondo di suggestioni propagandistiche e di slogan ad uso di una platea mediatica addestrata al consenso sulla base di una emotività epidermica e convenzionale, il classico schema che fa sempre presa su un pubblico di bocca buona. Il Manzoni redivivo troverebbe senz'altro nuovi spunti, perfino più incisivi, per la sua Storia della Colonna Infame, non solo in chiave drammatica, ma anche umoristica. Il suo di caso unisce al dramma di un innocente trattato come un pericoloso criminale quello di una sceneggiatura degna di certi film demenziali o commedie dell’assurdo che suscitano ilarità non tanto per il loro contenuto, quanto per la pretesa di possederne uno. Peccato solo che il tragicomico come genere letterario non sia nelle corde di un’utenza che si beve tutto, e tutto d’un fiato, ed è perfino convinta che le opinioni siano farina del suo sacco. Naturalmente non son sicuro che lei riesca a trovare il lato umoristico nello zibaldone che si è andato costruendo attorno alla sua persona, allestendo un personaggio, il favola, che la dice lunga non tanto su di lei ma su coloro che le favole le costruiscono e le raccontano per davvero in una sceneggiatura che ha tutti gli elementi di una storia criminologica da Signora in Giallo, romanziera e detective dilettante. Le confesso che mi vergogno per questo bidone che le hanno rifilato, una imputazione senza capo né coda che trova consonanza e diletto in un processo mediatico da far invidia a tanti tribunali di regime. Corsi e ricorsi della storia. Dalla clausura giudiziaria, con i verbali secretati come nella migliore tradizione del processo agli eretici, filtrano fatti eclatanti per un pubblico aduso alle notizie scandalistiche più o meno inventate, salvo non vedere altri fatti scandalosamente evidenti, di quel quotidiano tran tran di una dilagante e normale corruzione alla quale nessuno fa più caso. Anche se siamo al 77esimo posto nella libertà di stampa, praticamente gli ultimi in Europa, nessuno sembra preoccuparsi più di tanto… i nostri media non saprebbero cosa farsene di qualche avanzamento in classifica. Quello davvero importante è il gossip che fa vendere e che tiene un intero popolo irreggimentato nei novantesimi minuti, nei giochi a quiz e nelle trasmissioni di approfondimento… del pettegolezzo. Un sistema mediatico da avanspettacolo e da opera buffa diletta il lettore con il divertissement delle lettere dal carcere come se si trattasse di rivelazioni sconvolgenti di qualche retroscena da teatro del melodramma, solleticando le fantasie torbide di un’audience arrapata e assetata di notizie scabrose. Senza più dignità né pudore, quasi tutta la stampa arzigogola in una pruderie da bacchettoni e in un gossip da rotocalco, intitolando con le solite formule allusive qualcosa che se ha letto ha letto in parte... facendone una vulgata pornografica ad uso di quella platea che sbava nell'attesa di poter sbirciare in qualche buco della serratura, nella speranza di veder soddisfatti fantasie perverse e appetiti morbosi. La stampa di regime nazional-popolare e di impostazione pennivendola dà da mangiare al lettore la solita sbroda di tanto medium scandalistico, facendo a gara a chi pastura meglio un’utenza vorace, abituata alle suggestioni e alla freudiana sessualità polimorfo perversa. Il sentito dire e la notizia ad effetto sostituiscono una informazione puntuale e obiettiva. Ci raccontano di corrispondenza hard di un detenuto in attesa di giudizio, mentre lei signor Massimo vi proclama la sua innocenza e si trova in carcere, in violazione delle più elementari regole di un paese civile, senza neppure uno straccio di indizio che abbia una qualche credibilità e fondamento. Lo scandalo vero non sono le lettere di un uomo innocente che nel chiuso di una cella cerca di ristabilire un contatto col mondo, ma un sistema mediatico che non fa una piega di fronte a un processo fondato sul niente e cresciuto mantecando banalità, illazioni e quel DNA lievitato in provetta come fosse una maionese impazzita. La vera oscenità è un sistema ‘informativo’ che sbatte e manteca indizi farlocchi, monta a neve il niente fino a creare uno spettacolo di illusionismi e fate morgane, un palcoscenico dove si recita a soggetto, creando un prodotto editoriale da allegare a tanta servizievole propaganda di regime e alla immancabile pubblicità commerciale. Al suo personaggio hanno attribuito prove e indizi che hanno quell'apparenza anemica ed evanescente, dove i referenti reali (i reperti) sono come l’araba fenice. Esauriti, introvabili, dispersi, segretati, distratti, dissipati, consumati… e però refertati. Per usare la formula di un grande filosofo si tratta della più vuota chiacchierata di cui si sia mai accontentata una testa di legno, quella di un’accusa che è riuscita a costruire un canovaccio da teatro dell’assurdo da far invidia al Processo kafkiano. Signor Bossetti, provo un senso di vergogna per tanti miei connazionali che si nutrono di un giustizialismo che li rende persuasi di poter alleviare con il pettegolezzo il disagio esistenziale di vivere in un paese ignave e mediocre inseguendo un capro espiatorio che renda meno noioso e più sopportabile il mestiere di vivere. Un paese che ha bisogno di surrogati e oggetti sostitutivi per continuare a tirare a campare. Mentre si è celebrata in pompa magna la Liberazione, con la rievocazione di un vero eroe come il carabiniere Salvo D’Acquisto, un lavoratore incensurato, un padre di famiglia, resta in galera... e neppure gli è stato accordato il permesso per andare al capezzale del padre morente. Una sceneggiatura imbastita sulla base del Dna più inverosimile e fantasmatico di cui ci sia memoria negli annali scientifici, un reperto alieno che ci rappresenta un muratore come un extraterrestre dai nucleotidi d’amianto. Di sicuro quel nucleare dimidiato dal suo mitocondriale deve aver fatto saltare sulla sedia molti genetisti nella convinzione di trovarsi di fronte - in campo biologico - a un evento del tutto rivoluzionario analogamente al bosone di Higgs in quello della fisica particellare. Per non parlare poi di una sopravvivenza per tre mesi di azotati e fosfati, all'addiaccio, segno che voi muratori siete davvero di un altro pianeta. Le scene del copione sono però, bisogna ammetterlo, ben impostate per il film, adatte al personaggio che le fanno interpretare, con dovizia di fatti a dir poco sconvolgenti. Per cominciare il camioncino che come in ogni film che si rispetti viene ripreso da varie inquadrature. Peccato solo che sembra che all’epoca ci fossero lavori in corso e che le misure del mezzo non coincidano con il suo Iveco che per altro quasi giornalmente transitava di lì nel ritorno a casa. Questioni di lana caprina. Bisogna dar atto ai suoi inquisitori che si tratta solo di un promo, giusto un’anteprima del film, ad uso informativo per un pubblico di cultori del giallo mediatico. Per la sabbia che doveva servire alle bisogna, tumulare la salma, un vero peccato che lei abbia deciso di farne un marciapiede rovinando alla regia una delle scene più d’effetto per un pubblico che immaginava qualcosa di spettacolarmente più appetibile. In ogni caso deve almeno ammettere che le shampiste hanno avuto un ruolo di rilievo nel delineare il suo personaggio in un quadro di psicoanalisi della perversione sessuale: sadico, erotomane ed assassino sulla base di una colorazione dei capelli che non poteva di sicuro non suscitare qualche sospetto. Peccato che non si sia neppure preso la briga di una violenza sessuale, giusto per dare qualche contezza a un movente tanto inesplicabile. La scientifica però, bisogna dirlo, lo ha monitorato, magari con l’aiuto di qualche psicologo attrezzato, e avrà concluso… non si sa bene cosa, perché senza offesa… lei proprio non sembra avere lo physique du rôle per il personaggio del film che vogliono farle interpretare. C’è però un ultimo fatto che ha davvero suscitato la mia curiosità, si tratta della paternità. È un tarlo al quale non riesco a dare soddisfazione. Ci dicono lei abbia un padre putativo e uno geneticamente "autentico". Da sempre si sa che i figli assomigliano ai padri un po’ caratterialmente e un po’ fisiognomicamente. Pur vero che in caso di eccezione si fa riferimento ai nonni o… al celebre detto mater semper certa est, pater numquam. Il fatto è che nel suo caso, come per il Dna alieno, la situazione risulta perfettamente capovolta. Ho osservato attentamente le fotografie che ritraggono lei e il signor Giovanni Bossetti che si possono reperire in rete e ho trovato una tale somiglianza con suo padre legale… da lasciarmi di stucco, mentre il povero Guerinoni non aveva il suo profilo fisiognomico, neppure un vago sentore di parentela. Alle volte la natura la fa di testa sua. A meno che - non mi si accusi di dietrologia (può capitare anche nelle migliori famiglie, quelle investigative intendo) - non abbiano fatto un po’ di confusione con tutti quegli alambicchi, provette, micro-pipette, etilometri e quant’altro…
13 e 18 MAGGIO 2016. TRENTOTTESIMA E TRENTANOVESIMA UDIENZA. REQUISITORIA DELL'ACCUSA.
Venerdì 13 maggio il processo Bossetti arriva a una fase saliente: è in programma l’udienza durante la quale l’accusa spiegherà perché e come il muratore di Mapello ha ucciso - a suo parere - la ginnasta tredicenne e di conseguenza formalizzerà la richiesta di condanna, che per i più sarà il massimo della pena, scrive “L’Eco di Bergamo”. Ancora poche udienze e a giugno si arriverà al verdetto, dopo dieci mesi e mezzo di udienze. Era una calda giornata del 3 luglio 2015 quando la calca di giornalisti e telecamere si diede appuntamento in via Borfuro per la prima volta. Due le battaglie più aspre che hanno caratterizzato il dibattimento, dai toni spesso roventi. La prima quella senza esclusioni di colpi attorno alla questione tanto discussa del Dna, parola cardine del processo. La seconda più articolata basata sugli aspetti privati e intimi della vita di Bossetti, i rapporti con la moglie, le sue preferenze sessuali, le ricerche hot sui computer. Massimo Bossetti, venerdì 13 maggio, avrà due avversari in aula: un pm e la fredda aritmetica del Codice penale. Al processo per l’omicidio di Yara Gambirasio è il giorno della requisitoria di Letizia Ruggeri, il magistrato che ha condotto le indagini e sostenuto l’accusa in dibattimento, continua “L’Eco di Bergamo”. Parlerà a lungo e solo lei. Cercherà di convincere i giudici riguardo alla bontà delle presunte prove e, alla fine, invocherà la condanna dell’imputato. Quantificherà anche l’entità della sanzione che ritiene congrua per il muratore di Mapello. La materia non si presta a pronostici, ma l’algebra processuale lascia poco spazio all’immaginazione. La pena base per il reato di omicidio è 21 anni, ma a Bossetti (che è accusato anche di calunnia) vengono contestate anche due circostanze aggravanti: la cosiddetta minorata difesa (un uomo adulto contro un’adolescente di 13 anni) e, la seconda,l’aver «adoperato sevizie e aver agito con crudeltà». Quest’ultima è un’aggravante che consente di invocare la pena dell’ergastolo. In quest’ottica, se Bossetti verrà giudicato colpevole, tornerà ad essere centrale la battaglia medico-legale tra accusa e difesa. A processo la professoressa Cristina Cattaneo, che insieme al medico legale Luca Tajana eseguì l’autopsia, spiegò: «Abbiamo trovato valori elevati di acetone e piccole ulcerette gastriche, in letteratura compatibili con lo stress da ipotermia». Yara sarebbe stata abbandonata ferita, al freddo del campo di Chignolo (la temperatura era fra 0 e 2 gradi) e questo ne avrebbe determinato la morte in poche ore. «Sul corpo - aggiunse Tajana- c’erano due ordini di lesioni: contusioni e ferite da arma bianca, tutte prodotte con la vittima ancora in vita».
Lunghe code in tribunale per il caso Yara. Ci scappa la rissa, interviene la questura, scrive “L’Eco di Bergamo”. Qualche parola di troppo, forse anche uno spintone, hanno causato una rissa tra cittadini in coda per assistere al processo Bossetti. Gli agenti della questura sono intervenuti immediatamente per calmare gli animi. Fin dalla mattinata tantissime persone si sono messe in coda per entrare in aula ed ascoltare così la requisitoria del pubblico ministero Letizia Ruggeri. Dopo la pausa pranzo si è formata una coda di fronte all’ingresso principale del tribunale di via Borfuro. La gente si è messa in coda aspettando un’ora prima di poter entrare. Forse è stata proprio l’attesa ad aver creato tensione. Massimo Bossetti si aspetta una richiesta di ergastolo da parte del pm? «Certo, glielo abbiamo detto: “o è bianco o è nero”». A parlare durante una pausa dell’udienza sono i legali dell’unico imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio. Riguardo la certezza mostrata dal pm Letizia Ruggeri sul Dna sulla quale la difesa ha sempre avanzato dubbi, gli avvocati Salvagni e Camporini hanno spiegato: «Delle due l’una o è una traccia certa o non lo è». I legali hanno sottolineato che a proposito della traccia da cui è stato estratto il dna, sia stato escluso che si tratti di saliva o sperma. «Sappiamo solo di che cosa non è composto». Accade raramente? «È una cosa meno rara se la traccia è esigua, ma se come dicono loro è eccezionale non si spiega».
Bossetti, ancora battaglia sul dna. Il pm: «È una prova», scrive “L’Eco di Bergamo”. Sta parlando ininterrottamente dalle 9.30 Letizia Ruggeri. Sua è la requisitoria del caso di Massimo Bossetti: il muratore è in aula, davanti a lei, accusato della morte di Yara Gambirasio. Lunghe file nella mattinata per entrare in Tribunale a Bergamo: ci sono gli irriducibili, chi non si è perso neppure un’udienza. Massimo Bossetti ha lei di fronte: Letizia Ruggeri e la sua requisitoria che, si aspettano tutti, si concluderà probabilmente con l’invocazione della pena massima. Prima della pausa pranzo il pubblico ministero ha parlato a lungo del dna, concentrandosi sui prelievi fatti durante l’indagine per risalire al colpevole dell’omicidio. Sempre a proposito del dna, il pm Ruggeri ha detto che il fatto che non si sia potuto stabilire con certezza se la traccia da cui fu estratto fosse sangue non «inficia il risultato identificativo». Il pm ha finito di spiegare come si è arrivati al Dna di «Ignoto 1», che successive indagini stabiliranno essere di Massimo Bossetti. Letizia Ruggeri ha poi citato due sentenze, una del 2004 e un’altra del 2013, in cui il dna assumerebbe valenza di prova se ripetuto più volte. Per i legali dell’imputato, Camporini e Salvagni, le due sentenze sostengono esattamente il contrario. Il pm, cominciando la sua requisitoria (con sè ha 150 pagine di appunti), ha detto che, nelle fasi iniziali dell’inchiesta, con gli investigatori «ci spaccammo la testa» per cercare di capire le ragioni della scomparsa della tredicenne. «Ipotizzammo di tutto, dallo scambio di persona al rapimento - ha detto il magistrato - e questo lo dico perchè fummo costretti ad andare a vedere il vissuto di questa ragazza. Emerse che era una ragazza normalissima, senza alcun segreto». Di fronte a lei Massimo Bossetti, con una felpa viola, abbronzatissimo, che ascolta quanto il pm sta spiegando. Lo sguardo è più spento del solito, meno diretto delle ultime udienze. Letizia Ruggeri ha elencato i capi di imputazione, specificando oltre al reato di omicidio, la calunnia e le due circostanze aggravanti: la cosiddetta minorata difesa (per aver «approfittato di circostanze di tempo e di luogo – un campo isolato – di tempo – in ore serali/notturne – e di persona – un uomo adulto contro un’adolescente di 13 anni – tali da ostacolare la difesa») e, la seconda, l’aver «adoperato sevizie e aver agito con crudeltà». Quest’ultima è un’aggravante che consente di invocare la pena dell’ergastolo. Richiesta di ergastolo che arriverà dopo quasi cinque anni di indagini e uno di processo. Tutto iniziò quell’ormai lontano venerdì 26 novembre 2010, quando era il magistrato di turno per i casi urgenti e ricevette la chiamata dei carabinieri di Ponte San Pietro: «È scomparsa una ragazzina, si chiama Yara Gambirasio». Proprio il pm ha ripercorso in aula venerdì mattina tutte le fasi: dalla scomparsa alle ricerche, fino al ritrovamento del cadavere. E proprio sul corpo di Yara si è soffermata, specificando la tipologia di lesioni rinvenute, le armi che si suppone siano state usate e l’agonia a cui è stata sottoposta la ragazzina. Dettagli che il pm ha voluto specificare, parlando di morte per «ipotermia e lesioni», proprio per sottolineare come «chi ha ucciso Yara Gambirasio si è accanito». Il magistrato lo ha ricordato per spiegare perché al muratore di Mapello è contestata anche l’aggravante delle sevizie e crudeltà. Yara Gambirasio non morì infatti nelle fasi immediatamente successive all’aggressione ma nelle ore successive anche se stabilire la durata della sua agonia non è stato possibile. La tredicenne - ha ricordato il pm di Bergamo, Letizia Ruggeri - morì per una concausa delle lesioni subite e per il freddo. «Avrà provato paura e dolore», ha aggiunto il magistrato che ha ricostruito minuziosamente tutti i passaggi dell’indagine. Il magistrato ha continuato: «Sulla tredicenne Yara Gambirasio, incapace di difendersi perché tramortita con un corpo contundente, furono inferte delle ferite, non mortali, e che sembra avessero lo scopo di infierire sulla ragazza».
Una mattinata di grande tensione, quindi, tanto che il giudice Bertoja ha anche chiesto l’assoluto silenzio in aula data la drammaticità e gravità dei fatti raccontati, scrive “L’Eco di Bergamo”.
Il pm continuerà così e cercherà di convincere i giudici riguardo alla bontà delle presunte prove e, alla fine, invocherà la condanna dell’imputato. Quantificherà anche l’entità della sanzione che ritiene congrua per il muratore di Mapello.
Dopo la requisitoria da parte del pm, il processo potrebbe subire un rallentamento: le conclusioni delle parti civili previste mercoledì prossimo potrebbero slittare per un altro processo in concomitanza. Poi sarà invece il turno della difesa, che invocherà l’assoluzione. Colpevolezza o innocenza di Bossetti si giocheranno su elementi ormai noti e dibattuti, riassumibili grosso modo in sette punti. Il Dna trovato su slip e leggings della vittima. L’aggancio delle celle telefoniche che collocano l’indagato nella zona della sparizione di Yara. Le telecamere che – secondo gli inquirenti – riprendono il suo furgone attorno al centro sportivo. Le fibre (e particelle ferrose) trovate sui vestiti della vittima, per i Ris compatibili con il materiale dei sedili del furgone. La testimonianza di una donna di Trescore che sostiene di aver visto Bossetti nell’estate precedente al delitto in auto, in compagnia di una ragazzina. La perizia sui computer dell’indagato, da cui emergono ricerche con parole chiave come «ragazzine» accostate a contenuti hard. E infine le intercettazioni, in particolare quelle ambientali dei colloqui in carcere fra Bossetti e la moglie, Marita Comi. In questi incontri la donna sembra a tratti nutrire dubbi sul marito e lo incalza: «Non ho mai saputo cosa hai fatto quella sera...».
Processo Bossetti alla stretta finale: rischia l'ergastolo. Il pm: "Yara morta tra paura e dolore". Folla in tribunale dove si aspetta la requisitoria del pm che ha ripercorso in aula le prime fasi delle indagini. Il muratore in carcere ha fatto sapere, attraverso i suoi avvocati, di "essere pronto al peggio", scrive Paolo Berizzi su “La Repubblica” Dopo dieci mesi e mezzo di udienze, e a un anno e undici mesi dal suo arresto, Massimo Bossetti, unico imputato e unico indagato per l'omicidio di Yara Gambirasio, sta per conoscere la pena richiesta dal pm Letizia Ruggeri: il rischio, per il carpentiere di Mapello, si chiama ergastolo. Al tribunale di Bergamo, infatti, è il giorno della requisitoria. E l'evento ha richiamato molto pubblico in tribunale, tanto che - addirittura - si è arrivati alla rissa tra un gruppo di cittadini in coda fuori dal palazzo di giustizia per assistere all'udienza. Gli agenti della questura sono dovuti intervenire per calmare gli animi. Fin dalle prime ore del mattino, infatti, tantissime persone si erano messe in coda. Dopo la pausa pranzo si è formata una coda di fronte all'ingresso principale in via Borfuro. La gente si è messa in fila aspettando un'ora prima di poter entrare. Forse è stata proprio l'attesa ad aver creato tensione. "Yara, morta tra paura e dolore". Il magistrato che ha condotto le indagini e sostenuto l'accusa in dibattimento, il pm Letizia Ruggeri, ha ripercorso le fasi iniziali dell'inchiesta. Con gli investigatori, ha detto, "ci spaccammo la testa" per cercare di capire le ragioni della scomparsa della tredicenne trovata morta solo tre mesi dopo. E fu una morte orribile quella di Yara, perché non morì nelle fasi immediatamente successive all'aggressione ma nell'arco di alcune ore, anche se a stabilire la durata dell'agonia non è stato possibile. La tredicenne - ha ricordato il pm - morì per la concausa delle lesioni e del freddo. "Avrà provato paura e dolore", ha aggiunto il magistrato che in aula ha ricostruito minuziosamente tutti i passaggi dell'indagine: dalla scomparsa, il 26 novembre 2010 a Brembate Sopra, al ritrovamento del corpo. Le ferite non erano mortali - è l'ipotesi del pm - e furono inferte allo scopo di infierire sulla ragazza. Di qui l'aggravante delle sevizie e della crudeltà. "Yara, una tredicenne senza segreti". Parlando di quei primi giorni, il pm ha raccontato: "Ipotizzammo di tutto, dallo scambio di persona al rapimento e questo lo dico perché fummo costretti ad andare a vedere il vissuto di questa ragazza. Emerse che era una ragazza normalissima, senza alcun segreto che andava bene a scuola, non mostrava nessun problema e si relazionava normalmente con i suoi coetanei". "La madre ci dice - ha spiegato ancora Ruggeri - che Yara non dava confidenza a nessuno, aveva un cellulare molto semplice, non usava i social network, si confidava con la sorella Keba e la madre". Yara, insomma, era "una ragazza trasparente, assolutamente limpida di cui non si può sospettare che tenesse alcunché di segreto". Bossetti: "Pronto al peggio". Bossetti, attraverso i suoi legali, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, ha fatto sapere di "essere pronto al peggio". "Il pm chiederà certamente l'ergastolo", ha aggiunto l"avvocato Salvagni. E' , la pena massima, quella che - con tutta probabilità - Letizia Ruggeri è pronta a invocare. Il codice penale parla chiaro e - al netto di un dibattimento nel quale non sono mancati scontri e polemiche, con in parallelo un italianissimo confronto mediatico tra colpevolisti e innocentisti - non lascia spazio a interpretazioni. Ventuno anni è la pena base prevista per il reato di omicidio, ma a Bossetti (che è accusato anche di calunnia) vengono contestate anche due aggravanti: la cosiddetta minorata difesa (un uomo adulto contro un’adolescente). E la seconda, l'aver "adoperato sevizie e aver agito con crudeltà". Se Bossetti fosse giudicato colpevole, tornerebbe centrale la battaglia medico legale - a colpi di perizie - tra accusa e difesa. Secondo gli specialisti che hanno eseguito l'autopsia per la Procura, il cadavere di Yara - abbandonata al freddo nel campo di Chignolo - presentava contusioni e anche ferite da arma bianca, tutte prodotte con la vittima ancora in vita. Dove? Secondo l'accusa lì, nel campo, lo stesso luogo dove Yara è stata uccisa la stessa sera in cui - sempre stando alla ricostruzione del pm Ruggeri - Bossetti ha caricato la ragazzina sul suo furgone Iveco Daily fuori dalla palestra di Brembate Sopra. La prova regina che - secondo l'accusa - incastra Bossetti è la presenza del suo DNA sugli indumenti della vittima. Non può essere il suo, ha sempre replicato la difesa del muratore, perché il DNA estratto è incompleto: manca la componente mitocondriale. Siamo alle battute finali del processo. Oggi in tribunale dallo scontro tra le parti si passerà ai numeri: e sapremo quale sarà la condanna chiesta per Massimo Bossetti.
Bossetti rischia l’ergastolo, il pm: «Yara morta dopo una lenta agonia. Indagine senza precedenti al mondo». Il sostituto procuratore Letizia Ruggeri ha iniziato la sua requisitoria ricordando le difficoltà dei primi mesi: ci siamo spaccati la testa, abbiamo valutato ogni pista. Il passaggio più toccante: la ragazza era sola, al buio, deve avere provato paura e dolore, scrivono Armando Di Landro e Giuliana Ubbiali su “Il Corriere della Sera”. «È stata un’indagine senza precedenti in Italia e nel mondo sotto l’aspetto genetico e della biologia forense». Nel corso della sua requisitoria il sostituto procuratore Letizia Ruggeri ha definito così il lavoro svolto dal Ris di Parma, dalla polizia scientifica e da tutti i consulenti sul profilo di Ignoto 1, emerso dagli indumenti di Yara Gambirasio. Oggi, nel processo sul delitto della tredicenne di Brembate Sopra, è il giorno dedicato all’accusa. Entro sera è attesa la richiesta di condanna per l’unico imputato per omicidio pluriaggravato, Massimo Bossetti, 45 anni, carpentiere di Mapello. «Da quando il profilo è stato individuato - ha ricapitolato il pm Ruggeri davanti alla Corte d’Assise - ogni sforzo è stato concentrato lì, perché era utile farlo, coinvolgendo tutte le caserme, la questura, i commissariati per una raccolta di campioni andata oltre le ventimila unità». È il punto centrale per l’accusa, la prova regina: quella traccia di Dna rintracciato sugli slip della vittima, proprio nel punto in cui il suo assassino li ha tagliati. Prima di ricordare quali sono stati tutti i profili genetici isolati dagli indumenti di Yara, il pm ha voluto mettere un punto fermo in merito al ritrovamento del cadavere e alle analisi degli anatomopatologi, accompagnate da rilievi di botanica e entomologia (lo studio di larve e insetti sui cadaveri). Chiara la conclusione dell’accusa sulla base di elementi compatibili con il luogo del ritrovamento: Yara ha camminato sul campo di Chignolo d’Isola, è stata ferita lì, uccisa lì ed è morta in quel luogo, dove è rimasta fino al ritrovamento, il 26 febbraio 2011. Il pm Ruggeri ha preso la parola alle 10, ricordando le difficoltà dei mesi iniziali, quando ancora non si sapeva che la tredicenne fosse stata uccisa. «Nei primi mesi - ha spiegato - delle indagini non avevamo davvero idea di cosa fosse successo, se si trattasse di un allontanamento volontario, di un omicidio o di altro. Nella via della famiglia Gambirasio abitano anche persone più benestanti e si è valutato persino il sequestro di persona per errore. Ci siamo davvero spaccati la testa su queste riflessioni, abbiamo valutato ogni posta possibile per riuscire a indirizzare le indagini». Dopo una descrizione della personalità e delle abitudini di vita di Yara, il pubblico ministero ha proseguito la sua requisitoria parlando della sera del delitto, il 26 novembre 2010. «Le celle telefoniche - ha spiegato il pm - sono state lo strumento a cui ci siamo affidati inizialmente. Si tratta di dati approssimativi, che indicano la zona di permanenza di un soggetto e le celle ci hanno detto che Yara Gambirasio, fino alle 18.55 aggancia due celle diverse ma comunque tutte compatibili con la sua abitazione e la palestra». E ancora: «Non esistono motivi per pensare che Yara non avesse fatto la solita strada per rientrare a casa. Un primo punto fermo sulle indagini arriva, comunque quel 26 febbraio 2011, con il ritrovamento del cadavere a Chignolo d’Isola. È in quel momento che si sgombera il campo da ipotesi residuali, e che si possono avviare indagini vere». Dopo aver descritto tutte le operazioni scattate dopo il rinvenimento del cadavere, il pmha specificato che «non è mai stato comunque possibile, dopo tutti i rilievi degli specialisti, ricostruire con certezza la dinamica esatta dell’aggressione». Quanto accaduto, nei dettagli, resta un mistero. Ma alcuni punti fermi si possono porre, secondo l’accusa: «La terra sotto le suole delle scarpe di Yara Gambirasio può risultare compatibile con un camminata sul campo. Le lesioni da contusione e quelle da taglio, inoltre, presentano comunque fuoriuscite di sangue». Sono quindi state inferte su un corpo ancora «irrorato - specifica il pm -. Si può quindi pensare che la vittima sia stata colpita quando era ancora viva. D’altra parte il corpo non presenta ferite da difesa di alcun tipo. Ed è quindi presumibile che Yara Gambirasio, benché viva, mentre veniva colpita non fosse in grado di reagire». È stata un’agonia, sottolinea il pm in uno dei passaggi più toccanti: «C’era buio, era sola, avrà provato paura e avrà provato dolore. Ha vissuto uno stress agonico prolungato». Lo provano l’acetone e l’adrenalina ritrovati nel suo corpo in misura superiore alla norma. Al termine della sua requisitoria il pm chiederà la condanna dell’imputato, che con ogni probabilità sarà l’ergastolo. Cosa deciderà la Corte d’Assise, presieduta dal giudice Antonella Bertoja, si saprà a giugno. La data al momento più probabile per la sentenza (salvo rinvii) è il 10. Il 18 maggio parleranno invece gli avvocati di parte civile Enrico Pelillo e Andrea Pezzotta, il 20 e il 27 i difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini.
Di seguito i passaggi principali della requisitoria del pubblico ministero di Bergamo, Letizia Ruggeri, nel processo per l'omocidio di Yara Gambirasio, scrive “Panorama”.
In attesa di rientrare in tribunale per ascoltare la requisitoria da parte del pm Letizia Ruggeri il pubblico si scatena in una lite. Qualche parola di troppo tira l'altra, forse anche uno spintone, e così è scattata la rissa tra i cittadini in coda per assistere al processo Bossetti che si sta svolgendo a Bergamo. Gli agenti della questura sono intervenuti immediatamente per calmare gli animi. Fin dalla mattinata tantissime persone si erano messe in coda per entrare in aula e ascoltare la requisitoria del pubblico ministero ma, dopo la pausa pranzo, si è formata una coda di fronte all'ingresso principale del tribunale di via Borfuro. La gente si è messa in fila aspettando un'ora prima di poter entrare. Forse è stata proprio l'attesa ad aver creato tensione.
Secondo i legali di Massimo Bossetti l'imputato è pronto a tutto e si aspetta anche una richiesta di ergastolo da parte del Pm. "Certo, glielo abbiamo detto o è bianco o è nero", rivelano gli avvocati durante una pausa del processo contro Bossetti accusato dell'omicidio di Yara Gambirasio. Riguardo la certezza mostrata dal pm Letizia Ruggeri sul Dna sulla quale la difesa ha sempre avanzato dubbi, gli avvocati Salvagni e Camporini hanno spiegato: "Delle due l'una o è una traccia certa o non lo è". I legali hanno sottolineato che a proposito della traccia da cui è stato estratto il dna, sia stato escluso che si tratti di saliva o sperma. "Sappiamo solo di che cosa non è composto". Accade raramente? È stato chiesto loro. "È una cosa meno rara se la traccia è esigua, ma se come dicono loro è eccezionale non si spiega".
Il pm Letizia Ruggeri sta ripercorrendo le fasi dell'indagine che ha portato all'identificazione, come presunto omicida Massimo Bossetti, ha parlato di "indagine che non ha avuto pari non solo nel nostro Paese, ma anche in tutti Paesi del mondo". Il rappresentante dell'accusa ha aggiunto che le indagini hanno interessato gli investigatori di tutti i livelli: dai reparti specializzati di carabinieri e polizia fino alle stazioni". "Sono stati fatti sforzi enormi - ha concluso -. Sono stati spesi dei soldi? Ne valeva la pena".
Yara Gambirasio "è stata aggredita, è morta ed è rimasta nel campo di Chignolo d'Isola, dove fu trovato il corpo, dal giorno della sua scomparsa fino alla scoperta 3 mesi dopo". In questo modo il pm di Bergamo Letizia Ruggeri ha cercato di sgomberare il campo da ipotesi alternative avanzate nel corso del processo nella difesa di Massimo Bossetti unico imputato per l'omicidio della tredicenne. A questa conclusione, secondo il pm, sono giunte "coerentemente" indagini di carattere geologico, botanico ed entomologico fatte sul corpo di Yara e sul terreno e la vegetazione nel campo dove fu scoperto il corpo il 26 febbraio 2011.
Il pm di Bergamo, Letizia Ruggeri, nella sua requisitoria, ha sottolineato, citando sentenze della Cassazione, che il Dna, il principale elemento a carico di Massimo Bossetti, non sia un indizio bensì una prova. Sempre a proposito del Dna, il pm Ruggeri ha detto che il fatto che non si sia potuto stabilire con certezza se la traccia da cui fu estratto fosse sangue non "inficia il risultato identificativo". Il pm ha finito di spiegare come si è arrivati al Dna di “Ignoto 1”, che successive indagini stabiliranno essere di Massimo Bossetti.
Sulla tredicenne Yara Gambirasio, incapace di difendersi perché tramortita con un corpo contundente, furono inferte delle ferite, non mortali, e che sembra avessero lo scopo di infierire sulla ragazza. Il magistrato lo ha ricordato per spiegare perché al muratore di Mapello è contestata anche l'aggravante delle sevizie e crudeltà.
Yara Gambirasio non morì nelle fasi immediatamente successive all'aggressione ma nelle ore successive anche se stabilire la durata della sua agonia non è stato possibile. La tredicenne - ha ricordato il pm di Bergamo, Letizia Ruggeri - morì per una concausa delle lesioni subite e per il freddo. "Avrà provato paura e dolore", ha aggiunto il magistrato che sta ricostruendo minuziosamente tutti i passaggi dell'indagine: dalla scomparsa di Yara, il 26 novembre del 2010 al ritrovamento del corpo esattamente tre mesi dopo.
Il pm Letizia Ruggeri, cominciando la sua requisitoria nel processo a carico di Massimo Bossetti per l'omicidio di Yara Gambirasio, ha detto che, nelle fasi iniziali dell'inchiesta, con gli investigatori "ci spaccammo la testa" per cercare di capire le ragioni della scomparsa della tredicenne. "Ipotizzammo di tutto, dallo scambio di persona al rapimento - ha detto il magistrato - e questo lo dico perché fummo costretti ad andare a vedere il vissuto di questa ragazza. Emerse che era una ragazza normalissima, senza alcun segreto".
IL PUNTO - I giochi a livello probatorio sono fatti. Ora starà all'abilità e agli argomenti del pm Letizia Ruggeri e dei difensori di Massimo Bossetti convincere i giudici della Corte d'assise di Bergamo del fatto che il carpentiere e muratore di Mapello sia colpevole o innocente dell'omicidio della tredicenne di Brembate di Sopra Yara Gambirasio la cui scomparsa, il 26 novembre del 2010, gettò tutt'Italia nell'angoscia e poi nel dolore, quando il corpo della ragazza fu trovato, tre mesi dopo, in un campo di Chignolo d'Isola, a pochi chilometri di distanza da casa. Il campanello dell'ultimo round è suonato nell'udienza del 22 aprile, quando i giudici avevano deciso che il dibattimento, in un modo o nell'altro, era stato sufficientemente esaustivo su tutti i punti che avevano visto sfidarsi all'arma bianca il pm Ruggeri e gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini. Nessuna perizia sulla cosiddetta "prova regina", aveva scritto la Corte presieduta da Antonella Bertoja: il Dna trovato sul corpo della ragazza e che le indagini hanno attribuito a Bossetti. Questo perché "non è decisivo ogni ulteriore accertamento" rispetto a quanto era stato aspramente dibattuto in aula: il lavoro del Ris che individuarono Ignoto 1, quello degli esperti dell'Università di Pavia che lo compararono a quello di Bossetti e ne stabilirono la sostanziale identità e quanto spiegato dai consulenti della difesa, su tutti il biologo Marzio Capra che aveva cercato di smontare la prova scientifica. "Superflui" anche gli accertamenti chiesti sulle telecamere di sorveglianza della zona attorno alla palestra da cui Yara sparì e le misurazioni fatte dal Ris sul furgone ritratto nelle immagini in rapporto ai luoghi per stabilire le dimensioni del mezzo che, per gli investigatori, è il Fiat Daily di Bossetti. Unica concessione alla difesa, l'intera corrispondenza 'hard' intercorsa in carcere tra Bossetti e una detenuta, Gina, mentre il pm chiedeva che fossero nel processo le lettere che riteneva più significative. Bocce ferme, quindi, e via alla discussione. Il pm Ruggeri ha preso oggi la parola. Difficile che la sua richiesta si discosti dall'ergastolo. Questo per via della gravità del reato di cui è accusato il carpentiere e muratore di Mapello sul quale pendono accuse da ergastolo: omicidio aggravato dalle sevizie e crudeltà, dalla minorata difesa e anche di calunnia, ai danni di un suo ex collega, Massimo Maggioni, su quale avrebbe cercato di indirizzare i sospetti. E sulla concessione delle attenuanti generiche peserà, per l'accusa, anche il comportamento processuale dell'imputato che proclamandosi sempre innocente, in aula aveva anche evocato il complotto ai suoi danni e lanciato a sua volta pesanti accuse. "Qui hanno mentito tutti".
Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano” del 15 maggio 2016: "Bossetti è innocente". Ecco perché deve essere assolto. Processo Bossetti, delitto Yara, Brembate, provincia di Bergamo. Siamo alle ultime fasi concitate. Venerdì, la pm Letizia Ruggeri dopo mesi e mesi di udienze si è lanciata in una requisitoria di otto ore senza terminarla. Ha bisogno di parlare ancora a lungo per chiedere la condanna all'ergastolo dello strambo imputato. Una condanna che dal giorno dell'arresto del muratore è considerata sicura, scontata. Ovvio. Sul cadavere della vittima è stato trovato il Dna dell'accusato, un frammento minuscolo che è servito, a seguito di una indagine controversa, a inchiodarlo. Già. Il Dna ormai è considerato un dogma e nessuno si sogna di contestarlo. Davanti alla scienza chi osa eccepire? Siamo tutti soggiogati dal potere delle provette, che dicono sempre la verità. Non ci passa per la testa che se la scienza è (forse) esatta, chi la maneggia rischia di sbagliare. Nel caso di specie, l'esame di laboratorio non si può ripetere per insufficienza quantitativa del materiale disponibile. Bisogna accettarne il primo e unico risultato che incastra Bossetti. Ma se una analisi non è replicabile, come si fa a dire che è decisiva? Dobbiamo ritenerla esatta perché abbiamo fiducia in chi l'ha eseguita? Assurdo. Non ha valore di prova un accertamento che non consenta una controprova. Al massimo trattasi di indizio, peraltro fragile. Ma non è questo il punto fondamentale, a nostro parere. La requisitoria della pm, dettagliata e sicuramente pronunciata in buona fede, è lacunosa e per nulla convincente. Non risponde a quesiti importanti. Yara sarebbe stata prelevata da Bossetti davanti alla palestra dove si era recata a tarda sera. Domanda: come si spiega il fatto che ella sia salita sul furgone del carpentiere senza opporre resistenza, senza gridare, senza attirare l'attenzione di alcuno nella zona che data l'ora non poteva essere deserta? Conosceva il suo adescatore e quindi ha acconsentito di buon grado ad essere ospitata a bordo del camioncino? Ipotesi da non scartare a priori. Se le cose stanno così vuol dire che i due non erano estranei l'uno all' altra. Si erano già incontrati e avevano stretto una sorta di amicizia? Se diamo per buona la congettura, va da sé che qualche traccia delle loro frequentazioni dovrebbe trovarsi. Invece non si trova: non una telefonata, non un sms. Ergo si conclude che tra l'uomo e l'adolescente non vi erano rapporti tali da indurre lei a non rifiutare un passaggio sull' autocarro Iveco, che non è suggestivo quanto una Jaguar. Chiaro fin qui? Ciò detto, come si giustifica che Bossetti sia riuscito da solo a caricare la fanciulla con la forza sul proprio mezzo e a condurla in un campo (percorrendo vari chilometri) evitando una sua ribellione difficilmente contenibile, posto che egli era intento alla guida? Il muratore era un muratore, non un incantatore di serpenti o un seduttore irresistibile. Questi aspetti del problema sono stati trascurati dalla dottoressa Ruggeri. Quindi si apre un buco logico che fa traballare l'intero impianto accusatorio basato soltanto sul Dna e su ragionamenti non strampalati, ma non supportati da elementi probatori persuasivi. La pm non ha riflettuto che omicidi di questo tipo normalmente sono commessi da un gruppo e non da un singolo individuo? Per bloccare e caricare un ragazza atletica (non una bimba) serve essere almeno in tre persone, presumendo che una stia al volante e altre due la immobilizzino. Altrimenti l'impresa criminale è irrealizzabile. Se poi si tiene conto che Yara è stata trascinata in campagna, seviziata e uccisa da un uomo, è fatale chiedersi come questo sia accaduto. Una fanciulla non è un pupazzo che porti di qua e di là per i fatti tuoi quasi che fosse una bambola. Tutti interrogativi sui cui la requisitoria sorvola, preferendo addentrarsi in questioni riguardanti la famiglia del presunto assassino, la propensione di questi a mentire, il suo carattere bizzarro, come se vi fosse una stretta attinenza tra il comportamento abituale di un soggetto e la morte violenta di una ragazzina perbene e dall' esistenza impeccabile. Faccio poi notare che la pm ha sostenuto un concetto stravagante: Bossetti al momento di essere arrestato nel cantiere dove lavorava, constatata la presenza dei carabinieri, avrebbe cercato di fuggire nella consapevolezza di essere l'omicida e quindi ricercato. Una insensatezza. Difatti egli era sul tetto di un edificio e non sarebbe stato in grado, neppure volendolo, di superare l'accerchiamento dei militari. L' accusato era solo stordito e intimorito, come si evince dalle immagini televisive. Non ha dato assolutamente l'impressione di voler scappare. Scappare dove? Era assediato. Infine una constatazione amara. I bambini di Bossetti sono stati trattati con crudeltà: figli di un assassino, figli di una fedifraga (i suoi presunti amanti interrogati in aula), nipoti di una nonna che tradiva regolarmente il marito e di un nonno cornuto. Tutto questo, materia istruttoria. Una vergogna. È stato fatto strame di povera gente e di poveri scolari che oggi sono additati in paese quali appartenenti a una progenie infame. Un processo del genere è una novità respingente.
Omicidio Yara, parla il legale di Bossetti: "Se è un assassino ci vogliono le prove", scrive il 17-05-2016 “Italia chiama Italia”. "Il processo deve stabilire se è un assassino o no e deve farlo con le prove, non con le suggestioni". L’Avv. Claudio Salvagni, legale di Massimo Bossetti, sotto processo con l’accusa di essere il killer di Yara Gambirasio, è intervenuto ai microfoni di Radio Cusano Campus. Si attende la richiesta di condanna del pm Ruggeri nei confronti di Bossetti. “Non mi aspettavo una requisitoria così lunga – ha affermato Salvagni -. Non ha alcun senso ricostruire tutta la fase delle indagini perché diventa un’autocelebrazione dell’inchiesta, come del resto è stato tutto il processo. C’è un dato oggettivo: loro ritengono che quel dna sia di Bossetti, da lì bisogna partire. Andare a disquisire per ore sulla questione di Giuseppe Guerinoni non ha alcun senso. Noi abbiamo sentito pronunciare il nome di Bossetti alle 5 del pomeriggio, dopo che la requisitoria era iniziata da 6 ore. Possiamo parlare quanto vogliamo, ma alla fine gli elementi a carico di questa richiesta di condanna sono veramente scarni, benché se ne parli per ore. Attenderemo questa seconda parte di requisitoria per capire quali siano le prove a carico, e dico prove non indizi. Questo mezzo dna, con tutti i sé e con tutti i ma che lo hanno accompagnato, sarà sufficiente alla condanna? Anziché trovare la risposta al fatto che non è stata trovata l’altra parte di dna, dicono che quella parte di dna non è importante. Il dna mitocondriale è la prova del nove, se quella non torna non è che si può dire che non è importante”. Molti organi di stampa si sono soffermati sull’abbronzatura di Bossetti il giorno dell’ultima udienza. “Premesso che Bossetti è sottoposto a terapie di psicofarmaci – ha spiegato Salvagni -. Il fatto che sia abbronzato dipende da quei pochi raggi di sole che possono penetrare attraverso le sbarre e nell’ora d’aria. Hanno sempre cercato di fare un processo alla persona. Si devono far coincidere dei punti: se c’è un punto di partenza e un punto d’arrivo che sono distanti, la strada per unire questi due punti è stata adattata. Il processo a Bossetti non deve essere fatto di suggestioni: le lampade, le sue abitudini sessuali, ecc… Il processo deve stabilire se è un assassino o no e deve farlo con le prove, non con le suggestioni”. Vittorio Feltri ha detto che finora non ci sono prove per dimostrare che Bossetti è colpevole. “Feltri è un pensatore libero e questo mi piace – ha affermato Salvagni -. Io apprezzo le persone che ragionano con la loro testa e non asservite a determinate logiche che vogliono a tutti i costi un colpevole”. A Radio Cusano Campus è intervenuta anche Sarah Gino, Professore Aggregato di Medicina Legale Università di Torino, medico legale e genetista forense per la difesa di Massimo Bossetti, sulla questione del dna. “I profili genetici sono due –ha spiegato la dott.ssa Gino -: dna nucleare (quello da parte del padre) e quello mitocondriale (da parte della madre). Su Bossetti è stato trovato solo il primo. Ovvero, dagli esami svolti, per il DNA nucleare c'era una sovrapposizione con quello di Bossetti mentre non c'era per il mitocondriale. E' la prima volta che ci capita in un caso pratico, per questo era stato chiesto di fare maggiore chiarezza. Non troviamo neanche in letteratura una spiegazione applicabile al caso specifico. Bisognerebbe fare degli esperimenti. In udienza si è detto che il DNA si è degradato. Esiste tutta una serie di fattori che possono modificare la quantità di DNA a disposizione ma ciò è errato. Quando studiamo mummie, ad esempio, sottoposte ovviamente ad intemperie, molte più del corpo della povera Yara, studiamo il DNA mitocondriale. Come è possibile che quello in esame si sia degradato o sparito in così poco tempo?”.
Bossetti, lettera choc dal carcere: «La farò finita qui dentro, non posso accettare quello che ho fatto a mia moglie», scrive “Il Messaggero” il 17 maggio 2016. «Mamma e Laura, io so che la farò finita qui dentro, perchè non posso accettare tutto quello che ho combinato a Marita e me lo merito davvero per quello che ho fatto». Massimo Bossetti, a processo per l'omicidio di Yara Gambirasio, ha scritto una lettera disperata alla madre Ester e alla sorella Laura che il settimanale Oggi pubblica nel numero in edicola da domani. Il riferimento è alle lettere a luci rosse inviate da Bossetti a una detenuta. «Mi auguro solo che un giorno mi possa svegliare accanto a papà (il defunto Giovanni Bossetti, ndr) e non dover più soffrire per niente e lui mai mi abbandonerà in preda allo sconforto e disperazione - scrive Bossetti - Mamma, ora vivo qui dentro momentaneamente, ma non sarà per tanto perchè non è degna essere chiamata vita, la vita qui dentro, purtroppo sono costretto nel starci ma non per molto credimi... Io in una maniera o l'altra da qui me ne vado. Lo farò credimi, solo per restare bene una volta per tutte... Mamma e Laura più male di così come posso stare, non preoccupatevi, gli agenti qui mi stanno aiutando insieme ai dottori io comunque ho già in mente le mie idee e nessuno me le farà cambiare». Continua il muratore: «Avvocati o non avvocati, pazienza, io mi tengo una vita e ora me la gestisco io e non aspetto più così tanto tempo nel soffrire ingiustamente per i loro errori, perciò che vada come vada fino a sentenza e poi deciderò una volta per tutte della mia vita, quello che deciderò è una mia decisione mamma e nessuno mi impedirà di fare quello che non dovrei mai fare». Continua Massimo Bosetti nella sua missiva: «Mamma e Laura, io ho rovinato completamente la vita di Marita e dei miei figli e non riesco a darmi pace per tutto quello che ho fatto. Ho sbagliato tutto nella vita e ora rimedierò tutto con la mia vita. Me lo sono meritato e ora pagherò con la vita perchè non ci dormo con quello che a lei ho fatto, ho sbagliato completamente tutto. Mamma e Laura cercate di capirla che non esiste più nulla in natura che qualcuno o qualcosa possa ridare a me di quanto ho perso e sto perdendo. Non ce la faccio più a vivere in questo stato, sono stanco di sopportare tutte le sofferenze ingiuste». E ancora: «La mia vita è mia e la gestisco come voglio. Sto continuando nel combattere per i figli ma non so fino a quanto ci riuscirò. Per quello che ho combinato a Marita non riesco più a darmi pace. La mia situazione familiare l'ho compromessa, ho combinato tutto un casino per una detenuta che neppure conosco e mai vista, quando a me Marita fino a oggi è sempre stata vicina. Capite come questo inferno ti può rovinare su tutto. Questa vita è un inferno e credo che non abbia più un valore per me per cui qualunque cosa a me potrà capitare non voglio che voi ne risentiate ma credetemi che starò meglio di dove ora mi trovo».
«Ergastolo con 6 mesi di isolamento». La requisitoria del pm di Bergamo Letizia Ruggeri per il processo a carico di Massimo Bossetti, accusato del delitto di Yara, scrive “L’Eco di Bergamo” il 18 maggio 2016. Poco prima delle 20 il pm Letizia Ruggeri ha chiesto l’ergastolo e 6 mesi di isolamento per Massimo Bossetti. Il muratore di Mapello è rimasto impassibile davanti alla richiesta del pm, mentre la sorella Laura - in lacrime - è stata l’ultima a lasciare l’aula. La richiesta di condanna, in un’aula affollatissima, è arrivata dopo 5 ore di requisitoria nel pomeriggio di mercoledì 18 maggio e altre 8 ore venerdì scorso, un intervento-fiume nel corso del quale il magistrato ha ripercorso tutte le tappe dell’inchiesta sull’omicidio di Yara. Le accuse nei confronti del muratore sono di omicidio volontario pluriaggravato e calunnia ai danni di un collega di lavoro. Secondo il pm su Yara Gambirasio «si è voluto infliggere particolare dolore e ci si è riusciti». Il pubblico ministero lo ha detto per motivare l’aggravante, nei confronti di Massimo Bossetti, delle sevizie e della crudeltà. Per il pm «non vi è dubbio che l’omicidio sia volontario». «Abbandonandola in quel campo - ha aggiunto - si è causata volontariamente la morte» della ragazzina. Il pm Ruggeri nell’udienza di oggi ha evidenziato che «non è possibile individuare un movente» per il delitto di Yara o affermare che la vittima e Bossetti si conoscessero. Le ipotesi sono due: «O Bossetti l’ha convinta a salire – ha detto il magistrato durante la requisitoria – o l’ha tramortita». Per il pubblico ministero il delitto sarebbe da ricondurre a un’«incapacità di controllarsi» di Bossetti: su questo punto Letizia Ruggeri nella sua requisitoria davanti alla Corte ha fatto un paragone con il caso giudiziario del camionista di Verdellino Roberto Paribello, che nel 2002 dopo un incidente stradale sequestrò e uccise una ragazza gettando poi il corpo in un canale dell’Enel a Marne di Filago: nel marzo 2005 la Corte di cassazione confermò, con sentenza definitiva, i giudizi di primo e secondo grado, punendo il camionista con il carcere a vita. Il pm Letizia Ruggeri, pur spiegando che non è possibile stabilirlo con certezza, nella requisitoria ha detto che «l’incontro fatale» con l’imputato Massimo Bossetti «non è accaduto davanti alla palestra» da cui Yara scomparve, ma nei pressi dell’abitazione della ragazza in via Morlotti oppure in via Rampinelli, due strade che la tredicenne avrebbe dovuto necessariamente percorrere per tornare a casa. Il pm ha anche descritto le ricerche a sfondo pornografico ritrovate nei computer di casa Bossetti. Durante l’udienza Ruggeri si è soffermata al lungo sulle consulenze della difesa, cercando di smontarle. A proposito degli accertamenti sulle telecamere di Brembate Sopra, ha spiegato che «l’uscita di Yara» dal centro sportivo «è compatibile con il passaggio di Bossetti», mentre per quanto riguarda le fibre tessili trovate sui suoi indumenti ha spiegato che il «furgone di Bossetti è idoneo a generare fibre come quelle». Sempre sul tema del furgone di Bossetti, poco prima, in aula è salita la tensione, tanto che il giudice Antonella Bertoja è intervenuta per interrompere i commenti del pubblico. Ruggeri ha infatti «smontato» le misurazioni condotte dal consulente della difesa Ezio Denti, secondo il quale il «passo» (distanza tra le ruote, ndr) del mezzo ripreso nei filmati della ditta Polynt sarebbe diverso da quello del furgone di Bossetti. Il pm ha parlato di «approssimazione» delle misurazioni del consulente e «mancanza di prospettiva», mettendo dunque in dubbio la validità degli accertamenti della difesa. Durante questi passaggi della requisitoria dal pubblico si sono sentiti commenti e mormorii, il giudice Bertoja è intervenuta dicendo: «Non siamo al cinema». Letizia Ruggeri ha spiegato che oltre alla «prova genetica», ovvero al dna che rappresenta «il faro dell’inchiesta», a carico del muratore di Mapello vi è «un corollario significativo» di indizi caratterizzati da «gravità, precisione e concordanza»: i tabulati telefonici dell’imputato e le immagini del mezzo ripreso dalle telecamere di sorveglianza della zona. «Elementi che vanno letti complessivamente» e che dimostrano come «non cercammo di cucire addosso degli elementi, ma cercammo riscontri in quello che già c’era». I tabulati telefonici di tutte le persone che transitarono a Brembate il 26 novembre 2010 e le immagini delle telecamere - ha ricordato l’accusa - furono acquisite, infatti, nei giorni immediatamente successivi alla scomparsa della ragazza, mentre la figura di Bossetti comparve nel giugno 2014. Celle telefoniche, telecamere e la comparazione del furgone per i quale c’è un «alto grado di compatibilità» con quello di Bossetti rappresentano per il pm gli indizi significativi e concordanti che dimostrerebbero la colpevolezza del muratore di Mapello. Nella prima parte della requisitoria, venerdì scorso, Letizia Ruggeri ha ripercorso in aula tutte le fasi del caso: dalla scomparsa alle ricerche, fino al ritrovamento del cadavere. E proprio sul corpo di Yara si è soffermata, specificando la tipologia di lesioni rinvenute, le armi che si suppone siano state usate e l’agonia a cui è stata sottoposta la ragazzina. Dettagli che il pm ha voluto specificare, parlando di morte per «ipotermia e lesioni», proprio per sottolineare come «chi ha ucciso Yara Gambirasio si è accanito». «Sulla tredicenne - ha spiegato il pm - incapace di difendersi perché tramortita con un corpo contundente, furono inferte delle ferite, non mortali, e che sembra avessero lo scopo di infierire sulla ragazza». Yara «avrà provato paura e dolore», ha evidenziato il magistrato. Il pm nella scorsa udienza ha anche elencato i capi di imputazione, specificando oltre al reato di omicidio, la calunnia e le due circostanze aggravanti: la cosiddetta minorata difesa (per aver «approfittato di circostanze di tempo e di luogo – un campo isolato – di tempo – in ore serali/notturne – e di persona – un uomo adulto contro un’adolescente di 13 anni – tali da ostacolare la difesa») e, la seconda, l’aver «adoperato sevizie e aver agito con crudeltà». Quest’ultima è un’aggravante che consente di invocare la pena dell’ergastolo.
Ergastolo. La parola è risuonata a martello nell’aula del Tribunale di Bergamo. «Ergastolo», un termine che sibila e rotola e fa scendere il buio sui banchi, sulle transenne, sui computer, sugli appunti, sulle cartellette, sulle toghe, sugli occhiali e sui volti di chi la ascolta scrive “L’Eco di Bergamo” il 19 maggio 2016. L’ha pronunciata il pm Letizia Ruggeri in fondo a una requisitoria fiume, con un primo e un secondo tempo, pronunciata con accenti tecnici e coinvolgimenti emotivi. Tutto ciò perché quella parola non può stare appesa a un ragionamento povero o lacunoso, ma merita un supporto di prim’ordine, quella che si dice un’impalcatura giuridica. Ergastolo. L’ha ascoltata anche Massimo Bossetti e se l’è portata dentro al ritorno in cella. Da oggi e fino al giorno della sentenza lo accompagnerà nel suo viaggio interiore alla ricerca d’una verità che per ora egli solo conosce. Non abbiamo alcuna intenzione di rifare il processo (peraltro non ancora finito) perché non ne abbiamo la competenza, i mezzi tecnici e neppure lo spazio. Per fortuna non siamo chiamati a giudicare nessuno. Ma quella parola è stata pronunciata così vicino a noi da non poter passare inosservata. Non qui, non in uno dei luoghi d’elezione del cattolicesimo lombardo, concreto e incline (sempre) alla speranza. Ergastolo. Papa Francesco l’ha recentemente definito una «pena di morte nascosta» proprio perché rende impossibile la rieducazione e priva la persona non solo della libertà per sempre, ma anche della speranza. È previsto dai codici, è una conseguenza di reati terribili; così dice la legge e va rispettata. Ma il nostro Paese, guardando ben oltre il caso specifico, prima o poi dovrà occuparsi della terribile parola a martello.
Bossetti, la sorella non parla. La difesa: richieste anticostituzionali. No comment da parte della sorella Laura Bossetti, uscita dall’aula e seguita da una folla di giornalisti. La donna si è trincerata dietro i suoi occhiali neri e un profondo silenzio. Hanno parlato i due avvocati della difesa, scrive “L’Eco di Bergamo” il 18 maggio 2016. Un lungo pomeriggio quello in Tribunale a Bergamo: oltre all’ergastolo il pm Letizia Ruggeri, ha chiesto per Massimo Bossetti anche 6 mesi di isolamento. Le accuse nei confronti del muratore sono di omicidio volontario pluriaggravato e calunnia ai danni di un collega di lavoro. Hanno invece commentato la richiesta del pm e la sua requisitoria i legali di Bossetti, Claudio Salvagni e Paolo Camporini: «Questo è un processo pieno di vuoto, abbiamo sentito parlare per mezz’ora solo delle bugie. Non si è parlato del delitto, del movente, della dinamica» ha detto Camporini. «C’è un mezzo dna, non è un dna» continua Salvagni. E ancora: «Sarebbe la prima volta nella storia dei processi. Non si è sentito una parola di collegamento tra l’imputato e il fatto. Se l’accusa non ci dice la dinamica, ce la dobbiamo inventare noi?». «È stata chiesta una pena anticostituzionale» ha sottolineato Camporini, che ha aggiunto: «Il pubblico ministero ha sottolineato che manca la dinamica, ma questo non inficia la validità di tutti i riscontri trovati: sarebbe la prima volta nella storia dei processi. Non abbiamo sentito una parola sul fatto». Ma il pm ha parlato di un caso analogo: secondo il magistrato Bossetti avrebbe dato «più volte dimostrazione di incapacità di controllarsi». La stessa incapacità, a detta del pm, dimostrata nel 2002 dal camionista Roberto Paribello che uccise la praticante commercialista Paola Mostosi. L’uomo, che poi fu condannato definitivamente all’ergastolo, agì dopo che, lungo l’autostrada A4, ebbe un banale incidente con l’auto guidata dalla giovane: fermatisi a una piazzola di sosta, la tramortì, la caricò a bordo del camion e, dopo aver lavorato tutto il giorno, la uccise. «Non è possibile stabilire la dinamica - ha argomentato il pm - Yara potrebbe essere stata convinta a salire, oppure tramortita come si verificò in quell’occasione».
La requisitoria del sostituto procuratore: E' un assassino crudele. Bugiardo e incapace di controllarsi, non merita nessuna attenuante", scrive Gabriele Moroni il 19 maggio 2016 su “Il Giorno”. Massimo Bossetti è un assassino volontario e crudele. Ha infierito, lui adulto, sulla piccola vittima. Ha voluto che Yara Gambirasio morisse: dopo averla colpita per tante volte, l’ha abbandonata in un luogo dove era impossibile trovarla. Mancano venti minuti alle otto di sera quando il sostituto procuratore Letizia Ruggeri termina la sua requisitoria con la richieste: condanna all’ergastolo con sei mesi di isolamento diurno. Nessuna attenuante. Era atteso, scontato, ma nell’aula gremita e angusta dell’Assise di Bergamo è un momento di emozionata tensione. Laura Letizia, la gemella di Bossetti, si allontana per ultima in lacrime. L’unico a non tradire emozioni è l’imputato, ma nel passare davanti al pm per raggiungere l’uscita le scocca un’occhiata interminabile. Per tutta la durata dell’udienza è stato il Bossetti di sempre, attento, imperturbabile, quasi sfingeo, salvo qualche sorriso che si è concesso mentre veniva ricostruita la testimonianza di una donna che l’avrebbe notato a bordo della sua Station Wagon grigia, in compagnia di una ragazzina, nel parcheggio del cimitero di Brembate di Sopra. Il pm scandisce parole come piombo. «Non c’è dubbio che si tratti di un omicidio volontario. Bossetti ha voluto causare quelle lesioni. Ha infierito con lesioni non mortali, ma idonee a farla soffrire. Lesioni eccessive, sproporzionate all’evento. Ecco la crudeltà. Yara è morta fra le sofferenze, con una lunga agonia. Crudeltà nell’averla lasciata a morire in un luogo dove non la si sarebbe mai ritrovata. Infatti il corpo è stato scoperto per pura casualità. Esiste anche l’aggravante della minorata difesa: un uomo contro una ragazzina di tredici anni, una ‘farfalla’ della ginnastica ritmica». «Non è possibile – argomenta il pm – individuare un movente certo o affermare che Yara e Bossetti si conoscessero. O Bossetti l’ha convinta in qualche modo a salire oppure l’ha tramortita. Non avere fatto luce sul movente non è una debolezza dell’impianto dell’accusa, in quanto Bossetti, che era sempre interessato alle donne anche giovani e giovanissime ha dato più volte dimostrazione di incapacità di controllarsi». Cita la surreale vicenda di Roberto Paribello, un autotrasportatore bergamasco che la settimana di Pasqua del 2002 uccise la giovane Paola Mostosi dopo un banalissimo incidente stradale, la caricò sul proprio camion, e dopo avere lavorato per tutto il giorno la strangolò e gettò il corpo in un canale. «Bossetti è un persona abituata a mentire. Lo ha fatto per tutta la vita. Lo ha fatto anche qua. I colleghi di lavoro lo chiamavano il Favola per le sue bugie, pesanti, anche strutturate, il tumore, una operazione al setto nasale, i propositi suicidi, la moglie che aveva perduto il quarto figlio. Piangeva e si rendeva credibile. Ha fatto lo stesso con i compagni di detenzione». Non ricorda la sua giornata del 26 novembre del 2010, la sera della scomparsa di Yara all’uscita dal centro sportivo di Brembate. «Ma – incalza il pm – quando viene intercettato in un colloquio con la moglie, in carcere, dice che in quei giorni pioveva o nevicava, che il campo era bagnato e la terra impalciata, un modo, di dire dialettale, tanto che a camminarci era facile perdere le scarpe. E’ la fotografia di una frazione dell’accaduto. Bossetti ricorda bene». Il pm parla per cinque ore ricordando anche il quadro accusatorio da contestualizzare attorno alla prova regina del Dna del muratore su slip e leggings di Yara. Il furgone cassonato Iveco Daily ripreso dalle telecamere la sera della tragedia attorno alla palestra di Brembate è un ‘unicum’, è il mezzo dell’artigiano di Mapello. La capacità dei sedile dell’autocarro di rilasciare fibre (sul giubbotto e i leggings di Yara ne vengono rintracciate 29). Le sferette metalliche trovate sugli abiti della vittima, compatibili con il fatto che nella sua attività l’imputato maneggiava anche strumenti e materiali ferrosi. Le ricerche pornografiche nei computer.
