Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

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(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

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GIUSTIZIOPOLI

 

TERZA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

 

 

 

 

L’ITALIA DELL’INGIUSTIZIA

OSSIA, LA LEGGE DEL PIU’ FORTE,

NON LA FORZA DELLA LEGGE

DISFUNZIONI DEL SISTEMA CHE COLPISCONO IL SINGOLO

 

 

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

 

 

 

 

"Art. 101 della Costituzione: La Giustizia è amministrata in nome del popolo. I costituenti hanno omesso di indicare che la Giustizia va amministrata non solo in nome, ma anche per conto ed interesse del popolo. Un paradosso: le illegalità, vere o artefatte, sono la fonte indispensabile per il sostentamento del sistema sanzionatorio - repressivo dello Stato. I crimini se non ci sono bisogna inventarli.

Una società civile onesta farebbe a meno di Magistrati ed Avvocati, Forze dell'Ordine e Secondini, Cancellieri ed Ufficiali Giudiziari.....oltre che dei partiti dei giudici che della legalità fanno una bandiera e dei giornalisti che degli scandali fanno la loro missione. Sarebbe una iattura per coloro che si fregiano del titolo di Pubblici Ufficiali, con privilegi annessi e connessi. Tutti a casa sarebbe il fallimento erariale. Per questo di illegalità si sparla.

Le pene siano mirate al risarcimento ed alla rieducazione, da scontare con la confisca dei beni e con lavori socialmente utili. Ai cittadini sia garantita la libera nomina del difensore o l'autodifesa personale, se capace, ovvero il gratuito patrocinio per i poveri. Sia garantita un'indennità e una protezione alla testimonianza.

Sia garantita la scusa solenne e il risarcimento del danno, anche non patrimoniale, al cittadino vittima di offesa o violenza di funzionari pubblici, di ingiusta imputazione, di ingiusta detenzione, di ingiusta condanna, di lungo o ingiusto processo.

Il difensore civico difenda i cittadini da abusi od omissioni amministrative, giudiziarie, sanitarie o di altre materie di interesse pubblico."

di Antonio Giangrande

*****

 

 

 

INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.

La MALAGIUSTIZIA, oggetto della presente opera, è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.

L’INGIUSTIZIA è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!! 

Della malagiustizia si parla in un’inchiesta ed in un libro a parte. Dei legulei, ossia degli operatori della giustizia, si parla dettagliatamente anche di loro in altra inchiesta ed in altro libro.

 

 

LA LEGGE E' UGUALE PER TUTTI ?!?!

LA GIUSTIZIA E' DI QUESTO MONDO ?!?!

"Art. 101 della Costituzione: La Giustizia è amministrata in nome del popolo. I costituenti hanno omesso di indicare che la Giustizia va amministrata non solo in nome, ma anche per conto ed interesse del popolo. Un paradosso: le illegalità, vere o artefatte, sono la fonte indispensabile per il sostentamento del sistema sanzionatorio - repressivo dello Stato. I crimini se non ci sono bisogna inventarli. Una società civile onesta farebbe a meno di Magistrati ed Avvocati, Forze dell'Ordine e Secondini, Cancellieri ed Ufficiali Giudiziari.....oltre che dei partiti dei giudici che della legalità fanno una bandiera e dei giornalisti che degli scandali fanno la loro missione. Sarebbe una iattura per coloro che si fregiano del titolo di Pubblici Ufficiali, con privilegi annessi e connessi. Tutti a casa sarebbe il fallimento erariale. Per questo di illegalità si sparla."

di Antonio Giangrande

 

GIUSTIZIOPOLI

L'INGIUSTIZIA CHE COLPISCE IL SINGOLO

 

SOMMARIO PRIMA PARTE

 

INTRODUZIONE.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

ONESTA’ E DISONESTA’.

OTTENERE IL RISARCIMENTO PER INGIUSTA DETENZIONE È UN’ODISSEA.

RISARCIMENTO PER I PROCESSI LUNGHI. LEGGE PINTO? NO! LEGGE TRUFFA!

COME SI DICE…“CANE NON MANGIA CANE!”

PARLIAMO DI INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA.

IL GIUSTIZIALISMO GIACOBINO E LA PRESCRIZIONE.

GIUSTIZIALISTI: COME LA METTIAMO CON GLI ERRORI GIUDIZIARI?

PARLIAMO DI INTERCETTAZIONI: LECITE, AMBIGUE, SELVAGGE.

PARLIAMO DELLE OFFESE DEL PUBBLICO MINISTERO ALL’IMPUTATO.

PARLIAMO DI TORTURA E VIOLENZA DI STATO.

SCIENZA E GIUSTIZIA.

LA RETORICA COLPEVOLISTA DELLA GIUSTIZIA MEDIATICA.

ASSOLTI. PERO’…

COLPA DEI PROCESSI INDIZIARI...

TOTO' CUFFARO: "LE MIE PRIGIONI".

L'INGIUSTIZIA NON E' UNA UTOPIA: E' REALTA'.

ANTONIO GIANGRANDE, GABRIELLA NUZZI, SILVIO BERLUSCONI: LE RITORSIONI DEI MAGISTRATI.

INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

INGIUSTIZIA. PARLIAMO DI DANTE BRANCATISANO. DETENUTO SENZA COLPA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA……

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

INNOCENTE PER LEGGE, MA ‘NDRANGHETISTA PER SEMPRE.

LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.

L’ERRORE GIUDIZIARIO: INNOCENTI IN CELLA, ASSOLTI ED ARCHIVIATI.

MAGISTRATI: FACCIAMO QUEL CHE VOGLIAMO!

GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.

ANCHE BORSELLINO ERA INTERCETTATO.

IL SUD TARTASSATO.  

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

DETENUTO SUICIDA IN CARCERE? UNO DI MENO!!!

BENI CONFISCATI ALLA MAFIA: FACCIAMO CHIAREZZA! NON E’ COSA LORO!

IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

SPECULAZIONE E BANCHE: ECONOMIA CHE UCCIDE.

SINISTRA ED IDEOLOGIA: L'ECONOMIA CHE UCCIDE.

SINISTRA ED ISLAM: L'IDEOLOGIA CHE UCCIDE.

SINISTRA E MAGISTRATI. LA GIUSTIZIA CHE UCCIDE L'ECONOMIA.

PROCESSATE BOSSI ED I LEGHISTI.

I GRANDI PROCESSI DEL 2014 ED I GRANDI DUBBI: A PERUGIA, KERCHER; A TARANTO, SCAZZI; A TORINO, ETERNIT; A MILANO, STASI; SENZA DIMENTICARE CUCCHI A ROMA.

SLIDING DOORS A MILANO: CRISAFULLI E BARILLA'. LA VITA CAMBIATA SENZA SAPERE UN CAZZO.

CASO MARO’. ITALIANI POPOLO DI MALEDUCATI, BUGIARDI ED INCOERENTI. DICONO UNA COSA, NE FANNO UN’ALTRA.

L’AQUILA NERA E L’ARMATA BRANCALEONE.

LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.

IN TEMA DI GIUSTIZIA E DI INFORMAZIONE CHI SBAGLIA PAGA? IL DELITTO DI PERUGIA. AMANDA E RAFFAELE COLPEVOLI DI INNOCENZA.

CARCERE. INFERNO SENZA ACQUA.

DONNE IN CARCERE. LA DISCRIMINAZIONE DIETRO LE SBARRE.

QUANDO IN PRIGIONE CI VANNO I BAMBINI.

QUANDO IN ESILIO CI VANNO I BAMBINI.

BREGA MASSONE: CONDANNATO IN TV.

IMPRENDITORIA CRIMINOGENA. SEQUESTRI ED AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. A CHI CONVIENE?

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

CONDANNA DEFINITIVA REVOCATA? NON E' PIU' UN TABU'.

L’ASINARA, PIANOSA ED IL FATTORE “M”.

CARCERI A SORPRESA. LE CELLE LISCE E LE ISPEZIONI SENZA PREAVVISO.

INCHIESTA. IL CARCERE, I CARCERATI, I PARENTI DEI CARCERATI ED I RADICALI…….

L’ITALIA COME LA CONCORDIA. LA RESPONSABILITA’ DELLA POLITICA.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

L’ITALIA DEGLI IPOCRITI. GLI INCHINI E LA FEDE CRIMINALE.

 

SOMMARIO SECONDA PARTE

 

LA PRESCRIZIONE. LA GARANZIA PER GLI INNOCENTI CHE I GIUSTIZIALISTI NON VOGLIONO.

PRESCRIZIONE. MANLIO CERRONI ED I 14 ANNI DI SOFFERENZA DA INNOCENTE.

MAGISTRATURA SENZA VERGOGNA.

L’ITALIA DEI MORALISTI CON LA MORALE DEGLI ALTRI.

STORIE DI MAFIOSI E PARA MAFIOSI.

POTENTE UGUALE IMPUNITO.

FIDARSI DELLE ISTITUZIONI. I CITTADINI: NO GRAZIE!! CHI CONTROLLA I CONTROLLORI?

INDIPENDENZA DEI MAGISTRATI? UNA BALLA. LO STRAPOTERE DEI MAGISTRATI E LA VICINANZA DEI GIUDICI AI PM, OLTRE LA CORRUTTELA.

EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.

FINANZA E GIUSTIZIA.

RESPONSABILITA' DELLE TOGHE? LA SINISTRA: NO GRAZIE!!!

LA SINISTRA E LE TOGHE D’ASSALTO

LA VERA STORIA DI CORRADO CARNEVALE ED I MAGISTRATI POLITICIZZATI E PIGRI.

SENTIAMO KARIMA EL MAHROUG, DETTA RUBY.

SENTIAMO CESARE BATTISTI.

YARA E' SEMPRE. SBATTERE IL MOSTRO IN PRIMA PAGINA.

L'ULTIMO AFFRONTO AD ENZO TORTORA.

LA REPUBBLICA DEI MAGISTRATI.

GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD.

COLPEVOLE DI ESSERE INNOCENTE.

CHE INGIUSTIZIA PERO'!!! DAI CARABINIERI ENTRI VIVO E NE ESCI MORTO O SCONTI LA PENA NELLA CELLA ZERO. 

IL CARCERE E LA GUERRA DELLE BOTTE. 

DELITTO DI STATO. FEDERICO PERNA.

POLIZIA, POLIZIA PENITENZIARIA E CARABINIERI: ABBIAMO UN PROBLEMA?

LA LEGGE NON AMMETTE IGNORANZA?

INGIUSTIZIA: IMMENSA BIBLIOGRAFIA.

LA METASTASI DELLA GIUSTIZIA. IL PROCESSO INDIZIARIO. IL PROCESSO DEL NULLA. UOMO INDIZIATO: UOMO CONDANNATO.

PARLIAMO DEL REATO DI MAFIA.

DIRITTO CERTO E UNIVERSALE. CONTRADDIZIONI DELLA CORTE DI CASSAZIONE: CONCORSO ESTERNO IN ASSOCIAZIONE MAFIOSA, UN REATO CHE ESISTE; ANZI NO!!.

G8 E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLO STATO.

AMANDA KNOX, RAFFAELE SOLLECITO E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLA GIUSTIZIA.

BERLUSCONI E LA GUERRA PERSECUTORIA DEI MAGISTRATI.

DOPO BERLUSCONI, I RIVA. ILVA E GLI ESPROPRI PROLETARI.

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

IN ITALIA UN ERRORE GIUDIZIARIO GRAVE OGNI DUE MAGISTRATI.

QUANDO IL PM SBATTE IL VIP IN CARCERE PER ANDARE IN PRIMA PAGINA.

IL PROFESSORE DI SALUZZO, LE ALLIEVE E LA GIUSTIZIA ITALIOTA.

L'INGIUSTIZIA E LA FICTION.

LA DRAMMATICA LETTERA DI GAIA TORTORA A “IL TEMPO” SULLA GIUSTIZIA ITALIANA.

QUANDO IL PM SBATTE IL VIP IN CARCERE PER ANDARE IN PRIMA PAGINA.

GLI INNOCENTI? PARLIAMONE....

DELINQUENTE A CHI?

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

IL CSM ASSOLVE IL GIUDICE ROSSO CHE ANDAVA A CACCIA CON I BOSS.

INNOCENTI IN CARCERE: ECCONE UN ALTRO. GIOVANNI DE LUISE.

INNOCENTI IN CARCERE: ECCONE UN ALTRO. MAURIZIO BOVA.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

BERLUSCONI E GLI ALTRI. I MAGISTRATI FANNO QUEL CHE “CAZZO” VOGLIONO.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

TRIBUNALI SPECIALI. QUELLO CHE SUCCEDE A SILVIO BERLUSCONI, CAPITA A TUTTI GLI ITALIOTI, CHE SUBISCONO E TACCIONO........ED I GIORNALISTI OMERTOSI: "MUTI SONO".

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.

LE TOGHE IGNORANTI.

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI. DISCUTIAMO DELLA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.

C’E’ UN GIUDICE A BERLINO!

IL PAESE DEL GARANTISMO IMMAGINARIO.

I GIOVANI VERGINELLI ATTRATTI DAL GIUSTIZIALISMO.

MANETTE FACILI ED OMICIDI DI STAMPA E DI STATO: I PROCESSI TRAGICOMICI.

MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.

ED IL CITTADINO COME SI DIFENDE? CON I REFERENDUM INUTILI ED INAPPLICATI.

LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO E LA DINASTIA DEGLI ESPOSITO.

CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.

IL CASO DI MARCELLO LONZI.

L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.

POPULISTA A CHI?!?

APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.

LA LEGA MASSONICA.

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.

GIUSTIZIA. LA RIFORMA IMPOSSIBILE.

MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!

GLI ITALIANI NON HANNO FIDUCIA IN QUESTA GIUSTIZIA.

UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.

RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?

DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?

GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.

DA UN SISTEMA DI GIUSTIZIA INGIUSTA AD UN ALTRO.

IN ITALIA, VINCENZO MACCARONE E' INNOCENTE.

TOGHE SCATENATE.

CORTE DI CASSAZIONE: CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.

CHI E' ANTONIO ESPOSITO.

ANTONIO ESPOSITO COME MARIANO MAFFEI.

PARLIAMO DI FERDINANDO ESPOSITO.

GIUDICE ANTONIO ESPOSITO: IMPARZIALE?

IL PDL LICENZIO' SUO FRATELLO.

PROCESSO MEDIASET. LA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.

BERLUSCONI: CONFLITTO INTERESSI; INELEGGIBILITA’; ABITUALITA’ A DELINQUERE. MA IN CHE ITALIA VIVIAMO?

BERLUSCONI E CRAXI: DUE CONDANNATI SENZA PASSAPORTO.

DA ALMIRANTE A CRAXI CHI TOCCA LA SINISTRA MUORE.

BERLUSCONIANI CONTRO ANTIBERLUSCONIANI.

I ROSSI BRINDANO ALLA CONDANNA.

QUANDO IL PCI RICATTO' IL COLLE: GRAZIA ALL'ERGASTOLANO.

PASQUALE CASILLO E BERLUSCONI.

CORRUZIONE: MANETTE A GIUDICI ED AVVOCATI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.

SE SCRIVI DI LORO TE LA FANNO PAGARE.

GLI ABUSI DEI GENERALI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.

MAGISTRATI. CON LA DESIRE' DIGERONIMO I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA?!?

ITALIA, CULLA DEL DIRITTO NEGATO. STORIE DI FALLIMENTI.

MEZZO SECOLO DI GIUSTIZIA ITALIANA A STRASBURGO: UN’ECATOMBE.

LO STATO DELLA GIUSTIZIA VISTO DA UN MAGISTRATO.

LA MALAGIUSTIZIA E L’ODIO POLITICO. LA VICENDA DI GIULIO ANDREOTTI.

LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA.

CITTADINI ROVINATI DALLA GIUSTIZIA.

ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.

LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO.

DENUNCIA CONTRO UN MAGISTRATO.

SE QUESTA E’ GIUSTIZIA.

GIUSTIZIA. QUELLO CHE NON SI DICE.

SEI IN CARCERE? CREPA!

SPECULATORI DELLA SOFFERENZA. CHI CI GUADAGNA SUI DETENUTI?

ASPETTATIVA DI GIUSTIZIA. DALLA PARTE DELLE VITTIME.

E IL GIUDICE SI TOLSE LA TOGA PERCHE' NON SOPPORTAVA L'IDIOZIA DEI COLLEGHI.

PERCHE' CI FELICITIAMO DELLE DISGRAZIE ALTRUI?

SARAH SCAZZI. MEDIA ED APPROSSIMAZIONE, SE NON DISINFORMAZIONE.

ANNA MARIA FRANZONI: COLPEVOLE PERCHE' LO HA DETTO LA STAMPA.

IL DELITTO DI GIUSI POTENZA. SABRINA SANTORO E FILOMENA RITA (FLORIANA) MAGNINI. ACCUSATE INGIUSTAMENTE MA PER LA STAMPA RESTERANNO "COLPEVOLI E PUTTANE" PER SEMPRE.

MELANIA REA. OMICIDI E SETTE SATANICHE? NON SE NE DEVE PARLARE!!

IL FALLIMENTO DEL SISTEMA INVESTIGATIVO. BREMBATE SOPRA: QUANDO GLI ALTRI SIAMO NOI. IL DELITTO DI YARA GAMBIRASIO.

IL FALLIMENTO DEL SISTEMA INVESTIGATIVO. AVETRANA IL DELITTO DI SARAH SCAZZI.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. LA STRAGE DI ERBA. OLINDO ROMANO E ROSA BAZZI.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. FABRIZIO CORONA COLPEVOLE DI SFRONTATEZZA ED ARROGANZA.

IL ROVESCIO DELLA MEDAGLIA. DELITTO DI MELANIA REA. SALVATORE PAROLISI CON IL MOVENTE INTERSCAMBIABILE.

GRAVINA DI PUGLIA: CICCIO E TORE PAPPALARDI. STORIA DI ORDINARIA ITALIANITA'.

PER NON DIMENTICARE. STORIE DI ORDINARIA FOLLIA. L'ESEMPLARE STORIA DI ANTONIO GIANGRANDE. PERSEGUITATO PERCHE' RACCONTA LA VERITA'.

RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO. UNA NORMA DISATTESA.

PER NON DIMENTICARE. OTTAVIA DE LUISE.

PER NON DIMENTICARE. MAURIZIO BOLOGNETTI E GIUSEPPE DI BELLO. COLPEVOLI DI ESSERE INNOCENTI.

ELISA CLAPS ED IL NIDO DI SERPI.

INSABBIAMENTI E CENSURA A POTENZA.

INSABBIAMENTI: A POTENZA UN MURO DI GOMMA.

TOGHE LUCANE. INCHIESTA CHE NON SA DA FARE.

IL MISTERO DELLA MORTE DEI FIDANZATI DI POLICORO. LUCA ORIOLI E MARIROSA ANDREOTTA.

INSABBIAMENTI: SE SUCCEDE A LORO, FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI !!!!!

DELITTO DI MEREDITH KERCHER. AMANDA KNOX E RAFFAELE SOLLECITO. MA CHE GIUSTIZIA E’ QUESTA?

OMICIDI DI STATO. IL CASO BIANZINO.

OMICIDI DI STATO. GIUSEPPE UVA.

OMICIDI DI STATO. FEDERICO ALDROVANDI.

IL CASO DEL DELITTO DI SIMONETTA CESARONI. RANIERO BUSCO E PIETRINO VANACORE.

MANOLO ZIONI IN CARCERE DA INNOCENTE.

OMICIDI DI STATO. LUIGI MARINELLI.

OMICIDI DI STATO. STEFANO CUCCHI.

OMICIDI DI STATO. MICHELE FERRULLI.

CONDANNATI PREVENTIVI. LA CONDIZIONE DEGLI INNOCENTI IN CARCERE.

TARANTO FORO DELL’INGIUSTIZIA.

SOLO A TARANTO. ILVA, SARAH SCAZZI, BEN EZZEDINE SEBAI. AVVOCATI SUCCUBI DEI MAGISTRATI.

L'INGIUSTIZIA RACCONTATA DAGLI ADDETTI AI LAVORI. 

INGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

A PROPOSITO DI GIUSTIZIA. QUELLO CHE LA STAMPA NON DICE.

CARCERE E STORIE DI ORDINARIA INGIUSTIZIA.

CARA INGIUSTIZIA.

GLI INNOCENTI IN GALERA.

IL COSTO DEGLI ERRORI GIUDIZIARI.

PARLIAMO DI GIUSTIZIA E GIUSTIZIERI. L'ITALIA IN MANO AI MAGISTRATI.

LETTERE DAL CARCERE.

INTERVISTA AL PROCURATORE CAPO.

CENTO VOLTE INGIUSTIZIA.

TROPPI ERRORI GIUDIZIARI: CHI PROTEGGE GLI INNOCENTI?

EURISPES: RAPPORTO SUL PROCESSO PENALE.

DATI MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, DIPARTIMENTO PENITENZIARIO. CARCERE: ICONA DELL'INGIUSTIZIA.

ABUSI E VIOLENZE SUI DETENUTI: UN DOSSIER INFINITO....

NIENTE RISARCIMENTO PER L'INGIUSTA IMPUTAZIONE.

(IN)GIUSTIZIA: 5 MILIONI GLI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

IL DIRITTO DI DIFESA: UGUALE PER TUTTI ???

IMPUNITOPOLI PER I MAGISTRATI. LA IRRESPONSABILITA’ DEI MAGISTRATI.

MPUNITOPOLI PER I FUNZIONARI PUBBLICI. FUNZIONARI PUBBLICI: IMPUNITA' ED IMMUNITA'.

MAGISTRATURA: FORTE CON I DEBOLI E DEBOLE CON I FORTI ???

IL MISTERO USTICA.

IL MISTERO MATTEI.

IL MISTERO MORO.

IL MISTERO SULLA MASSONERIA.

IL MISTERO PEDOFILIA.

IL MISTERO DEL MOSTRO DI FIRENZE.

IL MISTERO MOBY PRINCE.

DA MOSTRO A INNOCENTE, STORIE DI CALVARI.

OMICIDI DI STATO E DI STAMPA.

MILANO: IL CASO RIZZOLI.

MILANO: IL CASO BERLUSCONI.

MILANO: IL CASO BARILLA’.

MILANO: I CASI MARIANI E CROSIGNANI

MILANO: IL CASO PALAU GIOVANNETTI.

CAGLIARI: IL CASO MANUELLA.

NUORO: IL CASO CONTENA.

ROMA: IL CASO ANDREOTTI.

ROMA: IL CASO LUTTAZZI.

ROMA: IL CASO SABANI.

ROMA: IL CASO DELITTO SIMONETTA CESARONI.

CASERTA: IL CASO OGARISTI.

NAPOLI: IL CASO TORTORA.

BARI: IL CASO LASTELLA.

TARANTO: IL CASO FAIUOLO, ORLANDI, NARDELLI, TINELLI, MONTEMURRO, DONVITO.

TARANTO: IL CASO PEDONE, CAFORIO, AIELLO, BELLO.

LECCE: IL CASO DI NAPOLI.

COSENZA: IL CASO MASALA.

CALTANISSETTA: IL CASO TURCO.

PEDOFILIA. LA FABBRICA DEI MOSTRI.

RIGNANO FLAMINIO E LE SUGGESTIONI. IL CASO DELLA PEDOFILIA SATANICA.

MODENA E LE SUGGESTIONI. IL CASO DELLA PEDOFILIA SATANICA.

 

SOMMARIO TERZA PARTE

 

GIUSTIZIA CAROGNA.

IL DIRITTO DI CRITICA GIUDIZIARIA.

ENZO MANNINA. IN CONFRONTO ALLA GIUSTIZIA ITALIANA KAFKA ERA UN DILETTANTE.

ONESTA’ E DISONESTA’.

CULTURA. EMIL ZOLA: L’AFFAIRE DREYFUS ED I GIORNALI CHE VIVONO DI SCANDALI.

IN NOME DELLO SCANDALO I GIORNALI SBEFFEGGIANO LA VERITA’.

MARCELLO DELL’UTRI. VITTIMA SACRIFICALE.

NICOLA MANCINO. VITTIMA SACRIFICALE.

CLEMENTE MASTELLA. VITTIMA SACRIFICALE.

CULTURA E CIVILTA’ GIURIDICA. CESARE BECCARIA. DEI DELITTI E DELLE PENE.

L’INCIVILTA’ GIURIDICA. IL RITO INQUISITORIO.

L’INCIVILTA’ GIURIDICA. LA CRUDELTA’.

DENUNCE A PERDERE.

L'IMPRESA IMPOSSIBILE DELLA RIPARAZIONE DEL NOCUMENTO GIUDIZIARIO.

LE COMPATIBILITA’ ELETTIVE. IO SON IO E TU NON SEI UN CAZZO.

COME SI DICE…“CANE NON MANGIA CANE!”

PARLIAMO DI INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA.

COLPA DEI PROCESSI INDIZIARI...

ASSOLTI. PERO’…

L'INGIUSTIZIA NON E' UNA UTOPIA: E' REALTA'.

MORIRE DI CARCERE.

LA STORIA DELL’AMNISTIA.

ESEMPI SCOLASTICI. SONO ASSOLUTAMENTE INNOCENTI. NICOLA SACCO E BARTOLOMEO VANZETTI.

PRESUNTO COLPEVOLE.

PRESUNTA COLPEVOLE. ANNA PAGLIALONGA.

PRESUNTO COLPEVOLE. OSCAR SANCHEZ.

PRESUNTO COLPEVOLE. FABRIZIO BOTTARO.

PRESUNTO COLPEVOLE. ANGELO CIRRI.

PRESUNTA COLPEVOLE. ANASTASIA MONTANARIELLO.

PRESUNTO COLPEVOLE. ANTONIO FRANCESCO DI NICOLA.

PRESUNTO COLPEVOLE. CARMINE FORCELLA.

PRESUNTO COLPEVOLE. DINO TRAPPETTI.

PRESUNTO COLPEVOLE. SANDRO VECCHIARELLI.

PRESUNTO COLPEVOLE. TITO RODRIGUEZ.

PRESUNTO COLPEVOLE. EMANUELE NASSISI.

PRESUNTO COLPEVOLE. FILIPPO DI BENEDETTO.

PRESUNTO COLPEVOLE. FRANCESCO SPANO'.

PRESUNTO COLPEVOLE. JOSE' VINCENT PIERA RIPOLL.

PRESUNTO COLPEVOLE. BRUNO DEL MORO.

PRESUNTO COLPEVOLE. EMMANUEL ZEBAZE SOKENG.

PRESUNTA COLPEVOLE. JOY IDUGBOE.

PRESUNTO COLPEVOLE. MASSIMO MALLEGNI.

PRESUNTO COLPEVOLE. PIO RAGNI.

PRESUNTO COLPEVOLE. MAURIZIO COMINO.

PRESUNTA COLPEVOLE. MONICA BUSETTO.

PRESUNTO COLPEVOLE. GIUSEPPE LA MASTRA.

PRESUNTO COLPEVOLE. GIOVANNI CAMASSA.

PRESUNTO COLPEVOLE. VITTORIO EMANUELE DI SAVOIA.

PRESUNTO COLPEVOLE. CLAUDIO BURLANDO.

PRESUNTO COLPEVOLE. GIGI SABANI.

PRESUNTA COLPEVOLE. LAURA ANTONELLI.

PRESUNTO COLPEVOLE. ROBERTO RUGGIERO.

PRESUNTO COLPEVOLE. CARLO PALERMO.

PRESUNTO COLPEVOLE. SANDRO FRISULLO.

PRESUNTO COLPEVOLE. CLELIO DARIDA.

PRESUNTO COLPEVOLE. FERDINANDO PINTO

PRESUNTO COLPEVOLE. MARIO SPEZI.

PRESUNTO COLPEVOLE. GIOVANNI TERZI.

PRESUNTO COLPEVOLE. ANTONIO GAVA.

PRESUNTA COLPEVOLE. DANIELA POGGIALI.

PRESUNTO COLPEVOLE. PIER PAOLO BREGA MASSONE.

PRESUNTI COLPEVOLI. GIOVANNI SCATTONE E SALVATORE FERRARO.

PRESUNTO COLPEVOLE. RAFFAELE SOLLECITO.

PRESUNTA COLPEVOLE. AMANDA KNOX.

PRESUNTO COLPEVOLE. LUCIANO CONTE.

PRESUNTO COLPEVOLE. MARIO CONTE.

PRESUNTO COLPEVOLE. BENIAMINO ZAPPIA.

PRESUNTO COLPEVOLE. MARCO SAVINI.

PRESUNTO COLPEVOLE. OSCAR MILANETTO.

PRESUNTO COLPEVOLE. DIALLO A..

PRESUNTO COLPEVOLE. MARCO SANTESE.

PRESUNTO COLPEVOLE. FRANCESCO FUSCO.

PRESUNTO COLPEVOLE. ANDREA MARCON.

PRESUNTA COLPEVOLE. CHIARA BARATTERI.

PRESUNTO COLPEVOLE. FRANCO MOCERI.

PRESUNTO COLPEVOLE. SALVATORE RAMELLA.

PRESUNTO COLPEVOLE. SALVATORE GRASSO.

PRESUNTI COLPEVOLI. VINCENZO E GIUSEPPE IAQUINTA.

PRESUNTA COLPEVOLE. BEATRICE CENCI.

PRESUNTO COLPEVOLE. ARMANDO CHIARO.

PRESUNTA COLPEVOLE. EMILIA SALOMONE.

PRESUNTO COLPEVOLE. ALFONSO SABELLA.

PRESUNTO COLPEVOLE. DOMENICO ZAMBETTI.

PRESUNTO COLPEVOLE. AMBROGIO CRESPI.

PRESUNTO COLPEVOLE. ILVO CALZIA.

PRESUNTO COLPEVOLE. OTTAVIANO DEL TURCO.

PRESUNTA COLPEVOLE. MARTA VINCENZI.

PRESUNTI COLPEVOLI. GIULIO E MARIA FRANCESCA OCCHIONERO.

PRESUNTO COLPEVOLE. FILIPPO MAGNINI.

PRESUNTO COLPEVOLE. ALEX SCHWAZER.

PRESUNTO COLPEVOLE. MARCO PANTANI.

PRESUNTE COLPEVOLI. SABRINA MISSERI E COSIMA SERRANO.

PRESUNTI COLPEVOLI. OLINDO ROMANO E ROSA BAZZI.

PRESUNTO COLPEVOLE. MASSIMO BOSSETTI.

PRESUNTO COLPEVOLE. CATENO DE LUCA.

SONO INNOCENTE.

SONO INNOCENTE. ELAINE ARAUCO DA SILVA.

SONO INNOCENTE. ENZO TORTORA.

SONO INNOCENTE. LORENA MORSELLI.

SONO INNOCENTE. DOMENICO MORRONE.

SONO INNOCENTE. STEFANO MESSORE.

SONO INNOCENTE. ALDO SCARDELLA.

SONO INNOCENTE. MARIA VITTORIA PICHI.

SONO INNOCENTE. PATRIK LUMUNBA.

SONO INNOCENTE. ALBERTO OGARISTI.

SONO INNOCENTE. SAVERIO DE SARIO.

SONO INNOCENTE. FILIPPO LA MANTIA.

SONO INNOCENTE. FULVIO PASSANANTI.

SONO INNOCENTE. VITO GAMBERALE.

SONO INNOCENTE. CARMINE BELLI.

SONO INNOCENTE. PIETRO MELIS.

SONO INNOCENTE. GIUSEPPE GULOTTA.

SONO INNOCENTE. MARIA ANDO’.

SONO INNOCENTE. DIEGO OLIVIERI.

SONO INNOCENTE. CORRADO DI GIOVANNI.

SONO INNOCENTE. LUCIA FIUMBERTI.

SONO INNOCENTE. FRANCESCO RAIOLA.

SONO INNOCENTE. GUIDO BERTOLASO.

SONO INNOCENTE. ANTONIO CARIDI.

SONO INNOCENTE. HASHI OMAR HASSAN.

SONO INNOCENTE. MARIA GRAZIA MODENA.

SONO INNOCENTE. GIUSEPPE MELZI.

SONO INNOCENTI. GIUSEPPE ORSI E BRUNO SPAGNOLINI.

SONO INNOCENTE. ANGELO MASSARO.

SONO INNOCENTE. ANNA MARIA MANNA.

SONO INNOCENTE. CLAUDIO RIBELLI.

SONO INNOCENTE. ANTONIO LATTANZI.

SONO INNOCENTE. JOAN HARDUGACI.

SONO INNOCENTE. VITTORIO LUIGI COLITTI.

SONO INNOCENTE. VITTORIO RAFFAELE GALLO.

SONO INNOCENTE. MICHELE TEDESCO.

SONO INNOCENTE. ROBERTO GIANNONI.

SONO INNOCENTE. SANDRA MALTINTI.

SONO INNOCENTE. GAETANO MURANA.

SONO INNOCENTE. GIUSEPPE SILLITTI.

SONO INNOCENTE. PIO DEL GAUDIO.

SONO INNOCENTE. ANTONIO COLAMONICO.

ALTRI CENTO, MILLE, MILIONI DI INNOCENTI.

 

  

 

 

TERZA PARTE

 

GIUSTIZIA CAROGNA.

Io che mi occupo della prassi, ben conoscendo anche la legge e la sua personalistica applicazione corporativa (dei magistrati) e lobbistica (degli avvocati), posso dire che ci sono verità indicibili. Mai si dirà in convegni giudiziari o forensi che da un lato ci sono le misure di prevenzione (inefficienti ed inique perché mai al passo con i tempi ragionevoli del processo e spesso incongruenti con le risultanze processuali di assoluzione, vedi i Cavallotti) e dall’altra le confische (conseguenti a processi dubbi, vedi Francesco Cavallari, mafioso per associazione, ma senza sodali) ed i procedimenti fallimentari con le aste truccate. L’arbitrio dei magistrati sia in fase di misure cautelari e di prevenzione, sia in fase di confisca o di gestione e vendita dei beni confiscati o sequestrati (anche in sede civilistica con i fallimenti), non sono altro che strumenti di espropriazione illegale di aziende, spesso sane, per mantenere in modo vampiresco un sistema di potere, di cui i magistrati sono solo strumento, ma non beneficiari come lo sono il monopolio associativo di una certa antimafia o il sistema di gestione che è prevalentemente forense. Questo sistema è coperto dalla disinformazione dei media genuflessi a chi, dando vita alle liturgie antimafia, usufruisce dei vantaggi politici per generare ulteriore potere di restaurazione. Se a qualcuno interessa ho scritto un libro, “la mafia dell’antimafia”, sui benefici che si producono per fare antimafia. In più ho scritto “Usuropoli e Fallimentopoli. Usura e fallimenti truccati”, che parla di usurpazione di beni privati a vantaggio di un sistema di potere insito nei palazzi di giustizia. Insomma: si toglie ai poveri per dare ai ricchi. E se qualcuno parla (come Pino Maniaci che “Muto deve stare”), scatta la ritorsione. Si badi bene: nessuno mi chiamerà per parlare di questo fenomeno, che è nazionale, in convegni organizzati nei fori giudiziari, né nessuna vittima pavida di questo fenomeno si prenderà la briga di divulgare queste verità, attraverso i miei saggi. Ecco perché si parlerà sempre di aria fritta e non ci sarà mai una rivoluzione che miri a ribaltare la prassi, più che a cambiare le norme.

Milano, scarcerato grazie a una lettera aperta dopo 13 anni. Era una condanna definitiva in un caso di violenza su minore. I giudici e le parole del compagno suicida, scrive Luigi Ferrarella l'1 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera". C’è un uomo che urla dalla tomba. E il suo grido postumo di innocenza, affidato prima di suicidarsi nel 2005 a una lettera in busta sigillata conservata a lungo in una stazione dei carabinieri e mai aperta per 13 anni, ora convince i giudici a precipitarsi a tirar fuori dal carcere un altro uomo, il suo compagno, benché questi stia scontando una condanna definitiva per concorso in violenze sessuali nel 2002 sulla nipotina di 4 anni. E così la Procura generale di Milano, competente sull’esecuzione della pena del detenuto nel carcere di Pavia, riceve dalla II Corte d’Appello di Brescia l’ordine di appunto sospendere immediatamente l’espiazione e liberare il condannato, da subito e fino a quando la Corte non avrà deciso nel merito l’istanza straordinaria presentata dal difensore Guglielmo Gulotta per un giudizio di revisione della condanna definitiva: il presidente Deantoni, la giudice relatrice Milesi e il consigliere Vacchiano, infatti, reputano «che il prudente apprezzamento» della lettera, e della proposta difensiva di nuovi test di neuroscienze oggi ancora controversi ma che 15 anni fa comunque non esistevano, «faccia apparire non infondato il rischio che il condannato protragga l’espiazione di una pena che potrebbe rivelarsi ingiusta». Andrà dunque ai (molto rari) tempi supplementari questo processo dagli esiti altalenanti, che aveva visto l’imputato assolto in primo grado con rito abbreviato a Busto Arsizio nel 2007 dall’ccusa di aver concorso (fotografandole) nelle violenze sessuali, asseritamente commesse nell’autunno 2002 dal suo compagno (poi suicida il 15 luglio 2005) sulla figlia di 4 anni della sorella. In Appello, però, nel 2009 i giudici ribaltarono l’assoluzione in condanna, a sua volta tuttavia annullata nel 2010 dalla Corte di Cassazione con rinvio a un nuovo giudizio di secondo grado. Ma nel 2014 questa Corte d’Appello bis ricondannò l’imputato, e al secondo passaggio in Cassazione nel 2016 anche gli ermellini confermarono la sentenza di colpevolezza, rendendo definitivi 4 anni di condanna (fine pena il Ferragosto 2020). Un’altalena di verdetti tutti ruotanti attorno alle differenti valutazioni dei consulenti tecnici sull’affidabilità scientifica o meno dei ricordi (sotto forma di «brutto sogno») della bimbetta, visto che per il resto la perquisizione a casa non aveva trovato alcun materiale pedopornografico, e negativo era stato anche l’esito della perizia sulla pellicola inserita nella macchina fotografica sequestrata. Ma il 6 settembre 2017 in una stazione dei carabinieri, quella dove nel 2005 erano finiti gli effetti personali del suicida, uno dei succedutisi avvocati recupera la busta chiusa che fino ad allora nessuno — né i familiari, né i legali, né gli inquirenti — aveva evidentemente voluto acquisire e aprire. Nella lettera datata 3 e 11 luglio 2005 lo zio materno della bimba, prima di uccidersi il 15 luglio, appare prostrato per «l’infamia» che da un lato scrive gli stia rovinando la vita, ma contro la quale dall’altro lato confessa di non avere più la forza di combattere: «Quello che posso dire è che non ho fatto niente di così schifoso. Sono innocente, che mi crediate o no». E prima di chiedere che «l’avvocato vada fino in fondo», l’uomo che sta per uccidersi chiede perdono al suo compagno (e coimputato) per un gesto «aberrante» che lo lascerà da solo: «Mi sento in colpa solo verso di lui, che ho tradito, solo per questo».

La malagiustizia esiste e bisogna fare i nomi, scrive Aldo Grasso il 30 marzo 2012 su "Il Corriere della Sera". La malagiustizia esiste, non c'è dubbio. Ci sono persone che, da un giorno all'altro, sono precipitate in un abisso di angoscia per qualche errore giudiziario e hanno faticato una vita per risalire; altri non ce l'hanno fatta. «Presunto colpevole», scritto da Sergio Bertolini, Paola Bulbarelli, Giuseppe Ciulla, Andrea Ruggieri, diretto da Daniele Vismara si propone di raccontare i drammi di persone che hanno ricevuto accuse infamanti loro malgrado (Raidue, mercoledì, ore 23.13). Non avevano colpa, ma qualcuno li ha incriminati. Ora si tenta di dare loro una sorta di risarcimento televisivo. Per esempio, nella terza puntata, si è parlato di un camionista, Antonio Francesco Di Nicola, coinvolto in un traffico di stupefacenti per una sbagliata interpretazione delle intercettazioni. Finito in galera per la superficialità delle indagini. O di Francesco Spanò accusato ingiustamente di associazione a delinquere di stampo mafioso e arrestato per uno scambio di persona. O di Marco Matteucci accusato dall'ex moglie d'aver abusato della sua bambina. Ha penato sette anni per essere assolto in appello. Le storie sono commentate in studio dall'attore Fabio Massimo Bonini che finge di parlare a un microfono radiofonico nello stile di Jack Folla, il prigioniero di «Alcatraz» inventato da Diego Cugia. E questa è la parte più debole del programma, quasi si volesse affidare a una Superiore Voce Etica l'anticipazione del giudizio universale. Ovviamente è giusto denunciare i casi di malagiustizia, ma forse era il caso di fare nomi e cognomi. Chi è il magistrato che ha fatto arrestare Antonio Francesco? Chi è il responsabile dell'ingiusta detenzione di Francesco? E chi ha assecondato le vendette dell'ex moglie? Nomi e cognomi, altrimenti si spara nel mucchio, si alimenta un generico malcontento contro una magistratura composta in prevalenza di «manettari» e «mozzaorecchi». Nomi e cognomi, please.

Quei 24 mila ingiustamente detenuti, scrive il 5 luglio 2016 "L'Inkiesta". Basta una intercettazione mal trascritta, uno scambio di persona, una superficialità investigativa o una disattenzione del magistrato. 24 mila i casi dal 1992, ma quando non si tratta di politici o vip il tema perde interesse. L’Italia è quel Paese in cui dal 1992 a oggi lo Stato ha pagato 630 milioni di risarcimenti per ingiusta detenzione per un totale di 24 mila casi. In maggioranza signori nessuno, eppure il più classico garantismo «a targhe alterne», a parte qualche lodevole eccezione, si solleva solo quando i nomi sono noti, per di più politici o capitani d’industria. Dedicato a quei nomi che subito si dimenticano è il progetto di due giornalisti e un avvocato che è stato prima un libro, poi un sito e infine è diventato un docufilm. I tre sono Benedetto Lattanzi, Valentino Maimone e l’avvocato Stefano Oliva che hanno lavorato a “Non voltarti indietro”, primo docufilm sugli errori giudiziari in Italia con la regia di Francesco Del Grosso. «La genesi del docufilm - spiega a Linkiesta Benedetto Lattanzi - ha origini lontane. All’inizio degli anni ’90 dopo i casi Tortora e soprattutto quello di Lanfranco Schillaci (accusato di violenza sessuale nei confronti della figlia, salvo poi scoprire che si trattava di un tumore) ci siamo avvicinato al fenomeno iniziando a raccogliere storie e materiale sugli errori giudiziari». Quel materiale diventa il libro “100 volte giustizia” e sono raccolte cento storie dal 1948 al 1996. Da lì Lattanzi e il collega Maimone continuano a raccogliere storie, perché gli errori continuano a esserci. Ce ne sono tanti che i due si trovano a decidere se fare una seconda edizione di “100 volte giustizia” oppure virare su un progetto più ampio. Le storie sono diventate 675, così i due giornalisti decidono di aprire il sito errorigiudiziari.com e inserire un database. A loro si affianca l’avvocato Stefano Oliva, che tra quei 675 ha avuto diversi clienti e soprattutto si dimostra sensibile al tema. In quella “enciclopedia” dell’errore giudiziario c’è di tutto. Dal noto caso di Giuseppe Gulotta, in carcere da innocente per 22 anni e risarcito con 6,5 milioni di euro, alla vicenda di Giancarlo Noto che per uno scambio di persona di un testimone oculare passa tre giorni dietro le sbarre, salvato poi da un test del DNA, passando per Patrick Lumumba coinvolto nel caso di Meredith Kercher. Nell’archivio fa capolino anche Giuseppe Santangelo condannato ingiustamente insieme a Gulotta per la strage di Alcamo nel 1977 in cui persero la vita due Carabinieri. Gaetano Santangelo, si legge sul sito, era stato individuato come uno degli autori del duplice omicidio, insieme con Giuseppe Gulotta e Vincenzo Ferrantelli. Nella sentenza di primo grado, Gulotta, Santangelo e Ferrantelli vennero ritenuti colpevoli: il primo fu condannato all’ergastolo, gli altri due a 20 anni di reclusione. Poco prima dell’esecuzione della pena Santangelo fuggì in Brasile con Ferrantelli, dove entrambi ottennero lo status di rifugiato politico. Da lì presentarono, attraverso i propri legali, un’istanza di revisione del processo che fu accolta: la condanna fu cancellata e la Corte d’Appello di Catania stabilì un risarcimento per errore giudiziario di 1 milione e 100 mila euro a ciascuno di loro. Ma non è finita, perché i legali dei due hanno presentato un’ulteriore richiesta di 12 milioni di euro per danno patrimoniale, biologico e morale. Una richiesta analoga a quella presentata da Gulotta. In Italia dal 1992 sono stati pagati 630 milioni di risarcimenti per ingiusta detenzione su un totale di 24 mila casi. Poi c’è Fabrizio Bottaro, designer di moda romani, 40 anni, che nel 2011 attraversa un calvario lungo 10 mesi. Accusato di rapina dopo il racconto di un testimone si scoprirà poi che Bottaro sul luogo semplicemente non poteva esserci: si trovava a Marbella in vacanza. Sarebbe bastato un controllo sulle liste dell’albergo oppure alle videocamere a circuito chiuso dello stesso. Un virus quello dell’errore che si insinua soprattutto in fase di indagine, magari con la trascrizione di una intercettazione telefonica sbagliata che poi origina una interpretazione da parte della magistratura inquirente che va verso una direzione che non è quella giusta. In questo giocano dunque un ruolo fondamentale non solo i magistrati, ma anche periti e Forze dell’Ordine. Insomma, c’è materiale sufficiente perché dal sito si passi al docufilm. A fare la proposta ai due giornalisti e all’avvocato Oliva è il regista Francesco del Grosso che ha curato la realizzazione del prodotto che ha iniziato il suo giro d’Italia, da Catania a Pesaro, passando per Ischia, mentre è atteso il 9 luglio all’Ortigia Film Festival e al Salento Finibus Terrae il 25 luglio. Gli errori continuano, e spesso i magistrati italiani vengono accusati di un eccessivo ricorso alla custodia cautelare, cioè dell’arresto e detenzione prima del termine del processo. Errori che mai nessuno vorrebbe attraversare, ma che in Europa non sono una eccezione, e anzi da notare come in alcuni Paesi non esistano risarcimenti per ingiusta detenzione. «La Gran Bretagna - ha detto di recente a La Stampa Mauro Palma, garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà e già presidente del Comitato Europeo per la Prevenzione delle Torture - non prevede alcun indennizzo per ingiusta detenzione, la Bulgaria paga con grandi ritardi, mentre l’Olanda, per esempio, ha un meccanismo molto simile al nostro» e i numeri, conferma Palma, non sono granché differenti: «Penso che gli errori italiani rientrino nella fisiologia del sistema e non nella sua patologia. Mi pare anche che la riforma della responsabilità civile sia un buon compromesso, perché un giudice non può vivere sotto la spada di Damocle della causa, soprattutto in un Paese dove ci sono la mafia, la ‘ndrangheta e la camorra, che in genere hanno avvocati molto in gamba e molto ben pagati. Certo, bisognerebbe cercare di arrestare il meno possibile e anche lavorare di più sugli automatismi che portano all’applicazione della custodia cautelare».

IL DIRITTO DI CRITICA GIUDIZIARIA.

L’assoluzione di Giuliano Ferrara, denunciato da Nino Di Matteo. Giusto criticare i magistrati. Parola di giudice, scrive Errico Novi il 13 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  Non esiste un’immunità rispetto alle critiche, per i magistrati. È questa la motivazione con cui il giudice di Milano Maria Teresa Guadagnino ha assolto Giuliano Ferrara dall’accusa di aver diffamato il pm Nino Di Matteo. Sembra niente. Sembra una normale sentenza. E in effetti all’atto di pronunciarla, lo scorso 12 dicembre, il giudice monocratico del Tribunale di Milano Maria Teresa Guadagnino non aveva fatto scalpore. Ma a leggere le motivazioni cambia tutto. La sentenza introduce, o meglio ripristina, un principio tacitamente soppresso negli ultimi anni: il «diritto di critica giudiziaria», come lo definisce la magistrata. Si tratta del processo per “diffamazione aggravata” innescato da una denuncia del pm di Palermo Nino Di Matteo nei confronti del fondatore del Foglio Giuliano Ferrara. Il quale, in un editoriale pubblicato il 22 gennaio 2014, aveva espresso valutazioni molto severe nei confronti del sostituto di Palermo. Nel suo mirino, è ovvio, la madre di tutti i processi infiniti, ovvero l’inchiesta sulla cosiddetta trattativa Stato- mafia. Secondo Ferrara «traballante» e poco seria. Critiche certo inasprite da altri aspetti segnalati nell’articolo, come la «spaventosa messa in scena» dei colloqui tra Totò Riina e il suo compagno d’ora d’aria nel carcere di Opera, Alberto Lorusso. Di Matteo ritenne che l’invettiva scagliata da Ferrara sull’indagine fosse intollerabile. A maggior ragione in quanto connessa alle “clamorose rivelazioni” del capo dei capi, secondo il giornalista architettate da «qualche settore d’apparato dello Stato italiano» per «mostrificare il presidente della Repubblica, calunniare Berlusconi e monumentalizzare Di Matteo e il suo traballante processo». Ma per la giudice il fatto addebitato al fondatore del Foglio «non costituisce reato» perché, come si legge nelle motivazioni, «è assolutamente lecito che un giornalista esprima la propria opinione in merito a un processo così rilevante, anche sotto il profilo politico, criticando metodi utilizzati e/ o risultati ottenuti dai magistrati». In tal senso, secondo la magistrata milanese, «non appare censurabile il riferimento, nell’ultima parte dell’articolo, al “rito palermitano” e alla ritenuta mancanza di serietà delle inchieste giudiziarie». È il concetto di magistrato criticabile al pari del politico, che fa breccia. Anche perché negli ultimi mesi, di attacchi anche violenti, nei confronti di altri giudici, si erano pure visti: ma solo nei casi in cui avevano adottato provvedimenti garantisti. Un esempio su tutti: il gip di Reggio Emilia Giovanni Ghini, contro il quale erano state organizzate persino manifestazioni di piazza, per un’ordinanza meno restrittiva rispetto alla custodia in carcere invocata dalla Procura. Adesso, grazie alla dottoressa Guadagnino, scopriamo che si possono criticare pure i magistrati che teorizzano ignobili accordi e vergognose compromissioni. L’editoriale al centro del processo era intitolato “Riina, lo Stato come agente provocatore. Subito un’inchiesta”. Ebbene, secondo la giudice, «è evidente che la libertà, riconosciuta dall’articolo 21 della Costituzione e dall’articolo 10 della Cedu, di manifestazione del pensiero e di formulazione di critica nei confronti di chi esercita funzioni pubbliche comprenda il diritto di critica giudiziaria ossia l’espressione di dissenso, anche aspro e veemente, nei confronti dell’operato dei magistrati i quali, in quanto tali, non godono di alcuna immunità, nonché degli atti da costoro compiuti». Diritto di critica. Giudiziaria. Una categoria declassata al rango di sacrilegio. E invece, si legge nelle motivazioni depositate dalla giudice della IV sezione penale di Milano, «il giornalismo scomodo e polemico di Ferrara, certamente non privo di espressioni allusive e iperboliche e di espedienti retorici, non persegue l’obiettivo di ledere l’onore e la reputazione della persona offesa ma solo quello di disapprovare alcuni fatti e comportamenti connessi al processo che ancora si sta svolgendo davanti alla Corte d’assise di Palermo». Legittimo. Sembra niente. E invece è una mezza rivoluzione.

IN CONFRONTO ALLA GIUSTIZIA ITALIANA KAFKA ERA UN DILETTANTE.

Situazione kafkiana. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., perché senza che avesse fatto niente di male, una mattina fu arrestato.» (Franz Kafka, Il processo, incipit). Il termine "kafkiano" è un neologismo della lingua italiana che indica una situazione paradossale, e in genere angosciante, che viene accettata come status quo, implicando l'impossibilità di qualunque reazione tanto sul piano pratico quanto su quello psicologico. Il termine deriva da Franz Kafka, la cui opera è ricca di situazioni di questo tipo; si pensi per esempio a Il processo, Il castello, o America. Un termine equivalente potrebbe essere perturbante nell'accezione freudiana: qualcosa che è estraneo e familiare ad un tempo, e risuona inquietante proprio per questa sua ineliminabile e spiazzante ambiguità. Uno degli esempi più paradigmatici di situazione "kafkiana" è forse proprio quella del Processo di Kafka, in cui l'impotenza (l'impossibilità della reazione) viene messa in relazione, tra l'altro, col tema della burocrazia giudiziaria. In quest'opera, il protagonista "Josef K." riceve inaspettatamente la notizia di essere in arresto. Un giorno, trovandosi negli uffici della banca dove lavora, apre una porta di un ripostiglio e vi trova i custodi che si erano presentati in casa sua, puniti da un aguzzino, perché Josef K. si era lamentato del loro comportamento. L'effetto kafkiano del lettore si scatena però non in questa sorpresa irreale, ma nel constatare il comportamento del protagonista: egli non reagisce al fatto di trovare dei poliziotti là dove mai avrebbe pensato ma si preoccupa che i poliziotti non facciano troppo rumore quando sono frustati. La paura di Josef K. è che i colleghi o i suoi sottoposti si presentino a vedere cosa succede e scoprano così che egli è sotto processo. La vergogna per l'indagine, a cui non ci si può opporre (Josef K. non sa neppure di preciso quale sia l'imputazione) viene così amplificata dal predominare paradossale del senso del pudore del protagonista. La scena mette bene in risalto il funzionamento dell'assurdo kafkiano. Cioè creare un contrasto che sembra irragionevole ma che in realtà rivela un aspetto profondo, sconvolgendo e spiazzando il lettore.

Situazioni kafkiane nella letteratura e nel cinema. Nel film Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), di Elio Petri, il finale è riservato ad una citazione dell'opera kafkiana: "Qualunque impressione faccia su di noi, egli è servo della Legge e come tale sfugge al giudizio umano".

Enzo Mannina. Kafka era un dilettante! Scrive Piero Sansonetti il 27 Settembre 2017 su "Il Dubbio".  Storie come queste, purtroppo, non sono infrequenti. Però se ne parla poco, perché l’idea è che se uno finisce sotto processo, almeno un po’, è colpevole. E quindi è bene che paghi. La riassumo in pochissime righe: c’è un tale – un imprenditore – che viene arrestato e sbattuto in prigione. Siccome ha una azienda e dei beni, gli sequestrano l’azienda e gli confiscano i beni. Trapani insegna: Kafka era solo un dilettante… Resta in prigione per anni. Affronta svariati processi. Poi lo assolvono. Gli dicono: «Oh, scusi, ci siamo sbagliati». Lui dice: allora posso avere indietro i beni che mi avete confiscato? «Eh, no – gli rispondono – purtroppo quelli ormai sono dell’erario». Ah. E mentre ancora è stordito per questa risposta, gli arriva un conto da 3 milioni che gli viene spedito da “Riscossione Sicilia” per via di alcuni debiti con l’erario che l’azienda – che ora è tornata sua – ha accumulato durante il periodo di amministrazione giudiziaria. Deve restituirli, e in fretta. Voi dite: vabbé non è possibile, manco Kafka si sarebbe immaginato una cosa del genere. Invece è proprio così Nomi e cognomi. Lui si chiama Enzo Mannina, è di Trapani, oggi ha 56 anni. La sua azienda si chiama “Mannina Vito Srl”, l’ha fondata suo padre una cinquantina d’anni fa. Ha 35 dipendenti. Che ora rischiano di restare per strada. L’ingiunzione della “Riscossione Sicilia” lascia pochi margini: pagare subito, entro 30 giorni. I 30 giorni scadono l’otto ottobre. Enzo Mannina i tre milioni non li ha, perché negli ultimi anni ha vissuto molto tempo in cella e ha guadagnato poco. E i soldi che aveva guadagnato prima, come dicevamo, glieli hanno confiscati e non glieli ridanno più. E allora che si fa? Figuratevi un po’, il poveretto – invece che dare di matto, come credo avrebbe fatto chiunque di noi – ha preso carta e penna per chiedere una rateizzazione. Perché avrebbe intenzione di riprendere in mano l’azienda, farla fruttare, e piano piano pagare i debiti e i danni apocalittici combinati dallo Stato e dalla giustizia, i quali Stato e giustizia non intendono in nessun modo assumersi le loro responsabilità. Dicono: in fondo alla fine lo abbiamo assolto, dunque ha avuto giustizia. Che vuole di più? Mannina era stato arrestato nel 2007 nell’ambito di una operazione che si chiamava “Mafia e Appalti”. Lo accusavano di far parte di Cosa Nostra e precisamente di essere il vice del capomandamento di Trapani, Francesco Pace. A quel punto erano scattati anche i sequestri preventivi, diventati poi confische, e la sua azienda era finita in amministrazione giudiziaria. Ed erano anche partite tutte le interdittive che avevano bloccato i lavori che gli erano stati commissionati da enti pubblici. Da quel momento è iniziata una serie infinita di processi, conclusi con alcune condanne e molte assoluzioni, e accompagnati da una lunga prigionia: quasi cinque anni. Poi, nel dicembre scorso, dopo un paio di rimpalli tra Appello e Cassazione, la Corte d’Appello di Palermo lo ha assolto definitivamente perché il fatto non sussiste. Finita l’odissea penale e carceraria è iniziata quella economica. Mannina, a 56 anni, si è trovato a dover ripartire da zero. L’avvocato del signor Mannina (Michele Guitta) ha spiegato il motivo per il quale non può riavere indietro i soldi che gli erano stati ingiustamente confiscati. Ha detto che questa situazione è il frutto della normativa vigente che prevede in caso di confisca definitiva dei beni (che nel caso di Mannina era scattata dopo la prima condanna) “l’estinzione per confusione dei crediti erariali”. Avete capito qualcosa? No, neanch’io. Però mi sono informato. Vuol dire che una volta che ti hanno confiscato i beni, e quei beni sono finito all’erario, è successo che si sono “confusi” con gli altri beni dell’erario e non è più possibile “separarli” e dunque renderteli. Restano dell’erario. Ci dispiace: stavolta è andata male…È chiaro che in questa storia di mischiano un numero incredibile di errori e di incongruenze della giustizia. Ho l’impressione però che siano tutti dovuti alla stessa idea: l’idea che la lotta alla mafia giustifica qualunque sopruso, perché comunque si tratta di soprusi a fin di bene. E questo sia al momento di immaginare e redigere le leggi, e le norme, e il meccanismo delle interdittive, sia nello svolgere le indagini e nel considerare un sospetto qualcosa di molto molto simile a una prova. E’ la cosiddetta pesca a strascico: la preoccupazione è quello di colpire, comunque e con durezza. Arrestare, confiscare, bloccare i lavori. Naturalmente è una preoccupazione ragionevole, nel senso che sarebbe una follia sottovalutare l’importanza della lotta alla mafia. Solo che è impossibile combattere la mafia facendo strame del diritto. E purtroppo è molto difficile far passare questa idea. La conseguenza di questa pesca a strascico è il caso Mannina. Il quale, vedrete, non appassionerà molto i giornali, i quali, di solito, a tutto sono interessati fuorché al diritto.

Frankestein ci insegna che i mostri siamo noi. Compie 200 anni il primo libro di fantascienza della storia. Fu scritto da una ragazza prodigiosa di soli 19 anni: Mary Shelley, scrive Daniele Zaccaria il 22 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Un’estate fredda e piovosa, quella del 1816, un gruppo di amici in vacanza sul lago di Ginevra. La sera bevono vino rosso, flirtano, scherzano e discutono; di poesia, di scienza, di letteratura, del futuro, il loro gioco preferito è un concorso letterario in cui ti devi inventare storie di fantasmi, racconti estemporanei costruiti sulla falsariga del romanzo gotico, genere snobbato dalla critica letteraria dell’epoca. Ci vuole immaginazione e rapidità di pensiero, la più brava di tutti è Mary, che è anche la più giovane, 19 anni e un talento mostruoso. È figlia della filosofa femminista Mary Wollstonecraft e del romanziere e giornalista William Godwin, il gusto letterario, l’amore per le scienze, un clima di sferzante anticonformismo accompagnano tutta la sua infanzia. Con lei a Ginevra ci sono i poeti George Byron e Percy Shelley che presto diventerà suo marito, il medico e aspirante scrittore John Polidori che nel 1819 pubblicherà Il Vampiro, primo romanzo della letteratura moderna dedicato al celebre succhiasangue. Ogni tanto viene a trovarli il fisico e chimico Humphry Davy, pioniere nello studio dei fenomeni elettrici, scopritore e mentore del grande Michael Faraday, a sua volta pioniere dell’elettromagnetismo. È in quelle eccentriche notti a Villa Diodati tra fumi dell’alcol e i lampi di genio che Mary Shelley concepisce il suo Frankestein, che non è solo un libro fantasy ma il primo grande romanzo di fantascienza. Il mostro, anzi la Creatura non è il frutto di un sortilegio, non è il prodotto di oscure forze del male o di astruse stregonerie, al contrario è figlio della ricerca scientifica, nasce in laboratorio, il suo fattore è un essere umano, la scintilla della vita è un “fluido galvanico” che rianima le fibre morte di carni ricucite, come il medico italiano Galvani faceva contrarre i muscoli dei cadaveri di rana, Viktor Frankestein, professore di filosofia naturale, crea un essere umano dotato di coscienza, capace di provare sentimenti estremi come la paura e l’odio e di consumare una tremenda vendetta nei confronti del “padre”. Nella sua prefazione Mary Shelley rende omaggio alle esperienze di Galvani, ai lavori di Benjamin Franklin, alle ricerche poco note di un anatomista chiamato George von Frakenau che sosteneva la tesi della rigenerazione spontanea della materia inerte. Aderisce al meccanicismo filosofico che utilizza la metafora della macchina come schema di spiegazione dei fenomeni naturali. Studi di sapienti e accademici che legge con passione, per accrescere la sua cultura personale ma soprattutto per trarre ispirazione letteraria. Viktor Frankestein non è ancora un uomo di scienza a tutto tondo, vive in bilico tra esoterismo e ragione, cerca suggestioni anche nel mondo della magia e dell’alchimia, ha letto i libri di Cornelius Agrippa, un occultista del Rinascimento, si entusiasma per gli scritti di Paracelso e rimprovera ai suoi colleghi di condurre studi banali e privi di coraggio. Ma è anche il miglior studente di anatomia e fisiologia alla prestigiosa Università di Ingolstadt e il più innovativo ricercatore dell’epoca; ammira la magìa per la sua sfrontatezza, per le biografie “storte” dei suoi fautori, ma realizzerà il sogno di penetrare il segreto della vita seguendo il metodo scientifico. Il flusso elettrico che attraversa e anima le carni morte ha la stessa intensità dei Lumi della ragione che brillavano in Europa. Il tragico corso di eventi che nasce dal rifiuto della Creatura le cui sembianze abnormi provocano estremo ribrezzo in Viktor, non è un monito moralista rivolto alla superbia degli scienziati che osano “sostituirsi a Dio” come hanno scritto in molti. La malvagità della Creatura è la reazione a una società che non ha la forza e la maturità di accettare il diverso, il difforme, e che lo emargina rendendolo un mostro incattivito. La vendetta feroce della Creatura che uccide il fratello e la moglie del suo creatore è in fondo una reazione umanissima di un uomo odiato da tutti a causa del suo aspetto esteriore. In questo Viktor Frankestein ha avuto un successo perfetto, ha creato un essere umano con tutte le sue debolezze e imperfezioni, con il suo bisogno di amore e la sua sete di rivalsa. Eppure nel corso dei secoli l’immagine della Creatura, confusa con il nome del suo creatore, ha subito una progressiva “mostrificazione” rappresentata poi nel cinema dal colosso con la testa quadrata cosparso di cicatrici, tutto grugniti e movenze robotiche, un figuro bestiale e repellente privo di intelligenza e senso morale. Andando nei dettagli Mary Shelley non descrive la sagoma espressionista di Boris Karlov che tanta fortuna ha avuto nell’immaginario collettivo, ma un uomo affetto da gigantismo e dall’aspetto molto sgradevole, nulla di più. Una creatura intelligente, che impara a leggere e a scrivere, che capisce i sentimenti degli umani e si allontana da loro per sopravvivere fino al tragico suicidio quando si dà fuoco tra i ghiacci dell’Artico. Ma noi continuiamo a immaginarlo e a rappresentarlo come “Frankestein il mostro”, una specie di zombie formato gigante. Perche questo slittamento? I mostri in fondo ci rassicurano perché sono corpi estranei. Eccezioni alla regola, anomalie selvagge che non appartengono all’umano. Presenze minacciose, certo, ma soprattutto entità aliene e reiette dalla comunità. Le sembianze ibride e deformi fungono da segni visibili delle sventure di cui il mostro è portatore, mentre le sue mille metamorfosi seguono il corso dell’immaginario popolare in modo che ogni epoca sia in grado di partorire e di specchiarsi nei suoi peculiari mostri.

Le società hanno un bisogno disperato di fabbricarli proprio perché, strappano l’orrore dalla sua dimensione anodina e quotidiana per assegnarlo al cliché dello straordinario, le loro incursioni nel mondo reale sono tanto spaventose quanto effimere. Nominato, isolato, eliminato il mostro, tutto sembra tornare nella norma. Nell’antichità il terrore e il ribrezzo suscitati dai mostri sono spesso associati allo stupore, alla contemplazione dei portenti e delle mirabilia di cui queste creature sono capaci, dei fantasmagorici poteri che sovvertono le leggi della fisica e della natura come l’invisibilità, l’invulnerabilità o addirittura l’immortalità. Se non proprio epifanie diaboliche i mostri sono la faccia oscura del divino, una punizione inviata dal cielo per castigare le nefandezze commesse dagli uomini come scriveva lo storico romano del IV secolo Giulio Ossequiente nel celebre Libro dei prodigi, il più accurato elenco di testimonianze di fatti insoliti, miracolosi e terrificanti avvenuti nel mondo classico. I protagonisti di cataloghi infernali, di racconti immaginifici popolati da chimere, basilischi, fenici, arpie, centauri, cerberi, ciclopi e centinaia di altri esseri dalle indecifrabili fattezze, accompagnano la nostra tradizione religiosa e letteraria, dalla notte dei tempi. Danno forma e corpo a inquietudini ancestrali e a timori atavici, ma sono anche squarci meravigliosi dell’immaginazione umana, straordinarie metafore della nostra capacità di creazione. Nel suo Manuale di zoologia fantastica Borges ci offre una incredibile parata di creature soprannaturali, come il Burak, cavalcatura celeste di Maometto capace di viaggiare nel tempo, o l’Anfesibena, serpente immaginario che sgretola la linearità dello spazio perché «si muove in due direzioni allo stesso tempo, possedendo due estremità anteriori». Frankestein appartiene anch’egli al catalogo multiforme delle creature fantastiche, ma non è un mostro, non è un’allegoria, la sua esistenza appartiene al campo del possibile, almeno per quel che immaginavano gli scienziati del 19esimo secolo. Il vero mostro moderno non fa più parte dell’antico bestiario. Se il freak, lo storpio, il menomato (dalla donna- scimmia, all’uomo elefante), nella loro innocua diversità provocano un disgusto misto a sincera compassione, colui che si macchia di atti e comportamenti mostruosi (ovvero antisociali) non merita alcuna comprensione o pietà. La sua nemesi si svolge all’ombra di patiboli, torce e forconi e linciaggi: che si tratti un ammasso di cadaveri ricuciti o di un realissimo serial killer di una grande metropoli, il mostro viene sempre catturato e giustiziato. Ecco un’altra trama consolatoria che abbiamo costruito attorno all’errare dei mostri: farli diventare il capro espiatorio del nostro malessere. Ma questi individui- mostro costituiscono ancora una volta un’eccezione alla regola, le loro azioni efferate non rispecchiano la morale pubblica ma la infrangono, non esprimono un sentimento collettivo, ma rimangono a loro modo “straordinarie”. Nei suo film a episodi I Mostri (1963) il regista Dino Risi compie invece l’operazione opposta: il mostruoso viene infatti ricollocato nel cerchio della normalità, il campionario di bassezze sfoggiato dai protagonisti, il familismo amorale, la loro incapacità patologica nel diventare cittadini, membri consapevoli di una comunità, è lo specchio rovesciato del boom economico e dei suoi sentimenti puliti. Dietro l’ottimismo di una società che corre spensierata verso un avvenire virtuoso si muove un popolo cialtrone, dall’indole meschina, ipocrita e, all’occasione, anche spietata. Sono i nostri genitori, i nostri cugini, i nostri amici più stretti, i nostri vicini di casa: non più fenomeni da baraccone e terrificanti anomalie, ma viziosi quanto banali compagni di vita. Così la commedia di costume umanizza il mostro e mostrifica la società in cui esso vive. E nessuno può più dichiararsi innocente e irresponsabile rispetto alle piccole, grandi nefandezze che commettiamo ogni giorno. Proprio come ci insegna il Frankestein di Mary Shelley, perché i veri mostri siamo noi.

ONESTA’ E DISONESTA’.

1. Era una donna virtuosa, ma il caso volle che sposasse un cornuto. (Sacha Guitry)

2. L'amore ha diritto di essere disonesto e bugiardo. Se è' sincero. (Marcello Marchesi)

3. Proposta: "Facciamo il governo degli onesti!". "Già, e il pluralismo?". (Manetta)

4. Il socialista più elegante?  Martelli. Il più grasso? Craxi. Il più onesto? Manca!

5. Due manager discutono di come scegliere la segretaria e uno dei due dice di avere un metodo speciale tutto suo: "Io la ricevo in ufficio e le faccio trovare per terra un biglietto da 100.000 lire; poi con una scusa mi allontano e osservo quello che succede. La loro reazione è molto istruttiva". Dopo qualche tempo si reincontrano e il primo chiede: "Allora, amico mio, come è andata la scelta della segretaria?". "Ho fatto come mi hai detto: la prima ha raccolto il biglietto e l'ha messo velocemente nella sua borsetta. La seconda l'ha raccolto e me lo ha consegnato. La terza ha fatto come se niente fosse".  "E quale hai scelto?". "Quella con le tette più grosse!".

6. La disumanità del computer sta nel fatto che, una volta programmato e messo in funzione, si comporta in maniera perfettamente onesta (Isaac Asimov).

7. Convinto dalla tangente, il cerchio accettò di trasformarsi in quadrato. L'angolo invece rifiutò: era sempre stato retto e tale voleva restare.

8. Come ci sono oratori balbuzienti, umoristi tristi, parrucchieri calvi, potrebbero esistere benissimo anche politici onesti. (Dario Fo)

9. A volte è difficile fare la scelta giusta perché o sei roso dai morsi della coscienza o da quelli della fame. (Totò in "La banda degli onesti")

10. C'è un modo per scoprire se un uomo è onesto: chiedeteglielo. Se risponde di sì, è marcio. (Groucho Marx)

11. Se la canaglia impera, la patria degli onesti è la galera (proverbio italiano)

12. L'onestà paga. La disonestà è pagata. (Silvia Ziche)

13. Definizione di corrotto: vezzeggiativo politico. (S. M. Tafani)

14. Il segreto della vita è l'onestà e il comportarsi giustamente. Se potete simulare ciò lo avete raggiunto. (Groucho Marx)

15. Niente assomiglia tanto a una donna onesta quanto una donna disonesta di cui ignori le colpe.

16. Se l'esperienza insegna qualcosa, ci insegna questo: che un buon politico, in democrazia, è tanto impensabile quanto un ladro onesto. (H.L Mencken)

17. Nel dolore un orbo è avvantaggiato, piange con un occhio solo. (Antonio (Totò) in "La banda degli onesti")

18. L'onestà è la chiave di una relazione sentimentale. Se riuscite a far credere di essere onesti, siete a cavallo. (Richard Jeni)

19. L'onestà è lodata da tutti, ma muore di freddo. (Giovenale)

20. "Jim, dove posso trovare dieci uomini onesti?". "Cosa? Diogene si sarebbe contentato di trovarne uno". (Robert A. Heinlein, Cittadino della galassia)

21. A molti non mancano che i denari per essere onesti. (Carlo Dossi)

22. Le donne oneste non riescono a consolarsi degli errori che non hanno commesso. (SachaGuitry)

23. Un politico onesto è quello che una volta "comprato" resta comprato. (Legge di Simon Cameron)

24. Le persone oneste e intelligenti difficilmente fanno una rivoluzione, perché sono sempre in minoranza. (Aristotele)

25. "Signora - dice la nuova cameriera - in camera sua, sotto il letto, ho trovato questo anello!". "Grazie Rosi. L'avevo messo apposta per controllare la sua onestà". "E' proprio quello che ho pensato anch'io, signora!".

26. Ero veramente un uomo troppo onesto per vivere ed essere un politico. (Socrate)

27. Un governo d'onesti è come un bordello di vergini. (Roberto Gervaso)

28. Si dice: "La disonestà dei politici non paga mai!". E' vero. Generalmente riscuote.

29. Sei onesta come le mosche d'estate, al mattatoio, che rinascono dalla loro stessa merda. (dall'Otello) (William Shakespeare)

30. A volte mi viene il sospetto che avere la fama di essere scrupolosamente onesto equivalga a un marchio di idiozia. (Isaac Asimov)

31. In tutta onestà, non credo nell'onestà.

32. Un uomo onesto può essere innamorato come un pazzo, ma non come uno sciocco. (François de La Rochefoucauld) 33. Ammetto di essere onesto. Ma se si sparge la voce, sono rovinato: nessuno si fiderà più di me. (Pino Caruso)

34. Donne oneste ce ne sono più di quelle che non si crede, ma meno di quelle che si dice. (Alessandro Dumas figlio) (in "L'amico delle donne")

35. La principale difficoltà con le donne oneste non è sedurle, è portarle in un luogo chiuso. La loro virtù è fatta di porte semiaperte. (Jean Giraudoux)

36. Una volta l'onestà, in un individuo, era il minimo che gli si richiedesse. Oggi è un optional. (Maurizio Costanzo)

37. Le anime belle, le figurine del presepe, le persone oneste... Ne ho conosciute tante, erano tutte come te. Facevano le tue domande, e con voi il mondo diventa più fantasioso, più colorato... Ma non cambia mai !! (Il ministro Nanni Moretti a Silvio Orlando in "Il portaborse")

38. Non è grave il clamore chiassoso dei violenti, bensì il silenzio spaventoso delle persone oneste. (Martin Luther King)

39.  Era così onesto che quando trovò un lavoro, lo restituì.

40. Mi piace un soprabito scoperto dagli americani, il koccomero, quello che si aggancia con i calamari. (Totò in "La banda degli onesti")

41. Il tipografo Lo Turco ammira tutto l'armamentario per fabbricare banconote false: "Ma questa è filagrana!".  Toto': "Sfido io! Viene dal policlinico dello Stato!". (In "La banda degli onesti")

42. L'onestà nella compilazione della dichiarazione dei redditi viene considerata in Italia una forma blanda di demenza. (Dino Barluzzi)

43. Non abbiamo bisogno di chissà quali grandi cose o chissà quali grandi uomini. Abbiamo solo bisogno di più gente onesta. (Benedetto Croce)

44. Ci sono fortune che gridano "imbecille" all'uomo onesto. (Edmond e Jules de Goncourt)

45. L'onestà dovrebbe essere la via migliore, ma è importante ricordare che, a rigor di logica, per eliminazione la disonestà è la seconda scelta. (George Carlin)

46. In Italia si ruba con onestà, rispettando le percentuali. (Antonio Amurri)

47. I nordici prendono il caffè lungo, noi sudici lo prendiamo corto. (Totò in "La banda degli onesti")

48. Ben poche sono le donne oneste che non siano stanche di questo ruolo. (FriedrichNietzsche)

49. L'onestà è un lusso che i ricchi non possono permettersi. (Pierre de Coubertin)

50. Neanche la disonestà può offuscare la brillantezza dell’oro.

51. Ti ho insegnato ad essere onesto, perché intelligente non sei. (Bertold Brecht)

52. L'onestà paga, ma pare non abbastanza per certe persone. (F. M. Hubbard)

53. Nessuna persona onesta si è mai arricchita in breve tempo. (Menandro)

54. Nessuno può guadagnare un milione di dollari onestamente. (No one can earn a million dollars honestly). (William Jennings Bryan)

55. Sicuramente ci sono persone disoneste nei governi locali. Ma è anche vero che ci sono persone disoneste anche nel governo nazionale. (Richard Nixon)

56. Le persone oneste si riconoscono dal fatto che compiono le cattive azioni con più goffaggine. (Charles Péguy)

57. L'onestà, come tante altre virtù, dipende dalle circostanze. (Roberto Gervaso)

58. Nessun uomo può guadagnare un milione di dollari onestamente, così come è disonesto ed invidioso chi dichiara il contrario. (Antonio Giangrande)

59. Colmo per un uomo retto: innamorarsi di una donna tutta curve.

60. Una politica onesta proietta una nazione sana nel futuro. Per questo si chiama Fantascienza. (Mauroemme)

61. Per il mercante anche l'onestà è una speculazione. (Charles Baudelaire)

62. In politica l'onestà è forse la cosa più importante. Chi ce l'ha deve partire con un grosso handicap! (Bilbo Baggins)

63. Dimettersi per una multa è soprattutto un ennesimo esempio della severità del rapporto tra etica e politica in Gran Bretagna. Tranquilli, ci pensiamo noi qua a ristabilire l'equilibrio europeo. (Annalisa Vecchiarelli)

64. La massima ambizione dell'uomo? Diventare ricco. Come? In modo disonesto, se è possibile; se non è possibile, in modo onesto. (Mark Twain)

65. Era un uomo così onesto e probo, da non essere neanche capace d'ingannare il tempo... (Fabio Carapezza)

66. Se l'esperienza ci insegna qualcosa, ci insegna questo: che un buon politico, in democrazia, è tanto impensabile quanto un ladro onesto.

67. La disperazione più grave che possa colpire una società e' il dubbio che vivere onestamente sia inutile. (Corrado Alvaro)

68. In un'epistola Orazio fustiga un doppiogiochista della morale che, ammirato da tutto il popolo, offre un bue e un porco agli dei, pregando Giove e Apollo ad alta voce. Ma subito dopo si rivolge a LAVERNA, dea protettrice dei ladri e a fior di labbra, in modo che nessun lo intenda, prega: "Laverna bella, fammi la grazia ch'io possa imbrogliar il prossimo, concedi ch'io passi per un galantuomo, un santo, e sopra i miei peccati distendi la notte, sopra gli imbrogli una nube". (Orazio)

69. Ingiuriare i mascalzoni con la Satira è cosa nobile, a ben vedere significa onorare gli onesti. (Aristofane)

70. L'onestà andrà di moda. (Beppe Grillo)

71. L'onestà è sempre la migliore scelta... ma spesso bisogna seguire la seconda scelta.

72. Odiare i mascalzoni è cosa nobile. (Quintiliano)

73. Uomini onesti si lasciano corrompere in un solo caso: ogniqualvolta si presenti l'occasione. (Gian Carlo Moglia)

74. Maresciallo: "...hanno arrestato anche il tipografo". Totò: "Lo Turco!!". Maresciallo: "No, lo svizzero". Totò: "Allora mi ha dato un nome falso!!" (Totò in "La banda degli onesti")

75. Portieri si nasce, non si diventa. (Totò in "La banda degli onesti")

76. Perchè anch'io, modestamente, nella media borghesia italiana occupo una società... condomini che vanno e che vengono, che quando è natale, pasqua mi danno la mancia, per il mio nome mi regalano lumini..." (Totò ne "La banda degli onesti")

77. Ho mandato mia moglie e i miei figli a un funerale, così si divagano un po'. (Totò' ne "La banda degli onesti")

78. Tanto Gentile il segretario pare se si dimette

e la poltrona sua saluta

e ogni lingua de li colleghi trema muta

che altrimenti vorrebber commentare.

Egli si va, sentendosi laudare,

per la rinuncia d’umiltà vestuta,

e par quasi fosse cosa non dovuta

ma invece scelta per obbligo morale.

Che il popolino l’onestà l’ammira,

e dà agli illusi una dolcezza al core,

chi se ne va senza aspettar altre prove.

Ma i peggiori non v’è modo li si muova,

né per decenza oppur spinti dall’onore,

che sol per la poltrona l’anima lor sospira. (Bilbo Baggins)

79. L'onestà non paga. Se vuoi fare l'onesto lo devi fare gratis. (Pino Caruso)

80. Ricòrdati che l'onestà paga sempre! Specialmente le tasse! (Renato R.)

81. La madre dei cretini è sempre incinta. Quella degli onesti ormai è in menopausa.

82. L'onestà è un lusso che i ricchi non possono permettersi. (Pierre de Coubertin)

83. Sto cercando di fare di mio figlio un italiano onesto, leale, corretto, solidale, amante della giustizia... "Un disadattato, insomma". (Stefano Mazzurana)

84. Io sono onesto. Contro chi devo scagliare la prima pietra? (Renato R.)

85. Nigeriano disoccupato trova 4.350 euro e li restituisce. Bisogna dire basta a questi gesti inappropriati, se vengono nel nostro paese devono rispettare le nostre regole. Che sono venuti qua ad insegnarci l'onestà? (Barbara Zappacosta)

86. Viviamo tempi in cui se dici "onesto!" a qualcuno, rischi d'offenderlo... (Alessandro Maso)

87. Sono una persona molto onesta e corretta. Mi sento un verme anche quando, ad un incontro, inganno l'attesa. (DrZap)

88. Secondo un emendamento del decreto milleproroghe, il M5S verrà multato per aver rifiutato i rimborsi elettorali. Sancendo la nascita di un nuovo reato: ONESTARE. (Kotiomkin) (Giovy Novaro)

Il "no" di Benedetto Croce al moralismo in politica. L'edizione nazionale dell'opera del pensatore ci restituisce i testi completi sul rapporto tra l'etica e la cosa pubblica, scrive Giancristiano Desiderio, Giovedì 26/05/2016, su "Il Giornale". È curioso, ma gli italiani quando si tratta di curare malanni e malattie non chiedono un onest'uomo, sì piuttosto un buon medico, onesto o disonesto che sia, purché sappia il fatto suo e non li mandi anzitempo all'altro mondo mentre quando ci sono in ballo le cose della politica gli italiani richiedono non uomini pratici e d'azione ma onest'uomini o, almeno, così dicono. Cos'è, dunque, l'onestà politica? Se lo chiedeva in modo diretto Benedetto Croce e rispondeva in modo altrettanto diretto: «L'onestà politica non è altro che la capacità politica: come l'onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze». Lo scritto intitolato proprio così - L'onestà politica - è il frammento XXXVII dei Frammenti di etica che uscì in volume nel 1922 e che nel 1931 andò a comporre, insieme con altri scritti, l'importante volume Etica e Politica. Ora la casa editrice Bibliopolis, che cura l'Edizione Nazionale delle Opere di Benedetto Croce, sta per mandare in libreria a cura di A. Musci proprio Etica e Politica nella edizione completa del 1931 riproducendo il testo nell'edizione ne varietur del 1945. In questo modo il lettore che segue le uscite delle opere crociane avrà modo di avere in un unico testo i quattro libri che compongono il volume: appunto, i Frammenti di etica del 1922, gli Elementi di politica del 1925, gli Aspetti morali della vita politica del 1928 e il Contributo alla critica di me stesso che uscì per la prima volta nel 1918 in cento copie stampate da Riccardo Ricciardi, l'amico editore di Croce che il filosofo chiamava con affetto Belacqua. Gli scritti raccoglievano nella maggior parte dei casi testi già pubblicati sin dal 1915 su riviste e periodici: anzitutto La Critica, e poi La Diana di Fiorina Centi, il Giornale Critico della Filosofia Italiana di Gentile, Politica di Alfredo Rocco e Francesco Coppola, gli Atti dell'Accademia di Scienze morali e politiche della Società reale di Napoli, i Quaderni critici di Domenico Petrini e La Parola di Zino Zini. In qualche caso anticipazioni e estratti erano già comparsi su quotidiani d'ispirazione liberale e conservatrice come Il Resto del Carlino di Tomaso Monicelli o Il Giornale d'Italia di Alberto Bergamini e Vittorio Vettori. L'origine pubblicistica dei testi ci fa aprire gli occhi sulla qualità del giornalismo italiano del secolo scorso. Ma oggi questi scritti cos'hanno da dire al lettore, son vivi o son morti? Faccia così il signor lettore, non si fidi di niente e di nessuno, neanche di questa noterella, prenda in mano il testo e si faccia un'idea sua. Qui, se è possibile, do solo un consiglio, di guardar le date e notare che gli scritti di politica - gli elementi - uscirono nel 1925 quando Croce, ormai, era passato all'opposizione di Mussolini e del fascismo, quando era finita male l'amicizia con Giovanni Gentile e in quegli scritti il filosofo della libertà marcava tutta la sua differenza rispetto alle commistioni di pensiero e azione fatte da Gentile e da Mussolini e rifiutava apertamente ogni morale governativa respingendo la sbagliata e pericolosa idea hegeliana dello Stato etico: «Nonostante codeste esaltazioni e codesto dionisiaco delirio statale e governa mentale -diceva- bisogna tener fermo a considerare lo Stato per quel che esso veramente è: forma elementare e angusta della vita pratica, dalla quale la vita morale esce fuori da ogni banda e trabocca, spargendosi in rivoli copiosi e fecondi, così fecondi da disfare e rifare in perpetuo la vita politica stessa e gli Stati, ossia costringerli a rinnovarsi conforme alle esigenze che essa pone». Il pregio della posizione liberale di Croce è proprio qua: nella distinzione tra filosofia e politica, pensiero e azione; una distinzione che non solo si basava sulla qualità del giudizio storico che ha la sua virtù proprio nella distinzione ma anche sulla grande e imperitura lezione di Machiavelli che rendendo autonoma la politica rese possibile il governo liberale e il controllo dei governanti. Il liberalismo di Croce ha in sé il realismo politico e questo gli consente di non degenerare né nell'utopia né nel giusnaturalismo e di essere oggi come allora un pensatore antitotalitario che si oppose non solo al fascismo ma anche al comunismo. Tuttavia, qui giunto, vorrei dare al lettore, se mi è concesso e se non lo infastidisco, un altro consiglio non richiesto: inizi la lettura dal Contributo alla critica di me stesso, un gioiello di pensiero, umanità e letteratura. Forse, è il modo migliore non solo di avvicinarsi a quest'opera ma anche di avvicinarsi a Croce e di entrare nel suo mondo che è tutto ispirato dalla libertà umana e improntato alla sua promozione e custodia. La lezione viva che si può ricavare da Etica e Politica è quella di non cadere nelle illusioni e nei miti della politica e della vita pratica e di conservare quella necessità che insita nella vita umana: pensare la propria esistenza per non farsi eccessivamente governare dagli altri.

La “presunta” onestà degli italiani, scrive il 2 agosto 2015 don Giorgio De Capitani. In questi ultimi tempi, anche a causa delle polemiche inerenti ai profughi che, dietro ordini delle Prefetture, vengono smistati e messi in alcuni locali dismessi dei Comuni, è uscita di colpo la “presunta” onestà dei cittadini italiani. Anche sul mio sito, ho letto frasi simili: da 50 anni pago le tasse, ho lavorato e sudato onestamente, ed ecco che arriva questa gente, per non dire “gentaglia”, che mi fa sentire cittadino di serie B o Z, quasi umiliato nei miei diritti, eccetera, eccetera. C’è un giornale online locale, Merateonline, dove, ogni giorno, magari con la soddisfazione del suo Direttore, appaiono lettere e lettere di cittadini frustrati dalla presenza di questi “loschi” individui, che non pagano le tasse, non lavorano, anzi li disturbano, non li fanno più vivere in santa pace. Se volete toccare di persona il polso della solidarietà o umanità della gente brianzola, ecco, ne potete avere una certa idea. Sì, una certa idea, perché in realtà i brianzoli sono ancor più egoisti, al di là della loro “innocenza” battesimale o del loro utile pragmatismo pastorale, con la benedizione dei parroci consenzienti. Ma… chi è onesto al cento per cento? Credo nessuno, nemmeno il papa. Chi non ha fatto fare qualche lavoretto in nero? Chi ha fatturato ogni lavoro eseguito? Chi ha sempre pagato l’iva? Chi ha dichiarato l’esatta metratura dei propri locali, per evitare di pagare più tasse sulla spazzatura? Chi lavora per raccomandazione o ha vinto un concorso truccato, chi è un falso invalido o un baby pensionato, ecc. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Naturalmente, quando non paghiamo qualche tassa, ci giustifichiamo in nome della nostra “onestà” presunta, oppure del fatto che gli altri non pagano: “Io non sono un coglione”!  E così via…E poi, soprattutto nel campo ecclesiastico, c’è sempre una ragione “valida” per non pagare tutte le tasse: faccio il bene, mi do da fare per gli altri, sono qui tutto il giorno al servizio della comunità anche civile, e poi dovrei pagare anche le tasse? Il bene mi fa sentire in diritto di esserne esente! Ma questo è un altro discorso, anche complesso. Ma ciò che non sopporto è la “presunta” onestà degli italiani, a giustificazione del proprio egoismo di cittadini che, per il fatto di vantare la propria onestà in base a criteri del tutto personali (ognuno si è fatto il proprio Codice e la propria Costituzione), rifiutano coloro che essi ritengono “diversi”, “estranei”, “illegali”, addirittura “pericolosi”, che mettono a rischio la “presunta” onestà di cittadini italiani.

Chi scaglia la prima pietra? L’editoriale di Sebastiano Cultrera del 06.02.2016. Le incalzanti notizie di cronaca giudiziaria provocano reazioni variegate tra i cittadini della nostra isola. Sgomento, sorpresa, sdegno, compassione o incredulità si alternano nei discorsi tra i cittadini. Ma emerge, troppo spesso, una ipocrisia di fondo che è la stessa che attraversa, troppo spesso, la nostra società procidana. “La devono pagare cara!” ho sentito dire da qualche anima bella “Anche per rispetto ai procidani onesti”. E questa storia dell’ONESTA’ è una specie di ritornello al quale, anche in politica, qualcuno si appella, e di solito lo fa chi è a corto di argomenti: naturalmente declinando il concetto di “onestà” a propria convenienza e piacimento. Io sono convinto, e ho cercato di sostenerlo anche recentemente, che il popolo procidano è un popolo profondamente onesto. Forse il nostro peggior difetto è il menefreghismo, unito ad un individualismo esasperato (i procidani sono “sciuontere”, usa dirsi). Ma rispetto ad altre realtà, anche contigue alla nostra, non possiamo certo lamentarci: non prosperano qui bande criminali, né (per fortuna) si registrano un numero di crimini particolarmente allarmante. Sostanzialmente il popolo procidano (che ha una grande storia imprenditoriale, densa di integrazione culturale e di commerci internazionali) è un popolo sano, produttivo e lavoratore, con un bagaglio etico del lavoro e della famiglia di tipo tradizionale. Tuttavia l’Onestà Aà Aà (quella degli slogan) è un’altra cosa, e proprio quegli esacerbati che la proclamano ai quattro venti (o semplicemente nelle chiacchiere da bar o da aliscafo) dovrebbero, prima, almeno, farsi delle domande. Il quadro che, in effetti, emerge dalle notizie che i media ci restituiscono, rispetto alle inchieste in corso, è un quadro complesso, che lascia intendere una vastissima rete di complicità, con l’abitudine a piccoli e grandi privilegi individuali o di “categoria” che erano diventati, nel tempo, dei veri e propri abusi; magari questi episodi non rivestono sempre rilevanza penale, ma, ciò non di meno, sono egualmente molti distanti da qualunque ideale corretto di ONESTA’. E’, poi, meritevole di approfondimento (e a breve mi piacerebbe farlo) la differenza tra i concetti di ONESTA’, di ETICA e di MORALE, recentemente abusati e usati talvolta a sproposito. Faccio solo notare che essi necessitano, per concretarsi, di un quadro di VALORI condiviso, che invece non esiste più o non è sufficientemente condiviso. Giacché ciascuno si fa una morale a proprio uso e consumo e si finisce per riferirsi, volentieri, alla sola dis-ONESTA’ degli ALTRI, in un eterno gioco di specchi asimmetrico: che, come Lui ha insegnato, ci fa concentrare, colpevolmente, esclusivamente sulle pagliuzze altrui. I sepolcri imbiancati di oggi è facile riconoscerli: sono quelli che, in certi frangenti, si sbattono più di tutti, quelli che vagano stracciandosi le vesti predicando ONESTA’ a sproposito, come se fosse una confezione di dentifricio atta a pulire bocca e denti. E nulla dicono su di loro stessi e sui loro amici, sui costumi diffusi di una comunità che non si riscatta additando le colpe di altri, neanche di uno o più capri espiatori. Invece il largo stuolo di professionisti, impiegati, commercianti e cittadini che beneficiavano (o beneficiano?) di quel “sistema” o comunque si integravano in quel quadro è imponente (e non risparmia neanche molti soggetti dispensatori di slogan o in vario modo in contiguità col moralismo di maniera); essi non sono esattamente dei criminali, almeno fino a prova contraria (e nessuno lo è, quindi, fino a sentenza definitiva). Ma certo dobbiamo dire con ONESTA’ INTELLETTUALE (ahia, l’ho detto anche io!) che tra multe cancellate, impunità varie, spiate e dossier, professionalità tecniche asservite a “papocchi” amministrativi, emerge un quadro sconfortante. Se poi apriamo il focus e vediamo anche il popolo delle casse marittime facili, dei piccoli e grandi abusi e delle piccole e grandi evasioni, possiamo allora essere certi di avere toccato quasi ogni famiglia isolana. Poiché l’averla “fatta franca” non significa essere moralmente meno colpevoli, ciò NON AUTORIZZA a scagliare la PRIMA PIETRA per ferire (a colpi di ONESTA’) chi sciaguratamente è stato scoperto. Spesso, infatti, è proprio la cattiva coscienza che porta a voler concentrarsi su uno o più responsabili (presunti) del decadimento morale, anche al fine di mondare catarticamente le proprie responsabilità e quindi la coscienza stessa. Invece la strada per la “salvezza” (cioè verso una nuova consapevolezza) passa attraverso una presa di coscienza collettiva delle VIRTU’, ma anche dei VIZI di una comunità: al fine di migliorarla.