Bossetti, la requisitoria fiume del pm Ruggeri. Ecco i 10 punti principali. Caso Yara, il pm Letizia Ruggeri ha chiesto l’ergastolo e 6 mesi di isolamento per Massimo Bossetti. Una requisitoria fiume che si è protratta per due udienze e 13 ore: la prima è durata 8 ore, la seconda 5. Ecco i dieci punti principali dell’accusa scrive “L’Eco di Bergamo” il 19 maggio 2016.
1 - YARA. Il pm, cominciando la sua requisitoria (150 pagine di appunti), ha detto che, nelle fasi iniziali dell’inchiesta, «ci spaccammo la testa» per cercare di capire le ragioni della scomparsa della tredicenne. «Ipotizzammo di tutto, dallo scambio di persona al rapimento - ha detto il magistrato - e questo lo dico perché fummo costretti ad andare a vedere il vissuto di questa ragazza. Emerse che era una ragazza normalissima, senza alcun segreto».
2 - L’OMICIDIO. Ruggeri ha ripercorso in aula tutte le fasi del caso: dalla scomparsa alle ricerche, fino al ritrovamento del cadavere. E proprio sul corpo di Yara si è soffermata, specificando la tipologia di lesioni rinvenute, le armi che si suppone siano state usate e l’agonia a cui è stata sottoposta la ragazzina. Dettagli che il pm ha voluto specificare, parlando di morte per «ipotermia e lesioni», proprio per sottolineare come «chi ha ucciso Yara Gambirasio si è accanito». «Sulla tredicenne - ha spiegato il pm - incapace di difendersi perché tramortita con un corpo contundente, furono inferte delle ferite, non mortali, e che sembra avessero lo scopo di infierire sulla ragazza». Yara «avrà provato paura e dolore», ha evidenziato il magistrato.
3 - I CAPI D’IMPUTAZIONE. Letizia Ruggeri ha elencato i capi di imputazione, specificando oltre al reato di omicidio, la calunnia e le due circostanze aggravanti: la cosiddetta minorata difesa (per aver «approfittato di circostanze di tempo e di luogo – un campo isolato – di tempo – in ore serali/notturne – e di persona – un uomo adulto contro un’adolescente di 13 anni – tali da ostacolare la difesa») e, la seconda, l’aver «adoperato sevizie e aver agito con crudeltà». Quest’ultima è un’aggravante che consente di invocare la pena dell’ergastolo.
4 - IL DNA. Il pubblico ministero ha parlato a lungo del dna, concentrandosi sui prelievi fatti durante l’indagine per risalire al colpevole dell’omicidio. Sempre a proposito del dna, il pm Ruggeri ha detto che il fatto che non si sia potuto stabilire con certezza se la traccia da cui fu estratto fosse sangue non «inficia il risultato identificativo». Letizia Ruggeri ha poi citato due sentenze, una del 2004 e un’altra del 2013, in cui il dna assumerebbe valenza di prova se ripetuto più volte. Per i legali dell’imputato, Camporini e Salvagni, le due sentenze sostengono esattamente il contrario.
5 - IGNOTO 1. Il pm Letizia Ruggeri ha spiegato nel dettaglio il procedimento grazie al quale si è arrivati all’identificazione del muratore con il presunto omicida ed ha sottolineato come questo modo di procedere «sgombera il campo dall’idea di voler trovare a tutti i costi un colpevole». «La bontà di questo percorso scientifico - ha detto il pm - è data dal fatto che il match (confronto) del dna è stato fatto ad un uomo nato e cresciuto in queste zone, che lavora nell’edilizia, nato a Clusone, che ha avuto la residenza a Brembate con lavori sempre svolti in zona. Si è partiti da un dna che non si conosceva, abbiamo fatto dei riscontri. Se non avessimo avuto il dna questo soggetto non sarebbe mai stato trovato. Non sapevamo chi fosse, non era un sospettato, il suo dna non è mai stato raccolto». «Non vi sono spazi di discussione - ha aggiunto - per quanto riguarda la validità del lavoro scientifico svolto dal Ris e dai consulenti».
6 - CELLE TELEFONICHE. Il pm ha parlato anche delle indagini svolte sul telefonino di Bossetti. Il 26 novembre 2010, giorno della scomparsa di Yara, l’ultima telefonata del muratore di Mapello è alle 17,45, poi silenzio fino alle 7,30 della mattina dopo.
7 - IL DEPISTAGGIO. Secondo Ruggeri, Bossetti il giorno dell’arresto «tentò di fuggire» dal cantiere di Seriate dove erano arrivati i carabinieri perché «era consapevole» che lo stavano cercando. Inoltre, subito dopo, cercò di «depistare» le indagini calunniando l’ex collega Maggioni e «mentendo sulle sue frequentazioni per costruirsi un alibi».
8 - IL MOVENTE. Il pm Ruggeri nell’ udienza di mercoledì 18 maggio ha evidenziato che «non è possibile individuare un movente» per il delitto di Yara o affermare che la vittima e Bossetti si conoscessero. Le ipotesi sono due: «O Bossetti l’ha convinta a salire – ha detto il magistrato durante la requisitoria – o l’ha tramortita». Per il pubblico ministero il delitto sarebbe da ricondurre a un’«incapacità di controllarsi» di Bossetti: su questo punto Letizia Ruggeri nella sua requisitoria davanti alla Corte ha fatto un paragone con il caso giudiziario del camionista di Verdellino Roberto Paribello, che nel 2002 dopo un incidente stradale sequestrò e uccise una ragazza gettando poi il corpo in un canale dell’Enel a Marne di Filago: nel marzo 2005 la Corte di cassazione confermò, con sentenza definitiva, i giudizi di primo e secondo grado, punendo il camionista con il carcere a vita.
9 - IL FURGONE. A proposito degli accertamenti sulle telecamere di Brembate Sopra, ha spiegato che «l’uscita di Yara» dal centro sportivo «è compatibile con il passaggio di Bossetti», mentre per quanto riguarda le fibre tessili trovate sui suoi indumenti ha spiegato che il «furgone di Bossetti è idoneo a generare fibre come quelle». Ruggeri ha infatti «smontato» le misurazioni condotte dal consulente della difesa Ezio Denti, secondo il quale il «passo» (distanza tra le ruote, ndr) del mezzo ripreso nei filmati della ditta Polynt sarebbe diverso da quello del furgone di Bossetti. Il pm ha parlato di «approssimazione» delle misurazioni del consulente e «mancanza di prospettiva», mettendo dunque in dubbio la validità degli accertamenti della difesa. Durante questi passaggi della requisitoria dal pubblico si sono sentiti commenti e mormorii, il giudice Bertoja è intervenuta dicendo: «Non siamo al cinema».
10 - «GRAVITÀ, PRECISIONE E CONCORDANZA». Letizia Ruggeri ha spiegato che oltre alla «prova genetica», ovvero al dna che rappresenta «il faro dell’inchiesta», a carico del muratore di Mapello vi è «un corollario significativo» di indizi caratterizzati da «gravità, precisione e concordanza»: i tabulati telefonici dell’imputato e le immagini del mezzo ripreso dalle telecamere di sorveglianza della zona. «Elementi che vanno letti complessivamente» e che dimostrano come «non cercammo di cucire addosso degli elementi, ma cercammo riscontri in quello che già c’era». I tabulati telefonici di tutte le persone che transitarono a Brembate il 26 novembre 2010 e le immagini delle telecamere - ha ricordato l’accusa - furono acquisite, infatti, nei giorni immediatamente successivi alla scomparsa della ragazza, mentre la figura di Bossetti comparve nel giugno 2014.
Yara, tocca ai legali della famiglia. «Il nostro obiettivo è solo la verità». Venerdì il processo a Massimo Bossetti vedrà gli interventi degli avvocati Pezzotta e Pelillo scrive “L’Eco di Bergamo” il 19 maggio 2016. Gli avvocati di parte civile della famiglia di Yara Gambirasio «in tutti questi anni hanno lavorato avendo come obiettivo la verità» e di «arrivare non a un colpevole, ma al colpevole». È questa la premessa da cui l’avvocato Enrico Pelillo partirà venerdì 20 maggio nel suo intervento nel processo a carico di Massimo Bossetti, unico imputato per l’omicidio della tredicenne per il quale ieri il pm Letizia Ruggeri ha chiesto l’ergastolo e sei mesi di isolamento. Pelillo, che rappresenta il padre di Yara, Fulvio Gambirasio e la sorella della ragazza uccisa, Keba, interverrà per primo, e sarà poi la volta dell’avvocato Andrea Pezzotta, che rappresenta la madre della vittima, Maura Panarese. Chiederanno il riconoscimento della responsabilità dell’imputato, una pena adeguata e un risarcimento sulla base delle tabelle del Tribunale di Milano relative al danno morale. L’udienza sarà dedicata alle sole parti civili mentre l’intervento dei difensori di Massimo Bossetti comincerà il 27 maggio. L’ultima udienza, al termine della quale i giudici della Corte d’assise di Bergamo potrebbero riunirsi in camera di consiglio, è prevista in calendario il 10 giugno ma non è escluso che ne sia fissata una successiva.
Luca Telese per “Libero Quotidiano” del 19 maggio 2016. Dodici ore per una parola. Dodici ore per dire «Ergastolo». Parlare molto, per non dire nulla di nuovo. Parlare molto, per dire poco, pochissimo. Parlare con un ostentato sfoggio di lemmi e vocaboli tecnici: «Assorbanza», «Riflettenza», «Trasmittenza», «Micospettroscopia», «cromaticità», «Antropicità». Eccola Letizia Ruggeri, nel suo secondo e ultimo atto. Nel processo di Bergamo la regina dell'accusa chiude la sua requisitoria avvolta da una nuvola di parole auliche, sapienziali, ad effetto. Letizia sembra fluttuare dentro questa nube che si solleva alimentata dal fuoco lentissimo del suo eloquio, si cala e si protegge in questa nube, come per difendersi. Quando l'Aula e la Corte capiscono che Letizia rischia di andare anche oltre l'orario di cena (unico limite sacro imposto fin dalla prima udienza dalla saggezza della presidente Antonella Bertoja), vengono prese dal panico. Passano di mano in mano generi di prima necessità, bottigliette d'acqua, tavolette di cioccolata, biscotti. Si animano scariche di tosse, mormorii, brusii indisciplinati, occhiate atterrite all' orologio. Due giorni di fila, la mattina per entrare, tra innocentisti, colpevolisti, studentesse di giurisprudenza, magùtt, operai con antropologie protobossettiane, brusii continui di pubblico e il moto di stizza della presidente quando l'attenzione crolla: «Non siamo mica al cinema!». Due giorni di fila davanti al tribunale di Bergamo, ormai è un rito. Dodici ore di requisitoria, dodici ore di palcoscenico ininterrotto per Letizia, sempre in piedi. Mai seduta, mai una pausa, mai una sorsata d'acqua. La piccola-grande inquisitrice, la grande nemica di Massimo Bossetti, la Pm che ieri ha alzato l'asticella della sua accusa al massimo livello di pena immaginabile: «Ergastolo con sei mesi di isolamento». Letizia, come se andasse all'esame di maturità, sull' argomento a piacere. Serena, distesa, sicura, un'unica concessione all' umanità del racconto, solo quando arriva ad evocare la figura più ancestrale delle fiabe parlando di Yara: «Una bambina abbandonata sola al buio». È il solo tentativo di evasione che la Ruggeri si concede, per uscire dalla muraglia fitta dei tecnicismi con cui si fa scudo. In questi mesi di processo ho scrutato a lungo la pm, almanaccando il suo curriculum: quarto dan di karate, motociclista, arrampicatrice, biker. Arriva sempre con la toga dentro la busta di plastica della Polizia di Stato, come se uscisse da una palestra. Si cala nel suo paramento sacrale, sistemandosi i capelli, e sotto, ancora una volta, maglietta bianca a maniche corte, jeans e ballerine. Una requisitoria sterminata, estenuante e spigolosa come lei. Come il suo volto. Naso affilato, zigomi duri, capelli brizzolati, Letizia. Venerdì scorso, in via eccezionale, per la prima volta era venuta a sentirla sua sorella: non ha retto le otto ore e se ne è andata via prima della fine. E quindi bisogna setacciare questa nuvola di parole, per trovare la fiammata della passione. Solo quando si dedica a demolire la personalità di Massimo Bossetti: «È Bugiardo. È bugiardo nella vita! Sul lavoro! È bugiardo anche qui in aula». Qui tutto quello che è duro, sul suo volto, diventa adamantino: «Sa piangere a comando!». Quando parla Bossetti la linea piatta dell'eloquio della Ruggeri improvvisamente si anima. Dimentica le microsfere, le celle telefoniche, le amplificazioni, le laure da politecnico che lei, anomina pm di provincia, ritiene di aver conseguito con la sua inchiesta. Come Achab quando insegue Moby Dick si anima: «È capace di mentire e di dire bugie ben strutturate». Letizia ripete tutto quello che ci ha già fatto sentire durante i lunghi mesi invernali del processo: «Pensate. È arrivato sul cantiere con questo foglio in mano in cui diceva che la moglie lo aveva lasciato e non poteva vedere più i figli!». Letizia diventa predatrice quando sente l'odore del sangue. Quando ritiene di aver incastrato la sua preda: «È incapace di frenare gli impulsi sessuali. Anche in carcere quando dice al fratello di Locatelli: "Carina tua sorella!". E lui le fa capire: la prima volta passi, la seconda no. È incapace di frenarsi anche quando la regola del carcere lo renderebbe inopportuno». Curiosamente non ha mai citato la Gina, la pm. Ovvero la donna che con il suo carteggio le ha concesso di sferrare l'ultimo efficacissimo colpo nel processo parallelo, quello mediatico. Ma è come se lo facesse. Insegue il filo della devianza sessuale in tutte le altre storie, anche rischiando di far sorridere chi ha visto sfilare in aula questi testi: «È bugiardo anche con Eva Ravasi. La cornice che le ha venduto su Subito.it doveva essere di legno e invece era di plastica!». Provi a enumerare di quante cose ha parlato la Ruggeri nella suq requisitoria e ti viene in mente la celebre sentenza di Blaise Pascal: «Mi scuso per la lunghezza della mia lettera, ma non ho avuto il tempo di scriverne una più breve». Dilungarsi la aiuta a liberarsi di alcune incombenze. Non indica, sorprendentemente, la causa del delitto. Lo rivendica: «Non ci deve essere per forza un movente!». Spiega che non è necessario citando un delitto del 2002, in cui un uomo - Roberto Paribello - aveva ucciso una ragazza dopo averle dato un passaggio, gettandola infine in un canale. E quando l'enorme mole di dati che vorticano nella nuvola di parole rischia di far scricchiolare anche l'architettura accusatoria, si smarca con le domande retoriche: "Come è successo? Non ce lo potremo mai spiegare! Ma non è che l'incertezza della dinamica inficia la validità dei riscontri che vi ho fin qui riassunto". E quando lei stessa sente che le tessere del mosaico sono così piccole che rischiano di perdersi dice: «Sono indizi che presi a se possono avere un valore, ma che, considerati tutti insieme - aggiunge la Pm - rafforzano quella che per noi è la prova regina, il faro delle indagini: il Dna». Si dilunga, e qui è un tecnicismo che le consente di chiedere la pena massima, sulle aggravanti: «Ci sono state sofferenze aggiuntive, Bossetti ha ecceduto i limiti della causale dell'omicidio». Qui carica il colpo: «E c' è anche la minorata difesa: un uomo di quarant' anni contro una ragazzina di tredici anni che non si poteva difendere! La difesa dice che era una ginnasta, che era forte, ma le chiamano le farfalle. Sono delicate. Lei era forte nella media. Ma sicuramente era meno forte dell'uomo che l'ha aggredita!». Affondo: «Stando così le cose non è naturale chiedere le attenuanti, nemmeno generiche! Si richiede che l'imputato sia condannato all'ergastolo con la reclusione di sei mesi». Ovviamente, anche la moglie che difende il marito è un pilastro da demolire: «Marita mente, e sa di mentire. Si fa carico di ricerche pornografiche che non ha fatto lei!». La Ruggeri ricorre alle intercettazioni post arresto per ribadire il suo concetto. Le legge: «Non sei tornato tardi-tardi, quella sera». Le interpreta: «Implicitamente dice che seppure non tardissimo era tornato più tardi del solito». Anche in dodici ore può esserci una autentica perla, e secondo me è questa: «Bossetti non si è dimostrato collaborativo con le indagini». Accusato di omicidio, e dichiarandosi innocente, come avrebbe potuto essere collaborativo? L'altra bestia nera sono i consulenti della difesa. Di cui prima che confutare le argomentazioni - come già nel processo, - attacca i titoli, i curricula, la legittimità. Però quando la requisitoria finisce, e si dirada la nuvola di parole, scopri che oltre al movente, manca anche un luogo del rapimento individuato con certezza, che scompare il luogo del delitto. Archivi di parrocchie, registri auto, muratori, valli chiuse, ammanti, tradimenti, scontrini di trattorie, cantieri. Quando la nuvola delle parole di Letizia si dirada resta il sospetto che la Bergamasca stia processando Bossetti. Ma anche se stessa.
20 MAGGIO 2016. QUARANTESIMA UDIENZA. ARRINGHE DELLE PARTI CIVILI.
Il collega calunniato da Bossetti chiede risarcimento di 100 mila euro. Ad aprire l’udienza di venerdì 20 maggio a carico di Massimo Bossetti, accusato di aver ucciso Yara Gambirasio, è stato l’avvocato Carlotta Biffi, legale di Massimo Maggioni, collega di lavoro dell’imputato», scrive “L’Eco di Bergamo”. Maggioni era stato calunniato da Bossetti, in quanto l’imputato - tra le varie insinuazioni - lo aveva accusato nemmeno troppo velatamente, in un interrogatorio davanti al pm dopo l’arresto, di aver trasferito il suo sangue lasciato su uno straccio o su un attrezzo in cantiere sul corpo della povera Yara in modo che chi investigava colpevolizzasse proprio lui. Bossetti nel corso del processo si era difeso dicendo che non voleva accusare nessuno e di aver avanzato soltanto un suo sospetto derubricando le sue parole a «una semplice esternazione». L’avvocato Biffi ha parlato di accuse infamanti, di vita stravolta, di impossibilità di dormire per il suo assistito e ha domandato un risarcimento di 100 mila euro e in subordine almeno 50 mila euro più il pagamento delle le spese processuali. Nella sua arringa Biffi ha sottolineato la gravità del reato di calunnia ricordando, come esempi originali la canzone «Bocca di rosa» di De Andrè, il Barbiere di Siviglia di Rossini e il quadro «La calunnia» di Botticelli.
Processo Bossetti, chiesto risarcimento di 1,4 milioni per papà e sorella di Yara. È stato l’avvocato Enrico Pelillo il primo legale della famiglia Gambirasio a intervenire, venerdì 20 maggio, nell’udienza del processo che vede sul banco degli imputati Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara. Pelillo ha parlato della prova del Dna come di un macigno sull’imputato: «È la sua firma», scrive “L’Eco di Bergamo”. Il legale, che rappresenta il padre di Yara, Fulvio Gambirasio, e la sorella della ragazza uccisa, Keba, ha elogiato il lavoro immane degli inquirenti, ha ripercorso le varie tappe delle indagini e ha sottolineato ancora una volta come l’obiettivo della famiglia Gambirasio, «che sta vivendo tuto questo periodo con dolore, riserbo e dignità», è sempre stato quello di «arrivare non a un colpevole, ma al colpevole». «Dopo la scomparsa di Yara - ha ricordato Pelillo - anche la sua famiglia è stata oggetto di indagine da parte del pm, che ha fatto bene. Fulvio è stato letteralmente massacrato da certa stampa. Quando poi è stato ritrovato il corpo, tre mesi dopo la scomparsa, sono stato contento per la famiglia, perché peggio di un figlio assassinato c’è solo un figlio scomparso». Il punto chiave per processo per Pelillo è stato l’individuazione del rapporto di parentela tra Giuseppe Guerinoni e «Ignoto 1», l’assassino di Yara secondo l’accusa. E l’avvocato ha parlato anche di come deve essersi sentito Bossetti in quel momento, «probabilmente ha pensato di averla fatta franca» perché non pensava di essere figlio illegittimo di Giuseppe Guerinoni. Così come il carpentiere presumibilmente ha tirato un sospiro di sollievo «quando anche sua madre venne sottoposta al confronto del dna e non emerse nulla». Il legale si è riferito al fatto che inizialmente, per un errore nei laboratori, il dna di alcune persone, tra cui quello di Ester Arzuffi, madre di Bossetti, era stato erroneamente confrontato con il campione genetico di Yara e non di «Ignoto 1», la traccia genetica dell’assassino trovata sui leggings della vittima. Per questo il confronto tra il dna della madre di Bossetti e quello di Yara, anziché di «Ignoto 1», non aveva fornito alcuna corrispondenza, poi arrivata solo in seguito, dopo che una perizia dei consulenti della famiglia Gambirasio ha fatto emergere l’errore. Pelillo ha etichettato la prova del Dna come di una «prova storica, inossidabile, immarcescibile, un macigno per Bossetti, è la sua firma». Sottolineato che la prova principale contro Massimo Bossetti è il Dna, l’avvocato della famiglia Gambirasio, Pelillo, ha elencato le altre prove contro il carpentiere di Mapello, «perché ce ne sono anche altre», ha evidenziato: «Del resto non ho mai visto un’indagine scientifica così inconfutabile». Ha quindi fatto riferimento ai contenuti del computer di Bossetti, alle fibre compatibili con quelle del suo furgone, alle sferette di metallo pure trovate sul corpo di Yara e che «può aver raccolto solo sul furgone dell’imputato». Pelillo ha parlato anche della gravità dello scambio epistolare intercorso tra l’imputato e la detenuta Gina in riferimento alle lettere in cui Bossetti parla di sue specifiche preferenze sessuali. A queste parole Bossetti, che indossa il maglioncino lilla e mastica gomma, si è lasciato andare a un riso ironico scuotendo più volte la testa in segno di disapprovazione. Ancora presente tra il pubblico la sorella Laura. L’avvocato non è stato tenero con Marita Comi, la moglie di Bossetti, che secondo Pelillo è stata «reticente», mentre l’imputato «è un mentitore seriale», a cui la memoria va e viene secondo la sua convenienza. Per Pelillo il movente «è chiaro e limpido, di natura sessuale». Quando l’avvocato ha ricostruito come sono andati secondo lui i fatti, Bossetti ha rotto il silenzio dicendo: «Non è vero niente». Quanto al risarcimento danni, Pelillo ha domandato 983.970 euro per papà Fulvio e 427.260 per la sorella Keba per un totale di 1.411.230 euro e comunque una provvisionale di non meno di 300 mila euro per Fulvio e 150 mila per Keba. Successivamente è stato il turno di Andrea Pezzotta, che rappresenta la madre della vittima, Maura Panarese.
Pezzotta a Bossetti: si liberi la coscienza. Chiesti oltre 3,2 milioni di risarcimento. Dopo Enrico Pelillo, legale di Fulvio e Keba Gambirasio, è stato il turno di Andrea Pezzotta, l’avvocato che rappresenta Maura Panarese, la mamma di Yara, nel processo contro Massimo Bossetti, accusato di aver ucciso la ginnasta tredicenne. È stato un intervento segnato da una grande tensione emotiva, scrive “L’Eco di Bergamo”. Pezzotta ha rivoIto un ultimo, accorato appello all’imputato: «Ci dica come sono andate veramente le cose. Lei è un uomo tormentato, liberi la propria coscienza, così potrà vivere meglio. È lei che deve decidere e non le resta molto tempo. Per la famiglia sarebbe importantissimo saperlo». Verità che peraltro per l’avvocato non è minimamente in dubbio: «Ci sono due pilastri in questo caso, la prova del Dna e le due confessioni dell’imputato alla moglie il 20 novembre 2014 e il 4 dicembre 2014». Confessioni extragiudiziali, poche righe d’intercettazione in cui Bossetti alle continue domande della moglie - non di un pm al processo - risponde continuamente «non ricordo, non ricordo». Quei «non ricordo» sono la prova per Pezzotta della colpevolezza del carpentiere: «Bossetti sapeva benissimo dov’era, era alle prese con un’orribile operazione di macelleria». Il legale ha domandato un risarcimento danni di 1.838.000 euro per la mamma di Yara. Ricordiamo invece che Pelillo ha chiesto 983.970 euro per papà Fulvio e 427.260 per la sorella Keba per un totale di 1.411.230 euro. In tutto la famiglia Gambirasio chiede oltre 3,2 milioni di euro di risarcimento. I due avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni e Stefano Camporini, hanno lasciato l’aula alla conclusione dell’udienza senza rilasciare nessuna dichiarazioni e sono sembrati molto provati. L’intervento dei difensori dell’imputato scatterà il 27 maggio. L’ultima udienza, al termine della quale i giudici della Corte d’assise di Bergamo potrebbero riunirsi in camera di consiglio, è prevista in calendario il 10 giugno ma non è escluso che ne sia fissata una successiva.
Caso Yara, legale dei Gambirasio: "Bossetti, si liberi la coscienza e confessi", scrive Gabriele Moroni su “Il Giorno”. Dopo Enrico Pelillo, legale di Fulvio e Keba Gambirasio, è stato il turno di Andrea Pezzotta, l’avvocato che rappresenta la mamma Maura Panarese. "Dna è la firma di Bossetti, il movente è sessuale". Chiesti risarcimenti. E' il giorno delle parti civili, nell'udienza del processo a carico di Massimo Bossetti, unico imputato per l'omicidio di Yara Gambirasio. A prendere la parola per primo è stato l'avvocato Carlotta Biffi, legale di Massimo Maggioni, calunniato da Bossetti. Poi è stato il turno dell'avvocato Enrico Pelillo, che rappresenta il padre di Yara, Fulvio Gambirasio e la sorella della ragazza uccisa, Keba. Nel pomeriggio è stata la volta dell’avvocato Andrea Pezzotta, che rappresenta la madre della vittima, Maura Panarese. I due hanno il riconoscimento della responsabilità dell’imputato, una pena adeguata e un risarcimento sulla base delle tabelle del Tribunale di Milano relative al danno morale. I due avvocati di Bossetti, Claudio Salvagni e Stefano Camporini, hanno lasciato l’aula alla conclusione dell’udienza senza rilasciare nessuna dichiarazioni e sono sembrati molto provati. L'intervento dei due legali comincerà il 27 maggio. L’ultima udienza, al termine della quale i giudici della Corte d’assise di Bergamo potrebbero riunirsi in camera di consiglio, è prevista in calendario il 10 giugno ma non è escluso che ne sia fissata una successiva. L'avvocato Andrea Pezzotta, che rappresenta la madre della vittima, Maura Panarese, ha rivolto un ultimo, accorato appello all’imputato: "Ci dica come sono andate veramente le cose. Lei è un uomo tormentato, così potrà vivere meglio. Il processo è importante ma anche fare i conti con la propria coscienza. Le sue rivelazioni conterebbero più di qualsiasi processo. È lei che deve decidere e non le resta molto tempo. Per la famiglia sarebbe importantissimo sapere la verità". Verità che peraltro per l’avvocato non è minimamente in dubbio: "Ci sono due pilastri in questo caso, la prova del Dna e le due confessioni dell’imputato alla moglie il 20 novembre 2014 e il 4 dicembre 2014". Confessioni extragiudiziali, poche righe d’intercettazione in cui Bossetti alle continue domande della moglie risponde continuamente "non ricordo, non ricordo". Secondo Pezzotta, queste parole sono la prova della colpevolezza del carpentiere. Il legale ha domandato un risarcimento danni di 1.838.000 euro per la mamma di Yara, "anche se un danno di questa natura sfugge ad ogni possibile quantificazione". "Ma - ha concluso l'avvocato - ho l'onore di rapprendete una donna straordinaria che, insieme al marito, si è sempre tenuta lontana dalle udienza. Lo hanno chiesto i genitori, ma anche noi avvocati per la crudezza degli argomenti. Quando ci hanno affidato l'incarico ci hanno chiesto di fare il nostro lavoro, ma di verificare tutto perchè non potrebbero mai accettare che alla tragedia della loro figlia si aggiunga la tragedia di un innocente condannato". Secondo l'avvocato Enrico Pelillo, che rappresenta il padre di Yara, Fulvio Gambirasio e la sorella della ragazza uccisa, Keba il punto chiave del processo è stato l’individuazione del rapporto di parentela tra Giuseppe Guerinoni e 'Ignoto 1', l’assassino di Yara secondo l’accusa. L'avvocato ha parlato anche di come deve essersi sentito Bossetti in quel momento, "probabilmente ha pensato di averla fatta franca" perché non pensava di essere figlio illegittimo di Giuseppe Guerinoni. Pelillo ha etichettato la prova del Dna come di una "prova storica, inossidabile, immarcescibile, un macigno per Bossetti, è la sua firma". Pelillo ha ricordato: "Quando, nel 2012, anche sua madre venne sottoposta al confronto del dna e non emerse nulla, Bossetti deve aver tirato un sospiro di sollievo, pensando di averla fatta definitivamente franca", ha ricordato Pelillo. Il legale si è riferito al fatto che inizialmente, per un errore nei laboratori, il dna di alcune persone, tra cui quello di Ester Arzuffi, madre di Bossetti, era stato erroneamente confrontato con il campione genetico di Yara e non di 'Ignoto 1', la traccia genetica dell'assassino trovata sui leggings della vittima. Per questo il confronto tra il dna della madre di Bossetti e quello di Yara, anziché di 'Ignoto 1', non aveva fornito alcuna corrispondenza, poi arrivata solo in seguito, dopo che una perizia dei consulenti della famiglia Gambirasio ha fatto emergere l'errore. "Nella prima fase dell'indagine il segreto istruttorio sembrava inesistente - ha rimarcato Pelillo - e ogni dettaglio diventava pubblico. Bossetti deve essersi sentito al sicuro quando si è saputo che il padre di 'Ignoto 1' era tale Guerinoni, per lui del tutto sconosciuto". È poi emerso che 'Ignoto 1' e quindi Bossetti per l'accusa è un figlio illegittimo proprio di Giuseppe Guerinoni, nel frattempo deceduto. Nel pomeriggio sarà il turno dell’avvocato Andrea Pezzotta, che rappresenta la madre della vittima, Maura Panarese. Pelillo ha parlato anche della gravità dello scambio epistolare intercorso tra l’imputato e la detenuta Gina in riferimento alle lettere in cui Bossetti parla di sue specifiche preferenze sessuali. L’avvocato ha anche parlato di Marita Comi, la moglie di Bossetti, che secondo lui è stata "reticente", mentre l’imputato "è un mentitore seriale", a cui la memoria va e viene secondo la sua convenienza. Secondo Pelillo l'omicidio di Yara Gambirasio ha "un movente chiaramente sessuale". Il legale ha spiegato che "è evidente in una ragazzina trovata con il reggiseno slacciato e gli slip tagliati". E ha sottolineato: "E' stato un assassino che ha giocato con una ragazza inerte facendola soffrire, la violenza sessuale non è stata contestata perchè il pm non ha ravvisato gli estremi del reato ma il movente è un'altra cosa, il movente è chiaro, è lampante, è lì". "Non avremo mai un ipotetico video di quella sera, ma possiamo ricostruire, lui era preso da pulsioni predatorie, girava come un falco in attesa della preda, ha costretto o indotto, questo non ha importanza, una ragazzina che aveva già visto a Brembate di Sopra, ha cercato di abusare di lei, lei si è difesa con le sue poche forze, vero Bossetti?", ha domandato l'avvocato. E a questo punto, l'imputato ha mormorato: "Assolutamente non è vero". Quanto al risarcimento danni, Pelillo ha domandato 983.970 euro per papà Fulvio e 427.260 per la sorella Keba per un totale di 1.411.230 euro e comunque una provvisionale di non meno di 300 mila euro per Fulvio e 100 mila per Keba. Massimo Maggioni, collega di Bossetti, era stato calunniato in quanto l’imputato - tra le varie insinuazioni - lo aveva accusato di aver trasferito il suo sangue lasciato su uno straccio o su un attrezzo in cantiere sul corpo della povera Yara in modo che chi investigava colpevolizzasse proprio lui. L’avvocato Carlotta Biffi ha parlato di accuse infamanti e di vita stravolta per il suo assistito e ha domandato un risarcimento di 100mila euro e in subordine almeno 50mila euro più il pagamento delle le spese processuali. Poi, è stato il turno dell'avvocato Enrico Pelillo, che rappresenta il padre di Yara. Nella sua arringa Biffi ha sottolineato la gravità del reato di calunnia: ha parlato di "un danno impagabile", ha aggiunto che "la sorella di Maggioni ha scoperto dalla tv cos'aveva detto Bossetti" e che "la mamma gli telefonava per avvisarlo che la casa era assediata dai giornalisti". E ha riportato come esempi originali la canzone Bocca di rosa di De Andrè, il Barbiere di Siviglia di Rossini e il quadro La calunnia di Botticelli. Riguardo ai danni materiali, l'avvocato ha detto che "Maggioni sul lavoro non ha perso commesse, ma chi ha figli piccoli non lo ha più chiamato per lavori". Biffi ha poi parlato dell'assassino di Yara: "E' una persona scaltra e Bossetti lo è. E' un assassino che ha effettuato una perquisizione sulla sua vittima, lasciandole tutti gli oggetti che ha trovato nella tasca del giubbotto, ma premurandosi di far sparire il cellulare". Il legale ha spiegato che ad accusare Bossetti è il fatto che "fosse sul posto e che con il furgone girava come un cacciatore intorno alla preda". Secondo Biffi "il furgone ripreso dalle telecamere è quello di Bossetti e che le fibre trovate sugli abiti di Yara provengono dai sedili di quel mezzo di trasporto". A margine della discussione delle parti civili, l'avvocato Claudio Salvagni si è detto "preoccupato" per "l'incolumità e la vita" di Massimo Bossetti. Il legale ha commentato così quello che ha definito "il colpo basso inferto" a Bossetti con la "pubblicazione delle lettere" inviate con contenuti piccanti a Gina, una detenuta con cui il muratore bergamasco ha intrattenuto rapporti epistolari durante la detenzione. "Non voglio entrare in questioni intime e personali - ha detto l'avvocato Salvagni, parlando della pubblicazione su un settimanale di un'altra missiva di Bossetti, scritta a sua madre, in cui fa intuire sue intenzioni suicide - ma ho letto la lettera e ci ritrovo Bossetti. L'avevo visitato in carcere il giorno prima che la scrivesse e l'ho trovato in condizione pietosa, quasi peggio che dopo i primi giorni dell'arresto".
Processo Bossetti, i genitori di Yara chiedono 3 milioni e 200mila euro di risarcimento. Le richieste degli avvocati di parte civile: 1,4 milioni per il padre e la sorella maggiore e 1,8 milioni per la madre. Anche il collega calunniato dal muratore chiede 100mila euro, scrive Paolo Berizzi su "La Repubblica" il 20 maggio 2016. Se sarà giudicato colpevole per l'omicidio di Yara Gambrirasio, l'imputato Massimo Bossetti potrebbe essere anche condannato a pagare una cifra superiore ai tre milioni di euro: è il risarcimento che i legali delle parti civili hanno chiesto ai giudici della Corte d'Assise del tribunale di Bergamo. La richiesta di indennizzo - calcolato sulla base delle tabelle del tribunale di Milano relative al danno morale - è stata avanzata dagli avvocati Enrico Pelillo - 1,4 milioni per conto del papà e della sorella maggiore di Yara - Andrea Pezzotta - che ha chiesto 1,8 milioni per conto della madre di Yara - e Carlotta Biffi - legale di Massimo Maggioni, un collega di lavoro di Bossetti che ha accusato il muratore di calunnia e che ora chiede 100mila euro per il "danno subito". L'udienza - terz'ultima prima della camera di consiglio (prevista per il 10 giugno) durante la quale i giudici dovranno decidere se accogliere o meno la richiesta di ergastolo avanzata dal pm Letizia Ruggeri - ha dunque visto protagonisti i legali di parte civile. Il primo a intervenire è stato Pelillo, cha ha parlato della prova del Dna come di un macigno sull'imputato: "È la sua firma". Rivolto ai giudici, ma guardando spesso direttamente lo stesso Bossetti seduto al solito al primo banco accanto ai suoi difensori, Pelillo ha definito l'imputato "molto scaltro". Di più: un "mentitore seriale". Che ha commesso l'omicidio colpendo la vittima senza pietà e perquisendo il corpo prima di abbandonarlo nel campo di Chignolo d'Isola. "L'intento della famiglia di Yara è sempre stato quello di arrivare non a un colpevole, ma al colpevole", ha spiegato il legale nella sua arringa. "Dopo la scomparsa della vittima - ha ricordato - anche la sua famiglia è stata oggetto di indagine da parte del pm, che ha fatto bene. Fulvio (papà di Yara, ndr) è stato letteralmente massacrato da certa stampa. Quando poi è stato ritrovato il corpo, tre mesi dopo la scomparsa, sono stato contento per la famiglia, perché peggio di un figlio assassinato c'è solo un figlio scomparso". Il punto chiave del processo per Pelillo è stato l'individuazione del rapporto di parentela tra Giuseppe Guerinoni e "Ignoto 1", l'assassino di Yara secondo l'accusa. E l'avvocato ha parlato anche di come deve essersi sentito Bossetti in quel momento, "probabilmente ha pensato di averla fatta franca" perché non pensava di essere figlio illegittimo di Giuseppe Guerinoni. Così come il carpentiere presumibilmente ha tirato un sospiro di sollievo "quando anche sua madre venne sottoposta al confronto del Dna e non emerse nulla". L'arringa del difensore della famiglia Gambirasio (assieme all'avvocato Andrea Pezzotta, uno dei principi del foro di Bergamo) è servita anche per "fissare" un ragionamento sul movente del delitto: "E' chiaro e limpido ed è di natura sessuale", ha affermato Pelillo. Nel momento in cui il legale ha ricostruito come sono andati secondo lui i fatti, Massimo Bossetti è sbottato, rompendo il silenzio: "Non è vero niente!", ha esclamato. Lo sfogo è stato motivato così da Paolo Camporini, uno dei due legali dell'imputato: "Se gli si rivolge la parola lui, che è educato, risponde...". Abbronzato. Chewing gum in bocca. Apparentemente imperturbabile: Bossetti - che nei giorni scorsi ha scritto una lettera dal carcere minacciando il suicidio dietro le sbarre - ha ascoltato le parole degli avvocati di parte civile chiedendo talvolta chiarimenti ai suoi legali ("temiamo per la sua vita", ha detto Claudio Salvagni). Passaggio clou dell'arringa di Pelillo è stato quello sulla prova del Dna che inchioda l'imputato: "E' una prova storica, inossidabile, immarcescibile, un macigno per Bossetti, è la sua firma". Oltre alla traccia genetica sugli slip e i leggins di Yara, il legale dei Gambirasio ha elencato le altre prove contro il carpentiere di Mapello, quelle contenute in una "indagine scientifica inconfutabile": i contenuti del computer di Bossetti, le fibre compatibili con quelle del suo furgone, alle sferette di metallo pure trovate sul corpo di Yara e che "può aver raccolto solo sul furgone dell'imputato". La parola in aula è poi passata all'avvocato Pezzotta, che rappresenta la madre della vittima, Maura Panarese. Anche lui ha chiesto il riconoscimento della responsabilità dell'imputato, una pena adeguata e un risarcimento di 1,8 milioni di euro, sulla base delle tabelle del Tribunale di Milano. L'intervento dei difensori di Massimo Bossetti comincerà il 27 maggio. L'ultima udienza, al termine della quale i giudici della Corte d'assise di Bergamo potrebbero riunirsi in camera di consiglio, è prevista in calendario il 10 giugno ma non è escluso che ne sia fissata una successiva.
Caso Yara, busta con proiettili e insulti a giudici e pm del processo. La polizia: "Un mitomane". E' stata intercettata in un ufficio postale di Redona. Nessuna impronta digitale rilevata, anche se il messaggio minatorio è scritto con un pennarello, scrive il 21 maggio 2016 “La Repubblica”. Una busta con all'interno due proiettili e una lettera di sostegno a Massimo Bossetti e di insulti e minacce indirizzata alla Corte d'appello del tribunale di Bergamo e al pm Letizia Ruggeri è stata intercettata nell'ufficio postale di Redona, a Bergamo. La corte, presieduta dal giudice Antonella Bertoja, è quella di fronte alla quale si sta celebrando proprio il processo a Massimo Bossetti, accusato di aver ucciso Yara Gambirasio. La busta è stata sequestrata dalla squadra mobile contattata dagli addetti delle Poste che si erano insospettiti. Non vi sarebbero impronte digitali, benché il testo sia scritto con il pennarello. Per gli inquirenti si tratterebbe dell'opera di un mitomane. Il processo contro il muratore di Mapello, unico imputato per l'omicidio della giovanissima Yara Gambirasio, si sta avviando alle battute finali. Dopo la requisitoria del pm, che ha chiesto l'ergastolo per Bossetti con sei mesi di isolamento diurno, gli avvocati della famiglia e di un ex collega di Bossetti hanno chiesto 3 milioni e 200mila euro di risarcimento: la richiesta di indennizzo - calcolato sulla base delle tabelle del tribunale di Milano relative al danno morale - è stata avanzata dagli avvocati Enrico Pelillo - 1,4 milioni per conto del papà e della sorella maggiore di Yara - Andrea Pezzotta - che ha chiesto 1,8 milioni per conto della madre di Yara - e Carlotta Biffi - legale di Massimo Maggioni, un collega di lavoro di Bossetti che ha accusato il muratore di calunnia e che ora chiede 100mila euro per il "danno subito". La sentenza è attesa per il 10 giugno.
Tortora, Knox, Bossetti: la fine del garantismo si celebra in tv. L'eredità della vicenda giudiziaria del conduttore genovese (commemorato in questi giorni) che ha fatto scuola per la sua rilevanza mediatica, scrive Simona Bonfante su “L’Inkiesta” il 19 Maggio 2016. Si è commemorato in questi giorni Enzo Tortora. Sono passati ventotto anni dalla morte e vengono ancora i brividi a pensare quali orrori abbia dovuto subire quell’uomo per mano della così ingiusta giustizia italiana. Un innocente non può essere perseguitato (non è un refuso) da un magistrato accecato dalla convinzione di aver beccato il pollo, pur non avendo in mano una sola piuma; avendo in mano anzi solo carta straccia. Il magistrato che si era intestato la preda Tortora - conclamato il non concepibile né giustificabile errore giudiziario - ha fatto carriera sino alla fine. E solo per un pelo, a carriera ultimata, se ne è scongiurato il salto alla vita politica. Tra i processi mediatici con cui siamo cresciuti grazie alla tv di Santoro ed emuli, il caso Tortora fa ancora scuola. Il popolare giornalista tv viene portato fuori da casa con le manette ai polsi solo quando si è già radunato abbastanza circo mediatico per dare il giusto glamour all’iniziativa. Alla fine è lui il vincitore, ha ragione Marco Cappato a definirlo così, perché della via crucis personale, della ignominiosa rassegna di tappe penitenziali cui è stato forzato da irresponsabili con il potere di togliere la libertà, Tortora ha saputo fare un caso politico, ed ha saputo portarlo in Europa. Un innocente non può essere perseguitato (non è un refuso) da un magistrato accecato dalla convinzione di aver beccato il pollo, pur non avendo in mano una sola piuma. L’aspetto triste della lunga storia della a-giustizia italiana, se vogliamo, è che per avere giustizia del modo ingiusto in cui vengono celebrati i processi e comminate le condanne in Italia, si finisce ancora oggi col dover ricorrere altrove, andare a Strasburgo ed appellarsi alla capacità di giudizio della Corte per i Diritti dell’Uomo dove l’Italia primeggia per ricorsi e condanne. Il processo contro Amanda Knox e Raffaele Sollecito è stato iniquo - ha sentenziato Strasburgo dando ragione alla ex imputata americana anche sulla modalità violenta con cui sono stati condotti gli interrogatori. Amara consolazione. La Knox ai media piaceva, e si può capire; piaceva anche ai pm, e questo invece si può capire meno visto che l’immagine, la personalità, i connotati sono caratteristiche alle quali presta attenzione lo scrittore, non il giudice. Il giudice guarda le prove. E guardando le prove sia la Knox sia Sollecito sono stati assolti. Basta, fine di un incubo. Ma per uno che alla fine si libera dalle maglie di un pm un po’ - diciamo - giuridicamente audace, ed un sistema mediatico a questi congruo, altri vi si ritrovano dentro e per tutti il meccanismo è: fatto di cronaca sensazionale, indagini che brancolano nel buio, poi una pista, una sola, che porta per forza a restringere il recinto delle possibilità. Da lì al “colpevole” è un attimo. Tant’è che pure gli inquirenti, con il conforto della stampa, finiscono col giudiziarizzare la tesi della maggioranza mediatica. E non serve neanche più andare a trovare le prove quando è così, quando c’è consenso su stampa e social. Se l’operaio dal profilo sporcato da costumi strani sembra colpevole, è mediaticamente verosimile che lo sia, dunque per forza di cose lo è. D’altronde se non è lui, chi altro può essere? Dei delitti commessi in Italia si finisce col sapere tutto salvo la verità, quella provata dei fatti. Né la cosa sembra importare: quello che sembra, è - e amen, tutti contenti. Se l’operaio dal profilo sporcato da costumi strani sembra colpevole, è mediaticamente verosimile che lo sia, dunque per forza di cose lo è. D’altronde se non è lui, chi altro può essere? Nel caso di Yara Gambirasio, il «se non è Bossetti, chi è?» è la prova schiacciante della sua colpevolezza, non il Dna - sulla cui univocità di responso pare oltretutto sussistano dei dubbi. Pur in presenza di questi dubbi, il Pm chiede tuttavia che il presunto colpevole nonché unico indagato per la morte della ragazzina sia condannato all’ergastolo. Ha senso che l’opinione pubblica ragioni così: non è tenuta a esplorare tutte le possibili piste e verificarne la tenuta probatoria. Questo obbligo pertiene i magistrati. L’opinione pubblica segue il racconto, e nel racconto il cattivo non può rivelarsi buono alla fine, senza un’improvvisa virtù sopraggiunta che gli valga il ribaltamento del giudizio. Il buono deve avere una virtù, almeno una. E chi non è buono è cattivo. Questo vale per fiction, romanzi, storie in generale. In tribunale no. Nulla di virtuoso ha Bossetti, nulla di pregevole la Knox, e questo non dovrebbe affatto, in tribunale, farne dei cattivi. Si diceva appunto che si è appena commemorato Enzo Tortora, l’innocente conclamato che pure un tribunale italiano riuscì a condannare.
Caso Yara furgone Bossetti, consulente difesa contro pm: “Mi attacca perché le ho rotto le uova nel paniere”. Il criminologo Ezio Denti, consulente della difesa di Massimo Bossetti, attacca il pm Letizia Ruggeri con la quale si è più volte scontrato durante il dibattimento in aula: “La pm è arrabbiata con me perché le ho rotto le uova nel paniere”, scrive “Urban Post” il 20 maggio 2016. Risentito, combattivo e polemico, il criminologo Ezio Denti, facente parte del collegio difensivo di Massimo Bossetti, unico imputato al processo sull’omicidio di Yara Gambirasio, è intervenuto alla trasmissione radiofonica Radio Cusano Campus, per dire la sua in merito alla requisitoria del pm titolare delle indagini, Letizia Ruggeri, con la quale si è scontrato più volte in fase dibattimentale e che mercoledì scorso ha chiesto per Bossetti la condanna all’ergastolo e 6 mesi di reclusione in isolamento diurno. Denti è stato incaricato di compiere accertamenti e perizie in merito ai video del furgone che la sera del delitto di Yara, 26 novembre 2010, fu ripreso aggirarsi nei pressi della palestra da cui uscì la 13enne prima di sparire, e che per l’accusa apparterrebbe proprio all’imputato. Il consulente della difesa di Bossetti sostiene il contrario, ma il suo lavoro nel corso del processo di primo grado, che arriverà a sentenza a metà giugno, è stato messo in discussione dal pm Ruggeri: a metà gennaio il presidente della Corte d’Assise di Bergamo, Bertoja, arrivò addirittura a sospendere l’udienza per la bagarre scoppiata in aula tra il criminologo e il pubblico ministero, appunto. E ieri il criminologo Denti ha detto la sua sulla questione – “La Ruggeri mi ha citato nella sua requisitoria, si vede che gli sono simpatico o probabilmente che l’ho colpita nel fianco. Il mio incarico era rivolto ad acquisire elementi di prova nei confronti del nostro cliente – lamentando il fatto che il pm gli avrebbe negato una seconda audizione in cui avrebbe dovuto fornire le prove che il furgone in oggetto non sarebbe quello di Bossetti: “Nella mia prima audizione sono andato esclusivamente per parlare di allineamenti e quindi di comparazioni dei furgoni. Però io avrei dovuto essere presente ulteriormente in qualità di investigatore e il pm si era opposto”. Il consulente di Bossetti ha poi precisato: “Non ci è stata quindi data la possibilità di portare ulteriori e forti prove che potrebbero essere state d’ausilio. Le porteremo quando toccherà alla difesa disquisire su ciò … Nella mia seconda audizione non mi ha fatto neanche una domanda. Dopo la mia attività ha chiesto ai suoi tecnici di misurare il furgone e di fare tutte quelle analisi che avevo prospettato io. Ma se la tua indagine è stata fatta bene perché corri ai ripari e ne chiedi altre?”. Ezio Denti ha addirittura asserito che il pubblico ministero avrebbe dichiarato in aula cose non vere sul suo lavoro: “Nella sua requisitoria la Ruggeri ha citato alcune pagine della mia relazione che non sono assolutamente vere. Ha inventato tutto. Ha fatto una requisitoria elusiva, ma la Corte leggerà la mia relazione e se ne renderà conto”. Accuse molto pesanti, dunque, che probabilmente verranno ribadite quando la parola passerà ai difensori di Massimo Bossetti, che la prossima settimana faranno le arringhe finali prima della sentenza dei giudici. Ecco in cosa, per Ezio Denti, l’accusa avrebbe sbagliato: “Ha mantenuto la sincronizzazione degli orari che è errata. Yara non è uscita alle 18.41, è uscita alle 18.50, questo è certo. Se quello è il furgone di Bossetti, vuol dire che è passato 18 minuti prima dell’uscita. Nessuno ha visto un camion fermo per 18 minuti in quella strada così trafficata? Questa cosa l’avrei detta se avessi avuto la possibilità di tornare al processo in qualità di teste. La pm è arrabbiata con me perché le ho rotto le uova nel paniere. Lei sa benissimo che se non si fosse opposta ad un’altra mia presenza nel processo avrei portato ulteriori prove che smentivano le sue”.
Luca Telese per “Libero Quotidiano” il 20 maggio 2016. «Guardi, non c' è ombra di dubbio: la questione del Dna è discriminante. Le spiego: io lo considero una prova molto importante, scientificamente attendibile, ma - proprio per questo - ancora più importante considero le modalità di garanzia nell' accertamento, a tutela dell'imputato. È decisivo il modo in cui l'accertamento viene effettuato». Carlo Federico Grosso è un luminare del diritto penale: è un avvocato penalista, professore ordinario di diritto all' Università di Torino. Lo raggiungo per chiedergli un parere sul peso della prova genetica nel processo per l'omicidio di Yara Gambirarasio. Mi chiede un'ora di tempo per rifletterci e prepararsi. Persona seria. Premette che per parlare con cognizione di causa vorrebbe poter conoscere le carte del processo, poter leggere gli atti. Spiega che la questione per lui ha un interesse immenso. Ma, dato che la requisitoria è stata appena pronunciata, che gli atti non possono essere materialmente consultati, e che questo lavoro di studio è impossibile, accetta di illustrare la sua posizione con una avvertenza: «Prima della sentenza, e prima di leggere le sue motivazioni, io posso fare solo un ragionamento in linea di principio».
Avvocato, come la definisce questa vicenda?
«Prima di tutto un paradosso giuridico, prodotto dal problema che lei mi ricorda: l'esame dei residui di Dna su questo famoso reperto G20, in questo caso, è stato fatto non solo prima del rinvio a giudizio, ma prima ancora dell'individuazione dell'imputato!».
Che proprio per questo era stato definito "ignoto numero uno". Cosa comporta, secondo lei, questo esame "in assenza"?
«Faccio una premessa importante. La prova del Dna, in astratto, ha dei grandi margini di sicurezza. E per questo viene riconosciuta in aula con un valore probatorio».
Ovvio.
«Secondo gli scienziati può essere un esame che fornisce un esito addirittura certo, a patto che sia compiuto a regola d'arte, e con una taratura attendibile degli strumenti di rilevazione con la garanzia che non ci siano contaminazioni».
Perché sottolinea questo aspetto?
«Perché dal punto di vista procedurale il problema cruciale del Dna è esattamente questo: la garanzia contro l'errore. La tutela del diritto alla difesa».
In questo caso, per stessa ammissione della pm, nelle risultanze del Dna esistono degli elementi non del tutto spiegabili. E l'esame è stato compiuto dai capitani dei Ris senza che fosse presente nessun altro.
«Questo mi dà da pensare. Quando il Dna viene usata in materia di processo penale le garanzie per l'imputato sono davvero tutto, forse un elemento addirittura prioritario».
Perché?
«Per un ragionamento logico, che discende da quello che ho appena detto: se do la facoltà di condannare in nome di quella prova, deve essere riconosciuta in pieno la possibilità di difendersi!».
Come?
«Semplice: o il Dna viene esaminato con un incidente probatorio in presenza delle parti, e soprattutto dei difensori, o viene filmata la sequenza dell'esame, oppure la prova si produce in acquisizione probatoria in garanzia da parte del pubblico ministero: articolo 360».
La condizione discriminante quale è?
«È richiesta la presenza dei consulenti tecnici dell'imputato e i loro difensori».
Nulla di tutto questo è accaduto. E nemmeno poteva accadere, visto che Bossetti non era ancora indagato né identificato.
«È un bel paradosso: in questo caso la prova dovrebbe ripetersi con dei residui di materiale biologico del medesimo campione utilizzato».
Ma, di fronte a questa richiesta, inquirenti e pm hanno detto: «Non si può perché il campione è andato esaurito negli esami dell'indagine».
«Ecco: indubbiamente è proprio a questo punto che si pongono dei problemi giuridici e processuali seri».
Me lo spieghi.
«Ma è evidente. Le parti potrebbero sempre eccepire che l'acquisizione di quella prova non sia avvenuta in condizioni di garanzia».
Infatti è accaduto. Di fronte a questo scoglio come si procede?
«È una risposta che devo fornire su due diversi piani. Nel processo in corso è il giudice che decide, che valuta gli elementi e le condizioni eccezionali in cui questo risultato si è prodotto».
E se un giudice ritiene che la prova sia utilizzabile anche se non c' erano queste specifiche garanzie?
«In questo grado di giudizio il giudice è l'arbitro, e il suo giudizio è sovrano. Ma una volta che ci fosse una sentenza che fosse basata su un elemento, che come sappiamo è contestato dalla difesa, tutto si può riaprire nei gradi successivi».
In che modo?
«Questa prova del Dna contestata sarà sicuramente elemento di appello. E, se anche in appello non venisse accolta, sarebbe sicuramente oggetto di ricorso in Cassazione. Però non corra».
Perché?
«Prima di tutto non c'è ancora una condanna. E poi perché coloro che hanno compiuto questo accertamento devono essere in grado di provare sul terreno della garanzia della prova come hanno operato».
Nel processo l'udienza con i capitani dei Ris che hanno fatto l'esame è stata una delle poi contestate dalla difesa e combattute.
«Cosa è accaduto?».
I due ufficiali hanno chiesto il rinvio dicendo che non erano in grado di rispondere alle domande sul numero di amplificazioni effettuate.
«Ecco, non conoscevo questi dettagli. Ma saranno sicuramente oggetto di valutazione nei gradi successivi».
Una sentenza della Corte Costituzionale sul processo Meredith Kercher dice che l'esame deve essere ripetuto o ripetibile per essere valido.
«Ha affermato una cosa oggettivamente corretta. Ma ogni processo è un caso a sè. Io vorrei stare nel processo di Meredith e in questo processo per valutare. Però il problema in linea di principio è un altro».
Cioè?
«Così come lei mi prospetta la questione, la possibilità di sollevare vizi di forma mi pare concreta. Tutte le parti hanno il diritto di contestare, di chiedere l'accertamento o di ripetere la prova».
Sono state presentate delle motivazioni per spiegare come mai non è ripetibile.
«Dipende dalle motivazioni: quelle di cui lei parla, in caso di riconoscimento della prova, possono comunque essere impugnate in seguito».
Ovvero?
«Il dato fondamentale, in sede di appello, è il modo in cui questa motivazione viene sostenuta. Altrimenti il valore dell'esame è nullo».
Ci si può fidare dei consulenti?
«Ogni incertezza nelle risposte che hanno fornito si tradurrà in una minore affidabilità del dato accettato. Se il giudice riterrà la prova affidabile, gli avvocati sanno che bisogna già prepararsi alla discussione che avverrà in sede di appello».
Cosa rende un esame attendibile più di un altro?
«È semplice: l'unica vera garanzia è il rispetto delle regole. In un caso conteso, di solito, non si può prescindere da un incidente probatorio».
Che secondo l'accusa non si può effettuare per l'esaurimento del campione.
«Capisco. Ma questa irripetibilità è la debolezza innegabile di questo accertamento così importante».
E dunque?
«Se non c' è questo incidente probatorio, ci troviamo di fronte a una innegabile carenza del processo».
La catena dei passi falsi dell’imputato Bossetti. Dalle spiegazioni (smentite) sui suoi movimenti il giorno dell’omicidio di Yara Gambirasio alle lettere a Gina con dettagli ritenuti indizianti, scrive Giuliana Ubbiali su “Il Corriere della Sera” del 23 maggio 2016. Il giorno in cui viene fermato, Massimo Bossetti non si straccia le vesti per gridare che non è lui il mostro che carabinieri e polizia cercavano da quattro anni. Ignoto 1. L’assassino di Yara Gambirasio. Si avvale della facoltà di non rispondere. Le reazioni umane, però, sono soggette a interpretazione. È dopo, quando inizia a parlare, che il padre di famiglia inanella una serie di errori. O, almeno, lo sono alla luce delle 13 ore di requisitoria del pm Letizia Ruggeri e delle cinque degli avvocati di parte civile. Il 27 maggio parleranno i suoi difensori e, c’è da giurarci, uscirà il ritratto di un altro Bossetti: un uomo casa, lavoro e famiglia finito per errore nelle maglie della giustizia. «Sono innocente», dice lui. Per ora c’è quanto è emerso alle ultime tre delle 41 udienze davanti alla Corte d’Assise. E messo tutto insieme colpisce. Bossetti apre bocca e viene smentito. Aggiunge dettagli e questi gli si ritorcono contro. Incontra la moglie in carcere e dalle loro conversazioni spuntano frasi che pesano contro di lui. Chiede di parlare con il pm e getta sospetti su un collega finendo sotto accusa anche per calunnia. Come se non bastasse, si mette a scrivere a una detenuta dettagli erotici che rimandano a quelli delle ricerche nel suo computer e che la procura ritiene indizianti. È una sequenza di passi falsi nei 2.167 giorni dal fermo a oggi. «L’imputato ci ha offerto degli spunti», le parole del pm. Interrogato dal gip, dice che il giorno del delitto potrebbe essere passato da Brembate Sopra al ritorno dal lavoro, a Palazzago. Quel giorno, però, non c’era andato. Allora si corregge: è andato dalla commercialista, dal fratello per i lavori al vialetto, all’edicola a prendere le figurine ai figli, dal meccanico. Solo che, verifiche del pm, «la commercialista gli telefona il 29 novembre poco prima di prima di spedire i pagamenti delle tasse e questo dimostra che Bossetti è passato quel giorno a firmare il mandato di pagamento, non il 26; gli edicolanti sostengono che non era un cliente assiduo, il fratello che i lavori “non erano in quel periodo lì” e non c’è prova di riparazioni dal meccanico». Poi Bossetti fa il nome del collega Massimo Maggioni al pm. In 46 pagine di verbale riversa su di lui i sospetti del delitto e di aver messo il suo Dna su Yara perché «era invidioso di me». Il giorno in cui Maggioni parla, Bossetti si alza in piedi e sbotta: «Non volevo accusare nessuno, i miei erano solo sospetti». Ma l’avvocato di parte civile nell’arringa insiste: «A domanda della presidente, l’imputato ha rivendicato che l’assassino volesse incolpare lui». Anche i colloqui con la famiglia sono scivolosi. Marita gli ricorda di avergli chiesto che cosa avesse fatto la sera del delitto e che in famiglia ciascuno aveva cercato di fare mente locale: «Non mi hai mai risposto». Non poteva, secondo gli avvocati di parte civile, perché avrebbe dovuto ammette di aver ucciso Yara. Poi ci sono quelle lettere a Gina in cui Bossetti le scrive della sua predilezione per la rasatura delle parti intime. Non sono una prova, certo. Ma un passo falso sì. Non pesano di certo a suo favore. L’imputato nega le ricerche in Internet con i termini «ragazzine» e quella stessa pratica, ma sapeva e sa benissimo che per l’accusa sono un indizio della sua predilezione per le giovani donne.
Bossetti, la rivelazione dell'avvocato: "È sottoposto a terapie di psicofarmaci". Salvagni, il legale di Bossetti: "Il processo non deve essere fatto di suggestioni: le lampade, le sue abitudini sessuali. Il processo deve stabilire se è un assassino o no", scrive Today” il 17 maggio 2016. Torna a parlare Claudio Salvagni, avvocato di Massimo Giuseppe Bossetti, unico imputato per l'omicidio di Yara Gambirasio. Lo fa nel corso della trasmissione “Legge o giustizia” di Radio Cusano Campus. "Non mi aspettavo una requisitoria così lunga - dice. Non ha alcun senso ricostruire tutta la fase delle indagini perché diventa un’autocelebrazione dell’inchiesta, come del resto è stato tutto il processo. C’è un dato oggettivo: loro ritengono che quel dna sia di Bossetti, da lì bisogna partire. Andare a disquisire per ore sulla questione di Giuseppe Guerinoni non ha alcun senso". Ci sono alcune stranezze che a Salvagni non vanno giù: "Noi abbiamo sentito pronunciare il nome di Bossetti alle 5 del pomeriggio, dopo che la requisitoria era iniziata da 6 ore. Possiamo parlare quanto vogliamo, ma alla fine gli elementi a carico di questa richiesta di condanna sono veramente scarni, benché se ne parli per ore. Attenderemo questa seconda parte di requisitoria per capire quali siano le prove a carico, e dico prove non indizi". "Questo mezzo dna, con tutti i se e con tutti i ma che lo hanno accompagnato, sarà sufficiente alla condanna? Anziché trovare la risposta al fatto che non è stata trovata l’altra parte di dna, dicono che quella parte di dna non è importante. Il dna mitocondriale è la prova del nove, se quella non torna non è che si può dire che non è importante" aggiunge il legale. Risponde anche ai quotidiani che si domandavano come mai Bossetti, durante l'ultima udienza, fosse così abbronzato: "Premesso che Bossetti è sottoposto a terapie di psicofarmaci, il fatto che sia abbronzato dipende da quei pochi raggi di sole che possono penetrare attraverso le sbarre e nell’ora d’aria. Hanno sempre cercato di fare un processo alla persona. Si devono far coincidere dei punti: se c’è un punto di partenza e un punto d’arrivo che sono distanti, la strada per unire questi due punti è stata adattata. Il processo a Bossetti non deve essere fatto di suggestioni: le lampade, le sue abitudini sessuali, ecc… Il processo deve stabilire se è un assassino o no e deve farlo con le prove, non con le suggestioni".