Una banda di ballisti. Quello che sembrava un partito granitico oggi appare come un castello di carte a cui una manina, forse interessata, ne ha sfilata una. Da banda degli onesti a banda dei bugiardi è stato un attimo, scrive Alessandro Sallusti, Mercoledì 07/09/2016 su “Il Giornale”. Richard Nixon, presidente degli Stati Uniti, cadde su una bugia. Un suo successore, Bill Clinton, rischiò la stessa fine e si salvò in extremis solo perché si pentì e chiese scusa in tempo. Margaret Thatcher sull'argomento aveva un'idea più femminile: «Non si raccontano - ebbe a dire - bugie deliberatamente, diciamo che a volte bisogna essere evasivi». Virginia Raggi, neosindaco di Roma, Luigi Di Maio e tutta la banda dei Cinquestelle, travolti dallo scandalo della bugia sul fatto che nessuno sapeva che una loro assessora era indagata, sono quindi in buona compagnia. Del resto perché sorprendersi di un politico bugiardo? Machiavelli, già cinquecento anni fa, inseriva la menzogna tra le arti di cui un principe deve essere dotato se vuole ben governare. Il problema nasce quando sul malcapitato si accende il faro del sospetto, perché secondo gli esperti, per provare a coprire una bugia - esattamente come accade tra marito e moglie fedifraghi - è necessario raccontarne almeno altre sette. Che è esattamente quello che sta succedendo in queste ore nei piani alti del partito di Grillo, tra accuse e difese, sospetti e veleni incrociati. Quello che sembrava un partito granitico oggi appare come un castello di carte a cui una manina, forse interessata, ne ha sfilata una. Da banda degli onesti a banda dei bugiardi è stato un attimo. E adesso si fa dura, perché, come dice un antico proverbio russo, con le bugie si può andare avanti ma mai tornare indietro. E quindi addio per sempre verginità, addio purezza, addio diversità, addio a tutte le fregnacce che ci siamo dovuti sorbire in questi anni. Il Cinquestelle non è il partito Bengodi, non lo è mai stato e mai lo sarà, è semplicemente una casta che sta tentando di scalzarne un'altra. Con l'aggravante dell'inesperienza e dell'incapacità che si sono dimostrate maggiori del previsto, non solo a Roma ma in tutte le città in cui sono stati messi alla prova. C'è da gioire di tutto questo? No, per niente. Milioni di italiani sono stati ingannati dal moralismo di un comico e da un gruppo di ragazzini; Virginia Raggi, se come probabile resterà in sella grazie a qualche espediente mediatico, sarà un sindaco dimezzato, bugiardo e inaffidabile. E parliamo del sindaco di Roma capitale, non so se mi spiego.

Sul web scatta la gara di sfottò: "È tutta colpa delle cavallette". Raffica di parodie su Di Maio, scrive Paolo Bracalini, Giovedì 08/09/2016, su "Il Giornale". Dopo le case pagate ad insaputa e lauree conseguite senza saperlo, la mail letta ma non capita da Di Maio entra di diritto nella classifica delle scuse più incredibili della politica nazionale, anche perché nel breve curriculum di Di Maio figura un periodo da webmaster, difficile da svolgere se si ha difficoltà con le mail. L'ironia del web, quindi, si abbatte senza pietà sul pupillo avellinese della Casaleggio Associati, che già aveva pronti nel guardaroba i completi da presidente del Consiglio. Anche se molte tweetstar che in altri casi avrebbero fatto a pezzi il protagonista della gaffe politica, con Di Maio si astengono dall'infierire, meglio non mettersi contro i follower grillini che fanno numero. Ma se una parte dei commenti in Rete è rappresentato dai fan che seguono fedelmente la linea indicata dal direttorio (cioè: è tutta una montatura dei partiti e dei media per screditare il M5S, gli scandali sono altri), la stragrande maggioranza sono sfottó e parodie per la goffa giustificazione addotta dal vicepresidente della Camera. Che rievoca a molti lettori, ricordi e memorie dai banchi di scuola: «Ma oggi c'era interrogazione? Pensavo si facesse ripasso», «Il cane mi ha mangiato i compiti!», «La difesa del ripetente: non avevo capito, non c'ero, e se c'ero dormivo» suggeriscono tre lettori di Repubblica.it, mentre un altro propone un'interpretazione linguistica: «Lui è napoletano e la Taverna parla in romanesco stretto, dovete pur capire il poverino!». Molti twittaroli suggeriscono una integrazione alla scusa di Di Maio pubblicando il celebre monologo di John Belushi in Blues Brothers, quando deve giustificarsi di fronte all'ex ragazza che lo punta con un fucile d'assalto M16 per averla abbandonata davanti all'altare («Ero rimasto senza benzina. C'era il funerale di mia madre! Era crollata la casa! C'è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è stata colpa mia! Lo giuro su Dio!»), mentre sui social network viene rimbalza una parodia evangelica: «Tutti contro Di Maio per una mail e nessuno parla dei Corinzi che non hanno mai risposto alle lettere di San Paolo. Questa è l'Italia dei poteri forti». Su Twitter esiste un account @Iddio, con 454mila follower, e anche da lì arriva l'ironia sul vicepresidente della Camera: «Nel progetto originale era previsto di fare le donne senza peli e senza cellulite, ma ho letto male l'email». Filippo Casini ha capito l'origine del complotto denunciato dai Cinque stelle: «Di Maio: Abbiamo tutti i media contro. Soprattutto Hotmail e Outlook», i provider di posta elettronica. «Ho sbagliato a leggere la mail» is the new «Mi hanno rubato l'account», twitta la Lucarelli del Fatto. Sfotte anche Pig Floyd su Twitter: «Mi è arrivata la bolletta della luce da 230. Credo che pagherò 2.30 dicendo Scusate, ho letto male». Ma poi il popolo M5S si dà la carica con Grillo a Nettuno. E anche questo ispira la presa per i fondelli sui malintesi di Di Maio: «Nettuno? Cavolo. Ma un pianeta più vicino non c'era?».

La follia di fare dell'onestà un manifesto politico. Io non so se Casaleggio, parlandone da vivo, fosse o no il re degli onesti. So che il suo partito, dove governa, non riesce a risolvere neppure mezzo problema in più di qualsiasi altro, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 15/04/2016, su "Il Giornale". «Onestà, onestà», hanno intonato dirigenti e simpatizzanti grillini sul sagrato della chiesa di Santa Maria delle Grazie all'uscita della bara di Gianroberto Casaleggio. Come ultimo saluto, una preghiera laica in linea con il dogma pentastellato che al di fuori del loro club tutto è marcio e indegno. Gli unici onesti del Paese sarebbero loro, come vent'anni fa si spacciavano per tali i magistrati del pool di Mani pulite, come tre anni fa sosteneva di esserlo il candidato del Pd Marino contrapposto a Roma ai presunti ladri di destra. Come tanti altri. Io non faccio esami di onestà a nessuno, me ne guardo bene, ma per lavoro seguo la cronaca e ho preso atto di un principio ineluttabile: chi di onestà colpisce, prima o poi i conti deve farli con la sua, di onestà. Lo sa bene Di Pietro, naufragato sui pasticci immobiliari del suo partito; ne ha pagato le conseguenze Marino con i suoi scontrini taroccati; lo stesso Grillo, a distanza di anni, non ha ancora smentito le notizie sui tanti soldi in nero che incassava quando faceva il comico di professione. Cari Di Maio e compagnia, smettetela con questa scemenza del partito degli onesti che fa la morale a tutti, cosa che fra l'altro porta pure male. L'onestà non è un programma politico, è una precondizione personale per affrontare la vita in un certo modo. Io voglio comportarmi onestamente, e mi piacerebbe facessero altrettanto il mio fruttivendolo, chi mi vende l'automobile, chi si occupa della mia salute, il politico che voto. Ma da loro pretendo solo una cosa: che la frutta sia buona e sana, che l'auto funzioni come mi aspettavo, che se necessario il mio medico mi salvi la vita, che la politica sia efficiente nel risolvere i miei problemi. L'onestà che viene a mancare è un problema della loro coscienza, e giudiziario se comporta la violazione delle leggi e se danneggia la comunità. Io non so se Casaleggio, parlandone da vivo, fosse o no il re degli onesti. So che il suo partito, dove governa, non riesce a risolvere neppure mezzo problema in più di qualsiasi altro. Anzi, a volte, vedi casi Livorno e Quarto, fanno disastri ben peggiori. Cosi come in Parlamento la strategia grillina ha prodotto tanto fumo e zero arrosto. Sarò all'antica, ma in chiesa, ai cori sull'esclusiva dell'onestà («chi è senza peccato scagli la prima pietra», diceva il Padrone di casa) preferisco ancora una preghiera. 

"Noi siamo garantisti e lo siamo anche con il sindaco di Livorno raggiunto da avviso di garanzia non come gli esponenti del Movimento che sono garantisti con i loro e giustizialisti con gli altri": lo ha detto il ministro Boschi parlando nel bresciano a Desenzano del Garda il 7 maggio 2016. Boschi ha quindi aggiunto "Di Maio era a Lodi questa mattina, mi auguro che domani vada a Livorno a chiedere le dimissioni del suo sindaco". "Il 21% dei comuni amministrati dal Movimento 5 stelle - ha concluso - ha problemi con la giustizia, ma il loro grido onestà, onestà diventa omertà, omertà quando riguarda loro".

Caso Pizzarotti: il doppiopesismo che spaventa. L'ipocrisia dentro e fuori il M5S li mostra giustizialisti in pubblico, esoterici nelle “stanze delle tastiere”. Un pericolo per la democrazia, scrive Marco Ventura il 15 maggio 2016 su "Panorama".  Lo aveva detto con chiarezza Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, prima della sospensione dal Movimento 5 Stelle tramite la mail anonima dello “staff” (che rimanda al direttorio M5S e, in definitiva, al clan Casaleggio): “Non è che tutti gli altri sono cattivi e noi tutti buoni. Per sistemare i problemi a volte è necessario sporcarsi le mani”. Ammissione importante. Quindi, non erano tutti cattivi i craxiani o i berlusconiani, così come non sono tutti buoni i magistrati o i 5 Stelle. Se c’è di mezzo l’amministrazione di una città, ci si può dover sporcare le mani. Ne consegue che se questo vale per Livorno, a maggior ragione deve valere per Roma o Milano. Ci si può sporcare le mani “a fin di bene”, forse. Per dare un’aggiustatina. Eppure, per degli integralisti come i 5 Stelle dovrebbe valere il principio che il fine non giustifica mai i mezzi, insomma le mani bisognerebbe non sporcarsele in nessun caso. Tanto meno bisognerebbe accusare gli altri di sporcarsele, per poi autoassolversi se si viene beccati con le mani dentro lo stesso barattolo di marmellata con l’etichetta “concorrenza in bancarotta fraudolenta” o “abuso d’ufficio”. Sembra invece che i grillini siano una razza a parte anche sotto questo aspetto. Se sono loro a finire nel mirino delle Procure (è successo nella maggioranza delle amministrazioni locali che controllano), si tratta di giustizia a orologeria, manganellate giustizialiste, “reati minori”. Vito Crimi, ex presidente dei senatori pentastellati, sembra considerare una medaglia al petto l’avviso di garanzia al compagno di partito nonché Sindaco di Livorno, Filippo Nogarin, per 33 assunzioni in un’azienda sull’orlo del baratro. Si può mai esser colpevoli, chiede Crimi, di “aver evitato a 33 famiglie di finire in mezzo a una strada?”. Eppure, in altri tempi e riferita ad avversari, l’assunzione di 33 persone in un’azienda municipalizzata che sta per fallire sarebbe stata definita proprio dai 5 Stelle “clientelismo”. I due pesi e due misure riguardano non soltanto i nemici, ma i compagni di cordata. Pizzarotti è sempre stato un mezzo dissidente rispetto ai vertici del partito, Nogarin no. Quindi Pizzarotti viene sospeso e Nogarin salvato (e difeso). Ma il problema non riguarda solo i pentastellati. Riguarda tutti noi. I 5 Stelle un giorno potrebbero avere i numeri per governare. Si tratta di un movimento rivoluzionario, guidato senza trasparenza, molto simile a una setta (spesso i rivoluzionari sono strutturalmente settari). Ma quando la setta incrocia il potere, diventa un pericolo per la democrazia. La verità è che i rivoluzionari, a qualsiasi latitudine e in qualsiasi momento storico, hanno dimostrato di essere poi bravissimi a adattarsi alle poltrone e nicchie di potere, e di essere mediamente peggiori dei predecessori che si sono trovati a gestire un consenso che calava.  I due pesi e due misure di direttorio e clan Casaleggio contraddicono in modo eclatante la supposta trasparenza delle origini (che in realtà non c’è mai stata). I terribili scontri intestini appartengono alla peggiore tradizione del variegato socialismo e comunismo sovietico. Specchio capovolto del populismo sbandierato dai parlamentari 5 Stelle. Populisti e giustizialisti in pubblico, esoterici e incontrollabili nel chiuso di “stanze delle tastiere” che hanno sostituito le “stanze dei bottoni”.  

Come il giustizialista imputato diventa garantista. L'ex comunista Cioni a Firenze. I grillini Nogarin a Livorno e Pizzarotti a Parma. Prima giacobini, poi indagati: e oggi chiedono il rispetto delle regole dello Stato di diritto, scrive il 13 maggio 2016 Maurizio Tortorella su "Panorama". "A mia figlia Giulia, la più piccola, i compagni di classe domandavano: perché tuo padre non è in prigione? Nel tritacarne mediatico i giornali ti bollano come corrotto e gli amici scompaiono". È bellissima e illuminante l'intervista di Graziano Cioni al Foglio di oggi. Cioni, 70 anni, è stato un esponente del Pci-Pds-Ds-Pd toscano, assessore alla Sicurezza e alla vivibilità di Firenze: nel novembre 2008, da candidato a sindaco della città, venne travolto politicamente e umanamente da un'inchiesta e poi da un processo per corruzione per un progetto urbanistico sull'area fiorentina di Castello. Quell'inchiesta è appena terminata in nulla, in Cassazione. Ma Cioni ha vissuto quasi otto anni d'inferno. Oggi dice ad Annalisa Chirico, che lo intervista: "Io ero un giustizialista convinto. Che puttanata. Per me la legalità era un vessillo assoluto, una bandiera. Le garanzie? la presunzione d'innocenza? Non mi ponevo il problema. Quel che un magistrato fa è giusto per definizione". Cioni ricorda il famoso discorso di Bettino Craxi: quello del luglio 1992, in piena Tangentopoli, quando in Parlamento il segretario del Psi chiamò in correità tutti i segretari di partito, dichiarando "spergiuro" chi avesse negato un finanziamento illecito. "Io ero un anticraxiano di ferro" dice oggi Cioni. "Votai per l'autorizzazione a procedere. Oggi non lo rifarei. Pensavo che Craxi avesse torto. Ho capito che avevamo torto noi". Oggi che cosa dice Cioni della giustizia? "Le carriere dei pm e dei giudici vanno separate. L'assoluzione deve essere inappellabile: io sono stato scagionato da ogni accusa in primo grado, ma il pm è ricorso in appello così mi sono ritrovato nel fuoco incrociato di una contrapposizione tra giudici. La responsabilità civile dei magistrati resta una chimera: perché chi sbaglia non paga? Si dice: questo potrebbe frenarli. Ma allora un chirurgo che dovrebbe fare?". È un uomo folgorato sulla via di un processo. Induce sincera compassione umana, Graziano Cioni. La vita con lui è stata durissima e crudele, non soltanto dal punto di vista giudiziario. Ma il suo percorso mentale da giustizialista a garantista, per quanto straordinario e paradossale, e intimamente giusto, scuote l'animo. Anche perché ormai incarna in sé gli echi di una sconcertante regolarità. Perché, esattamente come lui, proprio in questo periodo approdano alla sponda garantista tanti ex giustizialisti. Sono sempre più numerosi i giacobini che, colpiti da un avviso di garanzia ed entrati loro malgrado nel circo mediatico-giudiziario, scoprono la violenza che hanno alimentato fino al giorno prima. E a quel punto saltano loro i nervi, diventano fragili, soffrono. Capiscono i disastri del populismo giudiziario. Filippo Nogarin, sindaco grillino di Livorno, e Federico Pizzarotti, sindaco di Parma, indagati a diverso titolo, oggi rivendicano la correttezza del loro operato e si ribellano: rifiutano di seguire le regole del Movimento 5 stelle cui appartengono. Non si dimettono, dopo che il mantra grillino per anni è stato: "Fuori dallo Stato ogni indagato". Attenzione: qui nessuno s'indigna. Ed è in buona misura scorretto fare quel che fanno certi esponenti del Pd, che gridano strumentalmente allo scandalo per il cambio di fronte degli avversari grillini. Non pare corretta nemmeno la rivalsa di chi, nel centrodestra, osserva tacendo: come se fosse una consolazione, perché "ora tocca a loro". No, qui non si tratta nemmeno di contestare una doppia morale, o il doppiopesismo. Chi crede di avere davvero nel sangue il rispetto delle regole dello Stato di diritto, in realtà, si stupisce soltanto che tutti costoro non lo abbiano capito prima. Che non abbiano compreso che l'errore è umano, e che anche l'errore giudiziario lo è. E pertanto che non c'è alcuna certezza, né una Verità assoluta e insindacabile. Né in una chiesa, né in un partito, né (tantomeno) in un tribunale. Il problema è che non si può attendere di subire un'esperienza giudiziaria per comprendere che la presunzione d'innocenza va davvero utilizzata come una regola superiore, stellare. Che l'arresto in carcere deve essere l'ultima istanza, davvero. Che i giornali non possono devastare l'immagine di una persona. Possono porre problemi, ma non dare certezze. Quelle le ha soltanto Dio, se esiste. Il problema è che il circuito mediatico-giudiziario, un unicum vergognoso, da Paese sottosviluppato, è un mostro che va affrontato collettivamente e contenuto, possibilmente annullato. Non lo si è fatto per troppi anni, per miope calcolo politico (con la sua intervista anche Cioni lo conferma, esplicitamente). Ma di calcoli politici si può anche soccombere.

CULTURA. EMIL ZOLA: L’AFFAIRE DREYFUS ED I GIORNALI CHE VIVONO DI SCANDALI.

Cos’è la cultura? Solo un “libretto di istruzioni”…, scrive Corrado Ocone il 26 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Antonio Genovesi, allievo di Vico, teologo, maestro dell’illuminismo napoletano, filosofo eclettico. Usò la scienza anche per studiare il commercio. Sabato a Vatolla, in provincia di Salerno, nel castello De Vargas ove soggiornò per più anni Giambattista Vico, alle ore 19, si è svolto il convegno Opportunità, pace e ricchezza. Il libero commercio dalle lezioni di economia di Antonio Genovesi ad oggi.  Sono intervenuti Corrado Ocone e Lorenzo Infantino (moderati da Antonluca Cuoco). È stata l’occasione per ricordare Genovesi, allievo di Vico e padre dell’illuminismo napoletano, pensatore di calibro europeo del tutto dimenticato. Qui un suo profilo. Una decina di anni fa la casa editrice dell’Università di Cambridge pubblicò un documentato volume (mai tradotto in italiano) di un noto storico inglese, John Robertson, in cui si stabiliva un legame, intellettuale ma anche concreto e pratico (le idee e i libri circolavano con molta rapidità nella settecentesca “repubblica delle lettere”), fra l’illuminismo scozzese e quello napoletano. Gli esponenti di entrambi, al contrario degli illuministi francesi, temperavano infatti il culto della Ragione con un istintivo senso storico e (almeno negli scozzesi) con una profonda venatura scettica. Credo che, pur con i dovuti limiti, questa tipizzazione valga anche per Antonio Genovesi, il padre dell’illuminismo napoletano. Se non proprio scettico, egli, che aveva una formazione filosofica e teologica (era lui stesso un sacerdote), anzi propriamente metafisica, era sicuramente un eclettico: possedeva una solida cultura classica, e insieme una vasta conoscenza degli autori moderni e a lui contemporanei, ma riteneva che elementi di verità fossero nel pensiero di ogni filosofo e che era saggio prendere il meglio da più parti. Quanto al senso storico, Genovesi lo aveva sicuramente appreso anche alla scuola di Giambattista Vico, che, essendosi trasferito a Napoli venticinquenne nel 1738 (era nato a Castiglione, in provincia di Salerno, il primo novembre 1713), fece in tempo a frequentare (l’autore della “Scienza nuova” sarebbe poi morto nello stesso anno in cui fu pubblicata l’edizione definitiva del suo capolavoro: il 1744). È ai primi anni Cinquanta del secolo che è databile quella “svolta” negli interessi di Genovesi (nell’Autobiografia egli parlerà di “sbalzo”) che lo porterà rapidamente a tralasciare gli studi di metafisica e teologia e ad occuparsi quasi esclusivamente di economia. Certo, si trattava della scienza del momento, legata all’intensificarsi dei commerci e allo sviluppo economico degli Stati europei, ma l’affermarsi dell’economia era il portato anche, più radicalmente, dello spirito immanentistico connesso all’età moderna (Benedetto Croce avrebbe parlato della “scoperta” settecentesca delle due “scienza mondane”, cioè l’estetica e appunto l’economia). Napoli, città di porto e cosmopolita per quanto con un retroterra arretrato e semifeudale (la vasta provincia del Regno borbonico), partecipava in pieno al moto di idee che da Parigi alla Gran Bretagna percorreva l’Europa: l’abate Ferdinando Galiani, altro esponente di spicco dell’illuminismo partenopeo, nel 1751 aveva pubblicato il trattato Della moneta che gli avrebbe presto dato fama europea. Genovesi, da parte sua, da un lato, concludeva nel 1752, con la pubblicazione dell’ultimo tomo, il suo trattato di Metafisica, che non pochi problemi gli aveva dato con la censura regia e soprattutto ecclesiastica; dall’altro, maturava delle idee del tutto nuove sullo scopo della sua attività di studioso che ne avrebbero fatto in poco tempo, come lui stesso ebbe a dire, da filosofo e metafisico un “mercatante”. In questo processo lo agevolò certamente l’essere entrato a far parte del circolo, e anzi nelle grazie, di un illuminato mercante e mecenate toscano trapiantato a Napoli, Bartolomeo Intieri. Il quale, consapevole, nello spirito dei lumi, della necessità di formare una classe dirigente su idee nuove e praticamente utili, finanziò e affidò al nostro una cattedra di “meccanica e economia” all’Università di Napoli (probabilmente la prima cattedra di economia al mondo). Il 5 novembre 1754, con grande successo, parlando a braccio, Genovesi tenne la memorabile prolusione con cui inaugurava il suo corso, le cui idee sistemò poi nel Ragionamento sul commercio in generale (1757), Le sue Lezioni di commercio o sia d’economia civile, pubblicate per la prima volta nel 1765, diventeranno un classico e saranno tradotte e discusse in mezza Europa. E’ difficile, almeno per me, giudicare la validità e forza delle idee economiche di Genovesi, né tantomeno la loro possibile “attualità”: un tema, quest’ultimo, che il senso storico mi porterebbe a consigliare di affrontare con molta cautela. Non manca però chi (ad esempio Stefano Zamagni), mutuando da Genovesi e dagli altri illuministi napoletani l’espressione “economia civile”, vede oggi nelle sue idee un’alternativa al pensiero economico puro o classico, basato sull’idea di un homo aeconomicus inteso a perseguire razionalmente il proprio interesse. In effetti, è sicuramente vero che i temi etici nel pensiero di Genovesi si intrecciano a quelli più propriamente economici e finiscono per dare ad essi il tono e la sostanza. È pur vero, tuttavia, che, stando almeno a certi passi delle sue opere, la natura non meramente altruistica dell’uomo gli era, senza moralismi di sorta, molto chiara. Tanto che lo stesso concetto di “reciprocità” che, secondo lui, è alla base dello scambio mercantile, conserva a mio avviso un che di utilitaristico che non lo discosta troppo dall’impostazione che sarà data qualche decennio dopo di lui da Adam Smith. Anche l’autore della Ricchezza delle nazioni (1776) aveva, fra l’altro, parlato della “fiducia” (“pubblica”) che è alla base del rapporto economico, occupandosene nell’opera filosofica che è da considerarsi come la premessa teorica del suo capolavoro: la Teoria dei sentimenti morali (1759). Mi sembra che ci troviamo di fronte a motivi propri dell’epoca, di un periodo in cui l’economia non aveva del tutto sviluppato quell’autonomia dalle altre scienze che è stata poi, nei secoli a seguire, il motivo del suo successo ma anche della sua crisi attuale. Tipicamente illuministico è anche il tema della “felicità”, che, sulla scia di Genovesi, gli illuministi napoletani hanno sviluppato e diffuso nel mondo (di esso se ne trovano echi evidenti, per il tramite di Gaetano Filangieri e Benjamin Franklin, nella stessa Costituzione americana). Anche in questo caso, il pensiero di Genovesi, legato in senso stretto alle virtù morali e civili, non presenta quegli aspetti utilitaristici che ritroveremo in seguito fra gli economisti. Ad ogni modo, a me sembra particolarmente interessante considerare anche la concezione della cultura e dei fini o dello scopo del lavoro intellettuale che aveva il nostro e che, anche per questa parte, lo trova completamente aderente allo spirito del suo tempo, cioè all’illuminismo. Il riferimento in questo caso è soprattutto il Discorso sopra il vero fine delle lettere e delle scienze, che egli compose nell’autunno del 1753 nella casa di villeggiatura di Intieri dalle parti di Vico Equense e pubblicò l’anno dopo poco prima che iniziassero i suoi corsi di economia. In esso egli prese di mira i filosofi, e i “cento e cento altri dialettici e metafisici” che, “per sette e più secoli… fecero a gara a chi potesse essere più ferace in inutili immaginazioni ed astrazioni”. Il loro compito sarebbe stato invece quello di dare “rischiaramento e aiuto” ai popoli e soprattutto ai governanti che avrebbero dovuto guidare gli Stati secondo i dettami della pura ragione. Come si vede, qui c’è una netta presa di distanza da quegli interessi metafisici che lo avevano impegnato, quasi come per liberarsene con cognizione, nella prima fase della sua attività. Il rapporto fra scienza e prassi è stabilito in maniera netta: le scienze da preferire e studiare saranno quelle utili a migliorare e a “incivilire” il popolo umano. In effetti, la scienza scopre, da una parte, certe “verità” nella realtà e, dall’altro, le propone ai saggi legislatori del “dispotismo illuminato” che le “applicano”, anche con l’ausilio della tecnica, all’azione. Questa concezione del mondo come un libro che noi dobbiamo solo leggere e interpretare (secondo l’espressione di Galileo Galilei), della verità come “rispecchiamento” e della prassi come “applicazione” è quella che successivamente il pensiero occidentale post- illuministico metterà per lo più in discussione. Essa, infatti, tendenzialmente, lascia poco spazio alla libertà, cioè all’inventiva e imprevedibile creatività umana. Da un lato, Marx tenderà a risolvere le contraddizioni teoriche immediatamente nell’agire pratico (“non si tratta di capire il mondo ma da trasformarlo”); dall’altra, i liberali tenderanno a scindere l’attività culturale, per sua natura disinteressata, da quella pratica volta a raggiungere un fine di utilità. L’enorme fiducia nella cultura, istillata nei napoletani da Genovesi e a seguire dagli altri esponenti della cultura illuministica cittadina (lo stesso Filangieri, Francesco Maria Pagano o il suo allievo prediletto Giuseppe Maria Galanti) avrà, anche simbolicamente, il suo esito finale nel fallimento della rivoluzione napoletana del 1799. Una classe politico- intellettuale che si affida alla cultura e alla morale senza fare i conti con la maturità del popolo e con la situazione in cui deve operare, constaterà amaramente Vincenzo Cuoco (allievo di Galanti) è destinata a fallire e a rimanere nella storia come mera per quanto nobile testimonianza. Ovviamente, Genovesi non fece in tempo a vedere i fumi della Rivoluzione (era morto a Napoli il 22 settembre 1769) ma nella sua personalità si rispecchiano in maniera così tipica i pregi e le virtù del suo tempo, molto più che in altri pensatori stranieri, che, per noi italiani, è veramente assurdo non conoscerne e aver dimenticato la sua lezione.

Emile Zola: Quei giornali che vivono di scandali! Scrive Émile Zola il su “Le Figaro” il 25 novembre 1897 ripubblicato il 9 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Che dramma straziante, e quali splendidi personaggi! Di fronte a documenti di una bellezza così tragica che la vita ci mette davanti, il mio cuore di romanziere freme di appassionata ammirazione. Non so intravedere una psicologia più nobile. Non è mia intenzione parlare del caso. Se talune circostanze mi hanno permesso di studiarlo e di farmene un’opinione formale, non dimentico che un’inchiesta è in corso, che la giustizia se ne sta occupando e che per onestà è giusto attendere, senza contribuire all’ammasso di pettegolezzi volti a ostruire un caso così chiaro e così semplice. Ma i personaggi, da questo momento, appartengono a me, che sono soltanto un passante con gli occhi aperti sulla vita. E se il condannato di tre anni or sono e l’accusato d’oggi per me rimangono sacri fino a che la giustizia non avrà completato la sua opera, il terzo grande personaggio del dramma, l’accusatore, non avrà certo a soffrire se parlerò di lui con onestà e con coraggio. Ecco che cosa ho visto di Scheurer-Kestner, ecco che cosa penso e che cosa affermo. Forse un giorno, se le circostanze lo permetteranno, parlerò degli altri due. Una vita cristallina, la più nitida, la più diritta. Non una tara, mai la più piccola debolezza. Una medesima opinione, costantemente seguita, senza ambizione militante, sfociata in un’altra posizione politica dovuta unicamente alla simpatia rispettosa dei suoi pari. E non un sognatore, né un utopista. Un industriale, che ha vissuto chiuso nel suo laboratorio, dedito a ricerche particolari, senza conta- re la preoccupazione quotidiana di una grande ditta commerciale da mandare avanti. Ed anche una situazione patrimoniale invidiabile. Tutte le ricchezze, tutti gli onori, tutte le gioie, il coronamento di una bella vita interamente dedicata al lavoro e alla lealtà. Più un solo desiderio da esprimere, ossia quello di finire in modo degno, in questa felicità e nella stima generale. Eccolo, l’uomo. Lo conoscono tutti, non vedo chi mi potrebbe smentire. Ed è proprio l’uomo attorno al quale si sta per svolgere uno dei drammi più tragici e più appassionati. Un giorno, un dubbio si affaccia nel suo spirito, poiché è un dubbio che è nell’aria e che ha già rubato varie coscienze. Un tribunale militare ha condannato, per alto tradimento, un capitano che, chissà, forse è innocente. Il castigo è stato tremendo, la degradazione pubblica, l’internamento in un luogo lontano, l’esecrazione di tutto un popolo che si accanisce, infierendo sull’infelice già a terra. E, qualora fosse innocente, gran Dio! Che brivido di pietà, che orrore agghiacciante! Al pensiero che non ci sarebbe riparazione possibile. Nello spirito del signor Scheurer-Kestner, è nato il dubbio. Da quel momento, come ha spiegato lui stesso, inizia il tormento, rinasce l’ossessione man mano che le cose gli giungono all’orecchio. È un’intelligenza solida e logica quella che, a poco a poco, finisce per essere conquistata dal bisogno insaziabile della verità. Non c’è nulla di più alto, di più nobile e il travaglio che quest’uomo ha vissuto è uno spettacolo straordinario ed entusiasmante, per me, portato come sono dal mio mestiere a scrutare nelle coscienze. Il dibattito sulla verità e in nome della giustizia, non esiste lotta più eroica. In breve, alla fine Scheurer-Kestner giunge alla certezza. La verità la conosce, ora deve fare giustizia. È un momento pauroso e posso immaginare cosa debba essere stato per lui quel momento d’angoscia. Non gli erano certo ignote le tempeste che stava per sollevare, ma la verità e la giustizia sono sovrane, poiché esse soltanto assicurano la grandezza delle nazioni. Può accadere che interessi politici le oscurino per qualche istante, ma un popolo che non basi su di esse la sua unica ragione d’essere sarebbe, oggi, un popolo condannato. Fare luce sulla verità, certo; ma potremmo avere l’ambizione di farcene un vanto. Alcuni la vendono, altri vogliono almeno trarre vantaggio dall’averla detta. Il progetto di Scheurer-Kestner era di restare nell’ombra, pur compiendo la sua opera. Aveva deciso di dire al governo: «Le cose stanno così. Intervenite, abbiate voi stessi il merito d’essere giusti, riparando a un errore. Chi fa giustizia, trionfa sempre». Circostanze delle quali non voglio parlare fecero sì che non venisse ascoltato. Da quel momento in poi, ebbe inizio la sua ascesa al calvario, un’ascesa che dura da settimane. Si era sparsa la voce che egli fosse in possesso della verità, e chi detiene la verità, senza gridarla ai quattro venti, che altro può essere se non un nemico pubblico? Stoicamente, per quindici giorni interminabili, rimase fedele alla parola data di tacere, sempre nella speranza di non doversi ridurre a prendere il posto di quelli che avrebbero dovuto agire. E sappiamo bene quale marea d’invettive e di minacce si sia abbattuta su di lui durante questi quindici giorni; un vero torrente di accuse immonde, di fronte al quale è rimasto impassibile, a testa alta. Perché taceva? Perché non mostrava il suo incartamento a chiunque lo volesse vedere? Perché non faceva come gli altri che riempivano i giornali delle loro confidenze? Quanto, ah, quanto è stato grande e saggio! Taceva, perfino al di là della promessa fatta, proprio perché si sentiva responsabile nei confronti della verità. Una povera verità, nuda e tremebonda, schernita da tutti e che tutti sembravano avere interesse a soffocare, lui pensava soltanto a proteggerla contro l’ira e le passioni altrui. Aveva giurato a se stesso che non l’avrebbero fatta sparire e intendeva scegliere il momento e i mezzi adatti per assicurarle il trionfo. Che può mai esserci di più naturale, di più lodevole? Per me non esiste niente di più sovranamente bello del silenzio di Scheurer- Kestner, dopo tre settimane di ingiurie e di sospetti da parte di un intero popolo fuori di sé. Ispiratevi a lui, romanzieri! In lui sì avreste un eroe! I più benevoli hanno avanzato dubbi sul suo stato di salute mentale. Non era per caso un vegliardo indebolito, caduto nell’infantilismo senile, uno di quegli spiriti che il rimbambimento incipiente rende inclini alla credulità? Gli altri, i pazzi e i delinquenti, l’hanno accusato senza tante cerimonie d’essersi lasciato “comprare”. Semplicissimo: gli ebrei hanno sborsato un milione per acquistare tanta incoscienza. E non si è levata una risata immensa, come risposta a tanta stupidità! Scheurer- Kestner, è là, con la sua vita cristallina. Fate un confronto tra lui e gli altri, quelli che lo accusano e lo insultano, e giudicate. Bisogna scegliere tra questo e quelli. Trovatela, la ragione che lo farebbe agire, al di fuori del suo bisogno così nobile di verità e di giustizia. Coperto d’ingiurie, l’animo lacerato, sentendo vacillare il suo prestigio sotto di sé, ma pronto a sacrificare tutto pur di portare a buon esito il suo eroico compito, egli tace, aspetta. Fino a che punto si può essere grandi! L’ho detto, del caso in sé non mi voglio occupare. Tuttavia, è bene che io lo ripeta: è il più semplice, il più trasparente del mondo, per chi voglia prenderlo per quello che è. Un errore giudiziario, eventualità deplorevole, sì, ma sempre possibile. Sbagliano i magistrati, possono sbagliare i militari. Cos’ha a che fare, questo, con l’onore dell’esercito? L’unico bel gesto, qualora sia stato commesso un errore, è di porvi riparo: e la colpa nascerebbe nel momento in cui qualcuno s’intestardisse a non voler ammettere di essersi sbagliato, nemmeno di fronte a prove decisive. Non ci sono altre difficoltà, in fondo. Andrà tutto bene, purché si sia decisi a riconoscere di aver potuto commettere un errore e di avere esitato, in seguito, a convenirne, perché era imbarazzante. Quelli che sanno, mi capiranno. Quanto al temere complicazioni diplomatiche, è uno spauracchio per gli allocchi. Nessuna delle potenze vicine ha niente a che spartire con il caso e converrà dirlo forte. Ci troviamo soltanto di fronte a un’opinione pubblica esasperata, sovraffaticata da una campagna che è tra le più odiose. La stampa è una forza necessaria; sono convinto che nel complesso faccia più bene che male. Ma certi giornali, quelli che gettano lo scompiglio, quelli che seminano il panico, che vivono di scandali per triplicare le vendite, non sono certo meno colpevoli. L’antisemitismo idiota ha gettato il seme di questa demenza. La delazione è dappertutto, nemmeno i più puri e più coraggiosi osano fare il loro dovere per il timore di venire infangati. E così, eccoci in questo orribile caos, nel quale tutti i sentimenti sono falsati, in cui non è possibile volere la giustizia senza venire trattati da rimbambiti o da venduti. Le menzogne mettono radici, le storie più assurde vengono riportate con sussiego dai giornali seri, l’intera nazione sembra in preda alla follia, quando un po’ di buon senso rimetterebbe subito a posto le cose. Oh, come sarà semplice, torno a dirlo, il giorno in cui quelli che sono alla guida oseranno, nonostante la folla aizzata, comportarsi da galantuomini! Immagino che nel silenzio altero di Scheurer- Kestner, ci sia anche il desiderio di aspettare che ciascuno faccia il suo esame di coscienza prima di agire. Quando ha parlato del suo dovere che, perfino sulle rovine del suo prestigio, della sua felicità e dei suoi beni, gli ordinava, dopo averla conosciuta, di servire la verità, quest’uomo ha detto una frase ammirevole: «Non avrei più potuto vivere». Ebbene, ecco che cosa devono dirsi tutte le persone oneste immischiate in questa storia: che non potranno più vivere, se non faranno giustizia. E, qualora ragioni politiche volessero che la giustizia venisse ritardata, si tratterebbe di una notizia falsa che servirebbe soltanto a rinviare l’epilogo inevitabile, aggravandolo ulteriormente. La verità è in cammino e niente la potrà fermare. Pubblicato su “Le Figaro” il 25 novembre 1897 

«Dreyfus è innocente!» Così Zola inventò l’intellettuale moderno. Scrive Vincenzo Vitale il 7 Agosto 2018 su "Il Dubbio".  Si dice affaire Dreyfus e dovrebbe dirsi affaire Zola. Infatti, se non ci fosse stato l’intervento determinante – nei modi che vedremo – del celebre scrittore francese Emile Zola, all’epoca già molto noto e apprezzato in tutta Europa, molto probabilmente il Capitano di artiglieria Albert Dreyfus sarebbe silenziosamente deceduto alla Caienna francese, seppellito dalla infamante accusa di spionaggio a favore dei tedeschi e ignoto ai più: archiviato lui stesso come un doloroso fatto di cronaca e null’altro. Invece, come è noto, fu Zola a fare, di Dreyfus, Dreyfus; vale a dire probabilmente il più clamoroso e discusso caso giudiziario della storia europea non solo della fine dell’ottocento francese, ma anche dei secoli precedenti e successivi. Tuttavia, non si tratta, come vedremo, soltanto di un caso giudiziario, per quanto importante e significativo; si tratta di qualcosa di più e di diverso: il caso Dreyfus si fa infatti cogliere come un autentico prisma di rifrazione che permette di scorgere ed interpretare le dinamiche profonde e perfino le scansioni antropologiche del tessuto sociale europeo della fine dell’ottocento, ma anche – ed è questo un aspetto di supremo interesse, in quanto non esclusivamente storiografico – di quello contemporaneo, in tutte le sue implicazioni politiche, giuridiche, umane e sociali. Insomma: conoscere e comprendere il passato per interpretare il presente. Nulla sollecita e propizia questa ben nota operazione culturale come il caso Dreyfus che qui si presenta. Innanzitutto, i fatti. Dopo la cocente sconfitta di Sedan del 2 settembre del 1870, ove lo stesso Napoleone III era stato fatto prigioniero, dopo che, a pochi giorni dalla caduta di Parigi del 18 gennaio 1871, era stato proclamato nella sala degli specchi di Versailles l’impero tedesco, la Francia, riedificata in Terza Repubblica, si era data nel 1875 una Costituzione. Ma il quadro politico e sociale, all’inizio dell’ultimo decennio del secolo, è quanto mai instabile e insicuro. L’eco del boulangismo ancora vivo ( movimento politico guidato dal generale Boulanger, che si prefiggeva di abbattere la Terza Repubblica con un colpo di stato militare), l’incapacità rivelata durante la guerra franco- prussiana, gli orrori della Comune di Parigi, la rapida successione di Ministeri deboli, la spiccata e violenta faziosità dei partiti, i ricorrenti e gravi scandali finanziari ( non ultimo quello di Panama) contribuiscono a fornire anche agli osservatori stranieri un’immagine della Francia come paese agonizzante. Forse la sola istituzione che sembri ancora salvarsi dallo sfacelo è l’esercito, da poco efficacemente riorganizzato ex novo da Charles de Freycinet, ministro della guerra fra il 1889 e il 1990. È ovvio perciò come in questa Francia le tensioni sociali, lievitando ormai in modo non controllabile, né potendosi più risolvere e conciliare in un conflitto verso l’esterno, esigano, per essere placate e per consentire il ritorno ai binari della normalità, delle vittime: la prima di queste ha nome Dreyfus. Lo esige la Ragion di Stato: per questo, la sorte di Alfred Dreyfus, capitano del 14° Reggimento di artiglieria, addetto allo Stato Maggiore generale del Ministero della Guerra, comandato al primo ufficio di artiglieria, quarantotto anni, coniugato, due figli, israelita, di origine alsaziana, era segnata. Fin dall’inizio. In questo quadro generale, non è difficile individuare i profili determinanti della vicenda di Dreyfus. Accusare Dreyfus di tradimento; condurlo sul banco degli imputati sulla sola base di un bordereau, contenente rivelazioni di segreti militari a favore dei tedeschi, ma in realtà di mano altrui; condannarlo alla degradazione e alla deportazione perpetua nell’Ile du Diable, sulla scorta di un documento che ne avrebbe provato la certa colpevolezza, ma che, essendo segretissimo, non viene mostrato neppure al difensore; assolvere, dopo soli tre minuti di camera di consiglio, il comandante Walsin- Esterhazy – il vero responsabile – solo allo scopo di non sconfessare l’operato del precedente collegio giudicante, che aveva già condannato Dreyfus; imprigionare il tenente colonnello Picquart, che aveva scoperto l’imbroglio, accusandolo di falso; indurre al suicidio il Maggiore Henry, l’autore sciagurato del documento falso adoperato per condannare Dreyfus… sono questi in tratti tipici di ogni persecuzione sociale – come bene individuati da René Girard – e Dreyfus ne è il capro espiatorio. E si tratta, come spesso accade, di una persecuzione giudiziaria, vale a dire messa in opera attraverso le forme del diritto e l’operato dei giudici: quanto di meglio per dissimulare sotto le specie della legalità formale, la più perfida e sconcertante delle iniquità. Allo scopo di perfezionare lo schema della persecuzione, occorrono alcuni elementi che sono qui presenti in modo paradigmatico. Il primo è che deve trattarsi di un’accusa che abbia un contenuto universalmente repellente, non suscettibile, tendenzialmente, di suscitare eccezioni o ripensamenti: infatti, Dreyfus viene accusato di spionaggio, reato spregevole di per sé, e che, nella Francia di fine ottocento, mette a repentaglio la sola istituzione ancora meritevole di credibilità, vale a dire l’esercito. Nessuno potrebbe permettersi di revocare in dubbio la necessità di condannare in modo esemplare il colpevole di un illecito così pericoloso e antinazionalista. Il secondo elemento consiste nella circostanza che l’accusato non può mai essere uno qualunque, uno di cui sia indifferente la qualità sociale, ma, al contrario, deve essere portatore di uno stigma che lo consegni ad una classe minoritaria ma identificabile di individui: il negro, il deforme, lo straniero. Infatti, Dreyfus è ebreo e, per giunta, di origine alsaziana. Quanto di meglio per sollecitare lo spregio dell’antisemitismo e del nazionalismo militarista di coloro che vedono negli ebrei la causa di ogni male e negli alsaziani – sempre a metà fra Germania e Francia – il germe di ogni tradimento. Infine, la persecuzione va dissimulata, preferibilmente nascosta dietro le forme rassicuranti del diritto e del processo, allo scopo di non svelare il meccanismo vittimario e persecutorio. Infatti, Dreyfus viene processato ben due volte, così come Zola imputato di diffamazione, ed essi vengono sempre condannati. Ed Esterhazy, il vero colpevole, viene addirittura assolto, dopo appena tre minuti di camera di consiglio. Tanto per non smentirsi. Orbene, il solo modo di contrastare i nefandi effetti della persecuzione sta nello svelamento dei meccanismi che la fanno funzionare: una persecuzione messa a nudo come strumento di violenza, svelata come persecuzione, si sgonfia come un palloncino senza più ossigeno, depotenziandosi in modo irreversibile. Occorre tuttavia qualcuno che si incarichi di questo svelamento: Emile Zola si assume questo compito difficile, scomodo, impopolare. Egli è il rivelatore. Anche del rivelatore della persecuzione si richiedono comunque precise caratteristiche, tutte ampiamente possedute da Zola: coraggio per opporsi alla massa della opinione pubblica e dei mezzi di comunicazione; sufficiente notorietà per trovare una platea di ascolto quanto più diffusa possibile; capacità soggettive di comunicazione universale. E infine, quella più importante: la passione per la verità del diritto, vale a dire per la giustizia. Così, Zola, scrivendo infuocati editoriali sulla stampa parigina in difesa dell’innocente Dreyfus e accusando i suoi carnefici, inaugura la figura dell’intellettuale in senso moderno. Si badi. Il termine “intellettuale” fino al settecento era stato sempre usato in senso aggettivale, non quale sostantivo, come oggi viene normalmente adoperato. Furono gli illuministi francesi a propiziare questo nuovo uso del termine, a partire da Diderot, il quale, nella sua celebre Lettre sur la liberté de la presse, segna probabilmente il transito dal clericus tardo medievale all’intellettuale in senso moderno.

Si badi ancora a non confondere l’intellettuale con il filosofo o con il pensatore: costoro certamente pensano in modo originale, ma non sempre rivestono il ruolo del vero intellettuale. Questi è invece caratterizzato dal collocarsi sempre all’opposizione di ogni potere che, mettendo fra parentesi le ragioni del diritto – e perciò della giustizia – voglia manifestarsi quale pura sopraffazione: il potere economico, quello politico, quello ideologico, quello comunicativo, quello giudiziario, quello della mafia e anche (come insegna Sciascia) quello dell’antimafia. L’intellettuale, identificandosi non con uno status personale, ma con un ruolo sociale, si presenta perciò come il “demistificatore delle accuse”, colui che svela pubblicamente il meccanismo persecutorio, opponendosi al potere violento che di volta in volta sia capace di attivarne i percorsi. Ecco perché Zola si colloca agli antipodi sia dall’intellettuale organico caro a Gramsci o a Lenin (l’intellettuale al servizio del potere); sia da quello che – secondo la lezione, di matrice platonica, di Fichte – indichi al potere il traguardo da raggiungere (il potere al servizio dell’intellettuale); sia da quello sdegnosamente rinchiuso, secondo la lezione di Max Weber, nella turris eburnea del suo sapere (l’intellettuale al servizio di se stesso). Zola, infatti, è al servizio esclusivamente della verità e della giustizia. In tal modo, egli si colloca all’opposizione sia dell’esercito, minacciato dalle sue rivelazioni; sia dei Consigli dei giudici militari che avevano condannato l’innocente Dreyfus e assolto il colpevole Esterhazy; sia dei ministri che tali nefandezze avevano propiziato e coperto; sia dei nazionalisti e conservatori, che lo consideravano un pericolo pubblico; sia perfino dei socialisti, perché di origine borghese; nonché della borghesia, perché egli non esita a criticarla. Insomma, dicendo la verità sul caso Dreyfus, Zola attira su di sé le veementi reazioni di tutti, al punto da essere condannato per diffamazione e dover riparare a Londra. Si attua così il tipico “spostamento mimetico” – messo in luce dall’antropologia di Girard – in forza del quale, la violenza indirizzata verso il perseguitato viene spostata verso chi, demistificando l’accusa come persecutoria, diviene a sua volta un nuovo capro espiatorio. Impegnandosi in questo compito socialmente soteriologico, teso a demistificare l’accusa, Zola si colloca così in singolare continuità con il compito che dovrebbe essere proprio del giudice in uno Stato di diritto, anch’egli impegnato a demistificare le accuse non provate, cerebrine, fumose, non previste dal codice penale (si pensi al concorso esterno in associazione mafiosa): ma oggi purtroppo, in Italia, compito di rado condotto a buon fine. In ogni caso, Zola è stato ed ancora è il paradigma dell’intellettuale moderno, oggi forse in via di estinzione. Lo fu certamente Pasolini, del quale rimane indimenticabile la posizione assunta, dopo i fatti di Valle Giulia, attraverso i celebri versi dettati a difesa delle forze dell’ordine (i figli dei braccianti del Sud), aggrediti dai sessantottini rivoluzionari (i figli della opulenta borghesia del Nord); o, ancora, quella assunta contro l’aborto come pratica legalizzata: «Se tutti gli uomini sono stati embrioni, perché non tutti gli embrioni possono diventare uomini?», si chiedeva Pasolini. Lo fu certamente Sciascia che denunciò il potere, sottratto ad ogni critica, del quale certa antimafia può impunemente usare. Grandinarono su entrambi ovviamente reprimende, accuse, censure, da stolidi e saccenti alfieri del nulla, sedicenti custodi dell’etica pubblica. Altri in Italia, nell’Italia di oggi, potrebbero e dovrebbero assumere quel ruolo. Ma, come sopra rilevato, ci vorrebbe coraggio. E, come tutti sappiamo, il coraggio chi non l’ha non se lo può dare.

Scheurer-Kestner interviene e da quel momento si accese una fiammella di verità. Sul finire del 1897, Zola non può fare a meno di constatare che il vicepresidente del Senato Auguste Scheurer- Kestner, è roso dal dubbio che Dreyfus possa essere innocente, scrive Vincenzo Vitale il 9 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Nel 1894, quando ha inizio il caso Dreyfus, attraverso il casuale ritrovamento in un cestino dei rifiuti da parte di una addetta alle pulizie – che poi alcuni dissero essere membro del controspionaggio – di un bordereau contenente rivelazioni militari destinate agli odiati tedeschi, Emile Zola, scrittore già molto conosciuto e molto apprezzato in tutta Europa, si trova a Roma. Fa ritorno in Francia solo alla fine dell’anno ed è perciò naturale che non abbia avuto notizia sufficiente di quanto accaduto durante il suo soggiorno italiano. Ecco perché il primo intervento giornalistico di Zola, qui pubblicato, si colloca soltanto nel novembre del 1897, quando già le prime parti del dramma sono state abbondantemente consumate. Sulla scorta di quel documento strumentalmente attribuito a Dreyfus, questi viene arrestato nell’ottobre del 1894 e sommariamente giudicato, subendo una condanna che da tutti si esigeva esemplare: degradazione e deportazione perpetua all’Isola del diavolo, nella Caienna francese. Prove a carico: nessuna. Tuttavia, la durezza della condanna era equivalente ad una condanna a morte che lentamente avrebbe consumato l’innocente Dreyfus, con lo stesso scorrere delle ore e dei giorni e, per giunta, sostenuta dalla esecrazione generale per il colpevole di un crimine così nefando. Un vero orrore. Ecco dunque che sul finire del 1897, Zola non può fare a meno di constatare che il vicepresidente del Senato Auguste Scheurer- Kestner, uomo probo e di cui tesse le lodi, è roso dal dubbio che Dreyfus possa essere innocente e che, poi, avendo egli conosciuto meglio i profili giudiziari del caso, di questa innocenza abbia raggiunto la certezza. Ragion per cui, scrive Zola: «Conosce la verità e ora deve fare giustizia». Scheurer- Kestner è un chimico, un industriale di successo, fiero oppositore di Napoleone III, di origine alsaziana, politico di razza. Ciò basta a mettere in chiaro due aspetti rilevanti. Innanzitutto, che non occorre essere giuristi professionisti per capire quando si metta in opera una persecuzione giudiziaria, destinata a sacrificare una vittima – allo scopo di garantire la minacciata coesione sociale – invece che a realizzare la giustizia. Scheurer- Kestner lo capisce semplicemente ascoltando senza pregiudizi il racconto a lui fatto dal fratello di Dreyfus, Mathieu, e dalla moglie, Lucie Hadamard: basta un po’ di normale buon senso. Inoltre, va notato che è proprio lui, in prima battuta, a subire lo spostamento mimetico proprio di ogni persecuzione. Infatti, su di lui – alsaziano come Dreyfus – cadono, in questo momento, gli strali dei benpensanti, di quelli che sono certi, certissimi della colpevolezza di Dreyfus, ma che ovviamente si rifiutano ostinatamente di pensare, ritenendo il pensiero e il suo esercizio compiti che possono bene essere affidati ad altri, incaricati di pensare per tutti. Qualche anno dopo, un altro vero intellettuale, Karl Kraus, scrivendo dal cuore profondo dell’Europa, la regale Vienna, l’avrebbe icasticamente chiarito nei suoi Detti e contraddetti: «Tutta la vita dello Stato e della società è fondata sul tacito presupposto che l’uomo non pensi. Una testa che non si offra in qualsiasi situazione come un capace spazio vuoto non avrà vita facile nel mondo». E dunque, nel bel mezzo di milioni di individui dalla testa vuota che intendono custodire la facilità della propria vita, Scheurer- Kestner preferisce avere una vita difficile, pur di pensare; e, pensando, non può evitare di dire la verità e cioè che Dreyfus è stato condannato da perfetto innocente. Zola viene attratto proprio da questo aspetto e perciò, senza ancora voler trattare esplicitamente dell’affaire, assume le difese dell’uomo politico, in vario modo sospettato, accusato dagli anti- dreyfusard di demenza senile e perfino di essersi fatto comprare dagli ebrei che avrebbero sborsato una bella somma allo scopo. Follie, assurdità, veleni contro la ragione dettati da un becero antisemitismo e da un nazionalismo cieco, grida Zola. Questi, dal canto suo, non è certo nuovo ad assumere posizioni oppositive. Basti pensare a quando, nel 1866, appena ventiseienne, ancora squattrinato, ma incaricato da parte del quotidiano L’Evénement – di proprietà del celebre Le Figaro – di seguire le mostre pittoriche del Salon parigino, stronca letteralmente la paludata giuria dell’esposizione, prigioniera di vetusti schemi accademici. Egli assume le difese criticamente fondate di coloro che saranno chiamati poi “impressionisti”: Edouard Manet – la cui Colazione sull’erba giudica un capolavoro – Claude Monet, Pisarro e Cèzanne, di cui diviene grande amico. Si attira così le ire dei benpensanti, di coloro che preferivano la pittura manieristica e odiavano le opalescenze impressionistiche come traviamenti dell’anima e della mente. Ma Zola non cede. Risultato: l’editore, travolto dalle polemiche, è costretto a sospendere la rubrica tenuta da Zola e questi resta disoccupato e senza un soldo. È appena il caso di ricordare che la storia si assumerà il compito di consacrare definitivamente gli impressionisti, difesi da Zola, seppellendo nell’oblio i suoi critici. Ecco perchè lo scrittore sa bene – quando prende le difese di Scheurer- Kestner – che dire la verità esige sempre un prezzo, a volte molto alto. Ma sa anche che – come recita la chiusa di questo articolo – «la verità è in cammino e niente la potrà fermare».

«La caccia all’ebreo traditore». Scrive Émile Zola su “Le Figaro” il primo dicembre 1897 ripubblicato il 12 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Contavo di scrivere per Le Figaro tutta una serie di articoli sul caso Dreyfus, un’intera campagna, via via che gli avvenimenti si fossero svolti. Per caso, durante una passeggiata, ne avevo incontrato il direttore, Fernand de Rodays. Ci eravamo messi a discorrere, accalorandoci, proprio in mezzo ai passanti, e da lì era nata bruscamente la mia decisione di offrirgli degli articoli, avendolo sentito d’accordo con me. Mi trovavo così impegnato, quasi senza volerlo. Aggiungo, tuttavia, che prima o poi ne avrei parlato, poiché tacere mi era impossibile. Non dimentichiamo con quale vigore Le Figaro cominciò e soprattutto finì per sposare la causa. Il concetto è noto. Ed è di una bassezza e di una stupidità semplicistica, degne di quelli che l’hanno immaginato. Il capitano Dreyfus viene condannato da un tribunale militare per alto tradimento. Da quel momento, diventa il traditore, non più un uomo ma un’astrazione, colui che incarna l’idea della patria sgozzata, venduta al nemico vincitore. Non si tratta solo di tradimento presente e futuro, rappresenta pure il tradimento passato, poiché a lui si ascrive l’antica sconfitta, nell’ostinata convinzione che solo il tradimento abbia potuto far sì che fossimo battuti. Ecco quindi l’anima nera, il personaggio abominevole, la vergogna dell’esercito, il bandito che vende i fratelli, proprio come Giuda ha venduto il suo Dio. E, trattandosi di un ebreo, è semplicissimo: gli ebrei che sono ricchi e potenti e senza patria, del resto, lavoreranno sott’acqua, con i loro milioni, per toglierlo dai guai; compreranno le coscienze e tesseranno attorno alla Francia un complotto esecrabile pur di ottenere la riabilitazione del colpevole, pronti a sostituirgli un innocente. La famiglia del condannato, anch’essa ebrea, naturalmente, entra nell’affare. Affare sì, poiché è a peso d’oro che si tenterà di disonorare la giustizia, d’imporre la menzogna, di sporcare un popolo con la più impudente delle campagne. Il tutto per salvare un ebreo dall’infamia e sostituirlo con un cristiano. Insomma, si crea quasi un consorzio finanziario. Vale a dire che alcuni banchieri si riuniscono, mettono dei fondi in comune, sfruttano la credulità pubblica. Da qualche parte, c’è una cassa che paga per tutto il fango smosso. C’è una vasta impresa tenebrosa, uomini mascherati, forti somme consegnate di notte, sotto i ponti, a degli sconosciuti, ci sono grandi personaggi da corrompere, pagandone a prezzi folli l’antica onestà. E a poco a poco questo sindacato si allarga, finisce per essere un’organizzazione potente, nell’ombra, tutta una spudorata cospirazione per glorificare il traditore e per annegare la Francia sotto una marea d’ignominia. Esaminiamolo, questo sindacato. Gli ebrei si sono arricchiti, e sono loro a pagare l’onore dei complici, profumatamente. Mio Dio, chissà quanto avranno già speso! Ma, se sono arrivati appena a una decina di milioni, capisco benissimo che li abbiamo sacrificati. Siamo di fronte a cittadini francesi, nostri uguali e nostri fratelli, che l’antisemitismo imbecille trascina quotidianamente nel fango. Si è tentato di schiacciarli per mezzo del capitano Dreyfus; del crimine di uno di loro, si è cercato di fare il crimine di un’intera razza. Tutti traditori, tutti venduti, tutti da condannare. E volete che gli stessi non protestino furiosamente, non cerchino di discolparsi, di restituire colpo su colpo in questa guerra di sterminio della quale sono oggetto? Va da sé, naturalmente, che si augurino con tutto il cuore di vedere risplendere l’innocenza del loro correligionario; e se la riabilitazione appare loro possibile, chissà con quanto ardore si staranno impegnando per ottenerla. Ciò che mi lascia perplesso è che, se esiste uno sportello dove si va a riscuotere, non ci sia nel sindacato qualche autentico briccone. Vediamo un po, voi li conoscete bene: come si spiega che il tale, o il tal altro, o il tal altro ancora, non lo siano? E’ incredibile, ma tutta la gente che si dice gli ebrei abbiano comprato gode di una solida reputazione di probità. C’è forse un fondo di civetteria? Forse, gli ebrei vogliono soltanto merce rara, essendo disposti a pagarla? Io, però, dubito molto di questo sportello, anche se sarei prontissimo a giustificare gli ebrei qualora, portati all’esasperazione, si difendessero con i loro milioni. In un massacro, ognuno si serve di quello che ha. E parlo di loro con la massima tranquillità perché non li amo e non li odio. Non ho amici ebrei particolarmente vicini al mio cuore. Per me sono uomini, e tanto basta. Ma per la famiglia del capitano Dreyfus è ben diverso, e qui se qualcuno non comprendesse, non s’inchinasse, sarebbe un cuore davvero arido. Sia ben chiaro! tutto il suo oro, tutto il suo sangue, la famiglia ha il diritto e il dovere di offrirlo, se crede innocente il suo rampollo. Quella è una soglia sacra che nessuno ha il diritto di insozzare. In quella casa che piange, dove c’è una moglie, dei fratelli, dei genitori in lutto, è d’obbligo entrare con il cappello in mano; e soltanto gli zotici si permettono di parlare ad alta voce e mostrarsi insolenti. Il fratello del traditore! è l’insulto che si getta in faccia a quel fratello. Sotto quale morale, sotto quale Dio viviamo, mi chiedo, perché ciò sia possibile, perché la colpa di uno dei componenti venga rimproverata a tutta la famiglia? Non c’è niente di più vile, di più indegno della nostra cultura e della nostra generosità. I giornali che ingiuriano il fratello del capitano Dreyfus, solo perché ha fatto il suo dovere, sono un’onta per la stampa francese. E chi mai doveva parlare, se non lui? E’ compito suo. Quando la sua voce si è levata a chiedere giustizia, nessuno più aveva il diritto d’intervenire, si sono fatti tutti da parte. Lui solo aveva la veste per sollevare la spinosa questione di un possibile errore giudiziario, della verità su cui far luce, una verità lampante. Hanno un bell’accumulare ingiurie, nessuno potrà oscurare il concetto che la difesa dell’assente l’hanno in mano quelli del suo sangue, che hanno conservato la speranza e la fede. E la prova morale più forte in favore dell’innocenza del condannato è proprio la convinzione incrollabile di un’intera e onorata famiglia, di una probità e di un patriottismo senza macchia. Poi, dopo gli ebrei fondatori, dopo la famiglia che ne è a capo, vengono i semplici membri del sindacato, quelli che si sono fatti comprare. Due tra i più anziani sono Bernard Lazare e il comandante Forzinetti. In seguito, sono venuti Scheurer- Kestner e Monod. Ultimamente, si è scoperto il colonnello Picquart, senza contare Leblois. E spero bene, dopo il mio primo articolo, di far parte pure io della banda. Del resto, appartiene al sindacato, viene tacciato d’essere un malfattore e d’essere stato pagato, chiunque, ossessionato dall’agghiacciante brivido di un possibile errore giudiziario, si permetta di volere che sia fatta la verità, in nome della giustizia. Siete stati voi a volerlo, a crearlo, questo sindacato. Voi tutti che contribuite a questo spaventoso caos, voi falsi patrioti, antisemiti sbraitanti, semplici sfruttatori della pubblica sconfitta. La prova non è forse completa, di una luminosità solare? Se ci fosse stato un sindacato, ci sarebbe stata un’intesa; e dov’è l’intesa? E’ semplicemente nato in alcune coscienze, all’indomani della condanna, un senso di malessere, un dubbio, di fronte all’infelice che grida a tutti la sua innocenza. La crisi terribile, la pubblica follia alla quale assistiamo, è sicuramente partita da lì, dal lieve brivido rimasto negli animi. Ed è il comandante Forzinetti l’uomo di quel brivido che tanti altri hanno provato, quello che ce ne ha fatto un racconto così cocente. Poi, c’è Bernard Lazare. Preso dal dubbio, lavora a far luce. La sua inchiesta solitaria si svolge però in mezzo a tenebre che gli è impossibile diradare. Pubblica un opuscolo, ne fa uscire un secondo alla vigilia delle sue rivelazioni di oggi; e la prova che lavorava da solo, che non era in relazione con nessun altro membro del sindacato, è che non ha saputo, non ha potuto dire niente della verità vera. Un sindacato proprio strano, i cui membri si ignorano! C’è poi Scheurer- Kestner, a sua volta torturato dal bisogno di verità e di giustizia, e che cerca, tenta di arrivare a una certezza, senza sapere niente dell’inchiesta ufficiale ufficiale, dico – che contemporaneamente veniva svolta dal colonnello Picquart, messo sulla buona strada dalle sue stesse funzioni presso il ministero della Guerra. C’è voluto un caso, un incontro, come si saprà in seguito, perché i due uomini che non si conoscevano, che lavoravano ognuno per conto proprio alla stessa opera, finissero all’ultimo momento per raggiungersi e procedere fianco a fianco. La storia del sindacato è tutta qui: uomini di buona volontà, di verità e di equità, partiti dai quattro punti cardinali, senza conoscersi e lavorando a leghe di distanza, ma incamminati tutti verso uno stesso fine, procedendo in silenzio, esplorando il terreno e convergendo tutti un bel mattino verso lo stesso punto d’arrivo. Com’era inevitabile, si sono trovati tutti e presi per mano a quel crocevia della verità, a quel fatale appuntamento della giustizia. Come vedete siete voi che, ora, li riunite, li costringete a serrare i ranghi per dedicarsi a un medesimo sforzo sano e onesto, questi uomini che voi coprite d’insulti, che accusate del più nero complotto, quando miravano unicamente a un’opera di suprema riparazione. Dieci, venti giornali, ai quali si mescolano le passioni e gli interessi più diversi, una stampa ignobile che non posso leggere senza che mi si spezzi il cuore per lo sdegno, non ha cessato, come dicevo, di convincere il pubblico che un sindacato di ebrei fosse impegnato nel più esecrabile dei complotti, acquistando le coscienze a peso d’oro. Lo scopo era in un primo momento quello di salvare il traditore e sostituirlo con un innocente; poi, quello di disonorare l’esercito, di vendere la Francia come nel 1870. Sorvolo sui romanzeschi par- ticolari della tenebrosa macchinazione. E questa opinione, lo riconosco, è diventata quella della grande maggioranza del pubblico. Quante persone ingenue mi hanno avvicinato in questi otto giorni, per dirmi con aria stupefatta: «Come! Dite che Scheurer- Kestner non è un bandito? e anche voi vi mettete con quella gentaglia? Ma non lo sapete che hanno venduto la Francia?». Il cuore mi si stringe per l’angoscia, perché so bene che una simile perversione dell’opinione pubblica rende molto facile imbrogliare le carte. E il peggio è che i coraggiosi sono rari, quando c’è da andare controcorrente. Quanti ti mormorano all’orecchio di essere convinti dell’innocenza del capitano Dreyfus, ma che non se la sentono di assumere un atteggiamento pericoloso, nella mischia! Dietro l’opinione pubblica, sulla quale contano naturalmente di potersi appoggiare, ci sono gli uffici del ministero della Guerra. Non voglio parlarne, oggi, perché ancora spero che giustizia sarà fatta. Ma chi non si rende conto che siamo di fronte alla cattiva volontà più cocciuta? Non si vuole riconoscere di aver commesso degli errori e, vorrei dire, delle colpe. Ci si ostina a coprire i personaggi compromessi e si è pronti a tutto, pur di evitare il tremendo repulisti. E la cosa è talmente grave, che gli stessi che hanno in mano la verità, dai quali si esige furiosamente che la dicano, esitano, aspettano a gridarla pubblicamente, nella speranza che la stessa si imponga da sé e che venga loro risparmiato il dolore di doverla dire. Ma è pur sempre una verità quella che, da oggi, io vorrei diffondere in tutta la Francia. Ossia che si è sul punto di farle commettere, a lei che è la giusta, la generosa, un autentico crimine. Non è più la Francia, dunque, perché si possa ingannarla a tal punto, aizzarla contro un infelice che, da tre anni, espia, in condizioni atroci, un crimine che non ha commesso? Sì, esiste laggiù, in un’isola sperduta, sotto un sole spietato, un essere che è stato separato dai suoi simili. E non solo il mare lo isola, ma undici guardiani lo circondano notte e giorno come una muraglia vivente. Undici uomini sono stati immobilizzati per sorvegliarne uno solo. Mai assassino, mai pazzo furioso è stato murato in modo così totale. E l’eterno silenzio e la lenta agonia sotto l’esecrazione di una nazione intera! Osereste dire, ora, che quest’uomo non è colpevole? Ebbene, è proprio quello che affermiamo, noi, gli appartenenti al sindacato. E lo diciamo alla Francia e ci auguriamo che prima o poi ci ascolti poiché sempre essa si infervora per le cause giuste e belle. Le diciamo che noi vogliamo l’onore dell’esercito, la grandezza della nazione. E’ stato commesso un errore giudiziario e, finché non sarà riparato, la Francia soffrirà, malaticcia, come per un cancro segreto che corrode a poco a poco le armi. E se, per farla ritornare sana, è necessario ricorrere al bisturi, si faccia! Un sindacato per agire sull’opinione pubblica, per guarirla dalla demenza in cui l’ha gettata certa ignobile stampa, per riportarla alla sua fierezza, alla sua secolare generosità. Un sindacato per ripetere ogni mattina che le nostre relazioni diplomatiche non sono in gioco, che l’onore dell’esercito non è affatto in causa, che solo alcune individualità possono essere compromesse. Un sindacato per dimostrare che qualsiasi errore giudiziario è riparabile, e che perseverare in un errore del genere, con il pretesto che un consiglio di guerra non può sbagliarsi, è la più mostruosa delle ostinazioni, la più spaventosa delle infallibilità. Un sindacato per condurre una campagna fino a che verità sia detta, fino a che giustizia sia resa, al di là di tutti gli ostacoli, quand’anche occorressero ancora anni di lotta. Sì, di questo sindacato faccio parte anch’io e spero tanto che voglia farne parte tutta la brava gente di Francia! Articolo Pubblicato su “Le Figaro” il primo dicembre 1897 

Io accuso quel colonnello diabolico. Il celeberrimo articolo intitolato J’Accuse nel quale Emile Zola elenca i nomi dei responsabili della macchinazione giudiziaria contro Alfred Dreyfus. Scrive Émile Zola sul quotidiano «L’Aurore» il 13 gennaio 1898 e ripubblicato il 15 Agosto 2018 su "Il Dubbio". «Monsieur le Président, permettetemi, grato, per la benevola accoglienza che un giorno mi avete fatto, di preoccuparmi per la Vostra giusta gloria e dirvi che la Vostra stella, se felice fino ad ora, è minacciata dalla più offensiva ed inqualificabile delle macchie. Avete conquistato i cuori, Voi siete uscito sano e salvo da grosse calunnie. Apparite raggiante nell’apoteosi di questa festa patriottica che l’alleanza russa ha rappresentato per la Francia e Vi preparate a presiedere al trionfo solenne della nostra esposizione universale, che coronerà il nostro grande secolo di lavoro, di libertà e di verità. Ma quale macchia di fango sul Vostro nome, stavo per dire sul Vostro regno – soltanto quell’abominevole affare Dreyfus! Per ordine di un consiglio di guerra è stato scagionato Esterhazy, ignorando la verità e qualsiasi giustizia. È finita, la Francia ha sulla guancia questa macchia, la storia scriverà che sotto la Vostra presidenza è stato possibile commettere questo crimine sociale. E poiché è stato osato, oserò anche io. La verità, la dirò io, poiché ho promesso di dirla, se la giustizia, regolarmente osservata non la proclamasse interamente. Il mio dovere è di parlare, non voglio essere complice. Le mie notti sarebbero abitate dallo spirito dell’uomo innocente che espia laggiù nella più spaventosa delle torture un crimine che non ha commesso. Ed è a Voi signor presidente, che io griderò questa verità, con tutta la forza della mia rivolta di uomo onesto. In nome del Vostro onore, sono convinto che la ignoriate. E a chi dunque denuncerò se non a Voi, primo magistrato del paese? Per prima cosa, la verità sul processo e sulla condanna di Dreyfus. Un uomo cattivo, ha condotto e fatto tutto: è il luogotenente colonnello del Paty di Clam, allora semplice comandante. La verità sull’affare Dreyfus la saprà soltanto quando un’inchiesta legale avrà chiarito i suoi atti e le sue responsabilità. Appare come lo spirito più fumoso, più complicato, ricco di intrighi romantici compiacendosi al modo dei romanzi feuilletons, carte sparite, lettere anonime, appuntamenti in luoghi deserti, donne misteriose che accaparrano prove durante gli appuntamenti. È lui che immaginò di dettare l’elenco a Dreyfus, è lui che sognò di studiarlo in una parte rivestita di ghiaccio, è lui che il comandante Forzinetti ci rappresenta armato di una lanterna, volendo farsi introdurre vicino l’accusato addormentato, per proiettare sul suo viso un brusco raggio di luce e sorprendere così il suo crimine nel momento del risveglio. Ed io non ho da dire altro che se si cerca si troverà. Dichiaro semplicemente che il comandante del Paty di Clam incaricato di istruire la causa Dreyfus, come ufficiale giudiziario nel seguire l’ordine delle date e delle responsabilità, è il primo colpevole del terribile errore giudiziario che è stato commesso. L’elenco era già da tempo nelle mani del colonnello Sandherr direttore dell’ufficio delle informazioni, morto dopo di paralisi generale. Ebbero luogo delle fughe, carte sparivano come ne spariscono oggi e l’autore dell’elenco era ricercato quando a priori si decise poco a poco che l’autore non poteva essere che un ufficiale di stato maggiore e un ufficiale dell’artiglieria: doppio errore evidente che mostra con quale spirito superficiale si era studiato questo elenco, perché un esame ragionato dimostra che non poteva agire soltanto un ufficiale di truppa. Si cercava dunque nella casa, si esaminavano gli scritti come un affare di famiglia, un traditore da sorprendere dagli uffici stessi per espellerlo. E senza che voglia rifare qui una storia conosciuta solo in parte, entra in scena il comandante del Paty di Clam da quando il primo sospetto cade su Dreyfus. A partire da questo momento, è lui che ha inventato il caso Dreyfus, l’affare è diventato il suo affare, si fa forte nel confondere le tracce, di condurlo all’inevitabile completamento. C’è il ministro della guerra, il generale Mercier, la cui intelligenza sembra mediocre; c’è il capo dello stato maggiore, il generale de Boisdeffre che sembra aver ceduto alla sua passione clericale ed il sottocapo dello stato maggiore, il generale Gonse la cui coscienza si è adattata a molti. Ma in fondo non c’è che il comandante di Paty di Clam che li conduce tutti perché si occupa anche di spiritismo, di occultismo, conversa con gli spiriti. Non si potrebbero concepire le esperienze alle quali egli ha sottomesso l’infelice Dreyfus, le trappole nelle quali ha voluto farlo cadere, le indagini pazze, le enormi immaginazioni, tutta una torturante demenza. Ah! Questo primo affare è un incubo per chi lo conosce nei suoi veri dettagli! Il comandante del Paty di Clam, arresta Dreyfus e lo mette nella segreta. Corre dalla signora Dreyfus, la terrorizza dicendole che se parla il marito è perduto. Durante questo tempo, l’infelice si strappava la carne, gridava la sua innocenza. E la vicenda è stata progettata così come in una cronaca del XV secolo, in mezzo al mistero, con la complicazione di selvaggi espedienti, tutto ciò basato su una sola prova superficiale, questo elenco sciocco, che era soltanto una tresca volgare, che era anche più impudente delle frodi poiché i “famosi segreti” consegnati erano tutti senza valore. Se insisto è perché il nodo è qui da dove usciva più tardi il vero crimine, il rifiuto spaventoso di giustizia di cui la Francia è malata. […] Ma questa lettera è lunga signor presidente, ed è tempo di concludere. Accuso il luogotenente colonnello de Paty di Clam di essere stato l’operaio diabolico dell’errore giudiziario, in incoscienza, io lo voglio credere, e di aver in seguito difeso la sua opera nociva, da tre anni, con le macchinazioni più irragionevoli e più colpevoli. Accuso il generale Marcire di essersi reso complice, almeno per debolezza di spirito, di una delle più grandi iniquità del secolo. Accuso il generale Billot di aver avuto tra le mani le prove certe dell’inno- cenza di Dreyfus e di averle soffocate, di essersi reso colpevole di questo crimine di lesa umanità e di lesa giustizia, per uno scopo politico e per salvare lo stato maggiore compromesso. Accuso il generale de Boisdeffre ed il generale Gonse di essersi resi complici dello stesso crimine, uno certamente per passione clericale, l’altro forse con questo spirito di corpo che fa degli uffici della guerra l’arcata santa, inattaccabile. Accuso il generale De Pellieux ed il comandante Ravary di avere fatto un’indagine scellerata, intendendo con ciò un’indagine della parzialità più enorme, di cui abbiamo nella relazione del secondo un imperituro monumento di ingenua audacia…accuso i tre esperti in scrittura i signori Belhomme, Varinard e Couard, di avere presentato relazioni menzognere e fraudolente, a meno che un esame medico non li dichiari affetti da una malattia della vista e del giudizio. Accuso gli uffici della guerra di avere condotto nella stampa, particolarmente nell’Eclair e nell’Eco di Parigi, una campagna abominevole, per smarrire l’opinione pubblica e coprire il loro difetto. Accuso infine il primo consiglio di guerra di aver violato il diritto, condannando un accusato su una parte rimasta segreta, ed io accuso il secondo consiglio di guerra di aver coperto quest’illegalità per ordine, commettendo a sua volta il crimine giuridico di liberare consapevolmente un colpevole. Formulando queste accuse, non ignoro che mi metto sotto il tiro degli articoli 30 e 31 della legge sulla stampa del 29 luglio 1881, che punisce le offese di diffamazione. Ed è volontariamente che mi espongo. Quanto alla gente che accuso, non li conosco, non li ho mai visti, non ho contro di loro né rancore né odio. Sono per me solo entità, spiriti di malcostume sociale. E l’atto che io compio non è che un mezzo rivoluzionario per accelerare l’esplosione della verità e della giustizia. Ho soltanto una passione, quella della luce, in nome dell’umanità che ha tanto sofferto e che ha diritto alla felicità. La mia protesta infiammata non è che il grido della mia anima. Che si osi dunque portarmi in assise e che l’indagine abbia luogo al più presto. Aspetto. Vogliate gradire, signor presidente, l’assicurazione del mio profondo rispetto». Articolo pubblicato sul quotidiano «L’Aurore» il 13 gennaio 1898.

Quel giorno Zola schiaffeggiò il potere. Il coraggio dello scrittore che diventa giurista per fare il suo dovere da intellettuale: denunciare, scrive Vincenzo Vitale il 15 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Siamo così giunti all’apice della vicenda, al punto culminante dopo il quale nulla sarà più come prima. In data 11 gennaio 1898, il Consiglio di Guerra, appositamente convocato per giudicare la condotta di Esterhazy, dopo la denuncia presentata a suo carico da Mathieu Dreyfus, clamorosamente, lo assolve, con ciò implicitamente ma definitivamente confermando la colpevolezza di Alfred Dreyfus.La cosa inaccettabile e che fa subito intendere come questo verdetto sia stato dolosamente preordinato, sta nella circostanza che la camera di consiglio è durata soltanto tre minuti – dico tre minuti di orologio – e che la prova documentale della colpevolezza di Esterhazy non è stata neppure presa in considerazione. Ciò significa che questo secondo Consiglio di guerra sapeva già come decidere – cioè come non decidere – ancor prima della udienza e della camera di consiglio: era etero- diretto da coloro che avevano ordinato di assolvere Esterhazy, allo scopo di mettere una pietra tombale su Dreyfus. Zola non può allora che alzare la voce per denunciare questo scandalo, confezionando quello che è stato definito l’atto forse più rivoluzionario del secolo: il J’accuse.Ovviamente, occorre prima denunciare con forza le gravissime nefandezze commesse durante il processo a Dreyfus, anche per cercare di sollevare le coscienze di una opinione pubblica spesso distratta o, peggio, condizionata dalle voci di corridoio e da quelle della stampa popolare che, come abbiamo visto, era tutta schierata contro Dreyfus.Si può condannare un essere umano alla deportazione perpetua sulla scorta di un biglietto di origine molto incerta, tanto che, per esser considerato prova a carico, va corredato da altro documento, il quale, però, essendo segretissimo per ragioni di sicurezza nazionale, non viene mostrato a nessuno, neppure al difensore?Non solo. Ogni cosa viene imputata a Dreyfus: se conosce le lingue; se non le conosce; si turba, allora è prova del delitto; non si turba, allora è prova del suo professionismo delinquenziale… Siamo alla pura follia! Eppure è quello che accaduto.Malgrado ciò – osserva stupito Zola – i protagonisti di queste nefandezze riescono a dormire… Ma non basta. Il colonnello Picquart aveva raggiunto la prova certa della colpevolezza di Esterhazy, attraverso il reperimento di un telegramma a lui indirizzato da un agente straniero, mentre a casa dello stesso era stato reperito materiale propagandistico contro la Francia.Ma Esterhazy “doveva” essere assolto: e lo fu. Non si vuole qui sottrarre la necessaria attenzione con cui si invita illettore a meditare sul celebre scritto di Zola.La seconda parte non è che una sorta di crescendo rossiniano, col quale Zola inchioda ogni soggetto che ebbe parte in questa terribile vicenda alle proprie responsabilità.Zola opera qui, come si accennava prima, una vera e propria demistificazione dell’accusa, smascherando – e per questo è il rivelatore – la persecuzione giudiziaria alla quale era stato sottoposto l’innocente Dreyfus.Egli mostra in tal modo come ogni intellettuale – parola che va usata con parsimonia ed oculatezza– altro non sia che un vero “eretico”, in quanto capace di operare scelte personali e spesso scomode, di contro ad una opinione dominante e tendenzialmente totalizzante.Singolare e degna di nota la consonanza di significato individuabile fra questa vocazione dell’intellettuale a svolgere una funzione oppositiva del potere e la definizione – assai pregnante – che del giurista forniva qualche decennio or sono Salvatore Satta nei suoi indimenticabili Quaderni del diritto e della procedura civile.Per Satta, il giurista è colui che dice di no, colui che sa e ha il coraggio di dire di no a tutti coloro – e sono tanti – vorrebbero che invece dicesse si, collaborando o prestando acquiescenza alle persecuzioni sociali contro inermi innocenti, mistificate dall’involucro giuridico e processuale.Come dire insomma che ogni giurista, per restare fedele al suo ruolo, non può che svolgere una funzione oppositiva del potere, dedicandosi alla demistificazione delle accuse false e persecutorie, così acquisendo la veste di intellettuale; mentre, di converso, ogni intellettuale, destinato ad opporsi ereticamente al potere persecutorio, allo scopo di smascherarlo, non può non prestare attenzione alle vicende giuridiche e processuali della propria epoca, alla loro valenza profondamente umana, morale, politica.E per far questo non occorre la laurea in giurisprudenza. Basta non tenere gli occhi chiusi e farsi guidare dal normale buon senso: Dostoevski, pur studiando da ingegnere, mostrava più sensibilità giuridica e comprensione dei connessi problemi di tanti altri che avessero seguito studi di giurisprudenza, Zola non era che uno scrittore. Non era perciò un esperto di diritto, ma, per non far la fine miseranda di molti esperti di qualcosa – i quali mostrano di saper tutto, ma non capiscono nulla – si rifiutava di chiudere gli occhi.E, peccato ancor più grave, intendeva farsi guidare dal buon senso. In quella società – ma anche nella nostra – come dire di volersi suicidare.

L’odio antiebraico è il vero colpevole, scrive Vincenzo Vitale il 16 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Questo articolo, pubblicato pochi giorni dopo che il fratello di Deyfus, Mathieu, ha formalmente denunciato Esterhazy per il delitto di spionaggio, per il quale era stato ingiustamente condannato Alfred, segna una sorta di messa a punto operata da Zola. Infatti, lo scrittore, nutrendo una qualche riposta fiducia che il nuovo processo a carico di Esterhazy possa condurre al riconoscimento della innocenza di Dreyfus, sente il bisogno qui di chiarire la situazione come si era delineata fino a quel punto. Per il resto, scrive Zola, «Un nuovo Consiglio di Guerra è al lavoro… non resta che tacere e aspettare». Questo prudente atteggiamento di attesa non esenta tuttavia dal cercare di capire cosa sia accaduto nei periodi precedenti e come possa essere che un innocente sia finito alla deportazione perpetua. Zola individua così alcuni elementi determinanti della situazione. Innanzitutto, la stampa. Da un lato lo scrittore denuncia il comportamento della maggioranza dei giornali, da subito ostili a Dreyfus, ma in modo pregiudiziale. Sono soprattutto i giornali popolari a stimolare «passioni nefaste», conducendo campagne settarie e spingendo il pubblico dei lettori non a farsi una idea propria e indipendente, ma a schierarsi necessariamente contro il capitano ebreo. Un vero inquinamento sociale organizzato a tutti i livelli e, quel che è peggio, in perfetta buona fede. Ma è noto che di buona fede son lastricate le vie dell’inferno. Invece, la grande stampa nazionale – quella delle classi colti e della grande borghesia – ha fatto forse di peggio, registrando in modo anonimo tutto e il contrario di tutto, la verità come l’errore, indifferentemente. E tutto ciò spacciato per imparzialità, men- tre si tratta in modo evidente di una condotta pericolosamente pilatesca di evitare di dire la verità, che invece andrebbe gridata forte dai tetti. In secondo luogo, un elemento determinante è senza alcun dubbio l’antisemitismo, come dice Zola, “il vero colpevole”. E qui bisogna intendersi. Tutti siamo un po’ abituati a considerare patria dell’antisemitismo la Germania e, in particolare, quella nazista, dove in effetti si toccarono vertici di efferatezza difficilmente eguagliabili. Invece, l’origine dell’antisemitismo risa a periodi precedenti e comunque trova in Francia una delle sue espressioni più compiute e strabilianti. Non per nulla Isacco Pinto, un ebreo portoghese, in un suo commento alle opere di Voltaire, ne muove a questi un cauto ma fermo rimprovero. E Voltaire, in una lettera di risposta, datata 21 luglio 1762, pur riconoscendo il torto di avere attribuito «a tutto un popolo i vizi di molti individui», fa carico agli ebrei di essere irrimediabilmente superstiziosi, «e la superstizione è il più abominevole flagello della terra». Si può discutere a lungo sulla natura dell’antisemitismo voltaireano nel considerarlo dovuto solo a una radicata avversione al misticismo ebraico, sepolcro della ragione, o piuttosto a fobie, paradossalmente irrazionali, come quando, al capitolo VIII dell’Essais sur les moeurs, definisce gli ebrei «specie d’uomini inferiori». Resta il fatto che l’odio antiebraico scorre come una linfa segreta lungo tutto il corso della storia culturale francese (ed europea, come nota Léon Poliakov). Forse, eccettuato sicuramente Rousseau, pochi altri pensatori francesi del XVIII e del XIX secolo vanno esenti dal germe maligno dell’antisemitismo: per esempio, esso vegeta il Lamartine e (in tono velato) in Balzac; in Charles Fourier e in Proudhon. Ecco perché il processo che si sta celebrando a carico di Esterhazy viene visto da Zola come un processo all’antisemitismo, che, nella temperie culturale francese di fine secolo, si sposa con il patriottismo e con il militarismo, propiziando il nascere e l’affermarsi di una miscela esplosiva che, naturalmente, alligna più fra le classi medio- basse che nelle fasce più acculturate della popolazione. Il terzo elemento preso in esame da Zola è la presenza degli spettatori di questa grande tragedia nazionale ed europea, ciascuno depositario di una parte che svolge fino in fondo. Il risultato è un pantano di interessi, di passioni, di storie insulse e spesso inventate, di vergognosi pettegolezzi, ove il semplice buon senso «viene schiaffeggiato ogni mattina». Zola spera che il processo in quel momento in corso nei confronti di Esterhazy, davanti al secondo Consiglio di Guerra, riconoscendone la colpevolezza e scagionando perciò Dreyfus, torni a far prevalere il buon senso. Non sarà così. 

Povera Francia, sei tornata alle guerre di religione! Zola ringrazia il “coraggio” di “Le Figaro” per aver pubblicato i suoi articoli e attacca la stampa che “avvelena il popolo”. Scrive Émile Zola su “Le Figaro” il 5 dicembre 1897 e ripubblicato il 16 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Quello che leggerete è il terzo e ultimo articolo che mi fu permesso di dare a Le Figaro. Ho avuto persino qualche difficoltà a farlo passare e, come si vedrà, ritenni saggio congedarmi con lo stesso dal pubblico, intuendo che mi sarei trovato nell’impossibilità di continuare la mia campagna, che tanto turbava i lettori abituali del giornale. Riconosco perfettamente, a un giornale, la necessità di fare i conti con le abitudini e le passioni della sua clientela. Perciò, ogni volta che ho subito questo genere di battuta d’arresto, me la sono presa soltanto con me stesso, per essermi sbagliato sul terreno e sulle condizioni di lotta. Le Figaro si è dimostrato comunque coraggioso nell’accettare i miei tre articoli, e io lo ringrazio. Ah! quale spettacolo, dopo tre settimane, e quali tragici, indimenticabili giorni abbiamo attraversato! Non ne ricordo altri che abbiano suscitato in me tanta umanità, tanta angoscia e tanta generosa collera. Esasperato, ho vissuto nell’odio della stupidità e della malafede, a tal punto assetato di verità e di giustizia da riuscire a comprendere i grandi moti dell’anima che possono portare un placido borghese al martirio. In verità, si è trattato di uno spettacolo inaudito, che per brutalità, per sfrontatezza, per ammissioni ignobili andava al di là di tutto quello che di più istintivo e di più vile abbia mai confessato la belva umana. Un simile esempio di follia e di perversione da parte di una folla è raro ed è sicuramente per questo che, oltre a ribellarmi come uomo, mi sono tanto appassionato come romanziere, come drammaturgo, sconvolto dall’entusiasmo di fronte a un caso di così tremenda bellezza. Oggi, ecco, la storia entra nella fase regolare e logica, quella che abbiamo desiderato, che abbiamo incessantemente chiesto. Un tribunale militare è all’opera, il nuovo processo ha come scopo la verità, e noi ne siamo convinti. Non abbiamo mai voluto altro. Non resta, ora, che ta- cere e aspettare, perché non siamo noi a doverla dire, la verità, è il Consiglio di guerra che la deve accertare, renderla lampante. E non ci sarà un nostro nuovo intervento, a meno che essa non ne esca incompleta ed è un’ipotesi del tutto inammissibile. Ma, essendo terminata la prima fase, vero caos in piena tenebra, vero scandalo in cui tante coscienze sporche si sono messe a nudo, dev’esserne redatto il processo verbale, bisogna trarne le conclusioni. Perché, nella profonda tristezza delle constatazioni che si impongono, c’è l’ammaestramento virile, il ferro rovente con cui si cauterizzano le piaghe. Riflettiamoci: l’orrendo spettacolo che abbiamo appena dato a noi stessi deve guarirci. Per cominciare, la stampa. Abbiamo visto la stampa scadente in fregola, intenta a battere moneta con le curiosità malsane, a guastare la folla per vendere le denigrazioni dei suoi scribacchini, che non trovano più compratori da quando la nazione è calma, sana e forte. Sono soprattutto i facinorosi nella sera, i giornali di tolleranza che adescano i passanti con i loro titoli a caratteri cubitali, promettendo dissolutezza. Facevano il loro commercio abituale, ma con un’impudenza significativa. Abbiamo visto, un gradino più su, i giornali popolari, i giornali da un soldo, quelli che si rivolgono alla massa e che formano l’opinione dei più, rinfocolare passioni atroci, condurre furiosamente una campagna di settari, uccidendo nel nostro caro popolo di Francia ogni generosità, ogni desiderio di verità e di giustizia. Voglio credere alla loro buona fede. Ma quale tristezza, questi cervelli di polemisti invecchiati, di agitatori dementi, di patrioti meschini che, diventati conduttori di uomini, commettono il più nero dei crimini, quello di ottenebrarne la coscienza pubblica e di fuorviare un intero popolo! Quest’impresa è tanto più esecrabile quando è condotta, come in certi giornali, con una bassezza di mezzi, un’abitudine alla menzogna, alla diffamazione e alla delazione che rimarranno l’onta più grande della nostra epoca. Infine, abbiamo visto la grande stampa, la stampa detta seria e onesta, assistere a tutto questo con un’impassibilità, direi quasi una serenità stupefacente. Questi giornali onesti si sono accontentati di registrare tutto con cura scrupolosa, la verità come l’errore. Hanno lasciato che il fiume avvelenato scorresse, senza mettere un solo abominio. Sì, certo, questa è imparzialità. Però, a stento qua e là una timida valutazione, e non una sola voce alta e nobile, non una, capite? che si sia alzata da questa stampa onesta, per schierarsi dalla parte dell’umanità, dell’equità oltraggiata! E abbiamo visto soprattutto – poiché in mezzo a tanti orrori è sufficiente scegliere il più ripugnante – abbiamo visto la stampa, quella ignobile, continuare a difendere un ufficiale francese che aveva insultato l’esercito e sputato sulla nazione. Non basta! Abbiamo visto giornali che lo scusavano, altri che gli infliggevano il loro biasimo, sì, ma con qualche riserva. Ma come! Non c’è stato un grido unanime di rivolta e di esecrazione! Che cos’è mai accaduto perché un crimine che in un altro momento avrebbe sollevato la coscienza pubblica in un bisogno furente di immediata repressione, abbia potuto trovare delle circostanze attenuanti in quegli stessi giornali tanto suscettibili in tema di fellonia e di tradimento? L’abbiamo visto, ripeto. E ignoro cosa abbia prodotto un sintomo come questo sugli altri spettatori, visto che nessuno parla, nessuno s’indigna. So che, per quanto mi riguarda, mi ha fatto rabbrividire, poiché rivela con inaspettata violenza la malattia di cui soffriamo. La stampa ignobile ha divorato la nazione e un accesso di quella perversione, di quella corruzione in cui essa l’ha gettata, ha finito per mettere l’ulcera completamente a nudo. L’antisemitismo, ora. È il vero colpevole. Ho già detto come questa campagna barbara, che ci riporta indietro di secoli, offenda il mio bisogno di fraternità, la mia passione per la tolleranza e l’emancipazione umana. Ritornare alle guerre di religione, ricominciare le persecuzioni religiose, volere lo sterminio tra le razze, sono cose di un’assurdità tale, nel nostro secolo di affrancamento, che un simile tentativo mi sembra soprattutto imbecille. Non poteva nascere che da un cervello fumoso e squilibrato di credente, che da una grande vanità di scrittore rimasto a lungo sconosciuto e desideroso di recitare una parte a tutti i costi, sia pure odiosa. E non voglio ancora credere che un movimento del genere possa davvero prendere un’importanza decisiva in Francia, in questo paese di libero esame, di bontà fraterna e di limpida ragione. Eppure, assistiamo a misfatti terribili, devo confessare che il male è gravissimo. Il veleno è nel popolo, anche se il popolo non è tutto avvelenato. Dobbiamo all’antisemitismo la pericolosa virulenza che gli scandali di Panama hanno preso qui da noi. E questo penoso caso Dreyfus è tutta opera sua: soltanto l’antisemitismo ha reso possibile l’errore giudiziario e sconvolto oggi la folla, impedendo che quell’errore venga tranquillamente e nobilmente riconosciuto, per la nostra integrità eil nostro buon nome. Non c’era niente di più semplice e di più naturale del fare luce sulla verità, appena sorti i primi seri dubbi; come si può non capire che, perché si sia arrivati alla pazzia furiosa in cui ci troviamo, è giocoforza che ci sia un veleno nascosto che ci fa delirare tutti? Questo veleno è l’odio feroce contro gli ebrei che ogni mattina, da anni, viene versato al popolo. Sono una banda, quelli che fanno questo mestiere di avvelenatori, e il bello è che lo fanno in nome della morale, in nome di Cristo, atteggiandosi a vendicatori e a giustizieri. E chi ci dice che sul Consiglio di guerra non abbia agito l’ambiente stesso in cui esso deliberava? Un ebreo traditore che vende il suo paese, la cosa va da sé. E se anche non si trova alcuna ragione umana che spieghi il crimine, se anche l’imputato è ricco, savio, lavoratore, senza passioni e con una vita impeccabile, non basta forse il fatto che sia ebreo? Oggi, da quando cioè chiediamo che si faccia luce, l’atteggiamento dell’antisemitismo è ancora più violento, più tracotante. E’ il suo processo, quello che si sta per istruire, e che schiaffo sarebbe per gli antisemiti qualora l’innocenza di un ebreo trionfasse! Un ebreo innocente. Possibile? Crolla tutta un’impalcatura di bugie, subentra l’aria pura, la buona fede, l’equità, ed è la rovina per una setta che agisce sulla folla degli ingenui solamente in forza dei suoi eccessi ingiuriosi e dell’impudenza delle sue calunnie. Ed ecco cos’altro abbiamo visto: il furore di questi malfattori pubblici al solo pensiero che si possa fare un po di luce. E inoltre, ahimè, abbiamo visto lo smarrimento della folla che costoro hanno pervertito, e tutta questa opinione pubblica sconvolta, tutto questo caro popolo di umili e di semplici, che oggi si scaglia contro gli ebrei e che domani farebbe una rivoluzione per liberare il capitano Dreyfus, se qualche onest’uomo lo infiammasse del fuoco sacro della giustizia. Infine, gli spettatori, gli attori, voi e io, noi tutti. Quale confusione, quale pantano accresciuto di continuo! Abbiamo visto infervorarsi di giorno in giorno la mischia delle passioni e degli interessi, e poi storie insulse, pettegolezzi vergognosi, smentite di inaudita impudenza, il semplice buon senso venire preso a schiaffi ogni mattina, il vizio acclamato, la virtù zittita, insomma l’agonia di tutto quello che costituisce l’onore e la gioia di vivere. Si è finito per odiarlo, tutto questo, certo! Ma chi aveva voluto questo stato di cose, chi lo trascinava per le lunghe? I nostri capi, quelli che, avvertiti da più di un anno, non osavano far niente. Inutile supplicarli, inutile preconizzare loro, fase per fase, la tremenda tempesta che si stava addensando. L’inchiesta l’avevano già fatta; l’incartamento l’avevano tra le mani. Ma fino all’ultima ora, nonostante le suppliche, si sono intestarditi nella loro inerzia, piuttosto che prendere in mano la situazione, per limitarla, a rischio di sacrificare subito le individualità compromesse. Il fiume di fango è straripato, com’era stato loro predetto, ed è colpa loro. Abbiamo visto energumeni trionfare con l’esigere la verità da quelli che dicevano di saperla, quando questi non potevano dirla finché c’era in corso un’inchiesta. La verità è stata detta al generale incaricato dell’inchiesta, e a lui soltanto è affidata la missione di farla conoscere. La verità sarà inoltre detta al giudice istruttore, e lui soltanto ha la veste per ascoltarla e per basare sulla stessa il suo atto di giustizia. La verità! che concezione ne avete, in un’avventura come questa, che scuote tutta un’organizzazione decrepita, per credere che sia un oggetto semplice e maneggevole, da tenere nel cavo della mano e da mettere quando si vuole in mano ad altri, come se fosse un sasso o una mela? La prova, ah sì, la prova che si pretendeva, immediata, come i bambini pretendono che si mostri loro il vento che passa. Siate pazienti e la vedrete splendere, la verità; ma occorrerà in ogni caso un po d’intelligenza e di probità morale. Abbiamo visto sfruttare vilmente il patriottismo, agitare lo spettro dello straniero in una questione d’onore che riguarda unicamente la famiglia francese. I peggiori rivoluzionari hanno gridato che si insultavano l’esercito e i suoi capi, quando, com’è giusto, si chiede solo di non metterli troppo in alto, fuori della portata di chiunque. E, di fronte ai caporioni, di fronte a qualche giornale che aizzava l’opinione pubblica, ha regnato il terrore. Non un esponente delle nostre assemblee ha avuto un grido da onest’uomo, tutti sono rimasti muti, esitanti, prigionieri dei loro gruppi, tutti hanno avuto paura dell’opinione pubblica, sicuramente preoccupati, in previsione delle prossime elezioni. Né un moderato, né un radicale, né un socialista, nessuno di quelli che dovrebbero tutelare le pubbliche libertà, si è ancora alzato a parlare secondo coscienza. Come volete che il paese sappia orientarsi nella tormenta, se quegli stessi che si dicono sue guide tacciono per meschina tattica di politicanti oppure per il timore di compromettere la loro situazione personale? E lo spettacolo è stato così penoso, così crudele, così duro per la nostra fierezza, che intorno a me sento ripetere: «La Francia è proprio malata perché abbia potuto prodursi una simile crisi di aberrazione pubblica» No! è soltanto sviata, fuori di sé del suo cuore e della sua indole. Le si parli il linguaggio dell’umanità e della giustizia e si ritroverà intera, nella sua generosità leggendaria. Il primo atto è terminato, sull’orrendo caso è calato il sipario. Auguriamoci che lo spettacolo di domani ci consoli e ci ridia coraggio. Ho detto che la verità era in cammino e che niente l’avrebbe fermata. Un primo passo è fatto, un altro si farà, poi un altro, poi il passo decisivo. E’ matematico.

Per il momento, in attesa della decisione del Consiglio di guerra, la mia parte è terminata; ed è mio ardente desiderio che, fatta la verità, resa giustizia, io non debba più lottare né per l’una né per l’altra. Articolo pubblicato su “Le Figaro” il 5 dicembre 1897

La condanna di Dreyfus divenne scandalo mondiale. Dopo la pubblicazione del J’Accuse di Emile Zola l’intera opinione pubblica mondiale si divise tra dreyfusardi e antidreyfusardi, scrive Vincenzo Vitale il 21 Agosto 2018 su "Il Dubbio". La pubblicazione del J’accuse ha l’effetto di una bomba sociale. Finalmente le coscienze, assopite, sembrano risvegliarsi non solo in Francia, ma in tutta Europa. Ci si divide fra dreyfusardi e antidreyfusardi senza ritegno alcuno, ma con accanimento tanto maggiore quanto più la propria posizione fosse in vista. Si ruppero amicizie decennali, si separarono coniugi e famiglie, si litigò nei pubblici locali e nelle dimore private, ci si sfidò a duello, si minacciò da varie nazioni europee di non partecipare alla Esposizione Universale, prevista a Parigi, all’ombra della torre Eiffel, per l’anno 1900. Insomma, lo scandalo della condanna di Dreyfus divenne di portata europea e perfino mondiale, se è vero che perfino alla Casa Bianca e al Cremlino si dibatteva della sua innocenza o colpevolezza. Era inevitabile peraltro che, in forza dello spostamento mimetico tipico delle persecuzioni, una volta che il meccanismo persecutorio sia svelato, la violenza si converta a carico del rivelatore, cioè di Zola. Questi infatti viene processato per diffamazione dei vertici militari e governativi e dei giudici militari e, in seguito, dei periti calligrafi i quali, mentendo, attestarono che la grafia del bordereau spionistico che fu attribuito a Dreyfus, era effettivamente la sua. Quella che oggi si pubblica è l’autodifesa pronunciata da Zola davanti alla giuria che l’avrebbe comunque condannato a un anno di reclusione e a 3.000 franchi di multa. Lo scrittore denuncia subito una evidente forzatura, tanto inammissibile quanto antigiuridica, vale a dire che il Primo Ministro, Felix Jules Méline, ha dichiarato di aver fiducia in quei giudici popolari davanti ai quali Zola si difende e ai quali egli affida pubblicamente la difesa dell’esercito. Come dire che egli, il Primo Ministro, si attende una esemplare condanna di Zola, attraverso la quale soltanto l’esercito potrà essere ristorato del danno alla sua immagine prodotto dal J’accuse. Zola nota subito che se per un verso ciò costituisce una indebita pressione sull’organo giudicante, per altro verso è una colossale sciocchezza. Infatti, accusare alcuni componenti dell’esercito, sia pure di alto grado, ma nominativamente individuati, di aver consumato un infame delitto ai danni di Dreyfus – come appunto ha fatto Zola – non vuol dire certo denigrare l’esercito nel suo insieme; anzi, è un sicuro indice di voler operare all’interno dell’esercito un salutare repulisti, allo scopo non di diffamarlo, ma di valorizzarlo nelle sue componenti più vere e trasparenti. Come non rilevare qui una singolare coincidenza con alcuni casi italiani, soprattutto degli ultimi anni? Capita infatti che se un giornalista o un osservatore politico critichi pubblicamente – ed anche duramente – l’operato di un pubblico ministero, immediatamente salti su il Consiglio Superiore della Magistratura, lamentando che quelle critiche delegittimano l’intera Magistratura e aprendo perfino un fascicolo che vien definito “a tutela”. E non si sa davvero a tutela di cosa e di chi, se non di ruoli e posizioni che in tal modo vengono posti al di là di ogni possibile critica, collocati in una dimensione di immunità assoluta, al punto che criticare uno significa delegittimare tutti: assurdità evidente sia per la ragione giuridica che per quella comune, perché conferisce licenza di fare e disfare arbitrariamente proprio a colui che invece andrebbe controllato, in quanto se ne lamenta un qualche abuso o errore (a torto o a ragione). Come dire che se l’insegnante richiama uno scolaro che disturba in classe, allora necessariamente delegittima la classe intera: un corto circuito dell’intelletto che però alligna in Italia ormai da decenni e che alla fine delegittima soltanto l’insegnante, riducendolo al silenzio. Zola perciò sceglie di non difendersi per nulla: e coraggiosamente, perché sa bene che alte sono le probabilità di essere condannato, come poi in effetti sarà. Egli si limita a rilevare come ormai, giunte a quel punto le cose, dopo che il vero colpevole, Esterhazy è stato assolto, il caso non riguarda più soltanto Dreyfus e la sua innocenza, ma riguarda la Francia intera e l’immagine che la Francia potrà fornire di se al mondo: è ancora la Francia dei diritti dell’uomo, “quella che ha donato la libertà al mondo e che doveva donargli la giustizia”? Si noti che Zola risulta doppiamente sospetto alla opinione dei benpensanti. Da un lato, in quanto scrittore e perciò pericolosamente votato a pensare con la propria testa; dall’altro, in quanto di origine italiana, nato da padre veneziano. Ma lui se ne fa un vanto, osservando che da qualsiasi luogo provenga la sua famiglia – e proviene da Venezia, “la splendida città la cui antica gloria è cantata in tutte le memorie” – egli è un francese a tutti gli effetti, non foss’altro che per i quaranta volumi scritti in lingua francese e venduti in decine di milioni di copie in tutto il mondo. La chiusa è profeticamente vera: “Un giorno la Francia mi ringrazierà di aver contribuito a salvare il suo onore”. Non solo la Francia.

«La Francia è ancora quella dei diritti dell’uomo?» Ecco l’autodifesa dello scrittore Emile Zola, processato per diffamazione dei vertici militari e governativi e dei giudici militari. Scrive Émile Zola su «L’Aurore» il 22 febbraio 1898 e ripubblicato il 21 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Signori giurati, nella seduta del 22 gennaio alla Camera, il signor Méline, presidente del Consiglio dei Ministri, ha dichiarato, tra gli applausi entusiasti della sua compiacente maggioranza, di aver fiducia nei dodici cittadini nelle cui mani rimetteva la difesa dell’esercito. Signori, parlava di voi. Come già il generale Billot aveva suggerito la sentenza al Consiglio di Guerra incaricato di assolvere il comandante Esterhazy, impartendo dall’alto della sua tribuna agli ufficiali subordinati la consegna militare di rispettare senza discuterla la cosa giudicata, così Méline ha voluto darvi l’ordine di condannarmi in nome del rispetto dell’esercito, che egli mi accusa di avere oltraggiato. Denuncio alla coscienza degli onesti questa pressione dei pubblici poteri sulla giustizia del Paese. Ci troviamo di fronte a dei costumi politici abominevoli che disonorano una nazione libera. Vedremo se obbedirete. Ma non è affatto vero che io sia qui, davanti a voi, per volontà del presidente Méline. Malgrado il suo personale turbamento, egli ha ceduto alla necessità di perseguirmi perché terrorizzato di quanto la verità in cammino avrebbe compiuto. Questa è una verità a tutti nota: se sono davanti a voi è perché l’ho voluto. Io solo ho deciso che l’oscura, la mostruosa questione fosse affidata alla vostra giurisdizione, e sono stato io solo che di mia iniziativa ho scelto voi, l’emanazione più alta e diretta della giustizia francese, affinché la Francia sappia tutto e si pronunci. Il mio atto non ha avuto altro intento e la mia persona non conta, l’ho sacrificata volentieri, unicamente soddisfatto per aver messo nelle vostre mani non solo l’onore dell’esercito, ma l’onore vacillante della nazione intera. Mi perdonerete, dunque, se nelle vostre coscienze non è ancora stata fatta piena luce. Non dipende da me. Nel volervi portare tutte le prove, nello stimarvi i soli degni e competenti, è come se stessi sognando. Hanno cominciato a togliervi con la sinistra quello che fingevano di darvi con la destra. Ostentavano di accettare la vostra giurisdizione, ma se alcuni confidavano in voi per vendicare i membri di un tribunale militare, altri ufficiali restavano intoccabili, superiori alla vostra stessa giustizia. Comprenda chi vuole e chi può. Si tratta di una assurda ipocrisia e l’evidenza lampante che ne scaturisce è che hanno avuto paura del vostro buon senso, che non hanno osato correre il pericolo di lasciarmi dire tutto e di lasciarvi giudicare tutto. Asseriscono di aver voluto limitare l o scandalo; e cosa pensate di questo scandalo, del mio atto che consiste nel mettervi al corrente del caso nella volontà che fosse il popolo incarnato in voi a fungere da giudice? Sostengono inoltre che non potevano accettare una revisione mascherata, confessando in tal modo di non avere in fondo che un solo timore, quello del vostro controllo sovrano. La legge trova in voi la sua rappresentazione totale; ed è la legge del popolo eletto quella che ho desiderato, che da buon cittadino rispetto profondamente, non già la procedura ambigua grazie alla quale hanno sperato di poter ingannare persino voi. Eccomi scusato, signori, di avervi distolto dalle vostre occupazioni, senza avere avuto la possibilità di inondarvi di quella verità intera che sognavo. La luce, la luce completa, non ho avuto che questo appassionato desiderio. E questi dibattimenti ve lo hanno dimostrato: abbiamo dovuto lottare, passo dopo passo, contro una volontà occultatrice incredibilmente ostinata. Abbiamo dovuto lottare per afferrare qualche brandello di verità; hanno discusso su tutto, ci hanno rifiutato tutto, hanno terrorizzato i nostri testimoni nella speranza di impedirci di portare delle prove. Ed è solo per voi che ci siamo battuti, affinché questa prova vi viene se sottoposta nella sua interezza, affinché poteste pronunciarvi senza rimorsi della vostra coscienza. Sono convinto che terrete nella dovuta considerazione i nostri sforzi, visto che molta chiarezza è stata fatta. Avete ascoltato i testimoni, ora ascolterete il mio difensore che vi racconterà la vera storia, la storia che fa uscire tutti di senno ma che nessuno conosce. Ed eccomi qui tranquillo; la verità è ora nelle vostre mani e procederà. Il presidente Méline ha creduto suo dovere suggerirvi la sentenza affidandovi l’onore dell’esercito. Ed è in nome dell’onore dell’esercito che, a mia volta, faccio appello alla vostra giustizia. Smentisco nella maniera più assoluta il presidente Méline, io non ho mai oltraggiato l’esercito. Al contrario ho espresso il mio affetto, il mio rispetto per la nazione in armi, per i nostri soldati, pronti a insorgere alla prima minaccia per difendere il suolo francese. Ed è altrettanto falso che io abbia attaccato i generali che li condurrebbero alla vittoria. Affermare che alcuni individui degli uffici del Ministero della Guerra hanno compromesso con la loro azione persino l’esercito equivale forse a insultare l’esercito nel suo insieme? Non significa piuttosto comportarsi da buon cittadino il liberarlo da ogni compromesso, gettare un grido d’allarme affinché gli errori che ci hanno portato alla disfatta non si ripetano e non ci conducano a nuove sconfitte? Del resto io non mi difendo, lascio alla storia il compito di giudicare il mio atto che era assolutamente necessario. Ma affermo che l’esercito disonorato quando si permette ai gendarmi di solidarizzare con il comandante Esterhazy dopo le lettere abominevoli che egli ha scritto. Affermo che questo valoroso esercito viene insultato ogni giorno da quei banditi che, con il pretesto di difenderlo, lo insozzano della loro vile complicità, trascinando nel fango tutto quello che la Francia ha ancora di buono e di grande. Affermo che sono loro a disonorare il grande esercito nazionale quando al grido di «Viva l’esercito!» mescolano quello di «A morte gli ebrei!». E hanno gridato «Viva Esterhazy!». Gran Dio! II popolo di San Luigi, di Bayard, di Condé e di Hoche, il popolo delle cento splendide vittorie, delle grandi guerre della Repubblica e dell’Impero, il popolo la cui forza, grazia e generosità hanno abbagliato l’universo, quel popolo grida «Viva Esterhazy!». Questa è una infamia da cui può lavarci soltanto il nostro sforzo di verità e di giustizia. Voi conoscete molto bene la leggenda che si è creata. Dreyfus è stato condannato giustamente e legalmente da sette ufficiali infallibili, tanto che a nessuno è permesso di sospettare l’errore senza offendere l’intero esercito. Dreyfus espia il suo orribile mi- sfatto in una tortura vendicatrice. E, poiché è ebreo, si crea un sindacato ebreo, un sindacato internazionale di senza patria, che mette a disposizione centinaia di milioni con lo scopo di salvare il traditore anche al prezzo delle più infami trame. Da quel momento questo sindacato ha operato in modo criminale comprando le coscienze e gettando la Francia in un’agitazione omicida, deciso a venderla al nemico, a mettere a fuoco l’Europa con una guerra generale piuttosto che rinunciare al suo spaventoso disegno. Come potete vedere è estremamente semplice, perfino infantile e imbecille. Ma è di questo pane avvelenato che la stampa ignobile nutre il nostro povero popolo da diversi mesi. E non c’è da meravigliarsi se assistiamo a una crisi così disastrosa, perché quando si seminano l’idiozia e la menzogna non si può che raccogliere follia. Certamente Signori, non vi farò l’affronto di credere che vi siate finora attenuti a queste favole per bambini. Vi conosco e so chi siete. Siete il cuore e la ragione di Parigi, della mia grande Parigi, dove sono nato, che amo di un affetto infinito, che studio e descrivo da quasi quarant’anni. E nel contempo so anche quello che state pensando in questo momento, perché prima di sedere qui come accusato sono stato seduto là, sul banco che ora occupate voi. Voi rappresentate l’opinione media, impersonate, tutti insieme, la saggezza e la giustizia. Tra poco il mio pensiero vi seguirà nella sala delle vostre deliberazioni e sono convinto che il vostro sforzo sarà quello di salvaguardare i vostri interessi di cittadini, che sono naturalmente gli interessi della nazione intera. Potrete sbagliarvi, ma sarà nella convinzione che, assicurando il vostro bene, assicurate il bene di tutti. Vi vedo nelle vostre famiglie, la sera, alla luce di una lampada; vi sento conversare con i vostri amici, vi accompagnano nelle vostre officine, nei vostri negozi. Siete tutti lavoratori: commercianti, industriali, alcuni di voi esercitano libere professioni. E la vostra legittima preoccupazione è lo stato deplorevole in cui sono caduti gli affari. Ovunque la crisi attuale minaccia di trasformarsi in un disastro, gli incassi diminuiscono, le transazioni si fanno sempre più difficili. A causa di ciò, il pensiero che qu i domina, che leggo sui vostri volti, è che se ne ha abbastanza, che è ora di finirla. Non siete arrivati a dire come molti: «Che importa che un innocente sia all’isola del Diavolo! L’interesse di un singolo merita il turbamento di una grande nazione?». Vi dite tuttavia che la nostra agitazione, quella di noi affamati di verità e di giustizia, viene pagata troppo a caro prezzo con tutto il male che ci si accusa di fare. E se mi condannerete, signori, non saranno che questi i motivi alla base del vostro verdetto: il desiderio di rasserenare i vostri cari, il bisogno che gli affari riprendano il loro corso, la convinzione che colpendo me metterete un freno a una campagna di rivendicazione nociva agli interessi della Francia. Ebbene, signori, vi sbagliereste nel modo più assoluto! Vogliate farmi I’onore di credere che io qui non difendo la mia libertà. Colpendomi non farete che ingigantirmi. Chi soffre per la verità e la giustizia diventa augusto e sacro. Guardatemi, signori: ho l’aria di un venduto, di un mentitore e di un traditore? Per quale motivo agirei allora? Non celo né ambizione politica né fanatismo da settario. Sono un libero scrittore che ha dedicato la vita al lavoro, che domani rientrerà nei ranghi e riprenderà il lavoro interrotto. E sono delle bestie coloro che mi chiamano italiano, a me, nato da madre francese, allevato da nonni della Beauce, contadini di quella terra generosa, a me che ho perduto il padre a sette anni, che sono andato in Italia soltanto a cinquantaquattro anni per documentare un libro. Il che non m’impedisce d’essere fiero che mio padre fosse di Venezia, la splendida città la cui antica gloria è cantata in tutte le memorie. E quand’anche non fossi francese, i quaranta volumi in lingua francese che ho seminato in milioni di esemplari nel mondo intero basterebbero, credo, a fare di me un francese, utile alla gloria della Francia! Perciò non mi difendo. Ma quale errore sarebbe il vostro qualora foste convinti che colpendo me ristabilireste l’ordine nel nostro infelice Paese! Non lo capite che il male di cui la nazione muore è proprio l’oscurità in cui ci si ostina a lasciarla, è l’equivoco in cui agonizza? Le colpe dei governanti si aggiungono al le colpe, una menzogna ne rende necessaria un’altra, finché il cumulo diventa spaventoso. È stato commesso un errore giudiziario, e da quel momento per nasconderlo è stato necessario commettere ogni giorno un nuovo attentato al buon senso e all’equità. La condanna di un innocente ha portato con sé l’assoluzione di un colpevole; ed ecco che, oggi, vi si chiede di condannarmi per avere gridato la mia angoscia nel vedere la patria avere imboccato questa terrificante strada. Condannatemi, dunque! Ma sarà un errore che si aggiungerà agli altri, un errore di cui in seguito porterete il peso nella storia. E la mia condanna, lungi dal riportare la pace che desiderate, che tutti noi desideriamo, altro non sarà che un nuovo seme di passione e di disordine. Vi avverto, la misura è colma, non fatela straripare.Come fate a non rendervi conto della crisi tremenda che il Paese sta attraversando? Ci considerano gli autori dello scandalo, affermano che sono gli amanti della verità e della giustizia a fuorviare la nazione, a spingerla alla sommossa. In verità, ciò significa ingannare il mondo intero. Il generale Billot, tanto per fare un nome, non è stato forse avvertito da ben diciotto mesi? Il colonnello Picquart non ha forse insistito affinché prendesse nelle sue mani la revisione per evitare che la tempesta scoppiasse e sconvolgesse tutto? Il senatore Scheurer- Kestner non l’ha supplicato, con le lacrime agli occhi, di pensare alla Francia, di risparmiarle una simile catastrofe? No, no! Il nostro desiderio è stato di facilitare le cose, di attutirle e, se il Paese ora soffre, la colpa è del potere che, desideroso di copri re i colpevoli, spinto da interessi politici, ha rifiutato tutto, nella speranza di essere abbastanza forte per impedire che si facesse luce. Da quel giorno ha manovrato sempre nell’ombra, in favore delle tenebre, ed è lui, lui solo, il responsabile del disperato turbamento che affligge le coscienze. L’affaire Dreyfus, signori miei, oggi è di ventato marginale, è ormai un fatto remoto e lontano, rispetto ai terrificanti problemi che ha sollevato. Non si tratta più dell’affaire Dreyfus, si tratta ormai di sapere se la Francia è ancora la Francia dei diritti dell’uomo, quella che ha donato la libertà al mondo e che doveva donargli la giustizia. Siamo ancora il popolo più nobile, il più fraterno, il più generoso? In Europa, conserveremo ancora la nostra fama di equità e di umanità? Allora, non sono queste tutte le conquiste che avevamo fatto e che erano rimesse in discussione? Aprite gli occhi e capirete che se l’anima francese è in preda a una simile confusione ciò è dovuto al fatto che è profondamente sconvolta di fronte a un terribile pericolo. Un popolo non sarebbe sconvolto a tal punto se la sua stessa vita morale non fosse in pericolo. L’ora è di una gravità eccezionale, è in gioco la salvezza della nazione.Quando avrete compreso questo, signori, avrete coscienza che esiste un solo rimedio possibile: dire la verità e renderegiustizia. Tutto ciò che ritarderà la luce, tutto ciò che aggiungerà tenebre a tenebre non farà che prolungare eaggravare la crisi. Il compito dei buoni cittadini, di quelli che sentono il bisogno imperioso di farla finita, è di esigere piena chiarezza. Siamo già in molti a pensarlo. Gli uomini di lettere, di filosofia e di scienza si levano da ogni luogo in nome dell’intelligenza e della ragione. E non vi parlo dei paesi stranieri, del brivido che si è propagato in tutta l’Europa. Lo straniero non è necessariamente sinonimo di nemico. Non parliamo dei popoli che possono essere domani nostri avversari. Ma la grande Russia, nostra alleata, la piccola e generosa Olanda, tutti i popoli amici del Nord, le terre di lingua francese, come la Svizzera e il Belgio, perché mai avrebbero il cuore grosso, traboccante di sofferenza fraterna? Sognate forse una Francia isolala dal mondo? Volete che nessuno, quando passerete la frontiera, sorrida più alla vostra leggendaria buona fama di equità e di umanità? Ahimè, signori! Come tanti altri, forse anche voi aspettale l’avvenimento imprevisto, la prova dell’innocenza di Dreyfus, che dovrebbe scendere dal cielo come la folgore. Di norma la verità non procede affatto così; essa richiede ricerca e intelligenza. La prova! Sappiamo bene dove potremmo trovarla. Ma lo pensiamo soltanto nel segreto delle nostre anime, e la nostra angoscia di patrioti è che ci si sia esposti a ricevere un giorno lo schiaffo di questa prova, dopo avere impegnato l’onore dell’esercito i n un a menzogna. Voglio inoltre dichiarare con chiarezza che, se abbiamo notificato come testimoni alcuni membri delle ambasciate, la nostra volontà formale era all’inizio d i non citarli in questa sede. Si è sorriso della nostra audacia. Non credo che ne abbiano sorriso al ministero degli Affari Esteri, dove sicuramente hanno capito. Abbiamo semplicemente voluto dire a quelli che sanno tutta la verità che anche noi la sappiamo. Quella verità corre per le ambasciate e domani sarà conosciuta da tutti. E, per i l momento, ci è impossibile andarla a cercare là dove si trova, protetta da formalità invalicabili. Il governo, che non ignora niente, che è convinto come noi dell’innocenza di Dreyfus, potrà, quando lo vorrà e senza rischio, trovare i testimoni che finalmente facciano luce.Lo giuro! Dreyfus è innocente! Impegno la mia vita e il mio onore. In questo momento così solenne, davanti a questo tribunale che rappresenta la giustizia umana, davanti a voi, signori giurati, che siete l ‘ emanazione stessa della nazione, davanti a tutta la Francia, davanti al mondo intero, io giuro che Dreyfus è innocente. Per i miei quarant’ anni di lavoro, per l’autorità che questa fatica può avermi dato, giuro che Dreyfus è innocente. E per tutto quello che ho conquistato, per il nome che mi sono fatto, per le mie opere che hanno contribuito all’espansione delle lettere francesi, giuro che Dreyfus è innocente; che tutto questo crolli, che le mie opere periscano, se Dreyfus non è innocente! Dreyfus è innocente. Tutto sembra essere contro di me, le due Camere, il potere civile, il potere militare, i giornali a grande tiratura, l’opinione pubblica da questi avvelenata. E io posseggo solamente i miei ideali di verità e di giustizia. Eppure sono tranquillissimo, vincerò. Non ho voluto che il mio Paese restasse nella menzogna e nell’ingiustizia. Oggi, qui, mi si può colpire. Un giorno la Francia mi ringrazierà di aver contribuito a salvare il suo onore. Pubblicata su «L’Aurore» il 22 febbraio 1898

“Il monumento più ripugnante dell’infamia umana”. La Corte di Rennes ancora una volta e in modo totalmente antigiuridico, condanna di nuovo Dreyfus, ma soltanto a dieci anni, “compreso il sofferto”, scrive Vincenzo Vitale il 23 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Negli oltre diciotto mesi che separano la pubblicazione di questo articolo da quella del precedente, sono accadute molte cose determinanti per le sorti della vicenda di Dreyfus. Non solo la condanna di Zola per la presunta diffamazione a carico dei giudici militari, ma anche la radiazione dai ranghi dell’esercito del colonnello Picquart, colui che aveva scoperto la colpevolezza di Esterhazy e l’innocenza di Dreyfus, ma soprattutto il fatto decisivo: il maggiore Henry confessa al Ministro Cavaignac di aver personalmente confezionato e perciò materialmente falsificato il documento sulla base del quale era stato condannato Dreyfus. Subito dopo Henry si suicida, mentre Esterhazy, comprendendo che ormai la sua posizione è indifendibile, ripara precipitosamente in Inghilterra: e Proust sapidamente commenta: “Il caso era puro Balzac, ora diventa shakespeariano”. Queste novità conducono naturalmente a riaprire il procedimento nei confronti di Dreyfus, che viene riportato in Francia per un nuovo processo da celebrare a Rennes, mentre Paty de Clam, autore primo di tutto il complotto contro Dreyfus, viene arrestato. Tuttavia, assurdamente e contro ogni lecita aspettativa, la Corte di Rennes ancora una volta e in modo totalmente antigiuridico, condanna di nuovo Dreyfus, ma soltanto a dieci anni, “compreso il sofferto”. Prevedo il quesito di ciascuno: ma potevano farlo? No. E tuttavia lo fecero. E lo fecero per una ragione che agli occhi di quei sedicenti giudici appariva tanto cogente da indurli ad andare contro il buon senso: continuare, contrariamente ad ogni attesa, a difendere l’operato dei primi giudici, alla cui corporazione (l’esercito) loro stessi appartenevano. Come dire che fra la libertà di coscienza – che doveva di filato indurre alla assoluzione di Dreyfus con la formula più ampia – e la difesa corporativa della classe di appartenenza, la Corte di Rennes preferisce questa a quella. Nulla di nuovo, per carità. Capita anche nel nostro tempo che alcuni Tribunali si facciano un po’ troppo condizionare dall’opera di una Procura, troppo sensibilizzandosi alle sue richieste ed alla sue attese. E tuttavia, sempre e in ogni caso, determinazione assurda e antigiuridica, come assurda e antigiuridica fu la condanna di Rennes, che, non a caso, ci fu, ma fu straordinariamente mite, considerata la gravità del reato contestato (spionaggio e alto tradimento), e tenendo conto che Dreyfus aveva trascorso già cinque anni in deportazione: segno che i componenti della Corte di Rennes, pur decisi a difendere la corporazione, non volevano esagerare; così, tanto per poter dormire la notte. E dormirono. Ma Zola, per queste medesime ragioni, non dormiva. Anzi. In questo articolo, pubblicato due giorni dopo la condanna di Rennes, egli non manca di fustigare letteralmente coloro che si erano resi responsabili di questo ulteriore scempio perpetrato nei confronti delle più elementari ragioni della giustizia attraverso la nuova condanna inflitta a Dreyfus, sia pure irrogatrice di una pena assai modesta e in gran parte già scontata. Inflitta, insomma, per salvare – come si dice con efficace proverbio contadino – capra e cavoli: la capra della salvaguardia dell’operato dei precedenti giudici che avevano condannato il capitano ebreo e i cavoli della propria coscienza che avrebbe potuto loro impedire, appunto, di dormire. Così, Zola non esita a denunciare il processo di Rennes come “il monumento più ripugnante dell’infamia umana”. E aggiunge icasticamente che “L’ignoranza, l’idiozia, la follia, la crudeltà, la menzogna, il crimine vi sono ostentati con una tale spudoratezza che le generazioni future ne arrossiranno di vergogna”. E ciò è tanto più vero, in quanto Zola aveva raggiunto la assoluta ed incontestabile certezza della colpevolezza di Esterhazy, il quale, tempo prima, aveva fornito documenti segreti al Colonnello Schwartzkoppen, addetto militare presso l’Ambasciata tedesca a Parigi. Ecco perché, sulla scorta di ciò, l’avvocato Labori, difensore di Dreyfus, aveva chiesto di sentire come testimoni alcuni addetti militari stranieri informati della circostanza: richiesta tuttavia puntualmente rigettata dai giudici. Come dire, chiosa Zola, che la Corte abbia affermato, a scanso di equivoci, “non vogliamo che ci venga fornita la prova, perché vogliamo condannare”. E, d’altra parte, perché meravigliarsi se l’avvocato Labori, nel corso del processo, era stato addirittura ferito da una revolverata esplosa da un sicario rimasto ignoto? Se questo era il clima in cui questo nuovo processo veniva celebrato, cosa attendersi di diverso, se non una nuova condanna per l’innocente Dreyfus?

Processo Dreyfus. Francia, vergognati! Il nuovo procedimento nei confronti di Dreyfus si conclude con una nuova condanna, anche se più lieve, scrive Émile Zola riportato il 23 Agosto 2018 da "Il Dubbio". Sono terrorizzato. E non è più la collera, l’indignazione vendicatrice, il bisogno di gridare il crimine commesso, di pretenderne il castigo in nome della verità e della giustizia; è il terrore, il sacro spavento di un uomo che vede realizzarsi l’impossibile, i fiumi risalire verso le sorgenti, la terra capovolgersi sotto il sole. E ciò che io grido è lo sconforto della nostra generosa e nobile Francia, è la paura dell’abisso in cui sta scivolando. C’eravamo illusi che il processo di Rennes fosse il quinto atto della terribile tragedia che viviamo da quasi due anni. Le pericolose peripezie sembravano ormai dissolte, credevamo di andare verso una conclusione che portasse alla pacificazione e alla concordia. Dopo la dolorosa battaglia, la vittoria del diritto si rendeva inevitabile, il dramma doveva concludersi felicemente con il classico trionfo dell’innocente. E invece ci siamo sbagliati: si annuncia una nuova peripezia, la più inattesa, la più spaventosa di tutte, che rende nuovamente cupo il dramma, che lo prolunga e lo proietta verso un finale ignoto, davanti al quale la nostra ragione rimane turbata e vacilla. Il processo di Rennes è soltanto il quarto atto. Gran Dio. Come sarà il quinto? Quali dolori e quali nuove sofferenze potrà mai generare, verso quale espiazione suprema getterà la nazione? Perché è più che certo che l’innocente non può essere condannato due volte e che una conclusione del genere spegnerebbe iI sole e solleverebbe i popoli! Ah, quel quarto atto del processo di Rennes, con quale agonia morale l’ho vissuto dal fondo della più completa solitudine in cui mi ero rifugiato, con lo scopo di scomparire dalla scena da buon cittadino, desideroso di non dare altre occasioni al fanatismo e al disordine! Con quale angoscia nel cuore aspettavo notizie, lettere, giornali, e quali ribellioni, quali sofferenze nel leggerli! Le splendide giornate di quel mese d’agosto si rabbuiavano, e mai ho avvertito l’ombra e il freddo di una soglia così agghiacciante sotto cieli tanto smaglianti. Certamente in questi due anni le sofferenze non sono mancate. Ho sentito le folle inseguirmi gridando «Amore!», ho visto passare ai miei piedi un immondo torrente di oltraggi e di minacce, ho conosciuto per ben undici mesi la disperazione dell’esilio. Inoltre ho subito due processi, spettacoli lacrimevoli di viltà e d’iniquità. Ma cosa sono i miei due processi se confrontati a quello di Rennes? Idilli, scene rinfrescanti in cui fiorisce la speranza. Abbiamo assistito a tante mostruosità: i procedimenti giudiziari conto il colonnello Picquart, l’inchiesta della Sezione Penale, la legge d’incompetenza a procedere che ne è conseguita. Ma oggi che l’inevitabile progressione ha fatto il suo corso, tutto questo sembra puerile, e il processo di Rennes sboccia nella sua enormità all’apice come un orrendo fiore da un letamaio. In esso abbiamo visto uno straordinario concentrato di attentati contro la verità e la giustizia. Una banda di testimoni dirigeva il dibattimento, ogni sera metteva a punto loschi tranelli per il giorno successivo, avanzava richieste a colpi di menzogne al posto del pubblico ministero, terrorizzava e insultava chi osava contraddirla, s’imponeva con l’insolenza dei suoi galloni e pennacchi. Un tribunale, preda di questa invasione di ufficiali, soffriva visibilmente nel vederli in veste di criminali e obbediva a una mentalità tutta particolare, che bisognerebbe lungamente smontare per poter giudicare i giudici. Un pubblico ministero grottesco ai limiti dell’imbecillità, che lasciava agli storici di domani una requisitoria nata da un animale umano non ancora classificato, la cui inconsistenza stupida e omicida, di una crudeltà talmente senile e cocciuta da apparire incosciente, sarà causa di un eterno stupore. Una difesa che da principio si tenta di assassinare, poi si mette a tacere ogni volta che diventa imbarazzante, alla quale si rifiuta di produrre la prova decisiva nel momento in cui reclama i soli testimoni che veramente sanno. Questa vergogna è durata un mese intero al cospetto dell’innocente, quel povero Dreyfus ridotto a un brandello umano che farebbe piangere anche le pietre. I suoi vecchi commilitoni sono venuti a dargli l’ennesimo calcio e i suoi vecchi superiori a schiacciarlo con i loro gradi, pur di salvare se stessi dalla galera: non c’è stato nessun grido di pietà o un fremito di generosità in quelle anime vili. La nostra dolce Francia ha offerto questo spettacolo al mondo intero. Quando verrà pubblicato in extenso, il resoconto del processo di Rennes sarà il monumento più ripugnante dell’infamia umana. Esso supera ogni cosa e mai documento più criminale sarà stato fornito alla storia. L’ignoranza, l’idiozia, la follia, la crudeltà, la menzogna, il crimine vi sono ostentati con una tale spudoratezza che le generazioni future ne arrossiranno di vergogna. In esso vi sono le prove della nostra bassezza di cui arrossirà l’umanità intera. Ed è proprio da qui che nasce il mio sgomento, perché se un simile processo si è potuto svolgere, se una nazione può offrire al mondo civile una simile dimostrazione del suo stato morale e intellettuale, bisogna che essa attraversi una crisi spaventosa. Si tratta dunque della morte prossima? E quale bagno di bontà, di purezza, di equità ci salverà dal fango velenoso in cui agonizziamo? Come scrivevo nel mio J’accuse, in seguito alla scandalosa assoluzione di Esterhazy, è impossibile che un Consiglio di Guerra cancelli ciò che un altro Consiglio di Guerra ha fatto. Ciò è contrario alla disciplina. E la sentenza del Consiglio di Guerra di Rennes che, nel suo imbarazzante gesuitismo, non ha il coraggio di pronunciare un sì o un no, è la prova eclatante che la giustizia militare è impotente ad essere giusta, perché non è libera e rifiuta l’evidenza, al punto da condannare nuovamente un innocente piuttosto che mettere in dubbio la propria infallibilità. Si è ostentata come un’arma d’esecuzione in mano agli ufficiali. A questo punto essa non saprebbe essere altro che una giustizia sommaria, da tempo di guerra. Ma in tempo di pace deve scomparire, dal momento che è incapace di equità, di semplice logica e di buon senso. Si è condannata da sé. Ma ci rendiamo conto della situazione atroce che ci viene imposta tra le nazioni civili? Un primo Consiglio di Guerra, ingannato dalla sua ignoranza delle leggi e dalla sua inettitudine nel giudicare, condanna un innocente. Un secondo Consiglio di Guerra, che a sua volta è stato forse tratto in errore dal più spudorato complotto di menzogne e di inganni, assolve un colpevole. Un terzo Consiglio di Guerra, dopo che è stata fatta luce, dopo che la più alta magistratura del Paese ha deciso di lasciargli l’onore di riparare l’errore, osa negare la chiara evidenza e condanna di nuovo l’innocente. E l’irreparabile, è stato commesso il delitto supremo. Gesù è stato condannato una sola volta. Ma crolli pure tutto, che la Francia sia preda delle fazioni, che la patria in fiamme sprofondi tra le macerie, che l’esercito stesso ci rimetta il suo onore, piuttosto che confessare che dei colleghi si sono sbagliati e che alcuni ufficiali hanno mostrato di essere dei bugiardi e dei falsari! L’idea sarà crocifissa, la sciabola deve regnare. Ed eccoci in questa magnifica situazione davanti all’Europa e al mondo intero che è convinto dell’innocenza d Dreyfus. Qualora un dubbio fosse ancora rimasto presso qualche popolo lontano, lo scandalo lampante del processo di Rennes avrebbe ottenuto l’effetto di illuminarlo. Le corti delle grandi potenze vicine sono informate, conoscono documenti, hanno la prova dell’indecenza di tre o quattro nostri generali e della paralisi vergognosa della nostra giustizia militare. La nostra Sedan morale è perduta ed è cento volte più disastrosa dell’altra, dove si è versato soltanto del sangue. Lo ripeto. Ciò che mi sgomenta è che questa disfatta del nostro onore sembra insanabile. Come annullare infatti le sentenze di tre Consigli di Guerra, dove troveremo l’eroismo di confessare la colpa per poter camminare di nuovo a fronte alta? Dov’è il governo coraggioso e di salute pubblica, dove sono le Camere che comprenderanno e agiranno prima dell’inevitabile crollo? La cosa peggiore è che siamo arrivati ormai a una fondamentale scadenza. La Francia ha voluto festeggiare il suo secolo di lavoro, di scienza, di lotte per la libertà la verità e la giustizia. Come vedremo in seguito, non è mai esistito secolo più nobile. E la Francia ha dato appuntamento presso di sé a tutti i popoli per glorificare la sua vittoria, la Libertà conquistata, la verità e la giustizia promesse al mondo. Fra qualche mese i popoli arriveranno, ma troveranno che un innocente è stato condannato due volte, la verità soffocata, la giustizia assassinata. Siamo caduti nel loro disprezzo, ed essi verranno a fare bagordi, berranno il nostro vino, abbracceranno la nostra servitù, come si usa fare nell’infima stamberga dove è consentito comportarsi da canaglie. Possiamo mai accettare che la nostra Esposizione Universale sia il luogo malfamato e disprezzato dove il mondo intero vorrà darsi ai bagordi? No! Abbiamo immediatamente bisogno del quinto atto della mostruosa tragedia, quand’anche dovessimo lasciarci ancora un po’ della nostra carne. Abbiamo bisogno del nostro onore per accogliere i popoli in una Francia guarita e rigenerata. Quel quinto atto che cerco e immagino mi ossessiona, non faccio che pensarci. Nessuno si è accorto che l’affaire Dreyfus, questo gigantesco dramma che agita l’universo, sembra messo in scena da qualche sublime drammaturgo, desideroso di farne un incomparabile capolavoro? Ricordo le straordinarie peripezie che hanno sconvolto tante coscienze. Ad ogni nuovo atto la passione è aumentata e l’orrore è esploso più intenso. In questa opera vivente, il destino è il genio che anima i personaggi e determina i fatti, sotto la tempesta che egli stesso scatena. E poiché sicuramente desidera che il capolavoro sia completo, ci prepara chissà quale sovrumano quinto atto che ricollocherà la gloriosa Francia alla testa delle nazioni. Perché, siatene convinti, è il destino che ha voluto il crimine supremo di vedere l’innocente condannato una seconda volta. Occorreva che il crimine venisse commesso per la grandezza della tragedia, per la bellezza sovrana, per l’espiazione che forse permetterà l’apoteosi. Visto che è stato toccato il fondo dell’orrore, non mi resta che aspettare il quinto atto che metterà fine al dramma, liberandoci e ridonandoci una nuova integrità e giovinezza. Oggi parlerò con franchezza del mio timore, che è sempre stato, come ho lasciato più volte intendere, che la verità, la prova decisiva e schiacciante ci venga dalla Germania. Non è più tempo di tacere su questo pericolo mortale. Diversi segnali ci dicono che conviene considerare coraggiosamente il caso in cui fosse proprio la Germania a portarci il quinto atto, come un fulmine a ciel sereno. Ecco la mia confessione. Nel gennaio 1898, prima del mio processo, io venni a sapere con certezza che Esterhazy era «il traditore», che lui aveva fornito a Schwartzkoppen un considerevole numero di documenti, molti dei quali scritti personalmente, e che la lista completa si trovava a Berlino al Ministero della Guerra. Io non faccio il patriota di mestiere, ma confesso che le rivelazioni che mi furono fatte mi sconvolsero; da quel momento la mia angoscia di buon francese non è più cessata, ho vissuto nel terrore che la Germania, forse nostra futura nemica, ci schiaffeggiasse con le prove che sono in suo possesso. Ma come! Il Consiglio di Guerra del 1894 condanna Dreyfus innocente, il Consiglio di Guerra del 1898 proscioglie Esterhazy che è colpevole, la nostra nemica detiene le prove del duplice errore commesso dalla nostra giustizia militare e tranquillamente la Francia si ostina in quell’errore, accettando lo spaventoso pericolo dal quale è minacciata! Dicono che la Germania non può servirsi di documenti ottenuti per mezzo dello spionaggio. Cosa ne sappiamo? Se domani scoppiasse la guerra, non comincerebbe forse con la perdita dell’onore del nostro esercito di fronte all’Europa, con la pubblicazione dei documenti che mostrano l’infame ingiustizia in cui certi ufficiali si sono intestarditi? È tollerabile un pensiero del genere, potrà la Francia godere di un istante di riposo fin tanto che saprà in mano allo straniero le prove del suo disonore? Lo dico con semplicità: non riuscivo più a darmi pace. Così insieme a Labori decidemmo di citare come testimoni gli addetti militari stranieri, pur sapendo benissimo che non li avremmo condotti alla sbarra, ma volendo far capire al governo che sapevamo la verità nella speranza che agisse. Hanno fatto orecchie da mercante, hanno ironizzato e lasciato l’esercito in mano alla Germania. E le cose sono rimaste ferme fino al processo di Rennes. Appena rientrato in Francia sono corso da Labori, ho insistito disperatamente perché venissero fatti passi presso il ministero per segnalare la terrificante situazione, per domandargli se non intendesse intervenire affinché, grazie alla sua mediazione, ci venissero dati i documenti. Certamente la questione era molto delicata, inoltre c’era quel povero Dreyfus da salvare, ragion per cui bisognava essere pronti a tutte le concessioni per timore di irritare l’opinione pubblica già sconvolta. D’altronde, se il Consiglio di Guerra avesse assolto Dreyfus, i documenti avrebbero perso il loro valore e l’arma, di cui la Germania si sarebbe potuta servire, si sarebbe spezzata. Dreyfus prosciolto, ecco l’errore riconosciuto e riparato. L’onore sarebbe stato salvo. E il mio tormento patriottico è ricominciato ancora più forte, non appena ho saputo che un Consiglio di Guerra stava per aggravare il pericolo condannando di nuovo l’innocente, l’uomo del quale la pubblicazione dei documenti di Berlino griderà un giorno l’innocenza. Ecco perché non ho cessato d’agire, supplicando Labori di reclamare questi documenti e di citare come testimone Schwartzkoppen, il solo che possa fare piena luce. E il giorno che Labori, l’eroe ferito da una pallottola sul campo di battaglia, approfittando di un ‘ occasione offertagli dagli accusatori, ha chiamato alla sbarra Io straniero indegno, quel giorno che si è alzato per chiedere che venisse ascoltato l’uomo che con una sola parola poteva porre fine all’affaire, quel giorno egli ha adempiuto fino in fondo al suo dovere, è stato la voce eroica che nulla potrà far tacere, la cui richiesta sopravvive al processo, e al momento opportuno dovrà fatalmente farlo ricominciare per chiuderlo con la sola soluzione possibile: l’assoluzione dell’innocente. La richiesta dei documenti è stata inoltrata, sfido a che quei documenti non siano prodotti. Vedete in quale maggiore e intollerabile pericolo ci ha messo il presidente del Consiglio di Guerra di Rennes usando il suo potere discrezionale per impedire la pubblicazione dei documenti. Niente di più brutale, mai porta è stata chiusa più intenzionalmente alla verità. «Non vogliamo che ci venga fornita la prova, perché vogliamo condannare». E un terzo Consiglio di Guerra si è aggiunto agli altri due nel cieco errore, per cui una eventuale smentita dalla Germania colpirebbe ora tre sentenze inique. Non è demenza pura, non c’è da urlare di ribellione e d’inquietudine? Il governo che i suoi funzionari hanno tradito, che ha avuto la debolezza di lasciare che bambini cresciuti, dalla mentalità ottusa, giocassero con i fiammiferi e i coltelli; il governo che ha dimenticato che governare significa prevedere deve affrettarsi ad agire se non vuole abbandonare a capriccio della Germania il quinto atto, l’epilogo che tutta Ia Francia dovrebbe temere. È lui, il governo, che ha il compito di recitare al più presto questo quinto atto, per impedire che lo facciano dall’estero. Può procurarsi i documenti, la diplomazia ha risolto difficoltà ben più grandi. Il giorno in cui saprà chiedere i documenti del bordereau, li otterrà. E questo sarà il fatto nuovo che renderà necessaria una seconda revisione davanti alla Corte di Cassazione. Questa volta spero istruita e in grado di cessare senza alcun rinvio nella pienezza della sua magistratura sovrana. Ma se il governo dovesse di nuovo tirarsi indietro, i difensori della verità e della giustizia faranno quanto è necessario. Non uno di noi diserterà il suo posto. La prova inconfutabile prima o poi finiremo per averla. Il 23 novembre saremo a Versailles. Il mio processo ricomincerà, perché si vuole farlo ricominciare in tutta la sua ampiezza. Se finora giustizia non è stata ancora fatta, daremo un nuovo contributo per ottenerla. Il mio caro e valoroso Labori, il cui onore si è nel tempo accresciuto, pronuncerà perciò a Versailles l’arringa che non ha potuto pronunciare a Rennes; è semplicissimo, niente andrà perduto. Io non lo farò certo tacere. Dovrà soltanto dire la verità, senza temere di nuocermi, poiché sono pronto a pagarla con la mia libertà e col mio sangue. Davanti alla Corte d ‘ Assise della Senna ho giurato l’innocenza di Dreyfus. La giuro davanti al mondo intero che ora la grida con me. E torno a ripeterlo: la verità è in cammino e niente potrà fermarla. A Rennes ha appena compiuto un passo da gigante. Non mi resta che lo spavento di vederla piombare a saccheggiare la patria, come una folgore scagliata dalla Nemesi vendicatrice, se non ci affrettiamo a farla risplendere noi stessi sotto il nostro vivido sole di Francia.

“Che l’innocente Dreyfus sia riabilitato, soltanto allora la Francia sarà riabilitata con lui”. La bellissima lettera, pubblicata su l’Aurore il 29 settembre 1899, che Emile Zola scrisse alla moglie di Alfred Dreyfus riportata il 26 Agosto 2018 da "Il Dubbio". Signora, Le rendono l’innocente, il martire. Rendono alla sua sposa, a suo figlio, a sua figlia, il marito e il padre, e il mio primo pensiero va alla famiglia finalmente riunita, consolata, felice. Quale che sia ancora il mio lutto di cittadino nonostante il dolore indignato e la ribellione in cui continuano ad angosciarsi le anime giuste, vivo con Lei questo momento meraviglioso, bagnato di lacrime benefiche, il momento in cui Lei ha stretto tra le braccia il morto risuscitato, uscito vivo e libero dalla tomba. E, malgrado tutto, questo è un grande giorno di vittoria e di festa. Immagino la prima sera alla luce della lampada, nell’intimità familiare, quando le porte sono chiuse e tutti le infamie della strada si spengono sulla soglia di casa. I due bambini sono là, accanto al padre tornato da un viaggio lungo e oscuro. Lo baciano in attesa del racconto che farà più tardi. Che pace fiduciosa e che speranza per un domani riparatore, mentre la madre si aggira con dolce premura, avendo ancora, dopo tanto eroismo, un compito grandioso da compiere, quello di rimettere in piedi con le sue cure e la sua tenerezza la salute del crocifisso, del povero essere che le hanno restituito. C’è tanta dolcezza nel chiuso della casa, una bontà infinita effonde da ogni parte nell’intimità della stanza in cui la famiglia sorride. E noi siamo là, nell’ombra, muti, ricompensati, tutti noi che abbiamo voluto ciò e che abbiamo lottato da tanti mesi per questo momento di felicità. Quanto a me, confesso che il mio impegno inizialmente non è stato altro che un’opera di solidarietà umana, di pietà e d’amore. Un innocente soffriva il più orrendo dei supplizi, non ho visto altro e ho dato inizio a una campagna unicamente per liberarlo dei suoi mali. Dal momento in cui mi venne provata la sua innocenza nacque in me una straziante ossessione: il pensiero di tutto quello che l’infelice aveva sofferto e di quello che ancora soffriva nel carcere dove agonizzava, murato da una fatalità mostruosa di cui non poteva nemmeno sciogliere l’enigma. Quale tempesta dentro di lui, e quale smaniosa attesa che si rinnovava ad ogni nuova aurora! E non ho più vissuto, il mio è stato il coraggio della pietà, e l’unico obiettivo è stato di mettere fine alla tortura, di sollevare la pietra affinché il giustiziato ritornasse alla luce del giorno e fosse restituito ai suoi che avrebbero curato le sue ferite. Una questione sentimentale, come dicono i politici con una leggera alzata di spalle. Buon Dio, sì! Ma il mio cuore era infiammato e io andavo in soccorso di un uomo in preda allo sconforto, fosse egli ebreo, cattolico o maomettano. Allora credevo che si trattasse di un semplice errore giudiziario, ignoravo l’enormità del crimine che teneva quell’uomo in catene, oppresso nel fondo di un’atroce fossa dove altri spiavano la sua agonia. Non provavo perciò nessuna collera contro i colpevoli, peraltro ancora sconosciuti. Semplice scrittore strappato al consueto lavoro dalla compassione non perseguivo alcun fine politico e non lavoravo per alcun partito. Il mio unico partito all’inizio della campagna non era altri che servire l’umanità. In seguito capii la terribile difficoltà del nostro compito. Nello svolgersi ed estendersi della battaglia, sentivo che la liberazione dell’innocente richiedeva sforzi sovrumani. Tutte le potenze sociali erano alleate contro di noi che non avevamo dalla nostra che la sola forza della verità. Dovevamo compiere un miracolo per risuscitare il sepolto. Quante volte durante quei due anni crudeli ho disperato di riaverlo, di restituirlo vivo alla sua famiglia! Era laggiù, nella sua tomba, e potevamo essere in cento, in mille o in ventimila, ma la pesante pietra di iniquità era tale che temevo di vedere le nostre braccia indebolirsi prima dell’ultimo sforzo supremo. Mai, mai più! Forse un giorno, tra molto tempo, avremmo imposto la verità e ottenuto giustizia. Ma l’infelice sarebbe morto e la sua sposa, i suoi figli, mai più avrebbero potuto dargli il bacio gioioso del ritorno. Signora, ecco che oggi abbiamo compiuto il miracolo. Due anni di lotte imponenti hanno realizzato l’impossibile; il nostro sogno si è avverato perché il giustiziato è sceso dalla croce, l’innocente è libero, suo marito Le è stato reso. Egli ha smesso di soffrire, conseguentemente è fìnita anche la sofferenza dei nostri cuori e l’intollerabile simulacro cessa di turbare i nostri sonni. Ed è per questo, lo ripeto, che oggi è un giorno di grande festa e di grande vittoria. Tutti i nostri cuori comunicano con discrezione col Suo, non c’è cuore di moglie e di madre che non si sia intenerito pensando a questa prima serata d’intimità, alla luce della lampada, nell’emozione affettuosa del mondo intero dalla cui simpatia Lei è circondata. Signora, indubbiamente questa grazia è amara. Come è possibile imporre dopo tante torture fisiche una simile tortura morale? E che senso di ribellione si prova nel dirsi che si è ottenuto per pietà quel che dovrebbe dipendere soltanto dalla giustizia! Il peggio è che tutto sembra essere stato concertato per approdare a quest’ultima iniquità. I giudici hanno voluto tornare a colpire l’innocente per salvare i colpevoli, pronti a rifugiarsi nell’ipocrisia rivoltante di un’apparente misericordia. «Tu vuoi l’onore, noi ti faremo l’elemosina della libertà, affinché il tuo disonore legale copra i crimini dei tuoi carnefici». E non c’è, nella lunga serie di infamie commesse, un attentato più abominevole contro la dignità umana. È veramente il colmo, far mentire la divina pietà, farne lo strumento della menzogna, umiliare l’innocente affinché il crimine passeggi al sole gallonato e impennacchiato! Inoltre, quale tristezza nel constatare che il governo di un grande Paese si rassegna ad essere misericordioso a causa della sua disastrosa debolezza, quando dovrebbe essere giusto! Tremare di fronte all’arroganza di una fazione, credere di poter conseguire la pacificazione con l’ingiustizia, sognare non si sa quale abbraccio menzognero e avvelenato è il colmo dell’accecamento volontario. Il governo, all’indomani stesso della scandalosa sentenza di Rennes, non avrebbe dovuto deferirla alla Corte di Cassazione, alla giurisdizione suprema di cui invece si beffa con tanta insolenza? La salvezza del Paese non era forse in quell’atto di necessaria energia che avrebbe salvato il nostro onore agli occhi del mondo e che avrebbe ristabilito il regno della legge? La pacificazione definitiva è possibile solo nella giustizia, qualsiasi viltà sarà soltanto causa di una nuova febbre, e ciò che finora ci è mancato è un governo coraggioso, che voglia compiere il suo dovere fino in fondo per riportare sul dritto cammino la nazione smarrita e disorientata dalle menzogne. Ma il nostro decadimento è tale che siamo ridotti a congratularci con il governo per essersi mostrato pietoso. Ha osato essere buono, gran Dio! Quale folle audacia, che coraggio eccezionale esporsi ai morsi delle belve, i cui branchi selvaggi sbucati dalla foresta ancestrale si aggirano tra di noi! Essere buoni quando non si può essere forti è di per sé meritorio. E del resto. Signora, la riabilitazione che doveva essere immediata per la giusta gloria del Paese stesso, suo marito può aspettarla a fronte alta, poiché non c’è innocente che sia più innocente di lui di fronte a tutti i popoli della terra. Signora, lasci che Le dica, l’ammirazione, la venerazione, il culto che proviamo per Suo marito. Ha talmente sofferto senza nessuna ragione, assalito dall’imbecillità dalla cattiveria umana, che vorremmo curare ognuna delle sue ferite con tenerezza. Sappiamo bene che la riparazione è impossibile, che mai la società potrà pagare il suo debito verso iI martire vessato con un’ostinazione così atroce, ed è per questo che nei nostri cuori gli eleviamo un altare, non potendo dargli niente di più puro, né di più prezioso di questo culto di commossa fraternità. Egli è diventato un eroe più grande degli altri perché ha più sofferto. L’ingiusto dolore lo ha reso sacro; è entrato, augusto e purificato, in quel tempio dell’avvenire in cui hanno sede gli dèi, le cui immagini toccano i cuori facendovi nascere un’eterna fioritura di bontà. Le indimenticabili lettere che Le ha scritto, Signora, resteranno come il più grande grido d’innocenza martirizzata che mai sia stato emesso da un’anima. E se finora nessun uomo è stato fulminato da un destino più tragico, non c’è neppure nessuno che sia salito più in alto di lui nel rispetto e nell’amore degli uomini. Poi, come se i suoi aguzzini avessero voluto innalzarlo ulteriormente, gli hanno imposto la tortura suprema del processo di Rennes. Davanti a quel martire schiodato dalla croce, sfinito, sostenuto soltanto dalla sua forza morale, essi hanno stilato selvaggiamente, vilmente, coprendolo di sputi, massacrandolo di coltellate, versando sulle sue piaghe fiele ed aceto. E lui, lo stoico, ha conservato un contegno ammirevole, senza un lamento, un coraggio fiero, la tranquilla certezza nella verità, che susciteranno lo stupore delle generazioni future. Lo spettacolo è stato così bello, così straziante, che l’iniqua sentenza ha sollevato i popoli da quel dibattimento mostruoso durato un mese, dove ogni udienza gridava più forte l’innocenza dell’accusato. Il destino si compiva, l’innocente diventava Dio, affinché un esempio indimenticabile venisse donato al mondo. A questo punto. Signora, arriviamo alla sommità. Non c’è gloria, non c’è lode più nobile. Verrebbe quasi da chiedersi: a che pro una riabilitazione legale attraverso la formulazione di un giudizio d’innocenza se nell’universo non troveremmo più un galantuomo che non sia già convinto di quell’innocenza? E questo innocente improvvisamente è diventato il simbolo della solidarietà umana da un capo all’altro della terra. Laddove la religione di Cristo aveva impiegato quattro secoli a formarsi e a conquistare alcune nazioni, la religione dell’innocente condannato due volte ha fatto immediatamente il giro del mondo, riunendo in una immensa umanità tutte le nazioni civili. Cerco, nel corso della storia un analogo movimento di fraternità universale, ma non lo trovo. L’innocente condannato due volte ha fatto più per la fraternità tra i popoli, per l’idea di solidarietà, di giustizia, che cento anni di discussioni filosofiche e teorie umanitarie. Per la prima volta nella storia, l’umanità intera ha emesso un grido di liberazione ribellandosi generosamente per la giustizia, come se ormai formasse un solo popolo, il popolo unico e fraterno sognato dai poeti. Egli può dormire tranquillo e fiducioso. Signora, nel dolce rifugio familiare, riscaldato dalle Sue mani pie. E Lei può contare su noi per la sua glorificazione. Siamo noi, i poeti, a concedere la gloria, e la parte che gli assegneremo sarà così bella che nessun altro uomo della nostra epoca lascerà un ricordo altrettanto commovente. Sono stati già scritti molti libri in suo onore, un’intera biblioteca si è moltiplicata per dimostrare la sua innocenza e per esaltare il suo martirio. Mentre da pane dei suoi carnefici sono rari i documenti volumi e gli opuscoli scritti, gli amanti della verità e della giustizia non hanno cessato né cesseranno di contribuire alla storia, di pubblicare gli innumerevoli documenti dell’immensa inchiesta che un giorno permetterà di stabilire definitivamente i fatti. È il verdetto di domani che si prepara e esso porterà all’assoluzione trionfale, alla clamorosa riparazione; alla memoria del glorioso torturato tutte le generazioni in ginocchio chiederanno perdono per il delitto commesso dai loro padri.E siamo sempre noi poeti, Signora, a inchiodare i colpevoli alla gogna eterna. Coloro che noi condanniamo le generazioni future li fischieranno e li disprezzeranno. Ci sono nomi di criminali che, marchiati d’infamia da noi, negli anni a venire non saranno che immondi relitti. La giustizia immanente si è riservata questo castigo, ha incaricato i poeti di legare all’esecrazione dei secoli coloro le cui malefatte sociali, i cui crimini enormi sfuggono ai tribunali ordinari. So bene che per questi animi meschini e gaudenti questo è solo un castigo lontano del quale sorridono.L’insolenza immediata li appaga. Trionfare a furia di pedate è iI successo brutale in grado di soddisfare la loro fame volgare. Quale importanza può avere l’indomani nella tomba o l’infamia, quando non si può più arrossirne! La spiegazione dello spettacolo vergognoso che ci è stato offerto è in questa bassezza d’animo: le menzogne sfrontate, le frodi provate, le spudoratezze lampanti, tutto ciò che non dovrebbe durare più di un’ora e costituire la rovina dei colpevoli. Ma questi non hanno una discendenza? Non temono che il rossore della vergogna salga un giorno sui volti dei loro figli e dei loro nipoti? Ah, poveri pazzi! Sembra che neppure Ii sfiori l’idea che questa gogna, dove noi inchioderemo i loro nomi, è stata erettaproprio da loro. Voglio credere che si trattidi cervelli ottusi, nei quali un particolare ambiente e uno spirito professionaleabbiano provocato una deformazione. Come nei giudici di Rennes checondannano nuovamenteun innocente per salvare l’onore dell’esercito: si può immaginare qualcosa di più stupido? L’esercito, già! Lo hanno servito bene, compromettendolo in questa avventura scellerata. Sempre lo scopo volgare, immediato, senza alcuna accortezza per il domani! Bisognava salvare i pochi ufficiali colpevoli, a costo di un autentico suicidio del Consiglio di Guerra, di un sospetto gettato sull’alto comando ormai solida- le. E del resto, fa sempre parte dei loro crimini l’avere disonorato l’esercito ed essere stati gli artefici di nuovi disordini e di un rinnovato risentimento, al punto che se il governo pur di pacificare un po’ gli animi ha graziato l’innocente, lo ha fatto senza dubbio cedendo all’urgente bisogno di riparare l’errore, essendovi costretto dal rifiuto di rendere giustizia.Ma bisogna dimenticare, Signora, e soprattutto disprezzare. Nella vita è un grande sostegno disprezzare le viltà e gli oltraggi. Per me è stato salutare. Sono ormai quarant’ anni che lavoro, quarant’anni che mi tengo in piedi grazie al disprezzo per le ingiurie che mi è valsa ciascuna delle mie opere. E, dopo due anni che ci battiamo per la verità e la giustizia, l’ignobile moltitudine si è talmente ingrossata attorno a noi che ne usciamo corazzati per sempre, invulnerabili alle ferite. Per quanto mi riguarda, ho radiato dalla mia vita, i giornali ignobili, questi fantocci di melma. Non esistono più, salto il loro nome quando me lo trovo sotto gli occhi, salto perfino le note che citano i loro scritti. È una semplice norma d’igiene. Ignoro quel che fanno, il disprezzo li ha cacciati dalla mia mente in attesa che la fogna li spazzi via interamente.Ciò che io consiglio all’innocente è l’oblio sprezzante di tante atroci ingiurie. Egli è un uomo a parte, posto così in alto che non deve più esserne colpito. Che possa rivivere al Suo fianco, sotto il sole limpido, lontano dalle folle sediziose, per ascoltare soltanto il concerto di simpatia universale che sale verso di lui! Pace al martirizzato che ha tanto bisogno di riposo, e che attorno a lui nel rifugio dove Lei lo amerà e lo guarirà ci sia soltanto la carezza commosa delle persone e delle cose. Quanto a noi, Signora, continueremo la lotta, ci batteremo per la giustizia con la stessa tenacia di ieri. Ci occorre la riabilitazione dell’innocente, non tanto per riabilitare la persona, che ha già tanta gloria, quanto per riabilitare la Francia, che sicuramente potrebbe morire di questi eccessi d’ingiustizia.Il nostro sforzo futuro sarà quello di riabilitare la Francia agli occhi delle nazioni il giorno in cui casserà la sentenza infame. Un grande Paese non può vivere senza giustizia, e il nostro resterà in lutto fintanto che non avrà cancellate l’onta, questo schiaffo alla sua più alta giurisdizione, questo rifiuto del diritto che colpisce ogni cittadino. Nel momento in cui viene meno la garanzia delle leggi, i l legame sociale è sciolto e tutto crolla. E in questo rifiuto del diritto c’è stato un tale castello d’insolenze, un insieme di bravate così tracotanti, che non abbiamo neppure la speranza di far scendere il silenzio sul disastro, di seppellire il cadavere in segreto per non arrossire di fronte ai nostri vicini. Il mondo intero ha visto e ha capito; è davanti al mondo intero che la riparazione deve avvenire, tonante quanto I’errore.Volere una Francia senza onore, isolata e disprezzata, un sogno criminale. Senza dubbio gli stranieri verranno alla nostra Esposizione, non ho mai dubitato che essi invaderanno Parigi la prossima estate, come si corre ai baracconi della fiera tra lo splendore dei lumi e il baccano delle musiche. Ma può bastare alla nostra fierezza? Non dobbiamo tenere tanto alla stima quanto al denaro di quei visitatori venuti da ogni parte del globo? Festeggiamo la nostra industria, le nostre scienze, le nostre arti esponiamo i nostri lavori del secolo. Oseremo esporre la nostra giustizia? E immagino la caricatura straniera, l’isola del Diavolo ricostruita e mostrata al Champ de Mars. Brucio di vergogna, non capisco come l’Esposizione possa venire inaugurata senza che la Francia abbia ripreso il suo rango di nazione giusta. Che l’innocente sia riabilitato, soltanto allora la Francia sarà riabilitata con lui. Concludendo, torno a ripeterlo, Signora, Lei può affidarsi ai buoni cittadini che hanno fatto restituire la libertà a Suo marito e che gli faranno restituire l’onore. Nessuno abbandonerà il combattimento perché sono coscienti che lottando per la giustizia lottano per il Paese. L’ammirevole fratello dell’innocente darà loro ancora una volta esempio di coraggio e di saggezza. E poiché non abbiamo potuto, in un colpo solo, renderLe l’amato libero e puro dall’accusa menzognera, Le chiediamo soltanto ancora un po’ di pazienza, augurandoci che i Suoi figlioli non debbano crescere ancora moltoprima che il loro nome sia legalmente lavato da ogni macchia. Oggi il mio pensiero torna inevitabilmente verso quei cari bambini, e li vedo tra le braccia del padre. So con quale premura gelosa e con quale miracolo di delicatezza Lei li ha tenuti nella completa ignoranza. Credevano il loro padre in viaggio; poi la loro intelligenza ha finito per svegliarsi, diventavano esigenti, interrogavano, volevano una spiegazione per una così lunga assenza. Che dire loro, quando il martire era ancora laggiù nella tomba infame, quando la prova della sua innocenza risiedeva soltanto in qualche raro devoto? Il Suo cuore deve essersi spezzato orribilmente. Tuttavia, in queste ultime settimane, non appena l’innocenza ha brillato per tutti di una luminosità solare, avrei voluto che Lei prendesse per mano tutti e due i Suoi bambini e li conducesse nella prigione di Rennes, affinché avessero per sempre nella memoria il padre ritrovato là, cosparso d’eroismo. Avrei voluto che avesse detto loro che cosa aveva sofferto ingiustamente, quale grandezza morale era la sua, di quale appassionata tenerezza dovevano amarlo per fargli dimenticare l’ingiustizia degli uomini. Le loro piccole anime si sarebbero temprate in quel bagno di virtù.Del resto, non è tardi. Una sera, alla luce della lampada familiare, nella pace del focolare domestico, il padre li chiamerà a sé, li farà sedere sulle sue ginocchia, e racconterà loro tutta la tragica storia. Bisogna che sappiano affinché lo rispettino e adorino come merita. Quando avrà finito di raccontare, sapranno che non c’è al mondo un eroe più acclamato, un martire la cui sofferenza abbia sconvolto più profondamente i cuori. E saranno molto fieri di lui, porteranno il suo nome gloriandosene, come il nome di un coraggioso e di uno stoico che si è purificato fino al sublime, preda del più crudele dei destini che la scelleratezza e la viltà umane abbiano mai lasciato compiersi. Un giorno saranno i figli dei boia e non quelli dell’innocente che dovranno arrossire tra l’orrore universale.Voglia gradire, Signora, l’espressione del mio più profondo rispetto.

Dreyfus doveva essere assolto e non soltanto perdonato, scrive Vincenzo Vitale il 26 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Il 29 settembre del 1899, il Presidente della Repubblica Loubet, per mettere fine allo scandalo della condanna doppia di un innocente, e del quale ormai tutto il mondo sapeva, firma la Grazia per Dreyfus, rendendolo, dopo circa sei anni di vera e propria tortura, alla moglie e ai figli. Dieci giorni dopo, Zola pubblica questa appassionata e appassionante lettera alla moglie di Dreyfus, che costituisce una sorta di sintesi della sua posizione pubblica. Innanzitutto, egli mette in chiaro, con molta onestà intellettuale, di aver creduto, sulle prime, trattarsi soltanto di un errore giudiziario – grave e spiacevole – ma sempre un errore e nulla di più. Solo poco alla volta, si era invece reso conto che si trattava di una mostruosa macchinazione difficilissima da smontare e in forza della quale “tutte le potenze sociali erano alleate contro di noi”, cioè contro coloro che difendevano Dreyfus e che invece contavano solo sulla forza della verità. Da questo punto di vista, Zola rappresenta davvero la figura del moderno intellettuale, libero da condizionamenti ideologici, capace di coltivare una idea politica – in quanto essere pensante – ma altrettanto capace di contraddirla se ce ne fosse stato bisogno. Ecco perché, per lui, che Dreyfus fosse ebreo, cattolico o maomettano non poteva che essere indifferente: bastava fosse un uomo. Ma Zola non manca di mettere il dito sulla piaga, sulla vera piaga, evidenziando che la Grazia, pur mettendo fine alle terribili sofferenze di Dreyfus, è “amara”. E perché sarebbe amara? Lo è per il semplice motivo che mentre la Grazia concessa dal sovrano – in questo caso dal Presidente – non si basa sul riconoscimento della innocenza della persona graziata, ed anzi ne presuppone la colpevolezza, per ragioni di elementare giustizia, Dreyfus doveva essere assolto nel merito da ogni imputazione, e non soltanto perdonato. Zola denuncia senza mezzi termini la pochezza di una nazione che – come la Francia – nella incapacità di rendere giustizia, cioè a ciascuno il suo, debba ricorrere alla misericordia del perdono. Ciò è null’altro che voler essere “buoni”, quando non si è capaci di essere “forti”. Ma in questo modo – c’è da aggiungere – si mistifica allo stesso tempo sia la giustizia, sia la misericordia. Infatti, la vera misericordia suppone sempre che sia stata preliminarmente soddisfatta la giustizia. Solo se la giustizia non ha più nulla da pretendere, può legittimamente entrare sul palcoscenico del mondo la misericordia, la quale, secondo il tradizionale insegnamento della scolastica, non nega mai la prima, ma anzi la porta a compimento. Se per ragioni di stretta giustizia devo pagare una somma a un mio creditore che mi concesse un prestito, non posso certo restituirgliela a titolo di misericordia: quella somma gli è dovuta, punto e basta. Se invece farò dono di una somma a un indigente per consentirgli di sfamarsi, quella sarà vera misericordia. Ebbene, graziando Dreyfus, è come se la Francia abbia preteso di concedere per la misericordia del perdono quella “elemosina della libertà” – scrive efficacemente Zola – a chi invece aveva diritto di essere riconosciuto del tutto innocente del delitto per cui era stato condannato. Insomma, una meschinità della quale vergognarsi e indegna di una nazione che accampi il merito di aver fatto da apripista nel dissodare l’aspro terreno dei diritti e della libertà. Ecco dunque l’annuncio alla destinataria dello scritto e al mondo intero: Zola non si fermerà, fin quando l’innocente Dreyfus non avrà ottenuto la piena riabilitazione. Certo, lo scrittore comprendeva bene le motivazioni empiriche che avevano indotto il Presidente Loubet a concedere la Grazia. Loubet aveva ben compreso probabilmente l’innocenza di Dreyfus, ampiamente dimostrata dalla precipitosa fuga del vero colpevole – Esterhazy – in Inghilterra; dal suicidio di Henry, l’autore del falso documento che era servito per condannare Dreyfus; dall’arresto di Paty du Clam, il vero e terribile autore della spudorata macchinazione. E perciò sperava che la Corte di Rennes avrebbe rimediato al misfatto, avendo del resto in mano gli elementi processuali per farlo. Ma non aveva fatto i conti con lo spirito corporativo di quei sedicenti giudici, tanto intenso da sfociare nella stupidità, se stupido è – secondo una nota definizione di Carlo Cipolla (autore di un sapido libretto sulle leggi fondamentali della stupidità umana) – colui che per danneggiare un altro (Dreyfus), alla fine danneggia anche se stesso (la Corte di Rennes e l’intero esercito). Di fronte a questa perdurante e in definitiva stupidissima ostinazione della Corte di Rennes, e probabilmente diffidando della stessa Cassazione alla quale si poteva pur inoltrare ricorso, al Presidente non restava che la Grazia, utile per finirla una buona volta con questa terribile storia che aveva infangato la reputazione della Francia in tutta Europa. Ma per la seconda volta, egli non aveva fatto i conti con un’altra ostinazione, ben più ragionata della prima: quella di Zola, nel richiedere a gran voce la piena riabilitazione di Dreyfus. “Che l’innocente sia riabilitato, soltanto allora la Francia sarà riabilitata con lui”. 

Amnistia a Dreyfus, sì, ma questa è un’amnistia sciagurata! Lettera riportata da "Il Dubbio il 29 agosto 2018 di Émile Zola a Émile Loubert, presidente della Repubblica dal 1899 al 1906 che concesse la grazia ad Alfred Dreyfus. Signor presidente, circa tre anni fa, il I 3 gennaio 1898, indirizzai al Suo predecessore Félix Faure una Lettera di cui egli non tenne sventuratamente conto per la sua buona reputazione. Ora che egli dorme il sonno eterno, la sua memoria rimane oscurata dalla mostruosa iniquità che io gli denunciavo, e della quale si è reso complice, usando tutto il potere che gli derivava dalla sua alta magistratura per coprire i colpevoli. Ed eccoLa ad occupare il suo posto, ecco che l’abominevole affaire, dopo avere macchiato tutti i governi complici o vili che si sono succeduti, si conclude sbrigativamente in un supremo diniego di giustizia, in un’amnistia che le Camere hanno appena votato con il coltello alla gola, e che porterà nella storia il nome di amnistia sciagurata. Il Suo governo precipita nell’errore insieme ai governi che l’hanno preceduto, assumendosi la più pesante delle responsabilità. Una pagina della sua vita sta per essere macchiata, la sua magistratura rischia di uniformarsi a quella precedente, a sua volta insozzata da una macchia indelebile. Mi permetta perciò, signor presidente, di esprimerle tutta la mia angoscia. Visto che la mia prima Lettera è stata una delle cause di questa amnistia, all’indomani della sua approvazione concluderò con questa nuova Lettera. Quanto meno non mi si potrà rimproverare d’essere un chiacchierone. Il 18 luglio 1898 partivo per l’Inghilterra e sono tornato soltanto il 5 giugno 1899: in quegli undici mesi ho taciuto. Ho di nuovo parlato nel settembre 1899, dopo il processo di Rennes. Poi sono ripiombato nel più completo silenzio, che ho spezzato una solta volta nel maggio scorso, per protestare davanti al Senato contro l’amnistia. Sono più di diciotto mesi che aspetto giustizia, fissata ogni tre mesi e regolarmente rinviata alla sessione successiva. Ho trovato tutto ciò tragico e comico. Oggi, al posto della giustizia, arriva quest’amnistia scellerata e oltraggiosa. Penso pertanto che il buon cittadino che sono stato, il silenzio che ho rispettato per non essere causa d’imbarazzo né di disordini, la grande pazienza che ho mostrato nel contare su una giustizia così lenta mi diano oggi il diritto e il dovere di parlare. Lo ripeto, devo concludere la mia opera. Una prima fase dell’affaire Dreyfus, che chiamerò il crimine assoluto, termina in questo momento. Prima di rientrare nuovamente nel silenzio, è necessario che spieghi il punto a cui siamo giunti, qual è stata la nostra opera e qual è la nostra certezza per domani. Non ho bisogno di risalire alle prime infamie dell’affaire, mi è sufficiente ritrarlo all’indomani della raccapricciante sentenza di Rennes, quella provocazione insolente ed iniqua che ha fatto fremere il mondo intero. È qui, signor presidente, che comincia la colpa del suo governo e conseguentemente la sua. Sono certo che un giorno ciò che è accaduto a Rennes verrà raccontato documenti alla mano: alludo al modo in cui il Suo governo si è lasciato ingannare e ha creduto quindi di doverci tradire. I ministri erano convinti dell’assoluzione di Dreyfus. Come avrebbero potuto dubitarne quando la Corte di Cassazione credeva di avere imbrigliato il Consiglio di Guerra nei termini di una sentenza così netta, in cui l’innocenza s’imponeva anche senza dibattimento? Come potevano minimamente preoccuparsi, quando i loro subordinati, intermediari, testimoni, attori perfino nel dramma, promettevano loro la maggioranza se non l’unanimità? E sorridevano dei nostri timori, lasciavano tranquillamente il tribunale in preda alla collusione, alle false testimonianze, alle manovre flagranti di pressione e d’intimidazione; spingevano la loro cieca fiducia fino a compromettere Lei, signor presidente, omettendo di avvisarla, perché voglio credere che il minimo dubbio Le avrebbe impedito di prendere, nel suo discorso di Rambouillet, l’impegno di inchinarsi di fronte alla sentenza, quale essa fosse. Governare significa forse non prevedere? Ecco un governo nominato per assicurare il buon funzionamento della giustizia e per vegliare sull’onesta esecuzione di una sentenza della Corte di Cassazione. Esso non ignora quale pericolo corra quella sentenza in mani fanatiche che ogni sorta di malvagità hanno reso poco scrupolose. E non fa niente, si compiace nel suo ottimismo, lascia che il crimine si compia alla luce del sole! Posso convenire che quei ministri volessero allora la giustizia: ma Le chiedo, che cosa avrebbero fatto qualora non l’avessero voluta? Poi esplode la condanna, una mostruosità fino ad allora inaudita di un innocente condannato due volte. A Rennes, in seguito all’inchiesta della Corte cli Cassazione, l’innocenza era evidente, non poteva lasciare adito a dubbi di sorta. Invece arriva il fulmine e l’orrore passa sulla Francia e su tutti i popoli. Come reagirà il governo, tradito, ingannato, provocato, il cui incomprensibile abbandono è sfociato in un simile disastro? Voglio ancora ammettere che il colpo che si è ripercosso così dolorosamente nell’animo di tutti i giusti abbia turbato anche i suoi ministri che avevano l’incarico di assicurare il trionfo del diritto. Ma cosa vorranno fare, quali saranno le loro decisioni all’indomani del crollo di tutte le loro certezze, una volta constatato che, lungi dall’essere stati artefici di verità e di giustizia, hanno causato con la loro inettitudine e la loro leggerezza uno sfacelo morale dal quale la Francia impiegherà molto tempo a riaversi? Ed è qui, signor presidente, che ha inizio l’errore del Suo governo e Suo personale, errore che ci ha separati da tutti voi, per una divergenza d’opinioni e di sentimenti che non ha mai cessato d’ingrandirsi. Esitare per noi era impossibile, non c’era che un mezzo per liberare la Francia dal male che la divorava, se la si voleva guarire per ridarle realmente la pace: infatti non c’è pacificazione se non nella tranquillità della coscienza, né ci sarà salvezza per noi finché sentiremo in noi il veleno dell’ingiustizia commessa. Bisognava trovare il modo di convocare nuovamente e immediatamente la Corte di Cassazione; e non mi si dica che era impossibile, il governo disponeva degli elementi necessari, anche al di fuori dell’abuso di potere. Bisognava liquidare tutti i processi in corso, lasciare che la giustizia compisse il suo corso senza che un solo colpevole le potesse sfuggire. Bisognava ripulire l’ulcera a fondo, dare al nostro popolo un’alta lezione di verità e di giustizia, restituire alla Francia il suo primato morale dinanzi al mondo. Soltanto allora si sarebbe potuto dire che la Francia era guarita e pacificata. È stato in quel momento che il suo governo ha preso l’altro partito, e cioè la risoluzione d’insabbiare una volta di più la verità, di sotterrarla, pensando che ciò fosse sufficiente perché non esistesse più. Nello sgomento in cui l’aveva gettato la seconda condanna dell’innocente, non ha saputo escogitare che il doppio provvedimento: prima la grazia dell’innocente e poi, per ottenere il silenzio, il bavaglio dell’amnistia. Le due misure sono collegate e si completano, sono la rabberciatura di un governo allo stremo che è venuto meno alla sua missione e che, per togliersi d’impaccio, non trova di meglio che rifugiarsi nella ragion di Stato. II Suo governo ha voluto coprirla, signor presidente, dal momento che aveva avuto il torto di lasciarla impegnare. Ha voluto salvarsi a sua volta, credendo forse di appigliarsi alla sola azione in grado di salvare la Repubblica minacciata. Il grande errore è stato perciò commesso quel giorno, nel momento in cui si presentava l’ultima occasione per agire e restituire alla patria la sua dignità e la sua forza. So bene che in seguito, nel corso dei mesi che si sono succeduti, la salvezza è diventata sempre più difficile. Il governo sì è lasciato schiacciare in una situazione senza uscita e quando davanti alle Camere ha affermato che non avrebbe potuto più governare qualora gli avessero rifiutato l’amnistia aveva senza dubbio ragione. Ma non è stato il governo che, disarmando la giustizia quando essa era ancora possibile, ha reso necessaria l’amnistia? Scelto per salvare tutto, ha lasciato che tutto crollasse nella peggiore delle catastrofi. E quando è intervenuto per trovare l’estrema riparazione, non ha saputo immaginare di meglio che terminare come i governi Méline e Dupuy avevano cominciato: l’insabbiamento della verità e l’assassinio della giustizia. Non è una vergogna della Francia che nessuno dei suoi uomini politici si sia sentito sufficientemente forte, intelligente e coraggioso per prendere in mano la situazione, per gridarle la verità e per essere da essa seguito? Per tre anni abbiamo visto gli uomini che si sono succeduti al potere prima vacillare e poi sprofondare nello stesso errore. E non parlo né di Méline, l’uomo nefasto che ha voluto il crimine, né di Dupuy, l’uomo ambiguo, asservito in partenza al partito dei più forti. Ma parlo di Brisson, che ha avuto il coraggio di chiedere la revisione; non è doloroso l’errore irrimediabile in cui è caduto permettendo l’arresto del colonnello Picquart all’indomani della scoperta del falso Henry? Parlo di Waldeck– Rousseau, i cui coraggiosi discorsi contro la legge di incompetenza a procedere avevano avuto così nobilitazioni le risonanza in tutte le coscienze. Non è disastroso che si sia sentito in obbligo di legare il suo nome a questa amnistia che, con brutalità anche maggiore, dichiara incompetente la giustizia? Ci chiediamo se un nemico al governo non ci sarebbe stato più utile, visto che gli amici della verità e della giustizia, quando sono al potere, non sanno trovare altri mezzi per salvare se stessi e il Paese che quello di ricorrere a loro volta alla menzogna e all’iniquità. Signor presidente, se la legge d’amnistia è stata votata dalle Camere con la morte nel cuore, è chiaro che lo scopo è di assicurare al Paese la salvezza. Nel vicolo cieco in cui si è cacciato, il suo governo ha dovuto scegliere il terreno della difesa repubblicana, di cui ha sentito la solidità. L’affaire Dreyfus ha per l’appunto indicato i pericoli che la Repubblica correva, a causa del doppio complotto del clericalismo e del militarismo che agivano in nome delle forze reazionarie del passato. E da quel momento il piano politico del governo è semplice: sbarazzarsi dell’affaire Dreyfus insabbiandolo, lasciar in tendere alla maggioranza che, se non obbedirà docilmente, non avrà le riforme promesse. Tutto ciò andrebbe bene se per salvare il Paese dal veleno clericale e militarista non lo si lasciasse immerso in un altro veleno, quello della menzogna e dell’iniquità in cui lo vediamo agonizzare da tre anni. Senza dubbio l’affaire Dreyfus è un terreno politico detestabile. O quanto meno lo è diventato a causa dell’abbandono nel quale è stato lasciato il popolo, in mano ai peggiori banditi e nel putridume della stampa ignobile. E concedo ancora una volta che nell’ attuale momento l’azione sia difficile, se non impossibile. Ma nondimeno l’idea che si possa salvare un popolo dal male che lo consuma, decretando che quel male non esiste più, è una concezione miope. L’amnistia è fatta, i processi non si faranno più e non sarà più possibile perseguire i colpevoli: ma ciò non toglie che Dreyfus, innocente, sia stato condannato due volte, e che questa orrenda ingiustizia finché non sarà riparata continuerà a far delirare la Francia in preda a incubi orribili. Voi avete ben sotterrato la verità, ma essa cammina sotto terra e un giorno riaffiorerà ovunque, esplodendo in ve- vendicatrici. E la cosa peggiore è che voi contribuite alla demoralizzazione degli umili, oscurando in loro il sentimento dì giustizia. Dal momento che non ci sono puniti, non ci sono neppure colpevoli. Come vuole che gli umili sappiano se sono in preda alle menzogne corruttrici di cui sono stati alimentati? Occorrerebbe una lezione per il popolo, mentre al contrario gli ottenebrate la coscienza e finite per il pervertirla del tutto. Il nodo è tutto qui: il governo afferma di tendere alla pacificazione con la legge d’amnistia, e noi al contrario sosteniamo che esso corre il rischio di preparare nuove catastrofi. Torno ancora una volta a ripetere che non c’è pace nell’ingiustizia. La politica vive alla giornata, crede all’eternità solo perché ha guadagnato sei mesi di silenzio. È possibile che il governo goda di un po’ di tregua, e ammetto perfino che la impiegherà utilmente. Ma la verità si risveglierà, griderà, scatenerà delle tempeste. Da dove verranno? Lo ignoro, ma verranno. E da quanta impotenza saranno colpiti gli uomini che non hanno voluto agire, con quale peso li schiaccerà questa amnistia scellerata in cui hanno gettato alla rinfusa persone oneste e delinquenti! Quando il Paese saprà, quando il Paese sollevatosi vorrà rendere giustizia, la sua collera non comincerà col cadere su coloro che non l’hanno illuminato quando potevano farlo? Il mio caro e grande amico Labori l’ha dello con la sua meravigliosa eloquenza: la legge d’amnistia è una legge dettata dalla debolezza e dalla impotenza. La viltà dei governi che si sono succeduti si è accumulata e questa legge nasce da tutti i cedimenti degli uomini che, messi di fronte a u n’ingiustizia insopportabile, non hanno avuto la forza di impedirla né di porvi rimedio. Di fronte alla necessità di dover colpire in alto, tutti si sono piegati e hanno indietreggiato. All’ultimo momento, dopo tanti crimini, non è né l’oblio né il perdono che ci viene porto, ma la paura, la debolezza, l’impotenza in cui si sono trovati i ministri a far semplicemente applicare le leggi esistenti. Dicono di volerci pacificare con concessioni reciproche: non è vero, la verità è che nessuno ha avuto il coraggio di usare la scure con la vecchia società corrotta, e per nascondere questa codardia parlano di clemenza, assolvendo Esterhazy il traditore, e Picquart, l’eroe al quale l’avvenire innalzerà monumenti. Questa è un’infamia che sarà sicuramente punita poiché non ferisce soltanto la coscienza ma corrompe la moralità nazionale. È questa una buona educazione per una Repubblica? Quali lezioni donate alla nostra democrazia quando le insegnate che ci sono ore in cui la verità e la giustizia non esistono più se l’interesse dello Stato lo esige? È la ragion di Stato rimessa sul piedistallo da uomini liberi che l’hanno condannata nella Monarchia e nella Chiesa. Bisogna veramente che la politica sia una grande pervertitrice d’anime. E dire che molti dei nostri amici che fin dal primo giorno hanno validamente combattuto, aderendo alla legge d’amnistia come a una misura politica necessaria, oggi hanno ceduto al sofisma! Mi si spezza il cuore nel vedere l’onesto e coraggioso Rane prendere le difese di Picquart contro lo stesso Picquart, mostrandosi felice del fatto che l’amnistia, che gli impedirà di difendere il suo onore, lo salverà dall’odio certo di un Consiglio di Guerra. E Jaurès, il nobile e generoso Jaurès che si è prodigato così magnificamente, sacrificando il suo seggio di deputato in questi tempi di appetiti elettorali, anche lui accetta di vederci amnistiati, Picquart ed Esterhazy, Reinach e du Paty de Clam, me e il generale Mercier, tutti nello stesso sacco! La giustizia assoluta finisce dunque là dove comincia l’interesse di un partito? Ah, quale serenità essere un solitario, non appartenere a nessuna setta, dipendere soltanto dalla propria coscienza, e che agiatezza nel procedere dritti per il proprio cammino, non amare che la verità, e volerla perfino quando potrebbe scuotere la terra e far cadere il cielo!