Bossetti, parla il suo avvocato: "È in condizioni pietose, temo per la sua vita". Il legale dell'uomo accusato dell'omicidio di Yara: "L'ho trovato in una condizione pietosa, quasi peggio che dopo i primi giorni dell'arresto", scrive “Today” il 20 maggio 2016. L'avvocato Claudio Salvagni è "preoccupato" per "l'incolumità e la vita" di Massimo Bossetti. Lo ha affermato, a margine della discussione delle parti civili oggi alla Corte d'Assise di Bergamo, l'avvocato dell'imputato per l'omicidio di Yara Gambirasio, commentando quello che ha definito "il colpo basso inferto" a Bossetti con la "pubblicazione delle lettere" inviate con contenuti piccanti a Gina, una detenuta con cui il muratore bergamasco ha intrattenuto rapporti epistolari durante la detenzione. "Non voglio entrare in questioni intime e personali - ha detto l'avvocato Salvagni, parlando della pubblicazione su un settimanale di un'altra missiva di Bossetti, scritta a sua madre, in cui fa intuire sue intenzioni suicide - ma ho letto la lettera e ci ritrovo Bossetti. L'avevo visitato in carcere il giorno prima che la scrivesse e l'ho trovato in condizione pietosa, quasi peggio che dopo i primi giorni dell'arresto".
Mercoledì scorso il pubblico ministero Letizia Ruggeri ha chiesto per Bossetti la condanna all'ergastolo e sei mesi di isolamento diurno per "omicidio doloso" con aggravanti.
Il Marziano di Bergamo: nome in codice Emmegibi o MGB (Massimo Giuseppe Bossetti), scrive Alfredo Mori - degli amici di Padre Brown (Brescia). Che i marziani esistano e vivano fra noi l'abbiamo scoperto il giorno 20 giugno 2014 in una conferenza stampa cui presenziarono il Procuratore della Repubblica di Bergamo Francesco Dettori, la nota dottoressa procuratrice Letizia Ruggeri e altri grandi personaggi che nell'occasione parlarono di indagini condotte con metodi da extraterrestri. In pratica ce lo disse l'allora Questore di Bergamo Fortunato Finulli, lo stesso che un anno dopo, essendosi forse spinto un po’ oltre i suoi incarichi, venne accusato di peculato e rimosso (qui il link). Ma non fu lui il primo a parlarci di marziani: Non siamo più soli nell'universo era infatti il titolo a nove colonne che anni fa apparve sotto la testata del Corriere della Sera per dire al mondo che erano sbarcati degli alieni sulla terra. La notizia si rivelò poi una bufala confezionata da un gruppo goliardico che pubblicava un giornaletto spiritoso frutto delle temperie dell'epoca. Sono passati alcuni decenni da quella bufala, ma ora, finalmente, è possibile affermare con certezza che sulla terra c'è qualcuno molto diverso da noi banali terrestri. Vi diciamo subito la data che passerà alla storia: è quella del 16 giugno 2014. Quel giorno i nostri responsabili della sicurezza e dell'ordine pubblico, con l’aiuto della mente diabolica che la vulgata attribuisce agli esperti dell'intelligence, con una operazione coordinata a cui parteciparono decine di agenti in divisa e in borghese, arrestarono un vero marziano. Da notare che ci riuscirono solo perché l'essere era impossibilitato a fuggire... visto che si trovava immerso con gli stivali nel cemento fresco. Il suo nome in codice è Emmegibi (o MGB), per i giornali e per noi terrestri Massimo Giuseppe Bossetti, un tipo apparentemente ordinario, sposato con tre figli piccoli, artigiano muratore, arrestato sul posto di lavoro mentre stava livellando una soletta di cemento armato all'ultimo piano di una nuova costruzione in quel di Seriate. Interdetto e stupito dal fatto di essere stato scoperto, si fece condurre in caserma non senza aver prima domandato agli agenti “Ma voi di dove venite?” (tipica domanda da marziano), e aver chiesto di poter bere un sorso d'acqua perché a stare sotto il sole gli si era seccata la gola. Infine, ciliegina di marziano fornito di una buona educazione, chiese e ottenne di togliersi almeno i gambali di gomma sporchi di cemento e mettersi un paio di scarpe decenti per non sporcare i tappetini della gazzella dei carabinieri ed essere presentabile ai media. Che fosse un vero marziano e non un uomo qualunque, al mondo lo rivelò un paio di giorni dopo il questore di Bergamo affermando con gusto e soddisfazione, davanti ad una folla di giornalisti gaudenti: “Siamo partiti dal nulla... abbiamo preso un MARZIANO”. La parola marziano gli scappò di bocca, la vera identità di MGB doveva rimanere segreta ma l'entusiasmo, si sa, è in grado di far brutti scherzi anche a gente navigata come i Questori. Per porre rimedio alla gaffes, il giorno dopo l'arresto si usò un pretesto per convocare una conferenza stampa che, si disse, aveva l'unico scopo di informare l'opinione pubblica della soluzione di un fatto di cronaca nera sul quale si indagava da oltre tre anni senza riuscire ad approdate a niente di interessante e significativo... tanto che, tra il disappunto degli inquirenti persi tra piste e depistaggi, da tempo si era insinuata la forte irritazione dei vertici dello stato. Insomma, si acquistarono più metri cubi di sabbia per insabbiare la reale informazione. D'altronde solo così si poteva mascherare il fatto straordinario di aver messo le mani su un marziano. Per poter condurre esperimenti, per poterne conoscere meglio le caratteristiche marziane, il Gup decise di confermare il fermo (lo fecero altri giudici dopo lui) e mantenerlo in cella con l'accusa di essere il responsabile della morte di una ragazzetta di 13 anni, Yara Gambirasio, scomparsa la sera di venerdì 26 novembre 2010 a Brembate Sopra (BG) e ritrovata cadavere tre mesi dopo in un campo (anche troppo frequentato) ad una decina di chilometri da casa sua. In questi due anni però, si son verificati continui problemi perché il marziano, fatto passare per un terrestre, è stato catapultato in uno scenario che non si addice proprio alla sua figura. Lo scenario infatti è lo stesso che durante le indagini sulla morte della ragazzina aveva messo in luce, tramite diverse testimonianze, elementi difficilmente ascrivibili all'extraterrestre Emmegibi, a partire dal fatto che nessun predatore solitario avrebbe potuto rendersi responsabile del misfatto. Per giustificare l’arresto di MGB si son dovuti quindi inventare degli escamotage indiziari degni della penna dei più noti giallisti d'epoca moderna, quelli che sfornano suggestivi intrecci infarciti di elementi fantascientifici quali la prova regina del DNA, il posizionamento dei telefonini agganciati alle celle territoriali e le videoregistrazioni del traffico urbano... intrecci strani e abbastanza inverosimili, la cui mancanza di logica è stata messa in evidenza dai molti curiosi che oggi si scambiano opinioni sui tanti blog sparsi nel web che hanno anche puntato il dito sul fatto che ogni imputato è da considerarsi innocente fino a sentenza contraria definitiva. Parole sagge scritte da quella parte di popolo che conosce e rispetta la Legge. Parole che fanno da contraltare ad alcune affermazioni contrarie alla stessa Legge, parole inverosimili dette a caldo, sulle ali di un malcelato entusiasmo, dal Ministro degli Interni e dal Capo del governo che si è anche complimentato con le forze dell’ordine come se la sentenza di cassazione fosse già stata emessa. I giallisti comunque sono al lavoro e si sa che hanno una fantasia capace di sorprendere. Ma sarà possibile farla franca quando si ha a che fare con un Marziano? Nel mentre il marziano si è comportato da marziano. Si è dichiarato innocente ed estraneo ad ogni addebito mosso sul suo conto, lui che ha un furgone completamente diverso da quel che fu visto da alcuni testimoni la sera della scomparsa di Yara (il suo è un cabinato verdino aperto e non un furgone bianco chiuso), lui che mai è stato visto da chi frequentava la ragazza dorme tranquillamente e ha un comportamento rispettoso coi suoi carcerieri. Ora, però, dobbiamo darvi conto di un episodio che ha sconcertato chi lo spia notte e giorno da dietro le videocamere e tramite lui studia i comportamenti alieni. E' un episodio che a tutti gli effetti lo indica e lo qualifica come un vero marziano. Quando fu visitato in carcere da moglie e figli, invece delle solite e umane scene strazianti - ipotizzabili in quei frangenti - dimostrò tutta la sua diversità, tutta la sua tranquillità e tutta la sua allegria mettendosi a cantare, per i figli, la canzone "Guerriero" di Marco Mengoni. Gli studiosi sono rimasti a bocca aperta: Chi avrebbe mai pensato che un Marziano si potesse interessare anche alle canzonette di cantautori impegnati? E' un marziano, non v'è dubbio e lo si evince da quanto detto in tempi non sospetti, in una trasmissione del 31 marzo 2011, dallo psichiatra Paolo Crepet, nota figura televisiva. Si era a pochi giorni dal ritrovamento del corpo di Yara e lui descrisse le conseguenze che avvengono in una persona terrestre non avvezza al crimine quando risulta protagonista di un delitto. Parlò di un sicuro cambio di abitudini, di crisi di sconforto, di lacerazioni interiori evidenti... fatti che nel marziano MGB nessuno ha mai riscontrato dal 2010 al 2014. Infatti, negli anni successivi al delitto di Brembate si è limitato a continuare nelle sue consolidate abitudini: ad andare a lavorare, a farsi qualche lampada abbronzante per sentirsi più bello e piacere di più alla bella moglie, a comprare figurine per i suoi figli. Questo dimostra inequivocabilmente che ci troviamo al cospetto di un vero marziano che mai può inserirsi nel contesto che gli è stato contestato per poterlo tenere sotto osservazione e così mantenere segreta la sua vera identità. Identità nemmeno in parte scalfita, anzi di certo confermata, dal DNA "particolare e fuori natura" che gli è stato attribuito. DNA che in una delle tante udienze il marziano MGB, tra lo stupore dei presenti e la allibita sorpresa del pubblico ministero Letizia Ruggeri, ha definito "strampalato"... termine molto efficace ma sicuramente marziano in quanto fra i terrestri è da tempo in disuso. Finiamo l'articolo chiedendoci quando arriverà dalle nostre autorità la notizia ufficiale che sulla Terra, non molto lontano in linea d'aria da noi, si è scoperto vivere un marziano (nome in codice Emmegibi o MGB). Quando accadrà che una voce logica e autorevole in diretta mondiale ci dirà che c'è stato un errore, che il marziano Emmegibi non è pericoloso e che, anzi, è molto paziente e anche troppo gentile? Prima o dopo la prossima sentenza del Tribunale di Bergamo?
Processo Bossetti: che futuro ci attende dopo una requisitoria in stile "Unione Sovietica"? Noi vediamo bene che la ragione sragiona e non sa costruire che delle prigioni quando la sua forza imperiosa non è addolcita dalla grazia dell’umiltà. (Andrè Frossard). Articolo di Alfredo Mori (degli amici di Padre Brown) del 18 maggio 2016. Ci siamo! Benvenuti in Unione Sovietica. Se non vi garba o non siete d'accordo, state pure comodi che un giorno o l'altro potreste accorgervene anche voi. Con la requisitoria del pubblico ministero Letizia Ruggeri, finita con la richiesta dell'ergastolo per Massimo Giuseppe Bossetti nonostante la sua indagine fantasmagorica non sia riuscita a mettere insieme nemmeno un indizio che potesse farci immaginare non dico un movente (che non si è nemmeno cercato o è svanito nel nulla) ma almeno un contatto credibile tra la piccola Yara Gambirasio e il muratore di Mapello (che nessuno del mondo di Yara ha mai visto né conosciuto), per la prima volta si registra in un processo la richiesta di una aggravante perché un imputato incarcerato senza prove certe viene dal pubblico ministero accusato di non essersi dichiarato colpevole e, per questo, di non aver collaborato con gli inquirenti. Come se un comportamento del genere sia prevedibile o, anzi, obbligatorio. La confessione non è arrivata, come era ovvio che fosse dato che l'imputato si è sempre professato estraneo al crimine, e questo ha creato disappunto e ansia fra gli inquirenti che, spiazzati in quanto privi di prove e ammissioni, non hanno potuto mandarlo a giudizio nei sei mesi a disposizione dopo il suo arresto... come invece dissero di voler fare e come sarebbe stato logico in presenza di un arresto in pompa magna che solo un quadro accusatorio valido poteva giustificare. Non è che ci troviamo alla vigilia di un secondo caso Monica Busetto di Mestre, con il capo della Squadra Mobile di Bergamo trasferito a Venezia poco prima dell'arresto della donna (forse un entusiasta delle micro tracce di DNA che trasformano ogni imputato in colpevole) a far da tramite inquietante alle due vicende? In ogni caso, se Bossetti sarà condannato è molto facile prevedere che un domani la richiesta di confessare misfatti a cui si è estranei diventi legittima... come ai tempi di Stalin. Sin dal giorno della scomparsa della piccola Yara, pare che almeno una parte degli inquirenti avesse un compito: dare un indirizzo preciso alle indagini, un indirizzo dichiarato con ingenuità e leggerezza dalla stessa Letizia Ruggeri, titolare del caso. C'era da tener fuori dal fatto delittuoso ogni riferimento al molto chiacchierato cantiere di Mapello. “La pista del cantiere l'ho scartata sin dal primo giorno”, la si sente ripetere in tanti video che girano su Youtube. E la domanda è: Cosa poteva sapere sin dal primo giorno il magistrato Letizia Ruggeri di quel che era successo a Yara? Chi glielo aveva detto? Da quale fonte traeva le sue convinzioni? (I cani molecolari che hanno trovato le tracce di Yara nel cantiere sono arrivati solo dopo tre giorni). Non è che già dal giorno della scomparsa (forse anche da prima) è stata fatta segno di intimidazioni molto persuasive così da non consentirle di rivangare quei temi tabù che nella bergamasca già avevano fatto registrare episodi inquietanti? Vedi ad esempio lo scioglimento del ROS di Bergamo, scoperto colluso con la malavita, l'arresto del bergamasco Pasquale Claudio Locatelli, trafficante internazionale di droga, la condanna a 14 anni del generale dei ROS Ganzer, la condanna dell'ex Ros di Bergamo Gianfranco Benigni (corriere e informatore dei trafficanti di droga), le indagini su Filippo Bentivogli e diversi altri appartenenti alla benemerita, per favoreggiamento, e l'arresto dei figli di Pasquale Locatelli...E ancora, episodio accaduto il giorno prima della scomparsa di Yara, lo strano suicidio (con misteriosa scomparsa di chiavette per computer parti di pistola e agenda personale) del brigadiere dei carabinieri Pierluigi Gambirasio. Sul suicidio del brigadiere (chiamato il Serpico della Valbrembana) che entro breve si sarebbe sposato con la sua convivente, dalla quale aveva avuto un figlio, stava indagando proprio Letizia Ruggeri...Non è dunque che alla procuratrice è stata prospettata la stessa fine - un suicidio senza motivazioni - stessa fine che fece a novembre 2012 l’imprenditrice Silvana Sonzogni, compagna del capitano Bentivogli, che aveva per prima scoperto il corpo del brigadiere riverso sulla sua scrivania in caserma? Sarà questo il motivo per cui il Questore di Bergamo ha confessato, dopo l’arresto di Bossetti, che gli inquirenti sono partiti dal nulla... per poi arrivare ad un marziano? Un tipo risultato venire da un altro pianeta rispetto al mondo di Yara? Perché i testimoni della prima ora sono stati tutti dissuasi a mantenere le loro testimonianze e si è voluto far tabula rasa di un quadro indiziario piuttosto ricco che presentava personaggi, fatti e movimenti parecchio sospetti? Perché una settimana dopo si è andati persino in alto mare a fermare e arrestare (per sbaglio?) un marocchino che la sera della scomparsa era proprio nel cantiere di Mapello... con un'accusa pesantissima “sequestro di persona, omicidio in concorso con altri e occultamento di cadavere”? Come mai sono stati sospettati del delitto anche i due italiani che erano con lui nel cantiere quella sera? Ci sono telefonate molto strane che ancora si possono leggere nel web che li ha visti protagonisti. Per quelle effettuate dal marocchino si è detto che erano state tradotte male... però il comandante del nucleo operativo dei carabinieri di Bergamo sosteneva che si erano utilizzati i migliori traduttori disponibili sulla piazza (mesi dopo il comandante venne trasferito... perché in dissidenza col magistrato inquirente?), mentre quelle del suo datore di lavoro Roberto Benozzo, che quella sera era al cantiere assieme al marocchino, erano piuttosto precise e inequivoche: nel senso che davano la netta impressione che fosse a conoscenza di quel che era accaduto a Yara. Strano anche che il furgone bianco chiuso delle prime testimonianze, che molti han visto la sera della scomparsa di Yara, sia stato fatto diventare, così da corrispondere al mezzo di proprietà di Bossetti, un cabinato aperto da muratore color verdino. Un furgone che diventa un camioncino, come nella favola della zucca trasformata nella carrozza di Cenerentola, qui nelle vesti di Yara, che per di più aveva misure diverse di quelli apparsi sugli spezzoni del famoso filmato dei RIS di Parma... quello confezionato ad hoc per conto della procura per “esigenze di comunicazione”. Poi c'è il famoso DNA di Ignoto1 corrispondente a quello di un ragazzotto di nome Damiano Guerinoni, conoscente di Yara che però la sera della scomparsa si trovava all'estero... ma che poi, però, prima del ritrovamento del cadavere tornò a casa. Era un frequentatore della discoteca di Chignolo d'Isola come Silvia Brena, l'istruttrice che ha lasciato - pure lei - il suo Dna sulle maniche del giubbino che indossava Yara. E siccome gli inquirenti, sempre per lasciar fuori dalle indagini il cantiere di Mapello? Hanno ipotizzato che il corpo di Yara fosse rimasto nel luogo del ritrovamento sin dalla sera della sua scomparsa, sul ragazzotto figlio della colf di casa Gambirasio non si è più indagato supponendo che il DNA fosse invece di un figlio illegittimo di Giuseppe Guerinoni: un autista morto diversi anni prima e fratello del papà di Damiano. La presenza del corpo di Yara sul luogo del ritrovamento per tutti i tre mesi in cui sono durate le ricerche è stata smentita da alcune risultanze dell'autopsia ben precisate in aula dalla genetista Dalila Ranalletta e dagli stessi volontari, a partire dal sindaco di Chignolo d'Isola, che hanno partecipato alle ricerche e riferito che il terreno era stato setacciato più volte e che il corpo non c’era... che quasi certamente era stato portato in quel luogo poco prima del ritrovamento. Dunque, prima di arrivare al campo di Chignolo era nascosto da qualche altra parte e non certo a casa di Bossetti. Casa scandagliata dagli inquirenti fin negli angoli più remoti... forse si trovava proprio nel cantiere dove i cani avevano fiutato l'ultima traccia di Yara? Ma Letizia Ruggeri ha dichiarato inattendibili i cani molecolari (gli unici soggetti non passibili di intimidazione), ne ha snobbato i segnali e non ha mai voluto modificare le sue supposizioni circa il delitto. Supposizioni senza evidenze certe e risultate, come evidenziato nella sua requisitoria, senza alcun elemento di fatto. Quindi erano e sono rimaste semplici supposizioni, appunto. Alla fine si è forzata la mano e Ignoto1 è stato fatto corrispondere al signor Massimo Bossetti. Peccato che due anni prima, nell'estate 2012, il genetista Emiliano Giardina (su richiesta degli inquirenti) confrontando i Dna confermò che la mamma di Bossetti non era la mamma di Ignoto1. La circostanza è stata confermata in aula anche da Gianpaolo Bonafini, ex capo della Squadra Mobile di Bergamo, durante la sua deposizione in Tribunale. E se la mamma di Bossetti non era la mamma di Ignoto1, nemmeno suo figlio poteva diventare l’Ignoto1 figlio illegittimo di Giuseppe Guerinoni. Per fugare ogni possibile contestazione bastava fare la prova regina risolutiva, e cioè il confronto fra i Dna dei due Bossetti padre e figlio, ma gli inquirenti non l'hanno mai voluta fare... forse perché così sarebbe caduto tutto l’impianto accusatorio? Si voleva una "confessione collaborativa" che non c'è stata, in mancanza di questa si è registrato un gravissimo tentativo di attribuire a Bossetti la confessione dell'omicidio di Yara... ma troppo pacchiana è risultata la descrizione (vedi Cremaoggi.it) della dinamica del delitto, con il coinvolgimento di un secondo uomo, ritenuta inattendibile ma verosimile (sic!) da Letizia Ruggeri. La “soffiata” agli inquirenti la fece il detenuto Loredano Busatta, compagno di cella di Bossetti perché imputato di 21 rapine. A sbugiardarla fu un altro detenuto, R.L., che nei piani del Busatta doveva invece confermarla. Il soffiatore fu scarcerato prima del processo e affidato a una comunità di recupero. Da lì fuggì e fu riacchiappato solo nel maggio 2015 per essere poi condannato a 9 anni e 4 mesi dal tribunale di Brescia. Ora, che la Pubblica Accusa abbia insistito nella sua requisitoria a sostenere la colpevolezza di Bossetti, fatto diventare (ricamando sulle alcune testimonianze) da iniziale “pedofilo stupratore di ragazzine” (così percepito dall'opinione pubblica attraverso i mass media) a tipo impulsivo che quando si trova di fronte alle donne (qualsiasi età abbiano) non si sa trattenere, come descritto nella requisitoria del Pubblico Ministero, non è un fatto che ci può far stare allegri. Fare complimenti a una signora o scrivere a una sconosciuta molto insistente su certi particolari (la provocatrice sarà proprio la Gina moglie del giostraio?) che si dispone di grandi doti e si è bravi in certe cose, non mi pare che possa consentire di tirare conclusioni del tipo: chi indugia in questi comportamenti (da bulli da Bar Sport, da Berlusconi se volete o da chi vi pare in base alle vostre conoscenze) può anche andare in giro ad ammazzar bambine. Francamente codesto pseudo movente impulsivo sembra davvero un po' tirato, roba da menti contorte molto a corto di prove e certamente molto a corto di argomenti probanti. Ritenerlo pure sadico, con quella descrizione davvero enfatica AD USUM DELPHINI di aver voluto far soffrire Yara per ore abbandonandola ancora in vita, senza dire quali probanti elementi corroborassero tale supposizione, è un fatto da indagare più nella mente della signora Ruggeri che in quella di Bossetti... mente che tutti ormai conosciamo nei più piccoli dettagli. Nessun testimone a processo ha fatto emergere elementi di sadismo nella sua vita. Da dove li avrà estratti la PM, se non dalla sua mente? C'è ancora un argomento molto delicato da considerare e non trascurare. Se davvero arrivasse una sentenza di condanna per Bossetti tutti dovremo prepararci a vivere da cittadini di una prossima “Italia sovietica”. Tutta la gente di Brembate è stata coinvolta e segnata dalla morte di Yara, sia in via diretta (per rapporti di parentela con alcuni testimoni) sia in via indiretta (perché l'ambiente è piccolo e la gente mormora). La stragrande maggioranza dei brembatesi sa con certezza che Massimo Bossetti è estraneo alla disavventura che è costata la vita a Yara. Dunque si rende conto che il paese resterà sotto una cappa di piombo se ci si accontentasse della condanna di Bossetti e con questa venisse sospesa la ricerca dei veri responsabili del crimine. Vi sono state testimonianze che in aula hanno dimostrato tutta la loro fragilità. Non mi riferisco ai tanti non ricordo che si son sentiti a ripetizione, quanto alle tante contraddizioni che non si son volute approfondire (a partire dal custode della palestra), e alla mancata accettazione da parte della Corte di molti testi importanti proposti dalla difesa: uno su tutti è il capo del nucleo investigativo dei carabinieri di Bergamo Giovanni Mura che ha svolto le indagini fino al settembre 2012 prima di essere trasferito a Parma. Ma anche altri, accantonati e lasciati un po' sullo sfondo, lo stesso marocchino Fikri e il suo datore di lavoro che avrebbero chiarito molti lati oscuri della vicenda. É molto probabile che qualche segnale molto presto si paleserà, come ebbe a dire in chiesa con parole forti l'ex parroco don Corinno, ora pensionato in un santuario, stimolando i presenti a un esame di coscienza. Si rischia di dover registrare incidenti e disgrazie, soprattutto fra chi sa qualcosa e non parla per paura. Un appello va fatto alla gente di Brembate e ai genitori di Yara. Non potete restare in silenzio e accettare e accodarvi alle conclusioni della pubblica accusa! Non potete chiudere un fatto delittuoso che non può essere opera di un singolo protagonista (come sostiene anche Vittorio Feltri, tra i pochi giornalisti a esporre qualche ragionamento sensato, chi leggendo gli atti non credette alla colpevolezza di Enzo Tortora) e lasciare che i veri responsabili della morte di Yara restino impuniti. Massimo Bossetti ha di certo limiti e fragilità, ultimamente rese evidenti, ma non è un assassino e non può essere condannato alla disperazione solo perché enormi corollari nefasti sono stati messi in campo per sostenere l'accusa che lo ha colpito. Corollari che non riguardano la morte di Yara ma la sua vita privata, la sua famiglia e i suoi familiari. Un altro appello lo si deve fare al popolo italiano e ai giudici popolari. Non si può lasciar condannare senza prove in nome del popolo italiano. Si sa che i giudici popolari hanno poca voce in capitolo "sentenze", che chi presiede la Corte ha più autorevolezza e forza, ma è giunta l'ora che si assumano le loro responsabilità e si impuntino sulla logica. Prima di tornare in tribunale che si vadano a rivedere il film "La parola ai giurati" e si rendano conto che con Bossetti hanno un compito facilitato... mancando ogni evidenza di contatti tra vittima e imputato ed essendoci lacune investigative a causa di indagini che non si sa bene il motivo hanno trascurato, o accantonato, importanti elementi emersi dalle testimonianze raccolte. Elementi che andavano approfonditi e non liquidati con sufficienza o, peggio, con fastidio come è avvenuto. Se la sentenza sarà di condanna non si dovrà dire in tribunale che viene emessa a nome del popolo italiano. Io non ci sto, meglio dichiarare che si condanna in nome delle deficienze della Procura di Bergamo, in nome di quei tanti carrieristi che vivono e prosperano sulle disgrazie altrui, in nome di quella feccia "colpevolista a priori" piena di se stessa che vorrebbe essere sempre vincente, che non sa considerare i fatti né guardare alle evidenze, che non sa cosa vuol dire provare a mettersi nei panni degli altri perché si crede immune da ogni disavventura. In caso di condanna ci aspettano tempi bui, troppa gente proverà una soddisfazione che non merita e se non si reagirà lasceremo che venga avanti il disegno oscuro che si sta già ben delineando e che vuole tutti i cittadini rattrappiti, chiusi in se stessi, proni, intimiditi per non dire terrorizzati e, a discrezione di qualche solerte funzionario, tutti potenziali criminali al di là di ogni evidenza ...P.S. Vedo ora (21.5.16) che gli avvocati di parte civile (Pelillo e Pezzotta) hanno chiesto a nome della famiglia la condanna di Bossetti, dicendo di essere rimasti persuasi della pista del Dna. Ma non la raccontano giusta. La famiglia per molti ha lasciato parecchio a desiderare, è mancato forse quel tantino di feeling in più con la figlia durante le ricerche e hanno sollevato perplessità alcuni comportamenti, soprattutto del padre... e poi pare mostruosa la cifra richiesta di risarcimento avanzata dagli avvocati che la rappresentano. Ma alla luce delle parole dei due legali, c'è da capire perché nel gennaio 2013, quando la ricerca di Ignoto1 era già avviata da molti mesi, l'avv. Pelillo si oppose a nome della famiglia all'archiviazione del fascicolo su Fikri, perché al tempo lo riteneva coinvolto nella morte di Yara come, anche, il Gip Maccora che chiese un supplemento di indagini. Dunque anche l'avvocato Pelillo era convinto che fossero più di uno i responsabili della morte di Yara. Poi, con l'avvento di Bossetti, anche lui si è convertito sulla strada di Damasco. Oppure l'hanno convertito i consigli di gente più scafata di lui, con motivazioni tipo “non vincerai mai più un processo”, o è stato allettato da una bellissima parcella da incassare in caso di vittoria. Per questo si è prestato a quell'osceno interrogatorio alla moglie di Bossetti che con Yara non aveva proprio niente a che fare e che, speriamo, continuerà a tormentarlo per tutto il resto della sua vita.
«Libertà per Bossetti»: è battaglia persino sul Facebook di Obama, scrive “Bergamo Post” il 23 maggio 2016. La morte di Yara Gambirasio, sin da quella terribile notte del 26 novembre 2010 quando della giovane si persero le tracce fuori dal centro sportivo di Brembate Sopra, è presto diventato un caso mediatico. Puntate e puntate di talk show si sono susseguite, negli anni, cercando di fare luce sull’uccisione della 13enne. La svolta è arrivata nel giugno 2014, quando sono scattate le manette per Massimo Bossetti, carpentiere di Mapello accusato di essere l’assassino di Yara. A incastrarlo, secondo gli inquirenti, le tracce del suo Dna rinvenute sul cadavere della ragazzina. Il 3 luglio 2015 ha preso il via il processo di primo grado nei confronti di Bossetti. A distanza di quasi un anno dalla prima udienza, siamo alle battute finali. La sentenza della Corte d’Assise presieduta dal giudice Antonella Bertoja è attesa per la metà di giugno. Ma i dubbi sono ancora molti. L’intero processo, infatti, è stato un lungo braccio di ferro tra le convinzioni della Procura, rappresentata dal pm Letizia Ruggeri, e le tesi della difesa, con gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini a sostenere la debolezza delle prove nei confronti del loro assistito. E l’Italia si è divisa in due, come spesso accade in questi casi: da una parte i colpevolisti, dall’altra gli innocentisti. Questi secondi hanno trovato sui social l’habitat perfetto in cui condividere i loro dubbi e, soprattutto, portare avanti quella che loro stessi definiscono «una battaglia per la verità». Che presuppone l’innocenza del carpentiere di Mapello. Il profilo Facebook dell’avvocato Salvagni, molto attivo sui social, è presto diventato luogo di confronto e scontro. Attorno alla figura del legale dell’imputato (e in particolare alla sua pagina del diario virtuale) si sono ritrovate numerose persone convinte dell’innocenza di Bossetti. Ogni giorno gli internauti postano sul profilo di Salvagni articoli e post che mettono in dubbio il lavoro svolto negli anni dalla Procura, chiedendo chiarezza sui tanti punti ancora oscuri delle indagini (perché è innegabile che ce ne siano) e intavolando discussioni, talvolta anche molto accese (ma Salvagni ha il merito di tentare di riportare sempre la tranquillità), riguardanti il processo. Navigando per Facebook si trovano anche diverse pagine e gruppi a sostegno di Bossetti: da “Forza banda Bossetti: siamo con voi” a “JE SUIS BOSSETTI iniziative private per la famiglia di Bossetti”, passando per “massimo bossetti innocente” a “Giustizia e verità: no all’accanimento mediatico contro Massimo Bossetti“. Negli ultimi giorni, però, questo movimento a favore del carpentiere di Mapello ha valicato i confini nazionali e ha chiamato in causa niente meno che Barack Obama, il presidente degli Stati Uniti d’America.
Massimo Bossetti, la moglie Marita Comi torna a trovarlo in carcere: lo ha perdonato, scrive “Oggi” il 26 maggio 2016. Aveva sospeso le visite dopo che erano venute alla luce, anche processuale, le lettere che lui aveva spedito a una detenuta. Ora sono ripresi i colloqui, anche grazie alle suppliche della madre dell’imputato. Prima le lettere hard di Massimo Bossetti spedite a una detenuta e finite nel fascicolo processuale, che hanno scatenato la rabbia della moglie Marita Comi: dopo un confronto acceso ha smesso di visitarlo in carcere. Poi la disperazione dell’accusato del delitto Gambirasio, con la lettera alla madre e alla sorella (svelata la scorsa settimana da Oggi) dove mostra il suo pentimento e minaccia il suicidio. Adesso, come rivela Oggi con le fotografie e un articolo nel numero in edicola, la moglie di Bossetti è tornata da lui in carcere e il colloquio è durato due ore, il doppio dello standard. A convincerla anche le suppliche della mamma e della sorella dell’uomo, oggi tenuto sotto la massima sorveglianza.
27 MAGGIO, 10 GIUGNO 2016. QUARANTUNESIMA E QUARANTADUESIMA UDIENZA. ARRINGHE DELLA DIFESA.
Bossetti, in aula parla la difesa. E la moglie arriva in Porsche, scrive Claudia Guasco su “Il Messaggero”. Marita Comi si è presentata in tribunale a bordo di una Porsche Panamera, color rame, e con targa del Principato di Monaco, guidata dal consulente della difesa, il crimonologo Ezio Denti. Ha disertato l'aula per diverse udienze ma oggi, anche per smorzare le voci di tensioni nel rapporto con il marito dopo la diffusione delle bollenti lettere con la detenuta Gina, è arrivata puntuale. Sono le ultime battute del processo a Massimo Bossetti, accusato di aver ucciso Yara Gambirasio con "sevizie e crudeltà". La pm Letizia Ruggeri ha chiesto per lui la condanna all'ergastolo con sei mesi di isolamento diurno, oggi la parola passa alla difesa. Che ha criticato la requisitoria del magistrato, definendola autocelebrativa: "Non serve suonare una sinfonia, bisogna suonare l'accordo giusto", afferma l'avvocato Claudio Salvagni. Per i legali dell'imputato, Massimo Bossetti non ha ucciso Yara Gambirasio e contro di lui, a eccezione di un dna "anomalo" non c'è niente. Nulla lo collega alla tredicenne di Brembate se non quella traccia biologica "strampalata", per usare l'aggettivo pronunciato in aula dal carpentiere. E' il 26 novembre 2010 quando si perdono le tracce di Yara, tre mesi dopo il suo corpo senza vita viene trovato in un campo abbandonato a Chignolo d'Isola. Nessun testimone, niente movente come riconosce la Procura, le armi usate per colpire la ginnasta non sono mai state trovate, le celle telefoniche non collocano contemporaneamente vittima e presunto assassino nello stesso luogo. Sono questi alcuni degli elementi che la difesa di Bossetti metterà in fila per insinuare il dubbio nei giurati della corte d'Assise di Bergamo e chiedere l'assoluzione dell'imputato, in carcere dal 16 giugno 2014. In una sola udienza i difensori del muratore cercheranno di smontare gli indizi forniti dal pm e sarà l'avvocato Salvagni a parlare per primo, a ripercorrere la relazione medico-legale che analizza gli ultimi istanti di vita - tra dolore e paura - di Yara, morta di stenti e di freddo. Sull'epoca del decesso e quanto il corpo è rimasto nel campo le conclusioni con l'accusa non combaciano: secondo un consulente della difesa la ragazzina non è stata uccisa lì e questo pone la domanda su chi ha spostato il cadavere. E ancora: "nessuna certezza" per i difensori che il furgone inquadrato da tre telecamere riprenda Bossetti vicino al centro sportivo il giorno della scomparsa di Yara. Così come "non basta la compatibilità, che non è assoluta certezza", con le fibre e le piccole sfere metalliche trovate sul corpo e gli indumenti della vittima; sfere particolarmente diffuse nel campo dell'edilizia e fibre che invece hanno gli stessi colori della tappezzeria del furgone dell'imputato. Ma è sul dna - "faro dell'inchiesta", come lo ha definito l'accusa - che si gioca davvero il destino di Bossetti. E' la traccia biologica trovata sui leggings e gli slip della vittima - una traccia mista del Dna di Yara e di 'Ignoto 1' identificato come Bossetti - la prova che ha permesso di stringere le manette ai polsi del muratore. Un elemento su cui c'è un'incongruenza: il dna mitocondriale (identifica la linea di ascendenza materna) non corrisponde a quello dell'imputato. Un'anomalia riconosciuta dal pm Ruggeri, che a suo dire "non inficia" le indagini: il dna nucleare è dell'imputato e solo quello ha un valore forense. La sentenza è attesa per il 10 giugno e le ultime parole pronunciate in aula, prima che la Corte si riunisca in camera di consiglio, saranno quelle di Bossetti. Il carpentiere chiederà infatti alla Corte d'Assise di rendere dichiarazioni spontanee, per ribadire la sua totale innocenza e la sua estraneità all'omicidio di Yara. All'udienza di oggi aveva preannunciato la sua presenza Ester Arzuffi, la madre del muratore. Ma all'ultimo non si è presentata. "Motivi di salute, una semplice indisposizione", fanno sapere fonti della difesa. Nessuna volontà di non incrociare la nuora Marita Comi.
Camporini racconta la vita di Bossetti. E lui piange in aula pensando alla famiglia. «La sua vita è casa, lavoro, famiglia e questi sono i dati concreti, non congetture». Lo dice l’avvocato Claudio Salvagni, riferendosi a Massimo Bossetti nel processo relativo alla morte di Yara Gambirasio, scrive “L’Eco di Bergamo”. Lunghe code si sono create anche per questa udienza per entrare in aula. La mattina, ma anche nel pomeriggio di venerdì 27 maggio. È «assurdo» tratteggiare Massimo Bossetti come un sexual offender perché «la sua vita è stata passata al setaccio e non è stato trovato nulla: la sua vita è casa, lavora e famiglia». Lo sostiene uno dei legali del muratore imputato per l’omicidi di Yara Gambirasio, Claudio Salvagni. «Molti uomini hanno l’attitudine a essere piacioni - ha spiegato il legale -, a essere provoloni, come si dice, ma questo non fa di loro degli assassini». «Gli sono state attribuite delle amanti - ha proseguito - dove sono queste amanti?». La sua vita è appunto casa, lavoro, famiglia e questi sono i dati concreti, non congetture». Va «alla vittima» di un «delitto efferato, terribile» e alla sua famiglia il primo pensiero dei difensori di Massimo Bossetti, imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio. È la «necessaria premessa» dell’avvocato Claudio Salvagni che cerca di evitare una condanna all’ergastolo chiesta dal pm Letizia Ruggeri per il muratore di Mapello. Claudio Salvagni non ha avuto timore a usare la parola «tortura» in relazione alla vicenda giudiziaria del muratore di Mapello e ha elencato quelli che, a suo avviso, sono «colpi bassi» da parte di investigatori e inquirenti: tra questi l’acquisizione delle lettere tra Bossetti e la detenuta Gina e quel video, che ritrae un furgone, per l’accusa del muratore, che fu diffuso alla stampa: «Si è trattato di un video confezionato come un pacchetto dono, per tranquillizzare la gente, per avere il mostro, il pedofilo, il mentitore seriale». L’avvocato ha duramente attaccato la conduzione delle indagini e la «stampa appiattita» sulle tesi dell’accusa. Il legale ha parlato di «atto gravissimo» in riferimento alla deposizione di un ufficiale del Ros che aveva raccontato di aver visto che Yara, quando ne fu trovato il corpo, stringeva in pugno dell’«erba radicata». «È un falso - ha detto il legale -: non è possibile trasferire alla corte qualcosa come indiscutibile quando invece non era vero». E Salvagni ha proseguito: «Questa difesa non ha mai potuto interloquire» e «sul lavoro fatto da altri non può esserci chiesto un atto di fede». «Non avete giurato su un libro di biologia ma sulla Costituzione», ha detto ai giudici Salvagni, invitandoli a essere rigorosi nella valutazione della prova. Il muratore imputato dell’omicidio di Yara Gambirasio è presente in aula in cui c’è anche la moglie Marita Comi - giunta in tribunale a Bergamo a bordo di una Porsche Panamera color rame - e con targa del Principato di Monaco mentre non è venuta la madre, Ester Arzuffi, per via di un’indisposizione, come spiegato dal suo avvocato, Benedetto Maria Bonomo. Nel pomeriggio Paolo Camporini ha proseguito con l’arringa della difesa tratteggiando il personaggio di Bossetti: «Mai una parola fuori posto, non ha mai covato vendetta nei confronti di chi lo sta accusando da anni - ha detto l’avvocato -. Massimo Bossetti è più preoccupato per la sua famiglia che per se stesso, perchè è convinto della sua innocenza ed è sempre stato convinto che il giudice avrebbe capito che è estraneo ai fatti». E Bossetti ha pianto quando Camporini, ha fatto cenno alla sua famiglia, ai figli che gli correvano incontro al suo ritorno a casa. Il legale aveva prima ripercorso le dichiarazioni di Bossetti riguardo il 26 novembre 2010 quando scomparve la tredicenne di Brembate di Sopra. A proposito del commercialista e del meccanico dai quali il muratore aveva ipotizzato di essere andato Camporini ha spiegato: «Forse nessuno ricorda di averlo visto, ma certamente nessuno l’ha mai visto altrove».
Omicidio Yara, sentenza il 1° luglio. La data della sentenza è stata fissata: 1° luglio. Quel giorno il giudice deciderà se Massimo Bossetti è il colpevole dell’omicidio di Yara Gambirasio. Prima però sono state fissate ancora due udienze, scrive “L’Eco di Bergamo”. Il 10 giugno ancora parola alla difesa, mentre il 17 giugno ci saranno le repliche delle parti. Sono gli ultimi atti di un lungo dibattimento proseguito anche nella giornata di venerdì 27 maggio con le parole dei difensori di Bossetti. Massimo Bossetti in aula ha pianto quando uno dei suoi legali, Paolo Camporini, ha fatto cenno alla sua famiglia. Il legale aveva prima ripercorso le dichiarazioni di Bossetti riguardo il 26 novembre 2010 quando scomparve la tredicenne di Brembate di Sopra. A proposito del commercialista e del meccanico dai quali il muratore aveva ipotizzato di essere andato Camporini ha spiegato: “Forse nessuno ricorda di averlo visto, ma certamente nessuno l’ha mai visto altrove”. Lo stesso Camporini ha cercato sostenere che la sincronizzazione delle telecamere è stata fatta in modo approssimativo. Secondo le testimonianze raccolte dai legali di Bossetti l’orario delle telecamere sarebbe avanti di una dozzina di minuti, quindi il passaggio del furgone dell’imputato sarebbe avvenuto prima dell’uscita di Yara dalla palestra. È «assurdo» tratteggiare Massimo Bossetti come un sexual offender perché «la sua vita è stata passata al setaccio e non è stato trovato nulla: la sua vita è casa, lavora e famiglia – sostiene l’avvocato Claudio Salvagni -. Molti uomini hanno l’attitudine a essere piacioni - ha spiegato il legale -, a essere provoloni, come si dice, ma questo non fa di loro degli assassini». «Gli sono state attribuite delle amanti - ha proseguito - dove sono queste amanti?». La sua vita è appunto casa, lavoro, famiglia e questi sono i dati concreti, non congetture». Va «alla vittima» di un «delitto efferato, terribile» e alla sua famiglia il primo pensiero dei difensori di Massimo Bossetti, imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio. È la «necessaria premessa» dell’avvocato Claudio Salvagni che cerca di evitare una condanna all’ergastolo chiesta dal pm Letizia Ruggeri per il muratore di Mapello.
Ecco Gina, la detenuta a cui invia lettere a Bossetti. Nel corso dell'ultima udienza, gli avvocati del carpentiere di Mapello hanno parlato anche di quelle lettere, scrive Mauro Paloschi il 28 maggio 2016 su su “Bergamo News”. Oltre cento lettere, da quelle dal tono amichevole a quelle dal contenuto più piccante. Sono quelle che Massimo Bossetti ha scambiato con la detenuta Gina negli ultimi sei mesi. La trasmissione Quarto Grado ha mostrato il volto della donna che ha fatto perdere la testa al carpentiere di Mapello. Nata a Bergamo 45 anni fa, Gina (diminutivo di Luigina) è sposata e madre di 4 figli. E’ rinchiusa nel carcere di via Gleno dal 2011, tre anni prima di Bossetti, e deve scontare 13 anni per truffa, ricettazione e documenti falsi. Da novembre la donna è in contatto scritto con il presunto omicida di Yara Gambirasio. 110 per la precisione le lettere tra i due. Partendo da una normale conoscenza, per arrivare una serie di scritti decisamente hot da parte di Bossetti. Missive che, secondo l’accusa, dimostrerebbero l’incapacità dell’imputato di “frenare” i propri impulsi sessuali. Anche alla luce delle ricerche ritrovate nella cronologia del suo computer. E nel corso dell’udienza di venerdì 27 maggio del processo per il delitto di Yara, gli avvocati del carpentiere di Mapello hanno parlato anche di quelle lettere. Chiamati a scardinare le conclusioni del pubblico ministero Letizia Ruggeri che ha chiesto l’ergastolo con 6 mesi di isolamento diurno per l’imputato, Claudio Salvagni e Paolo Camporini hanno iniziato a criticare punto per punto il lavoro svolto dagli inquirenti (e proseguiranno nella prossima udienza). Salvagni ha fatto riferimento a una serie di “colpi bassi” inferti al suo assistito: “Come il video del furgone ripreso a Brembate quella sera – le parole del legale – confezionato appositamente per incastrare Bossetti. O la testimonianza del fratellino di Yara, che aveva descritto un uomo robusto e con pizzetto che la pedinava: ecco, dopo l’arresto di Bossetti come per magia è rimasto solo il pizzetto”. L’avvocato ha poi parlato del suo assistito: “Hanno messo in piazza la sua vita personale senza alcun motivo. Penso alle lettere con la detenuta Gina, diffuse senza motivo. Bossetti non ha deviazioni sessuali, non ha mai avuto nemmeno un’amante. E poi le presunte corna della moglie, sbandierate anche qui senza alcun fine, alla disperata ricerca di un movente con un episodio accaduto tre anni dopo il delitto”. Nel pomeriggio la parola è passata all’altro legale di Bossetti, Paolo Camporini, che nella sua arringa ha parlato anche del rapporto che il carpentiere aveva con la sua famiglia. È quando ha nominato i suoi figli, Bossetti è scoppiato in un pianto di commozione. Camporini ha poi parlato di una discrepanza di 12 minuti tra le telecamere puntate nella zona della palestra di Brembate Sopra, dove è scomparsa Yara e dove è stato ripreso il furgone di Bossetti, che non farebbe coincidere i movimenti del carpentiere con quelli della ragazzina. In Aula, a differenza di quanto annunciato, non si è vista la madre di Bossetti, Ester Arzuffi. È invece arrivata, a sorpresa, la moglie Marita Comi, seduta un paio di file dietro il marito, che ha cercato più volte il suo sguardo. La donna è arrivata a bordo di una Porsche. L’udienza si è conclusa con l’annuncio da parte del giudice Bertoja del calendario delle prossime udienze: il 10 giugno ci saranno le conclusioni dei due avvocati di Bossetti, il 17 le repliche delle parti, mentre il primo luglio la sentenza.
La sentenza arriverà a luglio. La difesa: «Un processo-tortura», scrive Gabriele Moroni su “Il Giorno” il 28 maggio 2016. Il primo luglio non sarà solo il giorno della sentenza per l’omicidio di Yara Gambirasio. Prima di pronunciarla, la Corte d’Assise di Bergamo dovrà decidere chi è Massimo Bossetti. Il predatore notturno che ghermisce bambine inermi, le aggredisce, le colpisce, le abbandona a morire in solitudine, da blindare all’ergastolo? Oppure un irreprensibile muratore bergamasco descritto dalla difesa, innamorato degli affetti familiari al punto che nell’udienza di ieri si è sciolto in pianto quando uno dei legali ha evocato i suoi bambini? Nell'aula si attende l’annunciato arrivo di Ester Arzuffi, ma la madre dell’imputato non si presenta, trattenuta da un leggero malessere e soprattutto dall’emozione. Compare invece la moglie, Marita Comi, giunta in tribunale a bordo di una Porsche Panamera color rame, con targa del Principato di Monaco, pilotata da Ezio Denti, uno dei consulenti della difesa. In aula scambia un sorriso con il marito per fugare le polemiche seguite alla lettera hard di Bossetti con la detenuta. Parola alla difesa. Claudio Salvagni parte all’attacco. «Questo è un processo di emozioni, di suggestioni. È un processo altamente mediatico. C’è una informazione malata, appiattita». Per la vicenda giudiziaria di Bossetti parla di «colpi bassi», di «tortura» come per l’acquisizione delle lettere fra il carpentiere di Mapello e la detenuta Gina. Definisce una «perla» un video diffuso alla stampa che secondo l’accusa riprende il furgone dell’imputato. «È stato confezionato come un pacchetto dono per tranquillizzare le gente, che aveva bisogno di avere il mostro, il pedofilo, il mentitore seriale inchiodato alle sue responsabilità». Definisce «atto gravissimo» la deposizione di un ufficiale del Ros che ha testimoniato che quando fu trovata Yara stringeva «dell’erba radicata nel terreno». «Non è possibile trasferire alla Corte qualcosa come indiscutibile quando invece non è vero». La difesa ripropone l’ipotesi che Yara possa essere stata uccisa in un luogo diverso dal campo di Chignolo d’Isola. Perché non è stato cercato il sangue sotto il cadavere? Perché il colletto bianco della maglietta era intonso, nonostante la ferita al collo? Era difficile penetrare nel campo, anche gli operatori della polizia hanno avuto le tute strappate più volte dai rovi. Allora come è stato possibile correre, fuggire, inseguire, praticare ferite precise e millimetriche come quelle sui polsi? E perché sono stati trovati tanti peli e fibre nelle ferite se la piccola vittima era vestita? Il difensore Paolo Camporini cala un argomento forte. Parla dell’allineamento operato dalla difesa con i suoi consulenti degli orari delle telecamere che avrebbero ripreso il furgone cassonato di Bossetti la sera del 26 novembre 2010, quando Yara scomparve. Fra l’orario riportato nelle immagini e quello reale esiste una discrepanza di 12 minuti. Non è l’autocarro di Bossetti e se anche lo fosse sarebbe transitato alle 18.35, un quarto d’ora prima che un testimone vedesse Yara avviarsi verso l’uscita della palestra. «L’auto del testimone viene ripresa alle 18.48. Diciamo che gli occorrono due minuti per raggiungere la palestra. Sono le 18.50. A quell’ora Bossetti è già a casa. Se abbiamo ragione noi il processo è finito. O vogliamo farlo su quel mezzo Dna?». Camporini tratteggia il profilo dell’imputato. «Lavoratore indefesso. Una persona più che abitudinaria. Nessun vizio. Nessuna dipendenza. Un carattere mite, a detta di tutti. È un uomo che cerca il consenso. Ha questo bisogno di essere amato». Il muratore di Mapello piange.
Luca Telese su “Libero Quotidiano” del 29 maggio 2016, perché Bossetti va assolto. Il crollo in aula: mai successo prima. E alla fine, incredibilmente, arrivarono le lacrime più inaspettate del processo Yara, quelle dell'imputato. Come uno schianto, un crollo, qualcosa che si rompe, un cristallo che si sgretola. Il coordinatore della difesa, Roberto Bianco, seduto al fianco gli porge un fazzoletto, lo rincuora. Nulla. Lui, imbottito di psicofarmaci, sorvegliato a vista in queste ore (dopo le lettere in cui manifestava propositi suicidi) se ne sta con gli occhi stretti come per trattenere i goccioloni, che invece corrono giù senza rimedio, come se non si potesse far nulla, come un rubinetto che perde. Nessuno le avrebbe anche solo immaginate, queste lacrime, sorvegliando durante le interminabili udienze il volto di Massimo Bossetti, marmoreo, imperscrutabile. Mai scalfito dalle emozioni in questi lunghi mesi, tranne due volte in cui era stato preso dall' ira. Ma dolore e commozione, quelli fino a ieri mai. È vero che un processo è sempre un viaggio, e che ieri a Bergamo si avvertiva il dramma della fine che sta per arrivare. È qualcosa nell' aria, qualcosa di impalpabile. Ormai qui si conoscono tutti, sembra quasi una riunione di famiglia, ecco Marita, vedi dove si è seduta oggi Laura Letizia, e quelli sono i bossettiani, quelle le studentesse di giurisprudenza diventate innocentiste, quello il vicino di Brembate che prende sempre appunti, quelle le signore milanesi appassionate di gialli. Vero, ma di mezzo c'è il cadavere di una bimba, e ora anche la vita di un uomo sul filo, la sua libertà a rischio. Si sorride, in Aula, sì: ma con la premonizione del dramma, e con l'orologio interiore di ognuno che scandisce il grande conto alla rovescia. Forse Bossetti non rivedrà più i suoi figli da cittadino libero, penso mente Paolo Camporini parla. E deve averlo immaginato anche lui, se è vero che quando l'avvocato tratteggia le biografie che non si incrociano mai, quella dell'operaio e quella di Yara, e quando dipinge l'acquarello felice del ritorno a casa, dai suoi bambini, "Massi" alla fine crolla. Lacrime silenziose, salate e amarissime. Benvenuti in questo processo che finisce come una crociera in cui si brinda e insieme si paventa il naufragio. Qualunque sentenza arrivi, qualcuno si farà male, forse tutti. La difesa lo sa, ma ieri anche l'accusa cominciava a capirlo. E dire che la mattina era iniziata così: Bossetti come sempre al suo posto, nell'aula di Bergamo, in polo a maniche corte. A prima vista granitico, come sempre. Solo la demenzialità e la fame di notizie della nostra categoria può trasformare in un titolo per i contenitori della mattina un passaggio offerto alla moglie dall' investigatore Ezio Denti: «Marita arriva in Porsche». La grande accusatrice Letizia Ruggeri, invece, è lì vagamente cotonata, soffre e sbuffa, sul banco, per le accuse che le piovono sulla testa, durante la durissimo e sorprendente esordio di Claudio Salvagni: deve attendere le repliche a denti stretti. Una arringa come il bombardamento di un B52. Salvagni si appassiona, va all' attacco, accusa: «Questa inchiesta è una follia! Una follia!». Ha messo tutto il cuore, nel suo j' accuse contro le tante falle dell'indagine, ha raccontato anche i dilemmi del collegio di difesa, i dubbi, il percorso consapevole che ha portato i difensori di Bossetti alla loro battaglia: «Sono padre di una ragazza, mi sono fatto tutte le domande: se avessimo trovato un solo elemento di colpevolezza, sia io che i miei colleghi avremmo abbandonato la difesa». Pausa: «Qui lavoriamo tutti gratis, non ci importa di diventare famosi, crediamo all' innocenza di un uomo». Quando c' è la prima interruzione è come se suonasse il gong di un incontro di pugilato. Salvagni si alza, si gira, si toglie la toga. Ha la camicia azzurra di cotone ritorto metà celeste e metà blu scuro, perché zuppa di sudore. L' aula è gremita come sempre, anzi di più: c' è la fila fuori, per prendere il posto di chi esce. Salvagni sceglie una formula efficace: mettere in fila tutti gli episodi incongruenti, tutte le accuse cadute perché non hanno retto in dibattimento, illustrarne la debolezza. Non si dilunga. Ma spiega e demolisce, punta l'indice accusatore: «Sapevate che sulla sabbia comprata da Bossetti quello che stavate suggerendo, che servisse per una sepoltura, non era vero! Lo sapevate, anzi peggio: voi avevate la prova che non fosse così. Avevate l'agenda del direttore dei lavori del cantiere di Bossetti, persino le foto della gettata. Ma - affonda l'avvocato - non l'avreste mai resa nota se non lo avessimo scoperto nel controinterrogatorio del teste. È grave!». Pausa: «Si conoscevano Yara e Bossetti? Non si conoscevano, ci dice il processo». Pausa: «Si sono parlati? Non c' è traccia. Il giorno del rapimento Yara non comunica, nessun messaggio. Si sarebbero incontrati per una coincidenza?». Mentre Salvagni si indaga i dettagli, l'imputato-iguana, il muratore di Mapello, non mostra le emozioni che rivelerà durante l'arrivo di Camporini. Parlotta con Bianco. Sussurri, brevi commenti. Salvagni diventa un caterpillar: «La calce nei polmoni di Yara non c' è! Non c'era! L'avete messo nell' ordinanza della custodia cautelare, e adesso sappiamo anche noi che non era vero!». Pausa. «E allora perché lo avete fatto? Anche qui vi serviva una suggestione. Poter dire che era stata rapita da qualcuno che lavorava nel mondo dell'edilizia. Invece era solo silicio - aggiunge Salvagni sarcastico - il quarto elemento più diffuso sulla terra! Volevate dirci che era qualcuno che lavorava in cantiere». Pausa, battuta ad effetto: «Invece avrebbe potuto essere benissimo anche un direttore di banca che ha portato il corpo in un cantiere! Ma a voi serviva quella suggestione». Salvagni e Camporini hanno messo a punto una strategia di attacco chiara. Si dividono in temi, si alternano, portando in Aula i loro diversi carismi, si compensano: uno passionale e duro affilato, l'altro tecnico e riflessivo, concavo. Per fortuna dell'uditorio, non leggono, seguono un timone che è nelle mani di Bianco: 31 diversi temi, cinque pagine di sommario. Salvagni e Camporini usano un'immagine: «Avete costruito un puzzle suggestivo, pieno di tasselli. Ma quando una tessera non torna, l'avete buttata via. Ebbene - attacca sarcastico - le celle telefoniche non tornano, la sabbia non torna, le testimonianze, gli orari non tornano: a furia di buttare via quello che non vi serviva nel vostro puzzle non combacia più nulla!». Non torna il famoso video dei furgoni illustrato in Aula dal colonnello Lago: «È stato un pacchetto dono, per tranquillizzare la gente, per avere il mostro, il pedofilo, il mentitore seriale». Non torna la famosa «erba radicata», che serve all' accusa per individuare il campo di Chignolo come luogo del delitto: «Lorusso sotto giuramento ha detto di averla vista, e persino che c' è una foto agli atti. Bene, sapete che non c'è! Adesso sappiamo che non è vero, ha giurato il falso, per un ufficiale è gravissimo». Per Salvagni non torna nemmeno l'uso delle intercettazioni: «Avete fatto credere che Bossetti sapesse che quella sera c'era il fango, che si fosse tradito dicendolo alla moglie in carcere. Eppure leggendo la stessa trascrizione sapevate che spiegava a Marita: "Salvagni dice". È una follia, una follia!». Non torna la scena del delitto: «Usando la stessa perizia dell'accusa, vi abbiamo dimostrato che ci sono indizio per dire il corpo è stato manipolato!». Non tornano le perizie autoptiche: «Il corpo è parzialmente mummificato, corificato. Ma, curiosamente, lo è dall' avambraccio in giù, e sul collo, per una porzione di pelle "a V", come se Yara avesse una maglietta. Eppure quando è stata ritrovata indossava la felpa! È stata rivestita. Ma non potete dirlo - aggiunge l'avvocato - perché sapete che Bossetti non avrebbe avuto in tempo di farlo». Non torna l'idea del ritorno sulla scena del delitto: «Secondo voi l'imputato andava lì rischiando di rimanere impanato? Oppure fermava il Daily e poi faceva su e giù con la carriola per coprire il cadavere di sabbia? Dopo quindici giorni? Non ha senso! Ma vi serviva un'altra suggestione». Non torna l'inclusione sull' osso mandibolare: «È quella più chiara. Ma la può realizzare un destrorso come Bossetti? A me - scuote la testa Salvagni - pare molto strano, anzi impossibile». Insomma, in questa aula in cui si ride, si piange e si combatte, ieri per la prima volta si è visto la grana dei due puzzle: quello mediatico del grande racconto, la tesi dell'accusa. E quello delle tante «tessere gettate», le prove processuali che non tornano. Ma quando Camporini spiega lo studio maniacale fatto sugli orari delle telecamere, è una tessera importantissima che inizia a ballare. Se la tesi che vi spiego domani è vera, i conti non tornano più.