Signor presidente, nei giorni della speranza dell’affaire Dreyfus, avevamo fatto un bel sogno. Non avevamo tra le mani un caso unico, un crimine nel quale erano coinvolte le forze più reazionarie che sono di ostacolo al libero progresso dell’umanità? Mai si era presentata un’esperienza più decisiva e mai sarebbe stata data al popolo una lezione più nobile. In pochi mesi avremmo illuminato la sua coscienza, avremmo fatto molto di più per istruirlo e maturarlo di quanto un secolo di lotte politiche non avesse fatto. Sarebbe bastato mostrargli l’operato di tutti i poteri deleteri, complici del più esecrabile dei crimini: l’annientamento di un innocente le cui inqualificabili torture strappavano all’umanità un grido di rivolta. Confidando nella forza della verità attendevamo il trionfo. Sarebbe stata l’apoteosi della giustizia: il popolo cosciente che si levava in massa acclamando Dreyfus al suo rientro in Francia; il Paese che ritrovava la sua consapevolezza e innalzava un altare all’equità, celebrando la festa del diritto glorioso e sovrano riconquistato. E tutto sarebbe finito con un bacio universale, con i cittadini pacificati e uniti dalla comunione della solidarietà umana. Ahimè, signor presidente, sa bene ciò che è avvenuto: l’ambigua vittoria la confusione per ogni piccola parte di verità conquistata, l’idea della giustizia a lungo oscurata nella coscienza dello sventurato popolo. Sembra che la nostra idea di vittoria fosse troppo immediata e grossolana. La vita non contempla trionfi strepitosi che sollevino una nazione, che in un giorno la consacrino forte e potente. Simili evoluzioni non si realizzano in un istante ma soltanto nello sforzo e nel dolore. La lotta non finisce mai, ogni passo in avanti avviene al costo di una sofferenza e soltanto i figli potranno constatare i successi raggiunti dai padri. E se nel mio ardente amore per il popolo francese non mi consolerò mai di non aver potuto trarre per la sua educazione civica la nobile lezione che l’affaire Dreyfus comportava, sono altresì da molto tempo rassegnato nel vedere la verità penetrarlo lentamente, fino al giorno in cui sarà maturo per il suo destino di libertà e di fraternità. Non abbiamo mai pensato ad altro che al popolo, ad un tratto l’affaire Dreyfus si è dilatato diventando un caso sociale e umano. L’innocente che soffriva all’isola del Diavolo era soltanto l’accidente, tutto il popolo soffriva con lui sotto il peso schiacciante di potenze malefiche, nell’impudente disprezzo della verità e della giustizia. Salvandolo, salvavamo tutti gli oppressi e gli umiliati. Ma soprattutto, ora che Dreyfus è libero e restituito all’amore dei suoi, chi sono i furfanti e gli imbecilli che ci accusano di voler riaprire l’affaire Dreyfus? Sono coloro che, nei loro loschi maneggi politici, hanno forzato il governo ad esigere l’amnistia continuando a corrompere il Paese con le menzogne. Che Dreyfus cerchi con tutti i mezzi legali di ottenere la revisione del giudizio di Rennes è certamente giusto, e noi il giorno in cui si presenterà l’occasione lo aiuteremo con tutte le nostre forze. Immagino che perfino la Corte di Cassazione sarà felice di avere l’ultima parola per l’onore della sua suprema magistratura. Si tratta solamente di questo, di una questione giudiziaria, nessuno di noi ha mai avuto la stupida idea di ravvivare quello che è stato l’affaire Dreyfus: e oggi l’unico desiderio auspicabile e possibile è quello di trarre da questo caso le conseguenze politiche e sociali, la messe di riforme di cui esso ha mostrato l’urgenza. Sarà la nostra difesa in risposta alle accuse abominevoli che ci vengono rivolte, e soprattutto sarà la nostra vittoria definitiva. Signor presidente, un’espressione mi irrita ogni volta che la sento pronunciare, è il luogo comune secondo il quale l’affaire Dreyfus ha fatto tanto male alla Francia. L’ho sentita pronunciare e scrivere da tutti, miei amici la ripetono correntemente, e forse l’avrò usata io stesso questa espressione assolutamente falsa. E non mi riferisco all’ammirevole spettacolo che la Francia ha offerto al mondo, questa lotta gigantesca per una questione di giustizia, questo conflitto di tutte le forze attive in nome di un ideale. Così come non parlo dei risultati già ottenuti: gli uffici del Ministero della Guerra ripuliti, tutti gli attori equivoci del dramma spazzati via: poiché la giustizia, malgrado tutto, ha fatto un po’ del suo dovere. Ma il bene immenso che l’affaire Dreyfus ha fatto alla Francia non è, in realtà, l’essere stato l’accidente putrido, la piaga che appare in superficie e che rivela il marciume interiore? Bisogna ritornare all’epoca in cui il pericolo clericale faceva alzare le spalle, in cui era di moda prendere in giro Homais, volterriano ritardato e ridicolo. Le forze reazionarie avevano continuato a strisciare sotto il selciato della nostra grande Parigi inando la Repubblica, contando già d’impadronirsi della città e della Francia il giorno in cui le attuali istituzioni sarebbero crollate. Ed ecco che l’affaire Dreyfus smaschera tutto prima che l’insabbiamento sia pronto, ecco che i repubblicani finiscono per accorgersi che rischiano di vedersi confiscare la loro Repubblica se non vi riportano l’ordine. Tutto il movimento di difesa repubblicano è nato da lì, e se la Francia si salverà dal lungo complotto della reazione lo dovrà all’affaire Dreyfus. Auspico che il governo porti a buon fine il dovere di difesa repubblicana che ha appena invocato per ottenere dalle Camere il voto sulla sua legge d’amnistia. E’ il solo mezzo di cui dispone per essere finalmente coraggioso ed efficace. Ma non rinneghi l’affaire Dreyfus, lo riconosca come il bene più grande che potesse capitare alla Francia, e dichiari con noi che senza l’affaire Dreyfus oggi la Francia sarebbe di sicuro nelle mani dei reazionari. Quanto alla mia questione personale, signor presidente, io non recrimino. Sono quarant’anni che faccio il mio lavoro di scrittore, senza inquietarmi né delle condanne né delle assoluzioni pronunciate sui miei libri, lascio all’avvenire la cura di formulare il giudizio definitivo. Un processo restato a metà non può dunque turbarmi eccessivamente. È un affaire in più che la storia giudicherà. E se rimpiango la desiderabile esplosione di verità che un nuovo processo avrebbe potuto far scaturire, mi consolo pensando che la verità troverà ugualmente una via per affermarsi. Eppure Le confesso che sarei stato molto curioso di sapere cosa una nuova giuria avrebbe pensato della mia prima condanna, emessa sotto la minaccia di generali armati della clava del terribile falso Henry. E questo non vuol dire affatto che io abbia una grande fiducia nella giuria, così facile da sviare e da terrorizzare in un processo puramente politico. Ciò nonostante, sarebbe stata una interessante lezione il dibattimento che si riapriva dopo che l’inchiesta della Corte di Cassazione aveva ottenuto la prova di tutte le accuse da me mosse. Se lo immagina? Un uomo condannato sulla base di un falso che ritorna davanti ai suoi giudici dopo che il falso è stato riconosciuto e confessato! Un uomo che aveva accusato altri in base a fatti di cui un’inchiesta della Corre Suprema ha ormai accertato l’assoluta verità! In quell’aula avrei vissuto delle ore gradevoli, perché un’assoluzione mi avrebbe fatto piacere; e, nel caso ci fosse stata un’altra condanna, la vile stupidità o la passione cieca hanno per me una bellezza particolare che mi ha sempre appassionato. Ma devo essere chiaro, signor presidente. Le scrivo unicamente per mettere fine a tutta questa vicenda, ed è bene che io ripeta davanti a Lei le accuse che avevo esposto al presidente Félix Faure, per stabilire definitivamente che esse erano giuste, moderate, perfino carenti, e che la legge del suo governo ha amnistiato in me un innocente. Ho accusato il tenente colonnello du Paty de Clam «di essere stato il diabolico artefice dell’errore giudiziario, voglio sperare inconsapevolmente, e di avere in seguito difeso la sua opera nefasta per tre anni attraverso le più assurde e colpevoli macchinazioni». Per chi abbia letto il rapporto del terribile capitano Cuignet, che al contrario si spinge fino all’accusa di falso, mi sembra un’espressione discreta e cortese, non è vero? Ho accusato il generale Mercier «di essersi reso complice, quanto meno per debolezza di carattere, di una delle più grandi ingiustizie del secolo». Su questo punto faccio onorevole ammenda e ritiro la debolezza di carattere. Ma, se il generale Mercier non ha l’attenuante di una debole intelligenza, allora negli atti a lui ascritti che l’inchiesta della Corte di Cassazione ha appurato e che il Codice qualifica come criminali la sua responsabilità è totale. Ho accusato il generale Billot «di avere le prove certe dell’innocenza di Dreyfus e di averle nascoste, di essersi reso colpevole del crimine di lesa umanità e di lesa giustizia a scopo politico e per salvare lo Stato Maggiore compromesso». Tutti i documenti ad oggi conosciuti provano che il generale Billot era per forza di cose al corrente delle manovre criminali dei suoi subordinati; inoltre aggiungo che dietro suo ordine il dossier segreto su mio padre è stato consegnato ad un giornale immondo. Ho accusato i generali de Boisdeffre e Gonse «di essersi resi complici dello stesso crimine, l’uno senza dubbio per passione clericale, l’altro forse per quello spirito di corpo che fa degli uffici della Guerra l’arca santa inattaccabile». Il generale de Boisdeffre si è giudicato da sé all’indomani della scoperta del falso Henry, offrendo le sue dimissioni e uscendo dalla scena pubblica. Uscita tragica di un uomo che precipita nel nulla dopo essere stato elevato ai più alti gradi e alle più alte funzioni: quanto poi al generale Gonse, fa parte di coloro che l’amnistia salva dalle più pesanti e acclarate responsabilità. Ho accusato il generale de Pellieux e il comandante Ravary «di aver condotto un’inchiesta scellerata, intendo dire un ‘ inchiesta mostruosamente parziale, di cui abbiamo, nel rapporto del secondo, un imperituro monumento di ingenua audacia». Che si rilegga l’inchiesta della Corte di Cassazione e si vedrà che la collusione è accertata e provata dai documenti e dalle testimonianze più schiaccianti. L’istruzione dell’affaire Esterhazy non fu che un’arrogante commedia giudiziaria. Ho accusato i tre esperti calligrafi, Belhomme, Varinard e Couard, «di aver fatto dei rapporti falsi e fraudolenti, a meno che un esame medico non li dichiari affetti da una malattia della vista e della mente». Dichiaravo ciò di fronte alla straordinaria affermazione dei tre esperti, i quali asserivano che il borderea non era stato scritto da Esterhazy; errore che, a mio parere, un bambino di dieci anni non avrebbe commesso. Oggi sappiamo che lo stesso Esterhazy riconosce di aver compilato il bordereau. E il presidente Ballot Beaupré nel suo rapporto ha dichiarato solennemente che a suo parere, non c’era nessuna possibilità di dubbio. Ho accusato gli uffici del Ministero della Guerra «di aver condotto una campagna stampa, in particolare su “L’Éclair” e “L’Echo d Paris”, una campagna sporca, per sviare l’opinione pubblica e coprire la loro colpa». Non insisto; penso che la prova stia in tutto ciò che è emerso in seguito e in quello che gli stessi colpevoli hanno dovuto confessare. Infine, ho accusato il primo Consiglio di Guerra «di avere violato la legge, condannando un presunto colpevole sulla base di un documento rimasto segreto», e il secondo «di avere coperto questa illegalità, per ordine dell’autorità, commettendo a sua volta il crimine giuridico di assolvere coscientemente il vero colpevole». Per il primo Consiglio di Guerra, il fatto d’avere prodotto un documento segreto è stato nettamente stabilito dall’inchiesta della Corte di Cassazione, peraltro confermata anche al processo di Rennes. Per il secondo è sempre l’inchiesta ad aver provato la collusione e il continuo intervento del generale de Pellieux, nonché l’evidente pressione con cui è stata ottenuta l’assoluzione in ossequio al desiderio dei superiori. Come vede, signor presidente, non c’è una delle mie accuse che le colpe e i crimini scoperti non abbiano confermato, e ripeto che queste accuse oggi appaiono assai tenui e modeste di fronte all’agghiacciante cumulo delle infamie commesse. Confesso che non avrei mai osato supporne una tale quantità. Allora, le chiedo, qual è il tribunale onesto, o semplicemente ragionevole, che si coprirebbe di vergogna condannandomi ancora, ora che la prova di tutte le mie accuse è così chiara ed evidente? E non sembra anche a Lei, che la legge del Suo governo che concede l’amnistia a me, innocente, insieme al branco di colpevoli che ho denunciato, sia veramente una legge scellerata?

È dunque finita, signor presidente, almeno per il momento, per questo primo periodo dell’affaire che l’amnistia ha chiuso forzatamente. Come risarcimento ci promettono la giustizia della Storia. È un po’ come il paradiso cattolico, che serve a far pazientare le vittime miserabili strangolate dalla fame su questa terra. Soffrite, amici miei, mangiate il vostro pane secco, dormite per terra, intanto che i felici di questo mondo dormono tra le piume e si cibano di prelibatezze. Allo stesso modo, lasciate che gli scellerati occupino le posizioni più alte, mentre voi, i giusti, venite spinti nel fango. E aggiungono che, quando saremo tutti morti, ci erigeranno delle statue. Da parte mia, voglio, e perfino spero, che la rivincita della Storia sia più seria delle delizie del paradiso. Comunque sia, un po’ di giustizia su questa terra mi avrebbe fatto piacere. Io non mi lamento del nostro destino perché sono convinto che siamo quasi in porto, come si suol dire. La menzogna non può durare all’infinito, mentre la verità, che è una sola, ha dalla sua parte l’eternità. Così, signor presidente, il suo governo dichiara che riporterà la pace con la legge d’amnistia, e noi dal canto nostro crediamo che prepari al contrario nuove catastrofi. Un po’ di pazienza e si vedrà chi ha ragione. Secondo me, non smetterò di ripeterlo, l’affaire Dreyfus non può finire finché la Francia non saprà e non riparerà l’ingiustizia commessa. Ho detto che il quarto atto era stato era stato recitato a Rennes, e che per forza di cose ci sarebbe stato un quinto atto. Me ne resta nel cuore l’angoscia, ci si dimentica sempre che l’Imperatore tedesco ha la verità tra le mani e che può sbattercela in faccia a suo piacimento quando lo vorrà. Sarà un quinto atto agghiacciante, che io ho sempre temuto e di cui un governo francese non dovrebbe accettarne la spaventosa eventualità neppure per un istante. Ci hanno promesso la Storia e anch’io rimando Lei al suo giudizio. Le riserverà una pagina dicendoci quello che Lei avrà fatto. Pensi a quel povero Félix Faure, a quel conciatore di pelli deificato così popolare al suo apparire, che aveva commosso perfino me con la sua bonomia democratica: per l’avvenire sarà soltanto l’uomo ingiusto e debole che ha permesso il martirio di un innocente. E veda se non le piacerebbe molto di più essere ricordato sul marmo come l’uomo della verità e della giustizia. Forse è ancora in tempo. Quanto a me, non sono che un poeta, un narratore solitario che scrive appartato la sua opera mettendoci tutto se stesso. Ritengo che un buon cittadino debba accontentarsi di offrire al suo Paese il lavoro che riesce ad assolvere nel modo meno maldestro; ed è per questo che mi chiuso nei miei libri. Ritorno dunque semplicemente ad essi, poiché la missione che mi ero assegnato è compiuta. Ho fatto la mia parte fino in fondo, quanto più onestamente mi è stato possibile, e rientro definitivamente nel silenzio. Devo però aggiungere che le mie orecchie e i miei occhi rimarranno bene aperti. Sono un po’ come suor Anna, mi preoccupo giorno e notte di quel che si profila all’orizzonte, confesso perfino di nutrire la tenace speranza di poter vedere presto tanta verità e giustizia avanzare verso di noi dai campi lontani dove l’avvenire. Voglia gradire, signor presidente, l’assicurazione del mio profondo rispetto.

Perché Zola condanna gli atti di clemenza. L'articolo summa dell'affaire Dreyfus di Vincenzo Vitale del 29 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Il 14 dicembre del 1900 il Parlamento approva una apposita legge di amnistia per tutti i reati comunque collegati o collegabili al caso Dreyfus. Il 22 dello stesso mese Zola tuona ancora una volta con questo articolo che, da un certo punto vista, rappresenta una sorta di summa della sua posizione pubblica. Da questo scritto, molto articolato, è possibile estrapolare alcuni punti che meritano adeguata riflessione. Innanzitutto, Zola bolla l’amnistia come semplice ma terribile manifestazione della volontà di insabbiare il caso Dreyfus. E dunque, proprio gli organi rappresentativi del popolo francese, il parlamento e il governo, proprio loro che avrebbero dovuto trarre un importante insegnamento, hanno invece preferito chiudere entrambi gli occhi, insabbiando tutto nel dimenticatoio. Insomma, quasi peggio della Grazia già elargita a Dreyfus. In questo modo, non solo si condanna ulteriormente Dreyfus – in quanto l’amnistia presuppone che il reato sia stato commesso e lo sia stato proprio da quegli imputati – ma si deturpa la giustizia, umiliandola ancora una volta e gravemente. Si persiste nello scempio del diritto e delle istituzioni repubblicane, come nulla fosse accaduto. Questa amnistia infatti serve soltanto a coprire, senza peraltro riuscirvi, ciò che Zola definisce il “crimine assoluto”, la condanna, reiterata, di un innocente. E dopo la seconda incomprensibile e grottesca condanna di Rennes, invece di ricorrere in Cassazione – come si poteva e doveva – si preferì elargire prima la Grazia a Dreyfus e poi l’amnistia a tutti coloro che sia pure indirettamente con il caso avevano avuto qualcosa a che fare. La polvere sotto il tappeto. In secondo luogo, Zola stigmatizza quanto sia illusorio ritenere che l’amnistia possa godere di una efficacia pacificatrice delle contese asperrime nate dal caso Dreyfus. Al contrario, essa non fa che perpetuare il disordine sociale nato da quella vicenda, senza in realtà pacificare nessuno. Anzi. Dal momento che l’amnistia è dettata dal senso di impotenza e di debolezza, mai potrà condurre alla pace. Solo la giustizia feconda la pace. Non basta. Zola polemizza intensamente con chi non perde occasione per denunciare che la vicenda Dreyfus ha fatto molto male alla Francia, mettendone in luce mancanze e contraddizioni. Ragion per cui sarebbe stato meglio che esso non fosse mai accaduto. Al contrario, Zola è fermamente convinto che la vicenda di Dreyfus, per quanto dolorosa e dotata di una grande capacità divisiva, rappresenti per la Francia una sorta di benefica crisi di crescita e di affermazione repubblicana. Zola sa bene insomma che prima che il caso deflagrasse con tutta la sua forza dirompente, sotterraneamente agivano in Francia, da decenni, le forze del militarismo, dell’antisemitismo, del nazionalismo; ma ciò accadeva in modo pressoché silente e perciò molto pericoloso per le istituzioni repubblicane, ancora giovani e fragili. L’esplosione del caso Dreyfus, invece, ha necessitato di portare alla luce la posizione di tutti coloro che intendevano fare di quelle ideologie una miscela venefica, capace di minare dall’interno la libertà e la forza del popolo francese. Ed è noto, grazie alle osservazioni già in precedenza fatte, che una volta che i meccanismi persecutori vengano portati alla luce, essi si depotenziano, lasciandosi valutare per quello che in effetti sono: persecuzione e non processo di diritto; ideologia e non verità; guerra sociale e non pace. Paradossalmente, nonostante il suo enorme carico di dolori e di sofferenze, il caso Dreyfus è allora servito – secondo Zola – a purificare la Francia, a rendere noto a tutti che militarismo, nazionalismo e antisemitismo non rappresentano che un ritorno al passato; un passato di cui la Francia non sente il bisogno. Questo passato non va rivissuto, neppure nel ricordo. Questo passato va seppellito definitivamente. Ne va delle sorti della Francia, per Zola. Della stessa Europa, per noi.

Affaire Dreyfus, un caso mai chiuso. Ma oggi esiste un nuovo Zola? Scrive Vincenzo Vitale l'1 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Si pubblicano oggi le lettere che Dreyfus scrisse dal carcere, alcune subito dopo il suo arresto, quando ancora nessuno poteva lontanamente immaginare quali sviluppi avrebbe fatto registrare il caso, altre dopo la inaspettata condanna. Ne emerge un essere umano serio, consapevole della propria innocenza, composto e psicologicamente molto forte. E tuttavia sempre pieno di speranza che le proprie ragioni sarebbero state prima o poi riconosciute. Speranza riposta invano se soltanto fondata sui giudici e sui militari. La vera speranza andava riposta invece in alcune dimensioni irrinunciabili di ogni democrazia: la libera stampa, la libertà dell’intellettuale, la libertà del giudizio. Non sarà mai abbastanza sottolineata l’importanza capitale che una stampa libera da influenze e condizionamenti è in grado di evidenziare allo scopo di salvaguardare l’assetto di una democrazia. Non sono tanto idealista da non ammettere che ogni giornale e ogni giornalista possano o perfino debbano avere una propria idea di politica e di società e che, attraverso questa idea, vedranno necessariamente il mondo e ne forniranno una interpretazione. Il problema non è questo, posto che anche i giornalisti sono esseri umani pensanti, dotati di una precisa sensibilità, come tutti gli altri. Il punto è che essi devono essere lasciati liberi di formarsi una loro idea sui fatti che cadono sotto la loro osservazione e di scriverne come ritengono, interessando quella parte di opinione pubblica che ritenga sensate le loro prospettive. Questo fece l’Aurore di Parigi, dopo che Le Figaro si era attestato su più prudenti posizioni filogovernative e perciò antidreyfusarde. Ed ebbe la piena libertà di farlo. Oggi, in Italia, dopo oltre un secolo dall’Affaire, la stampa gode della medesima libertà? Non sarei così sicuro nel dare una risposta affermativa. Troppe volte accade che un ministro rimbrotti un giornalista, reo di aver pubblicato una informazione sgradita; che il potente di turno cerchi di emarginare una testata scomoda; che il Consiglio Superiore della Magistratura si metta a strillare sol perché si metta in dubbio, con adeguate motivazioni, la bontà di una qualche iniziativa di un pubblico ministero. In tutti questi casi, non mi risulta che la libertà di stampa sia stata efficacemente difesa da alcun ente o da alcuna istituzione. Semplicemente, si preferisce far finta di nulla, lasciando che le cose vadano come devono andare: ma chi ragiona in tal modo – un vero condensato di sciatteria del pensiero – non sa che gioca col fuoco. Da un secondo punto di vista, fondamentale è la libertà dell’intellettuale, cioè di colui che sia capace di svolgere una funzione di severa critica del potere, di qualunque potere: economico, politico, finanziario, criminale, mafioso e antimafioso, giudiziario, editoriale, comunicativo …. Qui, il ruolo è svolto da Zola, il quale sa bene di andare incontro allo spostamento mimetico – già segnalato – e che ne farà a sua volta un capro espiatorio. E tuttavia, egli va ugualmente avanti, perché ne va non solo del destino di Dreyfus e della Francia – come da lui più volte ricordato – ma perfino della sua propria identità. E se ne ebbe mali di ogni genere. Non solo fu condannato per diffamazione e dovette riparare a Londra; ma fu anche personalmente calunniato in quanto di origine italiana; e lo fu anche nella persona del padre, peraltro deceduto da tempo, in difesa della onorabilità del quale si impegnò a scrivere diversi articoli. E resta il giallo della sua morte. Una morte strana e su cui mai fu dissipata una qualche incertezza, per avvelenamento di una stufa accanto alla quale si era assopito. Ci sono oggi in Italia intellettuali come Zola? Non ne conosco. Latitano. E perciò non ci sono. Occorre infine che sia garantita ai giudici la necessaria libertà di giudizio, esente da pressioni di ogni genere e dall’insano desiderio di coprire gli errori altrui, commettendone di nuovi e perciò di più gravi. Oggi i giudici italiani sono garantiti nella loro libertà di giudizio? Non molto, a dire il vero. Anche perché militano in senso contrario la vicinanza politica di molte forze e soprattutto la divisione in correnti, il vero cancro della magistratura italiana. Sicché, sembra risuoni ancora il monito espresso da Salvatore Satta molti decenni fa, allorché notava (nei “Quaderni del diritto e della procedura civile”) che i giudici italiani devono guardarsi, per tutelare la loro indipendenza, proprio da quell’organo che dovrebbe tutelarla e che invece sottilmente la insidia: il Consiglio Superiore della Magistratura. Ogni popolo ha il suo Dreyfus, questa in fondo la lezione della storia. E non si creda che l’affaire sia alla fine stato pacificato nella coscienza pubblica dei francesi. Infatti, nel 1994 – appena oltre un ventennio fa – l’allora sindaco di Parigi Chirac aveva commissionato un busto bronzeo di Dreyfus – in occasione del centenario del caso – per collocarlo presso l’Ecoile Militaire. Ma i militari si opposero con fermezza, dirottando la statua ai giardini delle Tuileries. Il caso Dreyfus, per i francesi, non è ancora chiuso. E per noi?

Mia amata Lucie, urleremo la mia innocenza fino alla fine. Pubblichiamo le lettere che Alfred Dreyfus scrisse dal carcere alla moglie, scrive "Il Dubbio" l'1 Settembre 2018

DICEMBRE 1894. Mia amatissima, La tua lettera che attendevo con impazienza mi ha provocato un grande sollievo e al contempo il tuo pensiero mi ha fatto salire le lacrime agli occhi, mia amatissima. Non sono perfetto. Quale uomo può vantarsi di esserlo? Ma quello che posso garantire è che ho sempre seguito la via del dovere e dell’onore; non sono mai sceso a compromessi al riguardo con la mia coscienza. Per di più, nella mia grande sofferenza, nel più spaventoso martirio immaginabile, in questa lotta terribile sono sempre stato sostenuto dalla mia coscienza che vegliava retta e inflessibile. La mia riservatezza un po’ altezzosa, la libertà con cui dicevo la mia ed esprimevo il mio giudizio, il mio essere un po’ indulgente, tutto ciò gioca ora a mio sfavore. Non sono né flessibile, né abile, né adulatore. Noi non abbiamo mai voluto fare visite di cortesia; restavamo appartati a casa nostra, accontentandoci di essere felici. E oggi mi si accusa del crimine più mostruoso che un soldato possa commettere! Ah! Se potessi mettere le mani sul miserabile che non solamente ha tradito il suo paese, ma ha anche tentato di far ricadere la sua infamia su di me, non so quale supplizio inventerei per fargli espiare quello che mi ha fatto passare. Bisogna pertanto sperare che il colpevole venga trovato. Altrimenti, se ciò non avvenisse, bisognerebbe disperare della giustizia a questo mondo. Concentrate su questa ricerca tutti i vostri sforzi, tutto il vostro ingegno, tutta il mio patrimonio, se necessario. I soldi non sono niente, l’onore è tutto. Dì a M. che conto su di lui per questo compito. Non è al di sopra delle sue forze. Debba smuovere cielo e terra, bisogna ritrovare quel miserabile. Ti bacio mille volte quanto ti amo. Tuo devoto, ALFRED

Mathieu Dreyfus, son frère aîné. Mille baci ai bambini. Il mio affetto a tutti i nostri familiari e i miei ringraziamenti per la loro devozione alla causa di un innocente.

LUNEDÌ, 11 DICEMBRE 1894. Mia amatissima, Ho ricevuto la tua lettera di ieri, così come quella di tua sorella e di Henri. Speriamo che ben presto mi sia fatta giustizia e che possa ritrovarmi con voi. Con te e i nostri cari bambini, con voi tutti, ritroverò la calma di cui ho tanto bisogno. Il mio cuore è profondamente ferito e tu puoi facilmente comprenderlo. Aver consacrato tutta la propria vita, tutte le proprie forze, tutta la propria intelligenza al servizio del proprio paese, e vedersi accusato del crimine più mostruoso che un soldato possa commettere, è spaventoso. Al solo pensiero, tutto il mio essere si rivolta e freme d’indignazione. Mi domando ancora per quale miracolo non sia diventato folle, come la mia mente abbia potuto resistere ad uno choc così Te ne supplico, mia amata, non assistere ai dibattiti. È inutile che tu t’imponga ulteriori sofferenze, quelle che hai già sopportato, con una grandezza d’animo ed un eroismo di cui sono fiero, sono più che sufficienti. Serba la tua salute per i nostri bambini; avremo anche entrambi bisogno di prenderci cura l’un dell’altro per scordare questa terribile prova, la più terribile che le forze umane possano sopportare. Abbraccia forte i nostri amati bambini per me, fintanto che non possa farlo io stesso. Vi penso tutti affettuosamente. Ti bacio quanto ti amo. Tuo devoto, ALFRED

MARTEDÌ, 12 DICEMBRE 1894. Mia amata Lucie, Puoi farmi da portavoce presso tutti i membri delle nostre due famiglie, presso tutti quelli che si interessano di me, per dire loro quanto io sia stato toccato dalle loro lettere e dalle loro testimonianze di supporto. Io non posso rispondere loro perché cosa potrei mai raccontare? Le mie sofferenze? Possono comprenderle da soli, e io non amo lamentarmi. D’altronde la mia mente è a pezzi e le idee sono alle volte confuse. Solo il mio spirito resta vigoroso come il primo giorno, davanti all’accusa spaventosa e mostruosa che mi è stata gettata in faccia. Al pensiero tutto il mio essere si rivolta ancora. Ma la verità finisce sempre per venire alla luce, a dispetto di tutto. Non siamo più in un secolo dove la luce può essere offuscata. Bisognerà che la si renda totale ed assoluta, bisognerà che la mia voce sia sentita in tutta la nostra cara Francia, come è stato per la mia accusa. Non devo solamente difendere il mio onore ma anche l’onore di tutto il corpo degli ufficiali di cui faccio parte e di cui sono degno. Ho ricevuto i vestiti che mi hai inviato. Se ne hai l’occasione, potresti inviarmi la mantellina, la pelliccia è inutile. E’ nell’armadio nell’anticamera. Abbraccia i nostri cari per me. Ho pianto sulla bella lettera del nostro caro Pierrot; non vedo l’ora di poterlo abbracciare, così come tutti voi. Mille baci per te. Tuo devoto ALFRED

GIOVEDÌ, 14 DICEMBRE 1894. Mia amata Lucie, Ho ricevuto la tua bella lettera così come delle nuove lettere dalla famiglia. Ringrazia molto tutti da parte mia; tutte queste testimonianze di affetto e di stima mi toccano più di quanto non sappia dire. Aver dovuto ascoltare tutto quello che mi è stato detto, quando nella mia anima e nella mia coscienza so di non essere mai venuto meno al mio dovere, di non aver mai commesso nemmeno la più leggera imprudenza, è la più spaventosa delle torture morali. Dunque cercherò di vivere per te, ma ho bisogno del tuo aiuto. Qualunque cosa avvenga di me, bisogna assolutamente cercare la verità, smuovere cielo e terra per scoprirla, se necessario dilapidare nell’impresa tutti i nostri soldi, al fine di riabilitare il mio nome gettato nel fango. Bisogna lavare questa macchia immeritata a qualunque costo. Non ho il coraggio di scriverti più a lungo. Abbraccia da parte mia i tuoi cari genitori, i bambini, tutti quanti. Mille e mille baci, ALFRED

Cerca di ottenere il permesso di vedermi. Penso che non possano rifiutartelo oramai.

LUNEDÌ, 24 DICEMBRE 1894. Mia amata, Scrivo di nuovo a te, dato che sei il solo filo che mi lega alla vita. So bene che tutta la mia famiglia, che tutta la tua, mi amano e mi stimano; ma infine, qualora scomparissi, il loro dispiacere, per quanto grande, finirebbe per scomparire con gli anni. È solamente per te, mia povera cara, che ho la forza di lottare; è il tuo pensiero che mi blocca la mano. Quanto sento, in questo momento, il mio amore per te; non è mai stato così grande, così esclusivo. E poi, una fievole speranza mi sostiene ancora un po’: quella di poter un giorno riabilitare il mio nome. Ma soprattutto, credimi, se avrò davvero la forza di lottare fino alla fine contro questo calvario, sarà unicamente per te, mia povera cara, sarà per evitarti un ulteriore dispiacere da aggiungere a tutti quelli che hai sopportato fino adora. Fai tutto quello che è umanamente possibile per riuscire a vedermi. Ti bacio mille volte quanto ti amo, ALFRED

24 DICEMBRE 1894 (NOTTE TRA LUNEDÌ E MARTEDÌ). Mia cara adorata. Ho appena ricevuto la tua lettera; spero che tu abbia ricevuto le mie. Povera cara, come devi soffrire, come ti compiango! Ho pianto molte lacrime sulla tua lettera, non posso accettare il tuo sacrificio. Devi restare lì, devi vivere per i bambini. Pensa a loro prima di pensare a me; sono dei poveri piccoli che hanno assolutamente bisogno di te. I miei pensieri mi riconducono sempre verso di te. L’avvocato Demange, che è appena venuto, mi ha detto quanto tu sia stata ammirevole; mi ha fatto un tuo elogio al quale il mio cuore faceva eco. Sì, mia amata, sei impareggiabile in quanto a coraggio e devozione; vali più di me. Ti amavo già con tutto il mio cuore e tutta la mia anima; oggi faccio di più, ti ammiro. Tu sei certamente una delle donne più nobili su questa terra. La mia ammirazione per te è tale che, se riuscirò a bere l’amaro calice fino alla fine, sarà per essere degno del tuo eroismo. Ma sarà davvero terribile subire quest’umiliazione vergognosa; preferirei trovarmi di fronte ad un plotone d’esecuzione. Non temo la morte; non voglio il disprezzo. Qualunque cosa avvenga, ti prego di raccomandare a tutti di alzare la testa come io stesso faccio, di guardare il mondo in faccia senza vacillare. Non abbassate mai il viso e proclamate la mia innocenza ad alta voce. Ora, mia amata, lascerò di nuovo cadere la mia testa sul cuscino e penserò a te.Ti bacio e ti stringo al cuore. ALFRED

Abbraccia forte i piccoli per me. Potresti essere tanto buona da far depositare 200 franchi alla cancelleria della prigione?

25 DICEMBRE 1894. Mia amata, Non posso datare questa lettera perché non so neanche a quale giorno siamo. È Martedì? È mercoledì? Non lo so. Fa sempre notte. Appena il sonno abbandona le mie palpebre, mi alzo per scriverti. Alle volte mi sembra che tutto ciò non sia mai capitato, che non ti abbia mai lasciata. Durante le mie allucinazioni, tutto quello che ci è capitato mi sembra un brutto incubo; ma il risveglio è terribile. Non posso più credere a niente, se non che nel tuo amore, nell’affetto di tutti i nostri cari. Bisogna sempre cercare il vero colpevole; tutti i mezzi sono buoni. Il caso da solo non basta. Forse riuscirò a sormontare il terrore orribile che m’inspira la pena infamante che subirò. Essere un uomo d’onore e vedersi strappare, quando si è innocenti, il proprio onore, cosa c’è di più spaventoso? È il peggiore tra tutti i supplizi, peggiore anche della morte. Ah! Se arriverò fino alla fine, sarà per te, mia cara adorata, perché tu sei il solo filo che mi lega alla vita. Come ci amiamo! Oggi soprattutto mi rendo conto di tutto il posto che occupi nel mio cuore. Ma prima di tutto, prenditi cura di te, occupati della tua salute. È necessario, ad ogni costo, per i bambini, loro hanno bisogno di te. Infine, continuate le vostre ricerche a Parigi così come laggiù. Bisogna tentare di tutto, non tralasciare niente. Ci sono sicuramente delle persone che conoscono il nome del colpevole. Ti bacio, ALFREDO

17.00. Sono più calmo, la tua vista mi ha fatto bene. Il piacere di abbracciarti fisicamente e interamente mi ha fatto un bene immenso. Non potevo più attendere per questo momento. Grazie della gioia che mi hai donato. Quanto ti amo, mia amatissima! Infine speriamo che tutto ciò abbia termine. Bisogna che conservi tutte le mie energie. Ancora mille baci, mia amata, ALFRED

GIOVEDÌ, 11 DELLA SERA. Mia amata, Le notti sono lunghe; è verso di te che mi rivolgo, è dal tuo sguardo che attingo tutte le mie forze, è nel tuo amore profondo che trovo il coraggio di vivere. Non che la lotta mi faccia paura, ma la sorte è stata veramente troppo crudele con me. È possibile immaginare una situazione più spaventosa, più tragica per un innocente? È possibile immaginare un martirio più doloroso? Fortunatamente godo dell’affetto profondo di cui entrambe le nostre famiglie mi circondano e soprattutto del tuo amore, che mi ripaga di tutte le mie sofferenze. Perdonami se mi lamento delle volte; non credere affatto per questo motivo che la mia anima sia meno vigorosa, ma persino gridare mi fa del bene e a chi altro lo farei sentire se non che a te, moglie mia amata? Mille dolci baci per te e i piccoli, ALFRED

MERCOLEDÌ, ORE 5. Mia amata, Voglio ancora scriverti queste poche parole affinché tu possa trovarle domani mattina al tuo risveglio. La nostra conversazione, anche se attraverso le sbarre della prigione, mi ha fatto bene. Le mie gambe tremavano mentre scendevo, ma mi sono irrigidito per non cadere a terra dall’emozione. Persino ora la mia mano non è ancora ben ferma: il nostro incontro mi ha scosso violentemente. Se non ho insistito affinché tu restassi più a lungo, è perché ero al limite delle mie forze; avevo bisogno di andare a nascondermi per piangere un po’. Non credere per questo che la mia anima sia meno vigorosa o meno forte, ma il corpo è un po’indebolito da tre mesi di prigionia, senza aver respirato l’aria esterna. Per poter resistere a tutte queste torture è stato necessario che io avessi una robusta costituzione. Ciò che mi ha fatto maggiormente bene è stato di sentirti così coraggiosa e vigorosa, così piena d’amore per me. Continua in questo modo, moglie mia cara, imponiamo il rispetto al mondo con la nostra attitudine e il nostro coraggio. Quanto a me, avrai notato che ero deciso a tutto; voglio il mio onore e lo avrò, nessun ostacolo mi fermerà. Ringrazia molto tutti, ringrazia da parte mia l’avvocato Demange per tutto quello che ha fatto per un innocente. Riferiscigli tutta la gratitudine che provo per lui, io sono stato incapace di esprimergliela. Digli che conto su di lui in questa lotta per il mio onore. Abbraccia i piccoli per me. Mille baci, ALFRED

Il parlatorio è occupato domani Giovedì tra l’una e le quattro. Dovrai quindi venire o al mattino tra le dieci e le undici o la sera alle quattro. Ciò non avviene che di giovedì e di domenica.

IN NOME DELLO SCANDALO I GIORNALI SBEFFEGGIANO LA VERITA’.

Si può fare giornalismo sbeffeggiando la verità? Sempre più spesso i giornali offrono ai lettori non delle notizie, ma dei commenti fondati sul ribaltamento delle notizie, scrive Piero Sansonetti il 31 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  È giusto chiedere che tra il giornalismo e i fatti realmente accaduti ci sia un qualche collegamento? O è una fisima da vecchi, legata a un’idea novecentesca e sorpassata di informazione? Ieri ho dato un’occhiata ai giornali – diciamo così – populisti, quelli più vicini, cioè, alla probabile nuova maggioranza di governo, e ho avuto l’impressione di una scelta fredda e consapevole: separiamo i fatti dalle opinioni – come dicevano gli inglesi – ma separiamoli in modo definitivo: cancellando i fatti, e permettendo alle opinioni di vivere in una propria piena e assoluta autonomia dalla realtà.

Trascrivo alcuni di questi titoli, pubblicati in prima pagina a caratteri cubitali.

Libero: «Scoprono solo ora che siamo pieni di terroristi bastardi». (Sopratitolo, piccolino: “Retata di musulmani violenti”). La Verità, titolo simile: «Così importiamo terroristi». Sopratitolo: “Presi i complici di Anis Amri». Fermiamoci un momento qui. Qual è il fatto al quale ci si riferisce? La cattura, da parte delle autorità italiane, di una serie di persone di origine nordafricana sospettate di essere legate al terrorismo. Noi non sappiamo se effettivamente queste persone siano colpevoli. Ogni tanto – sapete bene vengono arrestati, o inquisiti, anche degli innocenti. E’ successo appena una settimana fa a un tunisino, che è stato linciato (dai mass media) lui e la famiglia prima che si scoprisse che non c’entrava niente. Ma ora non è questo il punto. Proviamo a capire quali sono le cose certe in questa vicenda. Che i servizi segreti italiani, o la polizia, hanno trovato dei sospetti terroristi. Che è in corso una operazione volta a sventare attentati. Che finora l’Italia è l’unico grande paese europeo che non è stato colpito da attentati. Che l’Italia è l’unico paese che ha catturato diversi sospetti terroristi. Che, tra l’altro, l’Italia è il paese che ha preso quel famoso Anis Amri (del quale parla La Verità) e cioè l’uomo accusato di una strage in Germania. E’ sfuggito alla polizia e agli 007 tedeschi ma non ai nostri. Punto.

Traduzione in lingua giornalistica dell’arresto di Amri e di alcuni suoi probabili complici? “Importiamo terroristi”. Voi penserete: li importiamo dal mondo arabo. No, dalla Germania. In Germania loro sono liberi, qui vengono fermati.

Traduzione Invece dell’azione del governo, degli 007 e della polizia per fermare il terrorismo arabo (che ci fa invidiare da tutti gli altri europei): «Scoprono solo ora che siamo pieni di bastardi islamici». C’è una barzelletta famosa, che qualche anno fa fu polemicamente raccontata ai giornalisti da Mitterrand, il presidente francese, e qualche anno dopo da Clinton (cambiando il protagonista). In mare c’è un ragazzo che sta affogando. Mitterrand lo vede e inizia a camminare sul pelo dell’acqua, arriva fino a lui ormai allo stremo, con un braccio lo tira su, se lo carica sulle spalle e lo riporta a riva. Salvandogli la vita. Tutto ciò, come avete capito, lo fa camminando sull’acqua, e non nuotando. Il giorno dopo i giornali francesi titolano: «Mitterrand non sa nuotare».

Mi pare che la barzelletta calzi bene e possa essere riferita ai titoli di Libero e della Verità Il Fatto invece non si occupa dei terroristi ma del Pd (il grado di ossessione di Libero e Verità per i terroristi, che, come è noto, negli ultimi vent’anni hanno messo a ferro e fuoco l’Italia, è simile al grado di ossessione del Fatto per il Pd). Titola: «Rivolta anti- Renzi: “Basta Aventino vogliamo giocare”». La parola giocare è usata in senso positivo: partecipare, essere attivi. La rivolta in corso sarebbe stata avviata da Franceschini e Orlando. In cosa consisterebbe? Nel chiedere un atteggiamento amichevole del Pd verso i 5 Stelle, in contrasto con Renzi che invece vuole che il Pd resti all’opposizione. Dopodiché uno legge l’articolo del direttore, cioè di Travaglio, e scopre che Orlando e Franceschini se ne stanno in realtà zitti zitti e rintanati. E per questo Travaglio li rimprovera. Cioè li rimprovera proprio per non aver dato il via ad alcuna rivolta, che invece servirebbe. E servirebbe allo scopo di bloccare l’Aventino e di spingere il Pd ad una scelta simile a quella dei socialdemocratici tedeschi, i quali hanno chiamato i loro elettori ad un referendum interno per avere il permesso di collaborare con la Merkel. Travaglio dice che il Pd deve fare la stessa cosa. Però ci sono due imprecisioni, nel ragionamento. La prima è che il Pd non ha scelto l’Aventino, ma l’opposizione. Sono due cose molto, molto diverse. L’Aventino (cioè il ritiro dei propri deputati dal Parlamento) fu scelto dai socialisti e dai liberali, dopo l’assassinio di Matteotti (segretario del Psi). Socialisti e liberali, guidati da Giovanni Amendola, decisero di disertare il parlamento per delegittimarlo e dunque delegittimare il fascismo. I comunisti (guidati da Gramsci) fecero una scelta diversa. Dissero: restiamo dentro a combattere. Cioè rifiutarono l’Aventino e scelsero l’opposizione. In realtà andò male a tutti e due: il fascismo non fu delegittimato da Amendola e Turati né fermato da Gramsci, e finì per fare arrestare sia i socialisti sia i comunisti. Ma che c’entra tutto questo con l’attuale situazione? Niente. Qualcuno forse pensa – o ha detto che il Parlamento non è legittimo, e che le elezioni non valgono, e che i vincitori non sono legittimati a governare? Hanno detto tutti l’esatto contrario.

Quanto all’alleanza tra Merkel e Spd è una alleanza che è impossibile paragonare a una possibile alleanza tra 5 Stelle e Pd. La Spd ha accettato di sostenere la Merkel esattamente con l’idea opposta a quella di Travaglio: e cioè per sbarrare la strada ai populisti. La Merkel e i socialdemocratici hanno già governato insieme e dunque non solo affatto incompatibili. Ma lasciamo stare la polemica politica, nella quale, effettivamente, è ovvio che le opinioni prevalgano su tutto. Restiamo nel campo del giornalismo. La domanda che mi tormenta è sempre la stessa: il giornalismo moderno ha bisogno dei fatti, delle notizie vere, delle verifiche, della somiglianza con la realtà, o invece si è trasformato in una specie di nuovo genere letterario, basato sulla fantasia, e volto esclusivamente a costruire polemiche politiche o culturali e ad influenzare, indirizzare, spostare l’opinione pubblica?

Naturalmente nel giornalismo c’è stata sempre questa componente e questa aspirazione: di influenzare lo spirito pubblico. In tutte le attività culturali c’è questa aspirazione. Anche nella pittura, anche nel cinema. Però, fino a qualche anno fa, il giornalismo aveva – come la fotografia – la caratteristica di essere una attività intellettuale legata strettamente alla realtà, e il cui grado di autorevolezza si misurava esclusivamente valutando la sua vicinanza alla verità. Sempre meno è così. I giornali populisti vengono confezionati con un metodo che si fonda sul disprezzo per la realtà. La loro forza è direttamente proporzionale alla lontananza dalla realtà. Gli altri giornali oscillano, tentati dai vecchi valori e dai vecchi schemi del giornalismo europeo e americano, ma alla fine rassegnati a inseguire Vittorio Feltri. In dieci anni – cifra approssimativa – il giornalismo italiano ha completamente cambiato faccia. E le possibilità per i cittadini di essere informati si è enormemente ridotta. Dobbiamo prenderne atto e basta? Cioè considerare il divorzio tra giornalismo e verità e la sua trasformazione in genere letterario fantasioso, come un’inevitabile conseguenza della modernità? Se è così però bisognerà trovare qualche altro modo per informare e informarsi. La ricerca di questo nuovo modo dovrebbe essere la preoccupazione principale dei politici e degli intellettuali. E anche dei tantissimi giornalisti che sono stati tagliati fuori da questa nuova tendenza. La preoccupazione principale: perché nessuna democrazia può sopravvivere, senza una informazione decente.

De Rita: «Dove nasce l’odio? Nasce lì, nei giornali…». Intervista di Francesco Lo Dico del 19 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". La riflessione sull’odio portata avanti dal nostro giornale, dopo l’iniziativa del Cnf per il G7 dell’avvocatura, continua con l’intervista al fondatore del Censis, Giuseppe De Rita, che proprio di recente ha parlato della società del rancore. «Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi conoscendola la chiama bugia, è un delinquente», amava ripetere Bertolt Brecht. Un adagio che ben si accompagna ai trombettieri delle fake news e ai mestatori in servizio permanente effettivo nelle sentine dei social. Dalla testata di Spada a Ostia alle testate che ogni giorno si abbattono, non meno spregevoli, sulla dignità di cose e persone, è stato un crescendo. L’onda anomala del disprezzo ha travolto istituzioni, ong, calciatori. Ma anche migranti, donne, star e politici stessi, al di là di ogni ragionevole dubbio, e spesso in direzione ostinata e contraria alla verità delle cose. Così che l’iniziativa lanciata a settembre dal Consiglio nazionale forense contro il linguaggio dell’odio, sembra aver assunto – di linciaggio in linciaggio – il carattere di una premonizione. Di quel clima violento segnalato tre mesi fa dal Cnf al G7 dell’avvocatura, e combattuto con vigore su queste pagine da autorevoli interlocutori, l’Italia del rancore descritta di recente dal Censis appare la cartina di tornasole. Tanto che Giuseppe De Rita, fondatore e presidente del Centro studi che da più di mezzo secolo racconta il Paese, tiene a riconoscere al Dubbio un impegno costante ma solitario. «È l’unico giornale italiano – sottolinea il sociologo – che combatte l’odio e la deriva giustizialista che trionfano invece sul resto dei quotidiani nazionali, a colpi di titoloni e mostri in prima pagina che durano il tempo di un giorno, servono a fare qualche spicciolo in più, ma rovinano per sempre la vita agli sfortunati protagonisti della gogna».

Presidente, perché l’Italia e i giornali che oggi ben la rappresentano, è diventata la terra del risentimento?

«Le ragioni che lo spiegano sono molteplici. Ma in primo luogo, si può ben dire che l’Italia del rancore descritta nel nostro rapporto è figlia di un incidente storicamente provato. Dopo aver garantito a milioni di persone prospettive di vita migliore negli anni 70, 80 e 90, il nostro ascensore sociale si è bloccato. Così che moltissimi italiani sono rimasti sospesi a mezza strada: non raggiungono il prestigio sociale che desiderano, non diventano qualcuno, e nonostante studi e sacrifici non hanno stipendi migliori né promozioni in vista. E questo li rende frustrati e risentiti: il rancore collettivo è il lutto per quel che non è stato».

Anche i lutti più dolorosi non durano per sempre: l’Italia può uscire dalla rabbia e dalla rassegnazione?

«Il ciclo formidabile che per cinquant’anni ha garantito al Paese un certo grado di benessere si è concluso. Di fronte alla crisi, l’eredità di quella stagione prospera ci ha consentito di resistere ma al prezzo di vedere congelata la nostra condizione. Da tempo siamo entrati in una fase transitoria, che può essere superata soltanto con un cambio di prospettiva deciso. Un nuovo paradigma in grado di rompere le molte inerzie che hanno fermato l’ascensore sociale: l’inerzia dell’economia sommersa, l’inerzia delle piccole e medie imprese, l’inerzia del ceto pubblico e dell’urbanizzazione della popolazione».

Eppure la ripresa economica, seppure di entità modesta, è stata finalmente riagganciata da un anno a questa parte. Perché ancora non riesce a tradursi in benefici concreti per la nostra società?

«È molto semplice: la nostra è una ripresa per pochi, trainata da pochi. Ne sono protagoniste alcune medie imprese manifatturiere, realtà di respiro internazionale legate alla logistica e industrie vocate all’export che hanno tirato a ritmo indiavolato anche grazie agli specifici incentivi dell’Industria 4.0. Ma in parallelo, è stato fatto molto poco per far ripartire le botteghe dietro l’angolo. Il mercato interno, decisivo per le sorti della maggioranza degli italiani, non ha ripreso slancio. Invece di prenderla di petto, la questione è stata presa di sguincio grazie ai bonus per casalinghe e dipendenti che non hanno funzionato: la maggior parte degli italiani, insomma, non è tornata a sorridere ed è perciò rimasta rancorosa».

È forse questo il limite che non ha premiato l’azione del governo Renzi. C’è un problema di errata percezione politica, dietro l’odio che alimenta la grancassa delle forze populiste?

«Il problema di questi ultimi anni è evidente. Prima di agire, chi governa dovrebbe capire quali sono le attese. Ma la politica ha fatto l’esatto contrario. Prima ha fatto gli interventi, e poi li ha comunicati nell’idea che, se venivano presentati bene, andassero incontro ai desideri della gente. Dire che hai dato tanti soldi ma che la campagna di comunicazione non ha funzionato, è un suicidio mediatico e intellettuale. Significa ammettere che dietro le misure non c’era una strategia lungimirante di rilancio, ma solo l’idea che per scatenare la ripresa dei consumi bastasse la propaganda».

E invece si è scatenata ancora di più la rabbia sociale che trova nel linguaggio dell’odio di Lega e Cinque Stelle.

«L’ascesa delle forze populiste non è recente. La forza del rancore si è accresciuta negli ultimi dieci anni, quando l’opinione pubblica ha scelto di montare sul cavallo dell’anti- casta, a prescindere da ragioni di appartenenza politica. Non si tratta più di attaccare la casta per motivazioni ideologiche come accadeva negli anni 50, o in funzione di una strategia economica come avveniva al tempo delle liberalizzazioni di Berlusconi e di Bersani. Contro la casta si è scatenato un odio cieco e totalizzante, che ha unificato i risentimenti di tutti gli indignati e ha fatto perdere di vista i veri problemi che alimentano l’insoddisfazione».

Dice quindi che chi oggi miete consensi sull’odio per gli avversari politici, per i migranti, per le riforme domani non sarà capace di placare al governo il risentimento sul quale hanno lucrato?

«Dico che fare politica in nome della semplice idea di abbattere i privilegi è inutile e illusorio: la storia insegna che abbattuta una casta, ne arriva subito un’altra. Il problema del Paese non è nella casta, ma nella classe dirigente che oggi è priva di professionalità e strategia, non ha il senso del futuro e non è all’altezza dei suoi compiti. Tolta di mezzo la casta, la classe dirigente resta quella che è. Ecco perché sostenevo poc’anzi che per uscire dalla spirale dell’odio occorre un ciclo, anche breve, di radicale rinnovamento».

E come si potrebbe, dato il generale scadimento che descrive?

«La politica non è un’arte. La politica è un mestieraccio. Ed è proprio degli odiati mestieranti che ha bisogno prima di tutto. Bisogna ridare spazio a chi ha fatto gavetta nei comuni e nelle sezioni di provincia, riaprire le porte a chi il mestiere lo conosce davvero. Ricordo ancora quello che gridava nelle stanze l’ex ministro Francesco Compagna: “Ladri li vogliamo, ma bravi!”».

È un tema che ci porta dritti a un’altra variazione sul tema dell’odio. Non è stata forse la furia giustizialista di Tangentopoli a innescare un simmetrico populismo penale che oggi dai tribunali irrompe sui giornali e sui social?

«Non sono, come è noto, un nemico dei giornali. Ma devo dire che ci sono ampie responsabilità dei giornalisti, dietro la cultura della politica poliziesca che ha scelto come agenda quotidiana il casellario giudiziario. Molti procuratori coltivano rapporti privilegiati con certa carta stampata, nella banale necessità di mostrare la sera, agli altri soci dei loro Rotary club, di aver fatto qualcosa di importante di cui sui giornali si parla in termini allarmanti. Ai giornalisti del Dubbio va tuttavia il mio attestato di stima: sono i paladini solitari di un’inversione di tendenza che richiede coraggio. Per ristabilire l’equilibrio di giudizio, occorre che i giornali si impongano di rinunciare a qualche copia, in nome di valutazioni più approfondite e intellettualmente oneste».

L’odio e la sproporzione sono dunque gli effetti collaterali di pure strategie commerciali, o c’è anche una matrice culturale dietro la deriva giustizialista?

«Quante volte leggiamo che Tizio rischia cinque anni di carcere, salvo poi svanire nel nulla il giorno dopo insieme alla storia allarmante di cui è il temibile protagonista? Il problema che affligge i nostri quotidiani è la smania del titolo, la logica pervasiva dell’evento. Lo aveva capito bene uno dei nuovi filosofi francesi, Jean Baudrillard. “L’evento – diceva – scava la fossa in cui verrà seppellito il giorno dopo”. Ed è proprio così. L’evento prende per un giorno tutto lo spazio possibile, poi il giorno dopo viene sepolto e nessuno se ne occupa più. Quella dei giornali è una catena di eventi che costruisce una storia evenemenziale, e cioè una storia fatta di eventi, che ha un’ottica parziale. La storia non è fatta solo di eventi. È fatta anche da processi lenti, commerciali, tecnologici, religiosi che nessuno sembra aver più voglia di indagare. È per questa ragione che in prima pagina non finiscono i fatti, ma le cose che hanno fatto “evento”. Per il giornalista è una tentazione, una coazione, quasi un obbligo. La necessità di “fare evento” alimenta ogni giorno nuovo risentimento: l’Italia del rancore».

L’Italia del rancore ha trovato nei social la sua più intensa e preoccupante bocca di fuoco: insulti e atti di sciacallaggio rivolti allo zimbello di turno diventano su Twitter trending topic, salvo poi scomparire nel nulla sostituiti da raffiche di mitra verso il prossimo obiettivo.

«Nel rapporto del Censis lo abbiamo scritto chiaramente: i social sono l’arena del rancore, il Colosseo del rancore, il circo equestre del rancore. Ma allo stesso tempo osservo che i tweet indignati scompaiono nel nulla dopo pochi minuti. In fondo milioni di cinguetti che spariscono ogni giorno indicano che non servono a niente e a nessuno, se non alla piattaforma che li ospita. Il problema vero non sono i social, ma la società che li popola. Che probabilmente, tweet dopo tweet comincerà a capire quali “eventi” vale davvero la pena discutere, e quali sono invece montati ad arte per fare discutere. Io credo che valga per i social la stessa parabola che ha accompagnato i talkshow: prima hanno spopolato, poi sono diventati marginali perché sono diventati noiosi. Tutti hanno capito che erano piccoli spettacoli da cui non usciva niente di utile per la società e la politica».

Spesso però escono dai palinsesti social cose false e molto dannose che arrecano danni duraturi e riescono a influenzare la politica stessa, come dimostra il caso delle ultime elezioni negli Stati Uniti. Che idea si è fatto delle fake news, che ormai convogliano molti rancori anche nella Penisola?

«È un fenomeno recente, di cui confesso di non essermi ancora fatto un’idea precisa. Sono però allo stesso tempo convinto che, da Biden a Renzi, l’argomento è stato finora trattato in modo confuso, e forse anche strumentale. Nutro per l’argomento delle bufale una certa resistenza psicologica. Ho il sospetto che, ancora una volta, quello delle fake news sia un “evento”, un argomento alla moda che come molti altri è destinato a finire nel nulla cosmico dei tweet perduti. Io credo che i social siano la patria del rancore, e che questa patria sia stata fondata dal “vaffa”. Ma credo anche che l’Italia del rancore non sia destinata a durare ancora per molto».

Nordio: «Così i magistrati hanno scalato il potere politico». Intervista di Giulia Merlo del 20 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". «A partire da Mani Pulite si è instaurato un intreccio perverso tra pm e stampa: i pm facevano filtrare notizie e in cambio ricevevano elogi. Oggi la conseguenza è che, servendosi di questo prestigio, molti sono entrati in politica». Chiaro e diretto, da sempre è considerato eretico dai suoi stessi colleghi. Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto di Venezia, analizza a tutto campo il cortocircuito tra poteri e non lesina stilettate a una politica «che ha ceduto le armi» a una magistratura «che si è servita della stampa per ottenere la fama ed entrare in politica».

Procuratore, il processo mediatico è una patologia di questo tempo di crisi?

«Tutt’altro. Il processo mediatico c’è sempre stato a partire dal dopoguerra: penso all’omicidio di Wilma Montesi, che è stato il primo caso di interferenza delle indagini a fini politici, perchè il processo era stato montato a bella posta per colpire l’onorevole Piccioni. Questa strumentalizzazione, tuttavia, ha assunto la forma di ordinaria patologia con Tangentopoli».

Come è fatto questo virus che ha contagiato il nostro sistema giudiziario?

«Con Mani pulite si è instaurato un intreccio perverso tra magistratura inquirente e stampa. Gli inquirenti avevano canali privilegiati con alcuni giornali, ai quali facevano filtrare le notizie più succulente per fargli fare degli scoop. In cambio, questi pm ricevevano una serie di sperticati riconoscimenti elogiativi che li rendevano a loro volta più credibili, prestigiosi e forti. Così si è generato un potenziamento reciproco: più il magistrato era forte e più si sentiva impunito se lasciava filtrare le notizie, più le lasciava filtrare e più si rafforzava perchè riceveva in cambio una legittimazione da parte della stampa. Tutto questo ha portato a un cortocircuito che non solo ha condizionato la politica, ma ha anche alterato la fisiologia della giustizia e della stampa».

Parliamo di un cortocircuito iniziato venticinque anni fa. E oggi?

«Ora ne stiamo pagando le conseguenze, la più perniciosa delle quali è che una serie di magistrati, servendosi del prestigio e della fama acquisiti attraverso gli elogi della stampa, sono entrati in politica».

L’ultimo dei quali oggi è a capo di un partito politico, il presidente del Senato, Piero Grasso.

«Di Grasso io critico la scelta fatta ormai cinque anni fa: si è candidato alle elezioni politiche poche ore dopo essere uscito dalla magistratura. Ecco, poichè non credo che una candidatura si improvvisi nel giro di poche ore, questo significa che mentre indossava la toga ha avuto dei contatti politici».

Lei ritiene che un magistrato non dovrebbe fare politica?

«Intendiamoci, è perfettamente legittimo che lo faccia, ma secondo me è un elemento di disturbo nei rapporti fisiologici tra poteri. Un magistrato che indossa la toga può avere tutte le opinioni politiche che vuole e ha il diritto di esprimerle anche sui giornali, ma non trovo opportuno che abbia contatti diretti con la politica al fine di procurarsi una candidatura».

E un magistrato che ha smesso la toga, invece?

«Nemmeno, soprattutto se quel magistrato ha condotto inchieste che hanno avuto un forte impatto politico. Se si candida, infatti, si espone al rischio che le sue inchieste siano considerate un mezzo per procurarsi una sorta di buen retiro politico. Parlo per me: ho condotto l’inchiesta sul Mose che ha demolito la classe dirigente veneta. Troverei raccapricciante il solo sospetto che si possa pensare di me che ho fatto un’inchiesta per prendere il posto di chi ho mandato in galera. Per questo un magistrato non dovrebbe candidarsi, nemmeno dopo essere andato in pensione».

Da vittima, la politica si è innamorata dei carnefici. Non si contano i magistrati candidati, sia a destra che a sinistra.

«Con la caduta delle ideologie e la fine dei partiti di massa, la classe politica ha perduto completamente la fiducia in se stessa e, davanti all’offensiva giudiziaria, si è definitivamente sgretolata. Così ha cercato rifugio in quelli che sembravano i rappresentanti più significativi del Paese, cioè i magistrati».

Lei ha fissato nella legge Biondi del 1994 il momento storico in cui la politica ha definitivamente ceduto il passo alla magistratura.

«I quattro pm di Mani pulite andarono in televisione, chiedendo il ritiro del decreto e minacciando le dimissioni. Allora un politico serio avrebbe dovuto rispondere: «Cari pm, avete diritto di critica perchè non siete giudici terzi, per questo da domani separiamo le carriere. Inoltre, manteniamo il decreto e aspettiamo le vostre dimissioni». Invece la politica ha ceduto le armi. Da quel momento è finito tutto: quando un potere lascia un vuoto così clamoroso qualcuno lo occupa e così ha fatto la magistratura».

Intravede la possibilità di una inversione di tendenza?

«Dopo tanti anni di patologica regressione di campo da parte della politica non è facile ristabilire gli equilibri. lo mostra il fatto che, ogni volta che si propone una legge che incide sui poteri dei magistrati, l’Anm insorge e il Governo fa marcia indietro. L’unica soluzione si potrebbe trovare a livello costituzionale, rivedendo il reclutamento dei magistrati e il funzionamento del Csm, ma revisione non è cosa facile».

L’ordinamento non contiene già i limiti tra poteri?

«Per ricondurre in alveo costituzionale tutti i poteri dello Stato andrebbe attuato al 100% il codice penale accusatorio, un codice garantista e anglosassone che è stato attuato solo per il 20% e poi demolito dalla stessa Corte Costituzionale».

E’ una crisi ormai fisiologica e non risolvibile, quindi?

«Guardi, l’unica speranza è il ricambio generazionale, in magistratura come in politica. Questo, mi sembra, sta già avvenendo».

Tutto di lei si può dire, meno che non sia diretto. Quanto le sono costate queste posizioni in contrasto con le idee dominanti in magistratura?

[Ride di gusto ndr] «Io non ho mai cambiato idea e ciò che dico oggi l’ho scritto in un libro del 1997. La mia eresia di allora mi costò la chiamata davanti ai probi viri di Anm: io ci risi sopra e nemmeno mi presentai».

Lei, però, rimane una mosca bianca quando parla di separazione delle carriere e di magistrati in politica.

«Le assicuro che oggi molti magistrati la pensano come me, ma non tutti hanno poi il coraggio di dirlo perchè entrerebbero in conflitto col pensiero dominante dell’Anm che, attraverso il Csm decide le sorti professionali. Eppure, oggi la separazione delle carriere non è più il tabù che era vent’anni fa e lo stesso vale per la necessità di paletti più incisivi per l’ingresso dei magistrati in politica. Del resto ormai si è deideologizzato tutto, non vedo perchè lo stesso non possa accadere anche con gli ultimi pachidermici miti dell’Anm».

Ma esiste una magistratura di destra e una di sinistra?

«Io sono convinto che la giustizia risponda a criteri di buon senso e la distinzione destra- sinistra sia estremamente ingannevole su questo piano».

Lei è in pensione da un anno, le manca la toga?

«Mi mancano le amicizie che si sono un po’ diradate, ma non il lavoro. Mi piace leggere, scrivere, andare a cavallo e ascoltare musica classica e ora ho finalmente il tempo per farlo».

Guardandosi indietro, però, sceglierebbe ancora il lavoro di magistrato?

«Io non ho mai vissuto la magistratura come una missione o un sacerdozio. Anzi, diffido molto dei magistrati che vivono così il loro ufficio, perchè il sacerdozio rischia di sconfinare nel fanatismo. Per me, però, è sempre stata una funzione centrale per la democrazia: dopo il medico che incide sulla salute c’è il magistrato che incide sulla dignità e sull’onore del cittadino. Ecco, per questo sono orgoglioso di aver indossato la toga e rifarei senza dubbio questa scelta».

«Il compito della magistratura? Sottomettere la politica», scrive Piero Sansonetti il 6 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Ho letto con molto interesse – e qualche apprensione… – il resoconto stenografico degli interventi del procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, e del sostituto procuratore della Dna (Direzione nazionale antimafia) Nino Di Matteo, pronunciati qualche giorno fa alla festa del Fatto Quotidiano, in Versilia. Li ha pubblicati ieri proprio il Fatto considerandoli, giustamente, documenti di grande interesse giornalistico e politico. Potrei scrivere per molte pagine, commentandoli. Mi limito invece a pochissime critiche e soprattutto a una osservazione (alla quale, contravvenendo a tutte le regole del giornalismo, arriverò alla fine di questo articolo) che mi pare essenziale. Essenziale per capire l’Italia di oggi, per decifrare il dibattito pubblico, e per intuire a quali pericoli sia esposta la democrazia. Innanzitutto voglio subito notare che sebbene il Fatto pubblichi i due interventi, intervallando brani dell’uno e brani dell’altro, quasi fossero un unico discorso, si nota invece una differenza, almeno nei modi di esposizione, molto netta. Roberto Scarpinato dà l’impressione di avere una conoscenza approfondita dei fatti e anche della storia (italiana e internazionale) nella quale vanno inquadrati. Nino Di Matteo sembra invece soprattutto travolto da una indubbia passione civile, che però lo porta a scarsa prudenza, sia dal punto di vista formale sia nella ricostruzione storica.

La tesi di fondo dei due interventi però è un’unica tesi. La riassumo in cinque punti. Primo, la mafia nel 1992, dopo la caduta del muro di Berlino, decise di intervenire nella politica italiana perché terrorizzata dall’idea che – finite le ideologie e i veti, e il famoso fattore K che escludeva i comunisti dal governo – potesse prendere il potere una coalizione composta da sinistra democristiana (ex zaccagniniana) ed ex Pci, all’epoca Pds. «Condannare i criminali? No, il compito della magistratura è sottomettere la politica».

Secondo punto, in questa ottica, dopo le stragi del 1993, si svolse una trattativa tra lo Stato e la mafia e questa trattativa, pare di capire, coinvolse essenzialmente elementi dell’ex sinistra dc (Mancino, Mannino, forse De Mita) e dell’ex Pci (Giorgio Napolitano).

Terzo punto, è stato proprio Giorgio Napolitano a delegittimare il processo sulla trattativa tra Stato e mafia che si sta spegnendo a Palermo tra assoluzioni e prove mancate: e la cattiva sorte di quel processo è da imputare non a una cattiva impostazione delle indagini e delle tesi di accusa, ma all’intervento dell’allora capo dello Stato.

Quarto, la mafia da allora ha cambiato pelle, ha rinunciato ad usare la violenza e l’omicidio per condurre la sua strategia, e questo la rende ancora più pericolosa, perché riesce a crescere semplicemente usando lo strumento della corruzione e addirittura, in certe occasioni, senza neppure commettere reati formali.

Il quinto punto lo accenno appena, perché ci torniamo alla fine – è il punto chiave – riguarda il compito e la missione della magistratura.

Naturalmente i primi quattro punti sono in forte contraddizione l’uno con l’altro. Ad esempio non si capisce come facesse la mafia, quando ha iniziato l’attacco allo Stato (che Scarpinato e Di Matteo datano con l’uccisione di Salvo Lima del marzo 1992), a prevedere il crollo del potere politico italiano, che allora era ancora saldamente nelle mani del pentapartito, e non certo del Pci, che viveva un nerissimo periodo di crisi. Nessun analista politico previde Tangentopoli (neppure dopo l’arresto di Mario Chiesa) che esplose clamorosamente dopo l’uccisione di Falcone, né tanto- meno le conseguenze di Tangentopoli, eppure l’attacco della mafia iniziò prima di Tangentopoli. E non si capisce molto bene neanche perché la mafia uccidesse Lima ( destra Dc), e poi Falcone ( che era legato ai socialisti di Craxi) se voleva colpire la sinistra Dc e l’ex Pci, che di Lima e Falcone erano nemici; né si capisce perché furono Napolitano e Mancino ( ex Pci e sinistra dc) ad aiutare la mafia che era terrorizzata – se capiamo bene – perché temeva che Napolitano e Mancino andassero al potere…Fin qui, diciamo con un po’ di gentilezza, è solo un bel pasticcio, che certo non si regge in piedi come atto d’accusa. Né giudiziario, né politico, né tantomeno storico. E si capisce bene perché il processo Stato- mafia stia finendo a catafascio. Scarpinato e Di Matteo da questo punto di vista hanno avuto la fortuna di parlare, in Versilia, ad una platea amica che non aveva nessuna voglia di fare obiezioni (così come, in genere, non ne ha quasi mai il giornalismo giudiziario, e non solo, italiano).

Ma il punto che mi interessa trattare è il quinto. L’idea di magistratura che – temo – va affermandosi in un pezzo di magistratura. Cito alcuni brani, testuali, di Di Matteo, che sono davvero molto istruttivi. In un crescendo. «Oggi si sta nuovamente (sottinteso, la politica, ndr) mettendo in discussione l’ergastolo, l’ergastolo ostativo, cioè l’impossibilità, per i condannati per mafia, di godere dei benefici. Si sta cominciando a mettere in discussione, attraverso anche, purtroppo, un sempre più diffuso lassismo nell’applicazione, l’istituto del 41 bis, il carcere duro (….)». E più avanti: «I fatti sono fatti, anche quando vengono giudicati in sentenze come non sufficienti per condannare qualcuno… Adesso la partita è questa: vogliamo una magistratura che si accontenti di perseguire in maniera efficace i criminali comuni (…) o possiamo ancora aspettarci che l’azione della magistratura si diriga anche nel controllare il modo in cui il potere viene esercitato in Italia? Questa è una partita decisiva per la nostra democrazia». La prima parte di questo ragionamento è solo la richiesta di poteri speciali, non nuova, tipica del pensiero reazionario (e non solo) da molti anni. In realtà i magistrati prudenti sanno benissimo che il 41 bis è carcere duro (e dunque è in contrasto aperto e clamoroso con la nostra Costituzione) ma stanno attenti a non usare mai quella definizione. Quando, intervistando qualche magistrato, ho provato a dire che il 41 bis è carcere duro, sono sempre stato contestato e rimproverato aspramente: «Non è carcere duro – mi hanno detto ogni volta – è solo una forma diversa di detenzione…». Di Matteo, lo dicevo all’inizio, è trascinato dalla sua passione civile (che poi è la sua caratteristica migliore) e non bada a queste sottigliezze, dice pane al pane, e carcere duro al carcere duro. Non so se conosce l’articolo 27 della Costituzione, probabilmente lo conosce ma non lo condivide e non lo considera vincolante. Così come non considera vincolante l’esibizione delle prove per affermare una verità, e questo, da parte di un rappresentante della magistratura, è un pochino preoccupante. Quel che però più colpisce è la seconda parte del ragionamento. E cioè le frasi che proclamano in modo inequivocabile che il compito della magistratura è mettere sotto controllo la politica (sottometterla, controllarla, dominarla, indirizzarla), cancellando la tradizionale divisione dei poteri prevista negli stati liberali, e non può ridursi invece a una semplice attività di giudizio e di punizione dei crimini. E’ probabile che siano pochi i magistrati che commettono la leggerezza di dichiarare in modo così chiaro ed esplicito la loro idea di giustizia, del tutto contraria non solo alla Costituzione ma ai principi essenziali del diritto; però è altrettanto probabile che il dottor Di Matteo non sia il solo a pensarla in questo modo. E siccome è anche probabile che esista una vasta parte del mondo politico, soprattutto tra i partiti populisti, ma anche nella sinistra, che non disdegna le idee di Di Matteo, e siccome non è affatto impossibile che questi partiti vincano le prossime elezioni, mi chiedo se esista, in Italia, il rischio di una vera e propria svolta autoritaria, e antidemocratica, come quella auspicata da Di Matteo – non so se anche da Scarpinato – o se esita invece una tale solidità delle istituzioni e dell’impianto costituzionale da metterci al sicuro da questi pericoli.

I “Due stupri due misure” di Travaglio: ma qualcuno gli ha mai spiegato il Codice Penale? Mai una sua vera inchiesta giornalistica, mai un’indagine, che abbiano fatto scaturire l’azione penale della magistratura. Solo e soltanto fotocopie e salotti televisivi alla conquista di una visibilità. Senza disdegnare le aule di giustizia per i vari processi penali e civili subiti. Dimenticando di raccontare quelli che perde…scrive Antonello de Gennaro il 12 settembre 2017 su "Il Corriere del Giorno". A volte mi chiedo se Marco Travaglio abbia veramente il coraggio di credere nelle sue teorie astruse. Travaglio come ben noto ha una sua personalissima visione delle cose, che in qualcosa mi ricorda l' “affarismo” giornalistico editoriale di Vittorio Feltri, che chiede agli editori la percentuale sulle copie vendute in edicola. Questa è la seconda volta che mi tocca giornalisticamente occuparmi di lui. Il “Marchino” ha passato un’intera vita da “gregario”, ad acquisire e fotocopiare atti processuali, intercettazioni, interrogatori ecc. necessari a confezionare i suoi libri enciclopedici, firmando praticamente quasi tutti i suoi libri con il collega Peter Gomez, direttore del Fatto Quotidiano.it.   Travaglio è diventato ben noto a tutti negli ultimi anni solo e soltanto grazie alla visibilità televisiva offertagli da Michele Santoro, che stato il vero responsabile dell' “esplosione” dell’arroganza travagliana, ma intelligentemente negli ultimi tempi Santoro ha interrotto i contatti, uscendosene persino dagli accordi societari con il Fatto raggiunti tempo addietro. Mai una sua vera inchiesta giornalistica, mai un’indagine, che abbiano fatto scaturire l’azione penale della magistratura. Solo e soltanto fotocopie per i suoi libri, e onnipresenza nei salotti televisivi alla conquista di una visibilità. Senza disdegnare le aule di giustizia per i vari processi penali e civili subiti. Dimenticando chiaramente di raccontare quelli che perde…come per esempio quello davanti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo. Oggi Travaglio (insieme al suo fedele “scudiero” Marco Lillo), non sa più a che santo votarsi dopo che le procure di Milano e Roma (a cui si è aggiunto anche “last minute” quella di Napoli) hanno chiuso i rubinetti delle soffiate, che nel codice penale si chiamano “atti d’indagine” che sono notoriamente coperti dal segreto istruttorio, previsto dal Codice Penale, la cui pubblicazione è un reato. Quello stesso Codice Penale che il suo compagno di spiaggia, l’ex-pm Ingroia deve avergli ha inculcato non completamente durante le loro vacanze in spiaggia sotto lo stesso ombrellone. Incredibilmente ieri mattina il “Marchino” ha avuto la sfacciataggine di sostenere questa sua personalissima impressione e cioè “che esistano due codici penali, procedurali, informativi, politici ed etici: uno per i criminali “comuni”, l’altro per i colletti bianchi. L’affare si complica – aggiunge Travaglio – quando lo stesso orrendo crimine – nel nostro caso lo stupro – sono accusati di averlo commesso persone di diverso status sociale: prima gli ultimi della graduatoria, cioè un gruppo di immigrati a Rimini; poi due carabinieri in uniforme a Firenze”. Travaglio si lamenta sul fronte giudiziario, scrivendo e sostenendo che “i quattro immigrati di Rimini finiscono in carcere, mentre i due carabinieri di Firenze restano a piede libero (nemmeno ai domiciliari)”. Eppure, per i primi come per i secondi, è arduo sostenere che ricorrano le esigenze cautelari previste dalle rigidissime leggi italiane per poterli arrestare prima del processo (leggi scritte apposta dai politici per non far arrestare nessun colletto bianco, dunque nessun criminale di qualunque specie, ceto e censo): non possono concretamente inquinare le prove (ormai affidate all’esame del Dna, a video di telecamere o Iphone, al racconto delle vittime e dei testimoni); né sono sul punto di scappare (il pericolo di fuga dev’essere concreto e dimostrabile, tipo col biglietto aereo già comprato); né, essendo indagati coram populo per stupro, è prevedibile che si dedicheranno ad altri stupri. Ma chi andrà mai a invocare il “garantismo” o a denunciare un caso di “manette facili” per quattro “stranieri”? Quindi, anche per tacitare l’opinione pubblica e i politici pronti ad aizzarla, non si va tanto per il sottile e si butta via la chiave.” Mister “simpatia” made in Piemonte, sostiene che “per i carabinieri è diverso, anche se dovrebbe essere uguale: il caso è già di per sé abbastanza imbarazzante per l’Arma e per l’Italia (le due vittime sono americane), figurarsi la scena di due paia di manette sulla divisa della Benemerita. Eppure gli immigrati di Rimini hanno ammesso più dei Carabinieri di Firenze”. Niente di più FALSO. Gli immigrati di Rimini arrestati, in realtà non hanno ammesso proprio niente!

Sarebbe il caso che qualche bravo avvocato, ma uno veramente bravo e competente, o qualche magistrato serio (e ce ne sono!) e soprattutto indipendente dalle correnti politicizzate della magistratura, gli spiegasse qualche differenza. Mi permetto di provarci io umilmente. Travaglio dimentica qualche particolare: gli immigrati hanno violentato e stuprato nel vero senso della parola una povera ragazza polacca (picchiando il suo fidanzato) ed una trans peruviana. I due Carabinieri di Firenze, non hanno picchiato e violentato nessuno. Hanno solo approfittato dello stato alcolico delle due studentesse universitarie, abusandone sessualmente, ed offeso la divisa che indossano e quindi tutti i loro colleghi che in Italia garantiscono la legalità rischiando la vita per pochi soldi. Il che sicuramente costituisce un fatto molto grave e merita la sanzione penale e disciplinare che subiranno a breve. Ma da qui a richiedere le manette per i Carabinieri di Firenze ponendoli sullo stesso livello del branco di stupratori di Rimini passa un abisso! Travaglio diventa all’improvviso “garantista” sostenendo che nessuno si sogna di definire i quattro immigrati di Rimini dei “presunti stupratori” sostenendo che “se poi, puta caso, si scopre che uno dei quattro non ha stuprato nessuno”, chi se ne frega. I due carabinieri invece, essendo italiani e usi a obbedir tacendo, hanno almeno diritto alla qualifica “presunti stupratori”. Non contento attacca il comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette e la ministra della difesa Roberta Pinotti, sostenendo che “usano parole durissime” e, nel dubbio, li sospendono dal servizio in via “precauzionale” ed aggiunge “Giusto: nessuno può indossare la divisa di tutore della legge col sospetto di averla così orrendamente violata. Dice Del Sette, senz’attendere la sentenza definitiva, né quella provvisoria, né il rinvio a giudizio, né la richiesta del pm, “il primo dovere di un carabiniere è quello di essere un cittadino esemplare, di agire nell’onestà morale, nella piena legalità. Se non lo fa, tradisce una scelta di servizio”. Parole sante. Ma siccome “il Marchino” non ha simpatia per questo Governo che ha osteggiato sin dal suo primo minuto di vita , sostiene che “ad adottare il provvedimento sono un governo che non sospende quattro suoi membri indagati o imputati per gravi reati; e un comandante (Del Sette, appunto), indagato per rivelazione di segreto e favoreggiamento agli inquisiti dello scandalo Consip, cioè per aver rovinato l’indagine sulle tangenti per truccare l’appalto più grande d’Europa, che il Governo non sospende, anzi conferma“. Probabilmente al “Marchino” non deve essere ancora andato giù il fatto che il suo giornale non riesce ad avere sottobanco assolutamente nulla dai Carabinieri, dimenticando che nel frattempo sotto indagine (ed è ben più di una) vi è un ufficiale del NOE responsabile di far girare troppe “balle” investigative e troppe carte intorno alla “compagnia di giro” del Fatto Quotidiano. Secondo Travaglio “la fondatezza delle accuse a Del Sette è pari a quella delle accuse ai due carabinieri: la parola di due testimoni (gli ex dirigenti Consip Ferrara e Marroni) contro la sua. Certo, il favoreggiamento non è lo stupro: ma si può seriamente sostenere che un appuntato e un carabiniere scelto accusati di stupro infanghino l’Arma più del comandante generale accusato di spifferare segreti agli indagati di un mega-scandalo di corruzione?”. Marchino scrive dall’alto della sua autorefenziale superbia giornalistica che se “il primo dovere di un carabiniere è quello di essere un cittadino esemplare, di agire nell’onestà morale, nella piena legalità”, questo dovrebbe valere tanto per gli ultimi anelli della catena quanto, a maggior ragione, per il primo. Che ci fa ancora Del Sette al vertice dell’Arma? Che ci fa il generale Emanuele Saltalamacchia, indagato per gli stessi reati, al comando dei Carabinieri toscani (diretto superiore dei due presunti stupratori)? E che ci fa Luca Lotti, indagato per gli stessi reati, al ministero dello Sport?. In pratica secondo Travaglio, se uno viene indagato dovrebbe essere rimosso dalla sua poltrona. Ma allora di conseguenza anche lui stesso dovrebbe lasciare quella di direttore del suo giornale. Qualcuno dei suoi giornalisti dovrebbe spiegare e raccontare al direttore del “Fatto” che nella vicenda Consip Alfredo Romeo ha vinto il suo ricorso dinnanzi al Tribunale del Riesame e persino in Cassazione, ed a suo carico non sono state trovate prove di corruzione e tangenti ed infatti sono stati costretti a restituire ad Alfredo Romeo la proprietà e gestione delle sue aziende. Così come Travaglio dovrebbe chiedere scusa alla famiglia Renzi per aver reiteratamente diffamato Matteo Renzi, suo padre ed il ministro Luca Lotti, accusandoli (senza alcuna prova concreta e tangibile) di reati che non hanno mai commesso. Anzi come i fatti hanno dimostrato, hanno solo subito!

Ma alla fine esce la vera motivazione di questo editoriale a dir poco imbarazzante. Travaglio scrive che “Sugli stupri di Rimini e Firenze, tv e giornali hanno pubblicato i verbali, fin nei minimi e più raccapriccianti dettagli, degli indagati e addirittura delle vittime (che, trattandosi di testimonianze, sono coperte dal segreto), e i pm e gli avvocati ne hanno diffusamente parlato in interviste e conferenze stampa. (Falso! n.d.a) Secondo noi, è giusto così, visto l’interesse pubblico delle notizie. Peccato che le stesse regole non valgano per i politici e i potenti in genere: noi, ad esempio, per molto meno – notizie e intercettazioni segrete su Consip che infastidivano la Renzi Family –siamo stati perquisiti dalla Procura di Napoli, mentre quella di Roma indagava il pm Woodcock e la sua compagna” (cioè Federica Sciarelli, giornalista RAI notoriamente molto “vicina” alla compagnia di giro… del Fatto Quotidiano). Peccato che il Travaglio ed il Fatto Quotidiano non si soffermino su qualcos’altro.  I pm nell’interrogatorio agli ufficiali del NOE, il colonnello Sessa ed il capitano Scafarto. Hanno chiesto chiarimenti sul filone che riguarda la fuga di notizie sull’inchiesta e che vede indagati per rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento il ministro dello sport Luca Lotti, il comandante generale dell’arma Tullio Del Sette e quello della regione Toscana Emanuele Saltalamacchia.  Il colonnello Sessa del NOE secondo i magistrati avrebbe mentito sulle date. In sostanza, Sessa avrebbe avvertito con largo anticipo gli alti ufficiali delle indagini in corso, cosa che avrebbe permesso la fuga di notizie verso il ministro Lotti e, da questi, verso Tiziano Renzi. Le conversazioni Whatsapp trovate sul cellulare del capitano Scafarto dimostrano che lui avrebbe informato il comandante del Noe, Generale Sergio Pascali, in estate, mentre lui ha deposto di averlo fatto solo dopo il 6 novembre.  I magistrati hanno interrogato il capitano (ora maggiore) Scafarto al quale hanno chiesto chiarimenti sul suo ultimo interrogatorio, durante il quale aveva chiamato in causa il sostituto procuratore di Napoli, Henry John Woodcock, anche lui titolare di un filone di inchiesta su Consip. “Fu lui a dirmi di fare un apposito capitolo sul coinvolgimento dei servizi segreti”, aveva messo a verbale Scafarto.  La “storia” dei Servizi era quindi una bufala. Ma Travaglio quando vuole dimentica (o vuole dimenticare)!

Il suo vice direttore Lillo ha raccontato questo particolare a proposito della vicenda Consip: «Il giornalista del Corriere della Sera Giovanni Bianconi ha svelato per primo oggi l’indagine per rivelazione di segreto su Woodcock per l’inchiesta Consip. Io lo conosco bene. Mi ha incontrato proprio negli uffici della Procura di Roma una ventina di minuti prima dell’uscita del suo scoop. Né lui né l’Ansa che ha ripreso e ampliato la notizia aggiungendo il particolare di Federica Sciarelli indagata hanno ritenuto utile chiedere la mia versione su questa notizia. Dopo l’uscita del pezzo sul Corriere.it ho chiamato il collega per dirgli: “Giovanni, scusa perché quando mi hai incontrato non mi hai chiesto la mia versione come avresti fatto con un indagato per fuga di notizie qualsiasi come Luca Lotti?”. La risposta è stata: “Perché non ho messo il tuo nome e tu non sei una notizia”. Gli ho detto: “Hai messo la testata e tutti sanno che sono io. E poi scusa, sono un collega. Mi conosci. Ti avrei potuto spiegare come sono andate le cosee avresti fatto un pezzo più completo per il tuo lettore”. Mi ha risposto che gli avrei potuto mentire e quindi non era interessato alla mia versione». Un comportamento corretto quello di Bianconi, che sorprende Marco Lillo ed i suoi colleghi. Perchè? Semplice. Al Fatto Quotidiano non si preoccupano di pubblicare notizie inesatte o tendenziose, ed hanno una certa “allergia” ad autorettificarsi. Il “Marchino” così conclude il suo editoriale: “Dobbiamo dedurne che le fughe di notizie sono lecite per gli stupri e proibite per le mazzette? E dove sta scritto? Nel Codice del Marchese del Grillo?”. Travaglio purtroppo però non spiega ai suoi esigui lettori, che sono crollati con il suo arrivo alla direzione del Fatto Quotidiano, al posto dell’ottimo Antonio Padellaro (rimpianto dalla stragrande maggioranza dei giornalisti “fondatori” del giornale) quali sarebbero “le fughe di notizie sugli stupri”. Quelle sulla vicenda Consip invece lui le conosce molto bene…. E conosce molto bene i responsabili che hanno violato la Legge ed il Codice Penale. Povero “Marchino” Travaglio che gli tocca fare pur di vendere qualche copia in più del giornale e dei libri editi dalla loro casa editrice per far quadrare i conti...!

Per una più ampia valutazione del lettore, segnaliamo alcuni “precedenti” giudiziari sul giornalismo … di Marco Travaglio:

• Nel 2000 è stato condannato in sede civile per una causa intentata da Cesare Previti dopo un articolo su L’Indipendente del 24 novembre 1995: 79 milioni di lire, pagati in parte attraverso la cessione del quinto dello stipendio.

•  Nel giugno 2004 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile a un totale di 85.000 euro (più 31.000 euro di spese processuali) per un errore contenuto nel libro «La Repubblica delle banane» scritto assieme a Peter Gomez e pubblicato nel 2001. Nel libro, a pagina 537, così si descrive «Fallica Giuseppe detto Pippo, neo deputato Forza Italia in Sicilia»: «Commerciante palermitano, braccio destro di Gianfranco Miccicché… condannato dal Tribunale di Milano a 15 mesi per false fatture di Publitalia. E subito promosso deputato nel collegio di Palermo Settecannoli». Dettaglio: non era vero. Era un caso di omonimia tuttavia spalmatosi a velocità siderale su L’Espresso, su il Venerdì di Repubblica e su La Rinascita della Sinistra: col risultato che il 4 giugno 2004 sono stati condannati tutti a un totale di 85mila euro più 31mila euro di spese processuali; 50mila euro in solido tra Travaglio, Gomez e la Editori Riuniti, gli altri sparpagliati nel Gruppo Editoriale L’Espresso. Nel 2009, dopo il ricorso in appello, la pena è stata ridotta a 15.000 euro.

• Nell’aprile 2005 eccoti un’altra condanna di Travaglio per causa civile di Fedele Confalonieri contro lui e Furio Colombo, allora direttore dell’Unità. Marco Travaglio aveva scritto di un coinvolgimento di Confalonieri in indagini per ricettazione e riciclaggio, reati per i quali, invece, non era inquisito per niente: 12mila euro più 4mila di spese processuali. La condanna non va confusa con quella che il 20 febbraio 2008, per querela stavolta penale di Fedele Confalonieri, il Tribunale di Torino ha riservato a Travaglio per l’articolo Mediaset «Piazzale Loreto? Magari» pubblicato sull’Unità del 16 luglio 2006: 26mila euro da pagare; né va confuso con la citata condanna a pagare 79 milioni a Cesare Previti (articolo sull’Indipendente) e neppure va confuso con la condanna riservata a Travaglio dal Tribunale di Roma (L’Espresso del 3 ottobre 2002) a otto mesi e 100 euro di multa per il reato di diffamazione aggravata ai danni sempre di Previti, reato – vedremo – caduto in prescrizione.

•  Nel giugno 2008 è stato condannato civilmente dal Tribunale di Roma al pagamento di 12.000 euro più 6.000 di spese processuali per aver descritto la giornalista del Tg1 Susanna Petruni come “personaggio servile verso il potere e parziale nei suoi resoconti politici“. «La pubblicazione», si leggeva nella sentenza, «difetta del requisito della continenza espressiva e pertanto ha contenuto diffamatorio».

•  Nell’aprile 2009 è stato condannato dal Tribunale penale di Roma (articolo pubblicato su L’Unità dell’11 maggio 2007) per il reato di diffamazione ai danni dell’allora direttore di Raiuno Fabrizio Del Noce. Il processo sarebbe pendente in Cassazione.

•  Nell’ottobre 2009 è stato condannato in Cassazione (Terza sezione civile) al risarcimento di 5.000 euro nei confronti del giudice Filippo Verde, che era stato definito «più volte inquisito e condannato» nel libro «Il manuale del perfetto inquisito», affermazioni giudicate diffamatorie dalla Corte in quanto riferite «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata».

•  Nel giugno 2010 è stato condannato civilmente dal Tribunale di Torino (VII sezione civile) a risarcire 16.000 euro al Presidente del Senato Renato Schifani, avendo evocato la metafora del lombrico e della muffa a «Che tempo che fa» il 10 maggio 2008.

•  Nell’ottobre 2010 è stato condannato civilmente per diffamazione dal Tribunale di Marsala: ha dovuto pagare 15mila euro perché aveva dato del «figlioccio» di un boss all’assessore regionale siciliano David Costa, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e successivamente assolto in forma definitiva.

•  Quindi la condanna più significativa. Si comincia in primo grado nell’ottobre 2008: Travaglio beccò otto mesi di prigione (pena sospesa) e 100 euro di multa in quanto diffamò Previti. L’articolo, del 2002 su l’Espresso, era sottotitolato così: «Patto scellerato tra mafia e Forza Italia. Un uomo d’onore parla a un colonnello dei rapporti di Cosa nostra e politica. E viene ucciso prima di pentirsi». Lo sviluppo era un classico “copia & incolla”, dove un pentito mafioso spiegava che Forza Italia fu “regista” di varie stragi. Chi aveva raccolto le confidenze di questo pentito era il colonnello dei Carabinieri Michele Riccio, che nel 2001 venne convocato nello studio del suo avvocato Carlo Taormina assieme a Marcello Dell’Utri. In quello studio, secondo Riccio, si predisposero cose losche, tipo salvare Dell’Utri, e Travaglio nel suo articolo citava appunto un verbale reso da Riccio. E lo faceva così: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti». E così praticamente finiva l’articolo.

L’ombra di Previti si allungava perciò su vari traffici giudiziari, ma soprattutto veniva associato a un grave reato: il tentativo di subornare un teste come Riccio. Il dettaglio è che Travaglio aveva completamente omesso il seguito del verbale del colonnello. Eccolo per intero: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti. Il Previti però era convenuto per altri motivi, legati alla comune attività politica con il Taormina, e non era presente al momento dei discorsi inerenti la posizione giudiziaria di Dell’Utri». Il giudice condannò Travaglio ai citati otto mesi: «Le modalità di confezionamento dell’articolo risultano sintomatiche della sussistenza, in capo all’autore, di una precisa consapevolezza dell’attitudine offensiva della condotta e della sua concreta idoneità lesiva della reputazione». In italiano corrente e più chiaro significa che Travaglio l’aveva fatto apposta, cioè aveva diffamato ben sapendo di diffamare. La sentenza d’Appello è dell’8 gennaio 2010 e confermava la condanna, ma gli furono concesse attenuanti generiche e una riduzione della pena. La motivazione, per essere depositata, non impiegò i consueti sessanta giorni: impiegò un anno, dall’8 gennaio 2010 al 4 gennaio 2011. Così il reato è caduto in prescrizione. «La sentenza impugnata deve essere confermata nel merito… (vi è) prova del dolo da parte del Travaglio». Il quale, ad Annozero, ha raccontato di un ricorso in Cassazione: attendiamo notizia sull’esito. Secondo voi, se sarà negativo Travaglio nè darà notizia? Abbiamo seri dubbi …

“Ciliegina sulla torta”. La Corte Europea dei Diritti Umani. I tribunali italiani non hanno violato il diritto alla libertà d’espressione di Marco Travaglio quando in primo e secondo grado, nel 2008 e 2010, l’hanno condannato per aver diffamato Cesare Previti nell’articolo ‘Patto scellerato tra mafia e Forza Italia’ pubblicato nel 2002 sull’Espresso. L’ha stabilito la Corte europea dei diritti umani dichiarando inammissibile il ricorso presentato dal giornalista nel 2014. Secondo i giudici di Strasburgo i tribunali italiani hanno ben bilanciato i diritti delle parti in causa, da un lato quello di Travaglio alla libertà d’espressione e dall’altro quello di Cesare Previti (che nella decisione odierna è indicato solo con l’iniziale P.), al rispetto della vita privata. I togati europei hanno quindi dato ragione ai colleghi italiani che hanno condannato Travaglio per aver pubblicato solo una parte della dichiarazione del colonnello dei Carabinieri Michele Riccio “generando così nel lettore – si legge nella decisione della Corte – l’impressione che il ‘signor P.’ fosse presente e coinvolto negli incontri riportati nell’articolo”. La Corte osserva “che, come stabilito dai tribunali nazionali, tale allusione era essenzialmente fuorviante e confutata dal resto della dichiarazione non inclusa dal ricorrente nell’articolo”. La Corte di Strasburgo ha quindi ribadito che uno sputtanamento è uno sputtanamento e che le post verità…si possono definire solo in un modo: menzogne. E pubblicare una storia a metà, con il metodo del “taglia e cuci”, non è un fatto alternativo: è una non verità. E per fortuna c’è un giudice a Strasburgo. Ma tutto questo “Marchino” Travaglio evidentemente non ama ricordarlo, figuriamoci scriverlo!

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero, ma non per tutti…Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e “salvarli”. Intercettazioni che ti segnalo, solo il quotidiano che dirigo, ha pubblicato “integralmente”. Hai detto qualche inesattezza. Forse qualcuna di troppo. Innanzitutto il giornalista dell’emittente Blustar TV, che hai citato e fatto passare come un “eroe-vittima”, in realtà non ha mai fatto un’inchiesta giornalistica sullo stabilimento siderurgico, bensì ha solo rivolto una domanda scomoda ad Emilio Riva al termine di un convegno, a confronto della quale,  credimi, le domande fatte ai malcapitati dagli inviati di Striscia la Notizia e Le Iene nei loro servizi,  potrebbero tranquillamente concorrere ed aspirare a vincere il “Premio Pulitzer“  E poi, caro Travaglio, quella televisione cioè Blustar TV, che sta per chiudere,  la pubblicità dall’ ILVA la incassava anche lei ! Le domande “scomode” di quel giornalista a Riva sono arrivate solo, guarda caso…quando i rubinetti della pubblicità si erano chiusi da tempo! Hai paragonato ingiustamente ed erroneamente l’attuale  Sindaco di Taranto Ippazio Stefàno ai suoi predecessori Giancarlo Cito  e Rossana Di Bello, senza sapere che a differenza dei degli altri due, l’attuale primo cittadino di Taranto, al suo secondo mandato consecutivo, è stato eletto con i voti di una sua lista civica, senza della quale il centrosinistra non avrebbe mai governato la città di Taranto, sindaco che gestisce ed amministra la città in “dissesto economico” finanziario da circa 8 anni, dopo quanto ha ricevuto in “eredità”…dal precedente sindaco di Forza Italia Di Bello. Hai ha detto erroneamente che il dissesto di Taranto ammontava a 900mila euro, dimenticando qualche “zero”. Magari fossero stati solo così pochi! In realtà il “buco” era di 900 milioni di euro!

Se ti avessero informato e documentato meglio, caro Travaglio, invece di ironizzare sulla pistola alla cinta del Sindaco, avresti appreso delle pesanti minacce ricevute dal primo cittadino di Taranto, persino nel suo studio a Palazzo di Città, ad opera di appartenenti alla criminalità organizzata, la quale grazie a dei consiglieri comunali collusi silenziosamente si era infiltrata anche all’interno dell’amministrazione comunale (mi riferisco all’ “operazione Alias” della DDA di Lecce). Paragonandolo al tuo amico ed ex pm Ingroia che se ne andava girando in lungo e largo per l’Italia con la “scorta” di Stato, almeno il sindaco di Taranto non è costato nulla al contribuente, e la sua pistola è rimasta sempre al suo posto. Caro Travaglio ti anticipo subito un possibile dubbio. Non sono un elettore, simpatizzante o apostolo, nè tantomeno amico o parente dell’attuale Sindaco di Taranto, ma sull’ onestà di Ippazio Stefàno non sono il solo a sostenerla. Ti informo che oltre al sottoscritto c’è “qualcuno” come il Procuratore capo della repubblica di Torino, Armando Spataro (tarantino) che dovresti ben conoscere, il quale essendo persona seria, coerente ed attendibile, sono sicuro sarà pronto a ripetere quello che disse al sottoscritto: “Sull’onestà di Ippazio Stefàno sono pronto a mettere la mano sul fuoco”. Non ti ho sentito dire neanche una sola parola sui tuoi “amici” “grillini”, che difendi spesso e volentieri in televisione e nei tuoi articoli. Se ti fossi informato bene, avresti scoperto che i due “cittadini” eletti in Parlamento a Taranto del M5S, sono stati i primi dopo qualche mese dalla loro elezione ad abbandonare il movimento di Grillo e Casaleggio. Rinunciare allo stipendio “pieno” da parlamentare è cosa dura ed ardua. Soprattutto per uno come Alessandro Furnari (ex disoccupato) ed una come l’ex-cittadina-pentastellata-deputata Vincenza Labriola la quale, due anni prima si era candidata alle elezioni comunali per il M5S, ricevendo dal “popolo grillino” e dai cittadini di Taranto un grande…consenso: la bellezza di 1 voto. Forse il suo! Per avere traccia della loro attività parlamentare, e conoscere il loro impegno per Taranto, credo che sia consigliabile alla nostra brava collega Federica Sciarelli conduttrice di “Chi l’ha visto”. Chissà se ci riesce …Hai raccontato di intercettazioni, avvenute realmente, fra gli uomini dell’ILVA e la stessa famiglia Riva, che si intrattenevano telefonicamente con non pochi politici pugliesi, da destra a sinistra, compreso il neo (ma già ex) deputato Ludovico Vico. Hai accusato il Pd di averlo fatto rientrare in Parlamento. Peccato che (purtroppo) gli spettasse di diritto in quanto primo dei non eletti nel collegio jonico-salentino alle ultime elezioni politiche. O forse bisognava fare una “legge ad personam” per impedirglielo?  Tutta roba vecchia, riciclata, caro Travaglio, non hai rivelato nulla di nuovo rispetto a quanto già pubblicato (con audio) dai colleghi del quotidiano La Repubblica, e che noi umili cronisti di provincia del Corriere del Giorno, abbiamo approfondito con l’ulteriore pubblicazione integrale online delle intercettazioni più salienti. Eppure tutto questo, il vostro giovane collaboratore locale Francesco Casula poteva raccontartelo….ma forse era troppo impegnato nelle sue conversazioni nell’ufficio dove lavora a Taranto,  e cioè un centro di formazione professionale riconosciuto dalla Regione Puglia (dove viene retribuito quindi con soldi pubblici) in cui il giovane collega lavora insieme alla figlia dell’ex-presidente della Provincia di Taranto Gianni Florido (PD – area CISL) un politico arrestato a suo tempo anch’egli  per l’ inchiesta “Ambiente Svenduto“… Chissà !!! ??? Hai citato il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio ed i suoi magistrati, come se fossero stato loro gli artefici con una propria azione “autonoma” a far decollare l’inchiesta giudiziaria sull’ ILVA. Ed anche in questo caso… in realtà non è andata proprio così perchè l’inchiesta “Ambiente Svenduto” è nata grazie a degli esposti e denunce di associazioni ambientaliste tarantine, e proprio del sindaco Ippazio Stefàno, esposti e denunce che non potevano essere dimenticate nei cassetti, come invece accade tuttora per molti altri casi. Hai dimenticato caro Travaglio di ricordare che a Taranto un pubblico ministero è stato arrestato e condannato a 15 anni …, e ti è sfuggito che un giudice del Tribunale civile di Taranto è stato arrestato anch’egli mentre intascava una “mazzetta”. Se vuoi gli atti, te li mando tutti.  Completi. Hai dimenticato anche qualcos’altro. E cioè qualcosa che non poteva e non doveva sfuggire alla tua nota competenza in materia giudiziaria. Anche perchè il quotidiano che ora dirigi ne aveva parlato. La Procura di Taranto aveva realizzato (solo sulla carta) uno dei sequestri più grossi della storia giudiziaria italiana, nei confronti della famiglia Riva, sotto indagine per disastro ambientale nell’ambito dell’inchiesta ILVA. Un decreto di sequestro per equivalente, firmato nel maggio scorso dal gip Patrizia Todisco su richiesta appunto della procura tarantina, che imponeva di mettere i sigilli a beni per 8,1 miliardi di euro senza peraltro mai trovarli ed identificarli! Quindi un sequestro “fittizio”, rimasto solo sulla carta. E guarda caso, proprio in merito a questo “strombazzato” grande sequestro…  la Corte di Cassazione ha stabilito che i beni posti sotto sequestro della holding Riva Fire, società proprietaria di ILVA spa, su richiesta del pool di inquirenti composto dal procuratore capo  Franco Sebastio, dall’aggiunto Pietro Argentino e dai sostituti Mariano Buccoliero, Giovanna Cannarile e Remo Epifani,  non andavano confiscati motivo per cui ha annullato senza rinvio il decreto di sequestro, che era stato confermato nel giugno 2014 anche dal Tribunale del riesame di Taranto. Il che vuol dire come puoi ben capire da solo, che sui Riva a Palazzo di Giustizia di Taranto, avevano “toppato” tutti! In ordine: la Procura della Republica, l’ufficio del GIP, ed il Tribunale del Riesame. Altro che complimenti! Per fortuna ci ha pensato la Procura di Milano (procedendo per reati di natura fiscale), grazie alla preziosa cooperazione che intercorre sui reati finanziari fra la Banca d’ Italia, l’Agenzia delle Entrate e la Guardia di Finanza che hanno scovato un rientro fittizio (cioè mai effettuato) dall’estero in Italia di capitali della famiglia Riva, operazione camuffata come “scudata” del valore di 1miliardo e 200 milioni di euro a cui stanno per aggiungersene altri 3-400 come ha annunciato in audizione al Senato il procuratore aggiunto milanese Francesco Greco, che sono in pratica i soldi che la gestione commissariale dell’ ILVA in amministrazione straordinaria ha richiesto ed ottenuto (ma non ancora sui conti bancari)  in utilizzo dal Gip del tribunale di Milano, previa tutta una serie di garanzie legali a posteriori, in quanto il contenzioso giudiziario fra Adriano Riva (il fratello e “patron” del Gruppo, Emilio è deceduto diversi mesi fa) e lo Stato non si ancora concluso, neanche in primo grado. In compenso, sei stato molto bravo a spiegare con chiarezza gli effetti reali e vergognosi (mi trovi d’accordo con te al 100%) dei vari “decreti Salva Ilva”. Permettimi di provocarti: a quando una bella inchiesta del Fatto Quotidiano su quello che accade dietro le quinte di Taranto, possibilmente coordinata dall’ottimo Marco Lillo per evitare cattive figure? Ci farebbe piacere non dover restare i soli dover scoperchiare i “tombini” di questa città, che per tua conoscenza è ILVA-dipendente a 360°. Concludendo caro Travaglio, pur riconoscendoti delle innate capacità giornalistiche e narrative, e stimandoti personalmente, questa volta te lo confesso mi hai deluso. Hai dimenticato di farti qualche domanda molto importante come questa: “Come mai al “referendum sull’ inquinamento ambientale “a Taranto hanno aderito e votato solo 20 mila tarantini?”  su circa 200mila elettori. Oppure come questa: “Ma gli altri 180mila tarantini che non sono andati a votare al referendum, dov’erano?”. Eppure sarebbe stato facile chiederglielo. Ieri sera caro Travaglio, li avevi più o meno tutti di fronte al tuo palco …. Domande serie, caro collega Travaglio, non le fotocopie di “seconda mano” che ti hanno passato.

MARCELLO DELL’UTRI. VITTIMA SACRIFICALE.

Dell’Utri, perché non lo fuciliamo? Scrive Piero Sansonetti il 6 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Ma allora perché non lo fuciliamo, come si faceva una volta con i politici in disgrazia? In Italia, è vero, da una settantina d’anni non si usa più: l’ultimo credo che fu Buffarini Guidi. Luglio 1945. Però si può fare un’eccezione, e chiedere alla commissione antimafia, magari, di scegliere il plotone di esecuzione. Sto parlando di Marcello dell’Utri, naturalmente. Ieri il caso della sua carcerazione è andato davanti al tribunale di sorveglianza. Il tribunale di sorveglianza nelle prossime ore dovrà decidere se mandarlo a curarsi in ospedale o lasciarlo in carcere ad aspettare la fine. Dell’Utri ha un tumore maligno alla prostata, il cuore in condizioni pessime, il diabete altissimo. Non può operarsi perché le sue condizioni cardiache non lo permettono. Il Procuratore generale ha chiesto a dei periti di sua fiducia di visitare Dell’Utri. Che è stato visitato anche dai periti nominati dalla difesa, che sono quelli di Antigone, e dai periti del tribunale. I periti dell’accusa hanno dato lo stesso responso dei periti della difesa: le sue condizioni non sono compatibili con il regime carcerario. E hanno proposto i nomi di cinque istituti ospedalieri, di Roma e di Milano, in grado di ricoverarlo e di curarlo. Ma il Procuratore generale, nell’udienza di ieri, ha detto di fidarsi dei periti del tribunale e non dei periti nominati da lui. E siccome i periti del tribunale dicono che può restare in carcere, il Procuratore, smentendo clamorosamente i suoi periti, in un breve intervento (circa 2 minuti, poche parole succinte e chiare) ha chiesto che dell’Utri resti in cella. Non si conoscono precedenti di una situazione di questo genere. Un procuratore che dice di non credere ai periti che lui ha nominato è una novità assoluta in giurisprudenza, e anche nella vita di tutti i giorni. Ora bisognerà aspettare la decisione dei giudici. I quali dovranno tener conto delle richieste del Procuratore e delle perizie dei periti del tribunale, ma non potranno non prendere atto anche delle perizie dei medici scelti dalla Procura. Se i giudici dovessero decidere di rispedire Dell’Utri in carcere, la sua vita sarebbe in serissimo pericolo. Riassumiamo brevemente i fatti. Marcello Dell’Utri, braccio destro di Silvio Berlusconi e fondatore di Forza Italia, è stato condannato con sentenza definitiva a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa. Questo reato non esiste nel codice penale, e dunque la condanna confligge seriamente con l’articolo 1 del codice penale, il quale recita esattamente così: «Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, né con pene che non siano da essa stabilite». Da tempo però i magistrati hanno stabilito che il reato di associazione esterna esiste in quanto combinazione dell’articolo 110 (concorso in reato) e dell’articolo 416 bis (associazione mafiosa). E che di conseguenza è ammissibile l’ipotesi che una persona faccia parte di una associazione pur non facendone parte, e sia interno a quell’associazione pur restandone fuori. E che le pene si decidano di volta in volta. In questo modo sono state comminate svariate condanne, anche a Dell’Utri. Nel frattempo però la Corte europea ha stabilito che si può anche ammettere che il reato ora esista, in quanto passato al vaglio dei tribunali italiani e della Cassazione, ma comunque esiste da non prima del 1994. Il problema è che Dell’Utri è accusato (ed è stato condannato) per fatti avvenuti tutti negli anni 80. Quando, dunque, il reato sicuramente non esisteva. Dell’Utri ha fatto ricorso alla Corte europea, contro la sentenza, ed è praticamente certo che la Corte gli darà ragione (visto che ha dato ragione a Bruno Contrada, ex dirigente dei servizi segreti, condannato per lo stesso reato e nelle stesse condizioni). Il problema è che la Corte europea è lenta, e probabilmente la sentenza e l’ordine di scarcerazione arriveranno quando dell’Utri avrà finito di scontare la pena, oppure sarà morto. Nel frattempo Dell’Utri si è ammalato, ha superato i 75 anni, ha scontato molto più della metà della pena. Esistono non alcune ragioni per scarcerarlo: esistono vagonate di ragioni (perché non esiste il reato, o perché è anziano, o perché è malato, o perché ha scontato più della metà della pena…). Perché nessuno muove un dito? Perché la procura generale di Roma ha smentito i suoi periti pur di non accettare che Dell’Utri sia curato come tutte le altre persone, libere o detenute? Ci sono state pressioni per impedire la scarcerazione? La verità che tutti sanno è che Dell’Utri non viene scarcerato per ragioni assolutamente, e squisitamente, e ormai del tutto palesemente politiche. Dell’Utri è Berlusconi. E questo viene ritenuto imperdonabile. Dell’Utri è accusato di essere stato uno dei cervelli pensanti del berlusconismo, e questo viene ritenuto imperdonabile. Dell’Utri è siciliano. E questo viene ritenuto imperdonabile. Dell’Utri è stato per molti anni un parlamentare. E questo, naturalmente, viene ritenuto più che mai imperdonabile e comunque una aggravante. Talmente imperdonabili sono queste sue colpe (assai di più di qualunque associazione esterna) che sono mosche bianche quelli che hanno il coraggio di difenderlo. Perché – mi chiedo, per esempio – non esiste neppure un parlamentare di sinistra che abbia la sensatezza di dire: «Sta male, rischia la vita, fatelo uscire»? Naturalmente speriamo che, come spesso accade, tra i giudici che alla fine sono chiamati a giudicare, prevalga il buon senso e la conoscenza della Costituzione italiana, e i principi sacri dell’umanità. Se non sarà così Dell’Utri rischia la vita. Se Dell’Utri morirà in carcere nessuno potrà considerare la sua morte una cosa diversa da un delitto politico.

NICOLA MANCINO. VITTIMA SACRIFICALE.

Massacro di un democristiano per bene, scrive Piero Sansonetti il 20 Dicembre 2017 su "Il Dubbio".  La persecuzione giudiziaria contro uno che ha fatto la storia della nostra democrazia. Mi dicono che Nicola Mancino non sta bene. Vive chiuso in casa, non vuol veder nessuno, è molto malinconico. Il modo nel quale lo hanno messo in mezzo, senza motivo, nel processo Stato- Mafia, non gli è andato giù. Sente l’ingiustizia, l’accanimento immotivato: non sa spiegarseli. Mancino ha 86 anni, li ha spesi quasi tutti per la politica. È difficile, oggi, far capire a un ragazzo cosa vuol dire questa espressione: «spesi per la politica». Ma c’è stato un periodo, nella storia d’Italia, nel quale la politica era una cosa molto seria, un mestieraccio (come diceva ieri Giuseppe De Rita su questo giornale) che richiedeva passione, intelligenza, strategia, impegno, rapporto con le masse. Noi di sinistra dicevamo così: «con le masse». Chi voleva far politica doveva “spenderci” tutte le energie che aveva. E doveva studiare, applicarsi, conoscere, parlare, stare a sentire. Ho conosciuto Nicola Mancino nei primissimi anni 80. Lui era il vice presidente dei senatori della Dc. Era già una autorità. Io un giovane cronista politico dell’Unità. Fronti opposti. Mi ricordo ancora di un articolo molto critico che scrissi su di lui (forse un po’ offensivo) e di un biglietto di protesta che mi mandò: era molto seccato ma non era aggressivo, o minaccioso, e accettava di discutere e di far polemica mettendosi sullo stesso piano di un ragazzino come me. Devo dire che oggi mi dispiace di avere scritto quell’articolo con la baldanza sfacciata e spavalda dei giovani. Credo che nella discussione avessi ragione io, ma alle volte, magari, prima di sputare addosso alla gente bisognerebbe conoscere meglio come stanno le cose. Mancino è stato un grande democristiano. Era uno dei leader del partito in Campania. E uno dei dirigenti nazionali nella sua corrente, corrente gloriosa e forte della sinistra Dc. Si chiamava La Base. L’avevano fondata Dossetti e Marcora, negli anni cinquanta, e avevano allevato una covata di giovanotti, come De Mita, Galloni, Granelli e lo stesso Mancino. Poi Dossetti lasciò la politica ma la corrente di Base andò avanti e fu un pilastro ben piantato del centrosinistra. Moro era Moro, certo, era su un altro pianeta. Ma sul piano della politica organizzata e anche della ricerca teorica, la Base fu essenziale – insieme alla corrente di Donat Cattin – nella svolta riformista che l’Italia visse negli anni sessanta e settanta. Mancino era lì. Spesso finiva nella bufera delle polemiche. Ma resisteva bene. Fu accusato tante volte soprattutto del «reato di clientelismo». Lo dico con cognizione di causa, perché noi dell’Unità eravamo tra gli accusatori più tenaci. Avevamo ragione? Un po’ sì. Un po’ però avevano ragione loro. È vero che in quegli anni il clientelismo (o l’assistenzialismo) democristiano fu uno dei motori della politica italiana. Ma il clientelismo non era un semplice fenomeno di corruzione. Era un meccanismo molto complicato che permise una grandiosa redistribuzione del lavoro, dell’assistenza, della ricchezza e dello stato sociale. L’Italia in quegli anni crebbe in tempi velocissimi, e la crescita non comportò un aumento, ma una riduzione drastica delle diseguaglianze sociali. La Dc era al centro di questo fenomeno. Luigi Pintor, grande giornalista comunista, una volta fece sul manifesto un titolo che diceva più o meno così: «Non vogliamo morire democristiani». Pintor morì nel 2003. Al governo c’era Berlusconi: chissà, magari lui in fin dei conti avrebbe preferito morire democristiano… Mancino è stato uno degli uomini forti della Democrazia Cristiana. Da parlamentare o da ministro ha accompagnato la crescita dell’Italia durante tutti gli anni della Prima Repubblica. Poi a un certo punto due giovani Pm di Palermo, che si erano convinti che tra il 1992 e il 1994 ci fu una trattativa tra Stato e Mafia, hanno deciso di puntare i loro strali contro Mancino, perché Mancino all’epoca era ministro dell’Interno e perchè alla loro costruzione accusatoria faceva comodo immaginare un ministro dell’Interno favorevole alla trattativa. Anzi, immaginare questa circostanza era indispensabile, altrimenti il castello dell’accusa andava giù. E su cosa si basava tutta l’accusa? Sul racconto del figlio di Vito Ciancimino (ex sindaco dc di Palermo, legato alla mafia), il quale figlio di Ciancimino poi fu condannato tante volte per calunnia. Non avevano nient’altro in mano i Pm. E allora sostennero che il socialista Amato, nel 92, cacciò il dc Vincenzo Scotti dal ministero dell’interno perché lo riteneva contrario alla trattativa, e mise al suo posto il morbido Mancino. E imputarono a De Mita questa scelta. il povero de Mita – che all’epoca era il segretario della Dc, spiegò ai Pm ( che conoscevano poco poco la storia d’Italia di quegli anni, forse perché erano troppo giovani) che nel 1992, esplosa Tangentopoli, la Dc aveva deciso di sancire l’incompatibilità tra ruolo di ministro e mandato parlamentare. Siccome Scotti voleva restare parlamentare, non si poteva farlo ministro. E fu indicato Mancino. Tutto qui. Del resto tutta la biografia di mancino depone per il suo impegno nella lotta alla mafia. Poi, negli anni successivi, Scotti e Martelli (all’epoca ministro della Giustizia) sollevarono molte polemiche contro Mancino, ma questo rientra nella fisiologia delle invidie e dei rancori in politica. Quello che lascia un po’ sgomenti è che su questa panna montata è stata costruita l’accusa di falsa testimonianza che tiene ancora Nicola Mancino dentro un processo senza capo né coda, dove non si sa più nemmeno chi è accusato e di che cosa, e dove i Pm svolgono requisitorie che in realtà smontano i teoremi accusatori. Si capisce bene che lui che ne soffre. Ne soffre anche la Storia, strattonata da tutte le parti, e ne soffre la sostanza della democrazia. Fa un po’ rabbia che dei Pm un tantino sprovveduti, nella loro foga di provare teoremi fantasiosi e di scoprire complotti inconfessabili, pestino l’acqua nel mortaio e buttino fango sulla vita di uno dei protagonisti della democrazia italiana.

Maroni: «Il Sisde spiava Mancino», scrive Errico Novi il 16 Dicembre 2016 su "Il Dubbio".  L’allora ministro dell’Interno: “Trovai sul mio predecessore dossier segreti da usare nella lotta politica. Dissi no alla nomina di Mori e al decreto che ostacolava le inchieste di mafia”. «Quando ero ministro dell’Interno avevo avuto modo di leggere una serie di fascicoli del Sisde che riguardavano di fatto un’attività di dossieraggio nei confronti di esponenti dei vari partiti politici tra i quali uno sul mio predecessore al Viminale». Sono le parole durissime dell’ex ministro dell’Interno, Roberto Maroni, sentito nel processo sulla trattativa Stato- mafia. Che poi continua: «Anche questa vicenda – ha proseguito – mi indusse a rimuovere Domenico Salazar che era direttore del Sisde. Da ministro dell’Interno Maroni spiazzò tutti: anziché mettere a capo del Sisde uno dei nomi graditi a Palazzo Chigi, tra i quali Mario Mori, scelse uno sconosciuto generale dei carabinieri, Gaetano Marino, che «nell’Arma si occupava di formazione». Irregolare come capo del Viminale, controcorrente come teste al processo Stato- mafia: il governatore lombardo dà ai pm Nino Di Matteo e Francesco Del Bene risposte che gran parte degli altri testimoni aveva sfumato nelle nebbie dell’irrilevanza. Non che offra all’accusa e alla Corte d’assise di Palermo seri elementi di prova: anche dopo la deposizione di ieri non sembra accresciuta la possibilità di arrivare a qualche condanna. Ma almeno Maroni dà notizie sulle vicende di quegli anni, in particolare sul ’ 94: una di queste rappresenta l’imputato Nicola Mancino addirittura come vittima di impropri dossieraggi da parte dei servizi. «Appena nominato ministro dell’Interno nel primo governo Berlusconi», racconta l’attuale presidente della Lombardia, «trovai una serie di dossier del Sisde su alcuni politici, persino sul mio predecessore all’Interno», Mancino appunto. Secondo l’allora direttore del servizio segreto civile Domenico Salazar «si trattava di informazioni legate a motivi di sicurezza». Ma davanti a pm e giudici palermitani Maroni obietta: «Se il dossier era sulla sua sicurezza Mancino ne doveva essere informato, se non lo era a maggior ragione pensai che non erano dossier autorizzati». Certo il caso è sconcertante: il Sisde “pedinava” per scopi incomprensibili lo stesso ministro dell’Interno. Che d’altra parte era in buona compagnia: la documentazione trovata da Maroni riguardava «diversi politici, compreso Francesco Cossiga». Nel caso dell’imputato al processo in cui depone il governatore lombardo, «capii che quei pedinamenti servivano a sapere chi incontrava e a raccogliere informazioni da usare nella battaglia politica». Lui, Maroni, prima chiuse i faldoni in una cassaforte del suo studio «per evitare che li facessero sparire», poi li portò in Senato. Si muoveva da “mina vagante”, l’allora capo del Viminale: «Ero il primo che non venisse dalla Dc». Fece fuori Salazar, scartò Mori e altri possibili successori segnalati da Parisi e preferì appunto Marino. Il cuore dell’udienza, negli auspici dei pm, riguarderebbe il decreto del 14 luglio ’ 94, a cui Maroni e la Lega si opposero fino a farlo ritirare: «Il testo arrivato in Consiglio dei ministri non era quello originario. Ne parlai col procuratore di Palermo Caselli, mi disse che quelle norme rendevano più difficile la lotta alla mafia: c’era l’obbligo di riferire all’indagato dell’inchiesta in corso. Secondo Caselli indagini complicate sarebbero diventate impossibili». In realtà nel primo “report” fatto in proposito alla Procura, durante l’interrogatorio del 4 luglio scorso, Maroni aveva detto di aver stroncato il provvedimento in un’intervista al Tg3 per le limitazioni alle misure cautelari nei confronti di indagati per corruzione e concussione. Probabile dunque che il “movente” del decreto non fosse compiacere i mafiosi. Il no della Lega bastò a farlo accantonare. Così come il no di Berlusconi non impedì a Maroni di «nominare Gianni De Gennaro vice capo della polizia: io», dice in aula il governatore, «volevo ribadire la volontà di contrastare la mafia e, soprattutto, sparigliare i vecchi schemi». Il Cavaliere non voleva un poliziotto ritenuto “di sinistra”. Il che non emerge nella deposizione di ieri, ma non è che servisse il processo Statomafia per accertarlo.

CLEMENTE MASTELLA. VITTIMA SACRIFICALE.

Mastella assolto 9 anni dopo la caduta di Prodi: ho sofferto tanto. Accusato con la moglie Sandra Lonardo, l’ex leader dell’Udeur si dimise da Guardasigilli e mandò in crisi il governo, scrive Fulvio Bufi il 12 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Per quanto Berlusconi ci provò con la compravendita dei senatori, la vera causa della caduta del governo Prodi nel 2008 furono le dimissioni di Clemente Mastella da ministro della Giustizia. Scelse di farsi da parte, ma anche di ritirare l’appoggio dell’Udeur alla coalizione, quando dalla Procura di Santa Maria Capua Vetere lo misero sotto inchiesta accusandolo di concussione nei confronti del governatore della Campania dell’epoca, Antonio Bassolino.

Il terremoto politico. Sono passati oltre nove anni da quell’inchiesta e ieri Mastella è stato assolto. Non impose cariche per esponenti del suo partito, non commise nessun altro tipo di reato. Assolti anche tutti gli altri imputati, tra i quali la moglie dell’attuale sindaco di Benevento, Sandra Lonardo, che all’epoca conobbe addirittura gli arresti domiciliari Nel gennaio del 2008 il Paese subì dunque un terremoto politico e una crisi di governo per nulla, si scopre oggi. E Mastella ne ricorda, però, soprattutto le conseguenze sul piano personale e familiare. «Ho sofferto tanto», commenta adesso. E aggiunge: «La mia famiglia e io abbiamo patito cose inimmaginabili. Sono contento soprattutto per la giustizia, perché questa sentenza conferma che la giustizia esiste e bisogna crederci, anche quando i tempi sono molto lunghi». Lui nel frattempo ha vissuto anni lontano dalla politica, ma non ce l’ha fatta a non tornare in gioco, anche se in qualche momento avrà pensato che era davvero fuori da tutto.

La vittoria a Benevento. Invece ora è sindaco a Benevento, e alla luce della sentenza emessa ieri dal Tribunale di Napoli, può tranquillamente restare al suo posto. In caso di condanna (il pubblico ministero Ida Frongillo aveva chiesto una pena di due anni e sei mesi) sarebbe invece in corso in quanto prevede la legge Severino e avrebbe dovuto lasciare la carica di primo cittadino. L’inchiesta nei confronti di Mastella disegnò l’Udeur come un centro di potere basato su illeciti di vario tipo. L’accusa principale rivolta al leader fu quella di aver imposto a Bassolino una importante nomina all’interno della Asl div Benevento, minacciando, in caso contrario, di ritirare la fiducia alla giunta regionale e di costringerla quindi a capitolare. Per la verità il primo a discolpare Mastella, nel corso di questi anni, è stato proprio Bassolino, che ha sempre negato di aver subito pressioni di alcun tipo. Alla fine se ne sono convinti anche i giudici.

Le indagini. Nelle indagini, oltre a Sandra Lonardo, furono coinvolti numerosi altri esponenti dell’Udeur, ma ieri tutti sono stati assolti. In alcuni casi erano maturati anche i tempi per la prescrizione (la cui applicazione è stata chiesta dal pm) ma il Tribunale ha preferito entrare nel merito e pronunciarsi per una assoluzione piena. Di quella vicenda di quasi dieci anni fa rimane — oltre a un’inchiesta finita nel nulla e a una crisi di governo — soltanto il ricordo di una surreale conferenza stampa, con il procuratore dell’epoca di Santa Maria Capua Vetere, Mariano Maffei, che non si rese conto di essere ripreso da decine di telecamere e che al termine provò a pretendere che nessuna immagine venisse mandata in onda. In realtà era già stato tutto trasmesso in diretta e in diretta andò anche la sua piccatissima reazione.

Clemente Mastella assolto dall'inchiesta che nove anni fa causò la caduta del Governo Prodi. Aveva lasciato la carica di ministro della Giustizia dopo un avviso garanzia e l'arresto della moglie Sandra Lonardo, scrive Roberto Fuccillo il 12 settembre 2017 su "La Repubblica". Assoluzione per Clemente Mastella. È la sentenza di primo grado al processo nato nel 2008 a Santa Maria Capua Vetere, e che costò tra l’altro la caduta dell’allora governo Prodi. Il verdetto è stato emesso dopo oltre sei ore di camera di consiglio dalla quarta sezione del Tribunale di Napoli. "È una riparazione a dieci anni di sofferenze - commenta Mastella, attualmente sindaco di Benevento - perchè è una vicenda che ha toccato tutta la mia famiglia". E aggiunge: "Non auguriamo a nessuno quello che è successo a noi. Ricordo quello che mi disse Andreotti: a me hanno risparmiato la famiglia, a te neppure quella". L’allora Guardasigilli (siamo nel 2008) reagì dimettendosi all’arresto della moglie Sandra Lonardo, disposto proprio nell’ambito dell’indagine. Le contestazioni si riferivano a presunte pressioni per le nomine in alcuni incarichi. Fra queste anche quella ipotizzata su Antonio Bassolino, all’epoca presidente della Regione, per una nomina alla Asi di Benevento. Pressione smentita dallo stesso Bassolino, ascoltato in aula. Nella sua requisitoria, il pm Ida Frongillo aveva comunque chiesto per l'ex ministro la condanna a due anni e otto mesi, modificando l'originaria imputazione di tentata concussione in indebita induzione. Al tempo stesso aveva sollecitato invece la prescrizione per Sandra Lonardo. Ieri, a quasi dieci anni da un passaggio che fu storico anche per le istituzioni italiane, la sentenza assolve l’ex ministro, oggi sindaco di Benevento, la consorte e gli altri due coimputati, l’ex consuocero Carlo Camilleri e l’avvocato Andrea Abbamonte, anch’essi all’epoca dei fatti dirigenti dell’Udeur. Il sindaco di Benevento, che all'epoca dei fatti ricopriva la carica di ministro della Giustizia ed era leader dell'Udeur, era accusato in particolare di "induzione indebita a dare o promettere utilità". Una ipotesi per la quale il pm aveva chiesto due anni e otto mesi di reclusione. La sentenza chiude una vicenda processuale tormentata, che culminò nel gennaio 2008 - quando l'inchiesta era condotta dalla procura di Santa Maria Capua Vetere - nell'emissione dell'avviso di garanzia nei confronti del Guardasigilli. Una indagine che coinvolse anche la moglie del leader Udeur, Alessandra Lonardo, all'epoca presidente del consiglio regionale della Campania. Mastella si dimise dalla carica di ministro e pochi giorni dopo ritirò il suo appoggio al Governo Prodi, circostanza che contribuì alla caduta dell'esecutivo e alle elezioni anticipate che videro il successo della coalizione guidata da Berlusconi. Mastella e tutti i co-imputati, difesi dagli avvocati Alfonso Furgiuele e Fabio Carbonelli, sono stati assolto per tutti e tre i capi di imputazione con formula piane, anche per i due capi per i quali il pm aveva chiesto la prescrizione: perché il fatto non costituisce reato e perché il fatto non sussiste. Il capo di imputazione principale si riferiva a una presunta concussione ai danni dell'allora presidente della Regione Campania Antonio Bassolino. Secondo l'iniziale impostazione accusatoria, Mastella avrebbe imposto al Governatore la nomina di una persona da lui segnalata a commissario di una Asl, minacciando in caso di rifiuto di ritirare due assessori Udeur dalla Giunta. Una circostanza negata dallo stesso Bassolino nel corso del processo: l'ex presidente della Regione affermò di non aver subito alcuna pressione. Si sarebbe trattato di normali accordi politici. Il reato di concussione era stato derubricato dalla Procura in una induzione indebita a dare o promettere utilità. Il Tribunale ha ritenuto invece che si sarebbe potuto configurare un abuso di ufficio, concludendo comunque che il fatto attribuito a Mastella non costituisce reato. Il tribunale ha assolto con formula ampia anche la moglie di Mastella, l'ex presidente del Consiglio regionale della Campania Sandra Lonardo nonché i due ex assessori regionali dell'Udeur Nicola Ferraro e Andrea Abbamonte e l'ingegnere Carlo Camilleri, consuocero dell'ex ministro della Giustizia.

Mastella, cosa significa l'assoluzione nove anni (e otto mesi) dopo. L'ex ministro ha sempre parlato di manovre dei servizi segreti, ma forse ha pagato la sua idea di riforma della giustizia, scrive Maurizio Tortorella il 13 settembre 2017 su Panorama. Non è nemmeno la prima volta che Clemente Mastella, ex ministro della Giustizia, viene assolto. Era già accaduto l’8 marzo 2008, nell’inchiesta “Why not” avviata dall’ex sostituto procuratore di Catanzaro (e oggi sindaco di Napoli) Luigi De Magistris: Mastella, all’epoca Guardasigilli del governo di Romano Prodi, era stato indagato nell’ottobre 2007 per abuso d’ufficio. Il giudice lo aveva prosciolto scrivendo che "non vi erano neanche gli estremi per poter iscrivere Mastella nel registro degli indagati". Certo, in quel caso erano bastati cinque mesi. In questa seconda, grande assoluzione dall’inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere, iniziata il 16 gennaio 2008 con l’arresto di sua moglie, invece, di mesi ne sono occorsi 116. I giornali hanno tutti titolato stamattina sui 9 anni occorsi perché si arrivasse alla sentenza di primo grado, ma in realtà sono stati 9 anni e otto mesi. Il reato contestato dai pubblici ministeri nel 2008 era grave: tentata concussione ai danni dell’allora governatore della Campania, Antonio Bassolino, per la nomina di un commissario di Asl. Non era servito a nulla che Bassolino negasse il ricatto, parlando di “normali trattative politiche”. Trasferito poi a Napoli, il procedimento è andato avanti. Ma con clamorosa lentezza: sono trascorsi oltre sei anni dal rinvio a giudizio all’assoluzione piena di ieri. Non è un record, va detto anche questo, perché se è vero che la media nazionale dei processi di primo grado è di 6-700 giorni, ci sono comunque casi in cui le sentenze arrivano dopo sette, otto, nove anni. Oggi Mastella, da sindaco di Benevento, protesta (giustamente) per la sua carriera politica (ingiustamente) ridimensionata a livello nazionale. Protesta per le sofferenze patite da lui e da sua moglie, che dopo aver patito gli arresti domiciliari fu sottoposta anche a un raro caso di divieto di dimora nella regione Campania. L’ex ministro aggiunge di essere sempre convinto che dietro la vicenda “non ci siano i giudizi ma i servizi”, e questa è una vecchia storia: “Alcuni cronisti” racconta Mastella “ricevettero una chiavetta informatica con le mie intercettazioni da un emissario della prefettura di Napoli”. Resta un altro sospetto, forse ancora più concreto: e cioè che Mastella abbia pagato per il suo tentativo d’imporre una riforma della giustizia molto poco gradita alla categoria dei magistrati: con importanti cambiamenti nel funzionamento del Consiglio superiore della magistratura e una stretta alla divulgabilità delle intercettazioni.

Mastella, sfogo a «Porta a porta»: ​«I Servizi segreti dietro la mia vicenda», scrive Mercoledì 13 Settembre 2017 ”Il Mattino di Napoli”. «Non furono i giudici ma i servizi a farmi fuori. Nessuno dei miei colleghi ministri mi mostrò solidarietà, tanti mi trattarono come un 'nipotino di Belzebù». Clemente e Sandra Mastella, all'indomani della clamorosa assoluzione a loro carico, un pò spauriti uno a fianco dell'altro nel salotto di Porta a Porta ripercorrono il racconto del loro calvario giudiziario durato nove anni. Emozionati, a tratti in lacrime, trattengono a stento la rabbia contro chi, in questi lunghi anni, li ha ignorati o denigrati, in una conversazione che alterna sensazioni umane a considerazioni politiche. «Ero un obbiettivo facile, uno piccolo e nero, meridionale della prima repubblica...», lamenta l'ex Guardasigilli con i lucciconi. Ammette il dolore profondo: «Credo che un Paese in cui uno si alza e finisce in galera non vada lontano. Ora serve una riconciliazione. No a guerre tra politica e giustizia, ma lavoriamo assieme soprattutto sui tempi del giudizio». Si leva comunque qualche sassolino dalle scarpe che gli fa male da tanti anni: «Nessun collega volle venire in tv a esprimermi solidarietà, anche quella ipocrita. Nessuno tra chi era ministro grazie a me. Solo Chiti mi fu vicino al Senato». Ma lo fa senza alcuna animosità. Solo la moglie, elegante in un completo scuro, si lascia andare all'emozione, ma con grande dignità: «Abbiamo resistito grazie alla grande unità della nostra famiglia, e non è un fatto scontato», sottolinea con la voce rotta. Ma l'ex delfino di De Mita, ministro sia con Berlusconi, sia con Prodi, non rinuncia a parlare di politica. Prima a Benevento, poi a Porta a Porta, racconta che nelle ultime ore in tanti gli hanno offerto una candidatura. «Non mi interessa, continuerò a fare il Sindaco di Benevento», chiarisce. Prodi ha evitato ogni commento. Mastella si morde il labbro, non vuole polemizzare. Ma dopo la puntata si lascia andare a un piccolo sfogo, l'unico: «Per lui è comodo dire che cadde per colpa mia. Ma se fosse sincero dovrebbe dire che ci fu una strategia per fotterlo portata avanti da Veltroni. Ma così metterebbe in crisi l'Ulivo e tutta la stagione successiva. Io ero parte lesa». Un collaboratore gli porge il cellulare. È Silvio Berlusconi che gli esprime la sua solidarietà. E lo stesso farà con la signora. Quindi chiarisce che a suo giudizio, dietro l'inchiesta giudiziaria, ci fu qualche manina oscura. «Ebbi subito la percezione che ci fossero di mezzo i servizi segreti, magari deviati. E che vi fosse la volontà di far cadere quel governo. Credo che ci fosse l'obbiettivo di colpire me, l'anello più debole, per destabilizzare l'Italia. È certo che chi compete con l'Italia - sintetizza - avesse la volontà di indebolirci». Complotto o non complotto, quello che all'ex Sindaco di Ceppaloni sta a cuore oggi è difendere l'onore suo, della sua famiglia e dei suoi elettori. «In pochi giorni venne messo in galera un intero partito. Come se l'Udeur fosse un'associazione a delinquere. Nemmeno la Dc, il Psi, il Pci dei tempi di tangentopoli ebbero quel trattamento, malgrado la presenza di tangenti. Ora che è arrivata la sentenza - sottolinea in chiusura di trasmissione - sono qui per difendere tutta quella gente comune che mi è stata sempre vicina».

Mastella: «Voglio le scuse degli Usa. Indagato, mi vietarono un viaggio». L’ex ministro, incassata l’assoluzione dopo nove anni di attesa, si toglie alcuni sassolini. Attacca il governo Usa. «La sentenza mi restituisce la dignità», scrive Cesare Zapperi il 13 settembre 2017 su “Il Corriere della Sera”. All’indomani dell’assoluzione, attesa nove anni, Clemente Mastella è andato a ringraziare la Madonna delle Grazie a Benevento cui ha dedicato un cero. «Avevo fatto un voto» ha spiegato. Poi si è dedicato alla sua tormentata vicenda giudiziaria che lo costrinse ad abbandonare il ministero di Grazia e Giustizia e il governo Prodi. L’attuale sindaco di Benevento ne ha per tutti. «Mi auguro che il Governo degli Stati Uniti mi porga le scuse perché tre anni fa mi impedirono di imbarcarmi in aeroporto a Fiumicino pur avendo il visto per gli Usa» ha detto. «Sul web circolavano notizie false o imprecise sul mio processo. È come se per gli Stati Uniti fossi stato un condannato, quando in realtà ero semplicemente indagato. E quando contattai l’ambasciata mi venne sconsigliato di partire perché non avrebbero fatto atterrare l’aereo». «Per questi motivi - ha continuato Mastella - voglio che Wikipedia cancelli quello che è scritto nella mia pagina altrimenti non esiterò a querelare chi diffonde notizie false su internet. Io sono stato assolto, questo è il dato. Sono stanco di quanti hanno diffuso fake news sulla sua vicenda giudiziaria facendomi passare come il nipote di Belzebù». «Nelle ultime ore ho ricevuto tantissime telefonate da parte di molti magistrati, politici (Bassolino, Casini, De Mita, Fassino, De Girolamo, ecc.), ma soprattutto da tantissima gente comune». Così Clemente Mastella incontrando la stampa. E alla domanda se gli avessero telefonato Prodi e Berlusconi, ha risposto con un secco «no». Quanto al suo futuro, Mastella fa sfoggio di serenità. «Continuerò a fare il sindaco di Benevento e a impegnarmi in politica, nonostante le proposte di candidatura che ho ricevuto anche durante la notte. La sentenza di ieri - ha aggiunto Mastella - mi restituisce la dignità politica, quella personale no in quanto la gente ha sempre avuto fiducia in me e nella mia famiglia». Poi si è soffermato sui temi della giustizia. «Non occorrono guerre tra schieramenti o tra magistrati e avvocati, o tra giudici e politici: tutti insieme dobbiamo lavorare per rendere la giustizia più giusta, soprattutto nei tempi». «Su questo - ha continuato Mastella - continuerò a impegnarmi su tutti i livelli perché mentre io, oggi, posso, attraverso i media, rendere pubblico il dramma che ho vissuto con la mia famiglia, oltre agli amici che mi sono stati vicini in undici anni di calvario, ci sono tanti altri cittadini che da anni attendono giustizia». E, a riguardo, Mastella rivela che «proprio questa mattina un imprenditore di Caserta, facendomi gli auguri per l’assoluzione, mi confessava che lui era ancora in attesa di una sentenza da 25 anni presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere».

Ora è lady Mastella che accusa: Bindi dovrebbe scusarsi con me. La moglie dell’ex Guardasigilli Sandra Lonardo: «Quando mi mise tra gli impresentabili svenni», scrive Simona Brandolini il 13 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Al momento delle dimissioni in Aula, tra i banchi del governo, c’era solo Vannino Chiti. Oggi la solidarietà è totale e piena, o quasi. Ma non commenta Romano Prodi, uno dei pochi a non aver telefonato a Clemente Mastella. E l’ex Guardasigilli lo sottolinea: «Allora era facile colpevolizzarmi, io piccolo e nero, meridionale della Prima Repubblica. Per Prodi è comodo dire che il governo cadde per colpa di Mastella. Ma se volesse essere sincero fino in fondo dovrebbe dire che ci fu una strategia per fotterlo, portata avanti da Veltroni. Io in quella vicenda sono stato parte lesa». Clemente Mastella comincia a svelare qualche retroscena di una vicenda che dal punto di vista umano e politico ha travolto la sua famiglia e il suo partito, l’Udeur. «Credo che dietro la mia vicenda non ci siano i giudici ma i servizi: i cronisti ricevettero i file delle mie intercettazioni a Napoli da uno della prefettura. E questo la dice lunga». Il Mastella day comincia con la visita al Santuario di Ceppaloni, prosegue con una conferenza stampa a Benevento, città di cui è il sindaco, e termina a Roma, negli studi di Porta a Porta. Al suo fianco Sandra Lonardo, sua moglie, anche lei assolta.

Signora Lonardo, l’inchiesta riguardava presunte irregolarità nelle nomine della sanità. Sua era la frase riferita al manager dell’Asl di Caserta Luigi Annunziata: «Per me è un uomo morto». La ripeterebbe?

«Ho chiesto un parere all’Accademia della Crusca che mi ha dato ragione. Dire “è un uomo morto” significa “non lo voglio più vedere”. Certo che lo ripeterei. Non mi pento mai delle cose che dico».

Dopo dieci anni di processo cosa pensa di aver perso?

«Mi sono chiesta tante cose. Certo dovrei essere felice, sono più tranquilla, ma non è una bella giornata. Sono stati anni di disperazione, di dolore, è cambiato tutto. Io ero presidente del Consiglio regionale, Clemente ministro della Giustizia, un partito si è sciolto come neve al sole. Niente e nessuno potrà mai ripagarci. Ci vorrebbe una class action».

Ha detto spesso di sentirsi umiliata, l’assoluzione potrà cancellare tutto questo?

«San Filippo Neri utilizzava la metafora del pollo spennato. La maldicenza e la calunnia non si possono mai recuperare del tutto, come le penne sparse. L’80% delle persone è solidale con noi, ci stima. Ma ci sarà sempre un 20% per il quale saremo colpevoli».

All’epoca lei era in Consiglio regionale. Ma scattarono prima gli arresti domiciliari e poi il divieto di dimora in Campania. 

«Un incubo. Se non avessi avuto l’aiuto di due psicologici non l’avrei superata. Feci la campagna elettorale da Roma, con un avatar, grazie al web. Hanno scritto due tesi di laurea su quella scelta. Ora scriverò un libro, c’è tanto da raccontare».

Crede nella giustizia?

«Certo, ho creduto anche nel pm che mi ha messo sotto inchiesta. Ho sempre avuto rispetto di tutte le istituzioni. Ma serve una seria riforma della giustizia e anche la modifica di alcune leggi, cominciando dalla Severino».

Nel 2015, si ripresentò alle elezioni e finì nella lista degli impresentabili della commissione Antimafia, presieduta da Rosy Bindi.

«Senza nessuna condanna, Rosy Bindi dovrebbe dimettersi se ha una coscienza. Ma non ne ha. Ha giocato con la vita delle persone. Quantomeno dovrebbe chiedermi scusa. Svenni quando un giornalista me lo disse al telefono».

Cosa fa più male perdere, il potere o la dignità?

«Entrambe le cose quando sei in sella».

Tornerà a fare politica?

«Non so rispondere ora. Per anni mi sono occupata di altro. La cucina, il cibo. Tra un po’ lancio una mia linea di prodotti tipici».

Biografia di Clemente Mastella da Alberto Spada.

• Ceppaloni (Benevento) 5 febbraio 1947. Politico. Sindaco di Benevento dal 20 giugno 2016. Eletto alla Camera nel 1976, 1979, 1983, 1987, 1992, 1994, 1996, 2001 (Dc, Ccd, Margherita), al Senato nel 2006 (Udeur), al Parlamento Europeo nel 2009 (Pdl, ricandidato e non eletto nel 2014 con Fi). Sottosegretario alla Difesa nell’Andreotti VI e VII (1989-1992). Già ministro del Lavoro nel Berlusconi I (1994-1995), ministro della Giustizia nel Prodi II (2006-2008): le sue dimissioni portarono alla caduta del governo e alla fine della XV legislatura. «Conosce la storia del castoro? Quella citata da Gramsci? Un tempo, il castoro era molto ricercato dai cacciatori, perché dai suoi testicoli si traeva una sostanza considerata miracolosa. Quando il povero animale si vedeva circondato, si strappava i testicoli e li gettava ai cacciatori, per aver salva la vita. Ecco, quel castoro sono io. Quando mi sono visto circondato da giudici, giornalisti, servizi segreti, ho lasciato il ministero, insomma mi sono strappato i testicoli. E mi hanno risparmiato» (ad Aldo Cazzullo).

• «Da quando, nel 1976, è entrato in politica, ha fatto il deputato, il senatore e l’eurodeputato ininterrottamente. Un primato. L’uomo di Ceppaloni non colleziona soltanto seggi. Ma anche partiti: ne ha fondati una mezza dozzina; è stato nella Dc ed è in Forza Italia. Ha un debole per le poltrone di governo: due volte sottosegretario e due volte ministro. Nelle cerimonie pubbliche usa il risvolto dei pantaloni per pulirsi le scarpe. Confonde le Mura di Gerico con il Muro del pianto. Ed è persino convinto che Mosè abbia attraversato il Mar Rosso da solo» (Guido Quaranta) [Esp 2/5/2014].

• Figlio di un maestro, laureato in Filosofia («primo in una famiglia di analfabeti»), giornalista, lavorò in Rai e fu capo dell’ufficio stampa della Democrazia cristiana guidata da Ciriaco De Mita: il segretario faceva “ragionamenti” e lui «li traduceva in notizie per gli amici giornalisti. Tanti». «Cordialone con i cronisti ossequiosi e arrogante con gli altri, era soprannominato “la voce del padrone”». Al congresso della Dc del febbraio 1989 si guadagnò gli onori delle cronache e di un neologismo, le “truppe mastellate”, coniato da Giampaolo Pansa per lo zelo con cui organizzò e diresse la claque.

• Nel ’93 tentò lui stesso di fare il segretario della Dc, proponendosi come il simbolo del rinnovamento. «Più che il nuovo che avanza, è l’avanzo del vecchio», commentò il suo compagno di partito Hubert Corsi.

• «A Montecitorio dal ’76 (fino al 2008, quando non si è ricandidato, nonostante l’offerta di un posto da capolista nelle liste del Psi – ndr), si è segnalato, come legislatore, per tre idee. Ha proposto di introdurre la settimana corta nelle scuole per consentire agli studenti e ai loro genitori di godersi un lungo fine settimana. Ha suggerito di far suonare l’inno nazionale all’avvio di ogni partita di calcio non solo come antidoto alle violenze negli stadi ma anche per dare solennità agli incontri. E ha auspicato l’istituzione di un tribunale speciale per i giornalisti sfrontati con i potenti. Nessuna di queste idee è stata presa sul serio» (Guido Quaranta).

• Nel ’98 raccolse l’appello dell’ex presidente Francesco Cossiga, si staccò dal Ccd e diede vita ai Cristiano democratici per la Repubblica, presto confluiti nell’Udr (di cui diventò segretario). L’Udr diede la fiducia al governo D’Alema. Dopo circa un anno trasformò il progetto iniziale in Udeur (Unione democratici per l’Europa) lavorando al progetto di un grande centro. Quindi strinse un accordo con l’Ulivo e si presentò col centrosinistra («un centro-sinistra scritto col trattino, anzi col trattone») alle regionali del 2000. • «Incarnazione del centro del centro del centrosinistra, che però, all’occorrenza, potrebbe trasformarsi nel centro del centro del centrodestra» (Antonio Padellaro). Contrario al referendum sulla legge elettorale (che avrebbe cancellato la sua Udeur, ferma all’1,5 per cento), minacciò più volte di uscire dal governo e di costringere il Paese al voto anticipato per evitarlo. Salvo poi tornare sui suoi passi dichiarando l’intenzione di rifondare un partito cattolico di centro insieme a Casini.

• Fu l’unico ministro a non votare il disegno di legge sui Dico varato dal governo. E in una puntata di Anno zero dedicata proprio ai Dico, provocato da una vignetta di Vauro, per protesta se ne andò dallo studio in diretta tv (il conduttore Michele Santoro lo attaccò, Vauro da allora in poi lo soprannominò “madre Mastella di Calcutta”). Nel maggio 2007 fu uno dei due ministri che parteciparono al Family Day (l’altro era Beppe Fioroni).

• Sull’esperienza nel Prodi II: «L’indulto: nasce dall’accordo tra i grandi partiti, e l’hanno gettato addosso a me. Il volo di Stato (per andare al Gp di Monza del settembre 2007, ci fu anche un’inchiesta per abuso d’ufficio poi archiviata, ndr): avevo chiesto il permesso alla presidenza del Consiglio! Che fastidio dava mio figlio su un aereo che tiene cento persone! Vallettopoli: una sera mi telefona un cronista del Secolo XIX e mi chiede se sono io il politico in barca con due donne e un trans. Passi per le donne, ma il trans! Che schifo! Incontro per caso al Bolognese Lele Mora, lo saluto, e la Guardia di finanza fa irruzione al ristorante per sapere se mi ha pagato il conto! Compro la casa a Roma che affitto da 33 anni, e mi massacrano. Vado al Columbus Day, e trovo contestatori anche lì. Una manovra di avvolgimento: Santoro, Travaglio, l’Espresso, Grillo... Sono stato il loro Mamurio Veturio, il personaggio che nell’antica Roma veniva vestito di pelli e cacciato a bastonate, per purificare l’intera comunità».

• Al momento dell’approvazione dell’indulto, nel luglio 2006, Mastella manifestò comunque commozione ed esultanza, ricordando il forte appello in questa direzione di Giovanni Paolo II a Camere riunite («ci benedice dal cielo», disse). L’indulto (provvedimento di clemenza che estingue o diminuisce la pena senza cancellare il reato) fu deciso soprattutto per alleggerire la situazione insostenibile delle carceri: oltre 60 mila detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 43 mila. Passò con il consenso dei due terzi del Parlamento (indispensabili per questo tipo di legge), vale a dire anche con i voti di Forza Italia e Udc, che pretesero peraltro che fossero inclusi nel perdono i reati finanziari. Nel governo Di Pietro votò contro, e fu la prima grande frattura con il Guardasigilli. Qualche mese più tardi anche il ministro dell’Interno Amato si disse pentito. Oltre 24 mila persone risultarono beneficate, i reati registrarono un aumento, molti tornarono in carcere. Un anno dopo i detenuti erano già 47 mila.

• Nell’ottobre 2007 il pm di Catanzaro Luigi De Magistris fece sapere di aver messo Mastella sotto inchiesta, insieme al premier Prodi, per abuso d’ufficio, finanziamento illecito ai partiti, concorso in truffa nell’ambito di finanziamenti europei e nazionali. La decisione del procuratore capo di Catanzaro di avocare a sé il fascicolo scatenò un duro scontro con Di Pietro, che accusò Mastella di interferenza nel lavoro del magistrato (già sotto inchiesta del Csm per volere del Guardasigilli).

• Il 16 gennaio 2008 il terremoto giudiziario che coinvolge gran parte della famiglia e l’Udeur campana. Mastella è indagato per concussione, falso e concorso esterno in associazione per delinquere. La moglie Alessandrina Lonardo (Ceppaloni 9 marzo 1953), presidente del consiglio regionale della Campania, viene messa agli arresti domiciliari (venendolo a sapere dalla tv) con l’accusa di tentata concussione nei confronti del direttore generale dell’Azienda ospedaliera Sant’Anna e Sebastiano di Caserta, Luigi Annunziata. Arresti domiciliari anche per il sindaco di Benevento Fausto Pepe e due assessori e due consiglieri regionali, tutti fedelissimi di Mastella. Fra i quattro finiti in carcere c’è poi il consuocero, Carlo Camilleri. L’inchiesta è della procura di Santa Maria Capua Vetere: «Dallo scenario disegnato nell’ordinanza del gip - che parla di “un vero e proprio sistema illecito che lascia francamente basiti per i metodi sfacciatamente irregolari con cui veniva esercitato” - l’Udeur in Campania appare più che un partito politico, una lobby dedita a occupare posti di potere» (Fulvio Bufi).

• La signora Mastella sulla vicenda giudiziaria che l’ha vista protagonista (intervistata da Maria Corbi): «Io non ho mai raccomandato nessuno. Vedo messo in discussione tutto il lavoro che ho fatto in questi anni per due medici che non ho mai raccomandato. Peraltro non mi pare che la raccomandazione sia un reato e in ogni caso chi è senza peccato scagli la prima pietra». E la storia di Annunziata che per lei, da intercettazione, sarebbe “un uomo morto”? «Significava che con quella persona non voglio personalmente averci più nulla a che fare».

• «“Nella buona e nella cattiva sorte”: non poteva che andare così, la love story di Clemente & Alessandrina, sancita quando lui diede a lei il primo bacio sulla spiaggia newyorkese di Oyster Bay, Long Island. Insieme al catechismo, insieme nella gioventù cattolica, insieme all’altare, insieme nella scalata al potere, insieme nei guai giudiziari. Roba da fotoromanzi d’altri tempi. Quelli in cui lui dice a lei: “Salvati! Sono perduto!” E lei: “Mai! Piuttosto morta!”» (Gian Antonio Stella).

• Gli arresti domiciliari per la moglie, che venne a saperlo dalla tv, furono forse la goccia che fece traboccare il vaso. «Per non dimettersi da Guardasigilli, con conseguente crisi di governo, il segretario dell’Udeur aveva chiesto la solidarietà del centrosinistra al completo. Il premier Romano Prodi e il ds Max D’Alema erano dispostissimi a prestarla. Non però Antonio Di Pietro, che lo detesta. Era il pomeriggio di martedì 22 gennaio 2008. L’indomani il governo andava incontro a un altro problema: il voto sul ministro Alfonso Pecoraron Scanio che il centrodestra voleva sfiduciare. Clemente minacciò: “Se non date la solidarietà a me, l’Udeur non darà la fiducia a lui”. Come dire, se anche non mi dimetto, il governo cade lo stesso. Era un buon motivo di pressione su Di Pietro che Prodi poteva fare valere. Ci si stava lavorando, quando dal Sannio, feudo mastelliano, arriva a Clemente la drammatica telefonata dei suoi: “Cleme’ statt’ accuorte, oltre ad arrestare tua moglie e Pellegrino, il tuo consuocero, i giudici stanno intercettando i cellulari dei tuoi figli e di tua nuora”. Bianco in volto e fremente, il guardasigilli è sbottato: “È un assedio. Vogliono la nostra ecatombe. Vaffan’ tutti quanti” e si è dimesso all’istante trascinando con sé l’intero gabinetto. La magistratura e i suoi metodi avevano fatto il colpo grosso. A questo punto, indette le elezioni, Clemente aveva ancora carte da giocare. Ma le ha buttate tutte, in un crescendo di cupio dissolvi. Per salvare sé e l’Udeur, ha iniziato il giro delle sette chiese. Incontra per primo il Cav che lo accoglie con benevolenza e gli promette l’elezione di un numero di parlamentari sufficiente a fare sopravvivere il suo partito. Ma, stretto il patto tra loro, l’altro big del Pdl, Gianfranco Fini, s’impanca e lo boccia. Un provvidenziale sondaggio fa sapere che l’ingresso di Mastella procurerebbe la perdita di 10 punti al centrodestra. “Mi spiace, non posso più” gli spiega il Cav. Clemente comincia a sentirsi in braghe di tela, ma ci riprova con gli ex dc sparsi ai quattro venti. “Siamo gente di parrocchia, ci capiremo” si dà coraggio. E va da Pier Ferdinando Casini nel momento peggiore. Costui era a sua volta umiliato e offeso per essere stato accolto con condiscendenza nella Rosa bianca, il neopartito dei suoi due transfughi, Bruno Tabacci e Mario Baccini. Nervosetto assai, Pierferdy gli risponde picche. Il povero Clemente entra allora nell’idea di sciogliere l’Udeur» (Giancarlo Perna).

• Nell’aprile 2008 il Gip di Catanzaro ha archiviato la posizione di Clemente Mastella, indagato per abuso d’ufficio dal pm Luigi de Magistris nell’ambito dell’inchiesta Why not sulle presunte frodi milionarie ai danni dell’Unione europea, perché mancavano i presupposti per l’iscrizione nel registro degli indagati: «Contento? Intanto mi hanno ammazzato politicamente. Chi mi ripagherà adesso?».

• Nel marzo 2011 è stato rinviato a giudizio, assieme alla moglie Sandra Lonardo, per truffa e appropriazione indebita (per l’acquisizione di due appartamenti a Roma di proprietà dell’Udeur e della testata giornalistica Il Campanile) e per abuso d’ufficio (per l’assegnazione di incarichi da parte dell’Arpac, l’agenzia regionale di protezione ambiente).

• Nell’aprile 2014 rinviato a giudizio dalla procura di Napoli per associazione a delinquere insieme alla moglie e a 17 ex dirigenti dell’Udeur. Secondo l’accusa, l’attività dei vertici dell’Udeur in Campania era finalizzata «alla commissione di una serie indeterminata di delitti contro la pubblica amministrazione, e soprattutto all’acquisizione del controllo delle attività pubbliche di concorso per il reclutamento di personale e gare pubbliche per appalti e acquisizioni di beni e servizi bandite da Enti territoriali campani, Aziende sanitarie e Agenzie regionali, attraverso la realizzazione di numerosi reati».

• Nel 2010 ha sciolto l’Udeur e dato vita al movimento Popolari per il Sud, che «intende colmare il vuoto politico nel sud a livello locale, confermando al contempo la strategica alleanza con il Pdl».

• Un debole per le citazioni colte che gli ha causato qualche gaffe, da ultimo nel gennaio del 2008 quando, durante il discorso in parlamento con cui rassegnava le sue dimissioni da ministro, attribuì al poeta cileno Pablo Neruda versi della scrittrice brasiliana Martha Medeiros («Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine» ecc.).

• I tre figli si chiamano Elio (nel 2008 protagonista di uno scontro con la Iena Alessandro Sortino su chi fosse più raccomandato), Pellegrino (protagonista il 29 luglio 2006 di uno storico matrimonio con 600 invitati, nello stesso periodo fu tirato in ballo nell’inchiesta sulla Gea, vicenda alla quale risultò peraltro del tutto estraneo, vedi Alessandro Moggi), Sasha (bielorussa adottata quando aveva 8 anni).

GIORGIO DELL’ARTI, scheda aggiornata al 21 giugno 2016

“Siamo tutti Mastella”: di Marco Travaglio. (di Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano) – Ieri, tra le varie telefonate di strani “colleghi” a caccia di un mio commento, anzi di un mio pentimento per l’assoluzione di Mastella, come se l’avessi indagato e rinviato a giudizio io, mi chiama uno dei miei avvocati. Mi racconta di un processo a mio carico per diffamazione a proposito di un mio trafiletto del lontano 2010 (una giornalista del Tg1 che aveva diffuso dati imprecisi sul numero delle intercettazioni), ancora in udienza preliminare. E mi chiede elementi per dimostrare la fondatezza di ciò che scrissi sette anni fa. Per fortuna ho un buon archivio e riesco a trovare i dati necessari a difendermi. In 34 anni di carriera ho subìto quasi 200 processi (e non so quante indagini: molte querele vengono archiviate all’insaputa del querelato) per diffamazione e, a parte una multa di mille euro (a Previti!), sono sempre stato assolto. Dunque dovrei strillare ogni giorno alla persecuzione giudiziaria, alla gogna mediatica, al giustizialismo a tutto l’armamentario del finto garantismo italiota – scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano nell’editoriale di oggi 14 settembre 2017, dal titolo “Siamo tutti Mastella”. Naturalmente me ne sto zitto, mi difendo nei processi, spendo un capitale in avvocati (che devo pagarmi anche quando le querele vengono archiviate, grazie ai nostri legislatori “garantisti”) e mi faccio una cultura in diritto e procedura penali. Per esempio, ho imparato a distinguere tra fatti e reati: i processi per diffamazione non devono accertare se ho davvero scritto una certa cosa (che è lì stampata, a disposizione di chiunque voglia valutarla), ma se quella cosa sia o meno diffamatoria. E a quel punto parte il terno al lotto, a seconda del giudice, nulla essendo più aleatorio e soggettivo di concetti come la “continenza”, il diritto di satira o di critica (se fai una battuta, devi sperare che il giudice la capisca). Un’altra cosa che ho imparato è che la legittimità di un’indagine non dipende dalla sentenza: altrimenti 199 delle 200 inchieste a mio carico sarebbero state infondate solo perché seguite da altrettante assoluzioni, e io dovrei domandarmi cosa ho fatto di male per stare sulle palle a decine di Procure. Le indagini nascono da una notizia di reato: una querela, una denuncia, un’inchiesta della polizia giudiziaria, un’iniziativa del pm, un articolo di giornale, un’inchiesta tv. Quando le aprono, i pm non sanno se il reato c’è né chi l’ha commesso: indagano apposta per scoprirlo. Se poi pensano di avere trovato il reato e il colpevole, chiedono il rinvio a giudizio al gup che, se ritiene che esistano elementi sufficienti per un processo, lo dispone. Accade ogni giorno a migliaia d’italiani e nel 2008 capitò anche a Clemente Mastella e alla moglie Sandra Lonardo. Lui era ministro della Giustizia del governo Prodi, lei presidente del Consiglio regionale della Campania. La Procura di Santa Maria Capua Vetere li indagò (la signora finì pure ai domiciliari) insieme allo stato maggiore dell’Udeur campana, in base a intercettazioni e testimonianze sulla presunta gestione clientelare di cariche pubbliche (Asi e Asl) e appalti (Arpac). Mastella, furibondo col premier e la maggioranza, a suo dire non abbastanza solidali, si dimise da Guardasigilli e poi ritirò l’Udeur dal centrosinistra, tornando al centrodestra e facendo cadere il governo. L’inchiesta passò per competenza alla Procura di Napoli, che la biforcò in due filoni: uno minore (Asi e Asl: concussione e abuso d’ufficio), approdato l’altroieri all’assoluzione di tutti gli imputati; l’altro più grave (Arpac: presunti falsi, concussioni, turbative d’asta, abusi e un’associazione a delinquere prima confermata e poi bocciata dalla Cassazione), ancora in dibattimento. Dunque è presto per dire che l’inchiesta del 2008 fosse basata sul nulla. Sia perché manca la sentenza principale, sia perché il dispositivo di quella appena emessa non esclude che i fatti esistessero. Mastella era accusato di aver concusso l’allora governatore Bassolino per costringerlo a nominare un amico all’Asi di Benevento: il pm ha riformulato la concussione in induzione indebita (perché nel 2012 la legge Severino ha modificato e in parte svuotato il primo reato), che poi il Tribunale ha derubricato in abuso d’ufficio, salvo poi concludere sorprendentemente che “il fatto non costituisce reato” (ma allora perché dire che era un abuso? Lo scopriremo dalle motivazioni). La signora Mastella era accusata di tentata concussione a Luigi Annunziata, il manager dell’ospedale di Caserta (“per me è un uomo morto”) che resisteva a presunte pressioni clientelari Udeur: anche quel fatto parrebbe accertato, anche se per i giudici “non è previsto dalla legge come reato” (per la Severino o per cosa? Lo sapremo dalle motivazioni). […]

Mastella: Travaglio condannato a risarcimento da 10mila euro, scrive il 19 maggio 2014 "Editoria TV". Il Tribunale di Benevento ha condannato il giornalista Marco Travaglio ed “Il Fatto Quotidiano” al risarcimento in favore di Clemente Mastella di 10mila euro e l’editore alla pubblicazione della sentenza su tre quotidiani nazionali. I fatti risalgono al 23 novembre 2010 allorquando Travaglio su “Il Fatto Quotidiano”, scrisse un articolo dal titolo: “Salvate il soldato Mastella”, articolo che l’allora segretario nazionale dell’Udeur, ritenne riportasse notizie non veritiere e per questo lo querelò. Alla richiesta di commentare l’esito della sentenza, Mastella ha risposto con un secco “no comment” salvo poi affidare, più tardi, ad un comunicato il suo pensiero: “Poco alla volta la verità si fa strada. Dopo l’assoluzione piena di alcuni giorni fa, oggi un altro giudice mi dà ragione, riconoscendo la diffamazione nei miei confronti. Una ragione in più per guardare avanti con serenità e determinazione”.

CULTURA E CIVILTA’ GIURIDICA. CESARE BECCARIA. DEI DELITTI E DELLE PENE.

“Dei delitti e delle pene” di Cesare Beccaria, scrive Vincenzo Vitale il 10 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Da oggi, tutti i giorni, pubblichiamo a puntate «Dei delitti e delle pene», il capolavoro di Cesare Beccaria che cambiò la storia del diritto occidentale. Da oggi, tutti i giorni, pubblichiamo a puntate «Dei delitti e delle pene», il capolavoro di Cesare Beccaria che cambiò la storia del diritto occidentale. Cesare Bonesana Beccaria, Marchese di Gualdrasco e di Villareggio, nasce al centro di Milano, in via Brera, il 15 marzo 1738. Suddito quindi dell’impero asburgico, studia dai gesuiti e si laurea a vent’anni a Pavia in Giurisprudenza e, pur di sposare Teresa Blasco, rompe con la famiglia. Il celebre pamphlet di cui Beccaria è autore – Dei delitti e delle pene – che si presenta qui, rappresenta probabilmente il frutto più maturo di quell’illuminismo giuridico e sociale lombardo che si era raccolto attorno alla Accademia dei Pugni e alla celebre rivista Il Caffè. Accademia e rivista che ebbero vita breve di qualche anno appena, ma che comunque riuscirono a segnare in modo incisivo uno snodo fondamentale della cultura giuridica e politica europea della metà del settecento, quello che non a caso è stato definito da molti e attenti studiosi il secolo riformatore. Il celebre libello va letto e inquadrato dunque all’interno di questa cornice culturale che trasse il suo primo alimento dall’illuminismo francese, anche se bisogna sempre rifuggire dagli schematismi eccessivi e pervasivi: per esempio, come è noto, l’illuminismo europeo non fu certo soltanto di matrice francese (basti pensare a Kant, il quale peraltro nella Metafisica dei Costumi criticò aspramente Beccaria), come, del resto, il romanticismo non fu soltanto tedesco (basti pensare a Rostand). Rimane il fatto comunque che Beccaria era affascinato da Rousseau, da d’Alembert, da d’Holbach, da Diderot, al punto da mostrare nei confronti di codesti esponenti della filosofia dei lumi una sorta di timore reverenziale che si trasformò poi – quando divenuto celebre si recò a Parigi con Alessandro e Pietro Verri, da loro medesimi invitato – in una strana nevrosi, ragion per cui repentinamente fece ritorno a Milano. E tanto immotivatamente, da suscitare lo sconcerto dei suoi illustri ospiti oltre che il malumore dei Verri, i quali evidentemente immaginavano per l’illustre amico ben altri trionfi nei salotti parigini che invece non ci furono mai. Eppure, di quei trionfi ci sarebbe stata ragione in quanto la riflessione di Beccaria, pubblicata all’inizio del 1764, inaugura una nuova pagina nel diritto penale europeo: quella del contrattualismo di matrice utilitaristica che fa da argine al potere assoluto del monarca. In qualche modo rivoluzionario e pericoloso per il potere asburgico dunque il libro di Beccaria, tanto che la censura se ne accorse e ne arginò in parte gli effetti (sottovalutandoli), vietandone la pubblica vendita tranne che “per la gente dotata di giudizio”: una sorta di censura di seconda categoria, quasi inutile in punto di fatto. Si è detto contrattualismo: ed infatti la visione di Beccaria si inserisce nel solco di quelle correnti culturali (si pensi a Rousseau o a Bentham) che vedono nello Stato il risultato di un contratto sociale, stipulato fra i sudditi che cedono al Sovrano pezzi della loro libertà in cambio della sicurezza interna ed esterna. In quanto tale, il contrattualismo si oppone all’organicismo, visione tradizionale della filosofia politica, in virtù della quale lo Stato possiede una sua autonoma fisionomia che va come tale conosciuta e riconosciuta: esso è appunto organico. E si è detto anche utilitarismo, per significare che i patti che da quel contratto scaturiscono sono razionali, in quanto utili sia ai singoli, sia alla collettività ed al monarca stesso, ben più di quanto possa esserlo il potere dispoticamente esercitato dal Sovrano assoluto. Insomma, la Sovranità, per essere utile, deve essere razionale e per essere razionale deve nascere da un patto fra sudditi e Sovrano, un patto chiaro e da tutti comprensibile e soprattutto da tutti accettabile. Da qui, ovviamente, la necessaria moderazione delle pene e la contrarietà alla pena di morte, in quanto le pene estreme sono non utili perché irrazionali. Idee, come si vede, per noi ben note, anche se oggi da riscoprire perché poco praticate; e questo rende addirittura necessaria la pubblicazione di Beccaria alla quale ci si accinge. Idee nuovissime a quel tempo, tanto che Caterina II di Russia gli offrì la presidenza di una commissione per la riforma del codice penale largamente ispirata al suo pensiero, che però egli – come sempre incerto e restio ad assumere ruoli di primo piano – finì col rifiutare. Beccaria finì i suoi giorni in modo quasi oscuro, nominato burocrate presso il Supremo Consiglio di Economia. Le sue pagine invece gli sopravvissero e intrisero molte delle riforme europee del codice penale e di procedura penale, benchè pesantemente osteggiate da alcuni ecclesiastici: Padre Ferdinando Facchinei si scagliò contro violentemente, ma Padre Frisi le apprezzava e diffondeva. Oggi tuttavia vanno ricordate a coloro che sembrano averle dimenticate. E non sono pochi.

DEI DELITTI E DELLE PENE. A CHI LEGGE. Alcuni avanzi di leggi di un antico popolo conquistatore fatte compilare da un principe che dodici secoli fa regnava in Costantinopoli, frammischiate poscia co’ riti longobardi, ed involte in farraginosi volumi di privati ed oscuri interpreti, formano quella tradizione di opinioni che da una gran parte dell’Europa ha tuttavia il nome di leggi; ed è cosa funesta quanto comune al dì d’oggi che una opinione di Carpzovio, un uso antico accennato da Claro, un tormento con iraconda compiacenza suggerito da Farinaccio sieno le leggi a cui con sicurezza obbediscono coloro che tremando dovrebbono reggere le vite e le fortune degli uomini. Queste leggi, che sono uno scolo de’ secoli i piú barbari, sono esaminate in questo libro per quella parte che risguarda il sistema criminale, e i disordini di quelle si osa esporli a’ direttori della pubblica felicità con uno stile che allontana il volgo non illuminato ed impaziente. Quella ingenua indagazione della verità, quella indipendenza delle opinioni volgari con cui è scritta quest’opera è un effetto del dolce e illuminato governo sotto cui vive l’autore. I grandi monarchi, i benefattori della umanità che ci reggono, amano le verità esposte dall’oscuro filosofo con un non fanatico vigore, detestato solamente da chi si avventa alla forza o alla industria, respinto dalla ragione; e i disordini presenti da chi ben n’esamina tutte le circostanze sono la satira e il rimprovero delle passate età, non già di questo secolo e de’ suoi legislatori. Chiunque volesse onorarmi delle sue critiche cominci dunque dal ben comprendere lo scopo a cui è diretta quest’opera, scopo che ben lontano di diminuire la legittima autorità, servirebbe ad accrescerla se piú che la forza può negli uomini la opinione, e se la dolcezza e l’umanità la giustificano agli occhi di tutti. Le mal intese critiche pubblicate contro questo libro si fondano su confuse nozioni, e mi obbligano d’interrompere per un momento i miei ragionamenti agl’illuminati lettori, per chiudere una volta per sempre ogni adito agli errori di un timido zelo o alle calunnie della maligna invidia. Tre sono le sorgenti delle quali derivano i principii morali e politici regolatori degli uomini. La rivelazione, la legge naturale, le convenzioni fattizie della società. Non vi è paragone tra la prima e le altre per rapporto al principale di lei fine; ma si assomigliano in questo, che conducono tutte tre alla felicità di questa vita mortale. Il considerare i rapporti dell’ultima non è l’escludere i rapporti delle due prime; anzi siccome quelle, benché divine ed immutabili, furono per colpa degli uomini dalle false religioni e dalle arbitrarie nozioni di vizio e di virtú in mille modi nelle depravate menti loro alterate, cosí sembra necessario di esaminare separatamente da ogni altra considerazione ciò che nasca dalle pure convenzioni umane, o espresse, o supposte per la necessità ed utilità comune, idea in cui ogni setta ed ogni sistema di morale deve necessariamente convenire; e sarà sempre lodevole intrappresa quella che sforza anche i piú pervicaci ed increduli a conformarsi ai principii che spingon gli uomini a vivere in società. Sonovi dunque tre distinte classi di virtú e di vizio, religiosa, naturale e politica. Queste tre classi non devono mai essere in contradizione fra di loro, ma non tutte le conseguenze e i doveri che risultano dall’una risultano dalle altre. Non tutto ciò che esige la rivelazione lo esige la legge naturale, né tutto ciò che esige questa lo esige la pura legge sociale: ma egli è importantissimo di separare ciò che risulta da questa convenzione, cioè dagli espressi o taciti patti degli uomini, perché tale è il limite di quella forza che può legittimamente esercitarsi tra uomo e uomo senza una speciale missione dell’Essere supremo. Dunque l’idea della virtú politica può senza taccia chiamarsi variabile; quella della virtú naturale sarebbe sempre limpida e manifesta se l’imbecillità o le passioni degli uomini non la oscurassero; quella della virtú religiosa è sempre una costante, perché rivelata immediatamente da Dio e da lui conservata. Sarebbe dunque un errore l’attribuire a chi parla di convenzioni sociali e delle conseguenze di esse principii contrari o alla legge naturale o alla rivelazione; perché non parla di queste. Sarebbe un errore a chi, parlando di stato di guerra prima dello stato di società, lo prendesse nel senso hobbesiano, cioè di nessun dovere e di nessuna obbligazione anteriore, in vece di prenderlo per un fatto nato dalla corruzione della natura umana e dalla mancanza di una sanzione espressa. Sarebbe un errore l’imputare a delitto ad uno scrittore, che considera le emanazioni del patto sociale, di non ammetterle prima del patto istesso. La giustizia divina e la giustizia naturale sono per essenza loro immutabili e costanti, perché la relazione fra due medesimi oggetti è sempre la medesima; ma la giustizia umana, o sia politica, non essendo che una relazione fra l’azione e lo stato vario della società, può variare a misura che diventa necessaria o utile alla società quell’azione, né ben si discerne se non da chi analizzi i complicati e mutabilissimi rapporti delle civili combinazioni. Sí tosto che questi principii essenzialmente distinti vengano confusi, non v’è piú speranza di ragionar bene nelle materie pubbliche. Spetta a’ teologi lo stabilire i confini del giusto e dell’ingiusto, per ciò che riguarda l’intrinseca malizia o bontà dell’atto; lo stabilire i rapporti del giusto e dell’ingiusto politico, cioè dell’utile o del danno della società, spetta al pubblicista; né un oggetto può mai pregiudicare all’altro, poiché ognun vede quanto la virtú puramente politica debba cedere alla immutabile virtú emanata da Dio. Chiunque, lo ripeto, volesse onorarmi delle sue critiche, non cominci dunque dal supporre in me principii distruttori o della virtú o della religione, mentre ho dimostrato tali non essere i miei principii, e in vece di farmi incredulo o sedizioso procuri di ritrovarmi cattivo logico o inavveduto politico; non tremi ad ogni proposizione che sostenga gl’interessi dell’umanità; mi convinca o della inutilità o del danno politico che nascer ne potrebbe dai miei principii, mi faccia vedere il vantaggio delle pratiche ricevute. Ho dato un pubblico testimonio della mia religione e della sommissione al mio sovrano colla risposta alle Note ed osservazioni; il rispondere ad ulteriori scritti simili a quelle sarebbe superfluo; ma chiunque scriverà con quella decenza che si conviene a uomini onesti e con quei lumi che mi dispensino dal provare i primi principii, di qualunque carattere essi siano, troverà in me non tanto un uomo che cerca di rispondere quanto un pacifico amatore della verità.

INTRODUZIONE. Gli uomini lasciano per lo piú in abbandono i piú importanti regolamenti alla giornaliera prudenza o alla discrezione di quelli, l’interesse de’ quali è di opporsi alle piú provide leggi che per natura rendono universali i vantaggi e resistono a quello sforzo per cui tendono a condensarsi in pochi, riponendo da una parte il colmo della potenza e della felicità e dall’altra tutta la debolezza e la miseria. Perciò se non dopo esser passati framezzo mille errori nelle cose piú essenziali alla vita ed alla libertà, dopo una stanchezza di soffrire i mali, giunti all’estremo, non s’inducono a rimediare ai disordini che gli opprimono, e a riconoscere le piú palpabili verità, le quali appunto sfuggono per la semplicità loro alle menti volgari, non avvezze ad analizzare gli oggetti, ma a riceverne le impressioni tutte di un pezzo, piú per tradizione che per esame. Apriamo le istorie e vedremo che le leggi, che pur sono o dovrebbon esser patti di uomini liberi, non sono state per lo piú che lo stromento delle passioni di alcuni pochi, o nate da una fortuita e passeggiera necessità; non già dettate da un freddo esaminatore della natura umana, che in un sol punto concentrasse le azioni di una moltitudine di uomini, e le considerasse in questo punto di vista: la massima felicità divisa nel maggior numero. Felici sono quelle pochissime nazioni, che non aspettarono che il lento moto delle combinazioni e vicissitudini umane facesse succedere all’estremità de’ mali un avviamento al bene, ma ne accelerarono i passaggi intermedi con buone leggi; e merita la gratitudine degli uomini quel filosofo ch’ebbe il coraggio dall’oscuro e disprezzato suo gabinetto di gettare nella moltitudine i primi semi lungamente infruttuosi delle utili verità. Si sono conosciute le vere relazioni fra il sovrano e i sudditi, e fralle diverse nazioni; il commercio si è animato all’aspetto delle verità filosofiche rese comuni colla stampa, e si è accesa fralle nazioni una tacita guerra d’industria la piú umana e la piú degna di uomini ragionevoli. Questi sono frutti che si debbono alla luce di questo secolo, ma pochissimi hanno esaminata e combattuta la crudeltà delle pene e l’irregolarità delle procedure criminali, parte di legislazione cosí principale e cosí trascurata in quasi tutta l’Europa, pochissimi, rimontando ai principii generali, annientarono gli errori accumulati di piú secoli, frenando almeno, con quella sola forza che hanno le verità conosciute, il troppo libero corso della mal diretta potenza, che ha dato fin ora un lungo ed autorizzato esempio di fredda atrocità. E pure i gemiti dei deboli, sacrificati alla crudele ignoranza ed alla ricca indolenza, i barbari tormenti con prodiga e inutile severità moltiplicati per delitti o non provati o chimerici, la squallidezza e gli orrori d’una prigione, aumentati dal piú crudele carnefice dei miseri, l’incertezza, doveano scuotere quella sorta di magistrati che guidano le opinioni delle menti umane. L’immortale Presidente di Montesquieu ha rapidamente scorso su di questa materia. L’indivisibile verità mi ha forzato a seguire le tracce luminose di questo grand’uomo, ma gli uomini pensatori, pe’ quali scrivo, sapranno distinguere i miei passi dai suoi. Me fortunato, se potrò ottenere, com’esso, i segreti ringraziamenti degli oscuri e pacifici seguaci della ragione, e se potrò inspirare quel dolce fremito con cui le anime sensibili rispondono a chi sostiene gl’interessi della umanità!