Caso Bossetti: il vero nome di ignotouno è Calliphora vicina... non Massimo Bossetti, scrive Annika il 26 maggio 2016 su “Albatros Volando Controvento”. Sebbene si sia tentato in mille modi di trovare la prova inconfutabile che Massimo Bossetti abbia davvero ucciso Yara Gambirasio la sera del 26 Novembre 2010, tale prova non è mai venuta a galla né nel corso delle indagini, né del processo a suo carico. L'unico indizio che in qualche modo potrebbe ricondurre a lui è rappresentato da una micro traccia di DNA - monca del suo mitocondriale - rilevata presumibilmente sull'elastico delle mutandine di Yara. Poco sembra importare che al mondo non esista una singola pubblicazione scientificache documenti la presenza di una traccia forense di DEPOSITO DIRETTO priva dimtDNA, o di una traccia forense resistente alla colonizzazione batterica di un corpo deposto direttamente sul terreno ed esposto all'esterno ad una serie impervia di intemperie e ad abbondante bagnato/umido, o di una traccia forense per cui l'accertamento del fluido biologico d'origine si sia rivelato impossibile. Come poco sembra importare che esista invece ampia letteratura scientifica che provi l'impossibilità chimica di creare un hydrogen bonding (dipole-dipole) tra un liquido biologico organico contenente DNA e una fibra non organica quale l'elastico di una mutandina. Incredibilmente di queste importanti risposte poco importa. Il DNA di Massimo Bossetti è stato rilevato sull'elastico delle mutandine di Yara e tanto è bastato per un arresto alla Spaghetti Western, ciak si gira Lo Chiamavano Il Favola, oltre che per assicurargli una cella d'isolamento per mesi e mesi ancora prima dell'inizio del processo. E infine, davvero poco importa, anzi non importa affatto, che nonostante l'accusa infamante, le maldicenze su sua mamma e su sua moglie, il diffamante strombazzamento mediatico, la morte del padre che gli si è detto non essere suo padre, Bossetti abbia continuato a gridare la sua innocenza. Mi chiedo come mai tra tanti giornalisti, opinionisti ed esperti che hanno scritto e discusso del caso Gambirasio, nessuno si sia chiesto come sia possibile che tale traccia di natura biologica inesistente (letteralmente inesistente in natura perché se esistesse il RIS avrebbe scoperto di cosa si trattava piuttosto che esaurirla a furia di prove e controprove dall'esito nullo), possa al contempo contenere un DNA talmente ben conservato da rivelare un profilo genetico completo e di ottima qualità. E questo me lo chiedo con lo stesso stupore e la stessa curiosità con cui mi chiesi, a suo tempo, come fosse possibile che ai tanti esperti italiani di scienze forensi fossero sfuggite le sottili implicazioni di una Semenogelina positiva presente nel caso Rea. Proprio come nel caso Rea, anche di fronte all'arresto di Massimo Bossetti l'opinione pubblica si è spaccata. Da una parte quella più numerosa, i colpevolisti certi che il DNA di Bossetti sull'elastico delle mutandine di Yara provi un sicuro suo coinvolgimento nella vicenda e quindi, molto probabilmente, la totale colpevolezza dell'uomo. Dall'altra quella più scarna, gli innocentisti che ricordano come in Italia un qualunque indagato sia da considerare innocente sino al termine dei tre gradi di giudizio e che comunque nulla lega Bossetti alla vicenda... tranne un DNA di origine incerta, monco di mtDNA (mitocondriale) e analizzato con kit scaduti. Possibile, però, che tra i giornali, i settimanali, le trasmissioni televisive basate esclusivamente su opinioni più o meno fondate (ma pur sempre opinioni)... e le riviste scientifiche che non sono schierate a favore dell'accusa o della difesa, visto che si limitano allo status quo dei fatti scientifici oggettivi, queste ultime sembrino non interessare neanche gli esperti in materia che dovrebbero, almeno una volta all'anno, tenersi aggiornati? Non sarà forse la lettura più avvincente del mondo, ma se un uomo viene sbattuto in galera accusato di un crimine atroce proprio mentre la sua intera famiglia è diffamata oltre l'indecente... e mentre un paio di hacker si danno pacche sulle spalle... com'è possibile non approfondire oltre su quello strano DNA invece di limitarsi a prendere una parte tra chi accusa l'accusa, chi difende la difesa e chi fa l'esatto contrario? Non so perché nessuno ne abbia mai parlato, perché si sia detto che non c'è spiegazione scientifica a un Dna monco del suo mitocondriale, anche a processo, ma io mi sento in dovere di scrivere quanto segue, se non altro per chi a certi giornali scientifici non ha accesso, non parla bene l'Inglese o si occupa di tutt'altro ed è tagliato fuori dalla moltitudine di informazioni che le riviste scientifiche offrono in campo forense. Non si tratta né di opinioni soggettive né di informazioni rubacchiate a destra e manca tra algoritmi di 1 e 0, né di pettegolezzi vari su argomenti che in realtà non si conoscono né si capiscono. Si tratta di fatti puri e semplici, frutto di anni (almeno 7 ad essere esatti) di ricerca scientifica internazionale testata, provata, riprovata, accertata e pubblicata su numerose riviste scientifiche in decine di articoli da centinaia di autori di tutto il mondo. Si tratta di raccontare una verità scientifica nascosta sotto un angolo di tappeto nella speranza che nessuno la trovi. Vi avverto: l'argomento è piuttosto disgustoso e, ma non troppo, tecnico, per cui cercherò di limitarmi a un assaggio della materia, fornendo abbastanza referenze a chi volesse saperne di più. Nel 2009, la Dr Annalisa Durdle, PhD e forensic scientist per il dipartimento di servizi forensi della polizia dello stato di Victoria, Australia, specializzata nel recovery del DNA evidence nei major crimes, si accorge che nella scena criminis i conti delle tracce forensi spesso non tornano. Ricerca, analizza e pubblica: The transfer of human DNA by Lucilia cuprina (Meigen) (Diptera: Calliphoridae), Durdle et al 2009. Durdle scopre che parte del DNA umano terzo rilevato sul cadavere di una scena criminispuò non esservi stato depositato per contatto diretto da un assassino o un aggressore ma, tenetevi forte, da una banalissima mosca colonizza-cadaveri. Durdle comincia i suoi studi dalla Lucilia cuprina ma, come vedremo in seguito, anche la Calliphora vicina (ricordate la mosca del caso Rea?) fa esattamente la stessa cosa. Ovvero, le mosche volano e, entro un raggio di qualche chilometro, si posano su tutto. E le mosche si nutrono. Tra tante cose si nutrono di cibo di cani e gatti lasciato dai padroni nelle ciotole; si nutrono di spazzatura e animali morti, che si tratti di carcasse al macello o uccelli, ratti e quant'altro. Ma tra le cose che preferiscono di più ci sono i liquidi biologici umani, con lo sperma al primo posto, al secondo il sangue (preferiscono quello secco ma non snobbano quello fresco) e a chiudere la saliva: The Food Preferences of the Blow Fly Lucilia cuprina Offered Human Blood, Semen and Saliva, and Various Nonhuman Foods Sources, Durdle, Mitchell & van Oorschot 2015. Praticamente, le stesse mosche che poi colonizzano i cadaveri umani sono ghiottissime dei fluidi, pure umani, di persone anche vive (saliva da un mozzicone di sigaretta, sangue da un fazzoletto di carta, sperma da un preservativo). Fluidi che ingeriscono e rigurgitano o depositano sotto forma di "poop" sui cadaveri umani che colonizzano. Il termine scientifico di tali depositi è "artifact". Un artifact di mosca che si sia nutrita di fluidi biologici umani è letteralmente pieno di DNA umano intatto. Non solo. Al termine del suo studio, Durdle scrive: "The DNA from one randomly selected sample containing >0.1 ng from each group was genotyped. The DNA profiles from all samples tested corresponded to the profile of the biological material donor". Ovvero, il DNA presente nei campioni di artefacts da lei esaminati ha generato un profilo genetico corrispondente a quello contenuto nel materiale biologico del donatore. Ovvero, non solo le mosche sono in grado di ingerire, conservare al loro interno e poi espellere DNA umano ancora intatto, ma da tale DNA contenuto negli artifacts di mosca è possibile ricavare un profilo genetico completo attribuibile alla persona a cui originariamente apparteneva il liquido biologico di cui la mosca si è nutrita prima di colonizzare il cadavere dove in seguito lo ha depositato, falsamente incriminando un innocente. E conclude: "These findings may provide lawyers with the opportunity to raise doubt in the minds of a jury in regard to DNA evidence", ovvero, l'esito della ricerca può fornire alla difesa l'opportunità di sollevare un dubbio nella mente dei giurati riguardo a una traccia forense di DNA. Questo nel lontano 2009. Parallelamente nel 2010 un gruppo di studiosi entomologi del Nebraska si occupa dell'interferenza delle mosche (e dei loro beneamati artifacts) in unascena criminis: Alteration of Expirated Bloodstain Patterns by Calliphora vicina and Lucilia sericata (Diptera: Calliphoridae) Through Ingestion and Deposition of Artifacts, Striman et al 2010. Al termine della prima decade del terzo millennio è ormai accertato: le mosche che colonizzano i cadaveri possono fungere da vettori di trasporto su una scena criminis di DNA umano precedentemente ingerito da depositi biologici umani di persone che nulla hanno a che fare con quel crimine. Molto più di recente, anche dal freddo Canada arriva la conferma che le scene del crimine non sono mai picture perfect, ma un ammasso confuso di DNA e sangue spesso alterato e trasportato dalle mosche: Confounding factors of fly artefacts in bloodstain pattern analysis, Langer & Illes 2015. Anche la Germania rafforza tale ricerca, provando che un artifact di mosca depositato di fresco, in analisi forense appare come un'ottima, piccola traccia di liquido biologico umano pieno di DNA umano. Non solo; grazie ai componenti stessi dell'artifact (un conservante tutto naturale!), il DNA umano e la presunta 'traccia biologica' possono resistere fino (attenzione attenzione) a 300 giorni post mosca-deposito: Blow fly artifacts from blood and putrefaction fluid on various surfaces: a source for forensic STR typing, Kulstein et al 2015. Ma seppure possa essere erroneamente confuso per liquido biologico umano, l'artifact della mosca è un ibrido composto in parte dal liquido biologico, ovvero dal DNA umano, e in parte da materiale organico originario della mosca stessa (non dimentichiamo che si tratta o di vomito, o di poop). Pertanto, un artifact di mosca testerà positivo ad analisi presuntive sull'origine della traccia biologica, ma negativo a test accertativi. Come fare allora per distinguere tra un deposito biologico umano di deposito diretto e un artifact di mosca contenente DNA umano? Una volta accertato che le mosche trasportano DNA di persone innocenti e ignare sulla scena criminis, Dr Durdle ha studiato in particolare la morfologia specifica degli artifacts, ricercando un modo per distinguere questi ultimi dai depositi diretti (o meglio dai depositi di chi ha personalmente lasciato tracce genetiche sulla vittima o sulla scena criminis tramite deposito diretto): The Morphology of Fecal and Regurgitation Artifacts Deposited by the Blow Fly Lucilia cuprina Fed a Diet of Human Blood, Durdle et al 2013. The Use of Forensic Tests to Distinguish Blowfly Artifacts from Human Blood, Semen, and Saliva, Durdle et al 2014. Durdle e il suo team scoprono che, a meno di riuscire a distinguere morfologicamente un artifact di mosca da un liquido biologico genuino (e nel caso si tratti di artifact di riuscire a comprendere quale liquido la mosca possa aver ingerito, se sangue, sperma o saliva), trascorsi 3 giorni dal deposito dell'artifact della mosca, nessuno dei vari test accertativi dell'origine del fluido biologico - ripeto nessuno, e la Durdle ne testa davvero tanti - è in grado di distinguere un artifact di mosca da un deposito umano. Presuntivamente, quindi, sono la stessa cosa! Anzi, ancora meglio, NESSUN TEST SARA' IN GRADO DI ACCERTARE L'ORIGINE DEL FLUIDO BIOLOGICO DI PROVENIENZA DEL DNA UMANO CONTENUTO NEL SAMPLE. Non solo. L'artifact della mosca produrrà sempre un DNA umano completo o quasi completo in grado di fornire un profilo genetico certo... di una persona totalmente estranea al delitto! E adesso traduciamo il tutto in termini 'Yara-Bossetti'. Prendiamo una mosca. Una mosca vola nei suoi giri di qualche km di raggio e si nutre del liquido biologico che Massimo Bossetti ha lasciato su un preservativo usato o su un bicchiere di plastica o su un fazzoletto di carta intriso di sangue perso dal naso (abbiamo visto che secco o fresco non fa differenza). In seguito la mosca, come tante altre mosche nel raggio di qualche chilometro, viene attratta dall'odore del corpo di Yara, arriva a destinazione e si intrufola un po' dovunque vi sia da mangiare. Poi, forse direttamente su una traccia di DNA di Yara già presente o forse dopo essersi nutrita anche del DNA di Yara, fa poop poop poop a ripetizione sull'elastico delle mutandine. E' anche possibile che nelle ultime ore la nostra mosca si fosse nutrita anche di liquido biologico, e pertanto di DNA, di altri malcapitati, il che spiegherebbe la presenza di micro tracce di ulteriore DNA non appartenente né a Yara, né a Bossetti. Et voilà, quella strana minuscola traccia di DNA umano misto, di straordinaria conservazione, altamente cellularizzata, di origine impossibile da determinare nonostante i ripetuti test svolti dal RIS, avrebbe potuto resistere alle intemperie, agli enzimi, ai soil nitrogens, al pH alterato della zona industriale (gli artifacts delle mosche, abbiamo visto da Kulstein et al 2015, si conservano intatti fino a 300 giorni post deposito),alle scivolose fibre sintetiche (gli artifacts si appiccicano come colla) e a tutto l'ambaradan di Chignolo d'Isola. Grazie alla poop della mosca non serve entrare nei dettagli cavillosi del nDNA/mtDNA, meno che mai del mRNA, né in quelli del mancato accertamento dell'origine del liquido biologico o dei discussi tempi di permanenza del DNA all'aperto, e neppure della permanenza di una traccia forense su tessuto sintetico. Non bisogna accedere al sample, né chiedere di riesaminarlo, e né occorre più puntare il dito contro qualcosa (kit scaduti, contaminazione) o qualcuno (lab assistants incompetenti, polizia corrotta, esperti disonesti, pacche sulle spalle tra hackers). Il DNA di Bossetti c'é, é vero, ma è un DNA anomalo dalla composizione "umanamente impossibile" e dalla persistenza contraria alla realtà scientifica di un DNA di deposito naturale. Come c'è arrivato sulle mutandine di Yara? Semplice, come già in altre major crimes e crime scenes di altri stati della terra, e come dimostrato da tanti studi scientifici inoppugnabili, è stata la mosca. Davvero? Forse. Di certo è scientificamente impossibile provare il contrario.
Denti, il criminologo di Bossetti con la Porsche: “Nessuna relazione con sua moglie”. "Ero l’unico che poteva andarla a prendere. Se avessi voluto fare lo sborone sarei venuto in Ferrari", scrive “Bergamo News” il 30 maggio 2016. Il processo a Massimo Bossetti, imputato per il delitto di Yara Gambirasio, continua a far parlare non solo per quello che succede in Aula, con la sentenza ormai vicina (la data fissata dalla Corte d’Assise è quella del primo luglio). In occasione dell’udienza di venerdì 27 maggio, ha suscitato clamore il fatto che il criminologo Ezio Denti, uno del pool dei difensori del carpentiere di Mapello, è arrivato al tribunale di via Borfuro a Bergamo con una Porsche insieme a Marita Comi, moglie dell’imputato. “Mi fanno sorridere queste polemiche –ha affermato Denti alla trasmissione “Legge o giustizia” di Radio Cusano Campus-. Non capisco perché si debba discutere il mezzo con cui una persona gira. Quella è una mia vettura, hanno criticato il fatto che fosse targata Principato di Monaco, forse non sanno che sono residente a Montecarlo dal 1986″. “Mi sono presentato con Marita – ha proseguito il criminologo – perché ero l’unico che poteva andarla a prendere e accompagnarla in tribunale. Sono sempre arrivato con la Fiat 500, ma stavolta avevo solo la Porsche a disposizione. E’ una macchina comune. Se avessi voluto fare lo sborone sarei venuto in Ferrari”. “Mi hanno anche criticato perché ho parcheggiato di fronte all’ingresso del tribunale. Vogliono far sembrare che Marita abbia approfittato di fare la Miss Universo salendo a bordo della mia macchina. Questo è il giornalismo italiano oggi”. “Qualcuno ha insinuato che avrei una relazione sentimentale con Marita, lo smentisco categoricamente. Ho una profonda stima della famiglia Bossetti. Probabilmente venerdì prossimo accompagnerò di nuovo Marita e avviso tutti che mi presenterò di nuovo col Porsche, perché attualmente è l’unica macchina che ho a disposizione. Comunque ho anche un elicottero, dato che sono pilota di elicotteri. Se troverà lo spiazzo –ha scherzato Denti- è probabile che venerdì calerò Marita dall’elicottero”.
In Porsche al processo di Bossetti, le scelte di Marita nel mirino della stampa. Enrico Fedocci, giornalista, nella rubrica "Cronaca Criminale" del Tgcom, spiega perché ogni scelta di Marita viene messa in discussione, mentre la moglie di Bossetti ha dimostrato di essere accanto al suo uomo (accusato di aver ucciso Yara Gambirasio, la 13enne di Brembate Sopra) anche nei momenti più duri, scrive Enrico Fedocci il 29 maggio 2016 su “Bergamo News”. Qualcuno, magari tra le mie colleghe, ora dirà che questo articolo lo sto scrivendo perché “Marita è bella” e “perché me ne sono infatuato”, “crisi di mezza età”, le “scalmane”… etc, etc, etc. Cose già lette all’indomani di altri miei articoli simili scritti a difesa di un principio di rispetto dei fatti e delle persone. Ho difeso Marita, sì. Ho difeso anche Bossetti, se è per questo, ma – soprattutto – ho voluto difendere la realtà, la verità. Marita è bella e quindi per questo viene difesa? Opinioni. Forse ai malevoli fa comodo pensarla così. Io credo, piuttosto, che proprio questa avvenenza le procuri più danni che vantaggi: è diventata il bersaglio preferito di certa stampa che, pur di parlar di lei, di pubblicare le sue foto, le attribuisce di tutto. Anche cose assolutamente irrilevanti: come l’auto con cui è arrivata venerdì in udienza, una Porsche Panamera guidata dal consulente della difesa Ezio Denti. Ho letto l’incredibile, ho sentito di peggio: “Marita arriva a bordo di una macchina di lusso”, addirittura ho udito con le mie orecchie lo stravolgimento della realtà, secondo cui “Marita è arrivata in tribunale alla guida di una macchina di lusso”. Ed ancora: “Abituata al furgone non le sarà sembrato vero cambiare mezzo di locomozione”. “Un’auto targata Principato di Monaco? Marita ora pensa alla bella vita…” Una vergogna. Giornalismo ingenuo o proprio spazzatura – lascio decidere a voi – che associa due elementi senza interpretarli. Allora, ricostruiamo: è pacifico che tutte le volte che Marita Comi è arrivata in udienza sia stata accompagnata da Ezio Denti. Una volta con la sua macchina, una volta con quella di Denti (una macchina più sobria, non la Porsche che era stata data in prestito da un amico) e questa volta, appunto, a bordo della sportiva quattro porte della casa di Stoccarda. Immagino che Denti abbia detto a Marita, “Passo a prenderti” e non “Passo a prenderti con la Porsche”. Quindi, in una delle giornate più delicate per il processo al marito che rischia l’ergastolo, credo che Marita Comi sia salita a bordo dell’auto senza discutere. Probabilmente notando il lusso della stessa, o magari – come capita a tante donne che conosco – non riuscendo manco ad apprezzarne le differenze. Forse sarebbe salita su un trattore con la stessa noncuranza. Se proprio dobbiamo fare una critica, e la faccio volentieri, a sbagliare eventualmente è stato proprio l’investigatore privato Ezio Denti che non ha saputo – o non ha voluto – valutare le conseguenze a un simile gesto facilmente prevedibili. A chi scrive viene quasi il sospetto che Denti, magari in cerca di una ribalta e di visibilità, abbia voluto usare quell’auto proprio per far notizia, per farsi riprendere con Marita ed auto e finire così in tv e sui giornali. E questo mio sospetto deriva anche dal fatto che, questa volta, Denti non ha messo l’auto nel solito parcheggio distante dal tribunale, ma proprio davanti alla sede giudiziaria, quindi in bocca a giornalisti e ad operatori televisivi. Impossibile non notare quell’auto color bronzo. Impossibile non vedere Marita a bordo. Non facile resistere alla tentazione di trasformare questo episodio in una notizia forzata, ovvero “Marita che fa la bella vita, mentre il coniuge rischia l’ergastolo”. Ma perché questa donna viene tanto attaccata dalla stampa? In fondo è stata accanto al marito in ogni momento di questa vicenda giudiziaria. E non lo ha fatto per partito preso, solo perché aveva necessità di difendere il coniuge e padre dei suoi tre figli: sono le intercettazioni in carcere che lo dimostrano. Dubbi ne ha avuti e gli inquirenti se ne sono resi conto. Di domande ne ha fatte parecchie: per capire, per rendersi conto, per cercare di stanarlo e scorgere, magari da una risposta affrettata o dagli occhi che si abbassavano su una domanda più diretta, se davvero Massimo Giuseppe Bossetti potesse avere ucciso la 13enne Yara Gambirasio. E lei, Marita Comi, che lo ha sposato nel 1999, che con lui ci sta da più di 20 anni è certa di avere trovato la verità nelle sue parole e nei suoi occhi: “Massi è innocente, lo avrei capito, lasciato, interrompendo il rapporto anche per proteggere i figli”. Questa non è certamente una prova di innocenza, ma la dice lunga sulla buona fede di questa donna. In molti si sono stupiti di vederla ancora in aula, se non altro per quelle lettere, piuttosto pesanti ed intime, scritte dal muratore di Mapello ad una detenuta del suo stesso carcere, tal Gina, con cui il 45enne scambiava effusioni epistolari. Un duro colpo per Marita che – nonostante tutto e nonostante tutti – continua a rimanere accanto al proprio uomo, portando ogni settimana i figli in carcere, affinché il padre possa mantenere un legame forte con i suoi tre piccoli. A dire il vero, dopo la pubblicazione delle lettere, Marita Comi ai colloqui non ci sarebbe andata per due settimane di fila. Poi il buon senso ha prevalso, l’amore coniugale, anche se messo a dura prova dalle sbarre, si è ulteriormente rafforzato e lei ha ripreso ad essere moglie attenta e premurosa. Un’impresa non facile. Forse più facile sarebbe scappare. Ma lei, per se stessa e per i suoi tre figli, non molla e resta nel posto più difficile: accanto al suo Massi.
Bossetti, i mille fronti della moglie di ferro. Ecco la guerriera Marita. In aula è apparsa più decisa. «Se sospettassi di Massimo, lo mollerei», scrive Gabriele Moroni su “Quotidiano.net” il 29 maggio 2016. La sfida di Marita. Nessuno dubita che sia una sfida al suo arrivo che meno anonimo di così non poteva essere, a bordo della Porsche color rame, con targa monegasca, guidata da uno dei consulenti della difesa del marito. Marita Comi ha cambiato la tinta di capelli, il viso è più affilato. In aula va a sedersi due banchi dietro il marito. C’è lo scambio di un rapido sorriso prima cle la presidente Antonella Bertoja, elegante, severa, apra l’udienza che avvicina sempre più il finale di partita per l’uomo accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio. I difensori richiamano anche le storie di amanti, definiscono ‘tortura’ la vicenda giudiziaria di Massimo Bossetti. Marita ascolta, gioca nervosamente con la borsa. I campanelli del gossip pecoreccio hanno trillato a lungo. Per due settimane Marita ha negato al marito le sue visite in carcere con i tre figli. Offesa, urtata, furibonda per l’uscita pubblica dell’epistolario platonicamente torrido intrecciato da Bossetti con tale Gina, mai conosciuta, detenuta come lui nel carcere di Bergamo. È stata Laura Letizia, gemella di Massimo, che l’ha persuasa a uscire dalla tenda dell’indignazione, a ripassare i pesanti cancelli di via Gleno. Singolare gineceo, quello della famiglia Bossetti. Quasi un matriarcato. Donne forti che comandano, decidono, si espongono, non si tirano indietro quando si tratta di metterci la faccia. Uomini che ci vengono raccontati miti, ruolo gregario nella coppia, bravi magutt, muratori bergamaschi abituati ad alzarsi all’alba, salire sui loro furgoni, trascorrere la giornata ad allineare mattoni, impastare calcina, tirare su muri. Anche Bossetti lo ha raccontato in aula: nella linda casetta alla Piana di Mapello era la moglie a comandare, a gestire le fatture, a inalberarsi se il marito non esigeva i pagamenti. Erano litigi. Il duro silenzio di Marita era la punizione per il ‘Massi’, che andava a cercare conforto da mamma Ester. Venerdì, in tribunale, era atteso l’annunciato arrivo di Ester Arzuffi. Non è venuta. È comparsa Marita, su quel cocchio rombante. Un’altra sfida. Un vallo fra due donne che con il tempo pare essersi fatto sempre più largo e incolmabile. Il primo scavo quel lunedì 16 giugno del 2014. Massimo Bossetti è stato prelevato al cantiere, fermato, blindato. Non è l’unica mazzata di quella giornata convulsa. La genetica ha svelato con fredda certezza che Massimo e la sorella non sono figli del padre anagrafico, ma di Giuseppe Guerinoni, conducente di autobus. Le nove di sera, nella sala d’attesa dei carabinieri Bergamo. Marita affronta la suocera con i pugni al cielo. Le cimici intercettano. «È stata insieme a Guerinoni ?...Me lo dica adesso...Non mi interessa... Me lo dica adesso?». Ester nega, come negherà sempre. Gli equilibri escono dai cardini su cui hanno riposato per anni. È una frana, una piena senza argini. Marita dei dubbi, delle contraddizioni, dei ripensamenti, delle certezze da ricercare, conquistare o forse soltanto mostrare al mondo curioso. In quella estate rovente di due anni fa si racconta in un memoriale per un settimanale. Le interviste televisive le rilascia in esclusiva. Incontra il marito in carcere, per la prima volta, il 26 giugno. «Massi...devo dire solo la verità...basta! La dico io e la devi dire anche tu, Massi...hai capito». Il macigno del Dna. Il furgone ripreso attorno alla palestra di Yara. I dubbi di Marita diventano palpabili. Da un colloquio all’altro incalza il marito con la tenaglia delle sue domande. «Dottoressa – assicura Bossetti al pm Letizia Ruggeri nell’udienza dello scorso 4 marzo –, mia moglie mi ha fatto un terzo grado più di lei. Mi ha fatto un interrogatorio, mi ha messo al muro, mi ha fatto molte più domande di lei. Le mancavano la fiducia e il rispetto nei miei confronti». Marita ha deposto pochi giorni prima, il 24 febbraio, accolta come una star da una selva di fotografi e telecamere. Prima di lei la suocera Ester ha scelto il silenzio. Marita ha voluto rispondere. Voce poco più forte di un sussurro. Lo sforzo di mostrarsi la moglie di ferro, quella che condivideva tutto, anche le pratiche più segrete, con un marito adesso all’ombra dell’ergastolo. Quelle ricerche di film porno, le è stato chiesto? «Qualche volta le facevo io, qualche volta insieme, oppure io da sola, alcune volte la mattina, altre volte il pomeriggio o la sera». La presidente Bertoja ha toccato la sensibilità della donna: come si sarebbe comportata se avesse sospettato di Massimo? «Lo avrei lasciato. Avrei interrotto il rapporto anche per proteggere i figli».
"Una porno-vendetta su Marita", parla la detenuta: la verità su Bossetti, scrive “Libero Quotidiano” il 3 giugno 2016. Parla Gina, la detenuta a cui Massimo Bossetti ha scritto molte lettere hot. Secondo lei il carpentiere accusato di avere ucciso Yara Gambirasiole mandava quelle lettere per vendicarsi della moglie Marita dopo la scoperta dei tradimenti. “Non avevo capito l’altra faccia di Bossetti. Mi meraviglio che la sua difesa non abbia mai preso in considerazione la possibilità di chiedere un accertamento sul suo profilo psicologico”, scrive il settimanale Giallo. La signora Gina si stupisce che lui continui a scriverle anche adesso che la vicenda e le lettere sono finite sui giornali. Carriera criminale - Il settimanale in edicola questa settimana ricostruisce la vita di questa donna di 44 anni. In passato truffò un direttore di banca, amante degli animali, spacciandosi per una veterinaria. Si presentava in abiti succinti per estorcere denaro come aveva farro già in passato. Un giorno il direttore, credendola veterinario, la chiamò perché il suo cane stava male. Lei non sapendo cosa fare somministrò, stando a quanto scrive il settimanale di Cairo, un’aspirina. Il cane cominciò a vomitare ma anche a stare meglio. Da quel momento Gina oltre a guadagnarsi la stima del direttore ottenne anche tanti soldi. La sua carriere di truffatrice comincia però con un furto in chiesa. Lei era poco più che bambina e rubò dal sacchetto delle offerte ventimila lire. Poi arrivarono i furti e a vent’anni riuscì anche a sfilare una pelliccia da un manichino del negozio. In una pescheria ha rubato due astici e poi li ha infilati negli slip. Più recentemente Gina si era specializzata nel commercio di auto di lusso. Le cercavano su internet e le pagavano con assegni scoperti o carte di credito clonate. A tradirla è stata la sua socia. Dal carcere uscirà nel 2020.
Yara, la difesa: «Bossetti va assolto». Lui: non confesserò mai e poi mai. Nella nuova udienza sul delitto della tredicenne parlano gli avvocati Salvagni e Camporini, che nel finale si rivolgono al loro assistito: abbi fiducia nella giustizia. Attacchi sul Dna e sulla ricostruzione del delitto, scrive “Il Corriere della Sera” il 10 giugno 2016. Nuova udienza, nuova battaglia per la difesa di Massimo Bossetti. Per il carpentiere di Mapello, 45 anni, unico imputato dell’omicidio di Yara Gambirasio, si avvicina l’ora del verdetto, fissato il primo luglio. Quel giorno Bossetti parlerà alla giuria, ma intanto sono gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini a chiederne l’assoluzione. «Con quello che è emerso in questo processo - dichiara l’avvocato Camporini -, a livello di diritto Bossetti va assolto. Per condannare una persona gli indizi devono essere gravi, precisi e concordanti. Qui è tutto incerto: movente, luogo della morte e come Yara è stata uccisa. Anche l’indizio ritenuto più grave dall’accusa, cioè il Dna, è impreciso». L’attacco più pesante è arrivato nel pomeriggio proprio su quest’ultimo aspetto. «Questa indagine - sostiene Salvagni - non è utilizzabile contro Massimo Bossetti, perché c’è un mezzo Dna, per altro inquinato». Prima della richiesta finale, Camporini si è rivolto direttamente al suo assistito: «Massimo, credo alla tua innocenza altrimenti avrei rinunciato al mandato. Ti ho ascoltato, ti ho studiato, ti ho conosciuto. Se sei innocente, non confessare, non confessare mai». Bossetti ha risposto a voce alta: «Mai e poi mai». E Camporini: «Abbi fiducia in loro - rivolto ai giudici - e credi nella giustizia». In aula erano presenti anche la moglie di Bossetti, Marita Comi, e il fratello di lei Agostino. Dopo la deposizione a febbraio, la donna si è vista in tribunale nella precedente udienza e il giorno dell’esame del marito. «La scienza - rimarca Salvagni - deve dare certezze granitiche, mentre questo è il processo delle anomalie». L’avvocato le elenca: la natura non precisata della traccia da cui è stato estratto il Dna di Ignoto 1, il fatto che si parli di tracce miste «anche quando non lo sono», il mitocondriale «sparito» e la «contaminazione». Quando sono stati eseguiti i test su «Ignoto 1», riferisce Salvagni, l’esame ha dato per tre volte lo stesso risultato. «Ma nel controllo negativo (cioè la controprova che si effettua per togliere ogni dubbio, ndr) c’è qualcosa di anomalo, dei picchi che indicano che ci sono state contaminazioni». E poi: «Si è detto forse troppe volte sottovoce, ma qui c’è un altro Dna mitocondriale, che non è quello di Bossetti». Per i consulenti della procura si tratta di una sottotraccia non interpretabile, che non cambia il valore di Ignoto 1. Per la difesa un ulteriore «tallone d’Achille». A prendere la parola per primo, questa mattina, è stato l’avvocato Camporini: «Non vorrete credere - si è rivolto ai giudici della Corte - alla favola che al buio, sotto l’acqua e la neve, nel campo infangato, l’assassino abbia alzato la maglietta per uccidere?». Yara, tredicenne di Brembate Sopra, è stata picchiata, ferita e poi abbandonata in un campo incolto a Chignolo d’Isola la sera del 26 novembre 2010. Per gli inquirenti, lì è morta di freddo e stenti dopo che l’assassino l’ha colpita in più punti con un coltello sollevandole giubbotto e maglietta, indumenti che non sono tagliati come i leggings. Per i difensori, l’omicidio è stato invece consumato altrove. «I vestiti della ragazza - prosegue Camporini - non sono sporchi di fango. Yara è stata spogliata e rivestita in un altro posto, in un altro contesto. È l’ipotesi più credibile. Non ci sono tracce di erba nelle ferite, ma ci sono fibre. Il corpo deve essere stato avvolto in un telo e poi scaricato. La stessa Cattaneo (l’anatomopatologa che ha eseguito l’autopsia, ndr) non ha escluso questa possibilità». Camporini ha poi parlato del luogo in cui la vittima ha incontrato il suo assassino. Secondo l’accusa, l’ipotesi più probabile è che la ragazzina si sia imbattuta in Massimo Bossetti in via Morlotti, la strada che collega il centro sportivo di Brembate a via Rampinelli, dove si trova la casa dei Gambirasio. Per la difesa, al contrario, non si può affermare che Yara sia uscita dal centro. L’ultimo ad averla incrociata è un papà che l’ha salutata all’ingresso della palestra. «Nessuno l’ha vista in strada - rimarca Camporini - così come nessuno ha visto Bossetti né il suo furgone. Ci sono invece tre testimoni che parlano di un furgone bianco». Un mezzo cabinato, differente dall’Iveco Daily dell’imputato. E a questo proposito Camporini L’avvocato ha sottolineato come sull’Iveco «non è stata trovata nessuna traccia di sangue. È un dato significativo al massimo. Il sangue non si cancella, anche dopo anni». Camporini ha anche ricordato che una fisioterapista che lavorava nel centro sportivo quel pomeriggio fu molestata da un uomo. «In un processo normale questo ne farebbe l’indiziato numero uno - ha argomentato il legale -: c’è stato detto che sono state fatte indagini, ma non possiamo accontentarci di questo». Il legale ha ribadito che quelle della vittima e dell’imputato erano «esistenze parallele». «Massimo Bossetti, fin dall’inizio, ha scelto la strada della sincerità: avrebbe potuto dire che si conoscevano e, quindi, che il Dna poteva derivare da un contatto e invece è un testone, bergamasco, un crucco: non l’ha mai vista né conosciuta». Camporini ha poi parlato di «falsificazione della realtà» in riferimento a uno degli indizi presentati dall’accusa, quello delle fibre e delle sferette trovate su Yara. Per gli inquirenti, le fibre sarebbero frammenti del tessuto che riveste il furgone di Bossetti e il passaggio sarebbe avvenuto per contatto. La difesa ha invece evidenziato come quelle fibre «sono uguali a quelle di 150 mila altri furgoni». «Non ci interessano le somiglianze - attacca Camporini -, ci interessa che siano le fibre del furgone di Bossetti». Quanto alle particelle di metallo, per la difesa non è dimostrato che arrivino dal mezzo del carpentiere. È stato l’avvocato Claudio Salvagni a toccare uno dei temi più delicati per Bossetti, le lettere a luci rosse con una detenuta per truffa, tale Gina. «È stato sottolineato l’aspetto pruriginoso» per «far passare l’idea di un predatore sessuale», sostiene Salvagni. L’accusa avrebbe voluto chiudere il cerchio e fare passare l’idea di un uomo incapace di trattenere i suoi istinti sessuali. Ma per la difesa in quella corrispondenza c’era molto altro. «Sono stanco di questa solitudine, mi manca l’affetto dei miei figli», scrive per esempio Bossetti. Salvagni è tornato poi sul presunto tentativo di fuga da parte del carpentiere quando i carabinieri andarono a prelevarlo, il 16 giugno 2014, in un cantiere di Seriate. Per l’avvocato «è smentito dal video dell’arresto». Capitolo Alma Azzolin: è la testimone dell’accusa che dice di avere visto Bossetti insieme a una ragazzina che poteva essere Yara a settembre 2010, cioè un paio di mesi prima dell’omicidio. Per la difesa, «per quanto in buona fede», la donna si sarebbe auto-suggestionata. Non si spiega, per esempio, perché non sia andata dai carabinieri subito dopo l’arresto di Bossetti invece che il novembre successivo. Per quanto riguarda le ricerche in Internet con la parola «ragazzine», è stato l’avvocato Camporini a ricordare che sono state eseguite dalla moglie, lei stessa lo aveva affermato in aula. In riferimento a quella del 24 maggio 2014, Camporini si chiede: «Anche se l’avesse fatta Bossetti, che prova è? Che cosa dimostra?».
Processo Bossetti, si torna in aula. Parola agli avvocati difensori sul Dna. Venerdì 10 giugno si torna in aula per il processo a carico di Massimo Bossetti, accusato del delitto di Yara. Parola ancora alla difesa: gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini proseguiranno le loro arringhe e cercheranno di smontare pezzo per pezzo il castello accusatorio illustrato dal pubblico ministero Letizia Ruggeri che ha chiesto l’ergastolo dopo 13 ore di requisitoria, scrive “L’Eco di Bergamo” il 10 giugno 2016. Nell’ultima udienza Salvagni e Camporini hanno cercato di mettere in discussione le conclusioni del consulente medico legale del pm, la professoressa Cristina Cattaneo, su ora e luogo del decesso e sulla permanenza nel campo di Chignolo d’Isola del corpo della povera Yara. Secondo l’esperto incaricato dalla Procura, si può concludere che Yara sia morta poche ore dopo la sua scomparsa (lo dicono gli esami sul contenuto gastrico), che il decesso sia avvenuto nel campo di Chignolo (Yara stringeva in pugno alcuni steli di vegetazione, gesto riconducibile a uno spasmo agonico) e che il corpo sia rimasto sempre lì fino al ritrovamento (lo suggeriscono le indagini botaniche ed entomologiche). Secondo i difensori di Bossetti, invece, le risultanze autoptiche non consentono di affermare che il decesso sia avvenuto proprio quella sera, e neppure di escludere che Yara sia stata tenuta in un altro luogo e poi abbandonata a Chignolo successivamente. I legali del muratore accusato dell’omicidio hanno cercato di smontare anche l’indizio costituito dai filmati delle telecamere nella zona del centro sportivo. Per gli avvocati, sulla scorta dei calcoli del loro consulente, il criminologo Ezio Denti, l’autocarro inquadrato non sarebbe quello di Bossetti, come invece sostiene la Procura, e comunque non tornerebbero gli orari, così come ricostruiti dalla pubblica accusa. Di Dna la difesa di Bossetti ha solo accennato: gli avvocati ne parleranno venerdì 10 giugno e avranno il difficile compito di smontare l’elemento più forte in mano all’accusa. Quel profilo biologico scoperto sugli slip della vittima, che potrebbe portare Bossetti alla condanna (il pm ha chiesto l’ergastolo don isolamento diurno, perché l’imputazione è di omicidio aggravato da sevizie, crudeltà e minorata difesa). Il presidente della Corte d’Assise, Antonella Bertoja, ha già messo in calendario le altre udienze da qui alla sentenza. Oltre a quella del 10 giugno, ne è prevista una venerdì 17 giugno, per le repliche delle parti. Venerdì 1 luglio la camera di consiglio e il verdetto. Il processo di primo grado dovrebbe chiudersi quindi con un totale di 45 udienze. Appare scontato che, qualunque sarà il verdetto, la parte soccombente farà ricorso. Si tratta quindi di un procedimento destinato a proseguire in Appello e in Cassazione.
Processo Bossetti, difesa all' attacco, scrive “L’Eco di Bergamo” il 10 giugno 2016. "Nulla in questo processo ha portato a delle certezze assolute tali da poter condannare all'ergastolo Massimo Bossetti, per l'omicidio di Yara Gambirasio". Così i legali del muratore di Mapello che nelle loro arringhe hanno cercato di demolire tutto il castello accusatorio senza risparmiare attacchi personali rivolti al comandante dei Ris , ma anche al consulente genetista della parte civile, Giorgio Portera, che a loro dire non avrebbe valutato obiettivamente il lavoro svolto dai consulenti dell'accusa. Colpi pesanti dunque su come si sono svolte le indagini che hanno portato in carcere il loro assistito. Punto centrale l'anomalia di un dna nucleare senza mitocondrio. "Ci hanno preso in giro" ha detto più volte Salvagni, "ci hanno fatto credere che il dna mitocondriale non sia identificativo; invece lo scrivono anche i carabinieri sul loro sito quanto sia importante questa ricerca. Nessuno ci ha spiegato perchè il dna mitocondriale di Bossetti sia svanito". Si è parlato in aula di contaminazioni in laboratorio, di errori e di kit scaduti. E ancora Salvagni. "Ci hanno detto che la traccia di ignoto 1 era abbondante, allora perchè non ne è rimasta nemmeno una goccia per fare ulteriori accertamenti?". Alla difesa è stata negata la possibilità di partecipare a questa fase fondamentale - è stato detto - e quella traccia che vuole condannare Bossetti a vita ora non c'è più. Camporini ha ricordato testimonianze ritenute attendibili che porterebbero a raccontare un'altra storia su quanto accaduto il 26 novembre. "Nessuno ha visto uscire dalla palestra Yara , nessuno ha visto Bossetti". La difesa ha elencato quelle che a suo dire sono gravi mancanze, una fra tutte: non si sono fatte analisi morfologiche sulle fibre trovate sul corpo di Yara. Poi ha sottolineato non sono state trovate tracce di sangue sul furgone di Bossetti. E ancora è stata rimarcata la tesi secondo cui Yara non è stata uccisa a Chignolo d'Isola, ma in un altro luogo; svestita, rivestita avvolta da un tappetto o coperta (ecco perchè fibre si troverebbero anche nelle ferite) e solo successivamente abbandonata in quel campo. "Sono state dette falsità, con il solo obiettivo di confermare una tesi prestabilita dall'accusa" ha detto Salvagni rivolgendosi alla corte. "Rileggetevi tutte le carte e troverete i dubbi che abbiamo trovato anche noi".
Bossetti, i legali: è un testone, un crucco. «Con Yara esistenze parallele: mai visti». Di nuovo in aula per il caso dell’omicidio di Yara Gambirasio. In Tribunale a Bergamo Massimo Bossetti e la parola è ancora per la difesa del muratore di Mapello, scrive “L’Eco di Bergamo” il 10 giugno 2016. In aula anche la moglie Marita Comi, Massimo Bossetti è entrato e come sempre si è seduto al suo posto. Indossava una maglia a righe. Gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini stanno proseguendo le loro arringhe cercando di smontare pezzo per pezzo il castello accusatorio illustrato dal pubblico ministero Letizia Ruggeri che ha chiesto l’ergastolo dopo 13 ore di requisito. La difesa ha ripercorso le varie udienze, sottolineando le testimonianze chiave: «Nessuno ha visto Bossetti, o Yara con Bossetti, nessuno ha visto Yara salire sul furgone» hanno sottolineato. In particolare i due avvocati hanno ricordato alla Corte la testimonianza di una ragazza, fisioterapista alla palestra, che nella stessa serata della scomparsa di Yara era stata importunata, sempre a Brembate e sempre in palestra, così come il racconto del ragazzo che aveva notato un furgone bianco e due uomini nella zona della scomparsa della giovane. In sostanza: «Nessuno ha visto la minore fuori dal centro sportivo; nessuno ha visto l’imputato e nessuno ha visto il mezzo dell’imputato». Nello specifico l’avvocato Paolo Camporini ha fatto riferimento a testi «attenti» che riferirono di quel 26 novembre del 2010 quando Yara scomparve per essere trovata uccisa tre mesi dopo in un campo. Camporini ha anche ricordato della fisioterapista che lavorava nel centro sportivo quel pomeriggio fu molestata da un uomo. «In un processo normale questo ne farebbe l’indiziato numero uno - ha argomentato il legale -: c’è stato detto che sono state fatte indagini, ma non possiamo accontentarci di questo». Il legale ha ribadito che quelle della vittima e dell’imputato erano «esistenze parallele»: «Massimo Bossetti, fin dall’inizio, ha scelto la strada della sincerità: avrebbe potuto dire che si conoscevano e, quindi, che il dna poteva derivare da un contatto e invece è un testone, bergamasco, un crucco: non l’ha mai vista né conosciuta». Dura l’accusa nei confronti del colonnello Giampietro Lago, comandante dei Ris, contestando le analisi sui tessuti dei leggins e sugli indumenti di Yara: «Si tratta di un’indagine tutta da riscrivere» ha sottolineato più volte Camporini. E ancora: «Massimo Bossetti è stato rivoltato come un calzino: mai trovata traccia di sangue di Yara, ma nulla che possa collegarlo alla ragazza». Nell’ultima udienza Salvagni e Camporini hanno cercato di mettere in discussione le conclusioni del consulente medico legale del pm, la professoressa Cristina Cattaneo, su ora e luogo del decesso e sulla permanenza nel campo di Chignolo d’Isola del corpo della povera Yara. Secondo l’esperto incaricato dalla Procura, si può concludere che Yara sia morta poche ore dopo la sua scomparsa (lo dicono gli esami sul contenuto gastrico), che il decesso sia avvenuto nel campo di Chignolo (Yara stringeva in pugno alcuni steli di vegetazione, gesto riconducibile a uno spasmo agonico) e che il corpo sia rimasto sempre lì fino al ritrovamento (lo suggeriscono le indagini botaniche ed entomologiche). Secondo i difensori di Bossetti, invece, le risultanze autoptiche non consentono di affermare che il decesso sia avvenuto proprio quella sera, e neppure di escludere che Yara sia stata tenuta in un altro luogo e poi abbandonata a Chignolo successivamente. I legali del muratore accusato dell’omicidio hanno cercato di smontare anche l’indizio costituito dai filmati delle telecamere nella zona del centro sportivo. Per gli avvocati, sulla scorta dei calcoli del loro consulente, il criminologo Ezio Denti, l’autocarro inquadrato non sarebbe quello di Bossetti, come invece sostiene la Procura, e comunque non tornerebbero gli orari, così come ricostruiti dalla pubblica accusa.
«Il killer di Yara è stato un sadico». La difesa: non può essere Bossetti. Un’indagine da riscrivere e un imputato che è un «testone, un crucco». Avanti con il caso dell’omicidio di Yara Gambirasio. In Tribunale a Bergamo Massimo Bossetti e la parola è ancora per la difesa del muratore di Mapello, scrive “L’Eco di Bergamo” il 10 giugno 2016. Dagli esiti degli accertamenti sulle sferette di metallo trovate sul corpo e dal fatto che nessuna traccia di Yara sia stata trovata sui mezzi a disposizione di Massimo Bossetti emergerebbe «tutt’altra storia” rispetto a quella ipotizzata dalla Procura. Nell’interpretazione degli esiti delle analisi della difesa, emergerebbe, infatti, che «quella ragazza è stata aggredita altrove, è stata portata in un altro posto in cui il corpo è stato avvolto». Inizia così la seconda parte della requisitoria della difesa di Massimo Bossetti dopo la pausa in tarda mattinata di venerdì 10 giugno. «Si tratta di tutt’altra storia - ha scandito l’avvocato Paolo Camporini -: vi è un altro luogo, vi è l’ipotesi della presenza di più persone. Questo comporterebbe tutt’altra indagine». L’avvocato ha fatto rilevare come sull’Iveco Daily di Bossetti «non è stata trovata nessuna traccia di sangue». «È una dato significativo al massimo - ha sottolineato l’avvocato -. Il sangue non si cancella, anche dopo anni. Queste indagini sono completamente da riscrivere». «Non vorrete credere - si è rivolto Camporini ai giudici della Corte - alla favola che al buio, sotto l’acqua e la neve, nel campo infangato, l’assassino abbia alzato la maglietta per uccidere?». Per gli inquirenti, la ragazza è morta di freddo e stenti dopo che l’assassino l’ha ferita con un coltello sollevandole giubbotto e maglietta, indumenti che non sono tagliati come i leggings. Per i difensori, l’omicidio è stato invece consumato altrove. «I vestiti della ragazza - prosegue Camporini - non sono sporchi di fango. Yara è stata spogliata e rivestita in un altro posto, in un altro contesto. È l’ipotesi più credibile. Non ci sono tracce di erba nelle ferite, ma ci sono fibre. Il corpo deve essere stato avvolto in un telo e poi scaricato. La stessa Cattaneo (l’anatomopatologa che ha eseguito l’autopsia, Ndr) non ha escluso questa possibilità». La difesa ha tirato in ballo anche la corrispondenza tra Massimo Bossetti e la detenuta Gina, ed è stato «sottolineato l’aspetto pruriginoso» per «far passare l’idea di un predatore sessuale». Per l’avvocato Claudio Salvagni, in molte di queste lettere traspare un «tono sussiegoso» e compaiono «pensieri di disperazione e sconforto» e «con temi ben lontani dalla violenza» che caratterizza, invece, «un predatore sessuale». L’avvocato Paolo Camporini ha poi citato dei testi dell’Fbi recepiti dalla Unità Anti Crimini violenti della polizia, per sostenere che, poiché quello di Yara è stato un omicidio «commesso da un sadico» l’autore non può essere Massimo Bossetti. Camporini ha spiegato come in base a quei testi, chi commette delitti di questo genere abbia un «quoziente intellettivo basso» mentre Bossetti è definito come furbo e scaltro. Chi commette reati di questo genere è «lontano dalla vita reale, è un tipo strano, con abitudini notturne». «Bossetti non usciva praticamente di casa - ha argomentato Camporini - e forse ha bevuto una birra in un supermercato: era solo casa e lavoro; quasi fosse ai domiciliari».
«Massimo Bossetti deve essere assolto. Test anomali e nessun indizio preciso». Gli avvocati della difesa di Massimo Bossetti venerdì 10 giugno hanno sferrato il loro ultimo attacco, quello più importante. «Siamo stati presi in giro sul Dna: le anomalie sono evidenti e nessuno ha però mai detto che si è sbagliato», scrive “L’Eco di Bergamo” il 10 giugno 2016. «Le evidenze oggettive non possono che portare ad assolverlo». È uno dei passaggi chiave dell’arringa di Paolo Camporini, difensore di Bossetti insieme a Claudio Salvagni, nell’udienza del 10 giugno. «Gli indizi non vanno contati - ha aggiunto - ma valutati uno per uno: servono indizi gravi, precisi e concordanti. Qui l’unico indizio grave, se vogliamo definirlo tale, è il Dna, ma non è preciso. La Cassazione ha stabilito che il Dna è una prova solo quando è perfetto, senza dubbi né anomalie». Anomalie che secondo la difesa ci sono. Durante il suo intervento nel pomeriggio l’avvocato Claudio Salvagni ha ripercorso tutte queste «anomalie» che, a suo avviso, inficerebbero il risultato finale. Questo per via di una procedura, caratterizzata anche da «utilizzo di kit scaduto», il cui risultato è «da cestinare». Secondo il legale, si sono verificati problemi anche riguardo la «catena di custodia» dei reperti che sono stati analizzati. «Sono state rispettate le regole? Io credo di no», ha aggiunto il legale secondo il quale, per questo motivo, quel Dna «può essere stato contaminato». Salvagni ha anche spiegato che sul corpo di Yara «sono stati trovati dieci profili genetici diversi». «La traccia è irripetibile, e questo è un aspetto sostanziale», hanno detto in un altro passaggio Claudio Salvagni e Paolo Camporini, e hanno aggiunto: «In questo processo è stato chiesto l’ergastolo, non dimentichiamolo. La questione del Dna è da sempre al centro di questo processo: «È un puzzle in cui alcune tessere non entrano al posto giusto ma vengono incastrate a piacimento. Tutto si basa su un Dna sul quale la difesa non ha potuto interloquire. Un atto di fede così non lo facciamo» aveva detto già Salvagni. «Il lavoro del medico legale Cristina Cattaneo non porta a conclusioni certe». Nel tardo pomeriggio l’avvocato Paolo Camporini ha parlato anche dell’accusa di calunnia nei confronti di Bossetti, il quale dopo l’arresto aveva indirizzato gli inquirenti verso il collega Maggioni. «Bossetti in quelle ore – ha spiegato Camporini in aula – era in uno stato di incapacità di intendere e di volere, dovuto a una condizione di stress emotivo in seguito all’arresto e alla campagna denigratoria che stava distruggendo lui e i suoi affetti. Si stava difendendo, cercava di assecondare gli inquirenti fornendo un’ipotesi alternativa, e ha accusato il collega senza volerlo». E comunque «non lo ha accusato di aver commesso l’omicidio» ha evidenziato Camporini. Sempre Camporini, parlando delle ricerche trovate nei computer del muratore di Mapello, ha chiesto che «sparisca la parola pedopornografia da questo processo». Il legale ha, infatti, sottolineato che nessuna delle ricerche trovate ha tema pedopornografico ma che si tratta invece di «ricerche che si possono trovare nei computer di tutti gli adulti». Le ricerche, a suo dire, sono contraddistinte da «assoluta rarità» e «successive» alla sparizione e al ritrovamento di Yara Gambirasio. Sarebbero tre o quattro in tutto il periodo preso in considerazione. Il legale, che ha anche fatto riferimento a delle ricerche trovate nel computer della famiglia della vittima, ha detto che «non ha alcun senso» cercare di ricondurre le ricerche nei due computer trovati in casa di Massimo Bossetti al delitto della tredicenne.
Dna Bossetti, la difesa contesta i test. «Possibili contaminazioni in laboratorio». «Presi in giro, test con anomalie evidenti». Bossetti, la difesa all’attacco sul dna. «Siamo stati presi in giro sul dna: le anomalie sono evidenti e nessuno ha però mai detto che si è sbagliato». Gli avvocati della difesa di Massimo Bossetti alle 15.50 di venerdì 10 giugno sferrano il loro ultimo attacco, quello più importante: sul dna, scrive “L’Eco di Bergamo” il 10 giugno 2016. Durante il suo intervento nel pomeriggio l’avvocato Claudio Salvagni ha spiegato che sul corpo di Yara «sono stati trovati dieci profili genetici diversi». Il legale ha contestato anche l’affidabilità dei test di laboratorio, ventilando l’ipotesi che sia stato utilizzato materiale non idoneo e parlando di «possibili contaminazioni nei laboratori». Salvagni ha anche ripercorso le cosiddette «anomalie» che, a suo avviso, inficerebbero il risultato finale. Questo per via di una procedura, caratterizzata anche da «utilizzo di kit scaduto», il cui risultato è «da cestinare». Secondo il legale, si sono verificati problemi anche riguardo la «catena di custodia» dei reperti che sono stati analizzati. «Sono state rispettate le regole? Io credo di no», ha aggiunto il legale secondo il quale, per questo motivo, quel Dna «può essere stato contaminato». «La traccia è irripetibile, e questo è un aspetto sostanziale» dicono Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che aggiungono: «In questo processo è stato chiesto l’ergastolo, non dimentichiamolo. La questione del Dna è da sempre al centro di questo processo: «È un puzzle in cui alcune tessere non entrano al posto giusto ma vengono incastrate a piacimento. Tutto si basa su un Dna sul quale la difesa non ha potuto interloquire. Un atto di fede così non lo facciamo» aveva detto già Salvagni. «Il lavoro del medico legale Cristina Cattaneo non porta a conclusioni certe». L’avvocato Paolo Camporini, parlando delle ricerche trovate nei computer del muratore di Mapello, ha chiesto che «sparisca la parola pedopornografia da questo processo». Il legale ha, infatti, sottolineato che nessuna delle ricerche trovate ha tema pedopornografico ma che si tratta invece di «ricerche che si possono trovare nei computer di tutti gli adulti». Le ricerche, a suo dire, sono contraddistinte da «assoluta rarità» e «successive» alla sparizione e al ritrovamento di Yara Gambirasio. Sarebbero tre o quattro in tutto il periodo preso in considerazione. Il legale, che ha anche fatto riferimento a delle ricerche trovate nel computer della famiglia della vittima, ha detto che «non ha alcun senso» cercare di ricondurre le ricerche nei due computer trovati in casa di Massimo Bossetti al delitto della tredicenne.
Oltre a questa udienza, ne è prevista una venerdì 17 giugno, per le repliche delle parti. Venerdì 1 luglio la camera di consiglio e il verdetto. Il processo di primo grado dovrebbe chiudersi quindi con un totale di 45 udienze. Appare scontato che, qualunque sarà il verdetto, la parte soccombente farà ricorso. Si tratta quindi di un procedimento destinato a proseguire in Appello e in Cassazione.
Bossetti, la difesa chiede l’assoluzione. «Se sei innocente non confessare». «Massimo, se sei innocente non confessare mai, ti hanno distrutto come uomo e come padre, questo non te lo restituirà nessuno». È stato l’appello che Paolo Camporini, uno dei legali del muratore di Mapello, ha rivolto al suo assistito prima di chiederne l’assoluzione per non avere commesso l’omicidio di Yara Gambirasio, scrive “L’Eco di Bergamo” il 10 giugno 2016. Camporini, che assiste Bossetti con il collega Claudio Salvagni, ha chiesto anche l’assoluzione dal reato di calunnia «perché il fatto non sussiste». «Caro Massimo – ha detto Camporini in aula rivolgendosi all’imputato, che si è commosso ascoltandolo – se sei innocente non confessare, non cedere alle pressioni e allo scoramento. Ci credo alla tua innocenza, altrimenti avrei rinunciato al mandato perché a me le bugie non le dici. Ti hanno demolito come uomo, come figlio e come padre e queste cose non te le restituirà nessuno». Rivolgendosi poi alla Corte Camporini ha detto: «Pensateci mille volte, è stata chiesta una pena illegale, anticostituzionale: l’ergastolo è una pena di morte mascherata, l’ha detto anche il Papa». Le ultime frasi dell’arringa sono arrivate verso le 19, al termine di una giornata intensa, nel corso della quale la difesa ha ripercorso tutte le tappe della vicenda, parlando di Yara e Bossetti, dell’omicidio e di come sono state condotte le indagini. La difesa per tutta la giornata (quella del 10 giugno era la seconda udienza riservata ai difensori) di smontare il castello accusatorio del pm Letizia Ruggeri che dopo 13 ore di requisitoria aveva chiesto l’ergastolo. «Le evidenze oggettive non possono che portare ad assolverlo. Ha detto Camporini, gli indizi non vanno contati ma valutati uno per uno: servono indizi gravi, precisi e concordanti. Qui l’unico indizio grave, se vogliamo definirlo tale, è il Dna, ma non è preciso. La Cassazione ha stabilito che il Dna è una prova solo quando è perfetto, senza dubbi né anomalie». Anomalie che secondo la difesa ci sono: «Siamo stati presi in giro sul Dna – hanno detto i difensori – le anomalie sono evidenti e nessuno ha però mai detto che si è sbagliato». Durante il suo intervento nel pomeriggio l’avvocato Claudio Salvagni ha ripercorso tutte queste «anomalie» che, a suo avviso, inficerebbero il risultato finale. Questo per via di una procedura, caratterizzata anche da «utilizzo di kit scaduto», il cui risultato è «da cestinare». Secondo il legale, si sono verificati problemi anche riguardo la «catena di custodia» dei reperti che sono stati analizzati. «Sono state rispettate le regole? Io credo di no», ha aggiunto il legale secondo il quale, per questo motivo, quel Dna «può essere stato contaminato». Salvagni ha anche spiegato che sul corpo di Yara «sono stati trovati dieci profili genetici diversi». «La traccia è irripetibile, e questo è un aspetto sostanziale», hanno detto in un altro passaggio Claudio Salvagni e Paolo Camporini, e hanno aggiunto: «In questo processo è stato chiesto l’ergastolo, non dimentichiamolo. La questione del Dna è da sempre al centro di questo processo: «È un puzzle in cui alcune tessere non entrano al posto giusto ma vengono incastrate a piacimento. Tutto si basa su un Dna sul quale la difesa non ha potuto interloquire. Un atto di fede così non lo facciamo» aveva detto già Salvagni. «Il lavoro del medico legale Cristina Cattaneo non porta a conclusioni certe». Nel tardo pomeriggio l’avvocato Paolo Camporini ha parlato anche dell’accusa di calunnia nei confronti di Bossetti, il quale dopo l’arresto aveva indirizzato gli inquirenti verso il collega Maggioni. «Bossetti in quelle ore – ha spiegato Camporini in aula – era in uno stato di incapacità di intendere e di volere, dovuto a una condizione di stress emotivo in seguito all’arresto e alla campagna denigratoria che stava distruggendo lui e i suoi affetti. Si stava difendendo, cercava di assecondare gli inquirenti fornendo un’ipotesi alternativa, e ha accusato il collega senza volerlo». E comunque «non lo ha accusato di aver commesso l’omicidio» ha evidenziato Camporini. Sempre Camporini, parlando delle ricerche trovate nei computer del muratore di Mapello, ha chiesto che «sparisca la parola pedopornografia da questo processo». Il legale ha, infatti, sottolineato che nessuna delle ricerche trovate ha tema pedopornografico ma che si tratta invece di «ricerche che si possono trovare nei computer di tutti gli adulti». Le ricerche, a suo dire, sono contraddistinte da «assoluta rarità» e «successive» alla sparizione e al ritrovamento di Yara Gambirasio. Sarebbero tre o quattro in tutto il periodo preso in considerazione. Il legale, che ha anche fatto riferimento a delle ricerche trovate nel computer della famiglia della vittima, ha detto che «non ha alcun senso» cercare di ricondurre le ricerche nei due computer trovati in casa di Massimo Bossetti al delitto della tredicenne.
«Confessare? Mai e poi mai». Bossetti: io sono innocente. La reazione del carpentiere di Mapello accusato dell’omicidio di Yara Gambirasio al termine dell’arringa dei suoi difensori, scrive “L’Eco di Bergamo” l’11 giugno 2016. «Massimo, ho studiato te e il tuo mondo: se sei innocente non confessare». Così Paolo Camporini, uno dei legali di Massimo Bossetti, unico imputato al processo per il sequestro e l’omicidio di Yara Gambirasio, si è rivolto nella serata di venerdì 10 giugno al suo assistito, a conclusione della lunga arringa difensiva. «Mai e poi mai!» è stata la risposta del muratore di Mapello. «Ti hanno demolito come uomo, come figlio, come padre» ha detto ancora l’avvocato, che ha concluso invitando la corte a «non condannare un innocente». Contro Bossetti – sostengono Camporini e l’altro legale, Claudio Salvagni – sarebbero stati usati «metodi da Mani Pulite», mentre la richiesta di ergastolo formulata dal pm Letizia Ruggeri nella requisitoria «è illegale» e «contro la Costituzione», perché si tratterebbe di «una pena di morte mascherata».
Yara, l’ultima difesa di Bossetti: "Test del Dna flop: è contaminato". Bergamo, l’arringa dei legali. "Giudici siate coraggiosi, assolvetelo", scrive Gabriele Moroni l’11 giugno 2016 su “Il Giorno” - Massimo Bossetti deve essere assolto. Al processo per l’omicidio di Yara Gambirasio è davvero il finale di partita. «Chiedo – dice il difensore Paolo Camporini – alla Corte di fare giustizia e di non condannare un innocente. Assolvete Massimo Bossetti perché non ha ucciso. Ai genitori di Yara non interessa sia condannato Bossetti, ma che sia condannato l’assassino della loro figlia. Siate coraggiosi e assolvete Massimo Bossetti, è innocente». Il legale si rivolge al suo assistito con un appello: «Massimo, io mi fido di te e credo nella tua innocenza, ti conosco e ti ho ascoltato, ti ho studiato. Se sei innocente non confessare mai e poi mai». «Nessuno ha visto la minore fuori dal centro sportivo; nessuno ha visto l’imputato e nessuno ha visto il mezzo dell’imputato». Parte da questa considerazione la difesa che va all’attacco frontale dell’architrave dell’accusa contro il muratore di Mapello: il suo Dna rimasto impresso sugli indumenti della ginnasta tredicenne. «Gli indizi – dice Camporini – non vanno contati, ma valutati ad uno ad uno. Devono essere gravi, precisi e concordanti. Qui l’unico indizio grave, se vogliamo definirlo come tale, è il Dna, ma non è preciso. La Cassazione ha stabilito che il Dna è prova solo quando è senza dubbi né anomalie. Invece il Dna del processo è contaminato, non ha valore». «Anomalie», allora. L’avvocato Claudio Salvagni si produce in un’arringa appassionata, anche polemica, nella quale non risparmia stoccate e colpi di clava. Lo ascolta anche Marita Comi, moglie dell’imputato, arrivata in tribunale in compagnia del fratello Agostino. «Siamo stati presi in giro sul Dna: le anomalie sono evidenti, in aula abbiamo visto sfilare il top della scienza, ma nessuno ha mai detto che si è sbagliato». Non è stata definita la natura della traccia rimasta su slip e leggings della piccola vittima, da cui è stato ricavato il Dna di Ignoto 1. L’assenza nella traccia del Dna mitocondriale di Bossetti, ‘sparito’. «Contro Bossetti c’è solo mezzo Dna, peraltro inquinato, quindi non utilizzabile». Non solo. «Si è detto forse troppe volte sottovoce, ma qui c’è un altro Dna mitocondriale, che non è quello di Bossetti. Per i consulenti della procura si tratta di una sottotraccia non interpretabile, che non cambia il valore di Ignoto 1. Per noi della difesa è un ulteriore tallone d’Achille». Il sospetto di contaminazione: «Quando sono stati eseguiti i test su Ignoto 1 (poi identificato con Bossetti ndr), è stato ottenuto per tre volte lo stesso risultato. Ma nel controllo negativo, ossia la controprova, c’è qualcosa di strano, di anomalo, dei picchi che indicano che c’è stata contaminazione». L’impiego di kit scaduti, con un risultato, quindi, da «cestinare». Il mancato rispetto delle regole fissate dalla comunità scientifica. I toni sono quelli di una sfida a dare risposte. Il 22 settembre del 2011 il pm Letizia Ruggeri affida al colonnello Giampietro Lago, comandante del Ris di Parma, l’incarico per una consulenza privata con lo scopo di trovare qualunque elemento utile all’identificazione di Ignoto 1. Gli approdi sono il George Washington di New York e l’istituto di biologia molecolare di Firenze per individuare il Dna mitocondriale. Il 25 ottobre il consulente riceve dal Ris la provetta. Quando la controlla scopre che la concentrazione è aumentata del 500 per cento. «Perché c’è questa variazione?», si domanda Salvagni. Camporini torna sulle ricerche nei computer di Bossetti. «Deve sparire da questo processo la parola pedopornografia. Non sono state effettuate ricerche del genere. Sono ricerche che si possono trovare nei computer di tutti gli adulti».
Il test del Dna che salva Bossetti. Telese, mossa-bomba degli avvocati, scrive Luca Telese il 10 giugno 2016 su “Libero Quotidiano”. Un asso nella manica. Un colpo di scena, gelosamente custodito fino ad ora, sulla prova decisiva del processo per l'omicidio di Yara Gambirasio. La difesa di Massimo Bossetti si presenta questa mattina all' udienza decisiva della propria arringa a puntate, al Tribunale di Bergamo, non solo armata del suo noto cavallo di battaglia sull' anomalia del Dna mitocondriale (che inspiegabilmente non corrisponde a quello del muratore di Mapello, e di cui più volte si è già parlato durante il processo), ma con una nuova sorpresa, che riguarda anche gli esami cruciali sul Dna nucleare. Questa prova è un documento trovato fra le stesse carte dell'accusa. Non proviene da una perizia di parte difensiva, ma da un lavoro minuzioso condotto dal genetista Marzio Capra (e da tutto il pool) sulla stessa documentazione fornita dai Ris dei carabinieri, i cosiddetti «raw data». Chi ha seguito il processo sa che su quei dati si giocarono ben quattro cruciali udienze di battaglia in aula. Nei giorni del dibattimento sui campioni di Dna che l'accusa considerava più importanti, ovvero quelli raccolti sulle famose mutandine di Yara (i reperti "g20" e "g31 est") i capitani dei Ris che avevano condotto l'esame, professionisti stimati e esperti, vacillarono più volte durante gli interrogatori. I due capitani chiesero - e ottennero - per ben due volte una sospensione del controinterrogatorio e una pausa di due settimane per prepararsi meglio. Motivarono la richiesta sostenendo di avere dati e referti delle analisi «in disordine in laboratorio». Alla fine del braccio di ferro produssero le famose "brutte copie" dei dati degli esami (i "raw data" di cui sopra). Oggi Paolo Camporini e Claudio Salvagni illustreranno un elettroferogramma (uno dei grafici delle analisi decisive compiute nell' ottobre 2011) che - a loro avviso - prova che la taratura della macchina non era a punto. Se l'illustrazione di questo esame dovesse essere convincente, potrebbe davvero realizzarsi un colpo di scena. Anche perché questa disamina non proietta la sua ombra solo sul primo grado, ma anche su un eventuale appello, perché colpisce il cardine su cui poggia tutto il teorema accusatorio. Le anomalie che accompagnano gli esami del Dna fino ad oggi sono state già tante. Gli stessi inquirenti, sotto interrogatorio, dovettero ammettere che non si conosceva il vero motivo per cui il dna mitocondriale di «Ignoto uno» (quello trovato sul campione della mutandina) non avesse nulla a che fare con la sequenza genetica mitocondriale dell'imputato. Poi dovettero riconoscere che il dna della mamma di Bossetti, compatibile con quello di «Ignoto uno» (individuato nel 2012) al momento dell'esame era stato confuso con un altro campione dove c'era il dna di Yara (e quindi non riconosciuto). Per questo, malgrado un'inchiesta a tappeto, Ester Arzuffi in un primo momento non era stata identificata. Dai referti si legge poi delle tante difficoltà dalla caratterizzazione del Dna di Yara, ricavato con esami su tutte e dieci le unghie. Quindi sono emersi numeri sbarrati a penna sulla sequenza genetica attribuita a «Ignoto uno», e poi inspiegabili «alleli soprannumerali» che nulla hanno a che fare con quelli del muratore. Come è stata risolta la non coincidenza di questi dati dall' accusa? Semplicemente non considerando l'alllele in più. Come se un poliziotto che ha tra le mani un identikit simile a quello di un sospetto, tranne che per il naso, risolvesse il problema cancellando con una gomma proprio quel tratto fisionomico. Tutti i problemi dei due campioni trovati sulla mutandina, sul piano procedurale, sono diventati pubblici: l'esame decisivo è stato condotto senza contraddittorio e senza avvocati (all' epoca non c' erano indagati) e per di più, secondo quanto riferiscono i Ris, non è stato mai filmato. L' esame, sempre a detta del colonnello Lago, non può essere ripetuto, anche se una sentenza della Corte Costituzionale prodotta del caso Meredith prevede che in linea di principio la «ripetibilità» sia necessaria per poter utilizzare un Dna come elemento di prova. Per giunta il campione di Dna di «Ignoto uno» che inchioderebbe Bossetti nella documentazione del processo e nei verbali di accompagnamento risultata avere «quantificazioni» diverse. Ma come avrebbe fatto a lievitare, visto che la provetta è la stessa, e non è stata aperta? Il campione è stato addirittura distrutto - secondo quanto testimoniato da Lago - durante le analisi. Di questi esami restavano dunque - fino a ieri - solo gli elettroferogrammi, ovvero referti che all' epoca non avevano valore processuale, ma solo investigativo. Come se si avesse lo scontrino del pasto, ma non le porzioni, dopo averlo consumato. Un bel pasticcio. Bene, questa mattina in Aula arriva il colpo di scena, quella carta che Capra e compagni ritengono decisiva, e che hanno trovato tra gli stessi dati prodotti dall' accusa. Oggi scopriremo se nella loro illustrazione delle prove, gli avvocati di Bossetti saranno convincenti: se riusciranno, cioè, a squalificare anche il Dna nucleare. Se questo accadesse, riuscirebbero nel virtuosismo di smontare una pro, usando dati che secondo la pm servivano per mandare Bossetti all'ergastolo. Sarebbe un bel paradosso.
Intanto l’Ordine nazionale dei giornalisti esprime in una nota solidarietà ad alcuni colleghi che seguono il processo che sono stati minacciati e insultati, scrive “Il Fatto Quotidiano” il 10 giugno 2016. “Da alcune settimane sono purtroppo sempre più frequenti le offese, le minacce di morte e di aggressione espresse tramite i social network e via web ad alcuni giornalisti che stanno seguendo il processo a carico di Massimo Bossetti, imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio”. “Episodi di questo tenore – si legge nella nota – sono stati segnalati in particolare da Carmelo Abbate, giornalista di Panorama e opinionista della trasmissione televisiva ‘Quarto Grado‘, e dai giornalisti della redazione del settimanale Giallo, presi di mira soprattutto su Facebook da sedicenti gruppi di sostegno a Massimo Bossetti. Le minacce sono state spesso corredate dalle fotografie del direttore, del caposervizio e dei giornalisti e sono state manifestate anche pubblicamente davanti alla cronista che segue le udienze”. L’Ordine nazionale dei giornalisti “esprime piena solidarietà ai colleghi e sollecita l’intervento delle autorità competenti affinché ai giornalisti sia consentito di poter continuare a svolgere il loro lavoro per garantire ai cittadini il diritto ad essere correttamente informati”.
A trovarli i corretti informatori….!!!
Caso Bossetti: Il verdetto, scrive Gilberto Migliorini il 12 giugno 2016 su “Albatros. Volando Controvento”. Sesto Potere. La società del controllo è un fatto irreversibile. Leggendo molta stampa, i commenti dei lettori, ascoltando i notiziari sul caso Bossetti, rimane netta la sensazione che davvero molti non abbiano capito quale sia la posta in gioco, quali possano essere le implicazioni non solo per l’imputato, ma anche per tutti noi che potremmo un giorno trovarci inopinatamente dall'altra parte della barricata...La verità? Parola troppo importante, inflazionata, perfino irrituale e ingannevole. Ai prestigiatori del diritto piace la formula "verità giudiziaria": come dire che una volta espletati i formalismi canonici e gli stilemi giuridici, fatta salva la procedura mediante l’ermeneutica più accattivante e le convenzioni rituali, ci si può assolvere di qualunque errore, di qualsivoglia omissione, e dormire i sonni del giusto. Di sicuro il caso del muratore rappresenta per tanti motivi un punto cruciale, un rito di passaggio, uno di quei momenti storici di cui si può cogliere tutta l’importanza solo a posteriori, retrospettivamente, quando lo storico e il sociologo appuntano la loro attenzione sui fenomeni sociali come ‘fatti di costume’. Il verdetto sarà un segnale importante di cosa il paese sia o potrà diventare, di quale sarà il nostro futuro: gli italiani sono, o saranno, cittadini o sudditi? Talvolta nelle vicende di un paese esistono dei punti di svolta, ma senza vedere che la scelta comporta conseguenze a cascata, effetti perversi e incontrollabili. È stato così molte volte nella nostra storia, dove molte situazioni e accadimenti dall'apparenza marginale hanno dato l’input a processi politici e innescato un concatenarsi di eventi che hanno portato a cambiamenti epocali, talvolta drammaticamente nefasti. Perché la sentenza di un caso giudiziario, oggettivamente di nessun rilievo nella vita politica di una nazione, dovrebbe rappresentare qualcosa che determina la direzione, l’orientamento e gli equilibri di un paese con tutte le connesse conseguenze sul piano sociale? Risulta interessante la reazione dell’opinione pubblica, quella che un tempo era la plebe che si accalcava intorno al patibolo dove il boia esercitava le sue funzioni. Oggi il target deve accontentarsi di quella forca metaforica rappresentata dai tanti format mediatici e dai resoconti giornalistici di maniera. La ricerca spasmodica di un capro espiatorio continua a piacere soprattutto nei periodi di crisi e di disorientamento, quando occorre scaricare le tensioni sociali e trovare appagamenti sostitutivi. Il problema però è più complesso rispetto ai periodi di congiuntura quando si instaurano meccanismi di compensazione nella ricerca di surrogati rispetto ai traumi sociali e alle difficoltà economiche. In gioco c’è qualcosa di molto più profondo e in un certo senso intangibile. Si tratta della cultura di un Paese espressa nella mentalità e nei meccanismi reattivi, quelle modalità di risposta fatte di automatismi inconsci e di stereotipi caratteriali. Ci sono fatti che sono come reazioni chimiche: mettono in risalto quello che non è palese e portano a galla i contenuti latenti di un Paese ignaro delle sue pulsioni profonde. Si tratta di procedimenti mentali che sopravvivono nella cultura nonostante la patina di modernità. La civiltà della scienza e della tecnica non solo non incide sulla mentalità, ma ne esalta i pregiudizi e le inclinazioni. Abbiamo alle spalle una storia ricca di arte e letteratura che ha riguardato soprattutto le classi medio-alte, un retaggio storico pieno di stimoli e suggestioni, dei modelli urbanistici e paesaggistici raffinati, una cultura musicale di prim'ordine, siamo perfino la culla della scienza moderna… Eppure, a fronte di uno scrigno di straordinarie suggestioni e di modelli culturali, l’italiano (in tutti i ceti sociali) conserva un imprinting fondato sull'etica della situazione. A fronte di una religiosità spesso epidermica e convenzionale c’è una morale dell’accomodamento, un’inclinazione al compromesso sempre e comunque in ragione di considerazioni di ordine pratico che prescindono dalla coerenza e dal rigore dei principi. Si tratta sovente di una moralità dell’opportunismo e della convenienza. Il verdetto del giudice Bertoja non riguarderà quindi solo un muratore, ma ci riguarda tutti in quanto cittadini di un Paese che nella sua storia ha conosciuto drammi epocali, che ha sempre saputo risollevarsi ma è sovente ricaduto negli stessi errori per una sorta di coazione a ripetere schemi mentali e abiti caratteriali. Pensare che il fascismo sia solo un periodo storico, un ventennio trascorso, è purtroppo un’illusione. Il fascismo è un abito mentale della cultura italiana che riaffiora continuamente nelle istituzioni sotto mentite spoglie, mascherato e paludato in forme insospettabili. Nel solco di tanta propaganda di regime ‘democratico’ potremmo già trovarci su un piano che sempre più si inclina grazie a quella sorta di cultura della rassegnazione e del giustizialismo che prelude a un nuovo regime: quello dei giochi e dei ludi circensi con le bestie feroci e i gladiatori. Il sistema mediatico è ormai in grado di penetrare in profondità negli stili di vita da costituire una realtà virtuale che permea la vita delle persone ormai dall'interno, visceralmente, implementando surrettiziamente ruoli e mansioni. Se il muratore di Mapello verrà condannato sarà il segno che ormai il Reality non è più quello dell’isola dei famosi e del grande fratello. Siamo noi gli attori dello spettacolo, organicamente collusi facciamo parte della sceneggiatura ignari perfino del nostra posizione di primo piano. Non solo comparse, ma veri protagonisti di un copione che seguiremo alla lettera. Il bivio storico è vicino e mai come oggi, nell'attualità della sentenza, i giudici di un tribunale saranno costretti a mostrarci quale strada intendano prendere le istituzioni giudiziarie. Sceglieranno di smascherare e mettere finalmente a nudo l’inganno del reality... oppure dimostreranno di essere la parte organica, la lunga mano di un gigantesco Truman show?
Ezio Denti. Siamo ai titoli di coda del caso Bossetti, uno sceneggiato italiano in cui si è abusato dell'immaginazione...Articolo di Ezio Denti pubblicato su “Albatros Volando Controvento” il 15 giugno 2016. Stanno per scorrere i titoli di coda di questo sceneggiato italiano chiamato “Processo a Massimo Bossetti”. Prima che escano di scena attori e comparse mi sento in dovere di esprimere il mio parere, un pensiero non solo da tecnico e da “comparsa” in questo processo ma soprattutto da cittadino. Se l’Illustrissimo Presidente di Corte, a mio parere unico baluardo di correttezza e di umanità fra i cosiddetti tecnici del diritto, e i giurati tutti potessero vedere con i loro occhi e prendere contezza di una sola minima parte di ciò che ho potuto vedere io sulle indagini compiute dalla Procura “che non hanno pari sicuramente in Italia ma nemmeno nel mondo”, sono certo che lascerebbero aula o camera di consiglio che sia disgustati e molto amareggiati dalla richiesta di epilogo di quello che ho chiamato sceneggiato italiano.
Come poter giungere a sentenza davanti a macroscopici errori e leggerezze nelle indagini? Come poter comminare l’ergastolo a un uomo quando il castello accusatorio è costellato di “non si può dire molto di più”, di “è stato faticoso andare avanti”, di “non è possibile ricostruire con certezza la dinamica della morte di Yara Gambirasio”, di “esattamente come siano andate le cose nessuno è in grado di dirlo”. Francamente non so in che modo si possa sentenziare di fronte a tante perplessità e neppure so come sarà il finale, ma qualcosa voglio cercare di spiegare. Il DNA di Massimo Bossetti, la cosiddetta prova regina, è così prova che anche il Pubblico Ministero deve dilungarsi mezz'ora a citare sentenze di Cassazione per convincere (convincersi) che è prova e non indizio. Sarebbe un elemento importante per l’accusa se non fosse che nel corso del dibattimento è stata accertata un’anomalia. E il Pubblico Ministero allora come risolve il problema? Dice semplicemente, con una certa nonchalance, che non è necessario dirimere qui (a dibattimento) questo problema: “non possiamo dare delle spiegazioni”. Ma come! C’è un problema sulla prova regina e non è in sede dibattimentale che occorrerebbe giungere a certezza, posto che all'esito dell’istruttoria i giurati sono chiamati a giudicare? E quale sarebbe la sede allora? Certo, per uscire dall'empasse è molto meglio per l’accusa gettare discredito sul consulente della difesa, su Marzio Capra che viene definito un inventore di termini che soffre di strabismo nell'interpretare i dati e che difetta di esperienza. Un vicecomandante del Ris che difetta di esperienza? Veniamo al furgone di Massimo Bossetti che la sera della scomparsa di Yara sarebbe transitato, in un orario compatibile con l’uscita della ragazzina dalla palestra, sulla via adiacente al centro sportivo. Lungi dal ripercorrere tutta la vicenda sull'individuazione del mezzo (passo, fari, video confezionati ad hoc dagli inquirenti palesemente alterati per mero scopo mediatico) l’accusa sostiene che il furgone di Massimo Bossetti sarebbe transitato in prossimità della palestra alle 18:35 - 18:36, per poi tornare alle 18:37 - 18:44, orario compatibile con l’uscita di Yara, che per l'accusa sarebbe avvenuta attorno alle 18:41, prendendo come riferimento l’orario fissato dall'ultimo teste che l’ha vista. Ma cosa succede se, come relazionato in dibattimento, sono errati sia gli orari di passaggio del presunto furgone di Bossetti che dell’uscita di Yara dalla palestra? Ed è proprio così perché l’allineamento delle telecamere operato dalla Procura è sbagliato e, come spiegato dal sottoscritto, se quello fosse il furgone di Bossetti sarebbe transitato sotto la telecamera Shell alle 18:34 per poi ripassare alle 18:37, mentre Yara sarebbe uscita non alle 18:41 come vuole l'accusa ma, addirittura, dieci minuti dopo. La prova di questo ci viene fornita dal passaggio sotto la stessa telecamera Shell del testimone che solo dopo aver parcheggiato ed essere entrato in palestra riferisce di aver visto Yara camminare verso l'uscita. L'auto del teste transita sotto la telecamera, e viene ripresa, alle ore 18:48. Per cui quell'uomo non può essere entrato in palestra alle 18:41...Ma questo elemento è stato sottaciuto dall'accusa. Perché? Forse perché provava che Bossetti era già transitato da un bel pezzo e non avrebbe certamente potuto incrociare Yara? E allora iniziamo a sommare gli elementi partendo dal DNA con molte problematiche e dagli orari sbagliati delle telecamere che non consentono di collocare Bossetti nel luogo in cui la vittima viene vista l'ultima volta in vita. Proseguiamo? L’accusa procede con l’esame di fibre sugli indumenti di Yara, fibre che potrebbero provenire dai sedili del furgone appartenente a Bossetti. Ma lo fa senza considerare e dire ai giudici che la casa produttrice ha utilizzato le medesime fibre per oltre 150.000 sedili (il furgone in dotazione al centro sportivo che tipologia di sedili ha? Forse le medesime fibre?). Poi arriva alle particelle di ferro sugli abiti di Yara, particelle che possono provenire da chi lavora il ferro, ovvero da chi esegue lavori di fresatura. Questo lo dice lo stesso PM che parla di “un fabbro o di un tornitore”. In pratica la PM parla chi lavora nel settore della carpenteria metallica non considerando il fatto che Bossetti non lavora il ferro, che lui è un carpentiere edile. Che c'entra quindi con le sferette? Ed ora giungiamo agli accertamenti informatici, alle ormai famose ricerche su “ragazzine vergini” e simili. E' possibile giungere a un giudizio di colpevolezza dell’imputato per questo elemento, peraltro incerto posto che la pedopornografia non è stata per nulla dimostrata? C’è solo da rabbrividire se le ricerche su un computer vengono portate a suffragio di una richiesta di ergastolo. La logica conclusione, anche se di logico c’è ben poco, è la seguente: Non c’è modo di individuare alcun tipo di movente in questa vicenda, dato che non ci sono elementi probatori per dire che Yara Gambirasio e Massimo Bossetti si conoscessero. Lavorando di fantasia si potrebbe dire che lui l'ha incontrata per caso, ma da quel luogo se è transitato è transitando oltre 10 minuti prima della eventuale uscita della ragazzina dalla palestra, e dopo averla adocchiata l'ha convinta facilmente a salire sul furgoncino e poi... bisogna lavorare di molto con l'immaginazione. Cari giudici di Corte d’Assise, l’accusa vi invita a condannare utilizzando l’immaginazione perché in questo sceneggiato italiano è rimasta solo quella a disposizione, solo quella da poter usare come metro di giudizio per scrivere il finale. Una sola domanda affolla i miei pensieri e sovrasta ogni altra perplessità: perché mai l’accusa non ha voluto considerare piste alternative? Perché mai quando in dibattimento si sfiorava la circostanza il Pubblico Ministero si affannava a ribadire: "non è questa la sede", e che per alcuni (tipo il soggetto noto il cui DNA è stato trovato in abbondanza sul polsino del giubbotto indossato da Yara) si sono svolte intercettazioni e non è emerso nulla? Forse ci si aspettava una confessione telefonica a distanza di anni dall'omicidio? Ed ancora: tutto il materiale non fornito alla difesa a giudizio del Pubblico Ministero era già stato esaminato in fase di indagine e considerato irrilevante. Ma questa è una buona giustificazione? Perché essere certi che la difesa non possa trovare in quel materiale altri elementi validi? Forse si aveva paura che, nel caso ne avesse trovati, crollasse tutta la trama dello sceneggiato “faticosamente” costruito anche con testimonianze forzate... per non dire non veritiere? L'ultimo mio pensiero è una semplice domanda, è un perché. Perché in un'aula di giustizia si forzano gli orari, si sorvola su un DNA anomalo, si attaccano i consulenti di parte bollandoli come cialtroni per screditare il loro lavoro, si ascoltano testimoni che dicono cose suggerite? La risposta è nelle parole del Pubblico Ministero: dopo oltre 25.700 DNA acquisiti, dopo indagini alla cieca che hanno “spaccato la testa” agli inquirenti e comportato costi enormi ai cittadini “doveva valere la pena" trovare un colpevole. Il che è differente dal può essere trovato il colpevole. Ma tant'è, si deve mantenere una sorta di credibilità e di istituzionalità per non screditare il comunicato stampa del Ministro Alfano in cui annunciava alla nazione la cattura dell’assassino di Yara Gambirasio e tesseva le lodi di tutti i reparti del Ministero che con grande caparbietà avevano lavorato per per ottenere giustizia. Doveva e deve valere la pena. In questo dovere verso lo Stato Italiano è racchiuso il futuro di Massimo Bossetti...
Bossetti, parla la sorella Laura Letizia. «Sei innocente, e presto sarai a casa». Due anni fa l’arresto dell’uomo, accusato di avere ucciso Yara Gambirasio. Giovedì alle 20,30 la sorella parla a Telelombardia, scrive “L’Eco di Bergamo” il 16 giugno 2016. Laura Letizia Bossetti, sorella di Massimo, il carpentiere di Mapello in carcere da due anni (venne arrestato proprio due anni fa, il 16 giugno 2014) perché accusato di avere ucciso Yara Gambirasio ha rilasciato una lunga intervista alla trasmissione televisiva «Iceberg» di Telelombardia. Verrà messa in onda questa sera alle 20,30. Per gentile concessione dell’emittente, ecco un estratto.
Continuate a credere nell’innocenza di Massimo Bossetti?
«Dall’inizio fino alla fine lo porteremo avanti perché non è lui. Si sta evidenziando tutto l’opposto dell’accusa, stanno smontando tutto che come sempre ha ripetuto massimo dal 16 giugno 2014, che non è lui e lo stiamo vedendo adesso».
Cosa ha pensato quando ha ricevuto la lettera dal carcere di suo fratello in cui minacciava il suicidio?
«È da capire, due anni in carcere da innocente, quattro mesi e mezzo di isolamento. Gli hanno fatto di tutto e di più. Gli facevano entrare la posta che volevano, non facevano arrivare a casa le raccomandate anche a noi. E poi bisogna capire anche la morte del papa’ che era molto legato. Ma non sarebbe mai arrivato a questo».
Si è voluto solo sfogare?
«Non avrebbe mai pensato al suicidio, è la stanchezza dovuta a tutto questo. Lui non c’entra e l’ha sempre detto dall’inizio».
Si è parlato molto della corrispondenza con la signora Gina...
«C’è da prendere in evidenza le altre parti di Massimo, perché Massimo è sempre quello che abbiamo detto noi: casa, un gran lavoratore, un uomo di cuore pronto ad aiutare il prossimo e che ha sempre rispettato gli altri. Specialmente le bambine. Non ha mai fatto del male a una persona. Non è lui che ha provocato questo delitto osceno».
Secondo lei si è pentito di aver scritto queste lettere alla Gina?
«Ultimamente non facevano arrivare le corrispondenze a noi, poi è tutto un insieme di cose. Dopo due anni che è lì ha trovato - non so spinto da chi o che cosa - ha iniziato a parlare, comunicare come se fosse una persona normale. Né di più né di meno. Sicuramente ha sbagliato, perché è una cosa evidente. Però bisogna capire anche il posto in cui si trova».
Cosa vorrebbe dire a suo fratello?
«Siamo tutti convinti della tua innocenza, vai avanti così che i tuoi avvocati stanno dando il massimo e vedrai che presto sarai a casa con la tua famiglia e i tuoi figli».
Quanto le manca?
«Tantissimo, una vita. Perché per me lui è la vita mia. Spero di abbracciarlo presto, non solo io. Tutti i familiari, tutti quelli che hanno sempre creduto in lui. E che stanno lavorando anche per lui. Specialmente anche di trovare il vero colpevole per la piccola Yara Gambirasio».
17 GIUGNO 2016. QUARANTTREESIMA UDIENZA. LE REPLICHE.
Il pm contro la difesa: tesi assurde. «Bossetti voleva incolpare Maggioni». Siamo al rush finale: questa mattina in Tribunale a Bergamo si è aperta l’udienza numero 44 per Massimo Bossetti, unico accusato per la morte di Yara Gambirasio. Lunghe code per entrare: per accaparrarsi un posto in aula c’è chi è arrivato alle 5.30, scrive “L’Eco di Bergamo”. Si tratta della penultima udienza prima della sentenza: in aula ha preso la parola il pubblico ministero Letizia Ruggeri per replicare alle arringhe degli avvocati difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini, i quali potranno a loro volta contro-replicare. Nell’udienza numero 45, in programma il 1° luglio, sono invece previste dichiarazioni spontanee dell’imputato e, infine, la sentenza. La scorsa settimana da ricordare la parte finale dell’udienza in cui il muratore di Mapello è intervenuto rispondendo al suo avvocato. «Massimo, ho studiato te e il tuo mondo: se sei innocente non confessare». Così Paolo Camporini, uno dei legali di Massimo Bossetti, unico imputato al processo per il sequestro e l’omicidio di Yara Gambirasio, si è rivolto al suo assistito, a conclusione della lunga arringa difensiva. «Mai e poi mai!» è stata la risposta del muratore di Mapello. «Ti hanno demolito come uomo, come figlio, come padre» ha detto ancora l’avvocato, che ha concluso invitando la corte a «non condannare un innocente». Contro Bossetti – sostengono Camporini e l’altro legale, Claudio Salvagni – sarebbero stati usati «metodi da Mani Pulite», mentre la richiesta di ergastolo formulata dal pm Letizia Ruggeri nella requisitoria «è illegale» e «contro la Costituzione», perché si tratterebbe di «una pena di morte mascherata». Lunghe code per entrare e assistere all’udienza: c’è chi si è presentato davanti al Tribunale di Bergamo alle 5.30. In aula anche la moglie Marita con il fratello Agostino. Letizia Ruggeri ha preso la parola smontando, pezzo dopo pezzo, le tesi della difesa del muratore di Mapello: «Le dichiarazioni di Massimo Bossetti - ha detto il pm - esorbitano dal normale diritto di difesa: voleva incolpare Maggioni sapendo che era innocente e ha fornito elementi precisi per portarci a lui». Il pm ha parlato anche di dna: «Si dice che è a metà, perchè manca il mitocondriale. Il dna nucleare è l’unico capace di individuare una persona, tutti i genetisti sono d’accordo». Parole molto dure contro il consulente della difesa Capra che è stato accusato: «Le sue dichiarazioni sono state in mala fede», contestando fortemente anche la tesi della difesa sul ritrovamento del cadavere: «Assurde le ipotesi che il corpo sia stato spostato e il cadavere spogliato e rivestito: tesi supportate dal nulla».
Niente tv e fotografi per la sentenza. Bossetti, in aula il 1° luglio alle 9. La Corte ha deciso: niente televisioni nè fotografi per la sentenza del processo a Massimo Bossetti, scrive “L’Eco di Bergamo”. A chiedere il divieto delle riprese il pm di Bergamo Letizia Ruggeri, a conclusione della sua replica: ha chiesto alla corte di revocare l’ordinanza con la quale ammetteva le riprese televisive della lettura della sentenza del processo per l’omicidi di Yara Gambirasio. Questo a causa «del clima avvelenato» che si è venuto a creare intorno al dibattimento. Difesa e parte civile si sono rimesse alla Corte che ha accettato la richiesta del pm. L’appuntamento ora è per il 1° luglio alle 9, senza ritardi e in un clima di grande attesa. Nel frattempo la difesa è intervenuta nella parte finale dell’udienza di venerdì 17 giugno: «Non c’è un solo punto che sia esente da criticità e che rispetti tutti i crismi - ha detto Claudio Salvagni -. Questo processo è all’insegna dei dubbi, con un grandissimo dubbio: il dna». «Ci sono più anomalie che marcatori» continuano Claudio Salvagni e Paolo Camporini: «Il dibattimento non ha affatto chiarito i dubbi, bensì li ha amplificati. Ed è per questa ragione che Bossetti deve essere assolto».
Caso Yara, giudici: "No a telecamere per lettura sentenza". Nessun problema, invece, riguardo le registrazioni audio. E su Bossetti: "Il Dna è un autografo", scrive “Il Giorno”. Caso Yara, i giudici della corte d'assise di Bergamo, come chiesto dal pm Letizia Ruggeri, non hanno ammesso le telecamere in aula per la lettura della sentenza a carico di Massimo Bossetti, imputato per l'omicidio di Yara Gambirasio. La decisione della Corte d'Assise di Bergamo di non ammettere in aula le telecamere nemmeno il 1 luglio prossimo, alla lettura della sentenza, è motivata anche dal fatto che "la corte e io stessa - ha spiegato la presidente Antonella Bertoja - ha avuto contatti epistolari con terzi al limite della minaccia". E quindi "per tutelare la riservatezza dei giudici e delle parti" si è preferito evitare le riprese, anche se la presidente assicura che verrà comunque tutelato il diritto di cronaca. La richiesta alla corte era arrivata dal pm di Bergamo Letizia Ruggeri, a conclusione della sua replica. Questo a causa 'del clima avvelenato', aveva detto, che si è venuto a creare intorno al dibattimento. "Credo, invece, che non vi siano problemi - aveva aggiunto - per quanto riguarda le registrazioni audio". Il pm non ha fatto riferimento a fatti specifici ma, nelle settimane scorse, due buste, contenti dei proiettili, erano state trovate in un centro di distribuzione postale indirizzate sia al magistrato sia alla Corte d'Assise di Bergamo. Tempo fa, invece, in conseguenza di minacce e ingiurie via web, alla stessa Letizia Ruggeri era stata data una speciale sorveglianza. La difesa e le parti civili si erano poi rimesse alla Corte d’Assise di Bergamo, presieduta dal giudice Antonella Bertoja. Il verdetto è previsto per il primo di luglio. Bossetti, in carcere da due anni (arrestato il 16 giugno 2014), è l’unico imputato dell’omicidio pluriaggravato, consumatosi il 26 novembre 2010. PM: "DNA E' AUTOGRAFO" - Oggi, il pm Ruggeri ha comunque argomentato per circa un'ora e mezza, venendo più volte richiamata dal presidente "per rimanere nei limiti della replica". Ruggeri ha sottolineato: "Questo non è un processo indiziario come si vorrebbe fare credere. C'è la prova del dna, ci sono indizi gravi, precisi, concordanti, come vuole la legge". E ancora: "Il dna è sul cadavere neanche se l'assassino avesse firmato sarebbe così chiaro. E' un autografo". Inoltre, il pm parla del "furgone di Bossetti, ripreso per sette volte dalle telecamere la sera del 26 novembre 2011, nella zona della palestra", ma anche delle fibre di tessuto trovate sui vestiti di Yara, che rimandano a quelle dei sedili dell'Iveco Daily bianco, appartenente al muratore di Mapello, e alla polvere di calce. Viene anche ricordato che l'imputato aveva raccontato di essere stato dal commercialista, ma che quest'ultimo aveva detto di non averlo incontrato. Poi, Ruggeri ha fatto riferimento ai colloqui intercettati in carcere tra Bossetti e Marita. Come quella che per l’accusa è una sorta di confessione da parte dell’imputato. L’accusa evidenzia infine come, in base alle celle telefoniche, risulti che alle 17.45 Bossetti si trovava in un luogo compatibile a Brembate. Subito dopo l’accusa è stato il turno dell’avvocato Andrea Pezzotta, che assiste la mamma di Yara, Maura Panarese (padre e sorella sono assistiti invece dall’avvocato Enrico Pelillo). Pezzotta è tornato in particolare sul campo di Chignolo. L’accusa è convinta che lì si sia consumato il delitto. Secondo la difesa, invece, Yara sarebbe stata portata successivamente nel campo. Per Pezzotta sono significativi i fili d’erba che la vittima stringeva nella mano sinistra. Il legale ricorda che si tratta di quattro diverse essenze e che dalla mappatura del campo risulta che si concentravano vicino al cadavere. "Bastava allontanarsi di un metro e mezzo e già non c’erano più. È vero che si tratta di essenze comuni - fa notare Pezzotta -, ma il fatto che ci fossero tutte e quattro solo in quel punto, è straordinario". Rafforzerebbe cioè la ricostruzione dell’accusa: la ragazzina era ancora viva, a Chignolo. Nella vicenda che ha portato al processo a Massimo Bossetti, per il quale è stato chiesto l'ergastolo per l'omicidio di Yara Gambirasio, a proposito del Dna "vi sono più anomalie che marcatori". A sostenerlo sono stati, nel corso delle loro repliche, gli avvocati difensori del muratore di Mapello. Secondo gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, "il dibattimento non ha affatto chiarito i dubbi, bensì li ha amplificati". Ed è per questa ragione che Bossetti deve essere assolto.
Da Bossetti in poi, il test del Dna sbaglia eccome. Le tracce di codice genetico a volte mentono: una ricerca della Sapienza ha dimostrato che l’impronta biologica di un individuo può trovarsi su un oggetto o una persona che non ha mai toccato, ma sui cui è stata semplicemente “trasferita” da altri, scrive Valentina Stella il 28 Giugno 2016 su “L’Inkiesta”. È prevista per il primo luglio la sentenza su Massimo Bossetti, accusato di aver provocato la morte di Yara Gambirasio. Il terreno di scontro tra accusa e difesa ha visto come protagonista il Dna. Per il pm Letizia Ruggeri il «Dna di Bossetti è perfetto e non contaminato. Non vi sono spazi di discussione per quanto riguarda la validità del lavoro scientifico svolto dal Ris e dai consulenti». Gli avvocati del muratore di Mapello, Claudio Salvagni e Paolo Camporini, sostengono invece che «c'è solo un mezzo Dna contaminato» e che, come dichiarato all'AdnKronos, la custodia e la conservazione della traccia biologica «sono il tallone d'Achille» di un'indagine «con troppe anomalie». Ricordiamo che prima di identificare Massimo Bossetti sono stati prelevati circa 18000 campioni genetici nella provincia di Bergamo, per una spesa di quasi 3 milioni di soldi pubblici. Non è questa la sede per una sentenza, ma il luogo, traendo spunto da questo cruento fatto di cronaca, per aprire una discussione sul test del Dna. Come racconta la famosa giallista Val Mcdermid in Anatomia del crimine - Storie e segreti delle scienze forensi (Codice Edizioni), da due mesi in libreria, negli anni novanta investigatori di mezza Europa erano all'inseguimento di quello che fu poi soprannominato il "Fantasma di Heilbron", una serial killer "apparentemente sovrumana", il cui Dna fu repertato in diversi omicidi e rapine tra Austria, Francia e Germania. Solo nel 2009 si scoprì che i tamponi di cotone usati per il prelievo del Dna dalle scene del crimine, prodotti tutti da una stessa ditta in cui erano impiegate donne dell'Europa dell'Est, non erano conformi agli standard e quindi il Dna delle lavoratrici, che si era sparso per tutta Europa veicolato da quei tamponi, combaciava con quello fantasma. Il "Fantasma di Heilbron", una serial killer "apparentemente sovrumana", il cui Dna fu repertato in diversi omicidi e rapine tra Austria, Francia e Germania. Solo nel 2009 si scoprì che i tamponi di cotone usati per il prelievo del Dna dalle scene del crimine, prodotti tutti da una stessa ditta in cui erano impiegate donne dell'Europa dell'Est, non erano conformi agli standard e quindi il Dna delle lavoratrici, che si era sparso per tutta Europa veicolato da quei tamponi, combaciava con quello fantasma. Autunno 2011: una donna viene brutalmente stuprata a Manchester. Il primo indiziato è il giovanissimo Adam Scott, il cui Dna viene rinvenuto sul corpo della vittima. Il ragazzo si difende dicendo che la notte dell'aggressione era a centinaia di chilometri di distanza. Viene comunque sbattuto dietro le sbarre nello stesso braccio di pedofili e stupratori. Solo dopo cinque mesi di carcere si scopre che è stato vittima di una contaminazione tra campioni di Dna nel laboratorio del LCG Forensic: mesi addietro a Scott era stato prelevato un campione di saliva, a seguito di una rissa. Ebbene, i tecnici forensi avevano appoggiato il suo campione su un vassoio di plastica che era stato poi riutilizzato per lo stupro di Manchester. Dicembre 2012: un senzatetto di nome Lukis Anderson viene accusato dell'omicidio di Raveesh Kumra, multimilionario della Silicon Valley, sulla base di prove del DNA. Le sue tracce biologiche vengono rinvenute sul cadavere. Per Anderson si sarebbero aperte le porte del braccio della morte. Ma - primo colpo di scena - il barbone è innocente, avendo dimostrato di avere un alibi; infatti la notte dell'omicidio era ricoverato in stato comatoso in un ospedale della città. E qui arriva il secondo colpo di scena: il Dna di Anderson, hanno dimostrato i suoi legali, è finito sul corpo di Kumra trasportato inconsapevolmente da paramedici che prima hanno assistito il senzatetto e poi sono corsi, senza ripulirsi a fondo, sul luogo del delitto, per tentare di rianimare l'uomo ormai morente, lasciando su di lui tracce di fluidi corporei di Anderson. «Il Dna non mente. Rappresenta una prova eccezionale e schiacciante, ma nel processo di analisi esiste anche una interazione umana. La probabilità di errore è microscopica ma maggiore di zero». Questa ultima storia è stata riproposta nel mese di giugno dalla prestigiosa rivista Scientific American che titola When DNA implicates the Innocent. Cosa se ne deduce? Che, involontariamente o a causa di una inadeguatezza del tecnico forense, i campioni biologici possono degradarsi, contaminarsi, o trasferirsi. Su quest'ultimo eventuale fattore di errore, la discussione si focalizza sul concetto di "touch DNA", ultima frontiera della genetica forense che studia piccole tracce di Dna estratte ad esempio da cellule della pelle lasciate su un oggetto dopo che è stata toccato o casualmente maneggiato. Uno studio della Sapienza, coordinato da Antonio Filippini e Carla Vecchiotti, e pubblicato sulla rivista internazionale di Medicina Forense, Forensic Science International: Genetics, ha dimostrato invece che questo tipo di traccia rilevata sulla scena di un crimine non costituisce tassativamente la firma genetica dell’assassino o autore di altro reato. I ricercatori infatti hanno dimostrato che l’impronta biologica di un individuo può trovarsi su un oggetto o una persona che non ha mai toccato, ma sui cui è stata semplicemente “trasferita” da altri. Dobbiamo concludere che il test del Dna non è così radicale e granitico come abbiamo sempre pensato? No, come sostiene la dottoressa Gillian Tully, Forensic Science Regulator del Governo Britannico: «Il Dna non mente. Rappresenta una prova eccezionale e schiacciante, ma nel processo di analisi esiste anche una interazione umana. La probabilità di errore è microscopica ma maggiore di zero».
Bergamo, il direttore del carcere: “Bossetti crede nell’assoluzione”. Il carpentiere di Mapello, imputato per il delitto di Yara, aspetta con fiducia il verdetto, come racconta Antonio Porcino: "Lo incontro spesso", scrive Mauro Paloschi il 29 giugno 2016 su “Bergamo News”. Mancano ormai pochi giorni alla sentenza del processo a carico di Massimo Giuseppe Bossetti. Venerdì 1 luglio la Corte d’Assise del tribunale di Bergamo, presieduta dal giudice Antonella Bertoja, esprimerà il verdetto sul carpentiere 45enne di Mapello, unico imputato per il brutale delitto di Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate Sopra scomparsa il 26 novembre 2010 e ritrovata cadavere tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola. Bossetti, rinchiuso nella casa circondariale di via Gleno a Bergamo dal 16 giugno 2014, aspetta con fiducia la sentenza, come racconta il direttore del carcere Antonio Porcino: “Lo incontro spesso – le parole di Porcino -, sta aspettando tranquillamente e serenamente la sentenza di venerdì. Come tutti i detenuti spera in un’assoluzione. Il suo comportamento qua? Nulla di particolare da segnalare”. Porcino spiega poi la situazione del carcere bergamasco, migliore in termini di vivibilità rispetto a tante altre realtà italiane: “Abbiamo 520 detenuti con posizioni giuridiche miste, tra cui anche diversi imputati in attesa di processo. Manteniamo un occhio di riguardo nel rispettare la dignità delle persone e su questo il territorio ci dà una grossa mano. L’obiettivo è quello di restituire alla società un cittadino migliore. Per quanto riguarda gli spazi, dopo la sentenza della comunità europea, qua da noi ogni detenuto ha a disposizione almeno tre metri quadrati”.
Yara, Bossetti e le dichiarazioni spontanee al processo: "Parlerà con il cuore". L'avvocato Claudio Salvagni parla del suo assistito a pochi giorni dalla sentenza: "Le sta scrivendo da solo, sarà convincente", scrive “Today” il 24 giugno 2016. In attesa della sentenza del processo, prevista per venerdì primo luglio, sta preparando le dichiarazioni spontanee da rendere nell'aula del tribunale di Bergamo. E lo sta facendo da solo. A parlare di Massimo Bosetti, l'uomo accusato per l'omicidio di Yara Gambirasio, è l'avvocato Claudio Salvagni ai microfoni della trasmissione “Legge o giustizia”, condotta da Matteo Torrioli su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. "Dichiarazioni spontanee di Bossetti? Non so cosa dirà, so che stava preparando le dichiarazioni, le stava scrivendo, è giusto che lo faccia da solo. Io le leggerò, ma è giusto che non intervenga perché sono dichiarazioni personali, come sempre parlerà con il cuore e sarà convincente, come lo è stato con noi”, ha aggiunto il legale che chiede l’assoluzione per il suo assistito, per il quale l’accusa ha invece chiesto la condanna all’ergastolo. E mentre i giudici della Corte d’Assise presieduta da Antonella Bertoja hanno accolto la richiesta del pm Letizia Ruggeri di dire "no" alle telecamere in aula per la lettura della sentenza di primo grado, Salvagni attacca: "In tutti i delitti di questo tipo c’è sempre un collegamento tra la vittima e l’assassino –ha affermato il legale - Nel processo Bossetti non c’è alcun elemento che faccia presumere che Bossetti e la vittima si conoscessero, anzi le risultanze processuali dicono il contrario, ovvero che non si sono mai incontrati".
Bossetti si prepara per il giorno più lungo. «Fiducioso, la verità deve venire a galla». È «fiducioso» e ripete: «Sono innocente e la verità deve venire a galla» in questi giorni Massimo Bossetti, per il quale venerdì 1° luglio è attesa la sentenza dei giudici della Corte d’Assise di Bergamo per l’omicidio di Yara Gambirasio, scrive “L’Eco di Bergamo” il 30 giugno 2016. I suoi legali l’hanno visitato mercoledì in carcere e l’hanno trovato «sereno» in vista delle dichiarazioni spontanee di domani mattina, dopo le quali i giudici si riuniranno in camera di consiglio per uscirne con il verdetto. Il pm Letizia Ruggeri ha chiesto per Bossetti l’ergastolo e sei mesi di isolamento diurno. Il muratore «parlerà con il cuore», ha detto Salvagni il quale ha aggiunto che «noi non abbiamo in alcun modo influito sulle sue dichiarazioni che ha scritto in questi giorni: gli abbiamo solo consigliato di evitare di parlare di aspetti processuali che noi abbiamo già affrontato. Parlerà quindi di sé e ribadirà di essere innocente».
1 LUGLIO 2016. QUARANTAQUATTRESIMA UDIENZA. LA SENTENZA.
Processo Bossetti: tribunale assediato. Ultima udienza, sentenza attesa in serata. L’alba di oggi non era ancora spuntata, che già i più irriducibili fra gli aspiranti membri del pubblico erano in coda, in attesa dell’apertura dei cancelli, pronti a tutto per accaparrarsi un posto in aula, scrive “L’Eco di Bergamo”. Un vero e proprio assedio fuori dal Tribunale di via Borfuro, dove è in programma l’ultima udienza del processo a carico di Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio. Sarà una giornata convulsa. Sono attesi giornalisti, fotografi e cameramen da tutta Italia. Gli agenti della questura, i carabinieri e la polizia locale, oltre alle guardie del Gsi Security Group che effettuano la vigilanza all’interno del Tribunale, si adopereranno per garantire l’ordine. L’udienza finale, la 45ª del processo, inizierà alle 9. Prenderà la parola l’imputato, per dichiarazioni spontanee. Le ultime, prima del verdetto. Cercherà di convincere la Corte d’Assise presieduta da Antonella Bertoja (a latere Ilaria Sanesi e 6 giudici popolari, più un supplente) della sua innocenza, che va sostenendo dall’inizio del processo e, ancor prima, dalla data del suo fermo come presunto autore del delitto (era il 16 giugno 2014). «Sono innocente e la verità deve venire a galla», ha ribadito Bossetti anche al suo avvocato difensore, Claudio Salvagni, durante la visita in carcere di mercoledì mattina da parte del legale, l’ultima prima della sentenza. «Massimo parlerà con il cuore», ha detto l’avvocato Salvagni, specificando di non aver «in alcun modo influito sulle sue dichiarazioni, che ha messo per iscritto in questi giorni e leggerà alla Corte, per non rischiare di farsi prendere dall’emozione e perdere il filo del discorso». Dopodiché la Corte si ritirerà per deliberare e non uscirà dalla camera di consiglio se non a verdetto raggiunto (probabilmente entro la serata).
Bossetti, sentenza non prima delle 20. «Non sono un assassino». Condanna o assoluzione. È il giorno della sentenza per Massimo Bossetti, accusato dell’omicidio della piccola Yara Gambirasio. Al termine dell’udienza finale, la 45° di questo lungo processo, verrà pronunciato il verdetto. In mattinata, come annunciato nei giorni scorsi, Bossetti ha preso parola per le dichiarazioni spontanee. Ha cercato di convincere la Corte d’Assise presieduta da Antonella Bertoja (a latere Ilaria Sanesi e 6 giudici popolari, più un supplente) della sua innocenza, che va sostenendo dall’inizio del processo e, ancor prima, dalla data del suo fermo come presunto autore del delitto (era il 16 giugno 2014). «Massimo parlerà con il cuore», ha detto l’avvocato Salvagni, specificando di non aver «in alcun modo influito sulle sue dichiarazioni, che ha messo per iscritto in questi giorni e leggerà alla Corte, per non rischiare di farsi prendere dall’emozione e perdere il filo del discorso». L’Eco di Bergamo segue l’udienza, come sempre, in diretta.
Ore 8.00 - Code all’ingresso del tribunale per assistere all’ultima udienza del processo. Fin dalle prime ore del mattino tante persone hanno atteso di entrare in tribunale.
Ore 8.40 - L’arrivo di Massimo Bossetti in tribunale. Durante la mattinata rilascerà dichiarazioni spontanee annunciate nei giorni scorsi dai suoi legali.
Ore 8.45 - In tribunale è arrivata anche la moglie di Massimo Bossetti, Marita Comi. La donna è sempre rimasta vicino a suo marito durante tutto il lungo processo.
Ore 9.05 - Arriva in via Borfuro l’avvocato Enrico Pelillo che rappresenta la famiglia di Yara Gambirasio.
Ore 9.20 - «Non vedevo il momento di poter parlare - ha detto Bossetti rivolto ai giudici della Corte d’Assise di Bergamo - non vedevo l’ora di potervi guardare negli occhi per spiegarvi che persona sono, che non è quella che è stata descritta da tanti in quest’aula». Bossetti, che indossa una polo azzurra e jeans e parla dal banco, accanto ai suoi avvocati, con voce rotta dall’emozione e leggendo un testo (“per non perdermi”) ha quindi ribadito: «Non sono un assassino».
Ore 9.39 - Massimo Bossetti inizia a rilasciare le sue dichiarazioni spontanee alla Corte.
Ore 9.52 - «Sarò uno stupido, sarò un cretino, sarò un ignorantone ma non sono un assassino: questo deve essere chiaro a tutti». «Quello che mi viene attribuito - ha proseguito - è vergognoso, molto vergognoso».
Ore 9.55 - «Ancora oggi vi supplico, vi imploro, datemi la possibilità di fare questa verifica, ripetete l’esame sul Dna, perché quel Dna trovato non è il mio. Se fossi l’assassino sarei un pazzo a dirvi di rifarlo».
Ore 9.58 - «È impossibile, molto difficile assolvere Massimo Bossetti, ma se mi condannerete sarà il più grave errore del secolo». Bossetti ha concluso il suo intervento ringraziando i giudici «per l’attenzione e la pazienza».
Ore 9.59 - La sentenza per Massimo Bossetti è attesa non prima delle 20.
Ore 10.04 - La Corte si riunisce in camera di consiglio.
Ore 10.16 - L’avvocato Salvagni: «Il passaggio sul dna è molto importante. Bossetti dice: sarei un pazzo, se fossi l’assassino, a richiedere nuovamente la prova. Già oggi dei dubbi ci sono».
Ore 10.25 - L’assedio dei giornalisti a Marita Comi fuori dal tribunale di Bergamo.
Ore 11 - La camera di consiglio è riunita.
Bossetti alla Corte: «Se mi condannate. Sarà il più grave errore del secolo». «Se mi condannerete sarà il più grave errore del secolo». Massimo Bossetti, imputato per l’omicidio di Yara Gambirasio, ha giocato le sue ultime carte. Durante l’ultima udienza del processo il muratore di Mapello ha cercato di convincere la corte della sua innocenza, scrive “L’Eco di Bergamo”. Bossetti si è presentato in tribunale con una polo azzurra e jeans, ha iniziato a parlare verso le 9.20 leggendo un testo scritto, a fianco dei suoi avvocati. «Non vedevo il momento di poter parlare - ha detto Bossetti rivolto ai giudici della Corte d’Assise - non vedevo l’ora di potervi guardare negli occhi per spiegarvi che persona sono, che non è quella che è stata descritta da tanti in quest’aula. Sarò uno stupido, sarò un cretino, sarò un ignorantone ma non sono un assassino: questo deve essere chiaro a tutti». Il presunto assassino di Yara Gambirasio si è poi rivolto al pubblico e ai giornalisti, voltandosi per guardarli: «Non è come sono stato dipinto. Sono stato denigrato, umiliato, su di me sono state dette cose vergognose. I miei avvocati mi difendono con convinzione, dopo un’indagine a senso unico. Ancora oggi vi supplico, vi imploro, datemi la possibilità di fare questa verifica, ripetete l’esame sul Dna, perché quel Dna trovato non è il mio. Se fossi l’assassino sarei un pazzo a dirvi di rifarlo. Sarei felice di incontrare i genitori della piccola Yara, di guardarli negli occhi perché conoscendomi saprebbero che l’assassino è ancora in libertà, poiché anche loro sono vittime di chi non ha saputo trovare il colpevole. E’ impossibile, molto difficile assolvere Massimo Bossetti, ma se mi condannerete sarà il più grave errore del secolo». Nel corso delle sue dichiarazioni spontanee nell’ultima udienza del processo per l’omicidio di Yara Gambirasio, Massimo Bossetti, oltre a ripetere più volte di essere «una persona di cuore» che viveva soltanto «per mia moglie e per i miei figli», ha voluto anche raccontare «un episodio» per descriversi, spiegando di aver «adottato a distanza» un bimbo di una famiglia in Messico. «Mi sono sentito gratificato perché il mio aiuto si è reso utile e ho dato la possibilità a un bambino di proseguire gli studi come vorrebbero tutti per i propri figli». Più volte, poi, il muratore di Mapello ha detto di essere stato «insultato, denigrato e anche istigato a confessare qualcosa che non potevo confessare, perché io non sono la persona che è stata dipinta in quest’aula». Al termine delle dichiarazioni ha detto che lui sta «già subendo un ergastolo, due anni di vita rovinata», spiegando anche che «accetterò il verdetto qualunque esso sia perché pronunciato in assoluta buona fede».
Intervista alla sorella di Bossetti «Massimo è innocente, non è stato lui». Non ha mai mancato un’udienza del processo che vede imputato il fratello gemello Massimo Bossetti e anche prima dell’atto finale, la sentenza che verrà pronunciata intorno alle 20 di venerdì 1 luglio, Laura Letizia Bossetti sostiene con forza l’innocenza del presunto omicida di Yara Gambirasio: «Da due anni attendiamo questa risposta. Fin dall’inizio abbiamo detto che quello non è il suo dna. Gli inquirenti hanno fatto degli sbagli e chi ha sbagliato dovrebbe iniziare a parlare. Io voglio la verità, l’assoluzione per mio fratello e giustizia per la piccola Yara Gambirasio. Finché avrò fiato lo ripeterò: mio fratello non è l’assassino».
Bossetti, è ergastolo. Condannato per l’omicidio di Yara. La sentenza della Corte d’Assise di Bergamo per il muratore di Mapello accusato di aver ucciso la tredicenne Yara Gambirasio, scomparsa a Brembate Sopra il 26 novembre 2010 e trovata morta a Chignolo d’Isola tre mesi dopo, scrive “L’Eco di Bergamo”. La Corte d’Assise ha emesso il verdetto nella serata di venerdì 1° luglio, poco dopo le 20,30: ergastolo per Massimo Bossetti, muratore di Mapello arrestato nel 2014 con l’accusa di aver ucciso Yara Gambirasio. La Corte ha stabilito anche una risarcimento provvisionale di 400 mila euro a testa per i genitori di Yara e 150 mila per ciascun fratello della ragazzina. Bossetti è stato invece assolto dall’accusa di aver calunniato il collega Maggioni: il fatto, secondo i giudici, non sussiste. Non è stata accolta la richiesta di isolamento. Con la condanna all’ergastolo, i giudici della Corte d’assise di Bergamo hanno inoltre tolto la potestà genitoriale a Massimo Bossetti in relazione ai suoi tre figli, tuttora minori. La prova del Dna è stata «decisiva». Lo ha detto il procuratore di Bergamo Massimo Meroni commentando la condanna all’ergastolo per Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio. «Siamo arrivati a metà strada nel senso che questa è una sentenza di primo grado, è stata un’inchiesta difficile e la collega Ruggeri è stata fantastica», ha aggiunto. La sentenza è arrivata dopo la 45a udienza di un processo difficile, accompagnato spesso da polemiche, sul quale l’attenzione di media locali e nazionali è stata ai massimi livelli. In mattinata Bossetti ha preso parola per le dichiarazioni spontanee, cercando di convincere la Corte d’Assise presieduta da Antonella Bertoja (a latere Ilaria Sanesi e 6 giudici popolari, più un supplente) della sua innocenza, che va sostenendo dall’inizio del processo e, ancor prima, dalla data del suo fermo come presunto autore del delitto (era il 16 giugno 2014). «Ancora oggi vi supplico, vi imploro, datemi la possibilità di fare questa verifica – ha detto in aula –, ripetete l’esame sul Dna, perché quel Dna trovato non è il mio. Se fossi l’assassino sarei un pazzo a dirvi di rifarlo. Sarei felice di incontrare i genitori della piccola Yara, di guardarli negli occhi perché conoscendomi saprebbero che l’assassino è ancora in libertà, poiché anche loro sono vittime di chi non ha saputo trovare il colpevole». Parole che non sono servite a convincere i giudici.
Le prime parole: «Non è giusto». I legali: convinti della sua innocenza. «Non è giusto». È la prima reazione di Massimo Bossetti dopo la condanna all’ergastolo per l’omicidio della tredicenne Yara Gambirasio avvenuto il 26 novembre del 2010. Lo hanno riferito i suoi legali, scrive “L’Eco di Bergamo”. «Sono amareggiato perchè la convinzione dell’innocenza è forte. Noi siamo veramente convinti della sua innocenza». Lo ha detto uno dei legali di Bossetti, l’avvocato Claudio Salvagni, dopo la condanna all’ergastolo del suo assistito per l’omicidio di Yara Gambirasio. «Queste 45 udienze - ha aggiunto - non hanno restituito nessuna prova a suo carico. È un processo indiziario». Salvagni ha ricordato che si tratta di una sentenza di primo grado e che vige il principio di non colpevolezza. «È stata una mazzata grossissima, avevo fiducia nella giustizia». È lo sfogo Massimo Bossetti dopo la condanna all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio così come riportato dai suoi legali, gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini. I due legali hanno detto che «è come se gli fosse piombato una carro armato sulla testa».
«Ora sappiamo chi è stato. Ma nessuno ci ridarà nostra figlia». La mamma di Yara, Maura, ha parlato con legali subito dopo la lettura della sentenza che ha condannato Massimo Bossetti all’ergastolo per l’omicidio della ragazza. I genitori della tredicenne non erano presenti in aula oggi, scrive “L’Eco di Bergamo”. «Ora sappiamo chi è stato, anche se siamo consapevoli che Yara non ce la riporterà indietro nessuno». Lo ha detto ai suoi legali la madre di Yara, Maura, subito dopo la lettura della sentenza che ha condannato Massimo Bossetti all’ergastolo per l’omicidio della ragazza. Gli avvocati della famiglia, Andrea Pezzotta ed Enrico Pelillo, hanno condiviso il pensiero della mamma di Yara e si sono detti soddisfatti della sentenza, ringraziando le forze dell’ordine. I genitori di Yara Gambirasio, hanno spiegato i legali, non hanno «mai avuto dubbi sulla colpevolezza» di Massimo Bossetti da quando è stato arrestato. Fulvio Gambirasio e sua moglie Maura, hanno aspettato l’esito di questo processo «con serenità, e così hanno accolto la sentenza», hanno spiegato i legali. La moglie di Bossetti, Marita Comi, invece ha pianto dopo aver sentito la sentenza della Corte d’Assise del Tribunale di Bergamo. Marita Comi e la sorella del muratore si sono abbracciate a lungo, Laura Letizia Bossetti ha detto a Marita Comi: «Fatti forza». L’avvocato Claudio Salvagni, che con il collega Paolo Camporini ha difeso Massimo Bossetti durante il processo, ha parlato di «sentenza già scritta».
Omicidio di Yara, Massimo Bossetti condannato all’ergastolo: «Sarò un ignorantone, ma non un assassino». Il processo si chiude con le parole del carpentiere imputato. «Vorrei guardare negli occhi i Gambirasio, vittime anche loro di chi non ha ancora saputo trovare il o i veri colpevoli. Vi supplico, signori giudici, ripetete il test del Dna», scrive Armando Di Landro su “Il Corriere della Sera”. Massimo Giuseppe Bossetti è stato condannato all’ergastolo. Il verdetto della Corte d’Assise di Bergamo, presieduta dal giudice Antonella Bertoja, è arrivato nella serata del primo luglio al termine di una lunga camera di consiglio. Per i giudici è stato dunque il carpentiere di Mapello, 45 anni, moglie e tre figli, a uccidere Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate Sopra scomparsa la sera del 26 novembre 2010. Non solo a uccidere. La ragazzina è stata seviziata e abbandonata agonizzante nel campo di Chignolo d’Isola, dove i suoi resti furono ritrovati per caso tre mesi dopo. Proprio l’aggravante della crudeltà e delle sevizie ha fatto scattare il carcere a vita. Inoltre ha perso la patria potestà e ha ricevuto l’interdizione ai pubblici uffici. È stato invece assolto dall’accusa di calunnia. Capitolo provvisionali. A mamma Maura e a papà Fulvio spettano a testa 400 mila euro. A ognuno dei due fratelli andranno 150 mila euro a testa. Due anni e mezzo dopo l’arresto, quando una squadra mista di carabinieri e polizia lo prelevò da un cantiere di Seriate, Bossetti è tornato a urlare la sua innocenza, per l’ennesima volta. Lo ha fatto di fronte alla Corte d’Assise, chiudendo con le sue parole il processo, sostenendo: «Assolvere Bossetti è difficile, me ne rendo conto, ma ancora più difficile è condannare un innocente». E accusando il pubblico ministero mentre parlava dei genitori di Yara, «anche loro vittime di chi non ha ancora saputo trovare il o i veri colpevoli». Sono le 9.17 quando il carpentiere di Mapello inizia a parlare, leggendo un foglio, appena il pubblico ministero Letizia Ruggeri, in lieve ritardo, entra in aula. «È un momento che aspettavo da due anni e grazie a Dio è arrivato — dice Bossetti —. Ora posso parlarvi guardandovi negli occhi, esprimendo, signor Presidente, la mia gratitudine a tutti voi. Io voglio farvi capire chi è Massimo Bossetti». L’imputato parla di se stesso, a tratti, in terza persona. «Massimo Bossetti è una persona che non si è mai rifiutata di farsi interrogare, una persona di massima normalità e semplicità, pronta sempre ad aiutare il prossimo, la famiglia, ma soprattutto sempre alla ricerca della verità». Un’introduzione per poi arrivare al racconto di una sua adozione a distanza, di un bimbo messicano «in assoluto stato di povertà. L’ho aiutato per permettergli di proseguire gli studi e ne sono fiero, contentissimo. I genitori poi mi hanno inviato a casa le sue pagelle, io sono una persona buona, di dignità, di cuore, affettuosa, non la persona dipinta in quest’aula, istigata addirittura a confessare qualcosa che non ha mai fatto». «Cosa devo dire — chiede il carpentiere — di quello che ho subìto? Io sarò uno stupido, un ignorantone, ma non sono un assassino, non sono un assassino», ribadisce con forza. Poi commette una gaffe: «È vero che tutti gli imputati si dichiarano colpevoli...scusate signori giudici. Volevo dire...è vero che tutti gli imputati si dichiarano innocenti. Ma non è il mio caso. Gli avvocati mi difendono non per dovere ma per sincera convinzione». Sposta il tiro sulle indagini, quindi, l’uomo al centro del caso, e sui milioni di euro spesi per l’inchiesta. «Quella ragazzina meritava tutta questa spesa, ma le indagini poi sono proseguite a senso unico, finendo per portare a processo una persona normale. Io non posso far finta di nulla, anche volendo. Per me è stata molto dura in questi ultimi due anni. Soprattutto per la privazione d’amore che ho subìto, senza mia moglie e senza i miei figli. Ma nonostante tutto questo e nonostante l’insistenza del pubblico ministero nel volermi fare confessare, io non ho mai confessato e non ho mai chiesto un rito abbreviato, perché voglio uscire a testa alta da questo processo». Bossetti parla a voce quasi bassa, con scatti di volume che definiscono ogni frase. «Siete liberi, cari giudici, di credere e non credere, ma nessuno mi convincerà a confessare un delitto. Sono convinto che la verità verrà a galla, deve essere portata alla luce. Ho fiducia nella giustizia e quando tutto sarà chiarito potrò guardare negli occhi i genitori di Yara. Anch’essi vittime di chi non ha ancora saputo trovare il o i veri colpevoli. Sarei davvero felice di poterli incontrare. Ripeto, sarò un ingenuo, ma non un assassino». La proclamazione di innocenza, l’invocazione di un’assoluzione, cozzano però con la prova regina dell’accusa, il Dna. E l’imputato, nel suo ultimo appello ai giudici, ne vuole parlare a lungo: «Sarei un pazzo a chiedervi di rifare il test del Dna se fossi colpevole. Anche perché se le analisi risultassero positive vi toglierebbero ogni dubbio sulle mie responsabilità. Quel Dna non è mio, non è mio, e vi supplico, vi imploro, di fare questa verifica perché il risultato farebbe chiarezza su di me. Io sapevo che stavano cercando l’assassino di Yara con il Dna, anche i miei colleghi venivano chiamati per il test. E anche mia mamma è stata chiamata. Eppure io non sono mai stato preoccupato, che motivo avevo? In quattro anni non ho toccato nulla, gli attrezzi di lavoro, il furgone e neanche il giubbotto che ho comprato quel giorno, perché mi serviva». Ribadisce il suo non-alibi, Massimo Giuseppe Bossetti, su quel venerdì 26 novembre 2010: «E di quel giorno cosa dire? Ho provato a far mente locale, a ricordare, ma come potevo dopo tanto tempo? Era impossibile. So di essere tornato a casa come facevo sempre, alla stessa ora, Perché tutte le sere ero a casa. E ho cenato con mia moglie e i miei figli. Altrimenti mia moglie mi avrebbe chiesto il motivo del ritardo. Posso dirvi che durante le indagini più volte i miei avvocati mi informavano sugli sviluppi. E più ce n’erano più pensavo che su di me non c’era nulla». Quindi la chiusura, del carpentiere che lascia cadere il foglio sul tavolo sotto i suoi occhi: ««Accetterò il verdetto qualunque esso sia perché pronunciato, ne sono convinto, in assoluta buona fede. Ma ricordatevi che se mi condannerete sarà il più grave errore giudiziario di questo secolo. Mi rendo conto che è molto difficile assolvere Bossetti, ma è molto più difficile sapere di aver condannato un innocente».