Distinguere tra reato e peccato, scrive Vincenzo Vitale l'11 Agosto 2017, su "Il Dubbio". Probabilmente, il merito più significativo di Beccaria è quello di aver distinto in modo netto e inequivocabile fra peccato e reato, cosa che oggi sembra semplice affermare, mentre non lo era affatto due secoli e mezzo fa. L’ordine del mondo, per Beccaria, è retto da sistemi diversi – quello religioso e quello civile – che non debbono assolutamente intersecarsi l’un l’altro: il potere politico deve interessarsi soltanto dei reati, mai, per dir così, dell’anima del reo, territorio riservato alla religione. Ne viene che, quando si commettono reati, per Beccaria occorrono quelli che egli definisce in modo alquanto sibillino “motivi sensibili”, capaci di distogliere dalla commissione di illeciti penali, e che altro non sono se non “le pene stabilite contro gli infrattori delle leggi”. Beccaria spiega subito che si tratta di motivi “sensibili”, in quanto “percuotono i sensi”, vale a dire che sono percepibili in modo diretto sulla pelle di coloro che ne siano i destinatari. Seguendo Montesquieu, la pena è legittima soltanto se assolutamente necessaria: altrimenti è tirannica. Beccaria parla ovviamente di diritto di punire da parte del Sovrano, evitando di fare un passo in più, come poi avrebbe fatto Kant, il quale teorizza invece un autentico “dovere di punire” da parte dello Stato: eppure il suo discorso avrebbe condotto di filato proprio a questo esito, vale a dire a riconoscere come il potere sovrano stesso sia al servizio delle leggi, invece che esserne padrone: e se ne è al servizio, il Sovrano non tanto ha il diritto di punire, quanto il dovere. Ma Beccaria non giunge a tanto, preferendo invece sottolineare come le pene siano dovute per giustizia e come questa debba intendersi in senso formale e giuridico, quale il vincolo capace di tenere insieme tutti gli interessi particolari e mai in senso fattuale – quale semplice forza fisica – o in senso teologico – ove pene e ricompense sono dispensate da Dio. Ovviamente, l’irrogazione delle pene ha delle conseguenze importanti. La prima è quello che oggi chiamiamo il principio di legalità: le pene possono essere stabilite soltanto dalla legge, mai da altri, neppure dalla volontà del Sovrano. E’ certo difficile comprenderlo in pieno, ma affermare due secoli e mezzo fa che il Sovrano non gode del potere di stabilire le pene, doveva sembrare un atto quasi rivoluzionario. La seconda conseguenza sta nel principio di giurisdizione e di separazione dei poteri: dal momento che il Sovrano è parte stipulante del contratto sociale, non può egli medesimo giudicare gli imputati dei reati – essendo ogni cittadino, anche imputato, l’altra parte stipulante dello stesso contratto – ma occorre un soggetto terzo ed imparziale: il magistrato. La terza conseguenza è che le pene, per non tralignare in pure e semplici sopraffazioni, non debbono mai essere atroci, termine che Beccaria usa per significare una loro speciale carica afflittiva. Ma il capitolo certo più interessante è quello in cui Beccaria affronta il problema della interpretazione della legge e della sua possibile oscurità. E qui Beccaria si mostra fino in fondo figlio dell’illuminismo giuridico che egli ha tanto contribuito a diffondere e dei suoi ineliminabili limiti. Infatti, egli propone, allo scopo di esorcizzare lo spettro della pluralità delle interpretazioni possibili della legge, che apre la porta ad ogni anarchia interpretativa, il tradizionale schema sillogistico: la premessa maggiore sta nella legge; la minore nel fatto commesso; la conclusione nella condanna o nella assoluzione. Beccaria riprende qui la ben nota teoria di Montesquieu del giudice che si limita ad essere “bouche de la lois”, vale a dire semplice cinghia di trasmissione, del tutto neutra, di una volontà che è e rimane soltanto del Sovrano. E ciò – lo si ribadisce – per esorcizzare il pericolo delle molteplici interpretazioni a volte confliggenti. Ma si tratta di una costruzione irreale e perniciosa, anche se ovviamente Beccaria, immerso nella cultura giuridica del suo tempo, non poteva immaginarlo. Irreale, in quanto ogni magistrato, interpretando le formule della legge, non può certo diventare un meccanismo automatizzato, ma reca con se un tesoro di conoscenze, di esperienze, di premesse che inevitabilmente influiscono sul suo operato. Perniciosa, in quanto ignorare la realtà equivale a divenirne schiavi. Come ha invece mostrato a sufficienza tutta la lezione ermeneutica che a partire da Gadamer – ma anche oltre Gadamer: si pensi a Pareyson, a Betti, a Mathieu – si è occupata del tema, ogni interprete muove da una pre- comprensione del testo da comprendere; e il bello è che non può evitarlo, dovendo soltanto esserne consapevole.

Il problema allora non è fare del giudice ciò che egli mai potrà essere – una sorta di macchina automatica che, sfornando sentenze, si illuda e illuda di trasmettere fedelmente la volontà del legislatore – ma far si che la necessaria pre-comprensione da cui egli muove sia trasparente, conoscibile e non frutto di follia argomentativa o conoscitiva. Certo, non facile, ma unica strada realisticamente percorribile Quanto poi alla oscurità dei testi di legge e alla loro scarsa comprensibilità, meno male che Beccaria non può leggere le odierne leggi italiane, zeppe di errori di grammatica, di contorsionismi argomentativi, di litoti, di punteggiature approssimative: ne morrebbe di nuovo.

CAPITOLO PRIMO ORIGINE DELLE PENE. Le leggi sono le condizioni, colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla. Essi ne sacrificarono una parte per goderne il restante con sicurezza e tranquillità. La somma di tutte queste porzioni di libertà sacrificate al bene di ciascheduno forma la sovranità di una nazione, ed il sovrano è il legittimo depositario ed amministratore di quelle; ma non bastava il formare questo deposito, bisognava difenderlo dalle private usurpazioni di ciascun uomo in particolare, il quale cerca sempre di togliere dal deposito non solo la propria porzione, ma usurparsi ancora quella degli altri. Vi volevano de’ motivi sensibili che bastassero a distogliere il dispotico animo di ciascun uomo dal risommergere nell’antico caos le leggi della società. Questi motivi sensibili sono le pene stabilite contro agl’infrattori delle leggi. Dico sensibili motivi, perché la sperienza ha fatto vedere che la moltitudine non adotta stabili principii di condotta, né si allontana da quel principio universale di dissoluzione, che nell’universo fisico e morale si osserva, se non con motivi che immediatamente percuotono i sensi e che di continuo si affacciano alla mente per contrabilanciare le forti impressioni delle passioni parziali che si oppongono al bene universale: né l’eloquenza, né le declamazioni, nemmeno le piú sublimi verità sono bastate a frenare per lungo tempo le passioni eccitate dalle vive percosse degli oggetti presenti.

CAPITOLO SECONDO DIRITTO DI PUNIRE. Ogni pena che non derivi dall’assoluta necessità, dice il grande Montesquieu, è tirannica; proposizione che si può rendere piú generale cosí: ogni atto di autorità di uomo a uomo che non derivi dall’assoluta necessità è tirannico. Ecco dunque sopra di che è fondato il diritto del sovrano di punire i delitti: sulla necessità di difendere il deposito della salute pubblica dalle usurpazioni particolari; e tanto piú giuste sono le pene, quanto piú sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi. Consultiamo il cuore umano e in esso troveremo i principii fondamentali del vero diritto del sovrano di punire i delitti, poiché non è da sperarsi alcun vantaggio durevole dalla politica morale se ella non sia fondata su i sentimenti indelebili dell’uomo. Qualunque legge devii da questi incontrerà sempre una resistenza contraria che vince alla fine, in quella maniera che una forza benché minima, se sia continuamente applicata, vince qualunque violento moto comunicato ad un corpo. Nessun uomo ha fatto il dono gratuito di parte della propria libertà in vista del ben pubblico; questa chimera non esiste che ne’ romanzi; se fosse possibile, ciascuno di noi vorrebbe che i patti che legano gli altri, non ci legassero; ogni uomo si fa centro di tutte le combinazioni del globo. La moltiplicazione del genere umano, piccola per se stessa, ma di troppo superiore ai mezzi che la sterile ed abbandonata natura offriva per soddisfare ai bisogni che sempre piú s’incrocicchiavano tra di loro, riuní i primi selvaggi. Le prime unioni formarono necessariamente le altre per resistere alle prime, e cosí lo stato di guerra trasportossi dall’individuo alle nazioni. Fu dunque la necessità che costrinse gli uomini a cedere parte della propria libertà: egli è adunque certo che ciascuno non ne vuol mettere nel pubblico deposito che la minima porzion possibile, quella sola che basti a indurre gli altri a difenderlo. L’aggregato di queste minime porzioni possibili forma il diritto di punire; tutto il di piú è abuso e non giustizia, è fatto, ma non già diritto. Osservate che la parola diritto non è contradittoria alla parola forza, ma la prima è piuttosto una modificazione della seconda, cioè la modificazione piú utile al maggior numero. E per giustizia io non intendo altro che il vincolo necessario per tenere uniti gl’interessi particolari, che senz’esso si scioglierebbono nell’antico stato d’insociabilità; tutte le pene che oltrepassano la necessità di conservare questo vincolo sono ingiuste di lor natura. Bisogna guardarsi di non attaccare a questa parola giustizia l’idea di qualche cosa di reale, come di una forza fisica, o di un essere esistente; ella è una semplice maniera di concepire degli uomini, maniera che influisce infinitamente sulla felicità di ciascuno; nemmeno intendo quell’altra sorta di giustizia che è emanata da Dio e che ha i suoi immediati rapporti colle pene e ricompense della vita avvenire.

CAPITOLO TERZO CONSEGUENZE. La prima conseguenza di questi principii è che le sole leggi possono decretar le pene su i delitti, e quest’autorità non può risedere che presso il legislatore, che rappresenta tutta la società unita per un contratto sociale; nessun magistrato ( che è parte di società) può con giustizia infligger pene contro ad un altro membro della società medesima. Ma una pena accresciuta al di là dal limite fissato dalle leggi è la pena giusta piú un’altra pena; dunque non può un magistrato, sotto qualunque pretesto di zelo o di ben pubblico, accrescere la pena stabilita ad un delinquente cittadino. La seconda conseguenza è che se ogni membro particolare è legato alla società, questa è parimente legata con ogni membro particolare per un contratto che di sua natura obbliga le due parti. Questa obbligazione, che discende dal trono fino alla capanna, che lega egualmente e il piú grande e il piú miserabile fra gli uomini, non altro significa se non che è interesse di tutti che i patti utili al maggior numero siano osservati. La violazione anche di un solo, comincia ad autorizzare l’anarchia. Il sovrano, che rappresenta la società medesima, non può formare che leggi generali che obblighino tutti i membri, ma non già giudicare che uno abbia violato il contratto sociale, poiché allora la nazione si dividerebbe in due parti, una rappresentata dal sovrano, che asserisce la violazione del contratto, e l’altra dall’accusato, che la nega. Egli è dunque necessario che un terzo giudichi della verità del fatto. Ecco la necessità di un magistrato, le di cui sentenze sieno inappellabili e consistano in mere assersioni o negative di fatti particolari. La terza conseguenza è che quando si provasse che l’atrocità delle pene, se non immediatamente opposta al ben pubblico ed al fine medesimo d’impedire i delitti, fosse solamente inutile, anche in questo caso essa sarebbe non solo contraria a quelle virtú benefiche che sono l’effetto d’una ragione illuminata che preferisce il comandare ad uomini felici piú che a una greggia di schiavi, nella quale si faccia una perpetua circolazione di timida crudeltà, ma lo sarebbe alla giustizia ed alla natura del contratto sociale medesimo.

CAPITOLO QUARTO INTERPETRAZIONE DELLE LEGGI. Quarta conseguenza. Nemmeno l’autorità d’interpetrare le leggi penali può risedere presso i giudici criminali per la stessa ragione che non sono legislatori. I giudici non hanno ricevuto le leggi dagli antichi nostri padri come una tradizione domestica ed un testamento che non lasciasse ai posteri che la cura d’ubbidire, ma le ricevono dalla vivente società, o dal sovrano rappresentatore di essa, come legittimo depositario dell’attuale risultato della volontà di tutti; le ricevono non come obbligazioni d’un antico giuramento, nullo, perché legava volontà non esistenti, iniquo, perché riduceva gli uomini dallo stato di società allo stato di mandra, ma come effetti di un tacito o espresso giuramento, che le volontà riunite dei viventi sudditi hanno fatto al sovrano, come vincoli necessari per frenare e reggere l’intestino fermento degl’interessi particolari. Quest’è la fisica e reale autorità delle leggi. Chi sarà dunque il legittimo interpetre della legge? Il sovrano, cioè il depositario delle attuali volontà di tutti, o il giudice, il di cui ufficio è solo l’esaminare se il tal uomo abbia fatto o no un’azione contraria alle leggi? In ogni delitto si deve fare dal giudice un sillogismo perfetto: la maggiore dev’essere la legge generale, la minore l’azione conforme o no alla legge, la conseguenza la libertà o la pena. Quando il giudice sia costretto, o voglia fare anche soli due sillogismi, si apre la porta all’incertezza. Non v’è cosa piú pericolosa di quell’assioma comune che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni. Questa verità, che sembra un paradosso alle menti volgari, piú percosse da un piccol disordine presente che dalle funeste ma rimote conseguenze che nascono da un falso principio radicato in una nazione, mi sembra dimostrata. Le nostre cognizioni e tutte le nostre idee hanno una reciproca connessione; quanto piú sono complicate, tanto piú numerose sono le strade che ad esse arrivano e partono. Ciascun uomo ha il suo punto di vista, ciascun uomo in differenti tempi ne ha un diverso. Lo spirito della legge sarebbe dunque il risultato di una buona o cattiva logica di un giudice, di una facile o malsana digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue passioni, dalla debolezza di chi soffre, dalle relazioni del giudice coll’offeso e da tutte quelle minime forze che cangiano le apparenze di ogni oggetto nell’animo fluttuante dell’uomo. Quindi veggiamo la sorte di un cittadino cambiarsi spesse volte nel passaggio che fa a diversi tribunali, e le vite de’ miserabili essere la vittima dei falsi raziocini o dell’attuale fermento degli umori d’un giudice, che prende per legittima interpetrazione il vago risultato di tutta quella confusa serie di nozioni che gli muove la mente. Quindi veggiamo gli stessi delitti dallo stesso tribunale puniti diversamente in diversi tempi, per aver consultato non la costante e fissa voce della legge, ma l’errante instabilità delle interpetrazioni. Un disordine che nasce dalla rigorosa osservanza della lettera di una legge penale non è da mettersi in confronto coi disordini che nascono dalla interpetrazione. Un tal momentaneo inconveniente spinge a fare la facile e necessaria correzione alle parole della legge, che sono la cagione dell’incertezza, ma impedisce la fatale licenza di ragionare, da cui nascono le arbitrarie e venali controversie. Quando un codice fisso di leggi, che si debbono osservare alla lettera, non lascia al giudice altra incombenza che di esaminare le azioni de’ cittadini, e giudicarle conformi o difformi alla legge scritta, quando la norma del giusto e dell’ingiusto, che deve dirigere le azioni sí del cittadino ignorante come del cittadino filosofo, non è un affare di controversia, ma di fatto, allora i sudditi non sono soggetti alle piccole tirannie di molti, tanto piú crudeli quanto è minore la distanza fra chi soffre e chi fa soffrire, piú fatali che quelle di un solo, perché il dispotismo di molti non è correggibile che dal dispotismo di un solo e la crudeltà di un dispotico è proporzionata non alla forza, ma agli ostacoli. Cosí acquistano i cittadini quella sicurezza di loro stessi che è giusta perché è lo scopo per cui gli uomini stanno in società, che è utile perché gli mette nel caso di esattamente calcolare gl’inconvenienti di un misfatto. Egli è vero altresí che acquisteranno uno spirito d’indipendenza, ma non già scuotitore delle leggi e ricalcitrante a’ supremi magistrati, bensí a quelli che hanno osato chiamare col sacro nome di virtú la debolezza di cedere alle loro interessate o capricciose opinioni. Questi principii spiaceranno a coloro che si sono fatto un diritto di trasmettere agl’inferiori i colpi della tirannia che hanno ricevuto dai superiori. Dovrei tutto temere, se lo spirito di tirannia fosse componibile collo spirito di lettura.

CAPITOLO QUINTO OSCURITÀ DELLE LEGGI. Se l’interpetrazione delle leggi è un male, egli è evidente esserne un altro l’oscurità che strascina seco necessariamente l’interpetrazione, e lo sarà grandissimo se le leggi sieno scritte in una lingua straniera al popolo, che lo ponga nella dipendenza di alcuni pochi, non potendo giudicar da se stesso qual sarebbe l’esito della sua libertà, o dei suoi membri, in una lingua che formi di un libro solenne e pubblico un quasi privato e domestico. Che dovremo pensare degli uomini, riflettendo esser questo l’inveterato costume di buona parte della colta ed illuminata Europa! Quanto maggiore sarà il numero di quelli che intenderanno e avranno fralle mani il sacro codice delle leggi, tanto men frequenti saranno i delitti, perché non v’ha dubbio che l’ignoranza e l’incertezza delle pene aiutino l’eloquenza delle passioni. Una conseguenza di quest’ultime riflessioni è che senza la scrittura una società non prenderà mai una forma fissa di governo, in cui la forza sia un effetto del tutto e non delle parti e in cui le leggi, inalterabili se non dalla volontà generale, non si corrompano passando per la folla degl’interessi privati. L’esperienza e la ragione ci hanno fatto vedere che la probabilità e la certezza delle tradizioni umane si sminuiscono a misura che si allontanano dalla sorgente. Che se non esiste uno stabile monumento del patto sociale, come resisteranno le leggi alla forza inevitabile del tempo e delle passioni? Da ciò veggiamo quanto sia utile la stampa, che rende il pubblico, e non alcuni pochi, depositario delle sante leggi, e quanto abbia dissipato quello spirito tenebroso di cabala e d’intrigo che sparisce in faccia ai lumi ed alle scienze apparentemente disprezzate e realmente temute dai seguaci di lui. Questa è la cagione, per cui veggiamo sminuita in Europa l’atrocità de’ delitti che facevano gemere gli antichi nostri padri, i quali diventavano a vicenda tiranni e schiavi. Chi conosce la storia di due o tre secoli fa, e la nostra, potrà vedere come dal seno del lusso e della mollezza nacquero le piú dolci virtú, l’umanità, la beneficenza, la tolleranza degli errori umani. Vedrà quali furono gli effetti di quella che chiamasi a torto antica semplicità e buona fede: l’umanità gemente sotto l’implacabile superstizione, l’avarizia, l’ambizione di pochi tinger di sangue umano gli scrigni dell’oro e i troni dei re, gli occulti tradimenti, le pubbliche stragi, ogni nobile tiranno della plebe, i ministri della verità evangelica lordando di sangue le mani che ogni giorno toccavano il Dio di mansuetudine, non sono l’opera di questo secolo illuminato, che alcuni chiamano corrotto.

Le pene sproporzionate danneggiano la società, scrive Vincenzo Vitale il 12 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Naturalmente, un principio fondamentale della razionalità giuridica, non rinunciabile, risiede nella proporzione fra la gravità del delitto commesso e la pena prevista per lo stesso. Si badi. Compatibilmente alla impostazione utilitaristica tipica di Beccaria, tale proporzione non risponde ad alcuna esigenza di carattere metafisico, nel senso della sostanza essenziale delle cose, ponendosi invece nell’ottica del tutto illuministica della necessità di opporre al peso gravitazionale del delitto, un contrappeso di segno eguale e contrario, ma in ogni caso non eccessivo rispetto al primo. Beccaria, non estraneo ad una cultura matematizzante tipica del settecento, ama infatti ricorrere ad un lessico di tipo fisicogeometrico per far meglio intendere e spiegare i propri assunti teorici: ecco dunque l’uso del paragone con la gravitazione dei corpi. Si capisce bene la prospettiva da cui muove Beccaria, considerando la chiusa del capitoletto in questione, laddove egli nota che se la medesima pena fosse comminata per delitti che siano di gravità diseguale, “gli uomini non troveranno un più forte ostacolo per commetter il maggior delitto, se con esso vi troveranno unito un maggior vantaggio”. Insomma, la eventuale sproporzione delle pene non tanto si profila come intrinsecamente ingiusta – cosa che a Beccaria importava poco – quanto si palesa come inutile, anzi perfino disutile, contraria alla compagine sociale e al suo mantenimento. Come fare allora a rendere davvero le pene proporzionate al delitto commesso? Beccaria scarta decisamente i criteri allora più diffusi fra i criminalisti. Non la semplice dignità della persona offesa può costituire misura della pena: se così fosse, si giungerebbe all’assurdo di punire con più severità, per esempio, la blasfemia, in quanto offensiva della divinità, che non l’omicidio, offensivo della vita umana. Non la gravità del peccato commesso, che è intrinseco per molti aspetti al delitto contestato: se così fosse, infatti, si appiattirebbe ogni delitto sul dato strettamente teologico che invece deve rimanere completamente escluso dalla politica penale e criminale, rispondendo ad una logica autonoma e indipendente. E neppure può esserlo l’intenzione del reo: se così fosse infatti, per un verso, sarebbe necessario disporre una legge apposita per ogni uomo, vale a dire una previsione specifica per ogni intenzione, cosa evidentemente impossibile; per altro verso, non va ignorato – si noti qui l’attento realismo del giurista milanese – che uomini con la più prava delle intenzioni finirono col giovare molto alla società, mentre uomini dotati della migliore intenzione la danneggiarono moltissimo. Unico criterio di commisurazione delle pene per Beccaria non può essere allora che il danno “fatto alla nazione”. Per nazione Beccaria intende naturalmente la compagine sociale. Va notato come Beccaria qui sia stato in grado di indicare – e forse questo è un altro dei suoi più significativi meriti – il criterio del danno prodotto quale unico criterio accettabile per mantenere la proporzione fra pene e delitti, fondando in tal modo – ed essendone l’illustre precursore – la teoria del danno e del bene giuridico protetto dalla norma, quale premessa culturale necessaria a tutta quella ricca dottrina che – sia in campo penalistico che civilistico – costituisce la lezione giuridica fondamentale della nostra epoca. Ogni giurista infatti sa bene che la giurisprudenza e la dottrina negli ultimi decenni non hanno fatto altro che affaticarsi incessantemente alla ricerca di nuove e sempre più precise configurazioni del danno risarcibile – in sede civilistica – e punibile – in sede penalistica, per la miglior tutela della parte lesa: ebbene, la genesi di tanta qualità giuridica va ritrovata fra queste pagine, fra queste idee. E’ poi ovvio che la diversa commisurazione delle pene trae seco la necessità di distinguere come logica premessa i delitti secondo la loro gravità. I più gravi, per Beccaria, sono quelli tradizionalmente chiamati di “lesa maestà”: sono quelli che attentano direttamente alla società, avendo di mira la sua totale distruzione. Pensiamo oggi alla strage, al terrorismo, all’attentato agli organi costituzionali dello Stato… Poi ci sono i delitti che ledono le sfere giuridiche dei privati, i loro beni, i loro interessi, le loro legittime aspettative. Tuttavia, l’aspetto più interessante sta nel fatto che Beccaria afferma qui senza alcuna timidezza un vero dogma del diritto penale che oggi informa di se la legislazione di ogni autentico Stato di diritto: è permesso ad ogni cittadino fare ciò che non è espressamente vietato. In atre parole, Beccaria apre qui – e lo tiene ben fermo – l’ombrello della libertà e lo apre proprio al riparo di quelle leggi di cui ha precedentemente difeso l’esistenza e la indefettibile funzione. Nulla di più esemplare come lezione di diritto: la libertà nasce e si fonda sulle leggi, non contro o senza di esse; e le leggi devono esser tali da far nascere e sviluppare la pianta della libertà: altrimenti sarebbero solo espressione di tirannia.

CAPITOLO VI PROPORZIONE FRA I DELITTI E LE PENE. Non solamente è interesse comune che non si commettano delitti, ma che siano piú rari a proporzione del male che arrecano alla società. Dunque piú forti debbono essere gli ostacoli che risospingono gli uomini dai delitti a misura che sono contrari al ben pubblico, ed a misura delle spinte che gli portano ai delitti. Dunque vi deve essere una proporzione fra i delitti e le pene. È impossibile di prevenire tutti i disordini nell’universal combattimento delle passioni umane. Essi crescono in ragione composta della popolazione e dell’incrocicchiamento degl’interessi particolari che non è possibile dirigere geometricamente alla pubblica utilità. All’esattezza matematica bisogna sostituire nell’aritmetica politica il calcolo delle probabilità. Si getti uno sguardo sulle storie e si vedranno crescere i disordini coi confini degl’imperi, e, scemando nell’istessa proporzione il sentimento nazionale, la spinta verso i delitti cresce in ragione dell’interesse che ciascuno prende ai disordini medesimi: perciò la necessità di aggravare le pene si va per questo motivo sempre piú aumentando. Quella forza simile alla gravità, che ci spinge al nostro ben essere, non si trattiene che a misura degli ostacoli che gli sono opposti. Gli effetti di questa forza sono la confusa serie delle azioni umane: se queste si urtano scambievolmente e si offendono, le pene, che io chiamerei ostacoli politici, ne impediscono il cattivo effetto senza distruggere la causa impellente, che è la sensibilità medesima inseparabile dall’uomo, e il legislatore fa come l’abile architetto di cui l’officio è di opporsi alle direzioni rovinose della gravità e di far conspirare quelle che contribuiscono alla forza dell’edificio. Data la necessità della riunione degli uomini, dati i patti, che necessariamente risultano dalla opposizione medesima degl’interessi privati, trovasi una scala di disordini, dei quali il primo grado consiste in quelli che distruggono immediatamente la società, e l’ultimo nella minima ingiustizia possibile fatta ai privati membri di essa. Tra questi estremi sono comprese tutte le azioni opposte al ben pubblico, che chiamansi delitti, e tutte vanno, per gradi insensibili, decrescendo dal piú sublime al piú infimo. Se la geometria fosse adattabile alle infinite ed oscure combinazioni delle azioni umane, vi dovrebbe essere una scala corrispondente di pene, che discendesse dalla piú forte alla piú debole: ma basterà al saggio legislatore di segnarne i punti principali, senza turbar l’ordine, non decretando ai delitti del primo grado le pene dell’ultimo. Se vi fosse una scala esatta ed universale delle pene e dei delitti, avremmo una probabile e comune misura dei gradi di tirannia e di libertà, del fondo di umanità o di malizia delle diverse nazioni. Qualunque azione non compresa tra i due sovraccennati limiti non può essere chiamata delitto, o punita come tale, se non da coloro che vi trovano il loro interesse nel cosí chiamarla. La incertezza di questi limiti ha prodotta nelle nazioni una morale che contradice alla legislazione; piú attuali legislazioni che si escludono scambievolmente; una moltitudine di leggi che espongono il piú saggio alle pene piú rigorose, e però resi vaghi e fluttuanti i nomi di vizio e di virtú, e però nata l’incertezza della propria esistenza, che produce il letargo ed il sonno fatale nei corpi politici. Chiunque leggerà con occhio filosofico i codici delle nazioni e i loro annali, troverà quasi sempre i nomi di vizio e di virtú, di buon cittadino o di reo cangiarsi colle rivoluzioni dei secoli, non in ragione delle mutazioni che accadono nelle circostanze dei paesi, e per conseguenza sempre conformi all’interesse comune, ma in ragione delle passioni e degli errori che successivamente agitarono i differenti legislatori. Vedrà bene spesso che le passioni di un secolo sono la base della morale dei secoli futuri, che le passioni forti, figlie del fanatismo e dell’entusiasmo, indebolite e rose, dirò cosí, dal tempo, che riduce tutti i fenomeni fisici e morali all’equilibrio, diventano a poco a poco la prudenza del secolo e lo strumento utile in mano del forte e dell’accorto. In questo modo nacquero le oscurissime nozioni di onore e di virtú, e tali sono perché si cambiano colle rivoluzioni del tempo che fa sopravvivere i nomi alle cose, si cambiano coi fiumi e colle montagne che sono bene spesso i confini, non solo della fisica, ma della morale geografia. Se il piacere e il dolore sono i motori degli esseri sensibili, se tra i motivi che spingono gli uomini anche alle piú sublimi operazioni, furono destinati dall’invisibile legislatore il premio e la pena, dalla inesatta distribuzione di queste ne nascerà quella tanto meno osservata contradizione, quanto piú comune, che le pene puniscano i delitti che hanno fatto nascere. Se una pena uguale è destinata a due delitti che disugualmente offendono la società, gli uomini non troveranno un piú forte ostacolo per commettere il maggior delitto, se con esso vi trovino unito un maggior vantaggio.

CAPITOLO VII ERRORI NELLA MISURA DELLE PENE. Le precedenti riflessioni mi danno il diritto di asserire che l’unica e vera misura dei delitti è il danno fatto alla nazione, e però errarono coloro che credettero vera misura dei delitti l’intenzione di chi gli commette. Questa dipende dalla impressione attuale degli oggetti e dalla precedente disposizione della mente: esse variano in tutti gli uomini e in ciascun uomo, colla velocissima successione delle idee, delle passioni e delle circostanze. Sarebbe dunque necessario formare non solo un codice particolare per ciascun cittadino, ma una nuova legge ad ogni delitto. Qualche volta gli uomini colla migliore. Lintenzione fanno il maggior male alla società; e alcune altre volte colla piú cattiva volontà ne fanno il maggior bene. Altri misurano i delitti piú dalla dignità della persona offesa che dalla loro importanza riguardo al ben pubblico. Se questa fosse la vera misura dei delitti, una irriverenza all’Essere degli esseri dovrebbe piú atrocemente punirsi che l’assassinio d’un monarca, la superiorità della natura essendo un infinito compenso alla differenza dell’offesa. Finalmente alcuni pensarono che la gravezza del peccato entrasse nella misura dei delitti. La fallacia di questa opinione risalterà agli occhi d’un indifferente esaminatore dei veri rapporti tra uomini e uomini, e tra uomini e Dio. I primi sono rapporti di uguaglianza. La sola necessità ha fatto nascere dall’urto delle passioni e dalle opposizioni degl’interessi l’idea della utilità comune, che è la base della giustizia umana; i secondi sono rapporti di dipendenza da un Essere perfetto e creatore, che si è riserbato a sé solo il diritto di essere legislatore e giudice nel medesimo tempo, perché egli solo può esserlo senza inconveniente. Se ha stabilito pene eterne a chi disobbedisce alla sua onnipotenza, qual sarà l’insetto che oserà supplire alla divina giustizia, che vorrà vendicare l’Essere che basta a se stesso, che non può ricevere dagli oggetti impressione alcuna di piacere o di dolore, e che solo tra tutti gli esseri agisce senza reazione? La gravezza del peccato dipende dalla imperscrutabile malizia del cuore. Questa da esseri finiti non può senza rivelazione sapersi. Come dunque da questa si prenderà norma per punire i delitti? Potrebbono in questo caso gli uomini punire quando Iddio perdona, e perdonare quando Iddio punisce. Se gli uomini possono essere in contradizione coll’Onnipossente nell’offenderlo, possono anche esserlo col punire.

CAPITOLO VIII DIVISIONE DEI DELITTI. Abbiamo veduto qual sia la vera misura dei delitti, cioè il danno della società. Questa è una di quelle palpabili verità che, quantunque non abbian bisogno né di quadranti, né di telescopi per essere scoperte, ma sieno alla portata di ciascun mediocre intelletto, pure per una maravigliosa combinazione di circostanze non sono con decisa sicurezza conosciute che da alcuni pochi pensatori, uomini d’ogni nazione e d’ogni secolo. Ma le opinioni asiatiche, ma le passioni vestite d’autorità e di potere hanno, la maggior parte delle volte per insensibili spinte, alcune poche per violente impressioni sulla timida credulità degli uomini, dissipate le semplici nozioni, che forse formavano la prima filosofia delle nascenti società ed a cui la luce di questo secolo sembra che ci riconduca, con quella maggior fermezza però che può essere somministrata da un esame geometrico, da mille funeste sperienze e dagli ostacoli medesimi. Or l’ordine ci condurrebbe ad esaminare e distinguere tutte le differenti sorte di delitti e la maniera di punirgli, se la variabile natura di essi per le diverse circostanze dei secoli e dei luoghi non ci obbligasse ad un dettaglio immenso e noioso. Mi basterà indicare i principii piú generali e gli errori piú funesti e comuni per disingannare sí quelli che per un mal inteso amore di libertà vorrebbono introdurre l’anarchia, come coloro che amerebbero ridurre gli uomini ad una claustrale regolarità. Alcuni delitti distruggono immediatamente la società, o chi la rappresenta; alcuni offendono la privata sicurezza di un cittadino nella vita, nei beni, o nell’onore; alcuni altri sono azioni contrarie a ciò che ciascuno è obbligato dalle leggi di fare, o non fare, in vista del ben pubblico. I primi, che sono i massimi delitti, perché piú dannosi, son quelli che chiamansi di lesa maestà. La sola tirannia e l’ignoranza, che confondono i vocaboli e le idee piú chiare, possono dar questo nome, e per conseguenza la massima pena, a’ delitti di differente natura, e rendere cosí gli uomini, come in mille altre occasioni, vittime di una parola. Ogni delitto, benché privato, offende la società, ma ogni delitto non ne tenta la immediata distruzione. Le azioni morali, come le fisiche, hanno la loro sfera limitata di attività e sono diversamente circonscritte, come tutti i movimenti di natura, dal tempo e dallo spazio; e però la sola cavillosa interpetrazione, che è per l’ordinario la filosofia della schiavitù, può confondere ciò che dall’eterna verità fu con immutabili rapporti distinto. Dopo questi seguono i delitti contrari alla sicurezza di ciascun particolare. Essendo questo il fine primario di ogni legittima associazione, non può non assegnarsi alla violazione del dritto di sicurezza acquistato da ogni cittadino alcuna delle pene piú considerabili stabilita dalle leggi.

L’opinione che ciaschedun cittadino deve avere di poter fare tutto ciò che non è contrario alle leggi senza temerne altro inconveniente che quello che può nascere dall’azione medesima, questo è il dogma politico che dovrebb’essere dai popoli creduto e dai supremi magistrati colla incorrotta custodia delle leggi predicato; sacro dogma, senza di cui non vi può essere legittima società, giusta ricompensa del sacrificio fatto dagli uomini di quell’azione universale su tutte le cose che è comune ad ogni essere sensibile, e limitata soltanto dalle proprie forze. Questo forma le libere anime e vigorose e le menti rischiaratrici, rende gli uomini virtuosi, ma di quella virtú che sa resistere al timore, e non di quella pieghevole prudenza, degna solo di chi può soffrire un’esistenza precaria ed incerta. Gli attentati dunque contro la sicurezza e libertà dei cittadini sono uno de’ maggiori delitti, e sotto questa classe cadono non solo gli assassinii e i furti degli uomini plebei, ma quelli ancora dei grandi e dei magistrati, l’influenza dei quali agisce ad una maggior distanza e con maggior vigore, distruggendo nei sudditi le idee di giustizia e di dovere, e sostituendo quella del diritto del piú forte, pericoloso del pari in chi lo esercita e in chi lo soffre.

«La pena deve essere la meno tormentosa possibile», scrive Vincenzo Vitale il 15 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Pubblichiamo a puntate il capolavoro di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle Pene”. Un’opera che propone un’idea del diritto un po’ più moderna dell’idea che prevale oggi. Il testo è preceduto da un commento di Vincenzo Vitale. È giunto il momento ormai per Beccaria di scendere più nel particolare, cercando di esaminare alcune figure particolari di comportamenti illeciti. Il primo è il caso dell’offesa recata all’onore, che oggi diremmo piuttosto reputazione, occasionando insomma quelli che potremmo chiamare, con terminologia moderna, i reati di opinione. Da tempo è noto che esiste una forte tendenza a depenalizzare i reati d’opinione in Italia, che tuttavia si è scontrata – ed è risultata fino ad oggi perdente – con l’opposta teoria che invece vuole a tutti i costi mantenerne la rilevanza penale: e da molti forse a ragione si pensa che dietro quest’ultima opinione si possa celare un qualche interesse personale sensibile ai risarcimenti a volte cospicui che ne possano derivare. Beccaria non lascia di far trapelare in modo chiaro il suo fastidio per questo genere di illecito penale ed in ciò si può forse scorgere una netta influenza della lezione di Rousseau, il cui problema capitale filosoficamente sintetizzato, come è noto, era “far riapparire l’essere al di là dell’apparire”. Beccaria denuncia ironicamente come purtroppo molti mettano questo onore – inteso come “i suffragi degli uomini” quale condizione stessa della propria esistenza. Le violazioni dell’onore danno origine ai duelli, reato fra i più odiosi, in quanto originati dalla “anarchia delle leggi” e abituali fra gli aristocratici – e non fra la plebe – in quanto son proprio costoro a guardarsi con “sospetto e gelosia”, i quali appunto esigono che l’offesa all’onore sia lavata col sangue del duello. E’ appena il caso di rilevare la per nulla scontata franchezza del giurista milanese nel denunciare i vizi della classe alla quale egli medesimo apparteneva, oltre che la fermezza nel vedere come reato un comportamento che a metà del settecento era giudicato lecito e perfino doveroso, quale il duello. Beccaria precorreva i tempi: e di molto. Dal punto di vista della filosofia della pena, Beccaria si colloca nella prospettiva che oggi chiameremmo della prevenzione speciale o anche generale, in quanto ritiene che lo scopo della stessa sia duplice: da un lato, scoraggiare il colpevole dalla commissione di altri reati; dall’altro, scoraggiare in genere la collettività dal commetterne. Da ciò discende che la pena deve essere “durevole” negli animi degli uomini e la meno “tormentosa” per il corpo. Kant avrebbe tuonato contro questa impostazione filosofica, perché contraria all’imperativo etico categorico, sfociando nel rischio che il fine preventivo possa fare del singolo colpevole un mezzo per impressionare gli altri soggetti della collettività, e non già – come invece predicava il filosofo di Konigsberg – un fine in se. Ma per Beccaria – e per noi – va bene così. Passando poi all’esame della testimonianza, transitando cioè dal codice penale a quello di procedura penale, Beccaria afferma un principio giuridico basilare, ma spesso dimenticato anche oggi, con enormi danni alla amministrazione della giustizia e a coloro che ne ricevono effetti negativi spesso irreparabili. Egli afferma infatti che se un testimone afferma e uno nega l’accusa, questa deve ritenersi non provata perché le testimonianze opposte si elidono reciprocamente e perché comunque deve prevalere la presunzione di innocenza. Molti sedicenti giuristi di oggi dovrebbero leggere e meditare queste pagine. Ancora. Esaminando le prove e la logica relativa alla loro valutazione, Beccaria dovrebbe vedere fra i propri attenti lettori anche molti giuristi della nostra epoca. Citiamo solo un esempio. Sostiene Beccaria che se le prove di un certo fatto si sostengono fra di loro, allora quanto più numerose sono codeste prove, tanto minore è la probabilità del fatto, perché le censure che si posson muovere alle precedenti colpiscono anche le seguenti; e ancora che se le prove di un certo fatto dipendono da una sola, il numero delle prove non aumenta la probabilità del fatto, perché il loro valore si risolve in quello della sola prova da cui dipendono. Insomma, un esempio perfetto di logica giudiziaria che sarebbe bene far studiare agli studenti di Giurisprudenza, troppo presi purtroppo dall’informatica – vale a dire dal mezzo di comunicazione – per preoccuparsi del diritto e della giustizia – vale a dire dei contenuti di quel mezzo, che poi son la sola cosa che davvero conti. Terribili poi le critiche da Beccaria riservate alla delazione, vale a dire alle accuse segrete e immuni da responsabilità. Esse infatti aprono la strada alla calunnia dalla quale è molto difficile difendersi proprio in quanto segreta. Ne viene che nessuna accusa – neppure la più grave – giustifica la delazione e che perciò l’accusa dovrà sempre essere pubblica, mai segreta, indipendentemente dalla forma dello Stato e della Costituzione. Infine al calunniatore dovrà irrogarsi la medesima pena che toccherebbe a colui che fu ingiustamente accusato. Come si vede, una bella e concreta lezione di civiltà giuridica, che oggi purtroppo per molti aspetti pare dimenticata.

DEI DELITTI E DELLE PENE. CAPITOLO IX DELL’ONORE. V’è una contradizione rimarcabile fralle leggi civili, gelose custodi piú d’ogni altra cosa del corpo e dei beni di ciascun cittadino, e le leggi di ciò che chiamasi onore, che vi preferisce l’opinione. Questa parola onore è una di quelle che ha servito di base a lunghi e brillanti ragionamenti, senza attaccarvi veruna idea fissa e stabile. Misera condizione delle menti umane che le lontanissime e meno importanti idee delle rivoluzioni dei corpi celesti sieno con piú distinta cognizione presenti che le vicine ed importantissime nozioni morali, fluttuanti sempre e confuse secondo che i venti delle passioni le sospingono e l’ignoranza guidata le riceve e le trasmette! Ma sparirà l’apparente paradosso se si consideri che come gli oggetti troppo vicini agli occhi si confondono, cosí la troppa vicinanza delle idee morali fa che facilmente si rimescolino le moltissime idee semplici che le compongono, e ne confondano le linee di separazione necessarie allo spirito geometrico che vuol misurare i fenomeni della umana sensibilità. E scemerà del tutto la maraviglia nell’indifferente indagatore delle cose umane, che sospetterà non esservi per avventura bisogno di tanto apparato di morale, né di tanti legami per render gli uomini felici e sicuri. Quest’onore dunque è una di quelle idee complesse che sono un aggregato non solo d’idee semplici, ma d’idee parimente complicate, che nel vario affacciarsi alla mente ora ammettono ed ora escludono alcuni de’ diversi elementi che le compongono; né conservano che alcune poche idee comuni, come piú quantità complesse algebraiche ammettono un comune divisore. Per trovar questo comune divisore nelle varie idee che gli uomini si formano dell’onore è necessario gettar rapidamente un colpo d’occhio sulla formazione delle società. Le prime leggi e i primi magistrati nacquero dalla necessità di riparare ai disordini del fisico dispotismo di ciascun uomo; questo fu il fine institutore della società, e questo fine primario si è sempre conservato, realmente o in apparenza, alla testa di tutti i codici, anche distruttori; ma l’avvicinamento degli uomini e il progresso delle loro cognizioni hanno fatto nascere una infinita serie di azioni e di bisogni vicendevoli gli uni verso gli altri, sempre superiori alla providenza delle leggi ed inferiori all’attuale potere di ciascuno. Da quest’epoca cominciò il dispotismo della opinione, che era l’unico mezzo di ottenere dagli altri quei beni, e di allontanarne quei mali, ai quali le leggi non erano sufficienti a provvedere. E l’opinione è quella che tormenta il saggio ed il volgare, che ha messo in credito l’apparenza della virtú al di sopra della virtú stessa, che fa diventar missionario anche lo scellerato, perché vi trova il proprio interesse. Quindi i suffragi degli uomini divennero non solo utili, ma necessari, per non cadere al disotto del comune livello. Quindi se l’ambizioso gli conquista come utili, se il vano va mendicandoli come testimoni del proprio merito, si vede l’uomo d’onore esigerli come necessari. Quest’onore è una condizione che moltissimi uomini mettono alla propria esistenza. Nato dopo la formazione della società, non poté esser messo nel comune deposito, anzi è un instantaneo ritorno nello stato naturale e una sottrazione momentanea della propria persona da quelle leggi che in quel caso non difendono bastantemente un cittadino. Quindi e nell’estrema libertà politica e nella estrema dipendenza spariscono le idee dell’onore, o si confondono perfettamente con altre: perché nella prima il dispotismo delle leggi rende inutile la ricerca degli altrui suffragi; nella seconda, perché il dispotismo degli uomini, annullando l’esistenza civile, gli riduce ad una precaria e momentanea personalità. L’onore è dunque uno dei principii fondamentali di quelle monarchie che sono un dispotismo sminuito, e in esse sono quello che negli stati dispotici le rivoluzioni, un momento di ritorno nello stato di natura, ed un ricordo al padrone dell’antica uguaglianza.

CAPITOLO X DEI DUELLI. Da questa necessità degli altrui suffragi nacquero i duelli privati, ch’ebbero appunto la loro origine nell’anarchia delle leggi. Si pretendono sconosciuti all’antichità, forse perché gli antichi non si radunavano sospettosamente armati nei tempii, nei teatri e cogli amici; forse perché il duello era uno spettacolo ordinario e comune che i gladiatori schiavi ed avviliti davano al popolo, e gli uomini liberi sdegnavano d’esser creduti e chiamati gladiatori coi privati combattimenti. Invano gli editti di morte contro chiunque accetta un duello hanno cercato estirpare questo costume, che ha il suo fondamento in ciò che alcuni uomini temono piú che la morte, poiché privandolo degli altrui suffragi, l’uomo d’onore si prevede esposto o a divenire un essere meramente solitario, stato insoffribile ad un uomo socievole, ovvero a divenire il bersaglio degl’insulti e dell’infamia, che colla ripetuta loro azione prevalgono al pericolo della pena. Per qual motivo il minuto popolo non duella per lo piú come i grandi? Non solo perché è disarmato, ma perché la necessità degli altrui suffragi è meno comune nella plebe che in coloro che, essendo piú elevati, si guardano con maggior sospetto e gelosia. Non è inutile il ripetere ciò che altri hanno scritto, cioè che il miglior metodo di prevenire questo delitto è di punire l’aggressore, cioè chi ha dato occasione al duello, dichiarando innocente chi senza sua colpa è stato costretto a difendere ciò che le leggi attuali non assicurano, cioè l’opinione, ed ha dovuto mostrare a’ suoi concittadini ch’egli teme le sole leggi e non gli uomini.

CAPITOLO XI DELLA TRANQUILLITA’ PUBBLICA. Finalmente, tra i delitti della terza specie sono particolarmente quelli che turbano la pubblica tranquillità e la quiete de’ cittadini, come gli strepiti e i bagordi nelle pubbliche vie destinate al commercio ed al passeggio de’ cittadini, come i fanatici sermoni, che eccitano le facili passioni della curiosa moltitudine, le quali prendono forza dalla frequenza degli uditori e piú dall’oscuro e misterioso entusiasmo che dalla chiara e tranquilla ragione, la quale mai non opera sopra una gran massa d’uomini. La notte illuminata a pubbliche spese, le guardie distribuite ne’ differenti quartieri della città, i semplici e morali discorsi della religione riserbati al silenzio ed alla sacra tranquillità dei tempii protetti dall’autorità pubblica, le arringhe destinate a sostenere gl’interessi privati e pubblici nelle adunanze della nazione, nei parlamenti o dove risieda la maestà del sovrano, sono tutti mezzi efficaci per prevenire il pericoloso addensamento delle popolari passioni. Questi formano un ramo principale della vigilanza del magistrato, che i francesi chiamano della police; ma se questo magistrato operasse con leggi arbitrarie e non istabilite da un codice che giri fralle mani di tutti i cittadini, si apre una porta alla tirannia, che sempre circonda tutti i confini della libertà politica. Io non trovo eccezione alcuna a quest’assioma generale, che ogni cittadino deve sapere quando sia reo o quando sia innocente. Se i censori, e in genere i magistrati arbitrari, sono necessari in qualche governo, ciò nasce dalla debolezza della sua costituzione, e non dalla natura di governo bene organizzato. L’incertezza della propria sorte ha sacrificate piú vittime all’oscura tirannia che non la pubblica e solenne crudeltà. Essa rivolta gli animi piú che non gli avvilisce. Il vero tiranno comincia sempre dal regnare sull’opinione, che previene il coraggio, il quale solo può risplendere o nella chiara luce della verità, o nel fuoco delle passioni, o nell’ignoranza del pericolo. Ma quali saranno le pene convenienti a questi delitti? La morte è ella una pena veramente utile e necessaria p er la sicurezza e pel buon ordine della società? La tortura e i tormenti sono eglino giusti, e ottengon eglino il fine che si propongono le leggi? Qual è la miglior maniera di prevenire i delitti? Le medesime pene sono elleno egualmente utili in tutt’i tempi? Qual influenza hanno esse su i costumi? Questi problemi meritano di essere sciolti con quella precisione geometrica a cui la nebbia dei sofismi, la seduttrice eloquenza ed il timido dubbio non posson resistere. Se io non avessi altro merito che quello di aver presentato il primo all’Italia con qualche maggior evidenza ciò che altre nazioni hanno osato scrivere e cominciano a praticare, io mi stimerei fortunato; ma se sostenendo i diritti degli uomini e dell’invincibile verità contribuissi a strappare dagli spasimi e dalle angosce della morte qualche vittima sfortunata della tirannia o dell’ignoranza, ugualmente fatale, le benedizioni e le lagrime anche d’un solo innocente nei trasporti della gioia mi consolerebbero dal disprezzo degli uomini.

CAPITOLO XII FINE DELLE PENE. Dalla semplice considerazione delle verità fin qui esposte egli è evidente che il fine delle pene non è di tormentare ed affliggere un essere sensibile, né di disfare un delitto già commesso. Può egli in un corpo politico, che, ben lungi di agire per passione, è il tranquillo moderatore delle passioni particolari, può egli albergare questa inutile crudeltà stromento del furore e del fanatismo o dei deboli tiranni? Le strida di un infelice richiamano forse dal tempo che non ritorna le azioni già consumate? Il fine dunque non è altro che d’impedire il reo dal far nuovi danni ai suoi cittadini e di rimuovere gli altri dal farne uguali. Quelle pene dunque e quel metodo d’infliggerle deve esser prescelto che, serbata la proporzione, farà una impressione piú efficace e piú durevole sugli animi degli uomini, e la meno tormentosa sul corpo del reo.

CAPITOLO XIII DEI TESTIMONI. Egli è un punto considerabile in ogni buona legislazione. il determinare esattamente la credibilità dei testimoni e le prove del reato. Ogni uomo ragionevole, cioè che abbia una certa connessione nelle proprie idee e le di cui sensazioni sieno conformi a quelle degli altri uomini, può essere testimonio. La vera misura della di lui credibilità non è che l’interesse ch’egli ha di dire o non dire il vero, onde appare frivolo il motivo della debolezza nelle donne, puerile l’applicazione degli effetti della morte reale alla civile nei condannati, ed incoerente la nota d’infamia negl’infami quando non abbiano alcun interesse di mentire. La credibilità dunque deve sminuirsi a proporzione dell’odio, o dell’amicizia, o delle strette relazioni che passano tra lui e il reo. Piú d’un testimonio è necessario, perché fintanto che uno asserisce e l’altro nega niente v’è di certo e prevale il diritto che ciascuno ha d’essere creduto innocente. La credibilità di un testimonio diviene tanto sensibilmente minore quanto piú cresce l’atrocità di un delitto o l’inverisimiglianza delle circostanze; tali sono per esempio la magia e le azioni gratuitamente crudeli. Egli è piú probabile che piú uomini mentiscano nella prima accusa, perché è piú facile che si combini in piú uomini o l’illusione dell’ignoranza o l’odio persecutore di quello che un uomo eserciti una potestà che Dio o non ha dato, o ha tolto ad ogni essere creato. Parimente nella seconda, perché l’uomo non è crudele che a proporzione del proprio interesse, dell’odio o del timore concepito. Non v’è propriamente alcun sentimento superfluo nell’uomo; egli è sempre proporzionale al risultato delle impressioni fatte su i sensi. Parimente la credibilità di un testimonio può essere alcuna volta sminuita, quand’egli sia membro d’alcuna società privata di cui gli usi e le massime siano o non ben conosciute o diverse dalle pubbliche. Un tal uomo ha non solo le proprie, ma le altrui passioni. Finalmente è quasi nulla la credibilità del testimonio quando si faccia delle parole un delitto, poiché il tuono, il gesto, tutto ciò che precede e ciò che siegue le differenti idee che gli uomini attaccano alle stesse parole, alterano e modificano in maniera i detti di un uomo che è quasi impossibile il ripeterle quali precisamente furon dette. Di piú, le azioni violenti e fuori dell’uso ordinario, quali sono i veri delitti, lascian traccia di sé nella moltitudine delle circostanze e negli effetti che ne derivano, ma le parole non rimangono che nella memoria per lo piú infedele e spesso sedotta degli ascoltanti. Egli è adunque di gran lunga piú facile una calunnia sulle parole che sulle azioni di un uomo, poiché di queste, quanto maggior numero di circostanze si adducono in prova, tanto maggiori mezzi si somministrano al reo per giustificarsi.

CAPITOLO XIV INDIZI, E FORME DI GIUDIZI. Vi è un teorema generale molto utile a calcolare la certezza di un fatto, per esempio la forza degl’indizi di un reato. Quando le prove di un fatto sono dipendenti l’una dall’altra, cioè quando gl’indizi non si provano che tra di loro, quanto maggiori prove si adducono tanto è minore la probabilità del fatto, perché i casi che farebbero mancare le prove antecedenti fanno mancare le susseguenti. Quando le prove di un fatto tutte dipendono egualmente da una sola, il numero delle prove non aumenta né sminuisce la probabilità del fatto, perché tutto il loro valore si risolve nel valore di quella sola da cui dipendono. Quando le prove sono indipendenti l’una dall’altra, cioè quando gli indizi si provano d’altronde che da se stessi, quanto maggiori prove si adducono, tanto piú cresce la probabilità del fatto, perché la fallacia di una prova non influisce sull’altra. Io parlo di probabilità in materia di delitti, che per meritar pena debbono esser certi. Ma svanirà il paradosso per chi considera che rigorosamente la certezza morale non è che una probabilità, ma probabilità tale che è chiamata certezza, perché ogni uomo di buon senso vi acconsente necessariamente per una consuetudine nata dalla necessità di agire, ed anteriore ad ogni speculazione; la certezza che si richiede per accertare un uomo reo è dunque quella che determina ogni uomo nelle operazioni piú importanti della vita. Possono distinguersi le prove di un reato in perfette ed in imperfette. Chiamo perfette quelle che escludono la possibilità che un tale non sia reo, chiamo imperfette quelle che non la escludono. Delle prime anche una sola è sufficiente per la condanna, delle seconde tante son necessarie quante bastino a formarne una perfetta, vale a dire che se per ciascuna di queste in particolare è possibile che uno non sia reo, per l’unione loro nel medesimo soggetto è impossibile che non lo sia. Notisi che le prove imperfette delle quali può il reo giustificarsi e non lo faccia a dovere divengono perfette. Ma questa morale certezza di prove è piú facile il sentirla che l’esattamente definirla. Perciò io credo ottima legge quella che stabilisce assessori al giudice principale presi dalla sorte, e non dalla scelta, perché in questo caso è piú sicura l’ignoranza che giudica per sentimento che la scienza che giudica per opinione. Dove le leggi siano chiare e precise l’officio di un giudice non consiste in altro che di accertare un fatto. Se nel cercare le prove di un delitto richiedesi abilità e destrezza, se nel presentarne il risultato è necessario chiarezza e precisione, per giudicarne dal risultato medesimo non vi si richiede che un semplice ed ordinario buon senso, meno fallace che il sapere di un giudice assuefatto a voler trovar rei e che tutto riduce ad un sistema fattizio imprestato da’ suoi studi. Felice quella nazione dove le leggi non fossero una scienza! Ella è utilissima legge quella che ogni uomo sia giudicato dai suoi pari, perché, dove si tratta della libertà e della fortuna di un cittadino, debbono tacere quei sentimenti che inspira la disuguaglianza; e quella superiorità con cui l’uomo fortunato guarda l’infelice, e quello sdegno con cui l’inferiore guarda il superiore, non possono agire in questo giudizio. Ma quando il delitto sia un’offesa di un terzo, allora i giudici dovrebbono essere metà pari del reo, metà pari dell’offeso; cosí, essendo bilanciato ogni interesse privato che modifica anche involontariamente le apparenze degli oggetti, non parlano che le leggi e la verità. Egli è ancora conforme alla giustizia che il reo escluder possa fino ad un certo segno coloro che gli sono sospetti; e ciò concessoli senza contrasto per alcun tempo, sembrerà quasi che il reo si condanni da se stesso. Pubblici siano i giudizi, e pubbliche le prove del reato, perché l’opinione, che è forse il solo cemento delle società, imponga un freno alla forza ed alle passioni, perché il popolo dica noi non siamo schiavi e siamo difesi, sentimento che inspira coraggio e che equivale ad un tributo per un sovrano che intende i suoi veri interessi. Io non accennerò altri dettagli e cautele che richiedono simili instituzioni. Niente avrei detto, se fosse necessario dir tutto.

CAPITOLO XV ACCUSE SEGRETE. Evidenti, ma consagrati disordini, e in molte nazioni resi necessari per la debolezza della constituzione, sono le accuse segrete. Un tal costume rende gli uomini falsi e coperti. Chiunque può sospettare di vedere in altrui un delatore, vi vede un inimico. Gli uomini allora si avvezzano a mascherare i propri sentimenti, e, coll’uso di nascondergli altrui, arrivano finalmente a nascondergli a loro medesimi. Infelici gli uomini quando son giunti a questo segno: senza principii chiari ed immobili che gli guidino, errano smarriti e fluttuanti nel vasto mare delle opinioni, sempre occupati a salvarsi dai mostri che gli minacciano; passano il momento presente sempre amareggiato dalla incertezza del futuro; privi dei durevoli piaceri della tranquillità e sicurezza, appena alcuni pochi di essi sparsi qua e là nella trista loro vita, con fretta e con disordine divorati, gli consolano d’esser vissuti. E di questi uomini faremo noi gl’intrepidi soldati difensori della patria o del trono? E tra questi troveremo gl’incorrotti magistrati che con libera e patriottica eloquenza sostengano e sviluppino i veri interessi del sovrano, che portino al trono coi tributi l’amore e le benedizioni di tutti i ceti d’uomini, e da questo rendano ai palagi ed alle capanne la pace, la sicurezza e l’industriosa speranza di migliorare la sorte, utile fermento e vita degli stati? Chi può difendersi dalla calunnia quand’ella è armata dal piú forte scudo della tirannia, il segreto? Qual sorta di governo è mai quella ove chi regge sospetta in ogni suo suddito un nemico ed è costretto per il pubblico riposo di toglierlo a ciascuno? Quali sono i motivi con cui si giustificano le accuse e le pene segrete? La salute pubblica, la sicurezza e il mantenimento della forma di governo? Ma quale strana costituzione, dove chi ha per sé la forza, e l’opinione piú efficace di essa, teme d’ogni cittadino? L’indennità dell’accusatore? Le leggi dunque non lo difendono abbastanza. E vi saranno dei sudditi piú forti del sovrano! L’infamia del delatore? Dunque si autorizza la calunnia segreta e si punisce la pubblica! La natura del delitto? Se le azioni indifferenti, se anche le utili al pubblico si chiamano delitti, le accuse e i giudizi non sono mai abbastanza segreti. Vi possono essere delitti, cioè pubbliche offese, e che nel medesimo tempo non sia interesse di tutti la pubblicità dell’esempio, cioè quella del giudizio? Io rispetto ogni governo, e non parlo di alcuno in particolare; tale è qualche volta la natura delle circostanze che può credersi l’estrema rovina il togliere un male allora quando ei sia inerente al sistema di una nazione; ma se avessi a dettar nuove leggi, in qualche angolo abbandonato dell’universo, prima di autorizzare un tale costume, la mano mi tremerebbe, e avrei tutta la posterità dinanzi agli occhi. È già stato detto dal Signor di Montesquieu che le pubbliche accuse sono piú conformi alla repubblica, dove il pubblico bene formar dovrebbe la prima passione de’ cittadini, che nella monarchia, dove questo sentimento è debolissimo per la natura medesima del governo, dove è ottimo stabilimento il destinare de’ commissari, che in nome pubblico accusino gl’infrattori delle leggi. Ma ogni governo, e repubblicano e monarchico, deve al calunniatore dare la pena che toccherebbe all’accusato.

«La tortura questo infame metodo di indagine», scrive Vincenzo Vitale il 17 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Pubblichiamo a puntate il capolavoro di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle Pene”. Un’opera che propone un’idea del diritto un po’ più moderna dell’idea che prevale oggi. Il testo è preceduto da un commento di Vincenzo Vitale. Siamo così giunti finalmente al tema più scottante e che più di ogni altro ha fatto discutere in passato i criminalisti, fino a diventare un paradigma di riferimento obbligato per saggiare il tasso di giuridicità di un ordinamento: la tortura. Beccaria si preoccupa di chiarire immediatamente con logica inoppugnabile i termini reali del problema: o il delitto è certo oppure è incerto; se è certo, la tortura è del tutto inutile in quanto la confessione del reo è superflua; se invece è incerto, la tortura è indebita, in quanto sarebbe applicata ad un innocente, quale deve essere considerato l’accusato fino alla prova definitiva e inoppugnabile della sua colpevolezza. Non so fino a che punto ci si renda conto della preziosa posizione di Beccaria in ordine alla presunzione di innocenza, difesa e razionalmente affermata oltre due secoli e mezzo or sono, quando nessuno neppure ne parlava o la ipotizzava, presunzione che oggi purtroppo a volte viene dimenticata o messa fra parentesi. Per questo, Beccaria insiste che nessuno può chiamarsi reo fino a quando la sua colpevolezza sia accertata attraverso la sentenza del giudice. Per il giurista milanese, nessuno dei motivi che vengono tradizionalmente offerti per giustificare la tortura – atterrire gli uomini, purgare l’infamia ecc. – regge ad una seria critica. A ben vedere, secondo Beccaria la tortura è equiparabile alle celebri prove legali in uso nel medioevo, quali la prova del fuoco, quella dell’acqua bollente, insomma ai cosiddetti giudizi di Dio e di questi soffre tutta la irrazionalità giuridica e la casualità...Secondo la retta ragione, la sola differenza fra le prove barbaricamente legali e la tortura risiede nel fatto che mentre nelle prime l’esito dipende da fattori estrinseci e del tutto eventuali, in questa l’esito dipende in buona parte dalla volontà dell’accusato. E’ pur vero – nota ancora il giurista – che la confessione fatta durante la tortura necessita, per essere valida, della conferma sotto giuramento fatta in un momento successivo, ma è anche vero che, assurdamente, in molti Stati se l’accusato non conferma quanto in precedenza dichiarato sotto tortura, verrà di nuovo sottoposto ai tormenti ( in certi Stati solo per tre volte, in altri a discrezione del giudice): insomma, un cane che si morde la coda, non se ne esce più. Ma la vera argomentazione che rivela la assurdità della tortura sta nel fatto che l’innocente si trova in una posizione di svantaggio rispetto al colpevole. Se infatti, viene torturato l’innocente, questi o confessa – per far cessare il tormento – ciò che non ha fatto e allora sarà condannato; oppure, non confessando, viene assolto e allora avrà patito ingiustamente una enorme sofferenza. Se invece viene torturato il colpevole, se questi stoicamente sa resistere al dolore, verrà assolto. Ne viene che mentre l’innocente avrà sempre perso qualcosa, il colpevole è messo in grado di guadagnare la propria impunità. Nell’ambito di questa cornice giudiziaria, il giudice non è più un terzo imparziale, ma diviene “nemico del reo”, afferma in modo preciso Beccaria, non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto attraverso la tortura. E qui, Beccaria alza il tono del discorso attingendo compiutamente luoghi che oggi potremmo definire propri di una teoria generale del processo penale. Infatti, egli distingue fra un processo penale offensivo, dove per essere dichiarati innocenti, bisogna prima esser detti rei, e perciò anche essere sottoposti alla tortura; e un processo penale informativo, dove invece prevale la ricerca imparziale del fatto da chiunque commesso. In Europa, a metà del settecento, il secondo era sconosciuto, mentre il primo era l’unico concretamente sperimentato: oggi, usando il linguaggio dei giuristi contemporanei, diremmo che il processo inquisitorio deve lasciar spazio a quello accusatorio. Oggi. Ma a metà del settecento era pericoloso affermare quelle che sembrano ovvie verità. Beccaria conclude questa sezione della sua opera, criticando l’uso di far giurare gli accusati – come oggi avviene ancora purtroppo in America. E ciò sia per motivi pratici, perchè mai il giuramento potrà spingere l’accusato a dichiararsi colpevole, sia che questi lo sia davvero, o anche se non lo sia; inoltre, l’uso del giuramento mescola quei due piani che per Beccaria devono restare sempre distinti, quello divino e quello umano. C’è bisogno di aggiungere altro?

CAPITOLO XVI DELLA TORTURA. Una crudeltà consacrata dall’uso nella maggior parte delle nazioni è la tortura del reo mentre si forma il processo, o per constringerlo a confessare un delitto, o per le contradizioni nelle quali incorre, o per la scoperta dei complici, o per non so quale metafisica ed incomprensibile purgazione d’infamia, o finalmente per altri delitti di cui potrebbe esser reo, ma dei quali non è accusato. Un uomo non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può toglierli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violati i patti coi quali le fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dia la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente? Non è nuovo questo dilemma: o il delitto è certo o incerto; se certo, non gli conviene altra pena che la stabilita dalle leggi, ed inutili sono i tormenti, perché inutile è la confessione del reo; se è incerto, è non devesi tormentare un innocente, perché tale è secondo le leggi un uomo i di cui delitti non sono provati. Ma io aggiungo di piú, ch’egli è un voler confondere tutt’i rapporti l’esigere che un uomo sia nello stesso tempo accusatore ed accusato, che il dolore divenga il crociuolo della verità, quasi che il criterio di essa risieda nei muscoli e nelle fibre di un miserabile. Questo è il mezzo sicuro di assolvere i robusti scellerati e di condannare i deboli innocenti. Ecco i fatali inconvenienti di questo preteso criterio di verità, ma criterio degno di un cannibale, che i Romani, barbari anch’essi per piú d’un titolo, riserbavano ai soli schiavi, vittime di una feroce e troppo lodata virtú. Qual è il fine politico delle pene? Il terrore degli altri uomini. Ma qual giudizio dovremo noi dare delle segrete e private carnificine, che la tirannia dell’uso esercita su i rei e sugl’innocenti? Egli è importante che ogni delitto palese non sia impunito, ma è inutile che si accerti chi abbia commesso un delitto, che sta sepolto nelle tenebre. Un male già fatto, ed a cui non v’è rimedio, non può esser punito dalla società politica che quando influisce sugli altri colla lusinga dell’impunità. S’egli è vero che sia maggiore il numero degli uomini che o per timore, o per virtú, rispettano le leggi che di quelli che le infrangono, il rischio di tormentare un innocente deve valutarsi tanto di piú, quanto è maggiore la probabilità che un uomo a dati uguali le abbia piuttosto rispettate che disprezzate. Un altro ridicolo motivo della tortura è la purgazione dell’infamia, cioè un uomo giudicato infame dalle leggi deve confermare la sua deposizione collo slogamento delle sue ossa. Quest’abuso non dovrebbe esser tollerato nel decimottavo secolo. Si crede che il dolore, che è una sensazione, purghi l’infamia, che è un mero rapporto morale. È egli forse un crociuolo? E l’infamia è forse un corpo misto impuro? Non è difficile il rimontare all’origine di questa ridicola legge, perché gli assurdi stessi che sono da una nazione intera adottati hanno sempre qualche relazione ad altre idee comuni e rispettate dalla nazione medesima. Sembra quest’uso preso dalle idee religiose e spirituali, che hanno tanta influenza su i pensieri degli uomini, su le nazioni e su i secoli. Un dogma infallibile ci assicura che le macchie contratte dall’umana debolezza e che non hanno meritata l’ira eterna del grand’Essere, debbono da un fuoco incomprensibile esser purgate; ora l’infamia è una macchia civile, e come il dolore ed il fuoco tolgono le macchie spirituali ed incorporee, perché gli spasimi della tortura non toglieranno la macchia civile che è l’infamia? Io credo che la confessione del reo, che in alcuni tribunali si esige come essenziale alla condanna, abbia una origine non dissimile, perché nel misterioso tribunale di penitenza la confessione dei peccati è parte essenziale del sagramento. Ecco come gli uomini abusano dei lumi piú sicuri della rivelazione; e siccome questi sono i soli che sussistono nei tempi d’ignoranza, cosí ad essi ricorre la docile umanità in tutte le occasioni e ne fa le piú assurde e lontane applicazioni. Ma l’infamia è un sentimento non soggetto né alle leggi né alla ragione, ma alla opinione comune. La tortura medesima cagiona una reale infamia a chi ne è la vittima. Dunque con questo metodo si toglierà l’infamia dando l’infamia. Il terzo motivo è la tortura che si dà ai supposti rei quando nel loro esame cadono in contradizione, quasi che il timore della pena, l’incertezza del giudizio, l’apparato e la maestà del giudice, l’ignoranza, comune a quasi tutti gli scellerati e agl’innocenti, non debbano probabilmente far cadere in contradizione e l’innocente che teme e il reo che cerca di coprirsi; quasi che le contradizioni, comuni agli uomini quando sono tranquilli, non debbano moltiplicarsi nella turbazione dell’animo tutto assorbito nel pensiero di salvarsi dall’imminente pericolo. Questo infame crociuolo della verità è un monumento ancora esistente dell’antica e selvaggia legislazione, quando erano chiamati giudizi di Dio le prove del fuoco e dell’acqua bollente e l’incerta sorte dell’armi, quasi che gli anelli dell’eterna catena, che è nel seno della prima cagione, dovessero ad ogni momento essere disordinati e sconnessi per li frivoli stabilimenti umani. La sola differenza che passa fralla tortura e le prove del fuoco e dell’acqua bollente, è che l’esito della prima sembra dipendere dalla volontà del reo, e delle seconde da un fatto puramente fisico ed estrinseco: ma questa differenza è solo apparente e non reale. È cosí poco libero il dire la verità fra gli spasimi e gli strazi, quanto lo era allora l’impedire senza frode gli effetti del fuoco e dell’acqua bollente. Ogni atto della nostra volontà è sempre proporzionato alla forza della impressione sensibile, che ne è la sorgente; e la sensibilità di ogni uomo è limitata. Dunque l’impressione del dolore può crescere a segno che, occupandola tutta, non lasci alcuna libertà al torturato che di scegliere la strada piú corta per il momento presente, onde sottrarsi di pena. Allora la risposta del reo è cosí necessaria come le impressioni del fuoco o dell’acqua. Allora l’innocente sensibile si chiamerà reo, quando egli creda con ciò di far cessare il tormento. Ogni differenza tra essi sparisce per quel mezzo medesimo, che si pretende impiegato per ritrovarla. È superfluo di raddoppiare il lume citando gl’innumerabili esempi d’innocenti che rei si confessarono per gli spasimi della tortura: non vi è nazione, non vi è età che non citi i suoi, ma né gli uomini si cangiano, né cavano conseguenze. Non vi è uomo che abbia spinto le sue idee di là dei bisogni della vita, che qualche volta non corra verso natura, che con segrete e confuse voci a sé lo chiama; l’uso, il tiranno delle menti, lo rispinge e lo spaventa. L’esito dunque della tortura è un affare di temperamento e di calcolo, che varia in ciascun uomo in proporzione della sua robustezza e della sua sensibilità; tanto che con questo metodo un matematico scioglierebbe meglio che un giudice questo problema: data la forza dei muscoli e la sensibilità delle fibre d’un innocente, trovare il grado di dolore che lo farà confessar reo di un dato delitto. L’esame di un reo è fatto per conoscere la verità, ma se questa verità difficilmente scuopresi all’aria, al gesto, alla fisonomia d’un uomo tranquillo, molto meno scuoprirassi in un uomo in cui le convulsioni del dolore alterano tutti i segni, per i quali dal volto della maggior parte degli uomini traspira qualche volta, loro malgrado, la verità. Ogni azione violenta confonde e fa sparire le minime differenze degli oggetti per cui si distingue talora il vero dal falso.

Queste verità sono state conosciute dai romani legislatori, presso i quali non trovasi usata alcuna tortura che su i soli schiavi, ai quali era tolta ogni personalità; queste dall’Inghilterra, nazione in cui la gloria delle lettere, la superiorità del commercio e delle ricchezze, e perciò della potenza, e gli esempi di virtú e di coraggio non ci lasciano dubitare della bontà delle leggi. La tortura è stata abolita nella Svezia, abolita da uno de’ piú saggi monarchi dell’Europa, che avendo portata la filosofia sul trono, legislatore amico de’ suoi sudditi, gli ha resi uguali e liberi nella dipendenza delle leggi, che è la sola uguaglianza e libertà che possono gli uomini ragionevoli esigere nelle presenti combinazioni di cose. La tortura non è creduta necessaria dalle leggi degli eserciti composti per la maggior parte della feccia delle nazioni, che sembrerebbono perciò doversene piú d’ogni altro ceto servire. Strana cosa, per chi non considera quanto sia grande la tirannia dell’uso, che le pacifiche leggi debbano apprendere dagli animi induriti alle stragi ed al sangue il piú umano metodo di giudicare. Questa verità è finalmente sentita, benché confusamente, da quei medesimi che se ne allontanano. Non vale la confessione fatta durante la tortura se non è confermata con giuramento dopo cessata quella, ma se il reo non conferma il delitto è di nuovo torturato. Alcuni dottori ed alcune nazioni non permettono questa infame petizione di principio che per tre volte; altre nazioni ed altri dottori la lasciano ad arbitrio del giudice: talché di due uomini ugualmente innocenti o ugualmente rei, il robusto ed il coraggioso sarà assoluto, il fiacco ed il timido condannato in vigore di questo esatto raziocinio: Io giudice dovea trovarvi rei di un tal delitto; tu vigoroso hai saputo resistere al dolore, e però ti assolvo; tu debole vi hai ceduto, e però ti condanno. Sento che la confessione strappatavi fra i tormenti non avrebbe alcuna forza, ma io vi tormenterò di nuovo se non confermerete ciò che avete confessato. Una strana conseguenza che necessariamente deriva dall’uso della tortura è che l’innocente è posto in peggiore condizione che il reo; perché, se ambidue sieno applicati al tormento, il primo ha tutte le combinazioni contrarie, perché o confessa il delitto, ed è condannato, o è dichiarato innocente, ed ha sofferto una pena indebita; ma il reo ha un caso favorevole per sé, cioè quando, resistendo alla tortura con fermezza, deve essere assoluto come innocente; ha cambiato una pena maggiore in una minore. Dunque l’innocente non può che perdere e il colpevole può guadagnare. La legge che comanda la tortura è una legge che dice: Uomini, resistete al dolore, e se la natura ha creato in voi uno inestinguibile amor proprio, se vi ha dato un inalienabile diritto alla vostra difesa, io creo in voi un affetto tutto contrario, cioè un eroico odio di voi stessi, e vi comando di accusare voi medesimi, dicendo la verità anche fra gli strappamenti dei muscoli e gli slogamenti delle ossa. Dassi la tortura per discuoprire se il reo lo è di altri delitti fuori di quelli di cui è accusato, il che equivale a questo raziocinio: Tu sei reo di un delitto, dunque è possibile che lo sii di cent’altri delitti; questo dubbio mi pesa, voglio accertarmene col mio criterio di verità; le leggi ti tormentano, perché sei reo, perché puoi esser reo, perché voglio che tu sii reo. Finalmente la tortura è data ad un accusato per discuoprire i complici del suo delitto; ma se è dimostrato che ella non è un mezzo opportuno per iscuoprire la verità, come potrà ella servire a svelare i complici, che è una delle verità da scuoprirsi? Quasi che l’uomo che accusa se stesso non accusi piú facilmente gli altri. È egli giusto tormentar gli uomini per l’altrui delitto? Non si scuopriranno i complici dall’esame dei testimoni, dall’esame del reo, dalle prove e dal corpo del delitto, in somma da tutti quei mezzi medesimi che debbono servire per accertare il delitto nell’accusato? I complici per lo piú fuggono immediatamente dopo la prigionia del compagno, l’incertezza della loro sorte gli condanna da sé sola all’esilio e libera la nazione dal pericolo di nuove offese, mentre la pena del reo che è nelle forze ottiene l’unico suo fine, cioè di rimuover col terrore gli altri uomini da un simil delitto.

CAPITOLO XVII DEL FISCO. Fu già un tempo nel quale quasi tutte le pene erano pecuniarie. I delitti degli uomini erano il patrimonio del principe. Gli attentati contro la pubblica sicurezza erano un oggetto di lusso. Chi era destinato a difenderla aveva interesse di vederla offesa. L’oggetto delle pene era dunque una lite tra il fisco (l’esattore di queste pene) ed il reo; un affare civile, contenzioso, privato piuttosto che pubblico, che dava al fisco altri diritti che quelli somministrati dalla pubblica difesa ed al reo altri torti che quelli in cui era caduto, per la necessità dell’esempio. Il giudice era dunque un avvocato del fisco piuttosto che un indifferente ricercatore del vero, un agente dell’erario fiscale anzi che il protettore ed il ministro delle leggi. Ma siccome in questo sistema il confessarsi delinquente era un confessarsi debitore verso il fisco, il che era lo scopo delle procedure criminali d’allora, cosí la confessione del delitto, e confessione combinata in maniera che favorisse e non facesse torto alle ragioni fiscali, divenne ed è tuttora (gli effetti continuando sempre moltissimo dopo le cagioni) il centro intorno a cui si aggirano tutti gli ordigni criminali. Senz’essa un reo convinto da prove indubitate avrà una pena minore della stabilita, senz’essa non soffrirà la tortura sopra altri delitti della medesima specie che possa aver commessi. Con questa il giudice s’impadronisce del corpo di un reo e lo strazia con metodiche formalità, per cavarne come da un fondo acquistato tutto il profitto che può. Provata l’esistenza del delitto, la confessione fa una prova convincente, e per rendere questa prova meno sospetta cogli spasimi e colla disperazione del dolore a forza si esige nel medesimo tempo che una confessione stragiudiziale tranquilla, indifferente, senza i prepotenti timori di un tormentoso giudizio, non basta alla condanna. Si escludono le ricerche e le prove che rischiarano il fatto, ma che indeboliscono le ragioni del fisco; non è in favore della miseria e della debolezza che si risparmiano qualche volta i tormenti ai rei, ma in favore delle ragioni che potrebbe perdere quest’ente ora immaginario ed inconcepibile. Il giudice diviene nemico del reo, di un uomo incatenato, dato in preda allo squallore, ai tormenti, all’avvenire il piú terribile; non cerca la verità del fatto, ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quella infallibilità che l’uomo s’arroga in tutte le cose. Gl’indizi alla cattura sono in potere del giudice; perché uno si provi innocente deve esser prima dichiarato reo: ciò chiamasi fare un processo offensivo, e tali sono quasi in ogni luogo della illuminata Europa nel decimo ottavo secolo le procedure criminali. Il vero processo, l’informativo, cioè la ricerca indifferente del fatto, quello che la ragione comanda, che le leggi militari adoperano, usato dallo stesso asiatico dispotismo nei casi tranquilli ed indifferenti, è pochissimo in uso nei tribunali europei. Qual complicato laberinto di strani assurdi, incredibili senza dubbio alla piú felice posterità! I soli filosofi di quel tempo leggeranno nella natura dell’uomo la possibile verificazione di un tale sistema.

CAPITOLO XVIII DEI GIURAMENTI. Una contradizione fralle leggi e i sentimenti naturali all’uomo nasce dai giuramenti che si esigono dal reo, acciocché sia un uomo veridico, quando ha il massimo interesse di esser falso; quasi che l’uomo potesse giurar da dovero di contribuire alla propria distruzione, quasi che la religione non tacesse nella maggior parte degli uomini quando parla l’interesse. L’esperienza di tutt’i secoli ha fatto vedere che essi hanno piú d’ogni altra cosa abusato di questo prezioso dono del cielo. E per qual motivo gli scellerati la rispetteranno, se gli uomini stimati piú saggi l’hanno sovente violata? Troppo deboli, perché troppo remoti dai sensi, sono per il maggior numero i motivi che la religione contrappone al tumulto del timore ed all’amor della vita. Gli affari del cielo si reggono con leggi affatto dissimili da quelle che reggono gli affari umani. E perché comprometter gli uni cogli altri? E perché metter l’uomo nella terribile contradizione, o di mancare a Dio, o di concorrere alla propria rovina? talché la legge, che obbliga ad un tal giuramento, comanda o di esser cattivo cristiano o martire. Il giuramento diviene a poco a poco una semplice formalità, distruggendosi in questa maniera la forza dei sentimenti di religione, unico pegno dell’onestà della maggior parte degli uomini. Quanto sieno inutili i giuramenti lo ha fatto vedere l’esperienza, perché ciascun giudice mi può esser testimonio che nessun giuramento ha mai fatto dire la verità ad alcun reo; lo fa vedere la ragione, che dichiara inutili e per conseguenza dannose tutte le leggi che si oppongono ai naturali sentimenti dell’uomo. Accade ad esse ciò che agli argini opposti direttamente al corso di un fiume: o sono immediatamente abbattuti e soverchiati, o un vortice formato da loro stessi gli corrode e gli mina insensibilmente.

Processi rapidi, diceva Beccaria…250 anni fa, scrive Vincenzo Vitale il 18 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Commento ai capitoli 19, 20, 21, 22, 23 e 24. A questo punto Beccaria non evita di toccare un tasto dolente oggi più di ieri: la durata dei processi. Egli tiene a chiarire subito che se fra il delitto commesso e la pena irrogata attraverso la sentenza trascorre troppo tempo, allora tale pena sarà avvertita come ingiusta e il reo vi si opporrà con ogni moto dell’anima. Inoltre, la carcerazione preventiva va applicata in modo che essa duri il minor tempo possibile e che sia la meno dura possibile, proprio in quanto l’accusato va ritenuto innocente fino a sentenza definitiva. Non si può fare a meno di rilevare come tali preziosi avvertimenti siano ancor oggi assolutamente da ribadire e da tener presenti, per il semplice motivo che sembra che Beccaria non abbia mai scritto queste cose. Chiunque sa infatti che oggi la durata media di un processo penale è abnorme e che la custodia cautelare in carcere viene adoperata con eccessiva spregiudicatezza, nonostante nei convegni e nelle tavole rotonde si predichi il contrario. In certi casi sembra che senza il ricorso alla custodia cautelare non si possano fare i processi: peccato poi se, come accade in questi giorni in alcuni casi agli onori delle cronache, intervenga la Cassazione ad annullare un ordine di custodia emesso sei mesi prima. In buona sostanza, un essere umano viene arrestato preventivamente, rimane in carcere per sei mesi o più e poi la Cassazione gli dice che non potevano arrestarlo per mancanza dei presupposti di legge: e Beccaria? Un illustre sconosciuto! Questo illustre sconosciuto – che sarebbe bene oggi fosse studiato nei corsi universitari invece di perdere tempo con emerite sciocchezze – afferma ancora che i delitti commessi con violenza contro le persone vanno puniti con pene corporali, mentre quelli contro il patrimonio con sanzioni pecuniarie: evidenti ed insormontabili ragioni di simmetria formale impediscono a Beccaria di eliminare del tutto le pene corporali dal proprio orizzonte concettuale, pur limitandole a casi estremi. Molto interessante e testimone della libertà di pensiero di Beccaria è invece il fatto che egli critichi aspramente la possibilità, allora vigente, secondo cui le pene inflitte ai nobili fossero diverse – e assai meno aspre – di quelle inflitte invece al volgo. E’ noto infatti come la pena capitale inflitta ad un plebeo fosse accompagnata sempre da atroci supplizi sia precedenti, sia contestuali: la ruota, il taglio delle mani, il fuoco, ecc.; e basti in proposito por mente a quali atrocità furono sottoposti Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, condannati a morte in quanto untori, e di cui narra Manzoni nella sua celebre Storia della colonna infame. Invece l’esecuzione dei nobili era quanto mai rapida e indolore: una semplice decapitazione che nell’attimo in cui staccava la testa dal collo donava una morte celere e quasi inavvertita. Da qui evidentemente, la grande importanza attribuita alla capacità del boia che, se adeguatamente esercitato e competente, non doveva in alcun modo fallire il primo colpo di scure, perché, in caso contrario, avrebbe causato al condannato intollerabili sofferenze che invece dovevano ad ogni costo essergli evitate. Beccaria denuncia questa disparità come una inaccettabile diseguaglianza, mentre tutti, nobili e plebei, vanno considerati eguali davanti alla legge. E piace pensare – cosa del tutto probabile – che quando i giacobini ghigliottinavano i nemici della rivoluzione – venticinque anni dopo la pubblicazione dell’opera di Beccaria – indistintamente se fossero nobili o plebei, non esitando a farlo anche per il re e la regina, avessero proprio in mente la lezione di Beccaria. Del resto, è stato Hegel a notare – nelle Lezioni di Filosofia della storia – come il senso fenomenologico della ghigliottina sia proprio questo: parificare davanti alla morte tutti gli uomini, senza distinzioni di classi o di condizioni economiche. La ghigliottina insomma è la vera espressione della raggiunta democrazia giacobina. Sotto la lama affilatissima e cieca della ghigliottina non ci son più re o poveri diavoli, perchè essa non distingue nessuno e tutti tratta allo stesso modo, destinandoli ad una morte rapida e pressochè indolore. Strano che se Beccaria influenzò a tal punto i giacobini rivoluzionari, non altrettanto sia riuscito a fare con tanti sedicenti giuristi ed esperti del nostro tempo. Ma certo non è colpa sua.

O i processi sono rapidi o le pene sono ingiuste.

CAPITOLO XIX PRONTEZZA DELLA PENA. Quanto la pena sarà piú pronta e piú vicina al delitto commesso, ella sarà tanto piú giusta e tanto piú utile. Dico piú giusta, perché risparmia al reo gli inutili e fieri tormenti dell’incertezza, che crescono col vigore dell’immaginazione e col sentimento della propria debolezza; piú giusta, perché la privazione della libertà essendo una pena, essa non può precedere la sentenza se non quando la necessità lo chiede. La carcere è dunque la semplice custodia d’un cittadino finché sia giudicato reo, e questa custodia essendo essenzialmente penosa, deve durare il minor tempo possibile e dev’essere meno dura che si possa. Il minor tempo dev’esser misurato e dalla necessaria durazione del processo e dall’anzianità di chi prima ha un diritto di esser giudicato. La strettezza della carcere non può essere che la necessaria, o per impedire la fuga, o per non occultare le prove dei delitti. Il processo medesimo dev’essere finito nel piú breve tempo possibile. Qual piú crudele contrasto che l’indolenza di un giudice e le angosce d’un reo? I comodi e i piaceri di un insensibile magistrato da una parte e dall’altra le lagrime, lo squallore d’un prigioniero? In generale il peso della pena e la conseguenza di un delitto dev’essere la piú efficace per gli altri e la meno dura che sia possibile per chi la soffre, perché non si può chiamare legittima società quella dove non sia principio infallibile che gli uomini si sian voluti assoggettare ai minori mali possibili. Ho detto che la prontezza delle pene è piú utile, perché quanto è minore la distanza del tempo che passa tra la pena ed il misfatto, tanto è piú forte e piú durevole nell’animo umano l’associazione di queste due idee, delitto e pena, talché insensibilmente si considerano uno come cagione e l’altra come effetto necessario immancabile. Egli è dimostrato che l’unione delle idee è il cemento che forma tutta la fabbrica dell’intelletto umano, senza di cui il piacere ed il dolore sarebbero sentimenti isolati e di nessun effetto. Quanto piú gli uomini si allontanano dalle idee generali e dai principii universali, cioè quanto piú sono volgari, tanto piú agiscono per le immediate e piú vicine associazioni, trascurando le piú remote e complicate, che non servono che agli uomini fortemente appassionati per l’oggetto a cui tendono, poiché la luce dell’attenzione rischiara un solo oggetto, lasciando gli altri oscuri. Servono parimente alle menti piú elevate, perché hanno acquistata l’abitudine di scorrere rapidamente su molti oggetti in una volta, ed hanno la facilità di far contrastare molti sentimenti parziali gli uni cogli altri, talché il risultato, che è l’azione, è meno pericoloso ed incerto. Egli è dunque di somma importanza la vicinanza del delitto e della pena, se si vuole che nelle rozze menti volgari, alla seducente pittura di un tal delitto vantaggioso, immediatamente riscuotasi l’idea associata della pena. Il lungo ritardo non produce altro effetto che di sempre piú disgiungere queste due idee, e quantunque faccia impressione il castigo d’un delitto, la fa meno come castigo che come spettacolo, e non la fa che dopo indebolito negli animi degli spettatori l’orrore di un tal delitto particolare, che servirebbe a rinforzare il sentimento della pena. Un altro principio serve mirabilmente a stringere sempre piú l’importante connessione tra ‘ l misfatto e la pena, cioè che questa sia conforme quanto piú si possa alla natura del delitto. Questa analogia facilita mirabilmente il contrasto che dev’essere tra la spinta al delitto e la ripercussione della pena, cioè che questa allontani e conduca l’animo ad un fine opposto di quello per dove cerca d’incamminarlo la seducente idea dell’infrazione della legge.

CAPITOLO XX VIOLENZE. Altri delitti sono attentati contro la persona, altri contro le sostanze. I primi debbono infallibilmente esser puniti con pene corporali: né il grande né il ricco debbono poter mettere a prezzo gli attentati contro il debole ed il povero; altrimenti le ricchezze, che sotto la tutela delle leggi sono il premio dell’industria, diventano l’alimento della tirannia. Non vi è libertà ogni qual volta le leggi permettono che in alcuni eventi l’uomo cessi di esser persona e diventi cosa: vedrete allora l’industria del potente tutta rivolta a far sortire dalla folla delle combinazioni civili quelle che la legge gli dà in suo favore. Questa scoperta è il magico segreto che cangia i cittadini in animali di servigio, che in mano del forte è la catena con cui lega le azioni degl’incauti e dei deboli. Questa è la ragione per cui in alcuni governi, che hanno tutta l’apparenza di libertà, la tirannia sta nascosta o s’introduce non prevista in qualche angolo negletto dal legislatore, in cui insensibilmente prende forza e s’ingrandisce. Gli uomini mettono per lo piú gli argini piú sodi all’aperta tirannia, ma non veggono l’insetto impercettibile che gli rode ed apre una tanto piú sicura quanto piú occulta strada al fiume inondatore.