Yara e la battaglia (centrale) sul Dna La difesa: le analisi non sono valide. Ma per l’accusa inchiodano Bossetti. È il fulcro del processo. Per il pm e le parti civili le tracce scoperte sul cadavere della tredicenne corrispondono al profilo dell’imputato. Per gli avvocati Salvagni e Camporini l’assenza di mitocondriale non permette un’identificazione precisa, scrive Giuliana Ubbiali su “Il Corriere della Sera”. La traccia dell’assassino di Yara Gambirasio viene trovata l’8 aprile 2011, a poco più di un mese dal rinvenimento del cadavere: è il suo Dna sugli slip e sui leggings della vittima. Per gli inquirenti è preziosa, la ribattezzano Ignoto 1, ma solo il 16 giugno del 2014 conduce a un nome: Massimo Giuseppe Bossetti. Anche ora che il processo è arrivato alla sentenza, è chiaro che quella traccia è rimasta il perno della vicenda. È stata il nodo della battaglia tra il pubblico ministero Letizia Ruggeri e gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che difendono l’imputato. Su quel Dna le loro posizioni sono opposte, anche più di una fisiologica battaglia processuale. Bianco o nero, non c’è via di mezzo. Il pm ha usato queste parole: «Bellissimo, prova, stato di certezza, grande risultato, perfetta corrispondenza». Lo stesso la parte civile, gli avvocati dei Gambirasio Enrico Pelillo e Andrea Pezzotta: «Prova storica, inossidabile, inconfutabile, macigno». La difesa tutt’altre. Ne ha contestato l’utilizzabilità perché non ha potuto partecipare agli esami, a partire dall’estrazione della traccia dai vestiti della vittima. Bossetti all’epoca non era indagato, gli inquirenti nemmeno sapevano chi fosse. E sul Dna gli avvocati hanno insistito: «Anche se fosse utilizzabile, per noi non è nemmeno un indizio perché non ha i contorni della precisione». I punti cruciali della discussione sono due, entrambi molto tecnici. Il primo è il Dna mitocondriale. Nella traccia mista con il sangue di Yara non c’è quello dell’imputato (nemmeno quello di Ignoto 1). Accusa e difesa attribuiscono a questa assenza due pesi diametralmente opposti. In una scala da 0 a 10, è 0 per il pm e 10 per gli avvocati. Com’è possibile? L’accusa: l’assenza del mitocondriale non conta perché indica solo l’appartenenza a una linea materna, per altro è poco studiato; quello che conta, perché identifica, è invece il Dna nucleare, e quello di Bossetti c’è. La difesa: l’assenza del mitocondriale fa della traccia sulla vittima mezzo Dna, come se alla nuca di una persona mancasse il volto corrispondente, e lascia un dubbio sull’appartenenza del profilo genetico.
Condanna o assoluzione? Tutto dipende dal test del Dna. Secondo l’accusa è una prova inconfutabile. Per i difensori di Bossetti il test è inattendibile ed è stato eseguito in maniera non conforme alla legge, continua Giuliana Ubbiali. La traccia dell’assassino di Yara Gambirasio viene trovata l’8 aprile 2011, a poco più di un mese dal rinvenimento del cadavere: è il suo Dna sugli slip e sui leggings della vittima. Per gli inquirenti è preziosa, la ribattezzano Ignoto 1, ma solo il 16 giugno del 2014 conduce a un nome: Massimo Giuseppe Bossetti. Anche ora che il processo è arrivato alla sentenza, è chiaro che quella traccia è rimasta il perno della vicenda. È stata il nodo della battaglia tra il pubblico ministero Letizia Ruggeri e gli avvocati Claudio Salvagni e Paolo Camporini, che difendono l’imputato. Su quel Dna le loro posizioni sono opposte, anche più di una fisiologica battaglia processuale. Bianco o nero, non c’è via di mezzo. Il pm ha usato queste parole: «Bellissimo, prova, stato di certezza, grande risultato, perfetta corrispondenza». Lo stesso la parte civile, gli avvocati dei Gambirasio Enrico Pelillo e Andrea Pezzotta: «Prova storica, inossidabile, inconfutabile, macigno». La difesa tutt’altre. Ne ha contestato l’utilizzabilità perché non ha potuto partecipare agli esami, a partire dall’estrazione della traccia dai vestiti della vittima. Bossetti all’epoca non era indagato, gli inquirenti nemmeno sapevano chi fosse. E sul Dna gli avvocati hanno insistito: «Anche se fosse utilizzabile, per noi non è nemmeno un indizio perché non ha i contorni della precisione». I punti cruciali della discussione sono due, entrambi molto tecnici. Il primo è il Dna mitocondriale. Nella traccia mista con il sangue di Yara non c’è quello dell’imputato (nemmeno quello di Ignoto 1). Accusa e difesa attribuiscono a questa assenza due pesi diametralmente opposti. In una scala da 0 a 10, è 0 per il pm e 10 per gli avvocati. Com’è possibile? L’accusa: l’assenza del mitocondriale non conta perché indica solo l’appartenenza a una linea materna, per altro è poco studiato; quello che conta, perché identifica, è invece il Dna nucleare, e quello di Bossetti c’è. La difesa: l’assenza del mitocondriale fa della traccia sulla vittima mezzo Dna, come se alla nuca di una persona mancasse il volto corrispondente, e lascia un dubbio sull’appartenenza del profilo genetico. Il secondo sono le analisi. Il pm ha ripercorso il lavoro del Ris, dell’Università di Tor Vergata e dell’Università di Pavia rimarcando che i test sono stati compiuti correttamente, 103 volte, con kit diversi, con una possibilità di errore così marginale da sparire, quindi il risultato finale è sicuro: Ignoto 1 uguale Massimo Bossetti. Non così per la difesa, secondo la quale alcuni picchi negli elettroferogrammi (una sorta di elettrocardiogramma del Dna) indicano che c’è stata contaminazione (l’accusa smentisce: “Sono così lievi da non essere rilevanti”), sono stati utilizzati kit scaduti, le ripetizioni dei test non bastano, gli esiti sono contraddittori, quindi il risultato finale non è attendibile: Ignoto 1 non è Massimo Bossetti.
Delitto Yara, l’ergastolo per Bossetti. I silenzi della madre, i dubbi della moglie: 5 donne chiave dell’inchiesta. La prova cruciale, gli altri indizi e l’assenza di alibi. Così si è arrivati alla condanna di «Ignoto Uno». I ruoli del pm Letizia Ruggeri, del gip Ezia Maccora, della madre Ester Arzuffi, della moglie Marita Comi e del giudice Antonella Bertoja, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. L’ultimo sguardo disperato prima di essere riportato in carcere per scontare l’ergastolo è per sua moglie Marita Comi. Una richiesta di aiuto, una supplica rivolta a una delle cinque donne che hanno segnato questo processo e soprattutto la sua vita. Perché sono state loro, ognuna con un ruolo diverso, a «inchiodare» Massimo Bossetti come l’assassino di Yara Gambirasio. Tre sono in aula, due hanno atteso il verdetto a casa. Tutte sono pedine fondamentali di una vicenda che segnerà la storia giudiziaria italiana. Perché per la prima volta l’indagine su un omicidio si è svolta al contrario, partendo da un codice genetico. Dopo l’uscita di scena di Mohamed Fikri — il marocchino subito indiziato e poi completamente scagionato — non c’erano altri sospettati. Gli investigatori avevano soltanto la certezza che «Ignoto 1», l’uomo che aveva lasciato il proprio Dna sugli slip e sui leggings della giovane vittima, fosse il figlio illegittimo di Giuseppe Guerinoni, autista di pullman morto nel 1999. E da lì si è partiti comparando migliaia di tracce, ricostruendo tassello dopo tassello una vicenda incredibile. Fino ad arrivare a quel muratore con i capelli tinti, il pizzetto biondo, la fissazione per l’abbronzatura.
Il pm Letizia Ruggeri. Ha coordinato l’indagine sin dal giorno della scomparsa di Yara. E quando ha ricevuto l’esito del test che partendo da quelle minuscole tracce di sangue ricostruiva il profilo dell’assassino, ha sfidato critici e scettici ordinando migliaia di analisi pur di arrivare alla verità. Lo aveva promesso ai genitori di Yara. Ieri Bossetti, nella lunga dichiarazione spontanea in aula prima che la Corte entrasse in camera di consiglio, ha definito «vergognosi, i tentativi e le pressioni per farmi confessare» riferendosi proprio a lei. In realtà lei l’ha interrogato soltanto due volte. La linea difensiva di lui è stata granitica nel proclamarsi innocente, lei ha preferito procedere con il rito ordinario anziché l’immediato, come invece aveva ipotizzato dopo aver letto il risultato di piena compatibilità del Dna.
Il gip Ezia Maccora. L’ordinanza di cattura per Massimo Bossetti porta la sua firma. Appena undici pagine depositate il 19 giugno 2014 — tre giorni dopo il fermo disposto dal pm — per mettere in fila gli elementi dell’accusa e decidere di mandarlo in carcere. Perché è vero che il Dna è stato ritenuto la «prova» regina, ma è pur vero che al muratore sono stati contestati anche altri quattro indizi: l’aggancio delle celle telefoniche sulla palestra frequentata da Yara; le sfere di metallo — caratteristiche di luoghi dove ci sono cantieri edili — trovate nelle scarpe della vittima; la mancanza di alibi; le fibre tessili sui vestiti della giovane ritenute «compatibili» con quelle del suo furgone. Il suo giudizio è stato categorico: «Le complessive dichiarazioni rese da Bossetti non sono idonee a scalfire l’indizio principale, cioè la traccia biologica».
La madre Ester Arzuffi. È il personaggio chiave di questa storia. Nulla ha detto ai suoi familiari dopo il 26 gennaio 2011, quando le analisi scientifiche hanno stabilito che l’assassino di Yara era il figlio illegittimo Giuseppe Guerinoni. Ha continuato a tacere anche dopo essere stata sottoposta al test del Dna, come le oltre 500 donne della Val Seriana. E di fronte alle contestazioni della sua relazione extraconiugale con l’autista di Gorno — provata dal fatto che proprio le analisi del sangue hanno confermato che era il padre di Massimo Bossetti e della sua gemella Laura — ha negato anche l’evidenza sostenendo che si trattava di un clamoroso errore. Massimo Bossetti gliel’ha contestato in maniera netta durante un colloquio avvenuto in carcere l’8 novembre 2014, quattro mesi dopo l’arresto. E di fronte a Giovanni Bossetti, l’uomo che ha sempre ritenuto il suo vero padre, le ha gridato: «Il dna non mente, soltanto tu sapevi la verità».
La moglie Marita Comi. Pubblicamente ha sempre difeso il marito Massimo Bossetti, anche quando la loro vita è andata in pezzi. Ma nei confronti privati, nella sala colloqui del carcere, si è mostrata scettica sulla sua innocenza, lo ha incalzato più volte. Sono state le intercettazioni ambientali a rivelare i dubbi della donna, che mai ha potuto fornirgli un alibi sostenendo di non ricordare a che ora era tornato a casa la sera della scomparsa di Yara. Come quello espresso senza troppi giri di parole il 4 dicembre 2014, quando i carabinieri del Ros hanno depositato i filmati che mostravano il furgone di Bossetti girare intorno alla palestra: «Tu eri lì. Non puoi girare lì tre quarti d’ora, a meno che non aspettavi qualcuno... Non mi hai mai detto dov’eri».
Il giudice Antonella Bertoja. Ha condotto il processo seguendo regole rigide e cercando soprattutto di stringere i tempi. Ha eliminato dalle liste oltre 500 testimoni, ha ritenuto non necessario ripetere il test del Dna ritenendo pienamente attendibili le analisi già svolte. E ieri mattina, prima di ritirarsi per la sentenza, la presidente della Corte d’Assise ha voluto ribadire che «la legge impone di dare l’ultima parola all’imputato». In realtà l’ultima parola è stata la sua, dopo una discussione durata oltre dieci ore e un confronto con la giuria popolare. Ergastolo. Ed è la parola che — almeno per ora — chiude la storia. Consegnando ai genitori di Yara una prima verità sulla terribile fine della loro figlia, morta di stenti in un campo di Chignolo d’Isola.
Omicidio Yara, Bossetti condannato all'ergastolo. Imputato impassibile alla lettura della sentenza. Poi ai suoi avvocati: "Una mazzata, avevo fiducia nella giustizia". Tolta patria potestà sui figli. La madre della vittima: "Ora so chi è stato", scrive Paolo Berizzi su “La Repubblica”. Ergastolo per Massimo Bossetti. Dopo dieci ore di camera di consiglio, la Corte d'Assise torna in aula e rende noto il verdetto: l'uomo che è in carcere da due anni viene riconosciuto colpevole dell'omicidio della tredicenne Yara Gambirasio. Lui, in piedi, ascolta la decisione e rimane impassibile. Poi, invece, con i suoi legali si sfoga: "E' una mazzata grossissima, è come se mi fosse piombato una carro armato sulla testa, avevo fiducia nella giustizia. E' allucinante, non sono stato io". Impassibile la moglie, Marita Comi che però, appena fuori dall'aula, è scoppiata in lacrime abbracciando la sorella gemella del marito. "Fatti forza" le ha detto Laura Letizia Bossetti. In mattinata il muratore di Mapello aveva letto una lunga dichiarazione d'innocenza nella quale supplicava la Corte di ripetere il test del Dna. "Sarò uno stupido, sarò un ignorantone - aveva detto - ma non sono un assassino. Ripetete l'esame del Dna, se mi condannerete sarà il più grave errore del secolo". Sobrio il commento della madre di Yara: "Ora sappiamo chi è stato - ha detto al suo avvocato - non abbiamo mai avuto dubbi sulla sua colpevolezza". La sentenza e i risarcimenti. Ergastolo dunque. I giudici, inoltre, hanno tolto a Bossetti la potestà sui tre figli, mentre non hanno accolto la richiesta del pubblico ministero, Letizia Ruggeri, che oltre all'ergastolo aveva chiesto anche l'isolamento. Il muratore è stato assolto, invece, dall'accusa di calunnia ai danni di un collega. I giudici non hanno applicato l'isolamento diurno per sei mesi, come chiesto dal pm. Per quanto riguarda i risarcimenti, l'imputato è stato condannato a un risarcimento danni in questa forma: 400 mila euro per ogni genitore di Yara, 150 mila euro per ogni fratello di Yara e 18 mila euro per gli avvocati. In tutto quasi 1 milione e 300mila euro.
Dna, furgone bianco, fibre tessili e sfere metalliche: le prove dell'accusa. La Procura: "Siamo a metà strada". "Siamo arrivati a metà strada - ha detto il Procuratore di Bergamo, Massimo Meroni - nel senso che questa è una sentenza di primo grado, è stata un'inchiesta difficile e la collega Ruggeri è stata fantastica". E sulla prova del Dna - terreno di scontro tra accusa e difesa durante buona parte delle 45 udienze - è stata "decisiva". Amareggiato, invece, è Claudio Salvagni, legale dell'imputato: "Siamo veramente convinti della sua innocenza, 45 udienze non hanno restituito nessuna prova a suo carico". Poi ha annunciato uno scontato ricorso in Appello. La madre Ester Arzuffi e la gemella di Bossetti sperano che nei successivi gradi di giudizio "l'innocenza di Massimo venga acclarata".
Il ritrovamento. Le indagini sull'omicidio della tredicenne sono cominciate per davvero il 26 febbraio del 2011. Erano le 15.15, nella frazione Chignolo d'Isola (distante pochi chilometri dal luogo della sparizione, Brembate Sopra), quando un aeromodellista che non trovava il suo aeroplanino, si imbatté nel cadavere in stato di avanzata decomposizione. Era in un campo vicino a una zona industriale. Una visione che - dirà poi - non lo fece dormire per giorni. Quel cadavere ha parlato e ha restituito del liquido organico, la traccia genetica del muratore, ha detto in seguito la Procura. Tanto che alcuni poi definirono quella traccia 'la vendetta di Yara'. Il ritrovamento era avvenuto a 300 metri dal comando della polizia municipale dell'Isola Bergamasca, che era proprio il centro di coordinamento delle ricerche. Per giorni le persone assediarono la zona, chi portando fiori e biglietti con pensieri e preghiere, chi per scattare macabri selfie su un'area aperta al pubblico sin dal giorno dopo e poi riaperta e richiusa più volte. Il 26 maggio, tre mesi esatti dopo, Yara venne riconsegnata alla famiglia, per riposare finalmente in pace.
Il dna. E' stata la prova regina del processo, come ha riconosciuto anche il Procuratore di Bergamo. Il gip che decise più volte che Bossetti doveva rimanere in carcere, Ezia Maccora, l'aveva definita "ottima". Nel fascicolo processuale è la "31G20" e fu trovata sugli slip e sui leggings di Yara. E' attraverso questa che si è risaliti prima a Ignoto 1, in seguito all'autista di autobus scomparso nel 1999, Giuseppe Guerinoni e, infine, alla madre di Bossetti, Ester Arzuffi (che ha sempre negato relazioni extraconiugali). La difesa ha sempre contestato la mancata corrispondenza tra il Dna nucleare, attribuito a Bossetti, e quello mitocondriale nella traccia la cui appartenenza non è stato possibile stabilire, il giudice Maccora era stato tranciante e così l'accusa e parti civili nel corso del processo: "Quel che conta è il Dna nucleare, che, stando agli esami scientifici, è di Bossetti". Sul Dna, comunque, è stata battaglia campale.
Un destino segnato da tre donne. Gli investigatori non vanno a caccia di madri o mogli infedeli. Ma ha ruotato attorno a questi aspetti, così intimi e personali nella vita di un uomo, la vicenda processuale di Bossetti. Costretto a scoprire di essere nato da una relazione extraconiugale (mai ammessa dalla madre) e a vedersi sbattuti in faccia i tradimenti della moglie (negli anni successivi però al 2010). Un'altra donna ha avuto un ruolo fondamentale, la pm Letizia Ruggeri. Mentre sullo sfondo è rimasta la più silenziosa, distrutta dal suo dolore, Maura, la mamma di Yara.
Caso Yara: perché Bossetti è stato condannato. Il processo per l'omicidio della ragazza di Brembate ha seguito un filo logico preciso. Che ha portato alla sentenza dell'ergastolo, scrive Carmelo Abbate su "Panorama". Prima che i giudici entrassero in camera di consiglio, gli avvocati di Massimo Bossetti, Salvagni e Camporini gli hanno fatto giocare l'ultima carta disperata: "Vi supplico, rifate l'esame del Dna. E tenete presente che solo un pazzo vi chiederebbe di ripeter l'esame, sapendo di essere colpevole". Col dibattimento chiuso, è chiaro che l'obiettivo non era quello di ottenere una perizia, ma di insinuare il dubbio sulla prova regina del, nei giudici popolari che di lì a poco si sarebbero ritirati per mettere la parola fine a questa vicenda. Il processo si è giocato tutto su questo punto: ma gli avvocati difensori sono riusciti nel loro obiettivo di concretizzare un ragionevole dubbio sulla prova del dna? Alla luce della sentenza emessa dalla corte d'assise di Bergamo la risposta adesso appare chiara. Ma che sarebbe andata in questo modo si poteva dedurre anche da quello che era successo nelle settimane precedenti, quando la difesa di Bossetti aveva chiesto la perizia, e la Corte d'Assise l'aveva rigettata, ritenendo che non ci fosse più alcun dubbio sulla consistenza della prova scientifica. Senza volersi improvvisare genetisti, cosa che i giudici popoolari non sono, basta seguire un percorso logico, per capire che la fondatezza della prova scientifica non è stata messa in discussione in questo processo. Un punto infatti era sicuro: chi ha lasciato la sua traccia sulle mutandine di Yara è il suo assassino. Il proprietario di quella traccia mista a quella di Yara, è l'uomo che l'ha uccisa. I Ris, che hanno lavorato su quella traccia per risalire a un profilo genetico, non conoscevano Massimo Bossetti, il cui profilo non era mai stato identificato: per gli inquirenti lui, semplicemente, non esisteva. Quindi questo fa sì che l'indagine genetica dei carabinieri non possa essere viziata né da un pregiudizio a monte, verso un eventuale bersaglio, e neppure da un rischio di contaminazione, considerato che quando è stato preso finalmente il dna di Bossetti, lui non è mai entrato negli uffici del Ris e il confronto è stato fatto dal professor Previderè, consulente della Procura. Bossetti per l'indagine non esisteva, tanto che il famoso profilo individuato viene denominato Ignoto 1. I Ris ci danno un informazione in più. Dicono che l'uomo a cui appartiene quel profilo genetico scoprirà di essere figlio di un autista di autobus di nome Giuseppe Guerinoni, e non del padre che lo ha cresciuto. Ebbene, quando l'intera famiglia Bossetti si reca a Torino per effettuare in privato l'esame del dna, il risultato di fatto conferma la validità dell'analisi dei Ris. Prova e controprova scientifica. A questo punto un'ulteriore coincidenza rafforza la portata probatoria della prova del dna. Ovvero, la persona il cui codice genetico si sovrappone alla perfezione con quello di Ignoto 1, la sera del 26 novembre in cui scompare Yara, poteva essere in qualsiasi parte d'Italia o del mondo. Invece, guarda caso, il proprietario di quel dna, quella sera, nel momento in cui scompare Yara all'uscita della palestra, è proprio lì. Il furgone, le celle telefoniche, le tracce si vestiti di Rara, lericerche sul computer di Bossetti, sono degli indizi che hanno valore in quanto rafforzano la portata probatoria del dna. Da soli non avrebbero nessun peso in questo processo. Il processo si è giocato tutto qui. Su questo percorso logico, che alla fine si è rivelato insormontabile per l'imputato Massimo Bossetti.
"Bossetti, una personalità oscura e ossessiva". Dalla grafia di Bossetti emerge uno stato conflittuale tra il mondo dei pensieri (vedi allunghi superiori) e quello delle pulsioni interiori, scrive Evi Crotti su "Il Giornale”. Dalla grafia di Bossetti emerge uno stato conflittuale tra il mondo dei pensieri (vedi allunghi superiori) e quello delle pulsioni interiori (vedi allunghi inferiori soprattutto delle “g”). Il primo lo porta ad eccedere nella fantasia, il secondo lo predispone a non saper gestire le proprie pulsioni istintuali. Pur non potendo stabilire la colpevolezza dalla sola analisi grafologica, tuttavia possiamo senza dubbio esaminare lo stato d’equilibrio della sua personalità. Questa contemplazione di sé lo chiude in uno stato di difficile introspezione, per cui egli vive la realtà in maniera fantasiosa e strana. Infatti, la sua grafia dimostra un notevole senso estetico esasperato fino a rasentare note di vero narcisismo. Inoltre, l’occupazione totale dello spazio sul foglio sta a indicare il bisogno di essere sempre protagonista. Possiede un tipo d’intelligenza analitico e ama, in modo quasi assillante, soffermarsi sui particolari, fino alla reiterazione di pensieri e atti. E’ ciò che potrebbe essere alla base di spunti di ossessività. Ma ciò che più colpisce nella scrittura di Massimo Bossetti è la grande confusione grafica indicata dal sovrapporsi delle varie righe tra loro. Essa indica in modo inequivocabile oscurità sia mentali sia di comportamento, per cui ogni sua azione non è diretta conseguenza del suo pensiero, bensì di forme ideatorie e immaginarie, gestite nel caos. Afferma Moretti, padre della grafologia italiana, nel suo trattato: “Tutti coloro che hanno il segno confusa hanno degli aspetti patologici … che potrebbero portare a concepire anche vendette sanguinose.”
Delitto Yara. I mille volti del “Favola”, il carpentiere Bossetti che viveva raccontando menzogne. Fallita la sua difesa da “uomo qualunque”, scrive il 02/07/2016 Paolo Colonnello su “La Stampa”. «Un ignorantone ma non un assassino». «Un provolone, ma non un pedofilo». «Un piacione ma sempre innamorato di moglie e figli». Chi è veramente Massimo Giuseppe Bossetti? A sentire lui e i suoi legali, un uomo qualunque, un lavoratore tutto cantiere e famiglia, vittima di un complotto. Anche ieri mattina, prima che la corte d’Assise emettesse una sentenza che a molti sembrava scontata, l’immagine che il carpentiere accusato dell’omicidio di Yara ha voluto dare di sé, è stata quella dell’uomo probo, del Bergamasco gran lavoratore e incapace di fare del male a una mosca. Ovvio che in questa iconografia, costruita dalle sue difese e da una narrazione televisiva sempre in cerca di tifoserie contrapposte, si faccia fatica ora a riconoscere quello che è ormai un ergastolano. Anche se condannato “solo” in primo grado ma con una prova schiacciante come quella del Dna. La fenomenologia del “Favola”, come lo chiamavano in cantiere i compagni di lavoro per il suo vizio a raccontar bugie (dal tumore al cervello alla separazione dalla moglie), offre però spunti ben diversi da quella del buon padre di famiglia. “L’ignorantone” infatti, figura retorica di un certo successo incarnata persino da un personaggio come Celentano, nel corso delle 45 udienze, pur avendo parlato tre volte, ha saputo dare l’idea di un uomo dai tanti volti, sicuro di sé, al limite dello spavaldo e al tempo stesso in grado di trastullarsi molto spesso su Internet a caccia di siti porno dedicati a minorenni e a particolari aspetti anatomici femminili che mal si conciliano con l’immagine di un uomo dedito tutt’al più a una cura maniacale della propria abbronzatura. Così come mal si conciliano le avventure extraconiugali della moglie Marita Comi e le lettere del “Massi” a un’altra detenuta con quell’idea un po’ bislacca che la famiglia Bossetti ha voluto dare di sé, di grande unità e affiatamento. Come spiegare altrimenti la genialata di scrivere a un’altra detenuta frasi come queste: «…Ho subito l’operazione di ernia inguinale e mi ricordo che dopo 15 giorni di medicazione… mi abbasso i boxer e la caposala disse nel vedermi: “Bossetti, complimenti”». Per carità, ogni famiglia probabilmente ha i suoi peccati ma qui si è parlato di un delitto a sfondo sessuale dove dunque le frustrazioni e le manie hanno avuto un peso nella stessa valutazione tecnica del reato. Perciò è difficile credere, come si è tentato di far credere, che gli accessi porno al computer di “Massi” fossero solo della moglie o, addirittura del figlio pre adolescente chiamato in aula dalle difese ad assumersi responsabilità che, è parso chiaro a tutti, non potevano che essere del padre. E una pulsione sessuale di questo genere, per l’accusa, a livello psicologico potrebbe spiegare quello che è stato considerato un omicidio d’impeto, non premeditato e forse nemmeno cercato. Ma ugualmente feroce e crudele. Le coltellate inferte a Yara, quasi dei disegni arabescati incisi sulla schiena e sugli arti, raccontano di sevizie prolungate e folli; di chi, a fronte di un rifiuto inaspettato, deve aver perso la testa e infierito a lungo prima di lasciare la preda inerme, in quel campo gelido e incolto di Cingoli d’Isola, dove poi il cadavere della ragazzina verrà ritrovato. C’è poi la questione di una memoria intermittente che fissa i giorni immediatamente successivi e quelli antecedenti, ma dimentica completamente il giorno in cui Yara sparì dalla circolazione per essere uccisa. «Come faccio a ricordarmelo? Era un giorno qualunque per me». Ci penserà la moglie in un’intercettazione ad aprire uno squarcio di verità: «Massi, io non mi ricordo di averti visto in casa quella sera…». Sufficiente, insieme alle tracce di cantiere trovate sui vestiti di Yara, il furgone ripreso a girare intorno alla palestra di Brembate, e soprattutto al Dna di Bossetti scoperto sui leggins e le mutandine, a fargli dare un ergastolo.
Yara, la sentenza: Bossetti condannato all'ergastolo, scrive “Libero Quotidiano”. Era attesa per le 20, ma è slittata di alcuni minuti la sentenza sull'omicidio di Yara Gambirasio, scomparsa fuori dalla palestra dove danzava a Mapello il 26 novembre 2010 e ritrovata cadavere in un campo di Chignolo d'Isola tre mesi più tardi. Per il suo omicidio, l'unico imputato Massimo Bossetti è stato condannato all'ergastolo. I giudici della Corte d'Assise del tribunale di Bergamo hanno così accolto la richiesta di pena formulata dalla procura, ma non l'isolamento diurno per sei mesi. Bossetti è stato invece assolto dall'accusa di calunnia nei confronti dell’ex collega di lavoro Massimo Maggioni, al quale aveva cercato di addossare la responsabilità del delitto. Dovrà invece pagare tutte le spese processuali oltre che i risarcimenti ai genitori e alla sorella di Yara, per un totale di circa 1,2 milioni di euro. "Ora sappiamo chi ha ucciso la nostra povera Yara, anche se siamo perfettamente consapevoli che nessuno potrà riportarcela indietro" ha detto la mamma della tredicenne uccisa. La sentenza è stata pronunciata in un'aula gremita di curiosi ma sgombra da telecamere e fotografi, come deciso dai giudici qualche giorno fa. Anche la registrazione audio della lettura della sentenza era stata vietata. Bossetti in mattinata si era rivolto alla corte chiedendo che venisse replicata la prova del dna trovato sugli abiti di Yara e che è stata decisiva per la sua condanna. "Se mi condannerete, farete il più grave errore del secolo. Io sono un ignorantone, ma non un assassino" aveva detto. I giudici non gli hanno creduto.
Bossetti, la reazione alla lettura della sentenza, scrive “Libero Quotidiano”. Impassibile. Non una emozione, non un movimento. Massimo Bossetti, alla pronuncia della parola "ergastolo" da parte dei giudici della Corte d'Assise di Bergamo, è rimasto impassibile. Ha invece alzato gli occhi al cielo quando gli è stata tolta la patria potestà sui tre figli. Proprio la loro mancanza, durante la detenzione in attesa di sentenza, era stato uno dei crucci del muratore di Mapello: "E' come se stessi scontando l'ergastolo, perchè sono lontano dai miei figli e dalla loro quotidianità" aveva detto a margine di una delle 45 udienze del processo. Se ha provato sollievo, non l'ha dato a vedere quando è stato assolto dall'accusa di calunnia. "E' stata una mazzata, avevo fiducia nella giustizia. Non è giusto, non è possibile, è allucinante, non sono stato io" avrebbe detto poi ai suoi avvocati prima di essere raggiunto fuori dall'aula dalla moglie Marita Comi. "Come se gli fosse caduto un carro armato sulla testa, era affranto, distrutto" ha spiegato poi uno dei suoi avvocati fuori dal Palazzo di giustizia.
Gli avvocati di Bossetti litigano coi giornalisti, scrive “Libero Quotidiano”. Sarà stata la tensione. L'adrenalina di due anni di strategie difensive, di 45 udienze. E la delusione per la sconfitta, con il loro cliente Massimo Bossetti condannato all'ergastolo. Fatto sta che, fuori da palazzo di giustizia, gli avvocati Paolo Camporini e Claudio Salvagni, hanno avuto un duro battibecco coi giornalisti che li cingevano d'assedio per strappargli una battuta a caldo sulla sentenza della Corte d'Assise di Bergamo. A uno dei cronisti, che gli faceva notare come il campione di dna sulla base del quale Bossetti è stato condannato fosse perfettamente integro e dunque sufficiente ad individuare il colpevole dell'omicidio di Yara, i legali hanno replicato a muso duro: "Non parlate di cose che non conoscete. Andate a studiare, studiate. Noi abbiamo studiato trent'anni".
Marita Comi saluta Bossetti: cosa gli sussurra all'orecchio, scrive “Libero Quotidiano”. Marita Comi sempre più sola e sempre più forte. La moglie di Bossetti è sempre al suo fianco. Ha inseguito il marito mentre gli agenti lo trasferivano fuori dall'aula. Lo ha abbracciato e insieme hanno pianto. In mattinata si sono baciati. Poi la sentenza, il massimo della pena, ergastolo per Massimo Bossetti. Marita Comi non è mancata a nessuna delle ultime udienze. Ieri si è presentata con look aggressivo e sexy: un abitino di jeans. Dice ai legali difensori: "Credo nell'innocenza di Massimo e continuerò a crederci". "La mia fiducia in Massimo è più forte che mai", prosegue la donna, "ho avuto dei dubbi, umanamente, non lo nego. Anche perché avevo davanti tutte le sicurezze assolute dell'accusa, come quella per i passaggi del furgone. Per questo ho voluto fargli delle domande precise. Non ho voluto fare soltanto un atto di fede nell' uomo con cui ho condiviso una vita. Mi sono posta dei dubbi anche a tutela dei miei figli. Gli ho parlato guardandolo negli occhi. E gli ho creduto. Gli credo ancora".
La traccia del Dna, madre di tutte le battaglie, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Gli elementi cardine del processo a Massimo Bossetti, oggetto di scontri all’arma bianca tra accusa e difesa nel corso del dibattimento cominciato il 3 luglio del 2015 e durato 45 udienze sono stati questi.
IL DNA - E’ la «prova regina» del processo. Il gip che decise più volte che Massimo Bossetti dovesse rimanere in carcere, Ezia Maccora, l’aveva definita «ottima». Nel fascicolo processuale è la 31G20 e fu trovata sugli slip e sui leggings di Yara. E’ attraverso questa che si è risalito prima a Ignoto 1, in seguito all’autista di autobus scomparso nel 1999, Giuseppe Guerinoni e alla madre di Bossetti, Ester Arzuffi (che ha sempre negato relazioni extraconiugali). La difesa contestava la mancata corrispondenza tra il Dna nucleare, attribuito a Bossetti, e quello mitocondriale nella traccia la cui appartenenza non è stato possibile stabilire, il giudice Maccora era stato tranciante e così l’accusa e parti civili nel corso del processo: «Quel che conta è il Dna nucleare, che, stando agli esami scientifici, è di Bossetti, e non quello mitocondriale». Sul Dna è stata battaglia campale. I difensori di Bossetti e il loro consulente l’hanno definito «una mezza traccia» e «forse contaminata» durante i procedimenti di conservazione e di analisi. «Più anomalie che marcatori», hanno detto Claudio Salvagni e Paolo Camporini. «Uno e perfetto», ha risposto il pm. La Corte, dopo la conclusione del dibattimento, aveva respinto la richiesta in extremis di una perizia sul Dna perché «ogni ulteriore accertamento» appariva «superfluo» per la decisione.
CELLE TELEFONICHE - Il 26 novembre 2010, giorno della scomparsa di Yara, l’ultima telefonata del muratore di Mapello è alle 17.45, orario compatibile con la sparizione della ragazza. Bossetti era quindi nella zona della palestra di Brembate di Sopra in cui Yara si era recata per portare un impianto stereo per la ginnastica ritmica. Il suo telefono - sottolinea l’accusa - non genera traffico fino alle 7.34 del giorno dopo. Per la difesa, Bossetti era solito fare quella strada tornando dal lavoro. Il dato per i legali del muratore non è in alcun modo significativo.
IL FURGONE BIANCO - Secondo gli accertamenti del Ris e del Ros dei carabinieri, è quello di Bossetti il furgone che viene immortalato sette volte nelle immagini delle telecamere di sorveglianza della zona intorno alla palestra in orario compatibile con la scomparsa di Yara. Secondo il consulente della difesa, tacciato di «malafede e approssimazione» dal pm, quel furgone non è suo. Dalle accuse dei difensori di aver confezionato un video «tarocco» dei quelle immagini (era un video destinato alla stampa, quindi non aveva valore processuale) è scaturito un procedimento a carico di giornalisti su iniziativa del comandante del Ris Giampietro Lago.
LE FIBRE TESSILI E LE SFERE METALLICHE - Sul corpo di Yara sono state trovate delle fibre «compatibili» con la tappezzeria dei sedili del furgone di Bossetti e delle sferette metalliche che portano a qualcuno che lavora «nel mondo dell’edilizia». Dati insignificanti per la difesa, mente il pm ha più volte detto che tutti gli indizi vanno valutati nel loro insieme, quindi anche in relazione al Dna.
LE INCONGRUENZE NEL RACCONTO DI BOSSETTI - Il muratore ha ipotizzato che quel 26 novembre dl 2010, dopo essere stato al lavoro, poteva essere andato dalla commercialista, poi da un meccanico, e a comperare le figurine per i figli come era solito fare tornando dal lavoro, Nessuno, però, quel giorno, ricorda di averlo visto e il Bossetti ha dato una sua spiegazione: «Qui mentono tutti».
I COMPUTER - Nel corso del processo il pm ha evidenziato una serie di ricerche a sfondo pornografico trovate nei computer di casa di Bossetti, alcune riferite a tredicenni la stessa età di Yara quando morì. Ricerche che non significano nulla per la difesa, anche perché di molto successive alla sparizione della ragazza e delle quali la moglie di Bossetti, Marita Comi, si è in parte assunta la responsabilità.
Bossetti, il giorno del giudizio: perché è innocente, perché è colpevole, scrive “Libero Quotidiano”. "Sarò un ingenuo, uno stupido, ma non sono un assassino". È una delle frasi pronunciate in aula da Massimo Bossetti accusato del delitto di Yara Gambirasio. Nelle sue dichiarazioni spontanee, l’imputato si rivolge alla corte d’assise di Bergamo: "Se mi condannerete questo sarà il più grave errore giudiziario di questo secolo". Il muratore di Mapello ha chiesto la ripetizione del test del dna. E' il giorno della verità per Massimo Bossetti, l’uomo accusato dell’omicidio pluriaggravato di Yara Gambirasio. Oggi i giudici della Corte d’assise di Bergamo emetteranno il loro verdetto: ergastolo con isolamento diurno per sei mesi come chiesto dall’accusa, una pena ammorbidita da possibili attenuanti per il muratore incensurato o la libertà immediata dopo due anni in carcere. Sarà Bossetti a parlare nell’ultima udienza per ribadire l’impossibilità di confessare un delitto non commesso, per chiedere di non condannare un innocente. Dichiarazioni spontanee prima che la giuria, composta da due togati e da sei giudici popolari, si ritiri in camera di consiglio per decidere se è lui il colpevole della morte della 13enne di Brembate di Sopra. I giudici dovranno valutare quanto emerso nel processo di primo grado durato un anno: 45 udienze in cui accusa e difesa si sono date battaglia nel ricostruire quanto accaduto il 26 novembre 2010, giorno della scomparsa della giovane ginnasta. Al centro dell’inchiesta durata quattro anni c’è il Dna: la traccia biologica trovata sugli slip e sui leggings della vittima attribuita a Ignoto 1’ poi identificato in Bossetti, finito in carcere il 16 giugno 2014. È il faro dell’indagine che non ha pari in Italia e nel mondo per il pubblico ministero Letizia Ruggeri che liquida con il termine anomalia l’assenza del Dna mitocondriale (indica la linea materna, ndr) dell’imputato sulla prova regina. Il Dna nucleare è di Bossetti e solo quello ha un valore forense, sostiene. Un mezzo Dna contaminato la cui custodia e conservazione sono il tallone d’Achille di un processo "indiziario" ribattono i difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini. Provette e reperti di cui contestano i risultati e che, in ogni caso, "sarebbero un indizio non preciso di un contatto, non di un omicidio".
I dubbi - È il Dna la pistola fumante contro il muratore di Mapello per il pubblico ministero. Una prova che va letta insieme agli altri indizi corollari di un’indagine non ha tralasciato nessuna ipotesi. Solo tre mesi dopo la scomparsa, il 26 febbraio 2011, il corpo della 13enne viene trovato in un campo di Chignolo d’Isola e da lì si riparte per la caccia all’uomo che ha infierito su di lei. Quella traccia biologica è la chiave di svolta, ma contro Bossetti per l’accusa ci sono altri indizi: dal passaggio del furgone davanti alla palestra alle fibre sulla vittima compatibili con la tappezzeria del suo Iveco; dalle sferette metalliche sul corpo di Yara che rimandano al mondo dell’edilizia all’assenza di alibi per l’imputato e al suo tentativo di fuga il giorno dell’arresto. Elementi su cui la difesa ribatte punto su punto. Il furgone immortalato vicino al centro sportivo di Brembate non è di Bossetti e l’allineamento degli orari delle telecamere non combacia con i tempi dell’accusa; le sfere e le fibre non riconducono con nessuna certezza all’imputato che non ha mai cambiato vita e non ha mai tentato di scappare. Nessuna certezza sull’orario della morte di Yara, né sul luogo o con che armi sia stata colpita: di quanto accaduto "non c’è certezza di niente, ci sono solo suggestioni". È la stessa accusa in aula a escludere che vittima e presunto carnefice si conoscessero e ad ammettere che non è possibile indicare un movente per un delitto. È nella passione del muratore di Mapello per le donne - testimoniato dalle ricerche pornografiche sul computer di famiglia o nella corrispondenza con una detenuta - che si cela forse il motivo di un omicidio non premeditato. Le ricerche pornografiche risalgono a tre anni dopo la morte della 13enne e non indicano nessuna perversione dell’imputato, tagliano corto i difensori che chiedono ai giurati un atto di grande coraggio. Oggi la parola passerà alla corte: sarà il presidente Antonella Bertoja a leggere la sentenza, lontano da fotografi e telecamere non ammessi in aula a causa del "clima avvelenato" creatosi intorno al processo.
«Così ho smascherato Ignoto 1. Quella traccia era inconfutabile». Il genetista Giardina: molti scienziati hanno confuso l’opinione pubblica, scrive Giusi Fasano il 2 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”.
«In questi due anni ho sentito commenti che francamente si potevano evitare. Mi è dispiaciuto».
Erano sul suo lavoro?
«Erano parole di scienziati finite nel calderone mediatico assieme a quelle di opinionisti. Confondevano le carte in tavola e i ruoli, e invece io sono per i ruoli chiari. A ognuno il suo campo».
Il professor Emiliano Giardina, genetista all’Università di Roma Tor Vergata, è l’uomo-chiave del caso Yara. Un visionario che ebbe l’intuizione giusta, e cioè: «Ignoto 1» era un figlio illegittimo. Fu quel passaggio a consentire l’identificazione certa di Massimo Bossetti. E oggi lui — il professore — ce l’ha con gli esperti che hanno mescolato le loro voci a quelle di chi seminava dubbi sul suo lavoro, senza saperne granché di Dna nucleare o mitocondriale.
Lo «strapotere» della scienza. Si è parlato di «strapotere» della prova scientifica.
«Ognuno ha il diritto di dire o pensare ciò che vuole ma far passare il concetto che il Dna sia uno strumento per accusare qualcuno è sbagliato. Il Dna è un dato che indica la presenza e la presenza diventa responsabilità penale nei tribunali. Il mio lavoro è portare delle prove scientifiche, usarle per condannare o assolvere non è un problema mio».
Quindi lei non ha mai pensato che Bossetti potesse essere assolto.
«Io ho sempre creduto che il risultato più probabile fosse la condanna. Quindi questa sentenza non mi sorprende».
Il profilo genetico. Il dettaglio scientifico più controverso è stato il Dna mitocondriale, cioè la parte di profilo genetico che ciascuno di noi eredita dalla madre. In aula non si è chiarito: è di Bossetti? Non è leggibile? È di un’altra persona? In tanti l’hanno definito un «pasticcio».
«La parola pasticcio sembra indicare che qualcosa andasse fatto in modo differente e questo non è vero. Vorrei ricordare che davanti a tracce biologiche così complesse come quelle trovate sugli indumenti di Yara l’esame per risalire al mitocondriale non si fa. Non succede praticamente mai. Noi lo abbiamo fatto soltanto per arrivare alla madre, non per identificare “Ignoto 1”. Bossetti è stato identificato attraverso il Dna nucleare. Il suo combaciava con quello di “Ignoto 1”, cioè della persona che ha lasciato la sua traccia biologica sugli indumenti della ragazzina. E non mi vengano a dire che lo si può trasportare: il Dna si trasferisce soltanto per contatto diretto. Tutto questo è inconfutabile».
Nessuna possibilità nemmeno remota di errore?
«Nessuna. Un errore è assolutamente impensabile. Non è possibile».
La banca dati. Da professore le è mai capitato di parlare del caso Yara ai suoi studenti?
«Sì, è successo. Agli studenti dico sempre che per un genetista forense c’è la difficoltà di eseguire bene analisi complicate ma c’è anche quella di saperle spiegare. Penso ai giudici popolari, per esempio. Non è facile spiegare dettagli molto tecnici in modo semplice senza scalfire la valenza e solidità dei risultati. Dobbiamo essere preparati, soprattutto adesso che in Italia è cominciata una nuova era per il Dna...».
E cioè?
«Dal 10 giugno abbiamo anche da noi la banca dati nazionale del Dna. Presto capiremo che ci sarà un prima e un dopo. Potremo utilizzare i dati della banca anche per reati minori, chiamiamoli così, come le rapine e i furti. Oppure per le violenze sessuali o per il terrorismo... Sono convinto che avremo un Paese più giusto».
E il rischio di una schedatura generalizzata?
«Pensi che io sarei favorevole a prendere il Dna di tutti! Chi non ha nulla da nascondere non ha nulla da temere da una banca dati».
Lo psichiatra: “Bossetti? Padre di famiglia dalla doppia personalità”. Dopo la condanna all'ergastolo per il brutale delitto di Yara Gambirasio, lo psichiatra Michele Cucchi, direttore sanitario del Centro Medico Santagostino di Milano, analizza il profilo psicologico del carpentiere 45enne di Mapello, scrive Mauro Paloschi il 3 luglio 2016 su “Bergamo News”. Dopo la condanna all’ergastolo per il brutale delitto di Yara Gambirasio, lo psichiatra Michele Cucchi, direttore sanitario del Centro Medico Santagostino di Milano, analizza il profilo psicologico del carpentiere 45enne di Mapello, all’apparenza un comune uomo di provincia, ma che in verità sembra essere colpito da una forma di anaffettività corpo-mente. “Massimo Bossetti sembra un comune padre di famiglia bergamasco, quindi insospettabile nel suo comportamento e nel suo contesto – afferma lo psichiatra Michele Cucchi –. Ma per resistere a tutti gli stimoli mediatici, dalla reclusione all’isolamento, fino al peso della potenziale perdita della propria famiglia, assomiglia in verità a un “animale a sangue freddo”. Questa caratteristica si potrebbe collegare sia come indizio di presunta colpevolezza, un tratto di psicopatia con una anaffettività e una sorta di deafferentazione corpo-mente, che si riferisce al fatto che nel corpo non si trasmette il vissuto della mente. Ma potrebbe anche essere una caratteristica di un profilo di un ordinario uomo di provincia con le sue abitudini, i suoi ritmi e i suoi rituali”. “La famiglia e la moglie lo difendono senza remore, a oltranza – prosegue Cucchi – . Lui mostra una resistenza che non si incrina mai: rimane sempre pacato, adeguato, non appare mai emaciato, distrutto da quello che la dimensione mediatica ed esistenziale del processo lo costringe a vivere. Va ricordato anche il passato di quest’uomo: la paternità di cui viene a conoscenza dopo, in una relazione extra coniugale. Si tratta di un potenziale elemento indicatore di tensioni e difficoltà ambientali”. “Altra caratteristica di Bossetti è lo sguardo nelle fotografie: sembra sempre impostato, mai rilassato e sorridente, come in una posa da icona consumata. Colpisce di Bossetti il look curato, con un pizzo meticolosamente delineato, le fotografie con le sopracciglia tinte come il pizzo e come i colpi di sole. Una persona a cui piace essere pulita, ordinata, esteticamente ineccepibile e regolare. Segno di narcisismo, o incapacità di emozionarsi anche per una banale fotografia di repertorio? Se fosse colpevole lo sarebbe avendo fatto una cosa che probabilmente nemmeno lui riconosce come sua, un bisogno sessuale socialmente inaccettabile, un agito. Il movente? Uccidere piuttosto che perdere lo status, piuttosto che perdere quella normalità impostata come il suo sguardo e la sua posa nelle fotografie. Senza alcun pentimento – conclude Cucchi – , senza alcun cedimento emotivo, perché le emozioni non gli appartengono, è un animale a sangue freddo”.
Bossetti, il pianto disperato della madre. Ora parla lei e la gemella: "Vedrete che...", scrive “Libero Quotidiano” il 3 luglio 2016. Continua la disperazione della madre di Massimo Bossetti, Ester Arzuffi, dopo la condanna all'ergastolo del figlio per l'omicidio di Yara Gambirasio. La donna è sempre stata un personaggio centrale del processo, da quando il suo nome era emerso nell'elenco delle 532 persone che negli ultimi anni avevano lasciato la Val Seriana per trasferirsi in uno dei centri dell'Isola bergamasca. Nel tempo lei ha sempre negato quel che poi hanno evidenziato i risultati scientifici la relazione extraconiugale con l'autista di autobus, Giuseppe Benedetto Guerinoni, padre di Massimo e Laura Bossetti. Lo ha fatto davanti alla nuora, Marita Comi, che le ha chiesto chiarimenti, come riporta il Giorno, con i pugni al cielo sotto casa, e davanti al figlio in un colloquio in carcere. Nonostante la condanna del figlio: "Continuo a credere nella sua innocenza - ha detto - Perché lo conosco, conosco mio figlio e sono certa che non può aver fatto una cosa così mostruosa". La fiducia è ancor più granitica nella sorella gemella, Laura: "Massimo lo porteremo a casa con l'appello. Lo porteremo a casa perché è innocente, ne siamo ancora convinti". Sempre accanto al fratello, Laura Bossetti non ha cambiato idea neanche davanti alle prove accettate dai giudici, come il test del Dna: "Nessun dubbio, e poi il Dna bisogna vederlo".
Bossetti condannato, il pianto disperato di mamma Ester: "Credo in lui, non è un mostro". "Speravo nell’assoluzione Ma avevo messo in conto un’eventuale condanna. Non di questo tipo, però", scrive Gabriele Moroni il 3 luglio 2016 “Il Giorno”. È il personaggio centrale di questo fosco dramma. Un ruolo per lei del tutto sgradito, indigesto, confezionato dalla genetica quando ha stabilito con inattaccabile certezza che l’assassino di Yara era il figlio naturale dell’autista di pullman Giuseppe Benedetto Guerinoni. Il nome di Ester Arzuffi era uscito invece dall’elenco delle 532 persone che negli anni avevano lasciato la Val Seriana per trasferirsi in uno dei centri dell’Isola bergamasca. Ester ha negato, anche contro la fredda evidenza della scienza. Ha negato la relazione extraconiugale con l’autista, che le analisi del sangue indicavano come il padre di Massimo e della gemella Laura Letizia, venuti al mondo il 28 ottobre del 1970 all’ospedale di Clusone. Lo ha fatto il giorno del fermo del figlio, quando la nuora Marita l’ha affrontata con i pugni al cielo, esigendo la verità. Ha negato nel primo, drammatico incontro con il figlio detenuto. Ha negato senza mai smettere di negare. Ester ha perduto Giovanni, il marito, morto lo scorso dicembre dopo una lunga lotta contro la malattia. Teme di perdere il figlio, in cella da due anni e da due giorni confinato nel terribile purgatorio del carcere a vita. La madre di Massimo Bossetti parla fra le lacrime.
Sperava forse nell’assoluzione di suo figlio?
«Come madre speravo in un responso diverso. Questo mi fa molto male. Certo mi aspettavo un’assoluzione, ma anche una condanna l’avevamo messa in conto».
E ora?
«Continuo a credere in mio figlio, nella sua innocenza».
Perché è tanto sicura?
«Perché lo conosco, conosco mio figlio e sono certa che non può avere fatto una cosa così mostruosa».
Ha cambiato casa da poco, anche se continua ad abitare a Terno d’Isola. Si è portata dietro le lettere che il figlio le ha scritto dal carcere, ogni tanto le rilegge. Soprattutto una, che con la data del 24 marzo dello scorso anno, quando il marito era ancora vivo. «Ciao, genitori miei, oggi ho ricevuto la vostra lettera scritta il 22, grazie, la cosa più bella è ricevere le vostre lettere e sapere che mi siete sempre vicini e soprattutto non mi avete mai abbandonato, sia con lo scritto, sia col pensiero, ma soprattutto con la presenza, questo vuol dire avere dei genitori che credono in te, genitori che sempre mi hanno voluto bene e che tantissimo oggi mi vogliono ancora più bene. Voi siete i miei genitori, genitori che ho sempre amato e che amerò per tutta la vita, grazie Mamma, grazie Papà». Laura Letizia Bossetti non è mancata a una sola udienza del processo al fratello, sempre scortata dallo stesso gruppo di amici fedeli che non l’hanno mai lasciata sola. Una presenza fissa, sempre in prima fila, nello scarso spazio riservato al pubblico.
Temevate la condanna?
«Un po’ ci aspettavamo che finisse così. Non importa, andiamo avanti. Non è finita. C’è ancora l’appello. Massimo lo porteremo a casa con l’appello. Lo porteremo a casa perché è innocente, ne siamo ancora convinti».
Non le è mai venuto qualche dubbio, per esempio sul Dna?
«No, nessun dubbio. E poi il Dna bisogna vederlo».
Dopo la sentenza è riuscita a parlargli?
«Non ho potuto salutarlo. Ho lasciato spazio a sua moglie. La famiglia è unita, questo è importante. Andiamo avanti».
Bossetti affranto e chiuso in se stesso. Al legale: «Non mi aspettavo l’ergastolo». Chiuso in se stesso, affranto per l’esito di una sentenza che non s’aspettava, annichilito da quella pena accessoria che potrebbe in futuro negargli la patria potestà sui figli, l’unica cosa per la quale tira avanti, come ha confidato al suo avvocato Claudio Salvagni, scrive “L’Eco di Bergamo” il 4 luglio 2016. Chi ha avuto modo di vedere Massimo Bossetti nelle ultime 48 ore, e cioè dopo che gli è piovuto addosso l’ergastolo, lo racconta così. Mangia, dorme (anche se con qualche difficoltà), ma la pena inflittagli per l’omicidio di Yara Gambirasio - la tredicenne di Brembate Sopra trovata morta nel febbraio 2011 in un campo a Chignolo - gli ha per il momento tolto la voglia di parlare, di incontrare gli altri detenuti. Per questo sabato ha disertato la Messa in carcere, appuntamento al quale non era finora mai mancato. «Mi stanno uccidendo dentro», ha confidato al suo legale. L’ergastolo non se l’aspettava, ha fatto capire a chi ha avuto modo di parlargli: il muratore di Mapello confidava in un altro esito del processo di primo grado. In questi giorni pare frastornato da quella parola, ergastolo. Anche se chi lo conosce sa che presto uscirà dallo sconforto che lo attanaglia in questi giorni e ricomincerà a battersi in vista del processo d’appello. Le speranze, quelle non le ha perse. È, però, affranto sia per la gravità della sentenza, sia per il timore di dover rinunciare a vedere i figli. E comunque, la perdita della potestà genitoriale non vuol dire che non potrà più vedere i figli. Finché sono minorenni, tutto dipenderà da Marita, la moglie, anche gli incontri in carcere col padre.
Bossetti, le prossime tappe del caso. «La battaglia è solo agli inizi». Il lungo capitolo del processo di primo grado a Massimo Bossetti si è chiuso venerdì 1 luglio: «Ergastolo». La sentenza è stata pronunciata al termine di una giornata molto tesa in cui il muratore di Mapello, accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio, ha implorato di giudici di ripetere l’esame del dna, scrive “L’Eco di Bergamo” il 3 luglio 2016. L’ultima mossa non è bastata ad evitare il pesante verdetto. Bossetti è stato poi trasferito nel carcere di via Gleno dove ha trascorso gli ultimi due anni in attesa del giudizio di primo grado. La sua battaglia non è finita. I suoi difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini hanno già annunciato il ricorso in appello. Quando comincerà il secondo capitolo del processo? Le stime portano a indicare la primavera del 2017. Avranno 45 giorni di tempo per impugnare la sentenza e depositare il ricorso. La partita si sposterà quindi a Brescia, sede distrettuale della Corte d’Appello. È lì che si celebrerà il processo di secondo grado (aperto al pubblico) . Considerando le tempistiche, la prima udienza potrebbe essere fissata a primavera 2017.Non sarà però un processo lungo come quello di Bergamo. L’appello infatti si celebra sugli atti del processo di primo grado. C’è una variabile di non poco conto che potrebbe cambiare le carte in tavola e dilatare i tempi. La difesa intende infatti riproporre la sua richiesta di nuovi accertamenti genetici. La Corte d’Assise d’appello concederà oppure respingerà l’istanza, come già fatto dai giudici di primo grado? Questo sarà il nodo cruciale del processo. Dopo la sentenza, venerdì sera, Massimo Bossetti è stato riportato in carcere dagli agenti della polizia penitenziaria. Ha cenato, poi si è preparato per la notte. Divide la cella con un altro detenuto (prima erano in tre, ma uno di recente è tornato in libertà) nella sezione protetti del carcere di via Gleno, quella riservata a chi, per il codice non scritto che governa la convivenza fra i carcerati, potrebbe essere ritenuto dai detenuti comuni un «infame», per aver collaborato con la giustizia o per essersi macchiato di delitti come abusi su minori o violenze sulle donne. Nella notte è stato controllato a vista dagli agenti, che non lo hanno perso d’occhio neppure per un minuto. Uno che è appena stato condannato all’ergastolo è da considerarsi fra i soggetti a rischio: un cedimento psicologico, un momento di sconforto, potrebbero portare a gesti inconsulti. «Non ne farò», confida però Bossetti al suo legale Salvagni. «Mi ha assicurato – conferma l’avvocato – che terrà duro. È affranto, certo. Ripete: non ho mai fatto del male a nessuno in vita mia. È disperato per la condanna ma altrettanto determinato a combattere ancora e far valere le sue ragioni al processo d’appello. Va avanti per quello». «Le sentenze si rispettano – hanno detto all’unisono i difensori Claudio Salvagni e Paolo Camporini dopo la sentenza –, dunque aspetteremo le motivazioni che saranno depositate entro novanta giorni a partire da oggi e valuteremo il da farsi. Siamo in ogni caso sereni e convinti di aver fatto il massimo. È scontato che ricorreremo in Appello e di sicuro si andrà poi in Cassazione. La battaglia è solo agli inizi. Tutto si basa su indizi, non c’è alcuna prova». Ma la sentenza, chiediamo, ha sposato per intero la tesi accusatoria? «Aspettiamo le motivazioni prima di esprimere un parere, un giudizio di questo genere». «È solo il primo step di una battaglia lunghissima che durerà ancora molto», ha tagliato corto Camporini. L’avvocato ha poi passato in rassegna questi mesi estenuanti, irti di duri scontri e confronti fra pm, difesa, consulenti e parte civile: «Abbiamo fatto un lavoro straordinario, abbiamo messo abbastanza dubbi. Qui ci sono più anomalie che marcatori; i controlli positivi e negativi del Dna non sono acqua fresca, se non tornano significa che il risultato non è valido», riferendosi alle verifiche del Dna per la quale hanno chiesto «la ripetizione del test», «tappa fondamentale per provare l’innocenza di Bossetti».
Storia di un processo fatto solo di indizi e tv, scrive Angela Azzaro su “Il Dubbio” il 3 luglio 2016.
La ricostruzione. Il corpo di Yara Gambirasio viene ritrovato tre mesi dopo la sua scomparsa. In un campo. Abbandonata. Là dove è morta, non per le ferite da arma da taglio, ma molto probabilmente per il freddo. Una morte atroce, che mette fine alle speranze dei genitori che dal 26 novembre del 2010, giorno in cui lascia la palestra a Brembate di Sopra per non tornare mai a casa, non hanno smesso un solo istante di cercarla. Quando viene scoperta, per caso da un aeromodellista nel campo di Chignolo d’Isola, Yara è già un corpo conteso, una storia pubblica, fagocitata, quasi cannibalizzata da tv e giornali. Fin dall’inizio l’inchiesta e poi il processo nascono sotto questa cattiva stella: la stella dei riflettori televisivi che si accendono non sui fatti, non sulla complessità, ma sulla semplificazione.
L’inchiesta. Prima del ritrovamento del corpo viene fermato l’operaio marocchino Mohammed Fikri che lavora in un cantiere edile di Mapello. Viene rilasciato con tanto di scuse: avevano sbagliato la traduzione di una intercettazione. Le indagini, “quelle vere”, si concentrano invece fin da subito sul Dna che viene ritrovato sugli indumenti intimi di Yara. È del famigerato “Ignoto uno”. La pressione mediatica è sempre molto forte: chi ha ucciso Yara? Chi è stato? Serve al più presto non l’assassino, ma “un” assassino. Uno qualsiasi. Ma nelle mani gli inquirenti hanno solo il Dna. I cittadini della zona vengono sottoposti, volontariamente, all’esame genetico, fino ad arrivare a individuare quasi 3 anni dopo colui che secondo gli investigatori è Ignoto 1: Massimo Bossetti.
L’arresto. È il 16 giugno del 2014. Le forze dell’ordine arrivano davanti casa del muratore di Mapello. Insieme a loro arrivano anche giornali e tv. Bossetti viene portato via, manette ai polsi, immortalato in un’immagine che fa il giro di tutti gli schermi e di tutte le prime pagine. Per la legge sarebbe un presunto innocente. Per la Costituzione non sarebbe, prima dei tre gradi di giudizio, il colpevole. Ma per la Procura di Bergamo che coordina le indagini e per il ministro dell’Interno non ci sono dubbi. «Abbiamo preso l’assassino», dichiara Angelino Alfano con i riflettori ancora accesi sulle manette. Da quell’istante in poi per Bossetti è difficile sfuggire alle maglie di un processo - iniziato un anno fa - che si è giocato più nei salotti tv che nell’aula del tribunale di Bergamo.
Il furgone. Il movente del delitto non c’è. Neanche nella sua requisitoria la pm Letizia Ruggeri ha chiarito questo punto. La prova regina è considerata il Dna, con una serie di indizi collaterali. Tra questi il furgone di Bossetti. Le telecamere vicine alla palestra di Yara lo avrebbero ripreso mentre passava poco prima che la ragazzina, tredicenne, uscisse dalla palestra. Lui si è sempre difeso dicendo che passava lì per lavoro, mentre la difesa ha contestato l’orario esatto del passaggio e il fatto che il veicolo fosse compatibile ma non certamente di Bossetti. Il problema non è tanto questo. È il fatto che la procura abbia chiesto ai carabinieri di montare un filmato in cui si vede il passaggio ossessivo di un furgone simile a quello del muratore di Mapello. Ma non era vero. Non erano immagini che riguardavano il possibile veicolo dell’imputato, ma un “filmino” montato ad hoc per «esigenze di comunicazione». Lo ha chiarito durante il processo il capo dei Ris di Parma, Giampiero Lago, che ha ammesso che quel video «era stato concordato con la procura a fronte delle pressanti e numerose richieste di chiarimenti della circostanza che era emersa». Il video che tutti abbiamo visto non è mai entrato a far parte del processo. Una storia incredibile che lascia tuttora increduli: l’esigenze di comunicazione, il rapporto con la stampa vengono prima della verità processuale? Prima della presunzione di innocenza? Prima della preoccupazione di mandare in galera un innocente?
La prova regina. Il vero scontro è sempre stato sul Dna. E’ considerata la prova regina, la “pistola fumante” nella mani dell’accusa. Per la pm Letizia Ruggeri il Dna è sicuramente di Bossetti. Ma i dubbi sono tanti. Il Dna nucleare (quello di discendenza paterna) coinciderebbe con quello di Bossetti, mentre non coincide quello mitocondriale di discendenza materna. E’ per questa ragione che la difesa ha chiesto, durante il processo, di poter ripetere l’esame del Dna per chiarire anche la metodologia usata. Ma non è stato possibile. Secondo Natale Fusaro, docente di Criminologia alla Sapienza di Roma, si tratta di un vero e proprio vulnus. «La prova si forma nel contraddittorio, ma l’esame del Dna è avvenuto prima che Bossetti fosse indagato». Nel caso del processo Meredith, la ripetizione dell’esame del Dna, che in primo grado aveva incastrato Sollecito e Knox, aveva permesso di stabilire che la metodologia usata non era valida e che quindi non era valida neanche la prova principale contro i due ragazzi. E se fosse così anche per Bossetti? L’esame non si può ripetere anche perché non c’è sufficiente materiale organico. «Ma chiarire il metodo - sottolinea Fusaro - è fondamentale. Se ci si avvale delle prove scientifiche, si deve essere in grado di dimostrare come si è operato».
Fiction o realtà. Bossetti è diventato suo malgrado protagonista di una sorta di fiction. Secondo la pm sarebbe un “perverso”, perché guardava i siti pornografici e perché in carcere ha scritto lettere un po’ osè a un’altra detenuta. Il processo è stato fatto più alle intenzioni, al presunto carattere, che con le prove. In mezzo ci sono finiti i familiari. Prima la madre. Il Dna dimostrerebbe che il padre non sia il marito, ma il famoso autista Giuseppe Guerinoni, con cui la donna avrebbe avuto una relazione extra coniugale. In questo caso il dato rientra nell’inchiesta, ma è pur sempre un dato sensibile che è finito in pasto ai media. Così la vita coniugale di Bossetti. Setacciata, scandagliata, sbattuta in prima pagina. Ma tutto questo cosa ha a che fare con il processo? Con le prove? Con lo Stato di diritto? Solo davanti alla sentenza, la fiction diventa una realtà, una brutta realtà, finita in primo grado con la condanna.
«Sì, ha ucciso lui Yara». Ergastolo a Bossetti, predestinato colpevole, scrive Errico Novi il 2 luglio 2016 su “Il Dubbio”. La Corte d'assise decide dopo 10 ore di camera di consiglio. Colpevole: a uccidere Yara Gambirasio è stato Massimo Bossetti e merita l'ergastolo. È questa la verità pronunciata alle 20 e 30, dopo dieci ore di camera di Consiglio, da Antonella Bertoja, presidente della Corte d'Assise di Bergamo. È la verità dei giudici, non cancellerà l'orrore del ricordo, soprattutto dagli occhi del papà e della mamma di Yara, di quel freddo, di quel 26 novembre del 2010, il freddo che vide spegnersi la ragazza di 13 anni nel campo di Chignolo d'Isola. Secondo il collegio composto oltre che da Bertoja, dalla giudice a latere Ilaria Sanesi e da 6 giudici popolari, il carpentiere di Mapello ha infierito con crudeltà sulla ragazzina e poi l'ha lasciata morire lì. Non hanno creduto alla sua ultima esortazione, pronunciata ieri mattina un attimo prima che la corte si ritirasse: «Vi imploro di ripetere il test del Dna. Sarei un pazzo a chiedervelo se fossi colpevole». Quel codice genetico, ha detto l'imputato, «non è mio, vi supplico di fare questa verifica». In linea del tutto teorica la Corte d'Assise avrebbe potuto sospendere la decisione e, anziché una sentenza, emettere un'ordinanza di ripetizione della prova. Ma in mattinata lo stesso difensore di Bossetti, Claudio Salvagni, interpellato dal Dubbio, aveva detto: «Non ho mai assistito a una decisione del genere». La Camera di Consiglio è stata lunga anche per la quantità dei verbali da riepilogare, e già dalla mattina la presidente Bertoja aveva previsto che non si sarebbe arrivati alla lettura della sentenza prima delle 20. Resta un senso di vuoto che forse la violenza della distruzione mediatica di Bossetti ha contribuito ad allargare. Ha provato a dare di sé un'immagine diversa, ha parlato ai giudici del bambino messicano adottato a distanza, e ha cercato di persuaderli con l'ultimo appello: «Accetterò il verdetto qualunque esso sia perché pronunciato, ne sono convinto, in assoluta buona fede. Ma ricordatevi che se mi condannerete sarà il più grave errore giudiziario di questo secolo». E poi: «Mi rendo conto che è molto difficile assolvere Bossetti, ma è molto più difficile sapere di aver condannato un innocente». L'avvocato Salvagni non esita a dire che le attese, anche istituzionali, createsi fin dall'arresto del giugno 2014 attorno alla condanna del suo assistito «hanno influito sul decorso del procedimento». La famiglia distrutta, di certo, è quella di Yara Gambirasio: i genitori della vittima hanno rispettato anche ieri la scelta di non mettere piede nel Tribunale di Bergamo. Dice Enrico Pelillo, avvocato dei familiari di Yara: «Queste persone hanno avuto un riserbo, un decoro, un pudore forse desueti ma esemplari. Non hanno mai accennato ad atteggiamenti vendicativi. Nonostante quello che accadeva attorno».
«Ma quelle immagini dell’arresto restano vergognose», scrive Errico Novi l’1 luglio 2016 su “Il Dubbio”. Secondo il responsabile dell’Osservatorio delle Camere penali per l’Informazione giudiziaria, gli inquirenti hanno «scientificamente indebolito la posizione dell’imputato». Dopo la “svolta cinematografica” delle accuse a Massimo Bossetti, l’Osservatorio Informazione giudiziaria dell’Unione Camere penali diffuse una nota molto dura. In particolare per la forzatura più plateale, il “filmato del furgone bianco”: un video realizzato dal Ris dei carabinieri in modo dichiaratamente artificiale, con la selezione di alcuni tra i molti frame acquisiti dalle telecamere di Brembate di Sopra in cui comparirebbe il mezzo dell’imputato. Immagini mai acquisite agli atti del processo ma che lo hanno condizionato, sostiene l’Ucpi. «Queste forzature hanno un effetto duplice: influenzano i giudici, soprattutto in casi in cui la Corte è composta anche da non togati, e gli stessi testimoni», spiega l’avvocato Renato Borzone, che dell’Osservatorio dell’Ucpi è il responsabile.
Immagini come quelle del furgone e dell’arresto hanno indebolito la posizione di Bossetti?
«Assolutamente sì. Lo dico al di là di ogni valutazione di merito sulla colpevolezza dell’imputato. Non c’è dubbio che la sua posizione processuale sua divenuta molto più debole a causa di queste rappresentazioni costruite ad uso dei media. Ed è chiaro che gli investigatori, nel diffondere quei filmati, perseguissero proprio lo scopo di colpire l’immagine di Bossetti».
Cosa intende dire?
«Che prima la rappresentazione del processo sui giornali rispondeva più che altro a esigenze di scambio tra inquirenti e stampa: io pm ti passo le notizie, tu cronista magnifichi i miei meriti. Dinamica che spesso coinvolgeva anche gli avvocati. Ma ora siamo ben oltre tutto questo».
Perché si è più spietati nel colpire l’immagine delle persone?
«Perché l’informazione giudiziaria è diventata una prosecuzione delle indagini con altri mezzi. Costituisce un elemento accessorio di forza a disposizione dell’accusa. Anche perché l’orientamento colpevolista diventa sempre più preponderante, tra i media. Forse in virtù di un approccio autoritario secondo cui l’accusa ha sempre ragione».
Il processo Bossetti è il paradigma di tutto questo?
«Se si riferisce alla enfatizzazione della colpevolezza dell’imputato, lo è stato senza dubbio. Si è assistito a una spinta fortissima a mostrare Bossetti come già colpevole prima ancora che iniziasse il processo. Alcune cose sono state vergognose».
Quali?
«Le immagini dell’arresto: hanno esibito l’umiliazione di un uomo, sarebbero state vergognose persino se all’epoca dei fatti fosse già emersa una prova certa di colpevolezza. Non possiamo pensare che quelle immagini siano state riprese per caso, né che in modo casuale siano state diffuse e proposte ripetutamente. Dopo mesi in cui la posizione di un indagato viene rappresentata in un certo modo i riflessi sul processo sono inevitabili».
Come può affermarlo in modo così netto?
«Lo dicono gli psicologi e gli scienziati della comunicazione come quelli che l’Unione delle Camere penali ha riunito nei mesi scorsi a Bologna: hanno spiegato in modo preciso i meccanismi che consentono di condizionare giudici e testimoni attraverso le campagne colpevoliste».
"Cè una prova regina che non si può confutare", scrive Giuliana Ubbiali su “Libero Quotidiano” il 3 luglio 2016. Ergastolo, fine pena mai. Massimo Bossetti l'ha realizzato subito. Poi, nella notte trascorsa insonne dopo la condanna per l'omicidio di Yara Gambirasio, ha macchinato un pensiero che lo terrorizza: non poter più vedere i figli, il suo ragazzo che a settembre compirà 15 anni, e le sue bambine, di 10 e 11 anni. L' ha pensato quando la presidente della Corte d' assise, Antonella Bertoja, alle 20.35 di venerdì ha pronunciato la frase: «Decadenza della patria potestà». E l'ha temuto ancora di più ieri mattina presto, quando la moglie Marita Comi e il fratello Fabio Bossetti sono andati a trovarlo in carcere. I ragazzi non c' erano, anche se il sabato è il giorno fisso per incontrare papà. Un colpo al cuore. Così, non appena vede il suo avvocato, Claudio Salvagni, gli chiede che cosa succederà. "Temeva di non poter più vedere i figli, invece gli ho chiarito che prima di tutto si tratta di una pena accessoria a una condanna che non è definitiva e che, comunque sia, non significa perdere il diritto di incontrarli. La moglie non li ha portati perché non sapeva in che stato d' animo lo avrebbe trovato». Sono rimasti insieme per un'ora abbondante. Non potevano che parlare della batosta della condanna. «È un uomo distrutto - lo descrive Salvagni -. Quando sono arrivato mi ha ripetuto: "Non è giusto, sono innocente, perché mi hanno condannato? Non è possibile"». L' aveva detto anche alla Corte nel suo implorante appello prima che i giudici si ritirassero per 10 ore per decidere tra l'autoritratto del padre affettuoso e dell'uomo incapace di qualsiasi violenza, e quello dell'assassino bugiardo e senza scrupoli tracciato dal pm. La visita di Marita e di Fabio, il fratello che all'inizio dubitava di lui, è stata fondamentale. In aula l'ha detto: «Mia moglie, i miei figli, i miei familiari mi mancano tantissimo. Sono la mia unica ragione di vita». Senza, crollerebbe. «Ma è un problema che non si pone», assicura Salvagni. Tradotto: Marita resta al suo fianco. Gli ha dato un bacio prima che la Corte si ritirasse. Ha pianto e l'ha abbracciato dopo la sentenza. Ora gli avvocati pensano a preparare l'appello. Anzi, guardano già al grado successivo: «Credo che la condanna non possa reggere in Cassazione». Gliel' hanno giurato: «Non lo abbandoniamo, è la nostra iniezione di fiducia». Intanto Bossetti ha accusato il colpo: «Ci credeva, ma gliel' avevo detto: resisti, perché al 95% sarà una condanna».
Il caso Bossetti non finisce qui. Finirá come per Amanda e Sollecito. E vi spiego perché. Massimo Bossetti condannato: ergastolo. La sentenza è stata appena letta in aula, sono da poco passate le otto di sera. È come una bomba atomica, scrive Luca Telese il 2 luglio 2016. «Sono un ignorantone, non sono un assassino». Ha parlato per la terza volta nell'aula di Bergamo, nell' ultimo intervento nel corso del processo, il più importante, il più drammatico. Lo rien ne va plus. Massimo Bossetti ha dato ancora una volta corpo al suo enigma. Ai due personaggi inconciliabili che abitano nel suo corpo come fantasmi, come due caratteri disegnati dal genio giallistico di Alfred Hitchcock: da un lato «Massi», padre amorevole, marito fedele integerrimo, dall' altro «il favola» disegnato dall' accusa, un torbido cinquantenne frustrato sessualmente, perverso, violento e mentitore. E quindi la corte decide, quale di questi due Bossetti è quello giusto. È l'uomo che torna stanco a casa alla sera, così onesto da emettere fattura anche per i lavori che faceva fuori dal suo orario di cantiere, che girava le edicole per comprare le figurine ai figli (la difesa ha prodotto anche gli album in aula), che conduceva la sua ordinaria vita da operaio del nord con un cellulare da 50 euro nel cantiere e uno da 150 la domenica? Oppure è l'uomo inquieto tratteggiato dalla pm Letizia Ruggeri, sessualmente confuso già all' età di 14 anni? Mitomane al punto da inventare continuamente balle sul cantiere, figlio di una donna di facili costumi, su cui leggendo tra le righe del rinvio a giudizio l'accusa getta sospetti invincibili. Bossetti ha mentito fin dal primo interrogatorio, come sospetta la Ruggeri, quando dietro la minuscola bugia sulle lampade abbronzanti nascondeva gli appostamenti per pianificare un delitto? Oppure, come ha dimostrato la difesa, è un uomo che è stato inchiodato malgrado una deposizione sincera, quella in cui ha ammesso i normali buchi di memoria che ognuno di noi avrebbe avuto a distanza di quattro anni. Questi due Bossetti hanno danzato ieri nel tribunale di Bergamo per l'ultima volta senza mai incontrarsi: se il muratore di Mapello è «il favola» non si capisce come mai, in un periodo di tempo così lungo, non abbia pensato a prepararsi una versione difensiva convincente. Mentre se il «Massi» è sincero è davvero incredibile il calvario che sta subendo. Nel primo interrogatorio, gli vennero imputati come amanti, con una gaffe dell'accusa, i nomi di donna che portava scritti con grafia minuta in un bigliettino piegato e riposto nel portafoglio: «Chi sono queste donne Bossetti? Le sue amanti?» I nomi suonavano in modo terribilmente evocativo: Samanta, Jessica. Era forse il catalogo delle prede del mostro? L' imputato dell'omicidio di Yara riuscì a stupire tutti ridicolizzando questa ipotesi: «Se lei toglie il prefisso 335 al numero che corrisponde a quel nome, scoprirà che è il codice del mio bancomat!». L' interrogatorio divenne duro: «Bossetti, sicuro? Guardi se facciamo quel numero e risponde qualcuno lei finisce nei guai». E lui: «Ma certo. Non lo avete ancora verificato?». Se c'è una cosa che ha veramente appassionato nel confronto tra intenditore ed imputato, è che la pm Ruggeri, con il suo volto affilato e il tono sprezzante, ha sempre considerato Bossetti un mostro, un alato vigliacco che nascondeva segreti orrendi: le ricerche sul computer di famiglia con parole chiave evocative come «vagine rasate», «tredicenne per sesso», «perdere la verginità», diventavano l'antro dello stregone. Mentre per la difesa non erano tutte navigazioni attribuibili a Bossetti, dovevano essere considerate come le normali curiosità che attraversano gli uomini ordinari nel momento critico della mezza età. E il rapporto con Marita? Per la Ruggeri è la chiave di tutto al punto di giocare nel processo la carta spietata: la rivelazione dei presunti amanti. La pm immagina un Bossetti schiacciato dal carisma di una donna, comandato a bacchetta, che arriva a sequestrare e uccidere una ragazzina perché è un maschio fragile che non riesce a stabilire un rapporto paritario con la sua donna. E così l'Italia è finita dietro al buco della serratura: facevano sesso tre volte a settimana, a volte quattro. Guardavano film porno per eccitarsi, che sceglieva lei in un rito di intimità e fantasia erotica. Il periodo in cui si sono rotti i rapporti - nessuna chiamata sui tabulati tra i due - può essere la traccia di un turbamento morale dopo l'omicidio? Non ci sono possibilità di contatto tra questi due ritratti, uno demonizzante, quello dell'accusa, uno angelico, quello della difesa. Il padre premuroso che fa i salti mortali per pagare una vacanza, che vende casa per fronteggiare la crisi, che passa in famiglia tutte le sere dal giorno del matrimonio, con l'eccezione delle «cene goliardiche coi coscritti» non ha nessun punto di contatto col morboso killer descritto dall' accusa. In questo processo Bossetti è finito in un tritacarne: abbiamo conosciuto la sua privacy, abbiamo scoperto che ha visto dei porno trovati con la parola chiave «sesso con animali», siamo andati a inseguire le sue notti in discoteca a Sotto il Monte alla fine degli anni '80, abbiamo scoperto che ha fatto il lumacone con una ragazza a cui ha venduto uno specchio con cornice su Subito.it per 15 euro. Sappiamo che usa la perdita di sangue dal naso come scusa per uscire dal cantiere. Raccontò di aver un tumore e non era vero, di esser stato buttato fuori di casa: secondo l'accusa, un alibi per coprire la sua doppia vita, secondo la difesa uno escamotage per fuggire dal padrone del cantiere. Ascoltando questo lavoro di bisezione, mi sono chiesto più volte, e mi farebbe piacere lo facessero anche i lettori, quante pieghe si nascondono nelle vite di ognuno di noi, se fossero passate con il setaccio di un pregiudizio criminale. Anche la più innocente delle smargiassate diventa una colpa: «Alla visita di leva l'infermiera mi abbassò i pantaloni e mi disse: "però Bossetti che mazza"». Se attribuita al personaggio dell'operaio bergamasco, del padre di famiglia, diventa la più normale delle sparate di un maschio italiano, se immersa invece nel racconto dell' orco, come voleva l' accusa, diventa il picche rivelatore di un malato di sesso che non riesce a trattenersi. Forse questa sentenza sta diventando anche un processo alla morale, al costume, alla fragilità degli uomini e degli amanti e dei padri, la condanna di ieri indica la direzione del Bossetti mostro, il ritratto che la difesa consegna al processo d' appello, racconta le debolezze di un uomo normale, innocente, distrutto da un' inchiesta senza pietà che viene inchiodato sotto una catasta di indizi traballanti e una perizia sul dna pasticciato come l' esercizio di un bambino alla finale di Masterchef junior. Nell'aula di Bergamo i giornalisti sono corsi fuori a dare la notizia. Marita, la moglie del muratore di Mapello scoppia in lacrime. Sua figlia pure. Bossetti abbassa il capo quando sente che gli sarà tolta la patria potestas sui suoi tre bambini. Hanno capito tutti, anche se non sono sicuri dei dettagli, soprattutto di questo risarcimento, 400 mila euro. A Marita lo spiega, quasi intimidito, l'inviato di Quarto Grado, Giorgio Sturlese Tosi. L'avvocato, Claudio Salvagni, gira vicino ai banchi della difesa guardandosi i piedi, attonito. L'accusa, la Pm Letizia Ruggeri - con maglia decolté pitonata - sprizza gioia da tutti i pori. Un campo di battaglia di vincitori e vinti. Ergastolo, primo grado chiuso. Ma - come per il delitto di Perugia - è solo il primo tempo di una partita che finirà in Cassazione e che può essere ribaltata: proviamo a capire perché. Oggi voglio fare un esercizio di stile, alla Queneau, raccontando le due verità, inconciliabili e in conflitto che hanno ballato in quell'aula di tribunale. La prima verità, quella dell'accusa, dice: 1) c'era il Dna di Bossetti sulle mutandine della ragazza. 2) Lui ha spento il suo telefonino per non farsi tracciare. 3) Si appostava in quel paese per sorvegliarla con la scusa delle lampade abbronzanti per essere vicino a lei. 3) La conosceva, anche se non c'è una prova certa di questo. 4) Lei è salita insieme a lui sul furgone consenziente. 5) il corpo di Yara aveva calce nei polmoni, quindi era stata nel furgone di un muratore 6) Lui l'ha portata nel campo di Chignolo e l'ha uccisa, 7) il cellulare di Bossetti agganciava nella stessa cella di quello di Yara. 8) Lui faceva ricerche pedo-pornografiche, 9) era sessualmente frustato, 10) subordinato alla moglie e indispettito perché Marita lo tradiva. 11) lui e lei dopo il delitto non si sono più parlati al telefono per giorni interi. 12) lui quella sera è tornato a Brembate e poi 13) dopo il ritrovamento del corpo, ha portato sua moglie e i suoi figli sul campo di Chignolo, a vedere la scena del delitto per controllare. Sempre dopo il delitto 14) Bossetti ha comprato un metro cubo di sabbia: forse per seppellire il corpo? 15) dal carcere l'operaio - che è evidentemente un maniaco sessuale - ha scritto lettere oscene persino ad una prigioniera. Sentendo questi elementi, chiunque direbbe: "È stato lui, buttate la chiave". Questo - infatti - è quello che l'accusa ha sostenuto, che buona parte dei media hanno veicolato sulle indagini. Però il processo ci ha detto altro. E lo ha detto non tanto perché lo sostengono le perizie della difesa (che su molti punti è stata efficacissima) ma, come vedremo, perché questo risulta dalle stesse perizie dell'accusa. Possibile? Giudicate voi stessi. 1) sul corpo di Yara non c'è solo il Dna di Bossetti, ce ne sono almeno altri dieci (più altri non completamente tracciabili). Da dove ricavo questa notizia? Dalle perizie dei carabinieri e della polizia. 2) il Dna è composto dal mitocondriale. E dal nucleare. Quello nucleare trovato sulle mutandine di Yara (reperto g20) coincide con quello di Bossetti. 3) quello nucleare - invece - incredibilmente - appartiene ad un altro individuo. Chi lo dice? La perizia del professor Previderé genetista dell'accusa. 4) i test sulle mutandine sono stati fatti (anche) con dei kit scaduti. Chi lo dice, la difesa? No, i capitani dei aria che hanno fatto l'esame (sostengono: anche se scaduti, come per i farmaci, funzionavano ancora). 5) nello stesso giorno e nello stesso esame che ha identificato "Ignoto uno" un test che doveva provare la non contaminazione del campione è risultato positivo (cioè contaminato). Da dove arriva questa informazione? Dai "Raw data", ovvero i brogliacci degli esami forniti dall'accusa. Possibile? Ebbene sì. 6) Bossetti non ha spento il suo telefonino. Trattandosi di un modello poco evoluto basterebbe che non lo avesse chiamato nessuno a quell'ora perché sembrasse spento. C'è una bella differenza. Chi lo ha detto? La difesa? No, il carabiniere che ha studiato il telefonino, le celle e i tabulati. 7) Bossetti e Marita hanno visto molti film porno (come milioni di italiani) ma non hanno fatto nessuna ricerca pedo-pornografica (che invece è un reato gravissimo). Chi lo dice? L'avvocato Salvagni? No, i periti dell'accusa che hanno studiato i computer. 8) il cellulare di Bossetti, nel suo ultimo contatto, agganciava ad una cella che poteva irradiare il suo segnale verso la palestra di Brembate, 'a anche - incredibile ma vero! - nel giardino di casa Bossetti. Chi lo ha detto al processo? Un perito dell'accusa? No, il carabiniere che ha fatto le indagini sulle celle. 9) Bossetti era orgoglioso di sua moglie Marita, anzi se ne vantava. Altro che frustrato. 10) Bossetti non sapeva - all'epoca - che Marita avesse degli amanti. Chi lo dice? Le ricevute con cui si sostiene che Marita fosse andata in motel con un altro uomo le ha prodotte in aula la pm Ruggeri. È questo dettaglio - ha detto la presidente della Corte - non aveva nessuna attinenza con il processo. 11) Marita e Massimo non si sono parlati per diversi periodi, non solo dopo il delitto. Lui ha spiegato che Marita no lo ha chiamato, e lui altrettanto, perché la madre stava male. 12) Bossetti e la famiglia raccontano di essere passati in macchina vicino al campo di Chignolo per curiosità. Non hanno visto nulla, peró. Se lui fosse stato colpevole, perché tornare 13) il famoso metro cubo di sabbia, si è scoperto leggendo l'agenda del suo capo cantiere dell'epoca, serviva per la gettata di un villino che Bossetti stava costruendo (lo ha detto l'interessato durante il dibattimento). Ma che senso avrebbe avito rischiare di essere visto per coprire il corpo? Mistero. 14) le lettere di Bossetti alla detenuta Gina dovrebbero provare, semmai, la sua innocenza. Se ti interessa un donnone di 90 chili, come puoi essere attratto da una ragazzina? Ma le incongruenze dell'accusa sono ancora più grandi: la Pm ha sostenuto che le anomalie del Dna ci sono, ma che non potranno essere spiegate mai. Non è stato indicato un movente, non è stato chiarito se Bossetti è un pedofilo, non è stato fissato in maniera univoca se il luogo del delitto sia davvero il campo di Chignolo o se - come sostiene la difesa - Yara sia stata uccisa altrove. Ma gli stessi tempi ipotizzati dall'accusa rendono quasi impossibile questa possibilità, visto che Bossetti non avrebbe avuto in dieci minuti la possibilità di traversare un campo fitto di erba alta, uccidere, tornare indietro. Gli stessi investigatori hanno testimoniato che la vegetazione di Chignolo era così alta e fitta da rompere le tute sterili da lavoro. Come avrebbe potuto Yara correre da sola in quel campo? Come si vede gli elementi che non tornano sono tanti, e lo scenario cambia totalmente se li si consideri meno. I soli dubbi sul Dna potrebbero ribaltare il verdetto, soprattutto se si considera che l'esame - a detta degli inquirenti - non è più ripetibile, e non è avvenuto in condizioni di garanzia per l'imputato. Si può dare l'ergastolo per una prova che nessuno può verificare il Dede processuale? Giudicate voi cosa vi pare più convincete. Ma è evidente fin d'ora che un appello in tribunale diverso da quello che ha indagato potrebbe indurre ribaltamenti sorprendenti. Il motivo di interesse di questo caso, secondo me, è che non riguarda solo il muratore di Mapello, ma tutti noi, visto che ciò che verrà deciso farà sicuramente giurisprudenza.
Vittorio Feltri e la difesa di Bossetti: vi dico perché l'hanno condannato, scrive il 3 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. Processo inutile, pro forma, una perdita di tempo, uno spreco di energie e di denaro: la sentenza di Massimo Bossetti era già nell' aria alla prima udienza. La puzza di ergastolo non è mai venuta meno nell'aula della Corte d' Assise di Bergamo. Il rito si è svolto perché era obbligatorio che si svolgesse per rispetto delle norme, ma si sapeva in partenza che si sarebbe concluso con la morte civile dell'imputato. Nessuno meglio del muratore di Mapello poteva interpretare il ruolo dell'assassino della povera Yara, tredicenne senza macchia, come tutte le tredicenni di questo sporco mondo che ha bisogno di consolarsi condannando un colpevole, non importa se contro di lui non c' è una prova. Serve un colpevole per placare le ire e le ansie dell'opinione pubblica e si sceglie il più idoneo al sacrificio. Bossetti aveva ed ha tutti i crismi per essere indicato quale omicida. L' hanno identificato, preso, sbattuto in carcere e cotto a fuoco lento. Oggi è un ergastolano, privato non solo della libertà, ma anche della patria potestà sui propri tre figli. Tre figli ammazzati dalla giustizia ingiusta. Figli di un assassino e di una donna leggera, diffamata in tribunale e fuori, nipoti di una poco di buono e di un cornuto. Me li immagino i tre ragazzini Bossetti in giro per il paesello orobico, guardati di sottecchi dal popolo come gli eredi del mostro, portatori dello stesso dna di colui che ha soppresso la tredicenne. Pensate alla loro vita attuale e futura. Pensate al peso che si porteranno addosso durante la loro intera esistenza. Ma questi sono particolari che non urtano la sensibilità della gente, anzi: alimentano i pettegolezzi nel piccolo borgo. L' importante è sputtanare. Se poi il criminale sia egli stesso una vittima, chissenefrega. Le toghe hanno comunque ragione per legge. Guai a dubitare della loro onestà intellettuale e professionale. Bossetti Massimo è stato inchiodato dal dna prelevato dalle mutandine della ragazzina trucidata. C'è poco da discutere. Davanti alla scienza ci si inchina religiosamente, chi dubita è un eretico, un ignorante. Se gli esami di laboratorio, indipendentemente da chi li abbia eseguiti, dicono che quelle goccioline di sangue sono di Bossetti, si accetta il responso quale verità indiscutibile, quale dogma. Non si tiene conto del fatto che se la scienza è esatta per definizione, chi la maneggia, invece, pure per definizione, può sbagliare così come sbagliano spesso tutti gli esseri umani. Mi vengono in mente quei medici che recentemente hanno operato due persone, cui hanno estratto un rene a testa perché affette da tumore. Peccato che i sanitari in questione, anziché togliere i reni malati, abbiano tolto quelli sani. Anche costoro a modo loro erano e sono scienziati. Se si accetta il principio che errare umanum est, perché non sospettare che anche i cervelloni che hanno valutato il dna attribuito a Bossetti abbiano preso lucciole per lanterne? Nossignori, il pm e i giudici della Corte d' assise sono sicuri che i periti siano infallibili. Perché non ripetere le analisi per avere maggiori certezze? Uffa, quante balle. L'omicida è Bossetti punto e amen. Parola di magistrato. Il quale si basa sulle carte. Le gira e le rigira, le compulsa e le studia, sono il vangelo, non mentono. Se gli fai notare che le carte sono carta, e che la carta può essere straccia, ti considera un idiota. I camici bianchi sono tutti autorevoli? Non mi pare. Per blindare un uomo in cella da qui alla sua morte è sufficiente il dna quand'anche fosse un bidone? Lorsignori affermano oltretutto che su Bossetti gravano almeno quattro indizi, macigni. Eccoli. Uno. L' aggancio delle celle telefoniche sulla palestra frequentata da Yara. Due. Le sfere di metallo - simili a quelle che si trovano spesso nei cantieri edili - recuperate nelle scarpe della ragazzina morta. Tre. La mancanza di alibi. Quattro. Le fibre tessili sui vestiti di Yara compatibili con quelle del furgone del carpentiere. E li chiamano indizi? Sono fragili congetture. Perché le celle telefoniche era ovvio fossero le stesse che coprivano la zona della palestra, dato che Bossetti per rincasare da lì doveva transitare, non possedendo un elicottero, ma un semplice camioncino costretto a percorrere una determinata strada. Perché le sfere di metallo in questione sono reperibili in qualsiasi cantiere e non solo in quello dove lavorava Bossetti; rimane, poi, da spiegare come tali sfere siano finite nelle scarpe di Yara. Che nesso c'è tra le calzature e il delitto? Perché le fibre tessili di ogni sedile di automezzo sono simili ed è pacifico che siano compatibili con quelle rintracciate sugli abiti dell'adolescente. Insomma, siamo in presenza di dettagli insignificanti. Il più debole dei quali riguarda la mancanza di alibi. Vi sembra tanto strano che il muratore non ricordi cosa abbia fatto la sera della scomparsa della ragazzina? Scusate. Io non ricordo il cibo che ho mangiato ieri sera e si pretende che Bossetti rammenti le sue mosse compiute in un tardo pomeriggio novembrino di alcuni anni orsono? Contestare all'imputato questa lacuna - che tale non è - suscita stupore e incredulità. Nessuno è in grado di ricostruire ciò che ha combinato mesi, anni fa. Ciò premesso, restiamo basiti di fronte all'inconsistenza dell'impianto accusatorio che ha stroncato l’operaio, su cui è stata scritta ogni nefandezza persino riferita alla sua vita privata, ai rapporti con la moglie, ai gusti sessuali, all' amore per gli animali, alle curiosità telematiche. Ossia roba ininfluente ai fini processuali. Si sono scatenate contro questo poveraccio orde di giornalisti colpevolisti e ansiosi di fare strame della sua moralità nella speranza di creare intorno a lui - riuscendoci benissimo - un clima di odio. La verità non la conosco. Ma la sensazione è che se Bossetti, invece di essere un proletario sprovveduto, incolto e intontito, fosse stato un borghese arricchito da buoni studi oggi sarebbe libero. Nessuno avrebbe osato additarlo quale omicida. Un operaio sfigato è facile trasformarlo in bersaglio immobile e colpirlo, trascinarlo nel fango e lì abbandonarlo beandosi del clamore mediatico suscitato dalla sua condanna. Come cittadino mi sento a disagio per aver assistito a simile massacro.
Massimo Bossetti, l'ergastolo e la favola del lupo cattivo che tanto è piaciuta al giudice...scrive Massimo Prati su “Albatros Volando Controvento” il 3 luglio 2016. "Lasciate ogni speranza voi che non confessate". Questa è la frase che nella nuova era giudiziaria vive nella mente di chi segue gli sviluppi di troppi casi criminali privi di un reo confesso. E' la frase che oramai ha surclassato quel "innocente oltre ogni ragionevole dubbio" che tanto dava l'idea di vivere in uno stato del diritto. Ma la democrazia, anche la giudiziaria, non è mai esistita e di certo non è della nostra epoca, epoca che si dimena nel campo delle apparenze e delle illusioni per dimostrare che non esiste l'impossibile e che anche una favola basta per condannare. Al popolano oberato di impegni e scadenze gli fan credere di non dover temere nulla perché è sovrano della propria vita... salvo poi dimostrargli, quando per sbaglio incappa nelle maglie di chi dovrebbe servire il potere popolare e invece si sente un superman autorizzato a mostrare la sua forza, che la democrazia è un'altra cosa. In uno stato di diritto, in democrazia, non si viene ingabbiati dalla sera alla mattina se non si è presi con le mani nel sacco. In una giusta democrazia giudiziaria i diritti dell'imputato sono sacri e nessuno nega perizie che potrebbero portare nuove verità. In pratica, chi dovrebbe dimostrare che la libertà personale è la base da cui partire ci dimostra invece che viviamo nel paese delle marionette dove chi non sbatte i pugni in faccia al vessato di turno si veste da Ponzio Pilato e si lava le mani per sbiancarsi la coscienza, ripulirsi del dolore altrui e obbedire ciecamente al dictat imposto dalla corrente. Per questo motivo non devono stupire le condanne prive di senso logico se una volta comminate fanno gioco al potere, anche locale, costituito. Solo chi non ha seguito le vicende giudiziarie di chi negli ultimi trent'anni è stato condannato senza prova alcuna può stupirsi di una incredibile sentenza all'ergastolo. Troppe sono le persone comuni che perseverando nel dichiararsi innocenti sono state condannate grazie a indizi fasulli o di doppia lettura (innocentista e colpevolista). Troppe quelle che non piegandosi al volere dell'accusa vegetano nelle nostre carceri o si suicidano per non morirci vivi. Nessuna di loro sarebbe stata condannata prima dell'avvento del cosiddetto "processo indiziario". In quei tempi la fantasia non era accettata in magistratura e il beneficio del dubbio le avrebbe salvate dalla rovina totale o dalla morte. Ma tant'è! Da quando sono nati i processi indiziari l'Italia è terra di tortura per chi non accetta di accollarsi una ricostruzione accusatoria che prevede un delitto che non si è commesso. D'altro canto, da quando i vari decreti legislativi hanno sgravato le pene detentive l'Italia è diventata terra di conquista per gli assassini che istruiti a dovere dai loro avvocati confessano in poche ore, a volte va bene anche dopo giorni o mesi di menzogne, per godere già nell'immediato delle mille e più agevolazioni previste. Volete ammazzare qualcuno che vi sta antipatico e non farvi anni di galera? Volete far fuori il marito, la moglie o la suocera e magari intascarvi i loro beni? Fatelo in Italia poi confessate il crimine piangendo. Mostratevi pentiti e scossi da un evento che non volevate accadesse e vedrete che a fatica finirete in carcere prima di prendere possesso di eventuali eredità. Ad oggi, infatti, la giustizia nostrana permette a tantissime merde disumane, ad assassini mostratisi privi di coscienza e scrupoli al momento di uccidere in maniera efferata, di tornare libere in breve tempo. Hanno confessato il delitto e quindi si sono pentiti, poveri assassini in lacrime, per questo hanno tutto il diritto di trovare nuovi stimoli nella società e, forse, anche nuove vittime a cui far trascorrere una vita d'inferno. Al contrario, per la giustizia nostrana esistono imputati che non si pentono dei loro crimini. Sono quelli che dopo una vita trascorsa nell'onestà non sopportano di essere chiamati assassini, di dichiararsi colpevoli perché agevolando e facendo fare bella figura alla procura possono salvarsi una parte del lato bi. Non tutti sono sinceri, è vero, molti imputati hanno vissuto nella disonestà e facilmente mentono, quindi colpevoli lo sono per davvero ed è giusto che vengano internati a vita. Ma visto che bugia chiama bugia questi sono casi facili da risolvere, perché facile sarà trovare le prove dei loro crimini. L'esperienza insegna che quando le ricostruzioni accusatorie non prevedono voli pindarici o richiami fantasiosi gli investigatori hanno lavorato in maniera professionale. In caso contrario, quando si forzano gli indizi e per ottenere l'aiuto della massa si istruiscono i media, significa che l'ingiustizia si sta facendo strada. Non è giusto fare di tutta l'erba un fascio visto che non tutti gli indagati sono assassini e non tutti sono innocenti. Come non è giusto fare di tutta l'erba un fascio visto che non tutti i procuratori usano la fantasia e la loro autorità pur di far condannare l'imputato preferito. Sia in un caso che nell'altro serve una bilancia che pesi i pro' e i contro, serve il buonsenso di un giudice che abbia una preparazione professionale idonea che lo faccia restare al centro esatto della scena, fra accusa e difesa, e non da una sola parte. Ma, a questo proposito, dobbiamo prendere atto che nei tribunali ormai ci sono quasi esclusivamente giovani giudici formatisi nel culto del processo indiziario al fianco dei loro colleghi procuratori. E se procuratori e giudici nascono dalla stessa covata sarà poi normale constatare che hanno le stesse idee... e forse anche per questo lasciano il pallino in mano all'accusa. Certo, qualche dubbio a volte entra nella mente dei togati... ma perché assolvere l'imputato mediaticamente già condannato assumendo così responsabilità impopolari? A Massimo Bossetti in primo grado è toccato l'ergastolo... e non si può non notare quanto la sentenza emessa dal giudice Bertoja abbia aiutato le istituzioni nazionali a non finire in un mare di merda. Il Ris dopo la sentenza è tornato a splendere, ad essere l'istituzione bella brava e professionale che i media hanno esaltato negli anni (anche con telefilm a loro dedicati). Nessuno parla più di quanto siano costate le indagini e la banca del DNA sta prendendo forma senza più nessun intralcio. La procura di Bergamo, dal canto suo, ottenendo la condanna si staglia potente dall'alto delle ricostruzioni accusatorie ritenute dal giudice perfette e inattaccabili. Oggi è un bel giorno per la democrazia, Bossetti è stato condannato e tutti fanno festa, anche i genitori di Yara cui pare non importi che la loro figlia a processo sia stata dipinta come una ragazzina facile, una di quelle disposta a salire sui sedili di un furgone sporco, invece di tornarsene a casa, pur di far quattro chiacchiere con un muratore quarantenne arrapato. Questa è la nuova democrazia giudiziaria signori miei. Godetene tutti e fatene tesoro perché vi potrebbe servire in futuro, perché le prossime parti civili a processo potreste essere voi. Ci pensate? Voi, proprio voi alleati col pubblico ministero così da spingere il giudice a condannare l'unico imputato cui si è affezionata l'accusa. Ci pensate? Che bello sarà il momento in cui ascolterete i vostri alleati dire ai giudici che vostra figlia è salita volontariamente sul furgone di un muratore che già conosceva e col quale si era già appartata in auto all'esterno del cimitero. E voi, che vostra figlia l'avete conosciuta meglio di tutti, a queste parole non vi inalbererete, non alzerete la voce per dire al giudice che quanto detto dai vostri alleati non è affatto vero, che vostra figlia non era quel tipo di ragazza, che non era così. Non direte che vostra figlia frequentava solo giovani, solo ragazzi e ragazze e non vecchi muratori col furgone sporco. Non direte nulla come nulla han detto i Gambirasio che ad oggi son certi della colpevolezza dell'imputato e a lui chiedono un milione e quattrocento mila euro di danni. E dato che in fondo la vita è una favola, a volte bella spessissimo brutta, e che il mondo altro non è che un immenso teatro comandato dai mangiafuoco di turno, finirà che in quel tribunale vi convincerete di non essere neppure una marionetta manovrata da mani altrui ma i protagonisti della parte buona del racconto. In quei frangenti non avrete né occhi né bocca e non farete caso che state dalla parte di chi recita mostrando il ghigno, urlando e offendendo chiunque la pensi in maniera diversa. In quei frangenti non vi chiederete mai se davvero siete nella parte giusta del libro, se accanto a voi non si trovi il lupo, e per bocca del vostro avvocato direte al mondo che siete soddisfatti della condanna...Massimo Bossetti venerdì ha perso il primo round, vinto dalla procura coadiuvata dalla famiglia Gambirasio. Yara purtroppo non c'è più e non può difendersi dalle malelingue. Così è capitato che invece di scavare a fondo per trovare una verità reale i giudici abbiano deciso di affidarsi al pubblico ministero che in aula ha portato un racconto accusatorio fantascientifico dimostrando ancora una volta che nei tempi moderni per condannare basta narrare ai vari giudici formatisi coi processi indiziari la favola del lupo cattivo... basta essere bravi coi toni e le parole così da farli addormentare prima della parola fine. Mi chiedo se davvero c'è di che essere soddisfatti...
Per Massimo Bossetti, prove “scientifiche” e irragionevoli certezze. Per la piccola Yara Gambirasio, il giusto processo doveva scoprire “il colpevole”, non “un colpevole”. Con Massimo Bossetti l’ha avuto? Massimo Bossetti è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio: in un processo descritto come “DNA-centrico”, che il DNA attribuito a Bossetti fosse prova “sicura” oltre ogni dubbio, in realtà non doveva essere ritenuto nemmeno dal PM, se, fino a quando ha potuto, ha energicamente insistito anche su due altri elementi: il movente e la circostanza, presentata come “obiettiva”, “storica”, scrive Fabio Cammalleri il 3 luglio 2016 su “La Voce di New York”. Massimo Bossetti è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, la quasi-bambina di tredici anni scomparsa il 26 Novembre 2010, dopo essere uscita dalla palestra di Brembate di Sopra, in provincia di Bergamo, che frequentava da ginnasta: le sue spoglie, martoriate, sono state rinvenute il 26 Febbraio 2011. Si è diffusamente scritto che questo processo è stato “DNA-centrico”, secondo l’espressione usata da uno dei difensori dell’imputato. Ed è vero. Ma non è tutto. Bisogna cercare d’intendere perchè questo tema, che si dice scientifico, abbia assunto un valore così preponderante; e se i requisiti che gli hanno conferito PM, Parte Civile e, ormai, si può senz’altro ritenere anche la Corte di Assise di Bergamo, in termini di “infallibilità”, “certezza”, “perfezione”, non tradiscano un affidamento irrazionale e ideologico: tale, pertanto, da rifuggire alle incrinature, ai dubbi, più imponendosi come un dogma che proponendosi come un accertamento. Che il DNA attribuito a Bossetti fosse prova “sicura” oltre ogni dubbio, in realtà non doveva essere ritenuto nemmeno dal PM, se, fino a quando ha potuto, ha energicamente insistito anche su due altri elementi: il c.d. movente, e la circostanza, presentata come “obiettiva”, “storica”, che l’imputato per circa 45 minuti, col suo furgone Iveco Daily, si fosse aggirato per l’isolato in cui era ubicata la palestra: come “il predatore che si mette a caccia della sua preda”, secondo l’immaginifica espressione accusatoria. C’è un video; anzi, due. E’ noto che il filmato dei Carabinieri offerto alla fruizione extraprocessuale si è rivelato materialmente falso. Occorre a questo proposito precisare due circostanze: la prima è che il “montaggio” è stato ammesso dallo stesso autore. Il Colonnello Giampiero Lago: “Questo video è stato concordato con la procura… È stato fatto per esigenze di comunicazione. È stato dato alla stampa”; la seconda circostanza è che questa non-prova è stata costruita dopo il 16 Giugno 2014, il giorno in cui era stato raccolto il DNA di Bossetti: per es., il TGcom lo ha diffuso il 2 marzo 2015. La Procura ha replicato che questo video, nella versione offerta ai media, non è poi stato formalmente prodotto in Corte d’Assise come prova; e, che, invece, agli atti del processo ci sono le riprese “vere”, tratte dalle videocamere di sorveglianza della Ditta Polynt, ubicata vicino alla palestra. E, così argomentando, ha sollevato più questioni di quante ne abbia risolte. Giacchè, l’osservatore rimane sgomento nell’apprendere che strumenti investigativi possano essere piegati ad esigenze propagandistiche: cioè di manipolazione psicologica di massa, o pubblica opinione che dir si voglia (in realtà, resa incapace di avere un’opinione proprio dallo studiato “accorgimento”, e dunque, ridotta a suo inerte destinatario); e tuttavia, senza che la “centralità” del DNA, come prova regina, ne sia stata rinvigorita. E, anzi, risultando ribadito, implicitamente ma univocamente, che la Procura per prima avvertiva la necessità di puntellare l’arsenale probatorio “biologico”: addirittura ricorrendo a simili stratagemmi. Quanto alle riprese probatorie (e non pubblicitarie), la Difesa ha osservato che sul cassone del furgone comparso in video, e attribuito a Bossetti, c’è un accessorio, c.d. campata, cioè una barra trasversale che attraversa il veicolo per la sua larghezza, eretta ad una certa altezza, chiaramente visibile dalle riprese; quella particolare sagoma si spiega considerando che questa barra è di solito regolabile in altezza; però sul furgone certamente di Bossetti, perchè sequestrato ed in custodia giudiziaria, la barra è saldata, ed è più bassa. Inoltre, il furgone reale di Bossetti ha il cassone lungo 3,45 m, quello sul video, una lunghezza stimata di 3 m, e gli inquirenti, prima che lo facesse la difesa, non avevano eseguito alcuna stima. Il colore è verde acqua, mentre nelle riprese, in bianco è nero, risulta bianco. Ed infine, l’Accusa aveva isolato cinque furgoni simili a quello sequestrato a Bossetti, e aveva interrogato i rispettivi proprietari; ma la Difesa ha trovato altri otto furgoni simili, appartenenti a persone residenti nella provincia di Bergamo. Perciò ha dubitato anche dei “frame” finiti nel processo. La presenza fisica sui luoghi del delitto è stata inoltre riproposta attraverso una testimonianza che illustra ulteriormente, da un lato, l’insufficiente “centralità” del DNA per la stessa Accusa e, dall’altro, come i mezzi di prova, su questo specifico punto “spaziale”, quando non sono stati “montati” e poi “smontati”, sono stati in compenso strizzati fino all’estenuazione, nonostante avessero poco da offrire. E così, una cameriera di un locale che Bossetti era solito frequentare, Antonella Ornago, in dibattimento ha riferito di aver captato, un giorno di sei o sette anni prima, mentre serviva ai tavoli, una conversazione fra lo stesso Bossetti ed un’altra persona, “un certo Rudi”, amico del primo: rievocando la loro adolescenza, “Rudi”, ad un certo punto, avrebbe ricordato il tempo in cui “andavamo a ballare in quella discoteca a Chignolo”. Nella località Chignolo è situata la discoteca “Sabbie Mobili”, da cui ha preso le mosse il “censimento genetico” che ha condotto a Bossetti; di fronte, c’è il campo in cui è stato ritrovato il cadavere di Yara. Solo che la cameriera non pronunzia il nome della discoteca, pur avendo sentito parlare di una discoteca “Sabbie mobili dalle mie parti”: “parti”, che sono però distanti da Chignolo. Peraltro, è stato accertato che l’ingresso in quella discoteca era nominativo, per tessera, e che nessuno ha mai visto Bossetti a Chignolo ballare. Si chiarisce l’arcano solo quando la difesa fa constare che la discoteca “Sabbie Mobili”, nel periodo in cui Bossetti era adolescente, dal 1984 al 1990 (egli è del 1970) aveva due “sedi”, per così dire: una a Chignolo, e un’altra “dalle parti” della cameriera. Bene. Ma questa girandola non deve far dimenticare, in primo luogo, che una persona afferma semplicemente di aver orecchiato, sei o sette anni prima, da una conversazione fra Bossetti e una persona rimasta senza nome che, in un periodo compreso fra circa trenta e venticinque anni fa, l’imputato frequentava una discoteca che, pur con lo stesso nome, era diversa da quella oggetto d’indagine trent’anni dopo; ed in secondo luogo, che questa c.d. “circostanza”, secondo l’Accusa, concorrerebbe a dimostrare che Bossetti si sarebbe potuto trovare in luoghi pertinenti alle indagini. Vedete un po’ voi. In ogni caso, se questo è un puntello, resta che il DNA ne aveva (e ne avrebbe) bisogno. Con buona pace della sua “centralità”. Anche al movente (ed in sè, s’intende, la ricerca è irreprensibile) è stata attribuita molta importanza. Si è supposta la frustrazione di un uomo che aveva “litigi” con la moglie; e che tentava senza risultati di fare il gigione per consolarsi. Di questi litigi, culminati in un proponimento di divorzio, emergerebbero dalla testimonianza di un ex compagno di lavoro di Bossetti, Ennio Panzeri. Il quale ammette motivi piuttosto decisi di rancore verso lo stesso Bossetti: gli aveva promesso, dice, di aiutarlo nell’esecuzione di un buon lavoro (la costruzione di una casa), piantandolo però in asso, e facendogli perdere lavoro e guadagno. Si saprà poi, che Bossetti si era rifiutato perchè il committente gli doveva ancora il pagamento di altre opere già eseguite, e, perciò, non voleva esporsi ulteriormente. Panzeri riferisce che, per questa ragione, e per qualche “balla” (si era “vantato” di essersi rifatto il naso, bugia, e si era commiserato per avere un tumore alla testa, altra bugia), Bossetti era soprannominato “il favola”. Inaffidabile: dunque, sinistramente introverso, ed in cerca di compensazioni: fantasiose, ma anche delittuose, all’occorrenza. Infatti, secondo Panzeri, Bossetti era anche pericoloso, poichè gli avrebbe confidato, prima della loro rottura lavorativa, di aver pensato, appunto, anche al divorzio, dopo essere venuto alle mani con la moglie. Quanto al Bossetti-cascamorto, oltre ad avanzare quest’ipotesi investigativo-caratteriale anche rispetto alla cameriera, che risponde con un “No” secco, il PM aveva supposto di poter ottenere la testimonianza di due presunti amanti della moglie: ma la Corte di Assise non ha ammesso la prova, perchè irrilevante o non pertinente. Però l’allusione tematica è rimasta. Tanto che si è tentato di dimostrarla con un’altra testimone, Eva Ravasi, bella e procace: su subito.it, Bossetti aveva messo in vendita uno specchio, presentato con cornice di legno, a 35 euro; all’appuntamento, Bossetti le propone di fargli da segretaria; la donna declina, suggerisce che si potrebbe pensare alla sorella; “Ma è bella come te?”, chiede il Nostro, e amen. Peraltro, tornata a casa, Eva Ravasi si accorge che la cornice era di plastica e non di legno: un seduttore. Ma se si cerca un movente, in una turbolenza caratteriale e psicologica, e poi gli elementi da cui sarebbe implicata, o sono poco meno che azzardi (avances alla cameriera), o congetture di dubbia rilevanza (Eva Ravasi e lo specchio), o non sono nemmeno ammessi in dibattimento (i presunti amanti della moglie), o provengono da un testimone animoso (l’ex socio, che riferisce di generici attriti con la moglie, presupposto sia del segreto rancore, sia dei tentativi di “consolazione”), il risultato è che il movente rimane ignoto. Come nemmeno lontanamente dimostrata è la presenza fisica di Bossetti nei luoghi fondamentali, o comunque pertinenti, del fatto: discoteca e palestra. Ecco che allora, il DNA, da elemento abbisognevole di sostegno, mancato il sostegno, si riscopre autonomo: nato ad uno splendore probatorio solitario. La sua “centralità” nasce qui. E’ inopportuno indugiare lungamente sul microscopico, quando non è ben definito il macroscopico. E, tuttavia, si è ampiamente scritto: che il DNA è di tue tipi, “nucleare” e “mitocondriale”; che il primo viene dal padre, il secondo, dalla madre; che il DNA paterno di Bossetti/Guerinoni ci sarebbe, e che quello materno senz’altro non c’è. Ora, ha rilevato la difesa che questa condizione probatoria equivarrebbe ad avere individuato una nuca, ma senza conoscerne il volto. Ma, anche ammesso che così non sia, e che conti solo il DNA “nucleare”, come sostiene l’Accusa, il punto è che anche la raccolta del DNA “buono” è dubbia. Secondo un principio ribadito di recente anche nella sentenza Meredith/Sollecito, la prova del DNA, per essere tale, va ripetuta tre volte. Una volta, per disegnare la struttura del DNA in almeno 13 caratteri; la seconda, per determinare il sesso; e la terza, per fissare quella parte della sequenza (le c.d. “eliche”) che identifica il genitore, il c.d. Aplotipo Y. Dal famoso reperto G20 (un brandello degli slip di Yara), il più importante, su cui si sostiene siano presente tracce biologiche ulteriori rispetto a quelle della bambina, si è tratto il materiale: ma nessuno dei due ufficiali del Ris (Reparti investigazioni scientifiche) dell’Arma, Capitani Nicola Staiti e Fabiano Gentile, autori delle indagini scientifiche, ha potuto confermare che le ripetizioni ci siano state. Per capire meglio questo punto, si deve rilevare che l’esame del DNA avviene per “confinamenti” successivi: prima, si acquisiscono i dati molecolari grezzi, c.d. raw data; e poi, su questi, si compie una selezione di quelli ritenuti significativi; si è rilevato che il rapporto fra i due tipi di dati, è simile a quello che c’è tra una radiografia e un referto. Essendosi esaurito il campione, e poichè il prelievo del DNA dal reperto G20 è stato compiuto quando Bossetti non era indagato, anzi, non era nemmeno conosciuto, l’affidabilità ne è stata ridimensionata. Meglio ancora: chi subisce un ergastolo ha diritto di saperne di più, e di essere messo in condizione di interloquire quando i materiali-ergastolo si formano. Specialmente, se si considera che i dati grezzi, secondo gli stessi ufficiali dei Ris, non sono stati custoditi separatamente da quelli riguardanti altre indagini: “quei dati sono misti ad altre pratiche…quelle di altri esami di altri casi”: più di 16.000, ha voluto precisare il PM. Il dubbio che solleva la Difesa, è che siano stati sovrapposti proprio un Aplotipo Y, quello sull’identità del padre, proveniente da altri materiali biologici, e le risultanze sul sesso e sulla struttura, che sarebbero invece di Bossetti. E, così, nè si può ripetere l’esame sui materiali selezionati, nè si possono esaminare almeno quelli di partenza: perchè non si è certi della loro purezza. Inoltre, è emerso che potrebbero essere stati impiegati dei kit di analisi scaduti. Il Tenente-Colonnello Marco Pizzamiglio, pur volendo precisare che le scadenze dei kit sono infondatamente “strette”, solo per strategie commerciali dei produttori, alla domanda se si usano kit scaduti, ammette: “Sì, può capitare”; e per Bossetti, si può sapere? “No, l’operazione del kit non viene tracciata, non è possibile saperlo”. L’affermazione sul valore delle scadenze è eminentemente casuale: l’unica garanzia sarebbe, allora, rispettarle e basta. Dunque, un complesso di risultanze “scientifiche” non proprio rassicurante. In estrema sintesi, questo è. Spesso, si trascura di considerare che il principio: “Nel dubbio, in favore dell’accusato”, non è un’immonda scappatoia per sfuggire alle proprie responsabilità; ma una saggia e sofferta regola, pensata per evitare, a chi condanna, di scivolare sull’incertezza: e di precipitare nel buio della peggiore sopraffazione legale: quella che rischia di avere scelto “un colpevole”, ignorando “il colpevole”.
L'avvocato: «Ecco perché Massimo è innocente», scrive Valentina Stella il 4 luglio 2016 su "Il Dubbio". «Abbiamo smantellato l’impianto accusatorio. Ci sono analisi genetiche in contrasto tra loro. Ho delle mie idee su chi possa essere il colpevole ma preferisco non esprimerle». Abbiamo intervistato l’avvocato Claudio Salvagni, che insieme all’avvocato Paolo Camporini, difende Massimo Bossetti.
Avvocato Salvagni si aspettava questa sentenza?
«No, onestamente no. Sappiamo come sono le sentenze di primo grado. Però tecnicamente riteniamo di aver veramente smantellato tutto l’impianto accusatorio. E soprattutto, per quanto riguarda il Dna, abbiamo dimostrato quelle che sono tutte le anomalie, le imprecisioni, le incertezze, le possibilità di errori. Siccome questo è il punto nodale dell’intero impianto accusatorio, e ritenendo questo punto dubbioso, io mi aspettavo una sentenza di assoluzione quantomeno per insufficienza di prove».
Sulla questione del Dna, il genetista Emiliano Giardina, consulente della procura, ha dichiarato due giorni fa al “Corriere della Sera” che, con riferimento al lavoro che ha portato ad identificare Ignoto 1 con Bossetti, "Un errore è assolutamente impensabile. Non è possibile".
«Se non hanno commesso nessun errore, allora è pacifico che tra le 532 donne tra cui cercavano la mamma di Ignoto 1 non ci fosse Ester Arzuffi. (ndr Giardina fu incaricato di confrontare il dna mitocondriale di 532 donne della Val Seriana, tra cui anche Ester Arzuffi, la madre di Massimo Bossetti, con il mitocondriale attribuito inizialmente al presunto assassino). Quindi non possono essere validi entrambi gli assunti: da una parte si dice che il Dna nucleare è del signor Bossetti e dall’altra parte si dice che il suo Dna mitocondriale non conduce a sua madre, per cui la signora Ester Arzuffi non sarebbe la madre di Bossetti. E’ evidente la contraddizione in termini».
Quindi è come se mancasse la prova del 9?
«Certo. Su questo punto nessuno - e sottolineo nessuno - ha detto di aver sbagliato, quindi tutti i consulenti confermano i loro risultati. Nessuno quindi ha dato una spiegazione su questa incongruenza: se non hanno sbagliato come è possibile che ci siano insieme due aspetti completamente contraddittori?»
Conferma che neanche i consulenti della procura hanno potuto verificare le perizie dei Ris sul Dna?
«Il lavoro lo hanno fatto soltanto i Ris. Gli altri hanno potuto soltanto esaminare i risultati di quel lavoro. Ma l’estrazione del Dna, la quantificazione, l’amplificazione e l’attribuzione sono state elaborate soltanto dai Ris. E’ un errore madornale dire che quattro laboratori hanno effettuato lo stesso test. Non è vero».
Gillian Tully, Forensic Science Regulator del Governo Britannico, ha scritto: «Il Dna non mente. Rappresenta una prova eccezionale e schiacciante, ma nel processo di analisi esiste anche una interazione umana. La probabilità di errore è microscopica ma maggiore di zero». Nel caso Bossetti cosa è successo?
«La Cassazione sostiene che bisogna fare almeno tre ripetizioni dei test sul Dna. La parte civile ha prodotto gli elettroferogrammi (il grafico che rappresenta le tracce di Dna) di queste tre ripetizioni. Tuttavia se andiamo a verificare il controllo negativo, cioè quello che deve escludere la contaminazione, rileviamo che c’è un picco in corrispondenza del numero 22 che non dovrebbe esserci e guarda caso il numero 22 fa parte proprio del patrimonio genetico del signor Bossetti. Quindi quegli elettroferogrammi non sono utilizzabili sostanzialmente perché hanno un controllo negativo che non è asettico. Questo secondo me inficia l’intero risultato. Il risultato è una prova schiacciante quando il percorso che ci conduce a quel risultato è perfetto».
In appello chiederete la riapertura del dibattimento per una nuova perizia sul Dna?
«La chiederemo sicuramente. Mi sembra un principio di civiltà giuridica che l’imputato possa controbattere sulla prova che lo sta schiacciando all’ergastolo. Nel caso specifico il signor Bossetti non ha mai potuto partecipare ad una indagine genetica con i suoi consulenti. Addirittura non ha mai potuto vedere i reperti. Se per assurdo, ribadisco faccio una ipotesi assurda, qualcuno lo avesse voluto incastrare noi non abbiamo la possibilità di difenderci. Noi abbiamo dimostrato attraverso le fotografie che ad esempio sulla superficie e all’interno della body bag in cui è stato messo il corpo di Yara alcune persone sono salite con le scarpe; altri non indossavano neanche le cuffie per i capelli. Sono state commesse tante mancanze e negligenze. Noi non discutiamo il risultato; il problema è come si è arrivati all’identificazione genetica di Ignoto1».
Questo significa che l’atto del test sul Dna è ripetibile?
«Noi sappiamo che ci sono ancora degli estratti di Dna da poter analizzare. Il problema è che non ci è stato mai consentito di effettuare ulteriori test».
Secondo lei, avvocato, la sentenza di condanna era la soluzione più facile per la Corte d’Assise?
«Con tutta la pressione mediatica che abbiamo visto intorno a questo caso, una sentenza di assoluzione sarebbe stata clamorosa. Avrebbe esposto i giudici a degli attacchi incredibili. E’ per questo che in primo grado la sentenza di condanna era quasi scontata. Non ci dimentichiamo che il cosiddetto processo mediatico è il cancro della giustizia. I giudici popolari sono persone normalissime che siedono sul loro scranno per giudicare una persona e per un sacco di tempo vengono bombardati da notizie anche false come abbiamo visto in questo caso, notizie create ad arte. E questo genera ovviamente un convincimento anzi un pregiudizio. L’importanza dell’attività che viene svolta dai giornalisti è notevolissima e dovrebbe essere cristallina e non partigiana, schierata e appiattita sulle tesi della procura».
Quali sono state a suo giudizio le principali anomalie dell’indagine e del processo?
«E’ stata una indagine monumentale per quantità di atti, per quantità di soldi spesi, per quantità di impegno profuso: su questo non c’è dubbio; tuttavia sono stati commessi dei clamorosi errori investigativi che a mio modo di vedere hanno pregiudicato la ricerca di piste alternative. Appena trovato, il Dna è diventato il faro dell’inchiesta e poi si è cercato di congiungere questo punto con Massimo Bossetti. Si è partiti dal Dna, considerato la firma dell’assassino, per ricostruire un puzzle. Il puzzle è composto da tante tessere che devono combaciare, nel caso specifico non combacia nulla: il furgone non sappiamo se è il suo, le celle telefoniche agganciano zone diverse, le fibre non contano nulla perché non sono identificative del furgone. Cosa è rimasto?»
Il movente?
«Non solo non c’è movente ma manca una dinamica, una ricostruzione del fatto. Alla fine non si sa se questa bambina sia salita volontariamente o no su quel furgone, non si sa se si conoscevano, non si sa come e dove è avvenuto l’omicidio. La stessa perizia medico legale lascia amplissimi margini di dubbio. Ribadisco che con tutti questi dubbi io mi sarei aspettato almeno una assoluzione per insufficienza si prove».
Siete ottimisti per l’appello?
«Noi riteniamo di aver seminato talmente tanti dubbi nel nostro percorso che non possiamo che essere ottimisti».
E questo ottimismo lo avete trasferito anche a Massimo Bossetti?
«Questo è molto più difficile: lui sta vivendo dei momenti drammatici. Continua a proclamare la sua innocenza. Sono stato in carcere da lui venerdì e sabato e lui era disperato. Anche un po’ ingenuamente, fanciullescamente si chiede come l’abbiano potuto condannare se è innocente. Lui confidava molto nell’assoluzione».
E’ convinto dell’innocenza di Bossetti?
«Sì, sono convinto della sua innocenza ed è questo che mi fa stare tremendamente male. Questo potrebbe essere il primo atto di un gravissimo errore giudiziario».
Lei ha avuto modo di maturare un’ipotesi alternativa a quella di Bossetti come autore del delitto?
«Ho delle mie ipotesi ma preferirei non esprimerle perché non faccio il pubblico ministero. Però la cosa importante che noi abbiamo cercato di trasmettere alla Corte è che ci sono delle ipotesi alternative molto forti. Una sentenza in cui, come abbiamo letto in passato, si legge " Ma se non è stato lui chi è stato’" non può applicarsi al caso Bossetti perché ci sono delle ipotesi alternative».
Bossetti, prova del DNA. Il criminologo Natale Fusaro: “Ecco perché non vale”. Pubblicato il 7 luglio 2016 da Marilena D'Elia su “Blitz Quotidiano” e dallo stesso Natale Fusaro su “Il Dubbio” il 4 luglio 2016. Massimo Bossetti, commenta il criminologo Natale Fusaro, prima di essere condannato all’ergastolo per la uccisione della tredicenne Yara Gambirasio, ha chiesto un’ultima cosa alla Corte d’Assise di Bergamo: di ripetere l’esame del Dna che del processo è stata uno degli elementi più pesanti della accusa. Ma l’esame non si è potuto ripetere perché, spiega Natale Fusaro, non c’era abbastanza materia prima per consentirlo.
Fusaro, avvocato e docente di Criminologia nella Università di Roma “La Sapienza” è coordinatore scientifico del Master in Scienze Forensi. Spiega: “Al cittadino Bossetti non è stata garantita la ripetibilità dell’esame che ha consentito di pervenire all’individuazione del codice genetico di Ignoto1 (o meglio: alla amplificazione di una traccia mista composta da materiale genetico non meglio specificato commisto con il sangue della povera Yara) successivamente risultato corrispondente al DNA del medesimo Bossetti”.
Ma come è possibile?
“La traccia di natura biologica rilevata era infinitesima, di conseguenza non è stato possibile procedere a quanto normalmente avviene, ovvero all’identificazione della natura biologica della traccia medesima, al fine di stabilire se trattasi di sangue, oppure sudore, saliva, liquido seminale o tessuto epiteliale. Non è cosa di poco momento, anzi può rivelarsi dirimente nei casi in cui sia probabile, come è certamente nel caso Bossetti, stabilire necessariamente la genesi dell’effetto contaminativo”.
Eppure…
“Eppure, nonostante queste premesse, esigenze investigative hanno consentito comunque di procedere all’estrazione del DNA nei laboratori del RIS di Parma”.
Come hanno fatto?