CAPITOLO XXI PENE DEI NOBILI. Quali saranno dunque le pene dovute ai delitti dei nobili, i privilegi dei quali formano gran parte delle leggi delle nazioni? Io qui non esaminerò se questa distinzione ereditaria tra nobili e plebei sia utile in un governo o necessaria nella monarchia, se egli è vero che formi un potere intermedio, che limiti gli eccessi dei due estremi, o non piuttosto formi un ceto che, schiavo di se stesso e di altrui, racchiude ogni circolazione di credito e di speranza in uno strettissimo cerchio, simile a quelle feconde ed amene isolette che spiccano negli arenosi e vasti deserti d’Arabia, e che, quando sia vero che la disuguaglianza sia inevitabile o utile nelle società, sia vero altresí che ella debba consistere piuttosto nei ceti che negl’individui, fermarsi in una parte piuttosto che circolare per tutto il corpo politico, perpetuarsi piuttosto che nascere e distruggersi incessantemente. Io mi ristringerò alle sole pene dovute a questo rango, asserendo che esser debbono le medesime pel primo e per l’ultimo cittadino. Ogni distinzione sia negli onori sia nelle ricchezze perché sia legittima suppone un’anteriore uguaglianza fondata sulle leggi, che considerano tutti i sudditi come egualmente dipendenti da esse. Si deve supporre che gli uomini che hanno rinunziato al naturale loro dispotismo abbiano detto: chi sarà piú industrioso abbia maggiori onori, e la fama di lui risplenda ne’ suoi successori; ma chi è piú felice o piú onorato speri di piú, ma non tema meno degli altri di violare quei patti coi quali è sopra gli altri sollevato. Egli è vero che tali decreti non emanarono in una dieta del genere umano, ma tali decreti esistono negl’immobili rapporti delle cose, non distruggono quei vantaggi che si suppongono prodotti dalla nobiltà e ne impediscono gl’inconvenienti; rendono formidabili le leggi chiudendo ogni strada all’impunità. A chi dicesse che la medesima pena data al nobile ed al plebeo non è realmente la stessa per la diversità dell’educazione, per l’infamia che spandesi su di un’illustre famiglia, risponderei che la sensibilità del reo non è la misura delle pene, ma il pubblico danno, tanto maggiore quanto è fatto da chi è piú favorito; e che l’uguaglianza delle pene non può essere che estrinseca, essendo realmente diversa in ciascun individuo; che l’infamia di una famiglia può esser tolta dal sovrano con dimostrazioni pubbliche di benevolenza all’innocente famiglia del reo. E chi non sa che le sensibili formalità tengon luogo di ragioni al credulo ed ammiratore popolo?

CAPITOLO XXII FURTI. I furti che non hanno unito violenza dovrebbero esser puniti con pena pecuniaria. Chi cerca d’arricchirsi dell’altrui dovrebbe esser impoverito del proprio. Ma come questo non è per l’ordinario che il delitto della miseria e della disperazione, il delitto di quella infelice parte di uomini a cui il diritto di proprietà ( terribile, e forse non necessario diritto) non ha lasciato che una nuda esistenza, ma come le pene pecuniarie accrescono il numero dei rei al di sopra di quello de’ delitti e che tolgono il pane agl’innocenti per toglierlo agli scellerati, la pena piú opportuna sarà quell’unica sorta di schiavitù che si possa chiamar giusta, cioè la schiavitù per un tempo delle opere e della persona alla comune società, per risarcirla colla propria e perfetta dipendenza dell’ingiusto dispotismo usurpato sul patto sociale. Ma quando il furto sia misto di violenza, la pena dev’essere parimente un misto di corporale e di servile. Altri scrittori prima di me hanno dimostrato l’evidente disordine che nasce dal non distinguere le pene dei furti violenti da quelle dei furti dolosi facendo l’assurda equazione di una grossa somma di denaro colla vita di un uomo; ma non è mai superfluo il ripetere ciò che non è quasi mai stato eseguito. Le macchine politiche conservano piú d’ogni altra il moto concepito e sono le piú lente ad acquistarne un nuovo. Questi sono delitti di differente natura, ed è certissimo anche in politica quell’assioma di matematica, che tralle quantità eterogenee vi è l’infinito che le separa.

CAPITOLO XXIII INFAMIA. Le ingiurie personali e contrarie all’onore, cioè a quella giusta porzione di suffragi che un cittadino ha dritto di esigere dagli altri, debbono essere punite coll’infamia. Quest’infamia è un segno della pubblica disapprovazione che priva il reo de’ pubblici voti, della confidenza della patria e di quella quasi fraternità che la società inspira. Ella non è in arbitrio della legge. Bisogna dunque che l’infamia della legge sia la stessa che quella che nasce dai rapporti delle cose, la stessa che la morale universale, o la particolare dipendente dai sistemi particolari, legislatori delle volgari opinioni e di quella tal nazione che inspirano. Se l’una è differente dall’altra, o la legge perde la pubblica venerazione, o l’idee della morale e della probità svaniscono, ad onta delle declamazioni che mai non resistono agli esempi. Chi dichiara infami azioni per sé indifferenti sminuisce l’infamia delle azioni che son veramente tali. Le pene d’infamia non debbono essere né troppo frequenti né cadere sopra un gran numero di persone in una volta: non il primo, perché gli effetti reali e troppo frequenti delle cose d’opinione indeboliscono la forza della opinione medesima, non il secondo, perché l’infamia di molti si risolve nella infamia. Le pene corporali e dolorose non devono darsi a quei delitti che, fondati sull’orgoglio, traggono dal dolore istesso gloria ed alimento, ai quali convengono il ridicolo e l’infamia, pene che frenano l’orgoglio dei fanatici coll’orgoglio degli spettatori e dalla tenacità delle quali appena con lenti ed ostinati sforzi la verità stessa si libera. Cosí forze opponendo a forze ed opinioni ad opinioni il saggio legislatore rompa l’ammirazione e la sorpresa nel popolo cagionata da un falso principio, i ben dedotti conseguenti del quale sogliono velarne al volgo l’originaria Ecco la maniera di non confondere i rapporti e la natura invariabile delle cose, che non essendo limitata dal tempo ed operando incessantemente, confonde e svolge tutti i limitati regolamenti che da lei si scostano. Non sono le sole arti di gusto e di piacere che hanno per principio universale l’imitazione fedele della natura, ma la politica istessa, almeno la vera e la durevole, è soggetta a questa massima generale, poiché ella non è altro che l’arte di meglio dirigere e di rendere conspiranti i sentimenti immutabili degli uomini.

CAPITOLO XXIV OZIOSI. Chi turba la tranquillità pubblica, chi non ubbidisce alle leggi, cioè alle condizioni con cui gli uomini si soffrono scambievolmente e si difendono, quegli dev’esser escluso dalla società, cioè dev’essere bandito. Questa è la ragione per cui i saggi governi non soffrono, nel seno del travaglio e dell’industria, quel genere di ozio politico confuso dagli austeri declamatori coll’ozio delle ricchezze accumulate dall’industria, ozio necessario ed utile a misura che la società si dilata e l’amministrazione si ristringe. Io chiamo ozio politico quello che non contribuisce alla società né col travaglio né colla ricchezza, che acquista senza giammai perdere, che, venerato dal volgo con stupida ammirazione, risguardato dal saggio con isdegnosa compassione per gli esseri che ne sono la vittima, che, essendo privo di quello stimolo della vita attiva che è la necessità di custodire o di aumentare i comodi della vita, lascia alle passioni di opinione, che non sono le meno forti, tutta la loro energia. Non è ozioso politicamente chi gode dei frutti dei vizi o delle virtú de’ propri antenati, e vende per attuali piaceri il pane e l’esistenza alla industriosa povertà, ch’esercita in pace la tacita guerra d’industria colla opulenza, in vece della incerta e sanguinosa colla forza. E però non l’austera e limitata virtú di alcuni censori, ma le leggi debbono definire qual sia l’ozio da punirsi. Sembra che il bando dovrebbe esser dato a coloro i quali, accusati di un atroce delitto, hanno una grande probabilità, ma non la certezza contro di loro, di esser rei; ma per ciò fare è necessario uno statuto il meno arbitrario e il piú preciso che sia possibile, il quale condanni al bando chi ha messo la nazione nella fatale alternativa o di temerlo o di offenderlo, lasciandogli però il sacro diritto di provare l’innocenza sua. Maggiori dovrebbon essere i motivi contro un nazionale che contro un forestiere, contro un incolpato per la prima volta che contro chi lo fu piú volte.

Una lezione per i nostri legislatori, scrive Vincenzo Vitale il 19 Agosto 2017su "Il Dubbio".  Commento ai capitoli 25, 26 e 27. Una delle pene abituali dell’epoca di Beccaria era il bando, che veniva irrogato a coloro che venivano riconosciuti colpevoli di delitti dotati di particolare disvalore sociale, e che producevano un turbamento della pubblica tranquillità. Si trattava ad una pena simile a quella dell’esilio, tradizionale negli ordinamenti europei del diritto comune e che, a sua volta, traeva ispirazione dall’antichissimo istituto dell’ostracismo, vale a dire da quel referendum al quale erano chiamati i cittadini ateniesi allo scopo, appunto, di bandire dalla città un soggetto considerato indesiderabile. Beccaria non crede alla utilità sociale del bando e, ancor meno, a ciò che inevitabilmente ne era la conseguenza giuridica forse più penalizzante: la confisca dei beni del soggetto bandito. Infatti, tale confisca gli appare inaccettabile per almeno due motivazioni. Innanzitutto, perché finisce col colpire anche soggetti diversi da quello colpito dal bando, vale a dire il coniuge, i figli e in genere i parenti o coloro che avrebbero potuto godere di diritti sui beni confiscati. In secondo luogo, perché, privando costoro dei diritti ereditari sui beni confiscati, ne causa la completa rovina, collocandoli in una situazione di tale disperazione da indurli a commettere eventuali delitti allo scopo di sopravvivere o di vendicarsi del male ricevuto, senza che loro ne avessero commesso alcuno. Insomma, il bando e ancor più la conseguente confisca appaiono a Beccaria del tutto irrazionali e perciò inutili e dannosi alla compagine sociale. Nel tentativo poi di spiegare la cornice concettuale all’interno della quale nasce la propria avversione alle due pene sopra menzionate, Beccaria opera una lunga digressione di carattere non giuridico, ma sociologico o, forse, di filosofia sociale, dagli esiti tutt’altro che disprezzabili, e che testimoniano la versatilità del suo ingegno. In sintesi, Beccaria oppone una concezione angusta e asfittica di società – quella che la vede come la somma di più famiglie – ad una invece ampia e liberante – quella che la vede come l’insieme di molti esseri umani. La differenza non è di poco conto, in quanto se si considerano quali componenti sociali in prima istanza le famiglie, ne verrà che gli individui, prima ancora di essere parte della società, saranno parte della famiglia e perciò saranno sottoposti prima al capo della famiglia e soltanto dopo al potere dello Stato: una concezione familistica della società che Beccaria condanna duramente e senza mezzi termini, quale corrosiva del legame sociale autentico e universale. Per quanto certamente Beccaria nulla potesse sapere di mafia e di simili fenomeni sociali, la sua analisi rimane valida ancor oggi soprattutto in relazione ai legami familistici che, nell’ottica della cultura mafiosa, sono destinati sempre e in ogni caso a prevalere su quelli sociali e perfino a negarli o a combatterli. Beccaria insiste poi molto su una circostanza dettata dallo spirito utilitaristico a cui è improntata tutta la sua opera: la pena produce efficacia intimidatrice maggiore non in ragione della sua crudeltà, ma della sua certezza. Si tratta di una considerazione che il legislatore del nostro tempo dimentica in modo che direi perfino studiato e sistematico. Si pensi alle numerose occasioni in cui, dopo il ripetersi di un certo delitto, il parlamento si affretta ad aumentare la pena per esso prevista dal codice penale: Beccaria ne riderebbe sconsolato. E avrebbe perfettamente ragione. Infatti, mai si è visto che un soggetto si astenga dal delinquere – se ne abbia sufficiente spinta psicologica – per il timore della gravità della pena, se ragionevolmente possa ritenere che di fatto non la sconterà mai. Al contrario, anche una pena relativamente mite è in grado di scoraggiare il futuro delinquente, se questi sia ragionevolmente certo che ne sarà effettivo destinatario. Dal punto di vista della sua gravità, la pena otterrà il suo effetto – conclude il giurista milanese – sol che “il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto”; e, fedele al suo spirito matematizzante, aggiunge che in questo eccesso di male “dev’essere calcolata l’infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe”. Il legislatore del nostro tempo ignora completamente queste osservazioni assai calzanti e dotate di buon senso. E, forse, per indurlo a prestarvi attenzione, bisognerebbe fermasse il suo sguardo sulla conclusione finale di Beccaria il quale sagacemente annota: “Tutto il di più è dunque superfluo e perciò tirannico”. Il nostro parlamento lo ignora.

«Non è la crudeltà delle pene che frena i delitti!».

CAPITOLO XXV BANDO E CONFISCHE. Ma chi è bandito ed escluso per sempre dalla società di cui era membro, dev’egli esser privato dei suoi beni? Una tal questione è suscettibile di differenti aspetti. Il perdere i beni è una pena maggiore di quella del bando; vi debbono dunque essere alcuni casi in cui, proporzionatamente a’ delitti, vi sia la perdita di tutto o di parte dei beni, ed alcuni no. La perdita del tutto sarà quando il bando intimato dalla legge sia tale che annienti tutt’i rapporti che sono tra la società e un cittadino delinquente; allora muore il cittadino e resta l’uomo, e rispetto al corpo politico deve produrre lo stesso effetto che la morte naturale. Parrebbe dunque che i beni tolti al reo dovessero toccare ai legittimi successori piuttosto che al principe, poiché la morte ed un tal bando sono lo stesso riguardo al corpo politico. Ma non è per questa sottigliezza che oso disapprovare le confische dei beni. Se alcuni hanno sostenuto che le confische sieno state un freno alle vendette ed alle prepotenze private, non riflettono che, quantunque le pene producano un bene, non però sono sempre giuste, perché per esser tali debbono esser necessarie, ed un’utile ingiustizia non può esser tollerata da quel legislatore che vuol chiudere tutte le porte alla vigilante tirannia, che lusinga col bene momentaneo e colla felicità di alcuni illustri, sprezzando l’esterminio futuro e le lacrime d’infiniti oscuri. Le confische mettono un prezzo sulle teste dei deboli, fanno soffrire all’innocente la pena del reo e pongono gl’innocenti medesimi nella disperata necessità di commettere i delitti. Qual piú tristo spettacolo che una famiglia strascinata all’infamia ed alla miseria dai delitti di un capo, alla quale la sommissione ordinata dalle leggi impedirebbe il prevenirgli, quand’anche vi fossero i mezzi per farlo!

CAPITOLO XXVI DELLO SPIRITO DI FAMIGLIA. Queste funeste ed autorizzate ingiustizie furono approvate dagli uomini anche piú illuminati, ed esercitate dalle repubbliche piú libere, per aver considerato piuttosto la società come un’unione di famiglie che come un’unione di uomini. Vi siano cento mila uomini, o sia ventimila famiglie, ciascuna delle quali è composta di cinque persone, compresovi il capo che la rappresenta: se l’associazione è fatta per le famiglie, vi saranno ventimila uomini e ottanta mila schiavi; se l’associazione è di uomini, vi saranno cento mila cittadini e nessuno schiavo. Nel primo caso vi sarà una repubblica, e ventimila piccole monarchie che la compongono; nel secondo lo spirito repubblicano non solo spirerà nelle piazze e nelle adunanze della nazione, ma anche nelle domestiche mura, dove sta gran parte della felicità o della miseria degli uomini. Nel primo caso, come le leggi ed i costumi sono l’effetto dei sentimenti abituali dei membri della repubblica, o sia dei capi della famiglia, lo spirito monarchico s’introdurrà a poco a poco nella repubblica medesima; e i di lui effetti saranno frenati soltanto dagl’interessi opposti di ciascuno, ma non già da un sentimento spirante libertà ed uguaglianza. Lo spirito di famiglia è uno spirito di dettaglio e limitato a’ piccoli fatti. Lo spirito regolatore delle repubbliche, padrone dei principii generali, vede i fatti e gli condensa nelle classi principali ed importanti al bene della maggior parte. Nella repubblica di famiglie i figli rimangono nella potestà del capo, finché vive, e sono costretti ad aspettare dalla di lui morte una esistenza dipendente dalle sole leggi. Avezzi a piegare ed a temere nell’età piú verde e vigorosa, quando i sentimenti son meno modificati da quel timore di esperienza che chiamasi moderazione, come resisteranno essi agli ostacoli che il vizio sempre oppone alla virtú nella languida e cadente età, in cui anche la disperazione di vederne i frutti si oppone ai vigorosi cambiamenti? Quando la repubblica è di uomini, la famiglia non è una subordinazione di comando, ma di contratto, e i figli, quando l’età gli trae dalla dipendenza di natura, che è quella della debolezza e del bisogno di educazione e di difesa, diventano liberi membri della città, e si assoggettano al capo di famiglia, per parteciparne i vantaggi, come gli uomini liberi nella grande società. Nel primo caso i figli, cioè la piú gran parte e la piú utile della nazione, sono alla discrezione dei padri, nel secondo non sussiste altro legame comandato che quel sacro ed inviolabile di somministrarci reciprocamente i necessari soccorsi, e quello della gratitudine per i benefici ricevuti, il quale non è tanto distrutto dalla malizia del cuore umano, quanto da una mal intesa soggezione voluta dalle leggi. Tali contradizioni fralle leggi di famiglia e le fondamentali della repubblica sono una feconda sorgente di altre contradizioni fralla morale domestica e la pubblica, e però fanno nascere un perpetuo conflitto nell’animo di ciascun uomo. La prima inspira soggezione e timore, la seconda coraggio e libertà; quella insegna a ristringere la beneficenza ad un piccol numero di persone senza spontanea scelta, questa a stenderla ad ogni classe di uomini; quella comanda un continuo sacrificio di se stesso a un idolo vano, che si chiama bene di famiglia, che spesse volte non è il bene d’alcuno che la compone; questa insegna di servire ai propri vantaggi senza offendere le leggi, o eccita ad immolarsi alla patria col premio del fanatismo, che previene l’azione. Tali contrasti fanno che gli uomini si sdegnino a seguire la virtú che trovano inviluppata e confusa, e in quella lontananza che nasce dall’oscurità degli oggetti sí fisici che morali. Quante volte un uomo, rivolgendosi alle sue azioni passate, resta attonito di trovarsi malonesto! A misura che la società si moltiplica, ciascun membro diviene piú piccola parte del tutto, e il sentimento repubblicano si sminuisce proporzionalmente, se cura non è delle leggi di rinforzarlo. Le società hanno come i corpi umani i loro limiti circonscritti, al di là de’ quali crescendo, l’economia ne è necessariamente disturbata. Sembra che la massa di uno stato debba essere in ragione inversa della sensibilità di chi lo compone, altrimenti, crescendo l’una e l’altra, le buone leggi troverebbono nel prevenire i delitti un ostacolo nel bene medesimo che hanno prodotto. Una repubblica troppo vasta non si salva dal dispotismo che col sottodividersi e unirsi in tante repubbliche federative. Ma come ottener questo? Da un dittatore dispotico che abbia il coraggio di Silla, e tanto genio d’edificare quant’egli n’ebbe per distruggere. Un tal uomo, se sarà ambizioso, la gloria di tutt’i secoli lo aspetta, se sarà filosofo, le benedizioni de’ suoi cittadini lo consoleranno della perdita dell’autorità, quando pure non divenisse indifferente alla loro ingratitudine. A misura che i sentimenti che ci uniscono alla nazione s’indeboliscono, si rinforzano i sentimenti per gli oggetti che ci circondano, e però sotto il dispotismo piú forte le amicizie sono piú durevoli, e le virtú sempre mediocri di famiglia sono le piú comuni o piuttosto le sole. Da ciò può ciascuno vedere quanto fossero limitate le viste della piú parte dei legislatori.

CAPITOLO XXVII DOLCEZZA DELLE PENE. Ma il corso delle mie idee mi ha trasportato fuori del mio soggetto, al rischiaramento del quale debbo affrettarmi. Uno dei piú gran freni dei delitti non è la crudeltà delle pene, ma l’infallibilità di esse, e per conseguenza la vigilanza dei magistrati, e quella severità di un giudice inesorabile, che, per essere un’utile virtú, dev’essere accompagnata da una dolce legislazione. La certezza di un castigo, benché moderato, farà sempre una maggiore impressione che non il timore di un altro piú terribile, unito colla speranza dell’impunità; perché i mali, anche minimi, quando son certi, spaventano sempre gli animi umani, e la speranza, dono celeste, che sovente ci tien luogo di tutto, ne allontana sempre l’idea dei maggiori, massimamente quando l’impunità, che l’avarizia e la debolezza spesso accordano, ne aumenti la forza. L’atrocità stessa della pena fa che si ardisca tanto di piú per ischivarla, quanto è grande il male a cui si va incontro; fa che si commettano piú delitti, per fuggir la pena di un solo. I paesi e i tempi dei piú atroci supplicii furon sempre quelli delle piú sanguinose ed inumane azioni, poiché il medesimo spirito di ferocia che guidava la mano del legislatore, reggeva quella del parricida e del sicario. Sul trono dettava leggi di ferro ad anime atroci di schiavi, che ubbidivano. Nella privata oscurità stimolava ad immolare i tiranni per crearne dei nuovi. A misura che i supplicii diventano piú crudeli, gli animi umani, che come i fluidi si mettono sempre a livello cogli oggetti che gli circondano, s’incalliscono, e la forza sempre viva delle passioni fa che, dopo cent’anni di crudeli supplicii, la ruota spaventi tanto quanto prima la prigionia. Perché una pena ottenga il suo effetto basta che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto, e in questo eccesso di male dev’essere calcolata l’infallibilità della pena e la perdita del bene che il delitto produrrebbe. Tutto il di piú è dunque superfluo e perciò tirannico. Gli uomini si regolano per la ripetuta azione dei mali che conoscono, e non su quelli che ignorano. Si facciano due nazioni, in una delle quali, nella scala delle pene proporzionata alla scala dei delitti, la pena maggiore sia la schiavitù perpetua, e nell’altra la ruota. Io dico che la prima avrà tanto timore della sua maggior pena quanto la seconda; e se vi è una ragione di trasportar nella prima le pene maggiori della seconda, l’istessa ragione servirebbe per accrescere le pene di quest’ultima, passando insensibilmente dalla ruota ai tormenti piú lenti e piú studiati, e fino agli ultimi raffinamenti della scienza troppo conosciuta dai tiranni. Due altre funeste conseguenze derivano dalla crudeltà delle pene, contrarie al fine medesimo di prevenire i delitti. La prima è che non è sí facile il serbare la proporzione essenziale tra il delitto e la pena, perché, quantunque un’industriosa crudeltà ne abbia variate moltissimo le specie, pure non possono oltrepassare quell’ultima forza a cui è limitata l’organizzazione e la sensibilità umana. Giunto che si sia a questo estremo, non si troverebbe a’ delitti piú dannosi e piú atroci pena maggiore corrispondente, come sarebbe d’uopo per prevenirgli. L’altra conseguenza è che la impunità stessa nasce dall’atrocità dei supplicii. Gli uomini sono racchiusi fra certi limiti, sí nel bene che nel male, ed uno spettacolo troppo atroce per l’umanità non può essere che un passeggiero furore, ma non mai un sistema costante quali debbono essere le leggi; che se veramente son crudeli, o si cangiano, o l’impunità fatale nasce dalle leggi medesime. Chi nel leggere le storie non si raccapriccia d’orrore pe’ barbari ed inutili tormenti che da uomini, che si chiamavano savi, furono con freddo animo inventati ed eseguiti? Chi può non sentirsi fremere tutta la parte la piú sensibile nel vedere migliaia d’infelici che la miseria, o voluta o tollerata dalle leggi, che hanno sempre favorito i pochi ed oltraggiato i molti, trasse ad un disperato ritorno nel primo stato di natura, o accusati di delitti impossibili e fabbricati dalla timida ignoranza, o rei non d’altro che di esser fedeli ai propri principii, da uomini dotati dei medesimi sensi, e per conseguenza delle medesime passioni, con meditate formalità e con lente torture lacerati, giocondo spettacolo di una fanatica moltitudine?

Pena di morte: né utile né necessaria, scrive Vincenzo Vitale il 22 Agosto 2017 su "Il Dubbio".  Siamo così giunti al cuore dei temi affrontati da Beccaria, al punto che potrebbe affermarsi, senza tema di esagerare, che ogni altro argomento da lui espresso tendeva verso questo come scopo ultimo da trattare: la pena di morte. Gli interrogativi sulla pena di morte attraversano tutta la storia del pensiero occidentale, il quale da sempre si è preoccupato di reperire un fondamento teorico ad una pratica che per molti secoli aveva soddisfatto la gestione del potere politico. Non è certo questa la sede per censire le innumerevoli posizioni che sono state al riguardo elaborate, ma un punto fermo va comunque messo: Beccaria non propone alcun argomento teorico o filosofico contro la pena di morte, limitandosi a respingerla per motivazioni di carattere pratico e utilitaristico. Ciò non è senza rilievo per diverse ragioni. Infatti, per un verso, si tratta di argomentazioni che possono essere ritenute valide da chiunque e dovunque, fatto questo particolarmente importante se si pensa che in quel tempo non vi era Stato ove la pena di morte fosse sconosciuta: il primo ad abolirla, come è noto, fu il Granducato di Toscana, per mano di Leopoldo, molto influenzato proprio dalle idee di Beccaria, il 30 novembre 1786. Per altro verso, proporre motivi legati alla non utilità della pena di morte, espelleva in modo determinante dal dibattito ogni argomento di carattere teorico che potesse essere escogitato a favore, restringendo in modo sensibile il territorio del confronto tra i favorevoli e i contrari. Ebbene, Beccaria rigetta la pena di morte essenzialmente con due motivazioni, entrambe molto pratiche. Innanzitutto, perché l’effetto deterrente che molti sostengono essa abbia, inducendo la collettività ad astenersi dal commettere gravi delitti, si fa cogliere come inesistente. Con fine occhio di osservatore delle dinamiche sociali e psicologiche, Beccaria infatti rileva che la pena di morte “con la sua forza, non supplisce alla pronta dimenticanza”, e che essa “non ha mai distolti gli uomini determinati dall’offendere la società”. Il giurista milanese sa bene che ciò che viene più difficilmente dimenticato dagli uomini non è un male grave e puntualmente individuato nel tempo – quale una esecuzione capitale, che appunto egli definisce uno “spettacolo”- ma la visione di un male, pur meno lacerante, ma duraturo nel tempo, tale da generare uno sgomento non transeunte – quale appunto una “perpetua schiavitù”, che oggi diremmo ergastolo ( il quale, non a caso, va abolito oggi proprio in quanto rappresenta una sorta di pena di morte diluita nel tempo). La pena di morte non gode allora in punto di fatto di una reale forza deterrente verso la collettività, non mostra alcuna utilità. Da un secondo punto di vista, Beccaria ritiene assurdo in chiave psicologica e sociale che le stesse leggi dello Strato che puniscono l’omicidio, ne possano poi ordinare un altro allo scopo di sanzionare il primo. Anche da questa prospettiva, la pena di morte mostra tutta la sua inconcludenza e la sua inutilità. Infatti, si palesa del tutto inutile tentare di scoraggiare i sudditi dal commettere gravi reati, utilizzando leggi che, per punirli, legalizzassero proprio il comportamento punito. Si tratta di una insanabile contraddizione che Beccaria non manca di denunciare non tanto in sede teorica, ma di pratica utilità, allo scopo di far intendere ai governanti come sia impossibile proporre un simile schema di pseudo- ragionamento, destinato a fallire in partenza appunto perché autocontraddittorio. Come si è detto, queste idee dilagarono in Europa e, poco alla volta, tutti gli Stati, anche se a volte con grande lentezza, si risolsero ad abolire la pena di morte.  Beccaria, da uomo esperto del mondo, sapeva bene quanta fatica ci sarebbe voluta per giungere a tale esito e, ricorrendo ad una immagine perfino poetica, scrive che “la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso pelago di errori, fra i quali poche e confuse, e a grandi intervalli distanti, verità soprannuotano”. Egli non si faceva illusioni e sapeva quante resistenze si sarebbero incontrate lungo la via dell’abolizione delle esecuzioni capitali.  Oggi, se essere europei espone a tante critiche e stigmatizza tante incapacità politiche, tuttavia giustifica un orgoglio: l’Europa è l’unico continente in cui tutti gli Stati – nessuno escluso – hanno abolito la pena di morte. Questa si chiama civiltà: e la dobbiamo a Beccaria.

«La pena di morte non è né utile né necessaria»

CAPITOLO XXVIII DELLA PENA DI MORTE. Questa inutile prodigalità di supplicii, che non ha mai resi migliori gli uomini, mi ha spinto ad esaminare se la morte sia veramente utile e giusta in un governo bene organizzato. Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili? Non certamente quello da cui risulta la sovranità e le leggi. Esse non sono che una somma di minime porzioni della privata libertà di ciascuno; esse rappresentano la volontà generale, che è l’aggregato delle particolari. Chi è mai colui che abbia voluto lasciare ad altri uomini l’arbitrio di ucciderlo? Come mai nel minimo sacrificio della libertà di ciascuno vi può essere quello del massimo tra tutti i beni, la vita? E se ciò fu fatto, come si accorda un tal principio coll’altro, che l’uomo non è padrone di uccidersi, e doveva esserlo se ha potuto dare altrui questo diritto o alla società intera? Non è dunque la pena di morte un diritto, mentre ho dimostrato che tale essere non può, ma è una guerra della nazione con un cittadino, perché giudica necessaria o utile la distruzione del suo essere. Ma se dimostrerò non essere la morte né utile né necessaria, avrò vinto la causa dell’umanità. La morte di un cittadino non può credersi necessaria che per due motivi. Il primo, quando anche privo di libertà egli abbia ancora tali relazioni e tal potenza che interessi la sicurezza della nazione; quando la sua esistenza possa produrre una rivoluzione pericolosa nella forma di governo stabilita. La morte di qualche cittadino divien dunque necessaria quando la nazione ricupera o perde la sua libertà, o nel tempo dell’anarchia, quando i disordini stessi tengon luogo di leggi; ma durante il tranquillo regno delle leggi, in una forma di governo per la quale i voti della nazione siano riuniti, ben munita al di fuori e al di dentro dalla forza e dalla opinione, forse piú efficace della forza medesima, dove il comando non è che presso il vero sovrano, dove le ricchezze comprano piaceri e non autorità, io non veggo necessità alcuna di distruggere un cittadino, se non quando la di lui morte fosse il vero ed unico freno per distogliere gli altri dal commettere delitti, secondo motivo per cui può credersi giusta e necessaria la pena di morte. Quando la sperienza di tutt’i secoli, nei quali l’ultimo supplicio non ha mai distolti gli uomini determinati dall’offendere la società, quando l’esempio dei cittadini romani, e vent’anni di regno dell’imperatrice Elisabetta di Moscovia, nei quali diede ai padri dei popoli quest’illustre esempio, che equivale almeno a molte conquiste comprate col sangue dei figli della patria, non persuadessero gli uomini, a cui il linguaggio della ragione è sempre sospetto ed efficace quello dell’autorità, basta consultare la natura dell’uomo per sentire la verità della mia assersione. Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è piú facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggiero movimento. L’impero dell’abitudine è universale sopra ogni essere che sente, e come l’uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, cosí l’idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse. Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, ma il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno piú forte contro i delitti. Quell’efficace, perché spessissimo ripetuto ritorno sopra di noi medesimi, io stesso sarò ridotto a cosí lunga e misera condizione se commetterò simili misfatti, è assai piú possente che non l’idea della morte, che gli uomini veggon sempre in una oscura lontananza. La pena di morte fa un’impressione che colla sua forza non supplisce alla pronta dimenticanza, naturale all’uomo anche nelle cose piú essenziali, ed accelerata dalle passioni. Regola generale: le passioni violenti sorprendono gli uomini, ma non per lungo tempo, e però sono atte a fare quelle rivoluzioni che di uomini comuni ne fanno o dei Persiani o dei Lacedemoni; ma in un libero e tranquillo governo le impressioni debbono essere piú frequenti che forti. La pena di morte diviene uno spettacolo per la maggior parte e un oggetto di compassione mista di sdegno per alcuni; ambidue questi sentimenti occupano piú l’animo degli spettatori che non il salutare terrore che la legge pretende inspirare. Ma nelle pene moderate e continue il sentimento dominante è l’ultimo perché è il solo. Il limite che fissar dovrebbe il legislatore al rigore delle pene sembra consistere nel sentimento di compassione, quando comincia a prevalere su di ogni altro nell’animo degli spettatori d’un supplicio piú fatto per essi che per il reo. Perché una pena sia giusta non deve avere che quei soli gradi d’intensione che bastano a rimuovere gli uomini dai delitti; ora non vi è alcuno che, riflettendovi, scieglier possa la totale e perpetua perdita della propria libertà per quanto avvantaggioso possa essere un delitto: dunque l’intensione della pena di schiavitù perpetua sostituita alla pena di morte ha ciò che basta per rimuovere qualunque animo determinato; aggiungo che ha di piú: moltissimi risguardano la morte con viso tranquillo e fermo, chi per fanatismo, chi per vanità, che quasi sempre accompagna l’uomo al di là dalla tomba, chi per un ultimo e disperato tentativo o di non vivere o di sortir di miseria; ma né il fanatismo né la vanità stanno fra i ceppi o le catene, sotto il bastone, sotto il giogo, in una gabbia di ferro, e il disperato non finisce i suoi mali, ma gli comincia. L’animo nostro resiste piú alla violenza ed agli estremi ma passeggieri dolori che al tempo ed all’incessante noia; perché egli può per dir cosí condensar tutto se stesso per un momento per respinger i primi, ma la vigorosa di lui elasticità non basta a resistere alla lunga e ripetuta azione dei secondi. Colla pena di morte ogni esempio che si dà alla nazione suppone un delitto; nella pena di schiavitù perpetua un sol delitto dà moltissimi e durevoli esempi, e se egli è importante che gli uomini veggano spesso il poter delle leggi, le pene di morte non debbono essere molto distanti fra di loro: dunque suppongono la frequenza dei delitti, dunque perché questo supplicio sia utile bisogna che non faccia su gli uomini tutta l’impressione che far dovrebbe, cioè che sia utile e non utile nel medesimo tempo. Chi dicesse che la schiavitù perpetua è dolorosa quanto la morte, e perciò egualmente crudele, io risponderò che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù lo sarà forse anche di piú, ma questi sono stesi sopra tutta la vita, e quella esercita tutta la sua forza in un momento; ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa piú chi la vede che chi la soffre; perché il primo considera tutta la somma dei momenti infelici, ed il secondo è dall’infelicità del momento presente distratto dalla futura. Tutti i mali s’ingrandiscono nell’immaginazione, e chi soffre trova delle risorse e delle consolazioni non conosciute e non credute dagli spettatori, che sostituiscono la propria sensibilità all’animo incallito dell’infelice. Ecco presso a poco il ragionamento che fa un ladro o un assassino, i quali non hanno altro contrappeso per non violare le leggi che la forca o la ruota. So che lo sviluppare i sentimenti del proprio animo è un’arte che s’apprende colla educazione; ma perché un ladro non renderebbe bene i suoi principii, non per ciò essi agiscon meno. Quali sono queste leggi ch’io debbo rispettare, che lasciano un cosí grande intervallo tra me e il ricco? Egli mi nega un soldo che li cerco, e si scusa col comandarmi un travaglio che non conosce. Chi ha fatte queste leggi? Uomini ricchi e potenti, che non si sono mai degnati visitare le squallide capanne del povero, che non hanno mai diviso un ammuffito pane fralle innocenti grida degli affamati figliuoli e le lagrime della moglie. Rompiamo questi legami fatali alla maggior parte ed utili ad alcuni pochi ed indolenti tiranni, attacchiamo l’ingiustizia nella sua sorgente. Ritornerò nel mio stato d’indipendenza naturale, vivrò libero e felice per qualche tempo coi frutti del mio coraggio e della mia industria, verrà forse il giorno del dolore e del pentimento, ma sarà breve questo tempo, ed avrò un giorno di stento per molti anni di libertà e di piaceri. Re di un piccol numero, correggerò gli errori della fortuna, e vedrò questi tiranni impallidire e palpitare alla presenza di colui che con un insultante fasto posponevano ai loro cavalli, ai loro cani. Allora la religione si affaccia alla mente dello scellerato, che abusa di tutto, e presentandogli un facile pentimento ed una quasi certezza di eterna felicità, diminuisce di molto l’orrore di quell’ultima tragedia. Ma colui che si vede avanti agli occhi un gran numero d’anni, o anche tutto il corso della vita che passerebbe nella schiavitù e nel dolore in faccia a’ suoi concittadini, co’ quali vive libero e sociabile, schiavo di quelle leggi dalle quali era protetto, fa un utile paragone di tutto ciò coll’incertezza dell’esito de’ suoi delitti, colla brevità del tempo di cui ne goderebbe i frutti. L’esempio continuo di quelli che attualmente vede vittime della propria inavvedutezza, gli fa una impressione assai piú forte che non lo spettacolo di un supplicio che lo indurisce piú che non lo corregge. Non è utile la pena di morte per l’esempio di atrocità che dà agli uomini. Se le passioni o la necessità della guerra hanno insegnato a spargere il sangue umano, le leggi moderatrici della condotta degli uomini non dovrebbono aumentare il fiero esempio, tanto piú funesto quanto la morte legale è data con istudio e con formalità. Parmi un assurdo che le leggi, che sono l’espressione della pubblica volontà, che detestano e puniscono l’omicidio, ne commettono uno esse medesime, e, per allontanare i cittadini dall’assassinio, ordinino un pubblico assassinio. Quali sono le vere e le piú utili leggi? Quei patti e quelle condizioni che tutti vorrebbero osservare e proporre, mentre tace la voce sempre ascoltata dell’interesse privato o si combina con quello del pubblico. Quali sono i sentimenti di ciascuno sulla pena di morte? Leggiamoli negli atti d’indegnazione e di disprezzo con cui ciascuno guarda il carnefice, che è pure un innocente esecutore della pubblica volontà, un buon cittadino che contribuisce al ben pubblico, lo stromento necessario alla pubblica sicurezza al di dentro, come i valorosi soldati al di fuori. Qual è dunque l’origine di questa contradizione? E perché è indelebile negli uomini questo sentimento ad onta della ragione? Perché gli uomini nel piú secreto dei loro animi, parte che piú d’ogn’altra conserva ancor la forma originale della vecchia natura, hanno sempre creduto non essere la vita propria in potestà di alcuno fuori che della necessità, che col suo scettro di ferro regge l’universo. Che debbon pensare gli uomini nel vedere i savi magistrati e i gravi sacerdoti della giustizia, che con indifferente tranquillità fanno strascinare con lento apparato un reo alla morte, e mentre un misero spasima nelle ultime angosce, aspettando il colpo fatale, passa il giudice con insensibile freddezza, e fors’anche con segreta compiacenza della propria autorità, a gustare i comodi e i piaceri della vita? Ah!, diranno essi, queste leggi non sono che i pretesti della forza e le meditate e crudeli formalità della giustizia; non sono che un linguaggio di convenzione per immolarci con maggiore sicurezza, come vittime destinate in sacrificio, all’idolo insaziabile del dispotismo. L’assassinio, che ci vien predicato come un terribile misfatto, lo veggiamo pure senza ripugnanza e senza furore adoperato. Prevalghiamoci dell’esempio. Ci pareva la morte violenta una scena terribile nelle descrizioni che ci venivan fatte, ma lo veggiamo un affare di momento. Quanto lo sarà meno in chi, non aspettandola, ne risparmia quasi tutto ciò che ha di doloroso! Tali sono i funesti paralogismi che, se non con chiarezza, confusamente almeno, fanno gli uomini disposti a’ delitti, ne’ quali, come abbiam veduto, l’abuso della religione può piú che la religione medesima. Se mi si opponesse l’esempio di quasi tutt’i secoli e di quasi tutte le nazioni, che hanno data pena di morte ad alcuni delitti, io risponderò che egli si annienta in faccia alla verità, contro della quale non vi ha prescrizione; che la storia degli uomini ci dà l’idea di un immenso pelago di errori, fra i quali poche e confuse, e a grandi intervalli distanti, verità soprannuotano. Gli umani sacrifici furon comuni a quasi tutte le nazioni, e chi oserà scusargli? Che alcune poche società, e per poco tempo solamente, si sieno astenute dal dare la morte, ciò mi è piuttosto favorevole che contrario, perché ciò è conforme alla fortuna delle grandi verità, la durata delle quali non è che un lampo, in paragone della lunga e tenebrosa notte che involge gli uomini. Non è ancor giunta l’epoca fortunata, in cui la verità, come finora l’errore, appartenga al piú gran numero, e da questa legge universale non ne sono andate esenti fin ora che le sole verità che la Sapienza infinita ha voluto divider dalle altre col rivelarle. La voce di un filosofo è troppo debole contro i tumulti e le grida di tanti che son guidati dalla cieca consuetudine, ma i pochi saggi che sono sparsi sulla faccia della terra mi faranno eco nell’intimo de’ loro cuori; e se la verità potesse, fra gl’infiniti ostacoli che l’allontanano da un monarca, mal grado suo, giungere fino al suo trono, sappia che ella vi arriva co’ voti segreti di tutti gli uomini, sappia che tacerà in faccia a lui la sanguinosa fama dei conquistatori e che la giusta posterità gli assegna il primo luogo fra i pacifici trofei dei Titi, degli Antonini e dei Traiani. Felice l’umanità, se per la prima volta le si dettassero leggi, ora che veggiamo riposti su i troni di Europa monarchi benefici, animatori delle pacifiche virtú, delle scienze, delle arti, padri de’ loro popoli, cittadini coronati, l’aumento dell’autorità de’ quali forma la felicità de’ sudditi perché toglie quell’intermediario dispotismo piú crudele, perché men sicuro, da cui venivano soffogati i voti sempre sinceri del popolo e sempre fausti quando posson giungere al trono! Se essi, dico, lascian sussistere le antiche leggi, ciò nasce dalla difficoltà infinita di togliere dagli errori la venerata ruggine di molti secoli, ciò è un motivo per i cittadini illuminati di desiderare con maggiore ardore il continuo accrescimento della loro autorità.

Carcerazione preventiva e il limite della discrezionalità dei giudici, scrive Vincenzo Vitale il 23 Agosto 2017 su "Il Dubbio".  Il commento ai capitoli 29, 30 e 31. Come era naturale, Beccaria non manca poi di occuparsi di aspetti rilevanti della politica criminale non solo del suoi tempo, ma di ogni tempo, compreso il nostro. Così, il primo problema che il giurista milanese si pone è quello della cattura degli accusati dei delitti. E di una cosa egli è assolutamente certo. Il magistrato non può mai e in nessun caso esser designato arbitro dei casi e delle modalità della carcerazione preventiva di un accusato, dovendo invece essere le leggi a determinare come e quando questo possa legittimamente avvenire. In altre parole, Beccaria ritiene che la discrezionalità dei giudici nell’ambito della cattura preventiva dell’accusato debba esser ridotta a zero, dovendosi invece rimettere alle leggi ogni indicazione al riguardo. Ora, abbiamo già visto prima che l’idea che il giudice possa farsi semplice cinghia di trasmissione fra la legge e il fatto da giudicare sia improponibile, anche se Beccaria la ripropone ogni volta con forza, fedele all’insegnamento illuminista del suo tempo: ciò non potrà mai accadere per il semplice motivo che il giudice è un essere umano e, come tale, portatore di una visione del mondo specifica che mai potrà essere messa nel nulla. Tuttavia, l’insistenza di Beccaria in tal senso può rivestire comunque il carattere di una preziosa indicazione utilissima per il nostro tempo, il tempo che vede purtroppo il protagonismo di diversi magistrati far aggio sulle legittime pretese della legge. Anche oggi i giudici – se leggessero le pagine di Beccaria – dovrebbero cercare di limitare al massimo la propria libertà interpretativa, che a volte sfocia nella incomprensibilità dell’arbitrio, per prestare maggiore ascolto alle indicazioni della legge, come risultano dai testi scritti in lingua italiana: insomma, anche alle interpretazioni c’è un limite e questo non va impunemente valicato. A margine – per modo di dire – Beccaria lamenta poi che nel suo tempo nonostante l’accusato possa essere stato assolto da ogni addebito, ciononostante, porti seco una nota “d’infamia”. Lezione molto utile per il nostro tempo, un tempo in cui non basta essere assolti con formula piena per vedersi restituita quella credibilità sociale di cui si era stati ingiustamente spogliati. Ne sanno qualcosa coloro – e non son pochi – che dopo anni di calvario, sono stati riconosciuti del tutto estranei ai fatti contestati, ma che non hanno potuto pubblicizzare l’esito positivo con la stessa forza e capillare diffusione con cui invece fu pubblicizzato il loro arresto o la loro messa in stato d’accusa. Altro tema oggi scottante è quello della prescrizione dei delitti, ma Beccaria lo affronta con la serenità intellettuale che ne dimostra la libertà da ogni asservimento ideologico. Egli suddividendo i delitti in due grandi categorie – quelli più gravi che attaccano la vita e la incolumità e quelli meno gravi che attaccano i beni – difende una prescrizione più lunga per i primi e una più breve per i secondi. Non gli passa neppure per la testa di eliminarla del tutto o di ridurla drasticamente, come invece oggi alcuni Soloni del diritto italiano vorrebbero. Infine, in relazione a particolari delitti considerati di difficile dimostrabilità – quali l’adulterio o l’infanticidio – Beccaria sostiene giustamente che primo onere delle leggi non è punire chi commetta reati, ma cercare di prevenirne la commissione, attraverso un’opera attenta di politica sociale. Quale politica sociale abbiamo oggi in Italia, ammesso ce ne sia una, lasciamo ai commentatori odierni delle vicende politiche individuare. Insomma, da molti versanti, Beccaria parla non soltanto ai suoi contemporanei, ma anche a noi, lanciandoci come un guanto di sfida che sta a noi raccogliere. Il fatto è che in Italia nessuno lo raccoglie, probabilmente perché chi di ragione sa che con Beccaria sarebbe una sfida perduta in partenza. E perciò finge di non sentire e di non sapere.

Chi va in prigione e poi è assolto non può essere infamato per sempre.

CAPITOLO XXIX DELLA CATTURA. Un errore non meno comune che contrario al fine sociale, che è l’opinione della propria sicurezza, è il lasciare arbitro il magistrato esecutore delle leggi d’imprigionare un cittadino, di togliere la libertà ad un nemico per frivoli pretesti, e di lasciare impunito un amico ad onta degl’indizi piú forti di reità. La prigionia è una pena che per necessità deve, a differenza d’ogn’altra, precedere la dichiarazione del delitto, ma questo carattere distintivo non le toglie l’altro essenziale, cioè che la sola legge determini i casi nei quali un uomo è degno di pena. La legge dunque accennerà gl’indizi di un delitto che meritano la custodia del reo, che lo assoggettano ad un esame e ad una pena. La pubblica fama, la fuga, la stragiudiciale confessione, quella d’un compagno del delitto, le minaccie e la costante inimicizia con l’offeso, il corpo del delitto, e simili indizi, sono prove bastanti per catturare un cittadino; ma queste prove devono stabilirsi dalla legge e non dai giudici, i decreti de’ quali sono sempre opposti alla libertà politica, quando non sieno proposizioni particolari di una massima generale esistente nel pubblico codice. A misura che le pene saranno moderate, che sarà tolto lo squallore e la fame dalle carceri, che la compassione e l’umanità penetreranno le porte ferrate e comanderanno agl’inesorabili ed induriti ministri della giustizia, le leggi potranno contentarsi d’indizi sempre piú deboli per cattura- re. Un uomo accusato di un delitto, carcerato ed assolto non dovrebbe portar seco nota alcuna d’infamia. Quanti romani accusati di gravissimi delitti, trovati poi innocenti, furono dal popolo riveriti e di magistrature onorati! Ma per qual ragione è cosí diverso ai tempi nostri l’esito di un innocente? Perché sembra che nel presente sistema criminale, secondo l’opinione degli uomini, prevalga l’idea della forza e della prepotenza a quella della giustizia; perché si gettano confusi nella stessa caverna gli accusati e i convinti; perché la prigione è piuttosto un supplicio che una custodia del reo, e perché la forza interna tutrice delle leggi è separata dalla esterna difenditrice del trono e della nazione, quando unite dovrebbon essere. Cosí la prima sarebbe, per mezzo del comune appoggio delle leggi, combinata colla facoltà giudicativa, ma non dipendente da quella con immediata podestà, e la gloria, che accompagna la pompa, ed il fasto di un corpo militare toglierebbero l’infamia, la quale è piú attaccata al modo che alla cosa, come tutt’i popolari sentimenti; ed è provato dall’essere le prigionie militari nella comune opinione non cosí infamanti come le forensi. Durano ancora nel popolo, ne’ costumi e nelle leggi, sempre di piú di un secolo inferiori in bontà ai lumi attuali di una nazione, durano ancora le barbare impressioni e le feroci idee dei settentrionali cacciatori padri nostri. Alcuni hanno sostenuto che in qualunque luogo commettasi un delitto, cioè un’azione contraria alle leggi, possa essere punito; quasi che il carattere di suddito fosse indelebile, cioè sinonimo, anzi peggiore di quello di schiavo; quasi che uno potesse esser suddito di un dominio ed abitare in un altro, e che le di lui azioni potessero senza contradizione esser subordinate a due sovrani e a due codici sovente contradittori. Alcuni credono parimente che un’azione crudele fatta, per esempio, a Costantinopoli, possa esser punita a Parigi, per l’astratta ragione che chi offende l’umanità merita di avere tutta l’umanità inimica e l’esecrazione universale; quasiché i giudici vindici fossero della sensibilità degli uomini e non piuttosto dei patti che gli legano tra di loro. Il luogo della pena è il luogo del delitto, perché ivi solamente e non altrove gli uomini sono sforzati di offendere un privato per prevenire l’offesa pubblica. Uno scellerato, ma che non ha rotti i patti di una società di cui non era membro, può essere temuto, e però dalla forza superiore della società esiliato ed escluso, ma non punito colle formalità delle leggi vindici dei patti, non della malizia intrinseca delle azioni. Sogliono i rei di delitti piú leggieri esser puniti o nell’oscurità di una prigione, o mandati a dar esempio, con una lontana e però quasi inutile schiavitù, a nazioni che non hanno offeso. Se gli uomini non s’inducono in un momento a commettere i piú gravi delitti, la pubblica pena di un gran misfatto sarà considerata dalla maggior parte come straniera ed impossibile ad accaderle; ma la pubblica pena di delitti piú leggeri, ed a’ quali l’animo è piú vicino, farà un’impressione che, distogliendolo da questi, l’allontani viepiú da quegli. Le pene non devono solamente esser proporzionate fra loro ed ai delitti nella forza, ma anche nel modo d’infliggerle. Alcuni liberano dalla pena di un piccolo delitto quando la parte offesa lo perdoni, atto conforme alla beneficenza ed all’umanità, ma contrario al ben pubblico, quasi che un cittadino privato potesse egualmente togliere colla sua remissione la necessità dell’esempio, come può condonare il risarcimento dell’offesa. Il diritto di far punire non è di un solo, ma di tutti i cittadini o del sovrano. Egli non può che rinunziare alla sua porzione di diritto, ma non annullare quella degli altri.

CAPITOLO XXX PROCESSI E PRESCRIZIONE. Conosciute le prove e calcolata la certezza del delitto, è necessario concedere al reo il tempo e mezzi opportuni per giustificarsi; ma tempo cosí breve che non pregiudichi alla prontezza della pena, che abbiamo veduto essere uno de’ principali freni de’ delitti. Un mal inteso amore della umanità sembra contrario a questa brevità di tempo, ma svanirà ogni dubbio se si rifletta che i pericoli dell’innocenza crescono coi difetti della legislazione. Ma le leggi devono fissare un certo spazio di tempo, sí alla difesa del reo che alle prove de’ delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se egli dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto. Parimente quei delitti atroci, dei quali lunga resta la memoria negli uomini, quando sieno provati, non meritano alcuna prescrizione in favore del reo che si è sottratto colla fuga; ma i delitti minori ed oscuri devono togliere colla prescrizione l’incertezza della sorte di un cittadino, perché l’oscurità in cui sono stati involti per lungo tempo i delitti toglie l’esempio della impunità, rimane intanto il potere al reo di divenir migliore. Mi basta accennar questi principii, perché non può fissarsi un limite preciso che per una data legislazione e nelle date circostanze di una società; aggiungerò solamente che, provata l’utilità delle pene moderate in una nazione, le leggi che in proporzione dei delitti scemano o accrescono il tempo della prescrizione, o il tempo delle prove, formando cosí della carcere medesima o del volontario esilio una parte di pena, somministreranno una facile divisione di poche pene dolci per un gran numero di delitti. Ma questi tempi non cresceranno nell’esatta proporzione dell’atrocità de’ delitti, poiché la probabilità dei delitti è in ragione inversa della loro atrocità. Dovrà dunque scemarsi il tempo dell’esame e crescere quello della prescrizione, il che parrebbe una contradizione di quanto dissi, cioè che possono darsi pene eguali a delitti diseguali, valutando il tempo della carcere o della prescrizione, precedenti la sentenza, come una pena. Per ispiegare al lettore la mia idea, distinguo due classi di delitti: la prima è quella dei delitti atroci, e questa comincia dall’omicidio, e comprende tutte le ulteriori sceleraggini; la seconda è quella dei delitti minori. Questa distinzione ha il suo fondamento nella natura umana. La sicurezza della propria vita è un diritto di natura, la sicurezza dei beni è un diritto di società. Il numero de’ motivi che spingon gli uomini oltre il naturale sentimento di pietà è di gran lunga minore al numero de’ motivi che per la naturale avidità di esser felici gli spingono a violare un diritto, che non trovano ne’ loro cuori ma nelle convenzioni della società. La massima differenza di probabilità di queste due classi esige che si regolino con diversi principii: nei delitti piú atroci, perché piú rari, deve sminuirsi il tempo dell’esame per l’accrescimento della probabilità dell’innocenza del reo, e deve crescere il tempo della prescrizione, perché dalla definitiva sentenza della innocenza o reità di un uomo dipende il togliere la lusinga della impunità, di cui il danno cresce coll’atrocità del delitto. Ma nei delitti minori scemandosi la probabilità dell’innocenza del reo, deve crescere il tempo dell’esame e, scemandosi il danno dell’impunità, deve diminuirsi il tempo della prescrizione. Una tal distinzione di delitti in due classi non dovrebbe ammettersi, se altrettanto scemasse il danno dell’impunità quanto cresce la probabilità del delitto. Riflettasi che un accusato, di cui non consti né l’innocenza né la reità, benché liberato per mancanza di prove, può soggiacere per il medesimo delitto a nuova cattura e a nuovi esami, se emanano nuovi indizi indicati dalla legge, finché non passi il tempo della prescrizione fissata al suo delitto. Tale è almeno il temperamento che sembrami opportuno per difendere e la sicurezza e la libertà de’ sudditi, essendo troppo facile che l’una non sia favorita a spese dell’altra, cosicché questi due beni, che formano l’inalienabile ed ugual patrimonio di ogni cittadino, non siano protetti e custoditi l’uno dall’aperto o mascherato dispotismo, l’altro dalla turbolenta popolare anarchia.

CAPITOLO XXXI DELITTI DI PROVA DIFFICILE. In vista di questi principii strano parrà, a chi non riflette che la ragione non è quasi mai stata la legislatrice delle nazioni, che i delitti o piú atroci o piú oscuri e chimerici, cioè quelli de’ quali l’improbabilità è maggiore, sieno provati dalle conghietture e dalle prove piú deboli ed equivoche; quasiché le leggi e il giudice abbiano interesse non di cercare la verità, ma di provare il delitto; quasiché di condannare un innocente non vi sia un tanto maggior pericolo quanto la probabilità dell’innocenza supera la probabilità del reato. Manca nella maggior parte degli uomini quel vigore necessario egualmente per i grandi delitti che per le grandi virtú, per cui pare che gli uni vadan sempre contemporanei colle altre in quelle nazioni che piú si sostengono per l’attività del governo e delle passioni cospiranti al pubblico bene che per la massa loro o la costante bontà delle leggi. In queste le passioni indebolite sembran piú atte a mantenere che a migliorare la forma di governo. Da ciò si cava una conseguenza importante, che non sempre in una nazione i grandi delitti provano il suo deperimento. Vi sono alcuni delitti che sono nel medesimo tempo frequenti nella società e difficili a provarsi, e in questi la difficoltà della prova tien luogo della probabilità dell’innocenza, ed il danno dell’impunità essendo tanto meno valutabile quanto la frequenza di questi delitti dipende da principii diversi dal pericolo dell’impunità, il tempo dell’esame e il tempo della prescrizione devono diminuirsi egualmente. E pure gli adulterii, la greca libidine, che sono delitti di difficile prova, sono quelli che secondo i principii ricevuti ammettono le tiranniche presunzioni, le quasi-prove, le semi-prove ( quasi che un uomo potesse essere semi innocente o semi-reo, cioè semi punibile e semi-assolvibile), dove la tortura esercita il crudele suo impero nella persona dell’accusato, nei testimoni, e persino in tutta la famiglia di un infelice, come con iniqua freddezza insegnano alcuni dottori che si danno ai giudici per norma e per legge. L’adulterio è un delitto che, considerato politicamente, ha la sua forza e la sua direzione da due cagioni: le leggi variabili degli uomini e quella fortissima attrazione che spinge l’un sesso verso l’altro; simile in molti casi alla gravità motrice dell’universo, perché come essa diminuisce colle distanze, e se l’una modifica tutt’i movimenti de’ corpi, cosí l’altra quasi tutti quelli dell’animo, finché dura il di lei periodo; dissimile in questo, che la gravità si mette in equilibrio cogli ostacoli, ma quella per lo piú prende forza e vigore col crescere degli ostacoli medesimi. Se io avessi a parlare a nazioni ancora prive della luce della religione direi che vi è ancora un’altra differenza considerabile fra questo e gli altri delitti. Egli nasce dall’abuso di un bisogno costante ed universale a tutta l’umanità, bisogno anteriore, anzi fondatore della società medesima, laddove gli altri delitti distruttori di essa hanno un’origine piú determinata da passioni momentanee che da un bisogno naturale. Un tal bisogno sembra, per chi conosce la storia e l’uomo, sempre uguale nel medesimo clima ad una quantità costante. Se ciò fosse vero, inutili, anzi perniciose sarebbero quelle leggi e quei costumi che cercassero diminuirne la somma totale, perché il loro effetto sarebbe di caricare una parte dei propri e degli altrui bisogni, ma sagge per lo contrario sarebbero quelle che, per dir cosí, seguendo la facile inclinazione del piano, ne dividessero e diramassero la somma in tante eguali e piccole porzioni, che impedissero uniformemente in ogni parte e l’aridità e l’allagamento. La fedeltà coniugale è sempre proporzionata al numero ed alla libertà de’ matrimoni. Dove gli ereditari pregiudizi gli reggono, dove la domestica potestà gli combina e gli scioglie, ivi la galanteria ne rompe secretamente i legami ad onta della morale volgare, il di cui offetti, perdonando alle cagioni. Ma non vi è bisogno di tali riflessioni per chi, vivendo nella vera religione, ha piú sublimi motivi, che correggono la forza degli effetti naturali. L’azione di un tal delitto è cosí instantanea e misteriosa, cosí coperta da quel velo medesimo che le leggi hanno posto, velo necessario, ma fragile, e che aumenta il pregio della cosa in vece di scemarlo, le occasioni cosí facili, le conseguenze cosí equivoche, che è piú in mano del legislatore il prevenirlo che correggerlo. Regola generale: in ogni delitto che, per sua natura, dev’essere il piú delle volte impunito, la pena diviene un incentivo. Ella è proprietà della nostra immaginazione che le difficoltà, se non sono insormontabili o troppo difficili rispetto alla pigrizia d’animo di ciascun uomo, eccitano piú vivamente l’immaginazione ed ingrandiscono l’oggetto, perché elleno sono quasi altrettanti ripari che impediscono la vagabonda e volubile immaginazione di sortire dall’oggetto, e costringendola a scorrere tutt’i rapporti, piú strettamente si attacca alla parte piacevole, a cui piú naturalmente l’animo nostro si avventa, che non alla dolorosa e funesta, da cui fugge e si allontana. L’attica venere cosí severamente punita dalle leggi e cosí facilmente sottoposta ai tormenti vincitori dell’innocenza, ha meno il suo fondamento su i bisogni dell’uomo isolato e libero che sulle passioni dell’uomo sociabile e schiavo. Essa prende la sua forza non tanto dalla sazietà dei piaceri, quanto da quella educazione che comincia per render gli uomini inutili a se stessi per fargli utili ad altri, in quelle case dove si condensa l’ardente gioventù, dove essendovi un argine insormontabile ad ogni altro commercio, tutto il vigore della natura che si sviluppa si consuma inutilmente per l’umanità, anzi ne anticipa la vecchiaia. L’infanticidio è parimente l’effetto di una inevitabile contradizione, in cui è posta una persona, che per debolezza o per violenza abbia ceduto. Chi trovasi tra l’infamia e la morte di un essere incapace di sentirne i mali, come non preferirà questa alla miseria infallibile a cui sarebbero esposti ella e l’infelice frutto? La miglior maniera di prevenire questo delitto sarebbe di proteggere con leggi efficaci la debolezza contro la tirannia, la quale esagera i vizi che non possono coprirsi col manto della virtú. Io non pretendo diminuire il giusto orrore che meritano questi delitti; ma, indicandone le sorgenti, mi credo in diritto di cavarne una conseguenza generale, cioè che non si può chiamare precisamente giusta (il che vuol dire necessaria) una pena di un delitto, finché la legge non ha adoperato il miglior mezzo possibile nelle date circostanze d’una nazione per prevenirlo.

Indulgente verso i suicidi e i contrabbandieri, scrive Vincenzo Vitale il 24 Agosto 2017 su "Il Dubbio". l commento ai commenti 32 e 33. Non sembri strano che Beccaria si soffermi anche sul tema del suicidio. Infatti, esso ha sempre interrogato in modo sottile e inquietante la coscienza del giurista, fino a propiziare una vera congerie di opinioni spesso in contrasto fra di loro. E ciò anche dal punto di vista sanzionatorio, cosa che può appunto apparire strana ai nostri occhi, se si pensa che Platone già proponeva che al cadavere di suicida fosse tagliata la mano e che questa fosse seppellita lontano dal corpo (tipo di sanzione simbolica). Invece, per San Tommaso, chi si toglie la vita uccide pur sempre un uomo e perciò merita una sanzione di un qualche tipo. Ovviamente, si pone un problema ulteriore per il tentato suicidio: qui, in astratto, si potrebbe sottoporre a pena il soggetto che abbia tentato di suicidarsi – senza riuscirvi – ma rimane il fatto che l’astratta comminatoria di una sanzione avrebbe l’esito di indurre il soggetto a meglio predisporre i comportamenti autolesionisti, per timore di incorrere nella sanzione in caso di insuccesso. Nessuno in realtà ha mai dubitato – nella storia dell’Occidente – che il suicidio sia un atto illecito, tranne qualche corrente della filosofia stoica o del libertarismo anglosassone; si tratta di capire se e come possa essere sanzionato. In certi casi la sanzione cadeva sui familiari sopravvissuti, attraverso sanzioni civili che incidevano sulla capacità di accedere all’eredità del suicida. Ebbene, Beccaria rigetta questa possibilità, in quanto la sanzione cadrebbe su persone diverse dal suicida e soprattutto – e qui rifulge la sua mentalità tipicamente utilitaristica perché una tale prospettiva sanzionatoria non sarebbe assolutamente in grado di fermare in tempo la mano di chi voglia usare violenza su se stesso. Da notare come anche in questo caso Beccaria metta in campo considerazioni di taglio strettamente utilitaristico, rifuggendo da ogni osservazione di tipo sostanziale, che afferisca cioè all’essenza del fenomeno. Non a caso, egli evita argomentazioni di quest’ultimo genere, dal momento che sa bene come esse in passato abbiano condotto a contrapposizioni sterili e infruttuose, tali da non condurre ad alcun esito condiviso o condivisibile. Una particolare clemenza Beccaria mostra poi per il reato di contrabbando il quale, se pur dannoso per le patrie finanze, non viene quasi mai percepito dai suoi autori nella sua reale consistenza: perciò, per il giurista milanese, le pene per costoro debbono essere diverse da quelle previste per i ladri o addirittura per i sicari. Qui Beccaria ripropone la sua netta avversione per i delitti che attentano direttamente alla incolumità personale o a quella dei beni privati, rispetto a quelli che attentano alle casse dello Stato, ma non si tratta di insensibilità per i beni pubblici: si tratta di effettiva ed immediata lesività dei comportamenti.

L’inutilità di fare dello Stato una prigione.

CAPITOLO XXXII SUICIDIO. Il suicidio è un delitto che sembra non poter ammettere una pena propriamente detta, poiché ella non può cadere che o su gl’innocenti, o su di un corpo freddo ed insensibile. Se questa non farà alcuna impressione su i viventi, come non lo farebbe lo sferzare una statua, quella è ingiusta e tirannica, perché la libertà politica degli uomini suppone necessariamente che le pene sieno meramente personali. Gli uomini amano troppo la vita, e tutto ciò che gli circonda li conferma in questo amore. La seducente immagine del piacere e la speranza, dolcissimo inganno de’ mortali, per cui trangugiano a gran sorsi il male misto di poche stille di contento, gli alletta troppo perché temer si debba che la necessaria impunità di un tal delitto abbia qualche influenza sugli uomini. Chi teme il dolore ubbidisce alle leggi; ma la morte ne estingue nel corpo tutte le sorgenti. Qual dunque sarà il motivo che tratterrà la mano disperata del suicida? Chiunque si uccide fa un minor male alla società che colui che ne esce per sempre dai confini, perché quegli vi lascia tutta la sua sostanza, ma questi trasporta se stesso con parte del suo avere. Anzi se la forza della società consiste nel numero de’ cittadini, col sottrarre se stesso e darsi ad una vicina nazione fa un doppio danno di quello che lo faccia chi semplicemente colla morte si toglie alla società. La questione dunque si riduce a sapere se sia utile o dannoso alla nazione il lasciare una perpetua libertà di assentarsi a ciascun membro di essa. Ogni legge che non sia armata, o che la natura delle circostanze renda insussistente, non deve promulgarsi; e come sugli animi regna l’opinione, che ubbidisce alle lente ed indirette impressioni del legislatore, che resiste alle dirette e violente, cosí le leggi inutili, disprezzate dagli uomini, comunicano il loro avvilimento alle leggi anche piú salutari, che sono risguardate piú come un ostacolo da superarsi che il deposito del pubblico bene. Anzi se, come fu detto, i nostri sentimenti sono limitati, quanta venerazione gli uomini avranno per oggetti estranei alle leggi tanto meno ne resterà alle leggi medesime. Da questo principio il saggio dispensatore della pubblica felicità può trarre alcune utili conseguenze, che, esponendole, mi allontanerebbono troppo dal mio soggetto, che è di provare l’inutilità di fare dello stato una prigione. Una tal legge è inutile perché, a meno che scogli inaccessibili o mare innavigabile non dividano un paese da tutti gli altri, come chiudere tutti i punti della circonferenza di esso e come custodire i custodi? Chi tutto trasporta non può, da che lo ha fatto, esserne punito. Un tal delitto subito che è commesso non può piú punirsi, e il punirlo prima è punire la volontà degli uomini e non le azioni; egli è un comandare all’intenzione, parte liberissima dell’uomo dall’impero delle umane leggi. Il punire l’assente nelle sostanze lasciatevi, oltre la facile ed inevitabile collusione, che senza tiranneggiare i contratti non può esser tolta, arrenerebbe ogni commercio da nazione a nazione. Il punirlo quando ritornasse il reo, sarebbe l’impedire che si ripari il male fatto alla società col rendere tutte le assenze perpetue. La proibizione stessa di sortire da un paese ne aumenta il desiderio ai nazionali di sortirne, ed è un avvertimento ai forestieri di non introdurvisi. Che dovremo pensare di un governo che non ha altro mezzo per trattenere gli uomini, naturalmente attaccati per le prime impressioni dell’infanzia alla loro patria, fuori che il timore? La piú sicura maniera di fissare i cittadini nella patria è di aumentare il ben essere relativo di ciascheduno. Come devesi fare ogni sforzo perché la bilancia del commercio sia in nostro favore, cosí è il massimo interesse del sovrano e della nazione che la somma della felicità, paragonata con quella delle nazioni circostanti, sia maggiore che altrove. I piaceri del lusso non sono i principali elementi di questa felicità, quantunque questo sia un rimedio necessario alla disuguaglianza, che cresce coi progressi di una nazione, senza di cui le ricchezze si addenserebbono in una sola mano. Dove i confini di un paese si aumentano in maggior ragione che non la popolazione di esso, ivi il lusso favorisce il dispotismo, sí perché quanto gli uomini sono piú rari tanto è minore l’industria; e quanto è minore l’industria, è tanto piú grande la dipendenza della povertà dal fasto, ed è tanto piú difficile e men temuta la riunione degli oppressi contro gli oppressori, sí perché le adorazioni, gli uffici, le distinzioni, la sommissione, che rendono piú sensibile la distanza tra il forte e il debole, si ottengono piú facilmente dai pochi che dai molti, essendo gli uomini tanto piú indipendenti quanto meno osservati, e tanto meno osservati quanto maggiore ne è il numero. Ma dove la popolazione cresce in maggior proporzione che non i confini, il lusso si oppone al dispotismo, perché anima l’industria e l’attività degli uomini, e il bisogno offre troppi piaceri e comodi al ricco perché quegli d’ostentazione, che aumentano l’opinione di dipendenza, abbiano il maggior luogo. Quindi può osservarsi che negli stati vasti e deboli e spopolati, se altre cagioni non vi mettono ostacolo, il lusso d’ostentazione prevale a quello di comodo; ma negli stati popolati piú che vasti il lusso di comodo fa sempre sminuire quello di ostentazione. Ma il commercio ed il passaggio dei piaceri del lusso ha questo inconveniente, che quantunque facciasi per il mezzo di molti, pure comincia in pochi, e termina in pochi, e solo pochissima parte ne gusta il maggior numero, talché non impedisce il sentimento della miseria, piú cagionato dal paragone che dalla realità. Ma la sicurezza e la libertà limitata dalle sole leggi sono quelle che formano la base principale di questa felicità, colle quali i piaceri del lusso favoriscono la popolazione, e senza di quelle divengono lo stromento della tirannia. Siccome le fiere piú generose e i liberissimi uccelli si allontanano nelle solitudini e nei boschi inaccessibili, ed abbandonano le fertili e ridenti campagne all’uomo insidiatore, cosí gli uomini fuggono i piaceri medesimi quando la tirannia gli distribuisce. Egli è dunque dimostrato che la legge che imprigiona i sudditi nel loro paese è inutile ed ingiusta. Dunque lo sarà parimente la pena del suicidio; e perciò, quantunque sia una colpa che Dio punisce, perché solo può punire anche dopo la morte, non è un delitto avanti gli uomini, perché la pena, in vece di cadere sul reo medesimo, cade sulla di lui famiglia. Se alcuno mi opponesse che una tal pena può nondimeno ritrarre un uomo determinato dall’uccidersi, io rispondo: che chi tranquillamente rinuncia al bene della vita, che odia l’esistenza quaggiù, talché vi preferisce un’infelice eternità, deve essere niente mosso dalla meno efficace e piú lontana considerazione dei figli o dei parenti.

CAPITOLO XXXIII CONTRABBANDI. Il contrabbando è un vero delitto che offende il sovrano e la nazione, ma la di lui pena non dev’essere infamante, perché commesso non produce infamia nella pubblica opinione. Chiunque dà pene infamanti a’ delitti che non sono reputati tali dagli uomini, scema il sentimento d’infamia per quelli che lo sono. Chiunque vedrà stabilita la medesima pena di morte, per esempio, a chi uccide un fagiano ed a chi assassina un uomo o falsifica uno scritto importante, non farà alcuna differenza tra questi delitti, distruggendosi in questa maniera i sentimenti morali, opera di molti secoli e di molto sangue, lentissimi e difficili a prodursi nell’animo umano, per far nascere i quali fu creduto necessario l’aiuto dei piú sublimi motivi e un tanto apparato di gravi formalità. Questo delitto nasce dalla legge medesima poiché, crescendo la gabella, cresce sempre il vantaggio, e però la tentazione di fare il contrabbando e la facilità di commetterlo cresce colla circonferenza da custodirsi e colla diminuzione del volume della merce medesima. La pena di perdere e la merce bandita e la roba che l’accompagna è giustissima, ma sarà tanto piú efficace quanto piú piccola sarà la gabella, perché gli uomini non rischiano che a proporzione del vantaggio che l’esito felice dell’impresa produrrebbe. Ma perché mai questo delitto non cagiona infamia al di lui autore, essendo un furto fatto al principe, e per conseguenza alla nazione medesima?

Rispondo che le offese che gli uomini credono non poter essere loro fatte, non l’interessano tanto che basti a produrre la pubblica indegnazione contro di chi le commette. Tale è il contrabbando. Gli uomini su i quali le conseguenze rimote fanno debolissime impressioni, non veggono il danno che può loro accadere per il contrabbando, anzi sovente ne godono i vantaggi presenti. Essi non veggono che il danno fatto al principe; non sono dunque interessati a privare dei loro suffragi chi fa un contrabbando, quanto lo sono contro chi commette un furto privato, contro chi falsifica il carattere, ed altri mali che posson loro accadere. Principio evidente che ogni essere sensibile non s’interessa che per i mali che conosce. Ma dovrassi lasciare impunito un tal delitto contro chi non ha roba da perdere? No: vi sono dei contrabbandi che interessano talmente la natura del tributo, parte cosí essenziale e cosí difficile in una buona legislazione, che un tal delitto merita una pena considerabile fino alla prigione medesima, fino alla servitù; ma prigione e servitù conforme alla natura del delitto medesimo. Per esempio la prigionia del contrabbandiere di tabacco non dev’essere comune con quella del sicario o del ladro, e i lavori del primo, limitati al travaglio e servigio della regalia medesima che ha voluto defraudare, saranno i piú conformi alla natura delle pene.

Il pentitismo è la manifesta debolezza della legge, scrive Vincenzo Vitale il 25 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Il commento ai capitoli 34, 35, 36 e 37. Dove Beccaria si mostra davvero innovatore è nel campo dei reati che oggi chiameremmo di tipo fallimentare, derivanti cioè dall’attività commerciale di un certo soggetto. Beccaria infatti distingue fra il fallito colpevole e quello innocente, vale a dire fra quello che dolosamente abbia frodato i creditori nell’ambito della propria attività e quello che invece sia stato vittima incolpevole di circostanze avverse che ne hanno cagionato l’insolvenza. Il primo va punito in modo proporzionato alla gravità dei fatti commessi, mentre il secondo va invece perfino aiutato dallo Stato, proprio in quanto del tutto incolpevole. Oggi ci sembra la scoperta dell’acqua calda, ma se si pensa che Beccaria scriveva queste cose e diffondeva queste idee oltre due secoli e mezzo fa – quando ancora il debitore veniva incarcerato – allora non sarà difficile comprendere la portata davvero rivoluzionaria delle sue pagine. Del tutto contrario è poi Beccaria alla imposizione di taglie, che oggi stranamente tornano a far capolino di tanto in tanto per iniziativa di qualche associazione privata, allo scopo di scoprire i colpevoli di reati commessi contro un qualche socio. Il giurista milanese osserva che tale tipo di iniziativa è sommamente inutile, in quanto “in vece di prevenire un delitto, ne fa nascer cento”, poiché induce al tradimento, armando la mano dei cittadini contro altri cittadini e mentre punisce un reato, un altro ne propizia. Insomma, una prassi nefasta che produce più danni di quanti vorrebbe evitarne. E finalmente Beccaria tocca il tema della impunità che alcuni Tribunali offrono al complice di un grave delitto che farà il nome dei suoi sodali: oggi diremmo il tema del pentitismo. Ora, pur in presenza di indubitabili vantaggi (scoprire gli autori di gravi reati e prevenirne altri), Beccaria sostiene che gli svantaggi siano di gran lunga più significativi: infatti, sollecitare la delazione, pur fra scellerati, significa da un lato autorizzare il tradimento e, dall’altro, manifestare la debolezza della legge, “che implora l’aiuto di chi l’offende”. Questa posizione dovrebbe essere meditata da quanti – ed oggi non sono pochi – con eccessiva superficialità e spregiudicatezza intendono sempre e comunque far ricorso allo strumento della delazione legalizzata, come si trattasse di una innocente strategia di politica criminale. Beccaria non riesce proprio a tollerare questa impostazione, nonostante sembri quasi che faccia di tutto per autoconvincersi in senso contrario. Ecco perchè così egli conclude sul punto: “Ma invano tormento me stesso per distruggere il rimorso che sento autorizzando le sacrosante leggi, il monumento della pubblica confidenza, la base della morale umana, al tradimento e alla dissimulazione”. Beccaria si pone qui degli interrogativi che non sono esclusivamente di carattere etico, ma anche di carattere giuridico, interrogativi che invece i giuristi di oggi in Italia fingono di non conoscere neppure e per i quali non mostrano comunque alcuna sensibilità. Di fatto oggi in Italia nessuno si pone queste domande. Eppure, qualcuno dovrebbe porsele, se non altro perché esse hanno un senso compiuto. Il pentitismo viene di solito difeso con il tipico ragionamento del fine che giustifica i mezzi, di sapore machiavellico. Ora, a parte che un tale concetto non fu mai espresso dal segretario fiorentino, rimane che si tratta di un ragionamento assurdo: si sa quanto lo criticasse Hegel, il quale chiariva che il fine non giustifica mai i mezzi, ma li specifica soltanto. Si prega perciò i Soloni di casa nostra di non usare più questo argomento che è semplicemente inesistente.

Chi ha la forza per difendersi non cerca di comprarla con le taglie.

CAPITOLO XXXIV DEI DEBITORI. La buona fede dei contratti, la sicurezza del commercio costringono il legislatore ad assicurare ai creditori le persone dei debitori falliti, ma io credo importante il distinguere il fallito doloso dal fallito innocente; il primo dovrebbe esser punito coll’istessa pena che è assegnata ai falsificatori delle monete, poiché il falsificare un pezzo di metallo coniato, che è un pegno delle obbligazioni de’ cittadini, non è maggior delitto che il falsificare le obbligazioni stesse. Ma il fallito innocente, ma colui che dopo un rigoroso esame ha provato innanzi a’ suoi giudici che o l’altrui malizia, o l’altrui disgrazia, o vicende inevitabili dalla prudenza umana lo hanno spogliato delle sue sostanze, per qual barbaro motivo dovrà essere gettato in una prigione, privo dell’unico e tristo bene che gli avanza di una nuda libertà, a provare le angosce dei colpevoli, e colla disperazione della probità oppressa a pentirsi forse di quella innocenza colla quale vivea tranquillo sotto la tutela di quelle leggi che non era in sua balìa di non offendere, leggi dettate dai potenti per avidità, e dai deboli sofferte per quella speranza che per lo piú scintilla nell’animo umano, la quale ci fa credere gli avvenimenti sfavorevoli esser per gli altri e gli avantaggiosi per noi? Gli uomini abbandonati ai loro sentimenti i piú obvii amano le leggi crudeli, quantunque, soggetti alle medesime, sarebbe dell’interesse di ciascuno che fossero moderate, perché è piú grande il timore di essere offesi che la voglia di offendere. Ritornando all’innocente fallito, dico che se inestinguibile dovrà essere la di lui obbligazione fino al totale pagamento, se non gli sia concesso di sottrarvisi senza il consenso delle parti interessate e di portar sotto altre leggi la di lui industria, la quale dovrebb’esser costretta sotto pene ad essere impiegata a rimetterlo in istato di soddisfare proporzionalmente ai progressi, qual sarà il pretesto legittimo, come la sicurezza del commercio, come la sacra proprietà dei beni, che giustifichi una privazione di libertà inutile fuori che nel caso di far coi mali della schiavitù svelare i secreti di un supposto fallito innocente, caso rarissimo nella supposizione di un rigoroso esame! Credo massima legislatoria che il valore degl’inconvenienti politici sia in ragione composta della diretta del danno pubblico, e della inversa della improbabilità di verificarsi.

Potrebbesi distinguere il dolo dalla colpa grave, la grave dalla leggiera, e questa dalla perfetta innocenza, ed assegnando al primo le pene dei delitti di falsificazione, alla seconda minori, ma con privazione di libertà, riserbando all’ultima la scelta libera dei mezzi di ristabilirsi, togliere alla terza la libertà di farlo, lasciandola ai creditori. Ma le distinzioni di grave e di leggero debbon fissarsi dalla cieca ed imparzial legge, non dalla pericolosa ed arbitraria prudenza dei giudici. Le fissazioni dei limiti sono cosí necessarie nella politica come nella matematica, tanto nella misura del ben pubblico quanto nella misura delle grandezze. Proprietà dei beni, che giustifichi una privazione di libertà inutile fuori che nel caso di far coi mali della schiavitù svelare i secreti di un supposto fallito innocente, caso rarissimo nella supposizione di un rigoroso esame! Credo massima legislatoria che il valore degl’inconvenienti politici sia in ragione composta della diretta del danno pubblico, e della inversa della improbabilità di verificarsi. Potrebbesi distinguere il dolo dalla colpa grave, la grave dalla leggiera, e questa dalla perfetta innocenza, ed assegnando al primo le pene dei delitti di falsificazione, alla seconda minori, ma con privazione di libertà, riserbando all’ultima la scelta libera dei mezzi di ristabilirsi, togliere alla terza la libertà di farlo, lasciandola ai creditori. Ma le distinzioni di grave e di leggero debbon fissarsi dalla cieca ed imparzial legge, non dalla pericolosa ed arbitraria prudenza dei giudici. Le fissazioni dei limiti sono cosí necessarie nella politica come nella matematica, tanto nella misura del ben pubblico quanto nella misura delle grandezze. Con quale facilità il provido legislatore potrebbe impedire una gran parte dei fallimenti colpevoli, e rimediare alle disgrazie dell’innocente industrioso! La pubblica e manifesta registrazione di tutt’i contratti, e la libertà a tutt’i cittadini di consultarne i documenti bene ordinati, un banco pubblico formato dai saggiamente ripartiti tributi sulla felice mercatura e destinato a soccorrere colle somme opportune l’infelice ed incolpabile membro di essa, nessun reale inconveniente avrebbero ed innumerabili vantaggi possono produrre. Ma le facili, le semplici, le grandi leggi, che non aspettano che il cenno del legislatore per ispandere nel seno della nazione la dovizia e la robustezza, leggi che d’inni immortali di riconoscenza di generazione in generazione lo ricolmerebbero, sono o le men cognite o le meno volute. Uno spirito inquieto e minuto, la timida prudenza del momento presente, una guardinga rigidezza alle novità s’impadroniscono dei sentimenti di chi combina la folla delle azioni dei piccoli mortali.

CAPITOLO XXXV ASILI. Mi restano ancora due questioni da esaminare: l’una, se gli asili sieno giusti, e se il patto di rendersi fra le nazioni reciprocamente i rei sia utile o no. Dentro i confini di un paese non dev’esservi alcun luogo indipendente dalle leggi. La forza di esse seguir deve ogni cittadino, come l’ombra segue il corpo. L’impunità e l’asilo non differiscono che di piú e meno, e come l’impressione della pena consiste piú nella sicurezza d’incontrarla che nella forza di essa, gli asili invitano piú ai delitti di quello che le pene non allontanano. Moltiplicare gli asili è il formare tante piccole sovranità, perché dove non sono leggi che comandano, ivi possono formarsene delle nuove ed opposte alle comuni, e però uno spirito opposto a quello del corpo intero della società. Tutte le istorie fanno vedere che dagli asili sortirono grandi rivoluzioni negli stati e nelle opinioni degli uomini. Ma se sia utile il rendersi reciprocamente i rei fra le nazioni, io non ardirei decidere questa questione finché le leggi piú conformi ai bisogni dell’umanità, le pene piú dolci, ed estinta la dipendenza dall’arbitrio e dall’opinione, non rendano sicura l’innocenza oppressa e la detestata virtú; finché la tirannia non venga del tutto dalla ragione universale, che sempre piú unisce gl’interessi del trono e dei sudditi, confinata nelle vaste pianure dell’Asia, quantunque la persuasione di non trovare un palmo di terra che perdoni ai veri delitti sarebbe un mezzo efficacissimo per prevenirli.

CAPITOLO XXXVI DELLA TAGLIA. L’altra questione è se sia utile il mettere a prezzo la testa di un uomo conosciuto reo ed armando il braccio di ciascun cittadino farne un carnefice. O il reo è fuori de’ confini, o al di dentro: nel primo caso il sovrano stimola i cittadini a commettere un delitto, e gli espone ad un supplicio, facendo cosí un’ingiuria ed una usurpazione d’autorità negli altrui dominii, ed autorizza in questa maniera le altre nazioni a far lo stesso con lui; nel secondo mostra la propria debolezza. Chi ha la forza per difendersi non cerca di comprarla. Di piú, un tal editto sconvolge tutte le idee di morale e di virtú, che ad ogni minimo vento svaniscono nell’animo umano. Ora le leggi invitano al tradimento, ed ora lo puniscono. Con una mano il legislatore stringe i legami di famiglia, di parentela, di amicizia, e coll’altra premia chi gli rompe e chi gli spezza; sempre contradittorio a se medesimo, ora invita alla fiducia gli animi sospettosi degli uomini, ora sparge la diffidenza in tutt’i cuori. In vece di prevenire un delitto, ne fa nascer cento. Questi sono gli espedienti delle nazioni deboli, le leggi delle quali non sono che istantanee riparazioni di un edificio rovinoso che crolla da ogni parte. A misura che crescono i lumi in una nazione, la buona fede e la confidenza reciproca divengono necessarie, e sempre piú tendono a confondersi colla vera politica. Gli artificii, le cabale, le strade oscure ed indirette, sono per lo piú prevedute, e la sensibilità di tutti rintuzza la sensibilità di ciascuno in particolare. I secoli d’ignoranza medesimi, nei quali la morale pubblica piega gli uomini ad ubbidire alla privata, servono d’instruzione e di sperienza ai secoli illuminati. Ma le leggi che premiano il tradimento e che eccitano una guerra clandestina spargendo il sospetto reciproco fra i cittadini, si oppongono a questa cosí necessaria riunione della morale e della politica, a cui gli uomini dovrebbero la loro felicità, le nazioni la pace, e l’universo qualche piú lungo intervallo di tranquillità e di riposo ai mali che vi passeggiano sopra.

CAPITOLO XXXVII ATTENTATI, COMPLICI, IMPUNITÀ. Perché le leggi non puniscono l’intenzione, non è però che un delitto che cominci con qualche azione che ne manifesti la volontà di eseguirlo non meriti una pena, benché minore all’esecuzione medesima del delitto. L’importanza di prevenire un attentato autorizza una pena; ma siccome tra l’attentato e l’esecuzione vi può essere un intervallo, cosí la pena maggiore riserbata al delitto consumato può dar luogo al pentimento. Lo stesso dicasi quando siano piú complici di un delitto, e non tutti esecutori immediati, ma per una diversa ragione. Quando piú uomini si uniscono in un rischio, quant’egli sarà piú grande tanto piú cercano che sia uguale per tutti; sarà dunque piú difficile trovare chi si contenti d’esserne l’esecutore, correndo un rischio maggiore degli altri complici. La sola eccezione sarebbe nel caso che all’esecutore fosse fissato un premio; avendo egli allora un compenso per il maggior rischio la pena dovrebbe esser eguale. Tali riflessioni sembreran troppo metafisiche a chi non rifletterà essere utilissimo che le leggi procurino meno motivi di accordo che sia possibile tra i compagni di un delitto. Alcuni tribunali offrono l’impunità a quel complice di grave delitto che paleserà i suoi compagni. Un tale spediente ha i suoi inconvenienti e i suoi vantaggi. Gl’inconvenienti sono che la nazione autorizza il tradimento, detestabile ancora fra gli scellerati, perché sono meno fatali ad una nazione i delitti di coraggio che quegli di viltà: perché il primo non è frequente, perché non aspetta che una forza benefica e direttrice che lo faccia conspirare al ben pubblico, e la seconda è piú comune e contagiosa, e sempre piú si concentra in se stessa. Di piú, il tribunale fa vedere la propria incertezza, la debolezza della legge, che implora l’aiuto di chi l’offende. I vantaggi sono il prevenire delitti importanti, e che essendone palesi gli effetti ed occulti gli autori intimoriscono il popolo; di piú, si contribuisce a mostrare che chi manca di fede alle leggi, cioè al pubblico, è probabile che manchi al privato. Sembrerebbemi che una legge generale che promettesse la impunità al complice palesatore di qualunque delitto fosse preferibile ad una speciale dichiarazione in un caso particolare, perché cosí preverrebbe le unioni col reciproco timore che ciascun complice avrebbe di non espor che se medesimo; il tribunale non renderebbe audaci gli scellerati che veggono in un caso particolare chiesto il loro soccorso. Una tal legge però dovrebbe accompagnare l’impunità col bando del delatore… Ma invano tormento me stesso per distruggere il rimorso che sento autorizzando le sacrosante leggi, il monumento della pubblica confidenza, la base della morale umana, al tradimento ed alla dissimulazione. Qual esempio alla nazione sarebbe poi se si mancasse all’impunità promessa, e che per dotte cavillazioni si strascinasse al supplicio ad onta della fede pubblica chi ha corrisposto all’invito delle leggi! Non sono rari nelle nazioni tali esempi, e perciò rari non sono coloro che non hanno di una nazione altra idea che di una macchina complicata, di cui il piú destro e il piú potente ne muovono a lor talento gli ordigni; freddi ed insensibili a tutto ciò che forma la delizia delle anime tenere e sublimi, eccitano con imperturbabile sagacità i sentimenti piú cari e le passioni piú violente, sí tosto che le veggono utili al loro fine, tasteggiando gli animi, come i musici gli stromenti.

Il divieto di porre domande “suggestive” e l’uso della tortura, scrive Vincenzo Vitale il 26 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Commento ai capitoli 38, 39, 40 e 41. L’etimo di “suggestivo” ci dice che tale aggettivo proviene dal verbo “suggerire”: ecco perché i nostri codici di procedura proibiscono di porre al testimone delle domande suggestive, vale a dire tali da indicare implicitamente, cioè da suggerire, la risposta che si attende di ricevere. Al tempo di Beccaria valeva la medesima regola, perfino ovvia allo scopo di non influenzare le deposizioni dei testimoni in un senso o nell’altro. Sia detto fra parentesi, tale divieto non vale solo per le parti – cioè il pubblico ministero e il difensore – ma vale anche per il giudice, il quale, nel porre una domanda al teste, non può certo suggerire implicitamente la risposta che da lui si attende: la nostra giurisprudenza sul punto arranca, stentando ad ammettere questa lampante verità, quasi che il giudice, per sue misteriose virtù, possa sottrarsi alle normali leggi della razionalità giuridica, e spingersi lecitamente a suggerire al teste la risposta alla propria domanda. Ma la cosa davvero interessante è che Beccaria trae spunto da questa regola procedurale, per tornare a scagliarsi contro la tortura con un argomento ineccepibile. Infatti, egli stigmatizza un ordinamento giuridico che da un lato proibisce le domande suggestive, mentre dall’altro autorizza la tortura: cosa più “suggestivo” del dolore fisico insopportabile? Ecco la stridente contraddizione degli ordinamenti del suo tempo, che egli non manca di rilevare e di censurare. Beccaria non giunge però ad ammettere che l’accusato possa rifiutarsi di rispondere, come invece garantito nei codici di procedura penale dei moderni Stati di diritto, con l’istituzione del “diritto al silenzio” dell’imputato, limitandosi egli a rilevare che nessuna pena ulteriore va all’accusato irrogata nel caso in cui le domande postegli siano inutili, in quanto certa la sua colpevolezza. Anche qui dunque, dominante, la prospettiva utilitaristica. Tace invece, e a ragione, Beccaria su delitti che davano luogo alla pena del rogo; e ne tace perché non di delitti si trattava, ma di peccati e, come è noto, egli distingue nettamente e separa i primi dai secondi, questi ultimi dovendosi lasciare alla competenza di altra autorità. Ma siccome abbiamo visto più volte che Beccaria non tradisce la propria ispirazione utilitarista, non poteva mancare un accenno a quelle che chiama “false idee di utilità”. Tali sono le leggi che sacrificano vantaggi reali a favore di inconvenienti puramente immaginari, quelle che toglierebbero agli uomini “il fuoco perché incendia e l’acqua perché annega”. Con un pizzico di umorismo che non guasta, Beccaria rende benissimo la sua idea, che forse oggi potremmo definire, forzando un po’, antiproibizionista. Così, Beccaria si dichiara contrario alle leggi che proibiscono di portare armi, in quanto esse disarmeranno soltanto coloro che non sono “inclinati” a portarle, mentre i veri delinquenti che si avvalgono delle armi come normale strumento delle loro malefatte non si lasceranno certamente scoraggiare da una legge che punisce il porto dell’arma, se questa serve per commettere i ben più gravi delitti ai quali si son già preparati. Massima e certa utilità sta dunque, per Beccaria, più che nel punire i delitti, nel prevenirli. Il modo più sicuro per il giurista milanese sta nel fare leggi “chiare e semplici”, tali da poter essere da tutti intese e seguite. Ora, a parte il limite del razionalismo illuminista, di cui anche Beccaria partecipava, in forza del quale basterebbe conoscere la verità delle cose, per seguirla (cosa che non è, perché non sempre la volontà segue la ragione: e basti citare in proposito un celebre distico di Terenzio: “video bona proboque, deteriora sequor”), rimane il fatto incontestabile che in un sistema di leggi scritte, quale il nostro, o esse sono chiare e comprensibili oppure sono inutili. Basti por mente alla situazione italiana di oggi, dove un esasperante ed intricatissimo groviglio di norme e precetti che si rincorrono, si sovrappongono, si escludono vicendevolmente, si presenta come un vero rompicapo per il giurista. E da qui naturalmente una pluralità di interpretazioni, di rimandi, di conflitti: insomma, la incertezza del diritto elevata a fisiologico canone interpretativo. Beccaria ne sarebbe inorridito, bollando buona parte delle nostre leggi vigenti con l’infamante marchio della inutilità.