“Hanno seguito la procedura di amplificazione di una infinitesima traccia biologica nota come LCN (low copy number) mediante la sua amplificazione attraverso la cosiddetta PCR. Erano pienamente consapevoli del fatto che l’accertamento non si sarebbe potuto ripetere. E erano altrettanto consapevoli che l’accertamento avrebbe potuto comportare a futura memoria la possibilità di individuare il titolare di quel codice genetico che non necessariamente è l’assassino di Yara, essendo ragionevole e scientificamente argomentabile la probabilità che la traccia stessa possa essersi originata semplicemente a seguito dell’utilizzo da parte di Ignoto1, e non necessariamente di Massimo Bossetti, di un qualunque mezzo tagliente utilizzato da quest’ultimo in precedenza e sul quale, a causa di un accidentale ferimento nel suo utilizzo e/o una colatura ematica dovuta ad epistassi, possa essersi determinato il deposito di sostanza genetica riconducibile lui”.
Una traccia, un DNA, una condanna. Non le sembrano conclusioni un po’…sintetiche?
“Bossetti fa il muratore ed è ragionevole quindi poter immaginare che abbia potuto utilizzare un taglierino prendendolo tra i propri attrezzi o prendendolo tra gli attrezzi di un altro qualunque operaio, o ancora, perché effettuando un lavoro a casa di una qualunque persona, abbia utilizzato uno strumento messogli a disposizione, sul quale si è andata a depositare una sua traccia genetica. Ci vuole poco, basta anche una semplice superficiale abrasione”.
Lei parla un po’ in astratto…
“Astratto? Si legga lo studio condotto da ricercatori della Sapienza, pubblicato su Forensic Science International – Genetics, è spiegato come non sia per nulla remoto, anzi spesso ricorrente in natura, che la traccia rilevata sulla scena di un delitto non costituisca tassativamente la firma genetica dell’autore del reato, essendo dimostrato e dimostrabile che l’impronta biologica di un individuo può trovarsi su un oggetto o su una persona che addirittura non ha mai toccato quell’oggetto o quella persona, ma su cui la traccia stessa è stata semplicemente “trasferita” da altri. Nel caso di Bossetti non risulta che ci si sia premurati di farlo con la certezza che il nostro sistema processuale penale impone, non essendo inverosimile che il muratore di Mapello possa, in un momento antecedente all’omicidio della povera Yara, essersi ferito con un proprio o altrui arnese di lavoro, utilizzato poi da altra persona per commettere il delitto".
Ma se c’è la prova scientifica…
“Se la prova scientifica è considerata prova regina, essa deve essere maneggiata con cura”.
Mi pare di capire che lei pensa che nel caso di Bossetti non ci sia stata molta cura. Nel caso di Bossetti, c’è stato un utilizzo della scienza assiomatico e dogmatico, che ha fatto perdere di vista il fatto che era necessario indagare e dare risposte scientifiche anche alla genesi e al trasferimento della traccia e non solo all’irripetibile amplificazione del profilo genetico misto di Ignoto1, il quale è e rimane un “profilo” costruito in laboratorio della cui genesi non è più possibile fornire adeguata e confortante spiegazione scientifica.
“Il risultato di un accertamento tanto incerto ha pesato come un macigno sul processo, costituendo un vero e proprio autodafé dal quale la Corte non ha inteso discostarsi, negando ripetutamente la richiesta disposizione di perizia, motivandone il rifiuto mediante il ricorso al facile presupposto della sua irripetibilità. Insisto: non era questo l’unico accertamento sul quale gli esperti avrebbero potuto fornire risposte. Era invece dirimente e a monte di tutto fugare ogni dubbio in ordine alla genesi della infinitesima traccia e del suo probabile trasferimento”.
La “prova” scientifica è, come lei ha scritto, la architrave dell’accusa.
“Appunto. Quando, come nel caso di Bossetti, il resto degli indizi è rimasto privo di validità, è necessario che il “dato” tecnico scientifico risulti immune da qualunque dubbio e sia frutto di accertamenti ed esperimenti di laboratorio rispettosi degli standard e dei protocolli condivisi dalla comunità scientifica di riferimento; e che soprattutto, sia tale da consentire a chiunque e a maggior ragione a chi è destinato a subirne le conseguenze, di poterne verificare la validità anche attraverso il ricorso alla c.d. prova di resistenza, come inutilmente e ripetutamente invocato dal cittadino Bossetti e dai suoi difensori”.
Provi a immaginare che il risultato ottenuto, e cioè quello relativo all’individuazione del DNA di Ignoto1, sia un risultato certo e confortante e come tale in grado di lasciare poco spazio a questioni legate a presunte contaminazioni…
“Sappiamo però che così non è. Nel corso del dibattimento è emerso che sono stati utilizzati kit scaduti, erano presenti “alleli chimera” ed altre anomalie che avrebbero dovuto portare all’eliminazione del dato tecnico scientifico stesso, perché inutilizzabile a monte, essendo valido ed imperante al riguardo il principio che se non sono certe le basi, è del tutto inutile avventurarsi alla ricerca di improbabili ed ipotetiche altezze”.
Ma la Costituzione, ma il principio che la condanna all’ergastolo può essere inflitta solo oltre ogni ragionevole dubbio…
“Invece il dubbio è rimasto: come il DNA di Ignoto1 è potuto finire sugli indumenti di Yara? Su questo non sembra essere stato speso grande impegno, nessuno ha indagato o provato a darne compiuta e certa spiegazione. Si sarebbe dovuto indagare scientificamente e doverosamente spiegare, anche solo in termini negativi e di esclusione, e anche solo a titolo di mera ipotesi, che quel DNA potesse esserci finito per effetto di contaminazione. Oltre allo studio della Sapienza di cui ho detto prima, c’è anche una notevole mole di pubblicazioni scientifiche sull’argomento; noti a tutti gli addetti ai lavori sono infatti i contributi basilari del Prof. Peter Gill “Secondary DNA transfer of biological substances..”, oltre a quelli specifici sul trasferimento secondario e terziario di DNA pubblicati su Forensic Science International – Genetics Supplement Series 01/2013 da Lehmann, Mitchell, Ballantyne e van Oorschot, unitamente a quelli del Prof. J.M. Butler del National Institute of Standards and Technology Gaithersburg, Maryland, USA, nei quali viene spiegato dettagliatamente e scientificamente come possa realmente verificarsi la possibilità di contaminazioni in materia, e cioè come la traccia biologica dalla quale è stato estratto il DNA possa finire sugli indumenti della vittima”.
Ma lei qui mette in discussione il punto chiave su cui sembra si sia basata la Corte nella sua condanna.
“È questo il vero nodo gordiano del processo appena celebrato, è questo il locus che è rimasto inesplorato, essendo stata liquidata come insostenibile la circostanza dell’epistassi di Bossetti e il fatto che possa esservi stata contaminazione su un attrezzo da lavoro in uso al medesimo o di altrui disponibilità, finito successivamente tra le mani dell’assassino.
Allora perché la Corte ha detto no?
“Forse le recondite ragioni di tale diniego risiedono nel fatto che tale accertamento di tipo scientifico potrebbe rivelarsi risolutivo, anche in ragione delle modalità di tempo, di luogo e di contesto nelle quali e con le quali è avvenuto il delitto, nonché in ragione soprattutto delle modalità inerenti il successivo contesto temporale nel quale sono avvenuti il sopralluogo, i rilievi, i prelievi e gli accertamenti. Ed è forse per questo motivo che si è avuto il timore di affidare alla scienza la decisione in ordine alla sussistenza o memo di tale dato, perché ciò è in grado di limitare sensibilmente il ricorso al principio del libero convincimento del giudice, principio sull’altare del quale viene spesso immolato il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio”.
"Bossetti e Yara? Solo marketing". Mario Giordano il 7 luglio 2016 su “Libero Quotidiano” a sciabolate: "Vi svelo l'orrore. E vi dico chi sono i pirla". Pubblichiamo Posta prioritaria, la rubrica in cui Mario Giordano risponde alla lettera di un lettore.
"Caro Giordano, non sono un grafomane e non voglio assillarLa con mie missive, ma la sentenza Bossetti m’ha fatto imbestialire: passino le bischerate tipo il filmino artefatto del furgoncino, le varie incongruenze, le indagini a senso unico eccetera, ma quella del Dna è davvero indecente. Ma così si va avanti in Italia, tomba del diritto. Uno dei concetti fondamentali della statistica, infatti, è che meno sono le replicazioni di un test, maggiore è il possibile errore e minore l’attendibilità del dato. Nel caso del processo Bossetti la prova principe si è basata su una singola e non ripetibile rilevazione di un Dna, quindi una «prova» con errore statistico infinito. Aggiungerò che se da ex-referee di riviste scientifiche mi fosse pervenuta per pubblicazione una ricerca basata su metodica con «reagenti scaduti» l’avrei respinta con una doverosa dose di sarcasmo. Evidentemente in campo giudiziario vigono regole ignote agli umani. Andrea Vaccari. Chiavari (Ge)".
Le regole in vigore in questo caso, caro Andrea, sono sempre state chiare: c’è una ragazzina ammazzata, un delitto brutale, una violenza che scuote l’Italia. Urge trovare un mostro. La fretta con cui fu annunciato (dal ministro Alfano) l’arresto di Bossetti, quasi prima che fosse vero, dimostra che per capire questa vicenda non bisogna seguire le logiche del diritto (che sono state in ogni modo calpestate) ma quelle della comunicazione (che hanno invece trionfato). Così si spiegano le immagini della cattura in presa diretta, i filmati della Procura appositamente taroccati, le continue fughe di notizie irrilevanti dal punto di vista penale ma studiate a tavolino per cucire addosso al muratore l’immagine del «mostro». «Bossetti va dall’estetista», «Bossetti si cura le sopracciglia», «Bossetti guardava i video porno di Internet», «Bossetti scrive lettere d’amore», etc: quante volte avete sentito «notizie» come questa? E allora? Curarsi le sopracciglia o farsi la lampada possono essere prove di colpevolezza? O sono solo dettagli che servono a influenzare il giudizio dell’opinione pubblica contro di lui? La storia del processo Yara è tutta qui: è stata presa una persona, la si è sbattuta in galera, e non avendo prove si è fatto di tutto per far passare l’idea della sua colpevolezza. È un paradosso, ma la verità non interessa a nessuno. La giustizia nemmeno. Questo è un caso che non troverà mai spazio nei corsi di diritto. Ma andrà studiato nei corsi di comunicazione come grande esempio di marketing giudiziario dei magistrati. E di pirlaggine di noi giornalisti.
Bossetti condannato, la vita in carcere: "Ancora non credo all'ergastolo". "Speravo di essere capito per la replica del test Dna. Quello che mi ha sconvolto è l’aggiunta all’ergastolo della perdita della patria potestà genitoriale. Una mazzata", scrive Gabriele Moroni il 7 luglio 2016 su “Il Giorno”. Il sole inonda i corridoi del carcere di Bergamo. Si annuncia un’altra giornata di afa, di caldo rovente. Al primo piano, le celle della sezione “protetti” si sono aperte come sempre alle otto e mezzo del mattino, si richiuderanno alle otto e mezzo di sera. Tutti i quindici detenuti sono raccolti in corridoio. Tutti tranne uno dei due inquilini della cella 4. Massimo Giuseppe Bossetti è disteso sulla parte superiore del letto a castello che divide con un detenuto pugliese. La cella, come le altre, ha televisore e bagno. Bossetti è a torso nudo, si alza, indossa una canotta blu sopra i pantaloncini corti grigi, infila un paio di ciabatte, si avvicina. Scambia una stretta di mano con il politico lombardo impegnato in una visita nell’istituto di via Gleno. L’uomo che da venerdì vive gravato della condanna all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio appare molto provato ma ancora volitivo. È deciso a combattere per dimostrare la sua estraneità all’omicidio della tredicenne di Brembate di Sopra. Parla con il visitatore inatteso che gli chiede come trascorre queste giornate. «Leggo - è la risposta -. Mi piace leggere la cronaca sul giornale. Poca televisione. Ricevo tante lettere di amici, anche di persone che non conosco e mi scrivono. Rispondo». Ha un pensiero fisso e non riesce a tenerlo per sé: la notte dopo la sentenza, forse più ancora della condanna al carcere a vita, lo ha tenuto sveglio e in lacrime. Lo confessa. «Quello che mi ha sconvolto è l’aggiunta all’ergastolo della perdita della patria potestà genitoriale. Una mazzata». Un tarlo insistente. Anche se i difensori gli hanno spiegato che questa pena accessoria legata all’ergastolo sarà esecutiva soltanto se la terribile condanna diventerà definitiva. Davvero quest’uomo minuto, rivestito come in una guaina dall’abbronzatura perenne del muratore, sperava di riconquistare la libertà, di trascorrere la serata con la moglie, i tre figli la madre, la sorella? «La speranza era quella di essere capito per la replica del Dna (la ripetizione del test genetico, prova fondamentale secondo l’accusa - ndr). Anche se comprendo l’accanimento nei miei confronti con tutto il clamore mediatico e i soldi spesi nelle indagini». Inevitabile che il politico si chieda (e chieda a Bossetti) cosa prova un uomo quando, in un’aula di giustizia, sente scandire la parola “ergastolo”. Bossetti si mostra incredulo, come se, a distanza di giorni, stentasse a metabolizzare. «Ancora non credo alla condanna all’ergastolo. Non ho mai commesso nulla». Prima che la Corte si ritirasse per una camera di consiglio che sarebbe durata dieci ore, aveva rilasciato le sue dichiarazioni ed espresso il desiderio, se fosse tornato libero, di incontrare i genitori di Yara. Ha affidato a uno dei difensori una lettera per loro, da consegnare solo dopo la sentenza. «L’ho scritta in agosto, quando ero in isolamento». Fermato il 16 giugno del 2014, mentre era al lavoro in un cantiere a Seriate, Bossetti era rimasto in isolamento per 134 giorni, fino al 28 ottobre. Nel giorno del 44° compleanno del detenuto, il sostituto procuratore Letizia Ruggeri aveva revocato il regime dell’isolamento in cella, una decisione a discrezione del magistrato inquirente, non sottoposta al vaglio del tribunale. Fino a quel momento, il detenuto più seguito del carcere bergamasco era controllato da un agente della polizia penitenziaria fisso fuori dalla cella e da un altro che lo seguiva durante l’ora d’aria, trascorsa rigorosamente in solitudine. Vietato ogni contatto con la popolazione carceraria. I suoi incontri erano limitati ai familiari (non più di sei al mese, negli orari ordinari di visita), agli avvocati, agli agenti, al cappellano del carcere. Durante la settimana gli era concessa una telefonata a casa. Rassegnato? Bossetti non lo è. E lo dice. «Combatterò fino alla fine per amore della mia famiglia, che mi è vicina». Il tempo della stretta di mano di commiato. La visita del politico deve proseguire.
Caso Bossetti. Un colossale imbroglio......, scrive Gilberto Migliorini il 13 luglio 2016 su “Albatros Volando Controvento”. Il 1984 orwelliano, il vecchio sistema sovietico, il processo kafkiano… e tutti gli autori che hanno visto in prospettiva la società del controllo totale avevano descritto la complicità del referente, quel target che collabora attivamente a farsi menare per i fondelli, l’audience che manda giù tutto, un lavandino con lo scarico incorporato. Ma non potevano immaginare che il falso avvenisse perfino con dibattiti pubblici, con i format radiotelevisivi, con tutti i crismi di quella democrazia rappresentata dal ‘libero’ confronto di opinioni e di idee. Formule che riportano non tanto a uno slogan quanto a una forma mentis radicata in tutti i ceti sociali, la rappresentazione di una informazione di maniera, nella mancanza di quei principi etici e teoretici che costituiscono il fondamento di una vera comunità di donne e uomini liberi. Tutto nel Bel Paese ha il sapore del compromesso, dell’accomodamento e del particolarismo, in una mediazione di convenienza. Il senso della giustizia esiste solo a parole, come artificio retorico e come finzione. Per tutto il sistema informativo reale, quello nel solco del Potere in tutte le sue forme, sono gli accidenti, le forme esteriori che contano e non la sostanza. È il solito vecchio carnevale con le maschere, il sistema di una informazione spettacolarmente leziosa, decettiva e convenzionale. I giornali sedicenti garantisti al massimo sono riusciti ad usare aggettivi come strano in relazione a un caso, quello del muratore di Mapello, che riesce a far impallidire tutta la narrativa delle distopie letterarie e la fantascienza horror, che rende obsoleti perfino i capolavori di denuncia delle società opprimenti e totalitarie, le società del partito unico con i teleschermi installati in ogni abitazione e che non si possono spegnere, al massimo si può abbassare il volume dell'audio. La società orwelliana - con i Prolet che non hanno potere né privilegi, svolgono i lavori pesanti, controllati, tramite la tecnica del Panem et circenses - sembrerebbe lontana anni luce da quel mondo ‘democratico’ dove viviamo, e invece il 1984 è perfino pateticamente solo una pallida controfigura della realtà mediatico-forense nella quale siamo immersi. Quella orwelliana è una predizione per difetto. Il bispensiero (doublething) e la Neolingua (Newspeak), i documenti costantemente riscritti secondo la verità del momento, il finto oppositore.... tutto superato da un realismo più profondo e coinvolgente di qualsiasi finzione letteraria. Perfino Winston Smith con la Psicopolizia che lo sottopone a un programma di tortura fisica e psicologica, è un personaggio che illanguidisce nella cronaca di un caso giudiziario reale, che risulta una figura convenzionale e semplificata rispetto a quella del carpentiere imputato di un delitto. La vicenda del protagonista del 1984 che lo porteranno a tradire se stesso, la persona alla quale vuol bene e alla fine ad amare il Grande Fratello… non riesce nemmeno lontanamente a rappresentare il caso dell’imputato di un delitto con relativa condanna in primo grado. Quello del muratore di Mapello supera l’immaginario di qualsiasi utopia negativa da Animal Farm fino al cyberpunk, alla science fiction, alla realtà ‘post apocalittica’, al controllo eugenetico e ai sistemi di formattazione con un pubblico, imbeccato con gli opportuni consigli per gli acquisti, che costruisce la trama del videogioco, dà corpo ai personaggi, partecipa al reality con l’assassino, anche lui in scatola di montaggio. Nel processo penale ha fatto irruzione un nuovo modello investigativo nel superamento della staticità oggetto-icona. Si è giunti a conclusioni apodittiche in modo semplice e naturale, sulla base di strutture ripetitive, con interventi su grande scala – con 18 mila campioni di DNA si è superato l’ambito angusto dei tradizionali spazi investigativi avviandosi verso la nuova realtà degli screening di massa. Allargando il campo d’azione si intensifica il controllo capillare dell’utenza con carte fidaty, certificati di idoneità e buona condotta (ideologicamente parlando) mettendo sul chi va là tutti quelli che cantano fuori dal coro. La realtà riesce a superare le fantasie più sfrenate: perfino l’arte figurativa e la musica, e nemmeno il thrash metal, riescono a descrivere l’orrore e la depravazione, l’inganno e la menzogna di una società dove tutto ha un prezzo, dove ogni cosa ha un corrispettivo monetario: la giustizia è un business come gli altri, con tutti gli interessi che le gravitano attorno: consulenze professionali, consenso politico, ricadute mediatiche e soprattutto quegli anestetici impalpabili che creano un esercito di zombie che sanno interpretare il copione con ottima intonazione e perfetta scelta di tempo, calandosi nel ruolo come conviene e come richiesto dalla regia. Due o tre giornalisti di grido sono riusciti ad avere il coraggio di bollare la condanna di Massimo Bossetti con parole inequivoche e senza peli sulla lingua. Voci nel deserto in un giornalismo da cerchiobottisti, ignavi e sonnambuli, le figure di una informazione convenzionale da decalcomania, dei dormienti di Eraclito ma con l’intonazione scafata dei conferenzieri da orazione funebre e da retori del dormiveglia per un pubblico aduso alla pennichella o alla spasmodica ricerca di un capro espiatorio sul quale esercitare frustrazioni e risentimenti. Mentre sui giornali si parla di Brexit, di raccomandazioni e di omicidi esteri… il sistema informativo, quello italiano, non riesce a vedere a un palmo di naso, quello che gli sta proprio sotto gli occhi e che rappresenta tutta la merda del Bel Paese. Uso la parola merda, termine aulico e niente affatto volgare perché non ne esiste uno più consono e pregnante per definire il caso del carpentiere di Mapello, dove gli eufemismi e i disfemismi sono figure retoriche da romanzetto rosa o da fotoromanzo per casalinghe inquiete. Non occorre dire toilette per indicare la latrina o disquisire di coproliti quando si tratta di una porcata. Ci hanno detto e ripetuto alla nausea una balla colossale. Ce l’hanno ripetuta in tutte le salse con quella nonchalance che ha convinto (quasi) tutti che fosse proprio così, che non ci fosse dubbio, che il fatto fosse noto, acclarato, verificato e certificato. Nemmeno Eric Arthur Blair col suo Grande Fratello era riuscito a immaginare qualcosa di simile. La foto del misterioso dittatore il cui viso compare nei teleschermi e nei manifesti di propaganda è quella sì di una icona di rappresentanza, epifania del Potere ed essenza dell’ortodossia liberal-democratica, ma rimane pur sempre in formato multi-risoluzione, in chromakey, un’immagine semantico-linguistica che rappresenta l’Autorità in astratto con un volto emblema e incarnazione di un dominio invisibile. Il Big Brother rimane pur sempre una metafora, anche quando la sua effigie sembra alludere a qualcuno in carne ed ossa. Nel nostro caso il Potere ha messo il turbo, per così dire, l’icona rappresenta una persona reale. È la fotografia di Giuseppe Guerinoni che ci hanno mostrato in tutte le salse con accanto quella di Massimo Bossetti. Ci hanno detto ‘ecco questo è il suo vero padre’ in una agnizione che ci ha reso edotti della vera paternità che ha consentito all’apparato investigativo di risalire al carpentiere di Mapello, l’assassino della piccola Yara. L’accostamento delle fotografie è stato corredato su tutti i media dal commento che lasciava intendere senza incertezze e senza il minimo dubbio la vera paternità disvelata di Massimo Bossetti. Non si è però visto nessun documento che attesti che Massimo Bossetti sia figlio di Guerinoni. Perché non è stata fatta dall’accusa una comparazione ufficiale di paternità tra Massimo Bossetti e il padre legale? Il Gip aveva messo in conto una controprova di paternità sul padre legale. Tale verifica sarebbe stata un ulteriore punto a favore per l'accusa con relativo documento che avrebbe ulteriormente confermato alcuni indizi. Perché non si è proceduto alla controprova? L'esito non sarebbe stato per l'accusa quello sperato? Oppure è stato fatto ed è risultato che Massimo Bossetti è figlio del padre Giovanni? Sono state affermate cose senza uno straccio di documentazione, proprio come il fantomatico DNA: le voci che corrono, il si dice, sono diventati prova di paternità. Per me sanno perfettamente che l’esito è positivo, che Massimo Bossetti è figlio biologico di Giovanni Bossetti…Se Massimo Bossetti è figlio naturale del padre legale sono in molti a dover spiegare... non sarebbe per niente facile nemmeno dicendo che ‘per culo siamo arrivati al carpentiere’. Tutto l’ambaradan crollerebbe di schianto e sarebbe uno scandalo incalcolabile per molti, troppi… la giustizia del Bel paese diventerebbe una barzelletta internazionale, perfino la stampa colpevolista sarebbe costretta a cambiare registro… Bossetti e Guerinoni c’entrano tra loro come i cavoli a merenda. I media hanno ripetuto giornalmente il ritornello Bossetti è figlio di Guerinoni. La pura invenzione è diventata la realtà. Oltre a non esserci nessuna somiglianza tra il carpentiere e il suo presunto padre, la signora Arzuffi nell’epoca del concepimento si era già traferita da oltre un anno. Il caso della paternità Guerinoni è un bell’esempio di come la realtà mediatica possa a tal punto influenzare l’audience da convincere tutti di qualcosa che è asserito senza una prova. Oltre a non essere stato esibito alcun documento che attesti la paternità, non esiste neppure l’intenzione di approfondire da parte degli investigatori, segno che la paternità è un argomento tabù da trattare solo mediaticamente, da considerare come atto di fede. È per caso che i corpi di Yara e di Guerinoni sono stati cremati ad indagini ancora in corso? Pochi numeri elaborati da una macchina di sequenziamento su entità biologiche di origine indeterminata (un Dna extraterrestre), utilizzando kit scaduti e senza consentite alla difesa di conoscere che tipo di attività è stata fatta, hanno comunque sortito l’effetto sperato, se non altro per giustificare uno sforzo economico davvero rilevante (milioni di euro) e nell’intento di dimostrare che non si è camminato verso il nulla… un colpevole alla fine di tutto l’ambaradan è stato trovato. Per il futuro siamo tutti avvertiti, se qualcuno ci dirà che è stata rinvenuta la nostra firma biologica su una vittima - anche se dimidiata e di origine incerta, sopravvissuta miracolosamente per mesi alle intemperie - la nostra vita sarà passata al setaccio. Perfino quella volta che abbiamo litigato col salumiere avrà un peso nella definizione di doppia personalità e di profilo borderline. Qualunque fatto creduto insignificante, banale e perfino comico, entrerà tragicamente in un sistema indiziario e butterà una luce perversa e inquietante sulla nostra esistenza. Poche entità numeriche elaborate in ‘automatico’ e senza la verifica del contraddittorio consentiranno di interpretare fatti e situazioni per noi di nessuna importanza, le banalità quotidiane, come le tessere di un puzzle indiziario, fatte combaciare con tanto olio di gomito. Purtroppo è questo il sistema unilaterale e autoritario che sta prendendo piede sempre più spesso, tanto che ci vuol nulla a capire che fra poco tutti saremo in bilico. Un giorno ci diranno che nostro padre in realtà non è nostro padre, che per provarlo non c'è bisogno di alcuna controprova e che deve bastarci la fede nelle istituzioni per credere che davvero è la salma di un nuovo vero genitore quella rintracciata grazie a un francobollo trovato per caso... Beh, prepariamoci sin d'ora perché in quel momento saremo le vittime predestinate di un etilometro e di un sempre più crescente pettegolezzo mediatico che ci spingerà, sbilanciandoci di proposito, per farci cadere nel burrone più profondo che ci sia...
Yara: le tappe di una vicenda durata 6 anni. Le tappe dell’inchiesta sull'omicidio di Yara Gambirasio, dalla scomparsa alla camera di consiglio di oggi per la sentenza a carico di Massimo Bossetti.
26 novembre 2010: Yara Gambirasio, 13 anni, scompare a Brembate di Sopra, nel Bergamasco. Ha lasciato la palestra in cui pratica la ginnastica ritmica ad appena 700 metri da casa e di lei si perdono le tracce. Alle 18.47 il suo telefonino è agganciato dalla cella di Mapello, distante circa tre chilometri da Brembate, poi la traccia scompare. Dal suo telefonino parte un sms di risposta a un'amica.
5 dicembre 2010: il marocchino Mohamed Fikri, che lavora in un cantiere edile di Mapello è fermato a bordo di una nave diretta a Tangeri. Contro di lui un’intercettazione ambientale in cui sembra affermi "Allah perdonami non l’ho uccisa". Ma la traduzione era sbagliata. Fikri si proclama innocente. Riesce a dimostrare che le sue vacanze in Marocco erano programmate da tempo e che non stava fuggendo. La sua posizione sarà archiviata perchè risulterà del tutto estraneo alla vicenda.
12 dicembre 2010: La mamma di Yara parla per la prima volta e in un'intervista e dice di sentire ''un grande affetto attorno alla sua famiglia''.
26 febbraio 2011: Il corpo di Yara, a tre mesi esatti dalla scomparsa, è ritrovato in un campo a Chignolo d’Isola, una decina di chilometri da Brembate (Bergamo). E’ stata uccisa sul posto, con alcune coltellate ma è morta anche per il freddo.
28 maggio 2011: E' il giorno dell'addio a Yara. In migliaia si ritrovano al palazzetto dello Sport per assistere ai suoi funerali. Viene letto anche un messaggio del Presidente della Repubblica.
15 giugno 2011: Gli investigatori isolano una traccia di Dna maschile sugli slip della ragazza che, a differenza degli altri tre già esaminati, non sarebbe suscettibile di contaminazione casuale. Si tratterebbe quindi de Dna dell'assassino. Un profilo genetico che non figura però tra i 2.500 raccolti in quei mesi dagli investigatori.
18 settembre 2012: Nasce ufficialmente la "pista di Gorno": E' estratto da una marca da bollo su una vecchia patente il Dna di Giuseppe Guerinoni, di Gorno sposato e padre di due figli, morto nel 1999, simile a quello trovato sul corpo di Yara. Comparato con il suo nucleo famigliare, non porta ad alcun risultato; da qui l’ipotesi che esista un suo figlio illegittimo.
7 marzo 2013: Viene riesumata la salma di Giuseppe Guerinoni, il bergamasco di Gorno morto nel 1999 che, secondo gli inquirenti, sarebbe il padre biologico dell'assassino. La salma viene sottoposta a tutti gli accertamenti del caso, come disposto dalla Procura.
10 aprile 2014: La consulenza dell'anatomopatologa Cattaneo fuga i dubbi, peraltro sollevati dalla famiglia di Yara, sulla corrispondenza del Dna con quello di Giuseppe Guerinoni. L'assassino di Yara è un suo possibile figlio illegittimo. Di recente, senza alcun risultato, quel Dna era stato comparato con quello di donne che frequentavano Salice Terme, nel Pavese. Una località climatica che l'autista aveva frequentato negli anni in cui avrebbe potuto avere un figlio illegittimo.
16 giugno 2014: E’ arrestato Massimo Giuseppe Bossetti, all’epoca 43 anni, muratore di Mapello, sposato e padre di tre figli. Due giorni prima gli era stato prelevato il Dna con il trucco di un falso controllo dell’etilometro. Il suo Dna era risultato coincidere con quello di Ignoto 1. A lui gli investigatori erano giunti attraverso la madre, Ester Arzuffi, che, secondo l’accusa, aveva avuto una relazione con Guerinoni.
27 aprile 2015: Bossetti è rinviato a giudizio davanti ai giudici della Corte d’assise di Bergamo. E’ accusato di omicidio ma anche di calunnia ai danni di un suo collega di lavoro verso il quale avrebbe cercato di indirizzare le indagini.
3 luglio 2015: Comincia il processo: la difesa dell’imputato chiede 700 testimoni che saranno poi sfoltiti dalla Corte
11 marzo 2016: Bossetti si sottopone all’esame del pm, si proclama innocente e dice di aver pensato che Yara Gambirasio «era stata uccisa per mettermi nei guai».
22 aprile 2016: La Corte non concede ulteriori accertamenti sul Dna e altre prove chieste dalla difesa. Per i giudici non sono superflui al fine della decisione.
13 maggio: Il pm Letizia Ruggeri chiede per Bossetti l'ergastolo e sei mesi di isolamento diurno.
20 maggio: Parlano le parti civili che chiedono a Bossetti di "confessare e liberarsi la coscienza" e un risarcimento pari a tre milioni e 249 mila 230 euro.
10 giugno: intervengono i difensori di Bossetti (nella foto a destra) per chiederne l'assoluzione: «Questo imputato in diritto sarebbe già assolto» ma entrano in gioco «altre questioni: una bambina che non c'è più, anni di indagini e qualcuno vorrebbe utilizzare questo processo per propaganda forcaiola.
17 giugno: intervengono i difensori di Bossetti per chiederne l’assoluzione: «Questo imputato in diritto sarebbe già assolto» ma entrano in gioco «altre questioni: una bambina che non c'è più, anni di indagini e qualcuno vorrebbe utilizzare questo processo per propaganda forcaiola.
1 luglio: Sarà letta la sentenza a carico di Bossetti. Senza telecamere a tutela dei giudici popolari dopo che sono state intercettate due lettere con proiettili dirette a Corte e pm.
Omicidio Yara, la lettera di Bossetti dal carcere: “Mi vergogno di essere italiano”. Dal carcere Massimo Bossetti, l’uomo condannato un mese fa per l’omicidio della piccola Yara Gambirasio, si dice deluso e amareggiato per l’ingiustizia che avrebbe subito. In una lettera al settimanale “Oggi” si firma “Vostro guerriero Massy”, scrive Susanna Picone su “FanPage” il 3 agosto 2016. Si sfoga attraverso una lettera inviata al settimanale “Oggi” Massimo Giuseppe Bossetti, l’uomo condannato un mese fa all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio, la ragazzina di Brembate Sopra scomparsa il 26 novembre 2010 e ritrovata senza vita esattamente tre mesi dopo. “Sono deluso e amareggiato di fronte a tutta questa ingiustizia. Mi vergogno altamente di essere italiano ma resto molto fiero di non aver venduto la mia innocenza”, scrive Bossetti al settimanale, firmando la sua lettera “Vostro Guerriero Massy”. Lo stesso settimanale nei mesi scorsi, prima della sentenza di condanna, aveva pubblicato le lettere che il muratore di Mapello aveva scritto ai familiari e nelle quali faceva intuire anche il pensiero di togliersi la vita. Ora, invece, dopo la condanna all’ergastolo, Bossetti sembra intenzionato a combattere per ribaltare la sentenza di primo grado. “Abbraccerò e sosterrò con forza, dignità sempre a testa alta questa pesante e ingiusta mia croce e soprattutto non mollerò mai fino alla fine ma la porterò con molto coraggio, quel coraggio che mai potrà mancare agli innocenti”, così ancora Bossetti nella sua lettera. Già pochi giorni dopo la condanna all’ergastolo Bossetti aveva fatto sapere di non volere “arrendersi” e di non comprendere il presunto accanimento nei suoi confronti. Del muratore di Mapello condannato per l’omicidio di Yara Gambirasio ha parlato recentemente anche la sorella di Giuseppe Guerinoni, l’autista di Gorno che secondo la scienza è il padre naturale del presunto assassino della ragazzina. La donna, la signora Vittoria Guerinoni, ha detto che secondo lei Bossetti doveva essere sincero sin dall’inizio di questa storia. E ha criticato la madre dell’uomo, che nonostante il test del dna ha sempre negato di aver avuto una relazione con Guerinoni dalla quale sarebbe nato suo figlio Massimo.
Caso Yara, la sorella del padre naturale di Bossetti: “Doveva essere più sincero”. A Più Valli TV parla Vittoria Guerinoni, sorella di quel Giuseppe che secondo le indagini è il padre naturale del carpentiere di Mapello, condannato all'ergastolo lo scorso primo luglio, scrive Mauro Paloschi il 27 luglio 2016 su “Bergamo News”. “Bossetti avrebbe dovuto essere più sincero e parlare fin dall’inizio, non stare zitto in carcere per tanto tempo”. Per la prima volta parla Vittoria Guerinoni, sorella di quel Giuseppe che secondo le indagini per il delitto di Yara Gambirasio è il padre naturale del carpentiere di Mapello, condannato all’ergastolo lo scorso primo luglio. La donna vive a Gorno, in Valle del Riso, proprio dove risiedeva Giuseppe Guerinoni, autista morto nel 1999. E’ stata intervistata da Più Valli TV, con un servizio che è stato acquistato anche dalla BBC che sta realizzando un documentario sull’omicidio della tredicenne di Brembate Sopra, scomparsa il 26 novembre 2010 e ritrovata cadavere tre mesi dopo in un campo di Chignolo d’Isola. A ucciderla, secondo la Corte d’Assise presieduta dal giudice Antonella Bertoja, Massimo Giuseppe Bossetti. Una sentenza arrivata al termine di una lunga e complessa indagine, culminata con l’arresto del 46enne in un cantiere di Seriate il 16 giugno 2014, e un processo di un anno con diversi colpi di scena. Tra i quali, la conferma in Aula che l’imputato non è figlio di Giuseppe Bossetti (nel frattempo morto il 25 dicembre scorso) ma di Giuseppe Guerinoni: Tutti possono sbagliare e tradire andando con un’altra donna – le parole della sorella Vittoria –. Mio fratello è stato sfortunato e basta così. Ora bisogna approfondire e capire se è stato davvero lui”. E sul comportamento di Ester Arzuffi, madre di Bossetti, la donna attacca: “Non si può stare in piedi a bugie. La sua vita non mi interessa, però avrebbe potuto essere più sincera. Bossetti l’ha saputo sollo quando era in prigione. Poi gli sbagli li fanno tutti. Ma meglio dire la verità”. Infine un commento sulla colpevolezza o meno di Bossetti: “Non lo so, il dna c’è. E on si può dire che sia volato lì. Lui doveva essere sincero fin dall’inizio e dire come è andata. Il dna c’è, ora la vicenda farà il suo corso”.
Il papà di Yara: «L’affetto della gente ci aiuta ad andare avanti». Fulvio Gambirasio parla durante la due giorni organizzata dall’associazione dedicata alla figlia: «Strette di mano per strada e lettere sulla tomba. Ma la condanna di Bossetti non cambia niente, non ci restituisce nostra figlia», scrive "Il Corriere della Sera" l'11 settembre 2016. «Tanta gente mi ferma per strada e mi chiede: come fate ad andare avanti? Oggi volevo raccontare alcune cose che vi potrebbero far capire. Non è facile. Ma è grazie a tante persone che ti fermano per strada, ti stringono la mano, ti abbracciano e ti dicono “andate avanti perché state diventando un esempio per tanti”, che possiamo continuare con la nostra vita». Fulvio Gambirasio, il papà di Yara, parla in pubblico per la prima volta dopo la sentenza di condanna all’ergastolo a carico di Massimo Bossetti. Da sempre riservatissima, la famiglia della piccola ginnasta uccisa nel 2010 rompe il silenzio in occasione della due giorni di sport organizzata a Valbrembo dall’associazione che porta il nome della figlia, «La passione di Yara». Un po’ a sorpresa, mentre la moglie Maura Panarese lo ascolta nel pubblico, Fulvio Gambirasio tira fuori tracce di quel grande dolore e indica da dove riesce a trovare un po’ di serenità: «Sulla tomba di Yara spesso io e mia moglie troviamo delle lettere anche anonime — racconta —. Io ammiro queste persone che mantengono un comportamento simile al nostro, una certa dignità, un certo rispetto, un certo silenzio. C’è una mamma di Livorno che periodicamente ci manda un bonifico tramite un’associazione. Non si è mai presentata, non ha mai detto chi è. Stessa cosa una mamma della Curva Nord dell’Atalanta. Questo silenzio fa più baccano di un microfono acceso». In mezzo ai ragazzi e ai volontari dell’associazione, i genitori di Yara appaiono più sereni. Non è certo merito dell’ergastolo a Bossetti, chiarisce però Fulvio Gambirasio: «Per noi non è cambiato niente, la sentenza non ci restituisce nostra figlia». Subito dopo la condanna in primo grado la famiglia aveva fatto filtrare poche parole attraverso gli avvocati: «Ora sappiamo chi è stato».
28 SETTEMBRE 2016: LE MOTIVAZIONI.
Caso Yara: la pubblicazione delle motivazioni dell'ergastolo a Massimo Bossetti. Quando la spettacolarizzazione del crimine non guarda in faccia a nessuno, scrive il 29 settembre 2016 Attilio Nazareno Pane su "it.blastingnews.com". Questa cosa della Cronaca nera, ci sta sfuggendo di mano. È di oggi, infatti, la pubblicazione delle motivazioni dell'ergastolo in Primo Grado a Massimo Bossetti, il presunto omicida di Yara Gambirasio. Scrivo "presunto" in quanto, secondo la legge italiana, vige la presunzione dell'innocenza di un imputato fino alla proclamazione della sentenza definitiva della Cassazione, al termine del terzo e ultimo grado processuale ma, di questo, pare importare a ben poche persone. La spettacolarizzazione del crimine (a cui sono soggetti tutti i mass-media), ha messo alla gogna Bossetti dal giorno in cui è stato quasi pubblicamente arrestato. Tutto ciò dimostra che, per via del coinvolgimento emotivo, molti italiani siano completamente annebbiati dal considerare questa delicata questione su cui ciascuno si esprime con eccessiva leggerezza. Ascoltando, dai principali telegiornali italiani, le crudeltà con cui è stato commesso questo omicidio, penso ai famigliari di Yara, costretti a non poter accendere un televisore o comprare un quotidiano senza rischiare improvvisi colpi al cuore nel trovarsi a leggere ciò che dice qualcuno della loro figlia prematuramente scomparsa. Penso ai famigliari di Bossetti, probabilmente ridotti a totali reietti in un territorio che, superficialmente, non riesce a scinderli da colui che è, nel concreto, l'unico assassino (presunto) della ragazzina. Penso, senza cadere in banali sentimentalismi che non mi appartengono, a Yara Gambirasio. La cronaca nera è ormai un gossip senza scrupoli con gli occhiali scuri del lutto. Nulla, ormai, crea più attenzione dell'ultima novità sull'omicidio tal-dei-tali. Conosco serieTV che hanno ottenuto meno successo di quella che è diventata una serie a puntate sull'omicidio di Yara. Tutto ciò, onestamente, mi preoccupa. Faccio di Yara Gambirasio un esempio tra molti. Tutto ciò è valido anche per Sarah Scazzi, Melania Rea, Gloria Rosboch e, purtroppo, chi più ne ha, più ne metta. Faccio di Yara un esempio che, purtroppo, non insegnerà nulla a chi cavalcherà, al prossimo giro, l'onda di quella che, un tempo, veniva detta "cronaca nera".
Mercoledì 28 settembre 2016. Sono state depositate le motivazioni della sentenza con la quale i giudici della Corte d’assise di Bergamo hanno condannato all’ergastolo, il primo luglio scorso, Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio, 13 anni, scomparsa da Brembate di Sopra il 26 novembre del 2010 e trovata uccisa a Chignolo d’Isola, a pochi chilometri da casa esattamente tre mesi dopo. La Corte le scrive nelle 158 pagine di motivazioni della sentenza.
Per i giudici della Corte d’Assise l’omicidio della giovane ginnasta è «maturato in un contesto di avances a sfondo sessuale, verosimilmente respinte dalla ragazza, in grado di scatenare nell’imputato una reazione di violenza e sadismo di cui non aveva mai dato prova ad allora...La dinamica resta in gran parte oscura, ma non ha agito in modo incontrollato, sferrando una pluralità di fendenti, ma ha operato sul corpo della vittima per un apprezzabile lasso temporale, girandolo, alzando i vestiti e tracciando, mentre la ragazza era ancora in vita, dei tagli lineari e in parte simmetrici, in alcuni casi superficiali, in altri casi in distretti non vitali e, dunque, idonea a causare sanguinamento e dolore ma non l'immediato decesso. Dopodiché ha lasciato la vittima ad agonizzare in un campo isolato e dove non è stata trovata che mesi dopo». L’aggravante della sevizia e crudeltà «disvela l’animo malvagio» dell’imputato. «Sevizie in termini oggettivi e prevalentemente fisici, crudeltà in termini soggettivi e morali di appagamento dell’istinto di arrecare dolore e di assenza di sentimenti di compassione e pietà...Il rinvenimento del profilo genetico di Bossetti e la sua collocazione provano che egli è l'autore dell'omicidio. È assolutamente affidabile il profilo genetico nucleare di Ignoto 1, che le indagini hanno stabilito essere Massimo Bossetti, in quanto caratterizzato per un elevato numero di marcatori Str e verificato mediante una pluralità di analisi eseguite nel rispetto dei parametri elaborati dalla comunità scientifica internazionale. È la presenza del profilo genetico dell’imputato - scrive la Corte presieduta da Antonella Bertoja - a provare la sua colpevolezza: tale dato, privo di qualsiasi ambiguità e insuscettibile di lettura alternativa, non è smentito né posto in dubbio da acquisizioni probatorie di segno opposto e anzi è indirettamente confermato da elementi ulteriori, di valore meramente indiziante, compatibili con tale dato e tra loro...E' vero che la dinamica del fatto resta in gran parte oscura, ma ciò non scalfisce il dato probante rappresentato dal rinvenimento del Dna su slip e pantaloni...La collocazione del profilo genetico di Bossetti sugli indumenti della 13enne prova non solo che l'imputato e la vittima sono entrati in contatto ma che lui è l'autore dell'omicidio e, a fronte di tale dato, le residue incertezze su dove si sono incontrati, su come la vittima sia stata indotta a salire sul suo mezzo o su quale sia stata la successione dei colpi non rilevano...dai tabulati telefonici si ricava che la sera del fatto - il 26 novembre 2010 - non era altrove; dalle intercettazioni di conversazioni tra presenti che egli quella sera rientrò a casa più tardi del solito e che neppure nell'immediato, non solo a quattro anni di distanza, disse alla moglie cosa avesse fatto e dove fosse stato...la sua attività professionale spiega l'inusuale concentrazione sul cadavere di particelle di calce e di sferette di metallo (presenti sul corpo della vittima, ndr) frutto di lavorazioni a caldo o localmente a caldo, di cui solo indumenti e mezzi di lavoratori del settore siderurgico e del settore edilizio possono essere contaminati».
A quanto si è saputo, è probabile che il pm Letizia Ruggeri che ha condotto le indagini e ha rappresentato l’accusa, presenti ricorso in appello contro l’assoluzione del muratore dall’accusa di calunnia nei confronti di un ex collega di lavoro.
Mapelli: «La sentenza Bossetti è solida». L’avvocato Salvagni critico: «Fa acqua», scrive "L'Eco di Bergamo Giovedì 29 settembre 2016. Una bocciatura, scontata da parte della difesa, e il contrattacco. L’avvocato di Massimo Bossetti, Claudio Salvagni, critica le conclusioni dei giudici che hanno condannato all’ergastolo il suo assistito e annuncia il ricorso in appello. «Questa sentenza non è altro che la riproposizione tale e quale della requisitoria del pm. In questa sentenza non c’è alcuna disamina critica, non si è preferita una tesi smontando l’altra, si è preferita una tesi e basta». Salvagni se la prende con i giudici anche perché «si sono spinti ad affermare che il movente del delitto sarebbe di natura sessuale, quando non può che essere considerata sol o un’ipotesi come tante altre. Vero che il movente, di fronte a un quadro probatorio chiaro, può anche non essere preso in considerazione, ma qui abbiamo un Dna dubbio e una serie di indizi privi di pregio. Questa sentenza – conclude – fa acqua dappertutto». Di tutt’altro avviso il procuratore capo di Bergamo, Walter Mapelli: «La sentenza – afferma – mi pare assolutamente solida. Accoglie in pieno la ricostruzione della Procura e valorizza non solo gli aspetti scientifici dell’inchiesta, ma anche una serie di indizi che concernono la narrazione del fatto, così come ricostruita dall’accusa. Come procuratore non posso che essere lieto del lavoro svolto dalla collega pm Letizia Ruggeri e dagli investigatori, la cui tenacia è stata premiata. Infatti – osserva Mapelli – gli inquirenti non si sono appiattiti sulla prova genetica, ma hanno lavorato pazientemente per raccogliere anche una serie di altri elementi a supporto».
Massimo Giuseppe Bossetti era “Il Favola”: raccontava bugie a tutti, scrive il 29 settembre 2016 "Blitz Quotidiano". Ancor prima di finire a processo per l’omicidio di Yara Gambirasio, Massimo Giuseppe Bossetti era noto per essere un bugiardo seriale. Lo avevano soprannominato “Il Favola” per il numero elevato di balle che raccontava a tutti e in ogni contesto. Mentiva a lavoro, inventando ad esempio di avere un tumore al cervello per giustificare l’assenza in cantiere. Mentiva alla moglie, negando di farsi le lampade. Mentiva ai colleghi, raccontando di aver tentato il suicidio per i presunti tradimenti della moglie. E pure da dietro le sbarre ha inventato menzogne clamorose, come quella del sequestro di 587mila euro all’estero. Un carpentiere bugiardo, sposato e padre di tre figli ancora minorenni. Ma senza precedenti penali. Salvo poi scovare sul suo computer centinaia di ricerche su internet che secondo la Corte sarebbero attinenti al delitto. Le ricerche riguardavano principalmente il sess0 con tredicenni “senza pelo” e che “danzano in palestra”. E Yara aveva guarda caso 13 anni: era una promessa della ginnastica ed è sparita la sera del 26 novembre del 2010 all’uscita dalla palestra. E’ questa l’architrave delle motivazioni della sentenza che il primo luglio scorso ha condannato Bossetti all’ergastolo. Sarebbe stata “la presenza del profilo genetico” di Massimo Bossetti e “la sua collocazione a provare che egli è l’autore dell’omicidio”. Per i giudici della Corte d’Assise di Bergamo questo è un dato “privo di qualsiasi ambiguità e insuscettibile di lettura alternativa, né è smentito, né posto in dubbio da acquisizioni probatorie di segno opposto e, anzi, è direttamente confermato da elementi ulteriori, di valore meramente indiziante, compatibili con tale dato e tra di loro”. In 158 pagine il presidente della Corte d’assise di Bergamo, Antonella Bertoja, e il giudice a latere Ilaria Sanesi, definiscono il delitto della ginnasta adolescente un “omicidio di inaudita gravità”, “maturato in un contesto di avances a sfondo, verosimilmente respinte dalla ragazza, in grado di scatenare nell’imputato una reazione di violenza e sadismo di cui non aveva mai dato prova ad allora”. Spiegano che l’aggravante delle sevizie e crudeltà “disvela l’animo malvagio” dell’imputato. “Le sevizie in termini oggettivi e prevalentemente fisici – scrivono – la crudeltà in termini soggettivi e morali di appagamento dell’istinto di arrecare dolore e di assenza di sentimenti di compassione e pietà”. Quanto al Dna di Ignoto 1, figlio illegittimo dell’autista di autobus Giuseppe Guerinoni, morto nel ’99, che poi sarà identificato con Bossetti è “assolutamente affidabile”, così com’è “caratterizzato per un elevato numero di marcatori Str e verificato mediante una pluralità di analisi eseguite nel rispetto dei parametri elaborati dalla comunità scientifica internazionale”. I giudici sgomberano il campo anche dai dubbi della difesa sulla mancata corrispondenza tra il Dna nucleare e quello mitocondriale nella traccia trovata sugli slip e sui leggins che indossava Yara. Un cavallo di battaglia della difesa che, sulla scorta di questo, aveva ipotizzato la presenza di un Ignoto 2: tutti i consulenti hanno chiarito che il Dna mitocondriale non individua un singolo individuo ma l’intera linea materlineare e “avendo disposizione il Dna nucleare, la ricerca a fini identificativi è inutile”. Sull’insegnante della ragazza, Silvia Brena, il cui Dna fu trovato sulla manica del giubbotto di Yara è “in una posizione non paragonabile a quella in cui è stato trovato il profilo dell’imputato” e le indagini a suo carico, anche con intercettazioni, non hanno portato a nulla. Così come quelle sul custode della palestra, anch’egli intercettato e anche perquisito. Dna, dunque, “prova granitica” a cui si aggiungono “elementi di natura indiziaria”: i tabulati telefonici consentono di escludere che Bossetti il giorno dell’omicidio fosse altrove rispetto a Brembate. Nessun riscontro ai movimenti ipotizzati dal muratore quel pomeriggio: non lo ricorda la commercialista “nessuno degli edicolanti sentiti in dibattimento ha ricordato di aver visto Bossetti quel giorno; anche per comperare dei pacchetti di figurine, comunque sarebbero stati sufficienti pochi minuti”. Bossetti, e le intercettazioni in carcere con la moglie, Marita Comi, lo dimostrerebbero, “non ha taciuto i suoi spostamenti solo dopo il fermo, ma da subito”. I giudici ricordano che, nella conversazione intercettata il 4 dicembre del 2014 nel carcere bergamasco di via Gleno, Marita Comi “ricorda perfettamente che quella sera il marito era rientrato tardi e soprattutto gli contesta che nella varie occasioni in cui avevano parlato lui non gli aveva mai fornito una spiegazione esauriente”. Poi le ricerche nei computer a sfondo su “ragazzine”: una certamente effettuata mentre era solo in casa. Restano tuttavia molti punti oscuri nella vicenda. Per Claudio Salvagni, legale del muratore, è una sentenza “totalmente appiattita sule tesi dell’accusa”. A suo avviso il movente di natura ipotizzato dai giudici parla di “film non supportato da elementi probatori”. “I giudici sono andati addirittura oltre le argomentazioni del pm”, ha concluso annunciando ricorso in appello. Omicidio Yara, il legale di Bossetti: “Nella sentenza dei buchi incredibili. Atto di fede nei confronti del DNA”.
Scrive il 30 settembre 2016 la Redazione di Iltabloid: “Sto rileggendo per la seconda volta le motivazioni, cercando di coglierne ogni aspetto. Queste motivazioni le reputo totalmente appiattite sulle tesi delle accuse”. Claudio Salvagni, avvocato di Massimo Bossetti, ha commentato a Legge o Giustizia su Radio Cusano Campus le motivazioni della sentenza che ha condannato l’imputato all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio. “Non trovo risposte, nella sentenza, a tutti i dubbi che la difesa ha sollevato. Mi aspettavo molto di più. Addirittura sul movente la corte è andata oltre quanto detto dal pubblico ministero. È stato ipotizzato un movente per avance respinte. Nel processo tutto questo non c’è stato: è un vero e proprio film che si è fatto la Corte”. Quando sarebbero avvenute queste avance? “Nel momento in cui è stata fatta salire sul furgone. Mi sembra che non sia stato chiarito se la ragazza sia salita con l’inganno, contro voglia o con la forza. Ci sono dei buchi in questa sentenza incredibile. Se si vuole fare un film tutto è possibile”. Si è descritto l’imputato come una persona cattiva e feroce: “Bossetti stesso ha detto che questo assassino non merita alcun tipo di sconto, perché è un brutto omicidio. Il problema è che noi riteniamo che non sia Bossetti il responsabile. Parlare della personalità di Bossetti ed accostarla all’efferatezza dell’omicidio è altamente stridente. Come emerso nel processo, Bossetti è una persona tranquilla, mite. Non è stato trovato nulla al di sopra delle righe nella vita di questo uomo. Secondo la sentenza sarebbe impazzito da un momento all’altro, uccidendo una ragazzina di 13 anni. Anche l’eventuale interesse nei confronti del sesso con i giovani non ha alcun riscontro nelle carte processuali. Una persona che, sostanzialmente, si sveglia a 40 anni e diventa pedofilo. La criminologia ci insegna che è un qualcosa di assolutamente improbabile”. E il DNA? “Un elemento che viene portato contro Bossetti è che non abbia fornito un alibi, come se una persona potesse ricordarsi quanto fatto quattro anni prima. Oltre al DNA, che è vista come la prova regina, ci sono solo alcuni indizi. Le immagini del furgone non sono praticamente servite a nulla. L’altro elemento indiziante sono le fibre e le sfere. Non ci sono altri elementi a carico del Bossetti. Si è fatto, insomma, un atto di fede nei confronti del DNA che, ripeto, ha oggettivamente tantissimi profili di errore, come emerso in dibattimento. Bossetti ha chiesto, supplicato a gran voce un nuovo esame del DNA perché lì dentro c’è un errore. Mi domando, quale colpevole chiederebbe una cosa del genere. Inoltre, quale sistema giuridico moderna impedisce di accettare in contraddittorio questa prova? Bossetti non ha mai partecipato ad un’indagine scientifica insieme ai suoi consulenti. Ha dovuto recepire come un atto di fede quello che ci hanno detto i Ris e questo per noi è inaccettabile”. Fonte: Radio Cusano Campus.
Inquisizione democratica e illuminata: il caso Yara. Domande e dubbi eterni su colpevolezza, pena ed espiazione in una società “illuminata”, scrive Lorenzo Sarri il 30 settembre 2016 su "lintellettualedissidente.it". La Corte d’Assise di Bergamo ha reso note le motivazioni della condanna all’ergastolo di Massimo Bossetti per l’omicidio di Yara Gambirasio. In essa è stata ricostruita minuziosamente la dinamica dell’uccisione della povera ragazza, spiegando come l’imputato: “non ha agito in modo incontrollato, sferrando una pluralità di fendenti, ma ha operato sul corpo della vittima […] per un apprezzabile lasso temporale, girandolo, alzando i vestiti e tracciando, mentre la ragazza era ancora in vita, dei tagli lineari e in parte simmetrici, in alcuni casi superficiali, in altri casi in distretti non vitali e, dunque, idonea a causare sanguinamento e dolore ma non l’immediato decesso. Dopodiché ha lasciato la vittima ad agonizzare in un campo isolato e dove non è stata trovata che mesi dopo”. I magistrati bergamaschi deducono da questo “un animo malvagio”, che giustificherebbe “le sevizie in termini oggettivi e prevalentemente fisici, la crudeltà in termini soggettivi e morali di appagamento dell’istinto di arrecare dolore e di assenza di sentimenti di compassione e pietà”. Una sentenza che arriva al termine di un procedimento che si era aperto con il celebre tweet del Ministro dell’Interno Angelino Alfano del giugno 2014, in cui celebrava la cattura dell’assassino di Yara Gambirasio: in barba alla presunzione d’innocenza, che se perdura fino alla Cassazione, figurarsi quando neppure è iniziato il processo di primo grado. Ma il ministro si giustificò sostenendo che si doveva informare l’opinione pubblica tanto angustiata per l’atroce delitto (o forse si doveva semplicemente sbattere il mostro in prima pagina, neppure il governo Renzi fosse una riedizione di certe trasmissioni televisive pomeridiane e serali in cui il conduttore e gli avventori svolgono processi paralleli, che spesso si traducono in condanne affrettate, come è tanto di moda nel nostro paese): e in ogni caso la decisione giudiziale ha ampiamente confermato quanto da lui “cinguettato”: dunque tutto a posto, no? Non troppo, in effetti. La sentenza evidenzia con immagine suggestiva come “stimata in sette miliardi la popolazione mondiale, per trovare un altro individuo con le stesse caratteristiche genetiche sarebbero necessari centotrenta miliardi di altri mondi uguali al nostro”: e però non risulta spiegare bene la nota, per chi segue il caso, anomalia del Dna mitocondriale– che per qualche motivo non corrisponde a quello di Bossetti, né dell’ammissione che in sede di esame il Dna prelevato dalla madre di Bossetti fu confuso con un altro campione contenente il Dna della Gambirasio, e neppure del fatto che il cadavere della ragazza rimase purtroppo per tre mesi in un campo non distante dal luogo della scomparsa (nonostante le spasmodiche ricerche iniziate da subito), con le complicazioni che ciò implica ai fini di questo tipo di esami. Eppure la sentenza ammette, nonostante questi ed altri punti oscuri (la difesa eccepì addirittura un difetto di taratura della macchina preposta; e nonostante questo, le analisi non furono mai ripetute presso altri laboratori) che sulla prova genetica si fonda l’impianto della condanna: il movente sessuale non trova riscontri di violenza sessuale consumata sul cadavere. Certo, ci sono le ricerche su Google a carattere pedopornografico rinvenute sul pc di Bossetti: ma che uno abbia delle curiosità piuttosto abominevoli non implica affatto che sia necessariamente passato all’azione, e invece si dà per scontato che a fronte di ripetuti rifiuti alle sue avances, egli abbia ucciso la Gambirasio, anche se non ci sono testimonianze attendibili che siano stati visti anche solo assieme. Del resto il suo cellulare si è agganciato più volte alla cella dove si trovava anche la palestra frequentata dalla ragazzina; poco importa se il Bossetti ci passava regolarmente perché sulla strada del cantiere dove lavorava. Si è pure evidenziato come sotto le scarpe della ragazza vi fossero delle sferette di metallo che solitamente si rinvengono nei cantieri edili: ma è forse quello dove lavorava Bossetti l’unico cantiere edile della zona? Insomma: senza la prova del Dna, con tutti i dubbi sopraccennati, gli altri elementi non si ridurrebbero che a circostanze indiziarie non univocamente idonee a condannare nessuno. Tanto che, in effetti, pur al netto della sua pluridecennale antipatia per il Terzo Potere dello Stato, qualche intuizione l’ha avuta Vittorio Feltri, nel suo articolo del 16 luglio scorso su Libero, nel dire che a volte i giudici non considerano che le carte processuali potrebbero essere pure “carta straccia” e che non tengono nel debito conto il possibile errore umano nelle perizie tecniche; nondimeno ben sintetizza il sospetto dell’”uomo della strada” quando insinua che: “ se Bossetti, invece di essere un proletario sprovveduto, incolto e intontito, fosse stato un borghese arricchito da buoni studi oggi sarebbe libero. Nessuno avrebbe osato additarlo quale omicida. Un operaio sfigato è facile trasformarlo in bersaglio immobile e colpirlo, trascinarlo nel fango e lì abbandonarlo beandosi del clamore mediatico suscitato dalla sua condanna”. Ma vi è forse di più. In tempi in cui nella nostra costituzione – almeno fino alla prossima idea balzana del Partito Democratico, è chiaro – è contenuto, all’articolo 111, il principio del due process of law, che ovviamente sottintende la non colpevolezza fino a condanna definitiva e l’onere della prova a carico dell’accusa, l’inserimento (per la verità non del tutto infrequente nella pratica giudiziaria) di un testuale riferimento alla condotta malvagia di un soggetto presunto innocente oltretutto in presenza di qualche ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza, come si è visto, dovrebbe fare piuttosto rumore. Perché una tale terminologia rimanda non tanto alle linde e multirazziali aule di tribunale statunitense dei film e serie televisive che tanto ci appassionano, ma piuttosto alle pratiche giudiziarie dell’Inquisizione Romana. Con una fondamentale differenza tuttavia: compito dell’Inquisizione, romana, spagnola o portoghese che fosse era proprio dare un giudizio etico e morale sulla persona, mentre i Tribunali di oggi dovrebbero limitarsi ad accertare e punire il fatto criminoso. Peraltro la condanna della Chiesa era e non poteva non essere limitata al piano spirituale (scomunica, separazione dal “gregge” dei fedeli): la tortura e le eventuali pene capitali (rogo, impiccagione, ecc.) le ha sempre comminate – accertata l’eresia – il braccio secolare ovvero lo Stato poiché esso le prevedeva nel suo ordinamento positivo o nella sua consuetudine come pena; nella Christianitas un certo grado di separazione tra diritto religioso e secolare, a differenza che nell’Islam ove il Corano è diretta fonte del diritto canonico e non, vi è sempre stata. Con l’Illuminismo si è ben pensato a scrivere la leyenda negra dell’Inquisizione, e a difendere gli ingiustamente oppressi dalla nobiltà e dal clero (salvo che Voltaire sollevò un polverone sul suicida Calas, che apparteneva alla minoranza ugonotta, e sul bestemmiatore cavaliere di Barras, ma al contadino normanno cattolico o all’operaio parigino non riservò la stessa attenzione: mai possibile che nessuno di loro sia finito nelle grinfie dei Parlements?) ma non si è per questo abolito la pena di morte, che anzi è stata somministrata in maniera più asettica ancora – si pensi all’invenzione della ghigliottina, o all’iniezione letale degli Stati Uniti – e men che meno si è cessato di accanirsi sulle minoranze o a commettere grossolani errori giudiziari (si pensi a Sacco e Vanzetti, anarchici uccisi negli anni Venti non nella mussoliniana Italia ma nella democratica America). A volte sembra quindi di ricadere nell’ipocrisia lombrosiana per cui il muratore Bossetti, dagli occhi spaventosamente chiari come quelli di una volpe – dice una testimone al processo – e frequentatore di siti equivoci (lasciando perdere di considerare la presa che la pornografia e questo modello di società possano avere su una persona non troppo avveduta), lo si definisce malvagio (un po’ come Il contadino pervertito di Choderlos de Laclos) anche se le prove tanto granitiche non sono, senza limitarsi a giudicare il fatto: tanto il ministro ha già twittato che era colpevole, in barba ad ogni presunzione d’innocenza. Un sistema quindi un tantino ipocrita, che mostra il suo volto peggiore contro le classi meno privilegiate, sulla falsa riga di quella uguaglianza formale tanto cara ai liberals degli ultimi tre secoli. A questo punto, visto che gran parte delle sue condanne consisteva nell’indossare uno scapolare o recitare preghiere, o essere esiliati a vita nella cornice splendida della Villa del Gioiello – come Galilei – verrebbe da dire molto più onesta l’Inquisizione, che oltretutto aveva l’ambizioso obiettivo di salvarti l’anima.