Per prevenire i delitti servono leggi chiare e semplici.

CAPITOLO XXXVIII INTERROGAZIONI SUGGESTIVE, DEPOSIZIONI. Le nostre leggi proscrivono le interrogazioni che chiamansi suggestive in un processo: quelle cioè secondo i dottori, che interrogano della specie, dovendo interrogare del genere, nelle circostanze d’un delitto: quelle interrogazioni cioè che, avendo un’immediata connessione col delitto, suggeriscono al reo una immediata risposta. Le interrogazioni secondo i criminalisti devono per dir cosí inviluppare spiralmente il fatto, ma non andare giammai per diritta linea a quello. I motivi di questo metodo sono o per non suggerire al reo una risposta che lo metta al coperto dell’accusa, o forse perché sembra contro la natura stessa che un reo si accusi immediatamente da sé. Qualunque sia di questi due motivi è rimarcabile la contradizione delle leggi che unitamente a tale consuetudine autorizzano la tortura; imperocché qual interrogazione piú suggestiva del dolore? Il primo motivo si verifica nella tortura, perché il dolore suggerirà al robusto un’ostinata taciturnità onde cambiare la maggior pena colla minore, ed al debole suggerirà la confessione onde liberarsi dal tormento presente piú efficace per allora che non il dolore avvenire. Il secondo motivo è ad evidenza lo stesso, perché se una interrogazione speciale fa contro il diritto di natura confessare un reo, gli spasimi lo faranno molto piú facilmente: ma gli uomini piú dalla differenza de’ nomi si regolano che da quella delle cose. Fra gli altri abusi della grammatica i quali non hanno poco influito su gli affari umani, è notabile quello che rende nulla ed inefficace la deposizione di un reo già condannato; egli è morto civilmente, dicono gravemente i peripatetici giureconsulti, e un morto non è capace di alcuna azione. Per sostenere questa vana metafora molte vittime si sono sacrificate, e bene spesso si è disputato con seria riflessione se la verità dovesse cedere alle formule giudiciali. Purché le deposizioni di un reo condannato non arrivino ad un segno che fermino il corso della giustizia, perché non dovrassi concedere, anche dopo la condanna, e all’estrema miseria del reo e agl’interessi della verità uno spazio congruo, talché adducendo egli cose nuove, che cangino la natura del fatto, possa giustificar sé od altrui con un nuovo giudizio? Le formalità e le ceremonie sono necessarie nell’amministrazione della giustizia, sí perché niente lasciano all’arbitrio dell’amministratore, sí perché danno idea al popolo di un giudizio non tumultuario ed interessato, ma stabile e regolare, sí perché sugli uomini imitatori e schiavi dell’abitudine fanno piú efficace impressione le sensazioni che i raziocini. Ma queste senza un fatale pericolo non possono mai dalla legge fissarsi in maniera che nuocano alla verità, la quale, per essere o troppo semplice o troppo composta, ha bisogno di qualche esterna pompa che le concilii il popolo ignorante. Finalmente colui che nell’esame si ostinasse di non rispondere alle interrogazioni fattegli merita una pena fissata dalle leggi, e pena delle piú gravi che siano da quelle intimate, perché gli uomini non deludano cosí la necessità dell’esempio che devono al pubblico. Non è necessaria questa pena quando sia fuori di dubbio che un tal accusato abbia commesso un tal delitto, talché le interrogazioni siano inutili, nell’istessa maniera che è inutile la confessione del delitto quando altre prove ne giustificano la reità. Quest’ultimo caso è il piú ordinario, perché la sperienza fa vedere che nella maggior parte de’ processi i rei sono negativi.

CAPITOLO XXXIX DI UN GENERE PARTICOLARE DI DELITTI. Chiunque leggerà questo scritto accorgerassi che io ho ommesso un genere di delitti che ha coperto l’Europa di sangue umano e che ha alzate quelle funeste cataste, ove servivano di alimento alle fiamme i vivi corpi umani, quand’era giocondo spettacolo e grata armonia per la cieca moltitudine l’udire i sordi confusi gemiti dei miseri che uscivano dai vortici di nero fumo, fumo di membra umane, fra lo stridere dell’ossa incarbonite e il friggersi delle viscere ancor palpitanti. Ma gli uomini ragionevoli vedranno che il luogo, il secolo e la materia non mi permettono di esaminare la natura di un tal delitto. Troppo lungo, e fuori del mio soggetto, sarebbe il provare come debba essere necessaria una perfetta uniformità di pensieri in uno stato, contro l’esempio di molte nazioni; come opinioni, che distano tra di loro solamente per alcune sottilissime ed oscure differenze troppo lontane dalla umana capacità, pure possano sconvolgere il ben pubblico, quando una non sia autorizzata a preferenza delle altre; e come la natura delle opinioni sia composta a segno che mentre alcune col contrasto fermentando e combattendo insieme si rischiarano, e soprannotando le vere, le false si sommergono nell’oblio, altre, mal sicure per la nuda loro costanza, debbano esser vestite di autorità e di forza. Troppo lungo sarebbe il provare come, quantunque odioso sembri l’impero della forza sulle menti umane, del quale le sole conquiste sono la dissimulazione, indi l’avvilimento; quantunque sembri contrario allo spirito di mansuetudine e fraternità comandato dalla ragione e dall’autorità che piú veneriamo, pure sia necessario ed indispensabile. Tutto ciò deve credersi evidentemente provato e conforme ai veri interessi degli uomini, se v’è chi con riconosciuta autorità lo esercita. Io non parlo che dei delitti che emanano dalla natura umana e dal patto sociale, e non dei peccati, de’ quali le pene, anche temporali, debbono regolarsi con altri principii che quelli di una limitata filosofia.

CAPITOLO XL FALSE IDEE DI UTILITÀ. Una sorgente di errori e d’ingiustizie sono le false idee d’utilità che si formano i legislatori. Falsa idea d’utilità è quella che antepone gl’inconvenienti particolari all’inconveniente generale, quella che comanda ai sentimenti in vece di eccitargli, che dice alla logica: servi. Falsa idea di utilità è quella che sacrifica mille vantaggi reali per un inconveniente o immaginario o di poca conseguenza, che toglierebbe agli uomini il fuoco perché incendia e l’acqua perché annega, che non ripara ai mali che col distruggere. Le leggi che proibiscono di portar le armi sono leggi di tal natura; esse non disarmano che i non inclinati né determinati ai delitti, mentre coloro che hanno il coraggio di poter violare le leggi piú sacre della umanità e le piú importanti del codice, come rispetteranno le minori e le puramente arbitrarie, e delle quali tanto facili ed impuni debbon essere le contravenzioni, e l’esecuzione esatta delle quali toglie la libertà personale, carissima all’uomo, carissima all’illuminato legislatore, e sottopone gl’innocenti a tutte le vessazioni dovute ai rei?

Queste peggiorano la condizione degli assaliti, migliorando quella degli assalitori, non iscemano gli omicidii, ma gli accrescono, perché è maggiore la confidenza nell’assalire i disarmati che gli armati. Queste si chiaman leggi non prevenitrici ma paurose dei delitti, che nascono dalla tumultuosa impressione di alcuni fatti particolari, non dalla ragionata meditazione degl’inconvenienti ed avantaggi di un decreto universale. Falsa idea d’utilità è quella che vorrebbe dare a una moltitudine di esseri sensibili la simmetria e l’ordine che soffre la materia bruta e inanimata, che trascura i motivi presenti, che soli con costanza e con forza agiscono sulla moltitudine, per dar forza ai lontani, de’ quali brevissima e debole è l’impressione, se una forza d’immaginazione, non ordinaria nella umanità, non supplisce coll’ingrandimento alla lontananza dell’oggetto. Finalmente è falsa idea d’utilità quella che, sacrificando la cosa al nome, divide il ben pubblico dal bene di tutt’i particolari. Vi è una differenza dallo stato di società allo stato di natura, che l’uomo selvaggio non fa danno altrui che quanto basta per far bene a sé stesso, ma l’uomo sociabile è qualche volta mosso dalle male leggi a offender altri senza far bene a sé. Il dispotico getta il timore e l’abbattimento nell’animo de’ suoi schiavi, ma ripercosso ritorna con maggior forza a tormentare il di lui animo. Quanto il timore è piú solitario e domestico tanto è meno pericoloso a chi ne fa lo stromento della sua felicità; ma quanto è piú pubblico ed agita una moltitudine piú grande di uomini tanto è piú facile che vi sia o l’imprudente, o il disperato, o l’audace accorto che faccia servire gli uomini al suo fine, destando in essi sentimenti piú grati e tanto piú seducenti quanto il rischio dell’intrapresa cade sopra un maggior numero, ed il valore che gl’infelici danno alla propria esistenza si sminuisce a proporzione della miseria che soffrono. Questa è la cagione per cui le offese ne fanno nascere delle nuove, che l’odio è un sentimento tanto piú durevole dell’amore, quanto il primo prende la sua forza dalla continuazione degli atti, che indebolisce il secondo.

CAPITOLO XLI COME SI PREVENGANO I DELITTI. È meglio prevenire i delitti che punirgli. Questo è il fine principale d’ogni buona legislazione, che è l’arte di condurre gli uomini al massimo di felicità o al minimo d’infelicità possibile, per parlare secondo tutt’i calcoli dei beni e dei mali della vita. Ma i mezzi impiegati fin ora sono per lo piú falsi ed opposti al fine proposto. Non è possibile il ridurre la turbolenta attività degli uomini ad un ordine geometrico senza irregolarità e confusione. Come le costanti e semplicissime leggi della natura non impediscono che i pianeti non si turbino nei loro movimenti cosí nelle infinite ed oppostissime attrazioni del piacere e del dolore, non possono impedirsene dalle leggi umane i turbamenti ed il disordine. Eppur questa è la chimera degli uomini limitati, quando abbiano il comando in mano. Il proibire una moltitudine di azioni indifferenti non è prevenire i delitti che ne possono nascere, ma egli è un crearne dei nuovi, egli è un definire a piacere la virtú ed il vizio, che ci vengono predicati eterni ed immutabili. A che saremmo ridotti, se ci dovesse essere vietato tutto ciò che può indurci a delitto? Bisognerebbe privare l’uomo dell’uso de’ suoi sensi. Per un motivo che spinge gli uomini a commettere un vero delitto, ve ne son mille che gli spingono a commetter quelle azioni indifferenti, che chiamansi delitti dalle male leggi; e se la probabilità dei delitti è proporzionata al numero dei motivi, l’ampliare la sfera dei delitti è un crescere la probabilità di commettergli. La maggior parte delle leggi non sono che privilegi, cioè un tributo di tutti al comodo di alcuni pochi. Volete prevenire i delitti? Fate che le leggi sian chiare, semplici, e che tutta la forza della nazione sia condensata a difenderle, e nessuna parte di essa sia impiegata a distruggerle. Fate che le leggi favoriscano meno le classi degli uomini che gli uomini stessi. Fate che gli uomini le temano, e temano esse sole. Il timor delle leggi è salutare, ma fatale e fecondo di delitti è quello di uomo a uomo. Gli uomini schiavi sono piú voluttuosi, piú libertini, piú crudeli degli uomini liberi. Questi meditano sulle scienze, meditano sugl’interessi della nazione, veggono grandi oggetti, e gl’imitano; ma quegli contenti del giorno presente cercano fra lo strepito del libertinaggio una distrazione dall’annientamento in cui si veggono; avvezzi all’incertezza dell’esito di ogni cosa, l’esito de’ loro delitti divien problematico per essi, in vantaggio della passione che gli determina. Se l’incertezza delle leggi cade su di una nazione indolente per clima, ella mantiene ed aumenta la di lei indolenza e stupidità. Se cade in una nazione voluttuosa, ma attiva, ella ne disperde l’attività in un infinito numero di piccole cabale ed intrighi, che spargono la diffidenza in ogni cuore e che fanno del tradimento e della dissimulazione la base della prudenza. Se cade su di una nazione coraggiosa e forte, l’incertezza vien tolta alla fine, formando prima molte oscillazioni dalla libertà alla schiavitù, e dalla schiavitù alla libertà.

La grandiosità e il limite di Beccaria: l’illuminismo, scrive Vincenzo Vitale il 29 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Il commento ai capitoli 42, 43, 44, 45, 46 e 47. Siamo così giunti, dopo questa veloce cavalcata, alla conclusione della fatica di Beccaria e questi ne profitta per ribadire alcuni concetti già espressi, ma che egli ritiene particolarmente rilevanti e significativi del suo pensiero.  Insiste così sulla necessità della diffusione del sapere e, sulle tracce di Rousseau, della educazione dei cittadini, certo che quando entrambi saranno consolidati, i delitti saranno quasi depennati dai comportamenti sociali. Ora, che il sapere e la educazione civica debbano essere diffusi e a tutti garantiti è cosa di cui nessuno dubita, ma, come già in precedenza accennato, possiamo esser certi che ciò non basterà affatto a debellare la commissione di delitti. Ribadisco qui che dunque Beccaria, oltre i suoi enormi meriti, incappa nel limite proprio della formazione illuministica del suo tempo, consistente in una sorta di endemico socratismo giuridico sociale, tanto più fragile quanto più autentico. Come è noto, per Socrate, la conoscenza della virtù è la strada maestra per seguirla, tutto risolvendosi appunto nella necessità di vincere l’ignoranza che affligge l’animo umano.  Non è così, come l’esperienza insegna.  In moltissimi casi, non basta conoscere la virtù – morale o sociale – per seguirne le tracce senza esitazioni. Occorre invece, dopo averla conosciuta, volerla seguire in modo deliberato e consapevole. Il razionalismo socratico – che poi è quello medesimo di Beccaria – incorre infatti proprio in questo limite insuperabile: mettere in primo piano la ragione, ma senza far i conti, come invece sembra necessario, con la volontà degli uomini. Se fosse come sostiene Beccaria, basterebbe un’opera massiccia di scolarizzazione sociale per debellare i delitti. Ebbene, in Italia, nel dopoguerra, la percentuale di analfabeti, si è pressocchè azzerata, ma non sembra che i delitti siano diminuiti in modo considerevole; anzi, negli ultimi decenni, essi sono lievitati di numero e di gravità in modo esponenziale.  In altri termini, non basta conoscere la virtù per fare il bene ed evitare il male: bisogna esercitarsi con la volontà, usando rettamente di questa nei casi specifici e concreti. Va da se che in un modello sociale come quello auspicato da Beccaria – dove al massimo sapere corrisponde la quasi scomparsa dei delitti – il potere che normalmente viene riconosciuto quale prerogativa della sovranità, quello di concedere la grazia, va debitamente escluso.  Infatti, egli definisce “felice” la nazione ove la clemenza e il perdono del sovrano divenissero non solo meno necessari, ma addirittura funesti.  Ora, in un modello ideale ciò può anche essere, a patto però che si abbia consapevolezza che appunto si tratti di un modello ideale e non reale.  Molto meno convincente è tale conclusione, se ci si pone davanti alla cruda realtà dei rapporti sociali e dei comportamenti umani. Allora, si vedrà che del potere di concedere la grazia da parte del sovrano nessun ordinamento reale potrà mai fare a meno, per il semplice motivo che mai è possibile rinunciare alla correzione del diritto e della sentenza, mai alla possibilità di rovesciare un verdetto, mai a quella di rimediare ad un errore, mai insomma a quello che Radbruch definiva come “un raggio di luce che penetra nel freddo ed oscuro mondo del diritto”. Preziosa è infine la sintesi finale con cui, prendendo congedo dai lettori, Beccaria ripropone le caratteristiche che la pena deve possedere per non essere tirannica. La pena deve dunque essere pubblica, perché tutti le possano conoscere e valutare; pronta, perchè l’eccessivo trascorrere del tempo dopo la commissione del delitto non ne vanifichi il significato e la portata; necessaria, perché essa non sembri frutto di arbitrio e di dispotismo; minima, perché tutti vedano che di essa non si abusa, ma si usa con la necessaria moderazione; proporzionata, perché, se non lo fosse, la pena medesima commetterebbe grave ingiustizia; dettata dalle leggi, perché non sembri stabilita dai singoli magistrati o dal potere sovrano, ma prevista per tutti in modo imparziale e indifferente.  Tutte dimensioni della pena che per noi oggi suonano come normali ed ovvie, al punto che se ne mancasse soltanto una, grideremmo al misfatto e alla tirannia del potere.  Non così, al tempo di Beccaria; e di questo, nell’accostarsi a queste pagine, dobbiamo sempre mantenere adeguata consapevolezza. Per questa ragione, tutti i popoli europei conserviamo verso queste pagine un enorme debito di riconoscenza, nel duplice senso del ringraziamento e della continua meditazione.  Se Beccaria non avesse illuminato la storia con queste sue coraggiose riflessioni, probabilmente oggi non potremmo esercitare la nostra libertà di cittadini come siamo soliti fare.  Tuttavia, molto del suo insegnamento va sempre riproposto, in quanto ancora non sufficientemente assimilato dal nostro sistema giuridico, come abbiamo cercato di mostrare nel corso di questo commento.  Molto, ancora e nonostante tutto, va ancora imparato e messo in pratica.  Dopo quasi tre secoli, non credo che Beccaria ne sarebbe contento.

La pena deve essere pubblica, pronta, necessaria, minima, proporzionata e dettata dalle leggi.

CAPITOLO XLII DELLE SCIENZE. Volete prevenire i delitti? Fate che i lumi accompagnino la libertà. I mali che nascono dalle cognizioni sono in ragione inversa della loro diffusione, e i beni lo sono nella diretta. Un ardito impostore, che è sempre un uomo non volgare, ha le adorazioni di un popolo ignorante e le fischiate di un illuminato. Le cognizioni facilitando i paragoni degli oggetti e moltiplicandone i punti di vista, contrappongono molti sentimenti gli uni agli altri, che si modificano vicendevolmente, tanto piú facilmente quanto si preveggono negli altri le medesime viste e le medesime resistenze. In faccia ai lumi sparsi con profusione nella nazione, tace la calunniosa ignoranza e trema l’autorità disarmata di ragioni, rimanendo immobile la vigorosa forza delle leggi; perché non v’è uomo illuminato che non ami i pubblici, chiari ed utili patti della comune sicurezza, paragonando il poco d’inutile libertà da lui sacrificata alla somma di tutte le libertà sacrificate dagli altri uomini, che senza le leggi poteano divenire conspiranti contro di lui. Chiunque ha un’anima sensibile, gettando uno sguardo su di un codice di leggi ben fatte, e trovando di non aver perduto che la funesta libertà di far male altrui, sarà costretto a benedire il trono e chi lo occupa. Non è vero che le scienze sian sempre dannose all’umanità, e quando lo furono era un male inevitabile agli uomini. La moltiplicazione dell’uman genere sulla faccia della terra introdusse la guerra, le arti piú rozze, le prime leggi, che erano patti momentanei che nascevano colla necessità e con essa perivano. Questa fu la prima filosofia degli uomini, i di cui pochi elementi erano giusti, perché la loro indolenza e poca sagacità gli preservava dall’errore. Ma i bisogni si moltiplicavano sempre piú col moltiplicarsi degli uomini. Erano dunque necessarie impressioni piú forti e piú durevoli che gli distogliessero dai replicati ritorni nel primo stato d’insociabilità, che si rendeva sempre piú funesto. Fecero dunque un gran bene all’umanità quei primi errori che popolarono la terra di false divinità (dico gran bene politico) e che crearono un universo invisibile regolatore del nostro. Furono benefattori degli uomini quegli che osarono sorprendergli e strascinarono agli altari la docile ignoranza. Presentando loro oggetti posti di là dai sensi, che loro fuggivan davanti a misura che credean raggiungerli, non mai disprezzati, perché non mai ben conosciuti, riunirono e condensarono le divise passioni in un solo oggetto, che fortemente gli occupava. Queste furono le prime vicende di tutte le nazioni che si formarono da’ popoli selvaggi, questa fu l’epoca della formazione delle grandi società, e tale ne fu il vincolo necessario e forse unico. Non parlo di quel popolo eletto da Dio, a cui i miracoli piú straordinari e le grazie piú segnalate tennero luogo della umana politica. Ma come è proprietà dell’errore di sottodividersi all’infinito, cosí le scienze che ne nacquero fecero degli uomini una fanatica moltitudine di ciechi, che in un chiuso laberinto si urtano e si scompigliano di modo che alcune anime sensibili e filosofiche regrettarono persino l’antico stato selvaggio. Ecco la prima epoca, in cui le cognizioni, o per dir meglio le opinioni, sono dannose. La seconda è nel difficile e terribil passaggio dagli errori alla verità, dall’oscurità non conosciuta alla luce. L’urto immenso degli errori utili ai pochi potenti contro le verità utili ai molti deboli, l’avvicinamento ed il fermento delle passioni, che si destano in quell’occasione, fanno infiniti mali alla misera umanità. Chiunque riflette sulle storie, le quali dopo certi intervalli di tempo si rassomigliano quanto all’epoche principali, vi troverà piú volte una generazione intera sacrificata alla felicità di quelle che le succedono nel luttuoso ma necessario passaggio dalle tenebre dell’ignoranza alla luce della filosofia, e dalla tirannia alla libertà, che ne sono le conseguenze. Ma quando, calmati gli animi ed estinto l’incendio che ha purgata la nazione dai mali che l’opprimono, la verità, i di cui progressi prima son lenti e poi accelerati, siede compagna su i troni de’ monarchi ed ha culto ed ara nei parlamenti delle repubbliche, chi potrà mai asserire che la luce che illumina la moltitudine sia piú dannosa delle tenebre, e che i veri e semplici rapporti delle cose ben conosciute dagli uomini lor sien funesti? Se la cieca ignoranza è meno fatale che il mediocre e confuso sapere, poiché questi aggiunge ai mali della prima quegli dell’errore inevitabile da chi ha una vista ristretta al di qua dei confini del vero, l’uomo illuminato è il dono piú prezioso che faccia alla nazione ed a se stesso il sovrano, che lo rende depositario e custode delle sante leggi. Avvezzo a vedere la verità e a non temerla, privo della maggior parte dei bisogni dell’opinione non mai abbastanza soddisfatti, che mettono alla prova la virtú della maggior parte degli uomini, assuefatto a contemplare l’umanità dai punti di vista piú elevati, avanti a lui la propria nazione diventa una famiglia di uomini fratelli, e la distanza dei grandi al popolo gli par tanto minore quanto è maggiore la massa dell’umanità che ha avanti gli occhi. I filosofi acquistano dei bisogni e degli interessi non conosciuti dai volgari, quello principalmente di non ismentire nella pubblica luce i principii predicati nell’oscurità, ed acquistano l’abitudine di amare la verità per se stessa. Una scelta di uomini tali forma la felicità di una nazione, ma felicità momentanea se le buone leggi non ne aumentino talmente il numero che scemino la probabilità sempre grande di una cattiva elezione.

CAPITOLO XLIII MAGISTRATI. Un altro mezzo di prevenire i delitti si è d’interessare il consesso esecutore delle leggi piuttosto all’osservanza di esse che alla corruzione. Quanto maggiore è il numero che lo compone tanto è meno pericolosa l’usurpazione sulle leggi, perché la venalità è piú difficile tra membri che si osservano tra di loro, e sono tanto meno interessati ad accrescere la propria autorità, quanto minore ne è la porzione che a ciascuno ne toccherebbe, massimamente paragonata col pericolo dell’intrapresa. Se il sovrano coll’apparecchio e colla pompa, coll’austerità degli editti, col non permettere le giuste e le ingiuste querele di chi si crede oppresso, avvezzerà i sudditi a temere piú i magistrati che le leggi, essi profitteranno piú di questo timore di quello che non ne guadagni la propria e pubblica sicurezza.

CAPITOLO XLIV RICOMPENSE. Un altro mezzo di prevenire i delitti è quello di ricompensare la virtú. Su di questo proposito osservo un silenzio universale nelle leggi di tutte le nazioni del dì d’oggi. Se i premi proposti dal- le accademie ai discuopritori delle utili verità hanno moltiplicato e le cognizioni e i buoni libri, perché non i premi distribuiti dalla benefica mano del sovrano non moltiplicherebbeno altresí le azioni virtuose? La moneta dell’onore è sempre inesausta e fruttifera nelle mani del saggio distributore.

CAPITOLO XLV EDUCAZIONE. Finalmente il piú sicuro ma piú difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l’educazione, oggetto troppo vasto e che eccede i confini che mi sono prescritto, oggetto, oso anche dirlo, che tiene troppo intrinsecamente alla natura del governo perché non sia sempre fino ai piú remoti secoli della pubblica felicità un campo sterile, e solo coltivato qua e là da pochi saggi. Un grand’uomo, che illumina l’umanità che lo perseguita, ha fatto vedere in dettaglio quali sieno le principali massime di educazione veramente utile agli uomini, cioè consistere meno in una sterile moltitudine di oggetti che nella scelta e precisione di essi, nel sostituire gli originali alle copie nei fenomeni sí morali che fisici che il caso o l’industria presenta ai novelli animi dei giovani, nello spingere alla virtú per la facile strada del sentimento, e nel deviarli dal male per la infallibile della necessità e dell’inconveniente, e non colla incerta del comando, che non ottiene che una simulata e momentanea ubbidienza.

CAPITOLO XLVI DELLE GRAZIE. Amisura che le pene divengono piú dolci, la clemenza ed il perdono diventano meno necessari. Felice la nazione nella quale sarebbero funesti! La clemenza dunque, quella virtú che è stata talvolta per un sovrano il supplemento di tutt’i doveri del trono, dovrebbe essere esclusa in una perfetta legislazione dove le pene fossero dolci ed il metodo di giudicare regolare e spedito. Questa verità sembrerà dura a chi vive nel disordine del sistema criminale dove il perdono e le grazie sono necessarie in proporzione dell’assurdità delle leggi e dell’atrocità delle condanne. Quest’è la piú bella prerogativa del trono, questo è il piú desiderabile attributo della sovranità, e questa è la tacita disapprovazione che i benefici dispensatori della pubblica felicità danno ad un codice che con tutte le imperfezioni ha in suo favore il pregiudizio dei secoli, il voluminoso ed imponente corredo d’infiniti commentatori, il grave apparato dell’eterne formalità e l’adesione dei piú insinuanti e meno temuti semidot- ti. Ma si consideri che la clemenza è la virtú del legislatore e non dell’esecutor delle leggi; che deve risplendere nel codice, non già nei giudizi particolari; che il far vedere agli uomini che si possono perdonare i delitti e che la pena non ne è la necessaria conseguenza è un fomentare la lusinga dell’impunità, è un far credere che, potendosi perdonare, le condanne non perdonate siano piuttosto violenze della forza che emanazioni della giustizia. Che dirassi poi quando il principe dona le grazie, cioè la pubblica sicurezza ad un particolare, e che con un atto privato di non illuminata beneficenza forma un pubblico decreto d’impunità. Siano dunque inesorabili le leggi, inesorabili gli esecutori di esse nei casi particolari, ma sia dolce, indulgente, umano il legislatore. Saggio architetto, faccia sorgere il suo edificio sulla base dell’amor proprio, e l’interesse generale sia il risultato degl’interessi di ciascuno, e non sarà costretto con leggi parziali e con rimedi tumultuosi a separare ad ogni momento il ben pubblico dal bene de’ particolari, e ad alzare il simulacro della salute pubblica sul timore e sulla diffidenza. Profondo e sensibile filosofo, lasci che gli uomini, che i suoi fratelli, godano in pace quella piccola porzione di felicità che lo immenso sistema, stabilito dalla prima Cagione, da quello che è, fa loro godere in quest’angolo dell’universo.

CAPITOLO XLVII CONCLUSIONE. Conchiudo con una riflessione, che la grandezza delle pene dev’essere relativa allo stato della nazione medesima. Piú forti e sensibili devono essere le impressioni sugli animi induriti di un popolo appena uscito dallo stato selvaggio. Vi vuole il fulmine per abbattere un feroce leone che si rivolta al colpo del fucile. Ma a misura che gli animi si ammolliscono nello stato di società cresce la sensibilità e, crescendo essa, deve scemarsi la forza della pena, se costante vuol mantenersi la relazione tra l’oggetto e la sensazione. Da quanto si è veduto finora può cavarsi un teorema generale molto utile, ma poco conforme all’uso, legislatore il piú ordinario delle nazioni, cioè: perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev’essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a’ delitti, dettata dalle leggi.

L’INCIVILTA’ GIURIDICA. IL RITO INQUISITORIO.

Franco Coppi: “Siamo ancora nel rito inquisitorio E i pm dominano”, Intervista il 22 luglio 2017 de "Il Dubbio". Il professore Franco Coppi non ha dubbi: «Nel 1989 abbiamo adottato il rito accusatorio per superare il codice Rocco e arrivare ad una effettiva parità fra accusa e difesa. La realtà è che il rito che è rimasto inquisitorio». Il professore Franco Coppi, 78 anni ben portati, è sicuramente uno degli avvocati penalisti più famosi d’Italia. Nato a Tripoli in Libia, da oltre 50 anni è protagonista di molti dei processi più importanti del Paese. Storico difensore di Giulio Andreotti, è stato il legale di Silvio Berlusconi nei processi Mediaset e Ruby. Attualmente assiste il ministro dello Sport Luca Lotti accusato di rivelazione di segreto d’ufficio nell’ambito dell’indagine Consip. Ma oltre ai processi “politici”, Coppi ha curato la difesa di Vittorio Emanuele di Savoia, di Francesco Totti, del direttore del Sismi Niccolò Pollari per il sequestro dell’imam Abu Omar e del governatore di Bankitalia Antonio Fazio nel processo Antonveneta. E’ stato anche il legale di Sabrina Misseri nel delitto di Avetrana. «Una tragedia che mi angoscia disse all’indomani della conferma dell’ergastolo per la cugina di Sara Scazzi – sono ossessionato dall’idea di non essere riuscito a dimostrare l’innocenza di quella sventurata». Attualmente il suo nome è in predicato per la Corte Costituzionale. Incarico prestigioso che ha, però, declinato. Come dice chi lo conosce bene, Coppi ha sempre fatto l’avvocato e non ha intenzione adesso di diventare giudice.

Professor Coppi, com’è lo stato della giustizia in Italia?

«La situazione è ormai tragica. Un disastro che riguarda sia il settore penale che quello civile».

Ci parli del penale.

«Nel 1989 abbiamo adottato il rito accusatorio. L’idea di fondo era quella di superare il codice Rocco e di arrivare ad una effettiva parità fra accusa e difesa. La realtà è che questa riforma del processo penale è stata fatta “all’italiana” e adesso abbiamo un rito che sostanzialmente è rimasto inquisitorio, solo con i tempi molto più lunghi».

Può farci un esempio?

«Certo. Nel rito inquisitorio il processo si celebrava sulla base degli elementi raccolti dal pubblico ministero. Con l’attuale rito la prova deve formarsi in dibattimento attraverso il contraddittorio fra accusa e difesa. Bene, con il meccanismo delle contestazioni, ovvero il dare lettura da parte del pm dei verbali delle dichiarazioni rese nelle fase delle indagini preliminari dalla persona che viene sentita nel corso del processo, entra nel fascicolo del dibattimento ciò che ha fatto il pm prima e a prescindere da qualsiasi attività difensiva: materiale che quindi sarà utilizzato dal giudice per la sua decisione pur se la difesa non aveva alcun ruolo in quella fase».

Le contestazioni da parte del pm possono essere fra le cause dell’allungamento dei tempi del processo?

«Le cause sono molteplici. Oggi, ad esempio, si fanno troppi processi. Però, restando alle contestazioni, se prima i processi si celebravano con una o due udienze, adesso ne servono come minimo dieci. Udienze che poi sono diventate lunghissime, proprio perché il pm è solito rileggere tutti i verbali».

Non mi sembra un bel risultato.

«Si. E sul punto è necessario un intervento drastico da parte del legislatore. Che non può pensare di risolvere il problema dello sfascio del sistema giudiziario solo allungando la prescrizione di processi che già adesso durano una vita. Il processo penale deve essere rivisto totalmente».

Normalmente viene data la colpa della lunghezza dei processi agli avvocati….

«Guardi, ho assisto una persona accusata di spaccio di sostanze stupefacenti. I fatti risalgono al 2002. La sentenza, di condanna, di primo grado è del 2009. Nel 2017 è stato fissato l’appello. I giudici, penso provando un senso di vergogna per un processo che si trascinava da 15 anni, riqualificando il fatto, hanno disposto la prescrizione “per la tenuità del fatto”. Un modo elegante per chiudere questo lungo processo».

Parliamo dei giudici e della qualità delle sentenze.

«In cinquanta anni di attività professionale non ho notato grandi differenze. Tranne sull’uso della lingua italiana. Ma quello è un problema complessivo che riguardo la scuola e l’università. Ad esempio è sparito l’uso del pronome. La società è cambiata e, conseguentemente, anche i magistrati sono figli di questo cambiamento. L’altro giorno ero in Cassazione. In un’aula c’erano dei giovani magistrati neo vincitori di concorso in tirocinio. Mentre parlava il procuratore generale, alcuni masticavano le gomme, gesticolando e confabulando fra di loro, altri poi erano completamenti distratti. Non è stato un bel vedere».

Tornado alla sentenza, il Csm sta lavorando a delle linee guida che si fondano sulla sinteticità e completezza dell’atto. Può essere d’aiuto?

«Io sul punto sono alquanto perplesso. Capisco l’esigenza di smaltire l’arretrato ma non credo sia possibile stabilire a priori un numero di pagine per la sentenza. Io ho un profondo amore per la motivazione perché permette di capire il ragionamento fatto dal giudice. Non è possibile, a priori, dare una misura della motivazione che valga per qualunque tipo di processo. Ogni caso richiede, come il sale nelle ricette, un “quanto basta” di motivazione».

La sintesi però è importante.

«Guardi, abbiamo bisogno di giudici “normali”, che focalizzino l’attenzione sul fatto e chi siano calati nelle realtà quotidiana. Contesto, poi, la relazione più volte citata che collega l’inefficienza della giustizia al previo filtro di inammissibilità. La declaratoria di inammissibilità non la migliore la risposta di giustizia per la parte. Dietro quel ricorso c’è una storia, una persona che non capirebbe perché sia stata respinta la sua istanza per un vizio di forma».

«Non rispondete al pm». E lui indaga gli avvocati, scrive Simona Musco il 22 luglio 2017 su "Il Dubbio". Indagati per aver suggerito al proprio assistito di avvalersi della facoltà di non rispondere. L’incredibile storia ha come protagonisti due avvocati di Udine, che il 23 giugno hanno visto perquisire i propri studi e le abitazioni perché accusati di infedele patrocinio. Indagati per aver suggerito al proprio assistito di avvalersi della facoltà di non rispondere. L’incredibile storia ha come protagonisti due avvocati di Udine, che il 23 giugno hanno visto perquisire i propri studi e le abitazioni perché accusati di infedele patrocinio. Secondo il pm che ha ottenuto la perquisizione e il sequestro, uno dei due avvocati avrebbe violato la legge suggerendo ad una cliente, accusata di favoreggiamento, di rimanere in silenzio durante un interrogatorio. Un’accusa, secondo il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Udine, «strana e incongrua», dato che quel suggerimento è un diritto previsto dal nostro ordinamento. Ma non solo: l’indagata avrebbe commesso il reato di favoreggiamento a vantaggio del marito, quando il codice penale prevede il vincolo matrimoniale «quale causa di non punibilità». L’altro legale, invece, difensore del marito, è stato tirato in ballo per un altro strano reato: la sua colpa è quella di essersi scambiato informazioni con il collega, comportamento, evidenzia il Coa, previsto dal codice deontologico. Ma ad indignare è stata anche la rilevanza data sulla stampa alla notizia, che sebbene non riportasse i nomi dei due avvocati ha provocato «pregiudizio e nocumento dell’intera categoria professionale». Rilievo che, invece, non è stato dato alla decisione del Riesame, che il 13 luglio ha annullato il provvedimento restituendo il materiale sequestrato, «non essendo ravvisabile il fumus del reato di patrocinio infedele». La linea difensiva seguita non può essere censurata, dice il Tribunale, in quanto «diritto espressamente riconosciuto». Un atto di prepotenza, dunque, anche per quanto riguarda lo scambio di informazioni tra i due avvocati. La vicenda, per il Coa, rappresenta «un concreto pregiudizio all’indipendenza del difensore» e al principio «dell’inviolabilità del diritto alla difesa». Un’interferenza nel rapporto tra difensore e difeso, motivata, forse, dal fatto che la linea della difesa non era evidentemente «suscettibile di condurre all’acquisizione di elementi di prova a sostegno della tesi accusatoria», denuncia il Coa. Che vede nell’atteggiamento della Procura una forma di condizionamento degli avvocati che, non volendo essere incriminati, cambierebbero strategia. Ma il Coa alza la voce: «non fatevi intimorire».

I giudici non siano torri d’avorio. Il diritto ha bisogno di armonia. L’importante memorandum siglato il 15 maggio scorso dalle massime cariche della giustizia, promosso dall’Associazione Italiadecide diretta da Luciano Violante, scrive Sabino Cassese il 19 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Un gruppo di lavoro promosso da Italiadecide, l’Associazione per la qualità delle politiche pubbliche diretta da Luciano Violante, ha concluso i suoi lavori ponendo le basi per un accordo tra le corti supreme italiane, la Corte di cassazione, il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, e i procuratori generali presso la prima e la terza corte, accordo che è stato poi firmato dai presidenti e dai procuratori generali il 15 maggio scorso. Questo accordo costituisce una pietra miliare nella storia della giustizia italiana. Provo a spiegare perché. Partiamo da lontano. Lo Stato contemporaneo, quello italiano in particolare, non è solo lo Stato hobbesiano che assicura sicurezza e pace all’interno, ma è — come dicono i tedeschi — Jurisdiktionsstaat: in esso i giudici sono onnipresenti, non c’è area immune dalla giurisdizione. Basti pensare alla enorme crescita del numero di sentenze rispetto alla crescita della popolazione, e — procedendo a ritroso — alla quantità di conflitti che finiscono davanti ai giudici, conflitti dovuti anche all’aumento delle aree regolate da leggi. Con la moltiplicazione dei giudizi e delle sentenze, aumenta il pericolo che ogni giudice vada per conto suo, lasciando il cittadino senza quella sicura guida sulla interpretazione e applicazione del diritto che l’ordinamento giuridico dovrebbe garantire. Questo problema è accentuato dalla penetrazione nell’ordine giuridico nazionale di almeno altri due nuovi produttori di norme e di sentenze, l’Unione Europea con la Corte di giustizia europea e il Consiglio d’Europa con la Corte europea dei diritti dell’uomo. Occorre, allora, armonizzare l’operato delle corti, specialmente quelle supreme, stabilire canali di dialogo istituzionalizzato, garantire cooperazione, specialmente tra i giudici che sono al vertice, i tre che ho menzionato all’inizio, che sono i giudici legittimati a eleggere propri componenti nella Corte costituzionale. Ecco, quindi, l’idea del «memorandum», l’accordo firmato il 15 maggio scorso, tra i vertici giudiziari. Un accordo difficile, che ha pochi precedenti. Difficile perché la tradizione culturale italiana considera ciascun giudice una turris eburnea, un polo isolato da tutti gli altri, che decide da solo, in silenzio, senza guardare ad altro che non sia il caso che ha davanti. Per questo motivo, si tratta anche di un accordo che ha pochi precedenti. In Italia, quello illustre del «concordato giurisprudenziale» del 1929, firmato da Mariano D’Amelio, presidente della Cassazione, e da Santi Romano, presidente del Consiglio di Stato, e successivamente ratificato dalle Sezioni unite della Cassazione e dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Ma quell’accordo aveva un unico oggetto, la stabilizzazione dei criteri del riparto della giurisdizione tra giudice civile e giudice amministrativo. L’altro precedente non è italiano, ed è l’accordo Skouris-Costa del 2011. Lo firmarono il presidente della Corte di giustizia europea e il presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo, ed aveva anche esso una portata limitata (all’applicazione della Carta di Nizza e all’adesione dell’Unione Europea alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo). L’importanza e la novità del nuovo accordo, quello sottoscritto a maggio, stanno nel fatto che questo è il primo passo per una cooperazione stabile e che esso non ha oggetti pre-definiti, ma si estende su tutta l’area della giurisdizione. Con il nuovo accordo, avremo una attenzione maggiore all’attività delle giurisdizioni superiori che viene chiamata nomofilattica. Queste debbono assicurare l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto, garantire indirizzi interpretativi uniformi, in una parola assicurare l’unità dell’ordinamento. Si tratta di «beni» che sono divenuti rari, considerati il moltiplicarsi delle corti, il ricorso sempre più frequente dei cittadini ad esse, ma anche la confusione della nostra legislazione, l’aumento dei produttori di diritto (Unione Europea, Stato, Regioni, ma anche organismi globali), nonché il cosiddetto dualismo giurisdizionale che fa parte della tradizione italiana (come di quella francese), cioè il fatto che vi sono due giudici, uno civile, uno amministrativo. In conclusione, è un gran bene che tre presidenti illuminati e due procuratori generali aperti alle esigenze della collettività, con l’aiuto di una attiva fondazione privata, abbiano posto le premesse perché il modernoÉtat de justice non parli con troppe voci discordanti.

Errori giudiziari e orrori del sistema, scrive il 25 febbraio 2017 Mauro Mellini su "L'Opinione" Si sono succedete negli ultimi giorni le notizie di alcuni spaventosi errori giudiziari. Spaventosi per la banalità degli equivoci in base ai quali dei disgraziati erano stati dichiarati colpevoli. Spaventosi per i lunghissimi periodi di carcerazione sofferti dalle vittime di questi errori. Occorrerebbe aggiungere: spaventosi per la facilità, che tali episodi dimostrano, che la giustizia (cosiddetta) commette crimini del genere. Perché di crimini si tratta. Eppure c’è nell’aria, nella stampa che ce ne dà notizia, un non celato sentimento di “fastidio”, non per questi “incidenti”, ma per il fatto che se ne debba parlare. “L’errore giudiziario non esiste”: non è solo l’etichettatura di una pretesa idolatra di una giustizia autoreferenziale della sua infallibilità. Leggiamo i sapienti e sottili discorsi di qualche esemplare di magistrato “lottatore” e vedremo che quella non è una proposizione astratta di una fantasia letteraria. Del resto è lo stesso Codice penale a restringere i casi di “revisione” (cioè di accertamento dell’ingiustizia di una condanna definitiva) in modo tale da escluderne la possibilità quando tale ingiustizia dipende da un errore. La revisione è ammessa quando “sopravvengano nuove prove” che consentano un diverso giudizio. Ma se un poveraccio è stato condannato con una sentenza demenziale, in base alla prova di un’accusa di omicidio rappresentata dal fatto che un “testimone di giustizia” (denominazione assurda, che qualifica gli altri “di ingiustizia”) lo ha visto volare a cavallo di un asino sul luogo del delitto lanciando scariche elettriche, quella sentenza, se mai fosse “passata in giudicato”, non potrebbe essere oggetto di revisione. C’è poco da scherzare. Ho conosciuto magistrati matti capaci di sentenze del genere. C’è poi la categoria di condanne senza prove, in base a preconcetti, arzigogoli, coglionerie inconcepibili. Se non ci sono prove non ci possono essere “nuove prove”. E, poi, le condanne per reati che sono “inventati” dalla “giurisprudenza”, che è, poi, “imprudenza” nel concepire una “giustizia di lotta”. Se domani s’arrivasse a cancellare la vergogna del “reato giurisprudenziale” (tale riconosciuto e conclamato) di “concorso esterno in associazione mafiosa”, i condannati per quella “bella pensata” dei nostri magistrati non potrebbero adire la via della revisione dei loro processi. Ci sono poi delle “spie” del vizio di “disinvoltura” nel condannare: basti pensare che, quando nel Codice di procedura è stata aggiunta la frase per cui la condanna può essere emessa quando “la colpevolezza” dell’imputato “è provata al di là di ogni ragionevole dubbio”, non è successo assolutamente niente. Non è aumentato il numero delle assoluzioni, non è intervenuto nei processi ancora in grado di appello una falcidia di precedenti condanne in casi assai dubbi. Semplicemente, tutti i dubbi sulla colpevolezza sono divenuti “irragionevoli”. E tira a campà. E allora, cari amici, anche di fronte alle mostruosità emesse in questi giorni non mi pare si possa parlare di “casi” di ingiustizia, di errori, ma di assassinio morale, questo sì. È il sistema che fa dell’errore giudiziario “quello che non può esistere”. E del quale è scandaloso, quindi, lamentarsi. Un’ultima considerazione: l’“Orlando Curioso”, ministro della Giustizia, ha mandato gli ispettori a Torino per un caso di intervenuta prescrizione di un processo, tra l’altro nato male. Non mi risulta che abbia mandato ispettori a rivedere le carte dei cosiddetti “casi” di errori giudiziari. Già, dopo tanto tempo (passato in galera dalle vittime) che c’è da andare a cavillare? Sono cose che capitano. In Italia certamente sì.

W il giudice che mena la moglie, scrive Franco Bechis il 20 giugno 2012 su "Libero Quotidiano”. Cinque dicembre 2009. Lite accesa in una casa di Lecco. Volano parole grosse, qualche urla, forse c'è una colluttazione. Tre marzo 2010: al tribunale di Lecco viene presentata denuncia-querela da parte di un avvocato, Donatella Cianfa. Accusa il marito, Gian Marco Fausto De Vincenzi di violenza privata, maltrattamenti famigliari e lesioni personali dolose. I fatti raccontati sono proprio quelli del 5 dicembre. Atti giudiziari di questo tipo sono piuttosto numerosi nei tribunali italiani. Quella lite però non è da poco: la presunta vittima è un avvocato, il marito che avrebbe commesso violenza, un giudice delle indagini preliminari dello stesso tribunale di Lecco (oggi è giudice monocratico). Il procedimento viene trattato in tempo record. Il 9 marzo la moglie, l'avvocato Cianfa, ritira la denuncia- querela. Il giorno prima aveva trovato un'intesa sulla separazione dal marito e soprattutto sugli alimenti. Il procedimento è destinato a morire, e così sarà: proscioglimento da due accuse, estinzione del reato per la terza grazie alla remissione della querela. Nel frattempo però il fascicolo giudiziario è arrivato al ministero della Giustizia che ha promosso l'azione disciplinare nei confronti del De Vincenzi davanti al Csm. La procura generale della Cassazione sostiene che non c'è materia, essendo intervenuta la remissione della querela. La commissione disciplinare è di diverso avviso, perché quella violenta lite familiare è comunque esistita e può avere leso il prestigio della magistratura. Il capo di imputazione davanti al Csm è assai duro: sostiene che il Gip avrebbe "ripetutamente percosso" la consorte, e che in un'occasione l'avrebbe "sbattuta contro il muro e a terra", causandole lesioni giudicate guaribili in due settimane da un referto medico. In quella occasione per altro il De Vincenzi avrebbe impedito alla moglie di recarsi al pronto soccorso "sottraendole e distruggendole le chiavi della sua auto" e costringendola a "sedersi sul letto accanto a lui per tutta la notte mentre le tratteneva i polsi", dicendole "sei una donna inutile, fai schifo". Le accuse sono tratte dalla stessa querela poi ritirata dalla signora, ma sono approdate il 15 giugno scorso alla disciplinare del Csm. Dove il diretto interessato si è difeso quasi considerandosi vittima e negando qualsiasi impatto sulla propria funzione di magistrato, perché nessuno avrebbe conosciuto la vicenda (finita invece su molti giornali locali e nazionali). "Devo rimarcare", ha spiegato De Vincenzi, " che tutta la vicenda è personale, dolorosissima. Purtroppo sono anni ancora che -diciamo- si trascina questa cosa. Dal punto di vista professionale, di immagine, credo che assolutamente non abbia inciso minimamente non fosse altro perché assolutamente nessuno ne è venuto a conoscenza, è una cosa che è rimasta --da questo punto di vista fortunatamente- in una sfera del tutto privatissima e personale". La vera sorpresa è però venuta da chi doveva sostenere l'accusa, Vincenzo Geraci, sostituto procuratore generale della Corte di Cassazione, che invece ha chiesto l'assoluzione con motivazioni stupefacenti: "Non mi pare che siano emersi degli altri fatti che consentano di dire che ci sia stata una lesione della immagine del magistrato. E' spiegato come il tutto si sia risolto e mantenuto all'interno di un tormentato rapporto di coppia che ha avuto queste disdicevoli manifestazioni come dire anche fisiche e contundenti...". Anche i magistrati dunque hanno diritto alla loro dose di botte familiari. Con la pubblica accusa così è quasi certa l'assoluzione. Anche se tutto è stato rinviato al 22 novembre prossimo per ascoltare un teste (l'ex capo del tribunale di Lecco) prima di sentenziare. E difatti… Csm: lesioni alla moglie, disciplinare assolve giudice.

Lecco, condannati giudice e avvocato: "Ci fu dolo intenzionale". Otto mesi di pena, ecco le motivazioni della sentenza, scrive il 30 luglio 2016 “Il Giorno". Giudice e avvocato sono stati condannati a otto mesi con sospensione della pena. Depositate le motivazioni della condanna a otto mesi di un giudice e avvocatessa lecchese. L’accusa: tentato abuso d’ufficio. I fatti risalgono al 29 settembre 2011 a Lecco e il processo - essendo coinvolto un magistrato - si è tenuto al tribunale di Brescia. Il collegio giudicante, composto da Vittorio Masia come presidente, Maria Chiara Minazzatio e Tiziana Gueli, quest’ultima nel ruolo di giudice estensore, ha condannato, senza le attenuanti generiche, Gian Marco De Vincenzi e Tatiana Balbiani perché «nello svolgimento delle loro funzioni di pubblici ufficiali non agivano con esclusivo riguardo alla cura e interessi della persona del beneficiario e senza tener conto dei suoi bisogni». Di fatto l’avvocatessa ha esercitato un ruolo di amministratrice di sostegno, assegnatole dal giudice De Vincenzi. Nella sentenza si legge: «Il giudice tutelare autorizzava in data 29 settembre 2011 l’acquisto di un immobile, operazione rispetto alla quale vi era un conflitto di interessi con l’amministrata, avente ad oggetto compravendita di un bene gravato da ipoteca». «Così compiendo atti idonei e diretti in modo non equivoco ad arrecare intenzionalmente a B.P. un danno ingiusto, rappresentato dall’eccessivo prezzo del bene e a procurare un ingiusto vantaggio»  Nelle 24 pagine del dispositivo delle sentenza sono stati ricostruiti i fatti, sentiti testimoni e nella valutazione della prova i giudici bresciani scrivono: «L’operato del dottor De Vincenzi rivela il dolo intenzionale del reato insito nel proposito di voler favorire l’amministratrice, avvocato Balbiani». Durante il processo sono emerse delle responsabilità – sulla base delle deposizioni dei testimoni chiave – e il giudice Masia ha accolto la richiesta del sostituto procuratore che chiedeva un anno di pena. Il giudice De Vincenzi e l’avvocatessa Balbiani sono stati condannati entrambi a otto mesi e interdetti dai pubblici uffici per la durata della pena sia il giudice e che l’avvocatessa. I giudici bresciani hanno deciso la sospensione condizionale della pena e «la non menzione della condanna». Dopo la sentenza di primo grado è stato preannunciato il ricorso. 

Dodici anni al 41 bis per una bufala del pentito, scrive Paolo Delgado il 23 luglio 2017 su "Il Dubbio". Poco prima della sentenza di Mafia capitale, erano state annullate le condanne per 9 persone tirate in ballo da Scarantino. Massimo Carminati è da 31 mesi in regime di carcere duro, il famoso art. 41bis al quale possono essere sottoposti non solo i condannati ma anche i sospettati di mafiosità, cioè i detenuti in attesa di giudizio. Dati i capi d’accusa era inevitabile che per il cecato scattasse quell’articolo: non si trattava infatti, secondo l’accusa, di un qualsiasi soldato di mafia ma di un boss a pieno titolo e di prima grandezza: come don Totò Riina o "Sandokan", per intendersi. La sentenza di Roma smantella quell’accusa da ogni punto di vista. Non solo, infatti, Carminati non è stato condannato ai sensi dell’art. 416 bis, quello che riguarda l’associazione mafiosa, ma non è stata riconosciuta neppure l’aggravante del ‘ metodo mafioso’. Per quanto riguarda l’imputato numero 1 del processone è un passaggio cruciale: in assenza di atti di violenza e di conclamate violenza il ‘ metodo mafioso’, nell’impianto accusatorio, era costituito dalla semplice presenza di Massimo Carminati, che comportava di per sé una ‘ riserva di violenza’ tale da giustificare la richiesta di aggravante. Infine è caduto, secondo i giudici della X Sezione del Tribunale di Roma, il nesso materiale con le mafie propriamente dette. I due imputati calabresi accusati di costituire il tramite con le ‘ndrine, Rocco Rotolo e salvatore Ruggiero, sono infatti stati assolti e già scarcerati. In sostanza la sentenza sgombra il campo da ogni accusa di mafia per quanto riguarda sia Carminati che Salvatore Buzzi, anche lui a lungo in regime di 41bis ma passato alcuni mesi alla detenzione normale. Gli avvocati di Carminati hanno già chiesto che venga eliminato il regime di carcere duro ed è probabile, che se non certo, che otterranno il passaggio alla detenzione comune. Del resto l’ex Nar ha seguito tutto da lontano, in videoconferenza. «Era convinto che sarebbe andata male. Temeva che tutte le pressioni mediatiche avrebbero portato a un responso negativo per lui. Mi ha anche detto che adesso lo devo togliere dal 41 bis, questo è il suo primo pensiero e la sua prima preoccupazione», ha spiegato l’avvocato Ippolita Naso al termine del colloquio telefonico con lui. La sentenza ha dunque certificato l’esistenza di un grande sistema corruttivo ma nulla a che vedere con la pesantezza delle accuse mosse dalla Procura. La vera domanda a questo punto è però se fosse davvero necessario tenere per 31 mesi in condizioni che il Comitato prevenzione tortura del Consiglio d’Europa assimila alla tortura un detenuto in attesa di giudizio, per il quale dovrebbe cioè valere la presunzione d’innocenza sancita dalla Costituzione. Nel caso di Carminati, essendo fuori discussione il rischio di mantenere contatti con un’organizzazione ormai sgominata così come l’eventualità di un pentimento in- dotto dal carcere duro prima del giudizio, la decisione di mantenerlo in regime di 41bis sembra dipendere essenzialmente dalla necessità di confermare quella ‘ straordinaria caratura criminale’ che era in realtà la pietra angolare dell’impianto accusatorio. Di fatto Carminati è stato tenuto per 31 mesi in un regime che il Consiglio d’Europa assimila alla tortura soprattutto per confermare che era davvero quel pericolosissimo boss mafioso di cui parlava l’accusa. Per sinistra coincidenza, pochi giorni prima, senza che se ne accorgesse nessuno salvo Adriano Sofri e pochissimi altri, il tribunale di Catania aveva annullato le condanne per nove persone già condannate all’ergastolo per la strage di via D’Amelio, sulla base delle denunce del falso pentito Scarantino. Erano fuori di galera dal 2008, da quando cioè il vero pentito Spatuzza li aveva scagionati, ma solo con la formula interlocutoria della ‘ sospensione della pena’. Prima di quella data, però, avevano passato ben 12 anni nelle condizioni, allora molto più dure di quelle attuali, dettate dal 41bis. E’ opportuno ricordare che le "rivelazioni" di Scarantino, dettategli stando alle sue parole dall’allora capo ella Mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, poi distintosi alla Diaz nella mattanza di Genova e scomparso nel 2002, erano state subito considerate fortemente dubbie, come hanno ricordato sia Ilda Boccassini che Antonio Ingroia. I casi in questione sono particolarmente vistosi, anche se il particolare del 41bis indebito quasi non è citato nei commenti sulla sentenza di Roma e lo scempio siciliano è stato di fatto dimenticato nonostante la sentenza di Catania. Ma di certo non sono casi unici. La decisione di comminare il carcere duro anche ai presunti innocenti rende inevitabili casi come quello di Massimo Carminati. L’eventualità di errori giudiziari, soprattutto in processi che dipendono in buona misura dalle parole dei pentiti, è inevitabile. Ce ne sarebbe a sufficienza per decidersi a riaprire il capitolo 41bis una volta per tutte.

"Aggredito e picchiato da quel ragazzo straniero. Ora mi licenziano pure". Il capotreno di Trenord: "Mi è sfuggita una frase razzista nella concitazione. Ma la vittima sono io", scrive Cristina Bassi, Giovedì 21/12/2017, su "Il Giornale". «Sono stato aggredito e picchiato. E adesso vengo licenziato per una frase - lo ammetto: razzista - che mi è sfuggita nella concitazione. In questa storia assurda la vittima sono io». Giordano Stagnati, capotreno cremonese di 25 anni, il 23 settembre scorso era in servizio sulla linea ferroviaria Brescia-Cremona. Ha discusso con un passeggero senza biglietto, un senegalese di 23 anni, sono volati insulti reciproci e poi le botte. In un video girato con il telefonino da un'altra viaggiatrice Stagnati apostrofa lo straniero con un «negro di m...», getta dal finestrino la sua carta prepagata senza credito. Moussa Diatta spinge a terra il capotreno, che lo morde a un braccio, e gli strappa via il palmare e il Pos aziendali. Il senegalese è stato arrestato per rapina, Stagnati licenziato da Trenord.

Se lo aspettava?

«Mi aspettavo un qualche provvedimento disciplinare, ma non una misura tanto severa. Così dice la lettera di licenziamento: ha tenuto un comportamento non consono alle mansioni proprie della sua figura professionale e della nostra Azienda che Lei comunque rappresenta mentre indossa l'uniforme aziendale ed esercita funzioni di incaricato di pubblico servizio per conto di Trenord. Inoltre avrei messo a repentaglio la mia sicurezza e quella dei viaggiatori».

Il video della rissa, in cui tra l'altro lei ha la peggio, è finito su internet e molti le hanno dato del razzista.

«Mi dispiace molto per quello che è successo. Ma mi è capitata questa brutta cosa, sono stato aggredito e mi è scappata una frase sgradevole. A bocce ferme è facile per chi non ci si è trovato chiamarmi razzista. Ora so di aver sbagliato e chiedo scusa. Però chissà gli altri al mio posto cosa avrebbero fatto».

Ci saranno strumentalizzazioni...

«Io non sono iscritto ad alcun partito politico, non uso i social e non ho mai espresso opinioni contro gli stranieri».

Aveva mai avuto problemi di questo tipo?

«No. Ho sempre avuto un comportamento educato con tutti i passeggeri. Non ho mai trasceso, neppure con quelli che alzano la voce con me. Non è vero che ho usato io le mani per primo con quel ragazzo straniero. Nel mio lavoro non ho mai gridato né tanto meno alzato le mani. Anche in questo caso stavo facendo il mio dovere e lui non ha esitato ad aggredirmi».

Si è accanito su di lui perché era straniero?

«Assolutamente no. Ho chiesto il biglietto a tutto il vagone, non era certo un fatto personale. I passeggeri sprovvisti erano solo Diatta e due ragazze, cui ho fatto pagare il biglietto con la maggiorazione prevista. Sono le stesse che poi hanno postato il video, forse perché erano arrabbiate con me, aggiungendo commenti offensivi nei miei confronti. I passeggeri senza biglietto sono spesso anche gli italiani e per i molti stranieri sprovvisti ce ne sono altrettanti con l'abbonamento».

Ha avuto paura quel giorno?

«Sì. Quel ragazzo mi ha detto razzista, bastardo, italiano di m.... Mi sono sentito in pericolo, ricordate cos'è successo al capotreno Carlo Di Napoli? (una gang di latinos gli amputò quasi un braccio con un machete, ndr). Poteva andarmi molto peggio e potevo finire con più di una contusione a un polso».

Adesso cosa farà?

«Assistito dall'avvocato Massimiliano Cortellazzi, farò ricorso contro il licenziamento. Inoltre mi costituirò parte civile nel processo per rapina contro Diatta. E ho querelato per diffamazione l'autrice del filmato».

Vorrebbe continuare a lavorare a Trenord?

«Mi trovo bene in questa azienda, mi hanno assunto a giugno di quest'anno. Vorrei tornare a lavorare. Ho superato una selezione e fatto mesi di formazione per arrivarci. Il mio è un bel lavoro, di responsabilità, anche se alcune volte è difficile».

Il caso Seregno. Il romanzo della mafia brianzola pieno di cumenda e senza l’ombra di un boss, scrive Tiziana Maiolo il 29 Settembre 2017 su "Il Dubbio". La regola è sempre la stessa: strillare su giornali e tv che i nostri territori sono invasi dalle mafie, poi diffondere un pacco di intercettazioni e una bella grande foto con al centro un personaggio politico che non c’entra niente ma che viene subito guardato con sospetto. E’ successo con Mafia Capitale, che mafia non era, come certificato dalla sentenza di primo grado. Sta capitando qualcosa di simile in Lombardia, dove un’inchiesta sulla ’ ndrangheta è stata mescolata in un minestrone velenoso con le indagini su un sindaco pressato da un imprenditore forse un po’ troppo trafficone e chiacchierone, che in qualche telefonata diceva di avere come punto di riferimento politico il senatore Mario Mantovani. Gli ingredienti ci sono tutti. Che in Brianza come un po’ in tutto il nord ci sia la ‘ ndrangheta, è fatto certo. Del resto le mafie vanno dove c’è maggiore accumulazione di capitali. E si sa anche di quali reati, oltre a quello associativo, si rendono responsabili gli uomini della criminalità organizzata: traffico di droga, estorsioni, incendi, ricatti, detenzione di armi, omicidi. Di questa parte dell’inchiesta, presentata in gran pompa nei giorni scorsi al palazzo di giustizia di Milano dalla Dda di Milano e Monza, però non si sa pressoché nulla, nessun mezzo di comunicazione ne parla. Il che è un po’ singolare, se viene lanciato un allarme (attenzione cittadini, siete invasi dai mafiosi) è bene che tutti sappiamo da chi dobbiamo difenderci. Invece niente. Evidentemente nella conferenza stampa non se ne è parlato. Oppure i nostri colleghi non lo hanno ritenuto interessante. Sappiamo invece tutto su quel che sarebbe accaduto un paio di anni fa all’interno del Comune di Seregno, pacifica (fino a ora, visto che la giunta ieri si è anche sciolta) cittadina di 45.000 abitanti nel cuore della ricca Brianza. Un centinaio di pagine di intercettazioni ambientali è dedicato a discussioni, litigi e pettegolezzi tra un gruppo di tecnici che battibeccavano sulle procedure necessarie per una variazione d’uso di un terreno su cui un imprenditore, Antonino Lugarà, intendeva costruire un supermercato. Il terreno andava forse prima bonificato, ma non tutti erano d’accordo. La delibera doveva essere di giunta o di consiglio? Di cose così si discuteva. Lugarà è stato arrestato per corruzione, perché con i voti per le elezioni del 2015 si sarebbe comprato il sindaco Edoardo Mazza (anche lui in manette), che avrebbe ricambiato con la variazione d’uso del suo territorio. E fino a qui sarà tutto nelle mani dei giudici (se si arriverà a processo) valutare se ci siano state irregolarità tecniche e anche, eventualmente, se i voti, che l’imprenditore valuta nel numero di 30, siano da considerarsi “altra utilità”, come prevede il codice per stabilire se un pubblico ufficiale, che non ha incassato mazzette, sia stato comunque corrotto. Che cosa c’entra la ‘ ndrangheta? Il fatto è che Antonino Lugarà viene descritto come un capomafia. Infatti quando viene svaligiata la casa della figlia, cui vengono rubati tutti i gioielli, l’imprenditore sparge la voce, e chiede non alla polizia ma ad “altri” se si riesce a recuperarli. Ma invano. Strano comportamento per un capomafia, che si lascia svaligiare e non è neanche in grado di recuperare la refurtiva. Va anche detto però che Lugarà è calabrese (questo è già sospetto) e magari frequenta qualche ambiente un po’ borderline. Forse, non sappiamo. Ma il vero peccato mortale di questo imprenditore che passa le giornate a stressare per il supermercato i tecnici del comune di Seregno e anche il sindaco Mazza (il quale a un certo punto si lascerà scappare al telefono «ogni promessa è debito») è la sua conoscenza con l’ex vicepresidente della Regione Lombardia, il senatore Mario Mantovani, che considera un suo punto di riferimento politico. Mantovani come ha detto nell’intervista al nostro giornale – è stato a Seregno durante la campagna elettorale del 2015, come altri dirigenti del centrodestra hanno fatto, e ha festeggiato insieme agli altri la vittoria. Ma quando, tramite Lugarà, gli viene chiesto (mentre era assessore alla sanità) di trasferire un certo primario e di promuoverne un altro, non lo fa. Il che dimostra, non solo che non c’entra con la mafia, ma neppure con eventuali intrallazzi o clientelismi a Seregno. Inoltre non c’è una sua intercettazione nell’inchiesta, ma solo conversazioni di altri su di lui. Si dice che è forte, che è potente. Gravissimo. Ma c’è quella foto in cui lui è con il sindaco presunto corrotto e con l’imprenditore presunto corruttore e anche presunto mafioso. Come negargli un’informazione di garanzia e soprattutto una bella gogna mediatica? Il ministro Poletti si è salvato da quella foto di Mafia capitale, e così sarà per Mantovani. Ma intanto…

Il teorema Seregno crolla ma la giunta (ops!) adesso non c’è più…, scrive Tiziana Maiolo il 22 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Il Comune brianzolo fu azzerato da un’inchiesta ma il Riesame scarcera tutti. Il “teorema Seregno” che un mese fa, con un’azione congiunta dei magistrati monzesi e della Pm milanese Ilda Boccassini aveva portato all’arresto di 24 persone e azzerato la giunta della città brianzola di Seregno, è già a pezzi. Il tribunale del riesame non solo ha scarcerato per grave mancanza di indizi l’imprenditore Antonino Lugarà, considerato punto centrale dell’inchiesta, ma ha demolito il pilastro dell’accusa che tanto aveva ingolosito i giornalisti- trombettieri delle procure, e cioè l’infiltrazione della ‘ ndrangheta nel Comune di Seregno, con la benedizione del senatore Mario Mantovani. Intanto va chiarita una cosa, che evidentemente ai nostri colleghi di troppi quotidiani è sfuggita (si fa per dire), mentre titolavano “’ ndrangheta in Comune”. Né il sindaco di Seregno Edoardo Mazza e il consigliere comunale Stefano Gatti (ambedue ai domiciliari), né il senatore Mario Mantovani (indagato) né men che meno l’imprenditore Lugarà (arrestato) sono mai stati inquisiti per reati di mafia. Si dice solo che l’imprenditore, che è calabrese, è “sospettato”. Ma sospettato da chi? In genere i magistrati sanno bene come tradurre in provvedimenti giudiziari i propri sospetti. E sospettato di che cosa? Di aver intrattenuto rapporti. Ma non si sa bene con chi. Resta il fatto che il reato contestato a tutti è quello di corruzione, per la presunta accelerazione di una pratica di concessione edilizia di un supermercato. Proprio il fatto che oggi, con la scarcerazione di Lugarà per mancanza di gravi indizi di colpevolezza, il tribunale del riesame ha distrutto. A quanto pare c’è una perizia d’ufficio sbagliata, inoltre i voti raccolti come corrispettivo per la corruzione sono forse qualche decina e i famosi “eventi conviviali” cui avrebbe partecipato Mario Mantovani si riducono a un aperitivo in un bar. Così come semplici vanterie sono considerate le spacconate del figlio di Lugarà sui suoi rapporti con l’esponente di Forza Italia.

Tutto normale? Normale dialettica processuale? Eh no, perché i risultati sono politici, e nel frattempo la Giunta Comunale si è sciolta e a Seregno è arrivato il commissario. Una volta di più l’improvvido Circo mediatico- giudiziario ha vanificato un risultato elettorale. Ha rilevanza il fatto che nel maggio- giugno 2015 gli elettori abbiano premiato a Seregno i candidati del centro- destra? Speriamo non sia così, ma che siamo di fronte soltanto all’ennesima (grave) superficialità e sciatteria di qualche magistrato. Ma nel caso di Seregno c’è qualcosa di più e qualcosa di molto più inquietante della disattenzione. Usiamo come traccia un qualunque articolo del 26 settembre di un non- qualunque grande quotidiano nazionale. La cronaca è molto ampia e molto ben costruita. Si riferisce di una conferenza stampa congiunta tra alcuni magistrati di Monza e quelli della Direzione Distrettuale Antimafia di Milano, con la presenza della dirigente Ilda Boccassini, che spiega quale è il succo del blitz che, dopo indagini durate 7 anni, ha portato all’arresto di 24 persone. Sintetizza bene il cronista del grande quotidiano: «“Dal traffico internazionale di droga alla corruzione, dalla Calabria alla Lombardia, fino a una cittadina della Brianza, quella di Seregno, dove nell’ultimo blitz contro le infiltrazioni della ‘ ndrangheta al nord, finisce ai domiciliari anche il sindaco di Forza Italia…». Che cosa siamo dunque indotti a pensare? Che il Comune di Seregno sia stato sciolto per mafia, che tutte le persone coinvolte appartengano alla ’ ndrangheta. E il traffico di droga con tutti gli altri reati che caratterizzano l’appartenenza alle cosche? Zero assoluto, non ci soni i reati e neanche i nomi delle persone arrestate, tranne quelli del sindaco, di un consigliere, dell’imprenditore e del senatore Mantovani. All’ex coordinatore lombardo di Forza Italia viene dedicato un bel capitolo. Viene descritto come un politico molto potente, cui molti si rivolgevano per impetrare favori e carriere. Spesso si trattava di medici che si rivolgevano all’imprenditore Lugarà perché li raccomandasse all’assessore regionale alla sanità per questioni di trasferimenti o promozioni. Che regolarmente non erano andati a buon fine. In che cosa sarebbe dunque consistita la corruzione? Lo sapremo alla data della chiusura delle indagini. Ma intanto il circo mediatico ha già provveduto a fare il suo lavoro, rovinare reputazioni, contribuire ai ricambi di governo. Non dimentichiamo il caso di un’altra cittadina lombarda, Sedriano, assalita con lo stesso copione: inchiesta di ‘ ndrangheta e corruzione, arrestato il sindaco Celeste del centrodestra. L’inchiesta è finita nei mesi scorsi: il sindaco è stato assolto. Nel frattempo, dopo il commissariamento e le fiaccolate del Pd (che si era molto adoperato per far cadere la giunta), oggi a Sedriano governa il Movimento 5 stelle.

“Equivoci” e omissis: così hanno montato il caso Seregno, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 25 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Il consiglio comunale del paese lombardo è stato sciolto per “mafia” in base a delle intercettazioni trascritte in maniera «erronea». Una consulenza tecnica che «non sta né in cielo e né in terra» e alcune intercettazioni telefoniche trascritte in maniera “erronea” hanno portato il mese scorso alle dimissioni dell’intero Consiglio comunale di Seregno e alla nomina di un commissario prefettizio. Secondo il teorema accusatorio della Direzione distrettuale antimafia di Milano, il sindaco della città brianzola Edoardo Mazza (FI) e il consigliere comunale Stefano Gatti sarebbero stati corrotti da Antonio Lugarà, un imprenditore di origini calabresi che in cambio del via libera alla realizzazione di un centro commerciale avrebbe garantito ai due un appoggio alle elezioni amministrative del 2015. Oltre a loro, erano state arrestate dai carabinieri del Nucleo investigativo di Milano 24 persone ritenute a vario titolo responsabili di reati che andavano dallo spaccio di sostanze stupefacenti, alla detenzione abusiva di armi, all’estorsione, il tutto con l’aggravante dell’associazione mafiosa. Lugarà fin dal giorno del suo arresto aveva però sostenuto la regolarità dell’iter amministrativo del progetto edilizio e la mancanza del corrispettivo della corruzione contestato nell’appoggio politico al sindaco Mazza. Gli avvocati Luca Ricci e Bruno Brucoli, difensori di Lugarà, sono riusciti a dimostrare la correttezza da parte del loro assistito, che è stato scarcerato senza l’applicazione di alcuna misura la scorsa settimana, in quanto a suo carico, secondo il Tribunale del riesame, non «sussistono i gravi indizi di colpevolezza». Come dichiarato al Dubbio dall’avvocato Ricci, «l’intera indagine si basa su una consulenza tecnica di un architetto nominato dalla Procura e sul massiccio ricorso alle intercettazioni telefoniche». Grazie ad un «corretto» ascolto delle intercettazioni telefoniche, durate anni, ed una «diversa» lettura del materiale raccolto dal consulente della procura, gli avvocati di Lugarà hanno fatto crollare il castello accusatorio. «Non esistendo intercettazioni fra Lugarà, il sindaco Mazza e i funzionari comunali in cui emergano atti contrari ai doveri d’ufficio finalizzati all’ottenimento delle autorizzazioni – afferma Ricci – gli investigatori sono ricorsi ad una intercettazione fra due assessori». Per il gip di Monza Pierangela Renda che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare richiesta dal pm Ilda Boccassini è la pistola fumante in quanto evidenzia «l’assoluta e condivisa consapevolezza della contrarietà degli atti relativi alla vicenda (del permesso per costruire richiesto da Lugarà, ndr)». «In realtà – prosegue Ricci – i due assessori discutono di un piano urbanistico in una zona diversa, denominato “Pac1” che i carabinieri, invece di trascrivere correttamente, riportano con un omissis, e cioè solo “Pa”. Sigla questa che corrisponde effettivamente alla zona interessata dall’intervento edilizio da parte di Lugarà». L’appoggio elettorale di Lugarà al sindaco, definito dagli inquirenti «un vero e proprio “porta a porta” grazie alla sua fitta rete di conoscenze», si esaurisce, sempre secondo l’avvocato Ricci, «in due telefonate». In questa vicenda è stato tirato in ballo anche il consigliere regionale ed ex vice presidente di Regione Lombardia Mario Mantovani che si era recato a Seregno per sostenere la candidatura del sindaco Mazza. Secondo gli inquirenti, Mantovani sarebbe stato il «referente» di Lugarà. «Dalla lettura dei risultati elettorali del 2015 – aggiunge Ricci – i due candidati che Lugarà avrebbe appoggiato, in un comune di 45.000 abitanti, hanno preso complessivamente 100 voti». In particolare, nel seggio dove per residenza votavano Antonino Lugarà ed i suoi famigliari, «i voti riportati da entrambi sono stati 6, vale a dire esattamente i componenti della sua famiglia». «Il peso elettorale di Lugarà, dunque, tenuto conto che qualche amico e parente che li abbia votati i candidati lo avranno pur avuto, è di poco più di una decina di voti», conclude Ricci. Il mese prossimo le motivazioni complete da parte del Tribunale del riesame.

Nessuno ha il coraggio di dire a Bindi che è razzista? Scrive Mimmo Gangemi il 22 Ottobre 2017 su "Il Dubbio". Per la presidente dell’Antimafia è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta, stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. La Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia, on. le Rosy Bindi, dichiara che è impossibile che in Valle d’Aosta non ci sia ’ndrangheta – «che ha condizionato e continua a condizionare l’economia» – stante che il 30% della popolazione è di origine calabrese. Qua e là annota punti di vista di matrice abbastanza lombrosiana, che criminalizzano molto oltre i demeriti reali, aggiungono pregiudizio al pregiudizio, alimentano la fantasia assurda che quaggiù sia il Far West e una terra irredimibile, allontanano l’idea di una patria comune, distruggono i sogni dei nostri giovani su un futuro possibile. Io non sono in grado di escludere la presenza della ’ ndrangheta – essa va dove fiuta i soldi o dove c’è, da parte di imprenditori locali, una richiesta sociale di ’ ndrangheta, delle prestazioni in cui è altamente specializzata: i subappalti da spremere, il lavoro nero, la fornitura di inerti di dubbia provenienza, lo smaltimento dei rifiuti di cantiere, di quelli tossici o peggio, l’abbattimento violento dei costi, la pace sindacale per sì o per forza, la garanzia di controlli addomesticabili, e non con il sorriso. Ma, dopo aver controllato la cronaca delittuosa, non mi pare che compaia granché o che sia incisiva da dover indurre a tali spietate esternazioni. E non mi piace che tra le righe si colga l’insinuazione che il calabrese è, in diverse misure, colpevole di ’ ndrangheta – o di calabresità, che è l’identica cosa. Alludervi è anche disprezzare il bisogno che ha spinto tanto lontano i passi della speranza e gli immani sacrifici sopportati per tirarsi su. L’emigrazione in Valle d’Aosta è stata tra le più faticose e disperate. I primi giunsero nel 1924. E giunsero per fame. Lavorarono alla Cogne, nelle miniere di magnetite. E quelli di seconda e terza generazione hanno dimenticato le origini, sono ben inseriti e valdostani fino al midollo, pochi quelli che ricompaiono per una visita a San Giorgio Morgeto, nel Reggino, da dove partirono in massa. Più che ai “nostri” tanto discriminati, forse si dovrebbe guardare alle storie di ordinaria corruzione, non calabrese e non ’ndranghetista, che nelle Procure di lì hanno fascicoli robusti. Detto questo, la on. le Bindi Rosy da Sinalunga – civile Toscana, non l’abbrutita Calabria – dovrebbe mettersi d’accordo con se stessa. Chiarisco: alle ultime politiche, dopo che la sua candidatura traballò da ottavo grado della scala Richter e non ci fu regione disposta ad accoglierla, per sottrarsi alla rottamazione a costo zero ha dovuto riparare nell’abbrutita Calabria, che sarà tutta mafiosa ma sa essere anche generosa e salvatrice per chi, come lei, non intende rinunciare alla poltrona imbottita, con le molle ormai sbrindellate stante i decenni che le stuzzica poggiando il nobile deretano. È prona come si pretende da una colonia, la Calabria. In quell’occasione elettorale lo fu due volte, con la on. le Bindi e con un altro personaggio di cui l’Italia va fiera, tale Scilipoti Domenico, una bella accoppiata, entrambi eletti. La on. le fu prima con migliaia di voti nelle primarie PD del Reggino e, da capolista, ottenne l’entrata trionfale in Parlamento. Assecondando la sua ipotesi sulla Valle d’Aosta e sulla presenza ’ ndranghetista, diventa legittimo estendere a lei il suo stesso convincimento che, dove ci sono calabresi, per forza ci sono ’ ndranghetisti. Quindi, essendo la Calabria piena di calabresi – questa, una perla di saggezza alla Max Catalano, in “Quelli della notte” – logica pretende che tra le sue migliaia di voti ci siano stati quelli degli ’ndranghetisti, non si scappa. Ne tragga le conseguenze. Oppure per lei, e per le Santa Maria Goretti in circolazione, l’equazione non vale e i voti ’ndranghetisti non puzzano e non infettano? Eh no, troppo comodo. Qua da noi persino il vago sospetto d’aver preso certi voti conduce a una incriminazione per 416 bis e spesso al carcere duro del 41 bis. Questo è. Forse però si è trattato di parole in libera uscita, di un blackout momentaneo del cervello. Se così, dovrebbe battersi il petto con una mazza ferrata, chiedere scusa ai calabresi onesti, che sono la stragrande maggioranza della popolazione, e fare penitenza magari davanti alla Madonna dagli occhi incerti nel Santuario di Polsi oltraggiato come ritrovo di ’ ndrangheta e invece da decenni diventato solo luogo di preghiera e di devozione. Ora mi aspetto l’indignazione dei calabresi. Temo che non ci sarà, a parte quella di qualche spirito libero – e incosciente, vista l’aria che tira. E stavolta dovrebbero invece, di più i nostri politici che, ahinoi, tacciono sempre, mai una voce che si alzi possente e riesca ad oltrepassare il Pollino. Coraggio, uno scatto d’orgoglio, tirate fuori la rabbia e gli attributi. Se non ci riuscite, almeno il mea culpa per aver miracolato una parlamentare che ripaga con acredine la terra che l’ha eletta e a cui, nell’euforia della rielezione piovuta dal cielo, aveva promesso attenzioni amorevoli.

Il Csm: via i bambini ai mafiosi. Ma è un provvedimento giusto? Scrive Giovanni M. Jacobazzi il 26 Ottobre 2017 su "Il Dubbio".  Fa discutere la proposta sulla decadenza della potestà genitoriale. I nati in una famiglia di affiliati saranno equiparati ai figli di alcolisti e tossicodipendenti. I figli nati in una famiglia mafiosa devono essere equiparati a quelli nati in famiglie dove i genitori hanno problemi di alcolismo o tossicodipendenza. Ed è pertanto necessario procedere con provvedimenti giudiziari che comportino la decadenza della patria potestà e il successivo allontanamento del minore dalla residenza familiare, con il suo affido ad una struttura che consenta di crescere in un contesto idoneo per l’età. E’ questo il contenuto della risoluzione che il Plenum del Consiglio superiore della magistratura sta discutendo su iniziativa dei consiglieri Ercole Aprile e Antonello Ardituro, in materia di “tutela dei minori nell’ambito del contrasto alla criminalità organizzata”. Per prevenire e recuperare i minori è, dunque, indispensabile intervenire sulla sfera familiare e/ o sociale di provenienza, in quanto è una delle prime cause che incidono sul percorso di crescita. In particolar modo nelle regioni meridionali si riscontra un frequente coinvolgimento di minori in attività illecite legate ad associazioni criminali, spesso di tipo mafioso (attività che consistono, ad esempio, nello spaccio di stupefacenti, estorsioni, omicidi). Forse anche a causa del condizionamento mediatico esercitato da alcune recenti fiction, il fenomeno si è accentuato e la “cultura” mafiosa ha fatto presa sui giovani provenienti da contesti malavitosi. La ricerca del potere, la facile ricchezza e realizzazione di sé, prevalgono sulla pacifica convivenza e mettono le istituzioni sotto una luce negativa. La soluzione è l’adozione di provvedimenti di decadenza o limitazione della potestà genitoriale (fino ad arrivare alla dichiarazione di adottabilità) e di collocamento del minore in strutture esterne al territorio di provenienza, per eliminare il legame con i condizionamenti socio- ambientali. Pur costituendo l’extrema ratio, la salvaguardia del superiore interesse del minore ad un corretto sviluppo psico-fisico prevale sull’autonomia riconosciuta ai genitori nell’adempimento del dovere educativo. La famiglia di origine, come nei casi in cui i genitori siano dei tossicodipendenti o degli alcolisti, è «famiglia maltrattante» che, per le modalità con cui «educa» i figli, ne compromette lo sviluppo psicofisico. Per il Csm vanno, in primis, potenziati gli strumenti a disposizione dei giudici minorili, con un’azione sinergica da parte dei servizi minorili e dei servizi sociali, e una collaborazione, quando necessario, con gli uffici giudiziari ordinari. Fondamentale, poi, un riassetto normativo che renda più efficace ed effettiva l’applicazione di questi provvedimenti e che investa anche il diritto penale (introducendo la pena accessoria della decadenza dalla potestà genitoriale per i reati associativi di tipo mafioso) e processuale (dove si prevede ora l’affidamento alla famiglia anche di minori che abbiano commesso gravi reati). Un discorso a parte riguarda invece i figli minori di testimoni e collaboratori di giustizia per i quali oltre ad una tutela psicologica bisogna porre in essere le condizioni per un loro inserimento nelle località protette.

Caro Csm, Impastato era figlio di un boss ma si ribellò al padre, scrive Mimmo Gangemi il 28 Ottobre 2017 su "Il Dubbio".  Non c’è nessun automatismo tra il crescere in una famiglia mafiosa e diventare mafiosi. È in discussione al Csm la proposta di togliere la patria potestà alle famiglie mafiose e di affidare i figli a strutture pubbliche. Si può disquisire a sazietà sulla questione, resta però che i piccoli allontanati dal nido diventerebbero vittime sacrificate all’inefficienza di uno Stato che non riesce a estirpare il fenomeno, che eleva a logica incontestabile – offuscando così l’idea stessa di Giustizia – l’ipotesi che chi cresce in un ambiente mafioso debba per forza sviluppare l’animo del mafioso e che si arrabatta utilizzando i più deboli, dopo aver loro impresso a caldo il marchio di mafiosi già solo decidendo che giocoforza condurranno la stessa vita delittuosa dei padri. Dovesse esserci il sì del Csm, si stabilirebbe a priori, e con l’imperizia cinica delle decisioni frettolose e arruffone, che dove c’è un padre mafioso – latitante, carcerato – non ci sia possibilità di orientarsi per un’educazione sana ai figli, di guidarli su strade di rettitudine, di stare accorti a non porli davanti al bivio dove biforcano il carcere e la morte per mano assassina, magari spinti a ciò dall’intento di non incorrere nel destino amaro del genitore, tra sangue, galera, sofferenze inflitte e patite. E si dà per scontato che la nuova situazione di bimbo o ragazzo esiliato in strutture pubbliche – ed è tristemente noto come funzionano le più – non produca i guasti che invece spesso capitano a chi è estirpato alle origini e costretto, con buona pace dell’innocenza della giovane età, a mutare la vita da così a così e a finire in quella condizione di abbandono e di solitudine, senza l’affetto, le cure e le attenzioni di cui solo le mamme sono capaci. Inoltre, viene difficile credere che l’allontanamento possa trasformarsi in un affido a famiglie di buoni sentimenti: essendo note la pericolosità e la ferocia della ’ ndrangheta, nessuno si arrischierebbe ad accoglierli, per il timore di poter impattare nelle ritorsioni. La civiltà affossi quindi la barbarie. E la proposta cada nel vuoto. Applicarla sarebbe una prepotenza da Inquisizione, e una sconfitta delle Istituzioni, costrette a estremizzare con azioni da regime totalitario l’incapacità di estirpare il cancro. Pure, sarebbe un risultato pericoloso, con altri passi acciaccati verso la deriva autoritaria della Giustizia, in atto da tempo in certe aree più a rischio del paese e che avvolge di nebbia fitta lo Stato di diritto, incrina la libertà e la democrazia. Nessuno dovrebbe pagare la colpa del cognome che porta. Di sicuro, non un minore. Ho conoscenza diretta di famiglie di ’ ndrangheta che hanno deciso e attuato un futuro diverso per i figli, tenendoli estranei, spingendoli allo studio, alle buone frequentazioni, a forgiare pensieri positivi. Ma lo Stato pare non accorgersi della loro esistenza. O non intende accettarlo, per troppa rigidità, per troppe convinzioni che hanno messo crosta fino a deciderle inconfutabili, verità assolute. Non riflette, lo Stato, che i comportamenti repressivi applicati sul mucchio a prescindere, senza alcun distinguo tra chi nella malavita s’immerge mani e piedi e chi invece tende a scansarla, parano davanti a un muro cieco, diventano istigazione a delinquere, perché lasciare ai figli della ’ ndrangheta soltanto lo sbocco ’ ndrangheta impedirà di spezzare il circolo vizioso e perpetuerà la malapianta. Penso a Peppino Impastato, figlio di un boss di Cosa Nostra. Ha scelto un percorso di onestà e di denuncia, pur vivendo in un ambiente malsano. È in nome suo, e di tanti come lui di cui non c’è memoria solo perché non si sono immolati eroi, che bisogna astenersi dal sopruso amorale che si va profilando. Anche in nome e in ricordo di Maria Rita Logiudice, la ragazza venticinquenne, bella e fresca di laurea con lode, che si è uccisa gettandosi dal balcone per non aver più sopportato la discriminazione per l’appartenenza a una potente cosca di ’ ndrangheta di Reggio. Allora registrammo le parole di dolore e di contrizione del Procuratore Cafiero De Raho: «Credo che debba toccare la coscienza di tutti… che siamo tutti responsabili di fatti come questo… Persone così possono essere il cambiamento della Calabria… Se noi perdiamo simili occasioni per recuperare la libertà, l’onestà, l’etica, se diciamo ai ragazzi cambiate vita e poi, quando la cambiano, li isoliamo, li emarginiamo, non diamo nessun sostegno, allora non abbiamo più nessuna speranza per il nostro futuro… Dobbiamo fare tutto ciò che è necessario perché tragedie di questo tipo non avvengano più». Peppino e Maria Rita – e chissà quanti altri non noti alle cronache – sono la prova che non c’è automatismo tra il crescere dentro una famiglia di mafia e il diventare mafiosi. Comunque, pure a voler ammettere che i più di quegli innocenti di oggi da adulti non condurranno vite da innocenti, valgono i pochi, è più importante che, pur di colpire il resto, non si penalizzino i Peppino e i Maria Rita.

Chi va a decidere tenga nella giusta considerazione i piccoli dal cognome scomodo che verrebbero a essere privati del diritto alla famiglia. E non trascuri le esternazioni del Procuratore su una figlia della ’ ndrangheta che inseguiva e coltivava civiltà. Non commetta l’errore di lasciare che restino parole vuote. Non trasformi le lacrime di allora in lacrime di coccodrillo.

«Lotta alla mafia? Non spetta alle toghe, loro devono far rispettare la legge». La lezione di Macaluso, scrive Davide Varì il 4 Marzo 2017 su "Il Dubbio". In un appassionante intervento alla Scuola superiore della magistratura, lo storico dirigente e intellettuale comunista illustra le trasformazione delle cosche e spiega: «Le cose sono cambiate, i mafiosi non hanno più il potere e il ruolo del passato». «Ho 92 anni suonati e nella mia vita ho visto di tutto. Eppure, parlare a dei giovani magistrati mi emoziona, mi commuove». Se qualcuno avesse detto a Emanuele Macaluso che un giorno sarebbe stato invitato dalla Scuola superiore della magistratura per tenere una lezione sulla mafia, la politica e la giustizia, lui, vecchio comunista siciliano, lo avrebbe fulminato con una “taliata”, magari facendo spallucce e voltandosi dall’altra parte. E invece è accaduto. E così il grande suggeritore di Giorgio Napolitano, si dice infatti che i suoi saggi consigli abbiano accompagnato il settennato e mezzo del presidente più “politico” degli ultimi anni, si è ritrovato, emozionato come un ragazzino alla prime armi, a dover spiegare a un nugolo di imberbi magistrati il complicatissimo rapporto tra politica e magistratura italiana. E allora conviene partire dalla fine, dalle parole con cui Macaluso ha chiuso il suo lungo e suggestivo intervento: «Eravamo all’inizio degli anni 80. Achille Occhetto era il segretario regionale del Pci siciliano e nel corso del suo intervento per l’inaugurazione dell’anno giudiziario invitò tutti, magistrati compresi, a combattere contro la mafia. Poi prese la parola il presidente della Corte d’Appello di Palermo che con grande serenità e chiarezza spiegò al giovane Occhetto e a noi tutti, che la magistratura non doveva fare nessunissima lotta, neanche contro la mafia: “La magistratura deve applicare le leggi e basta”, disse». Ma questa è solo la conclusione dell’intervento di Macaluso. Per più di un’ora il vecchio comunista ha raccontato episodi chiave della storia della Sicilia e del nostro Paese. A cominciare dal fascismo e da Mussolini che «quando presentò il Listone in Sicilia si affacciò con i mafiosi sui balconi delle piazze, salvo poi inviare il prefetto Mori che perseguitò figli, moglie e genitori dei latitanti o presunti tali». E poi la liberazione e lo sbarco alleato, che divenne il momento in cui si saldò l’alleanza tra Stato, Chiesa, latifondo e Cosa nostra. E l’avvento della Dc col ricordo di Giuseppe Alessi: «Grande avvocato antifascista e primo presidente della regione Siciliana, che rifiutò di iscrivere i mafiosi nella Dc e per questo fu “minacciato” dal vescovo in persona». Poi Alessi si dimise, o fu fatto dimettere, e arrivò Arcangelo Cammarata che con i mafiosi era decisamente più disponibile e malleabile. E quel blocco di potere tra Chiesa, Stato, latifondo e mafia si rafforzò con le grandi lotte contadine. E a quel punto Macaluso ha spiegato ai giovani magistrati chi era Placido Rizzotto: «Un combattente che io conobbi e che fu ucciso dalla mafia perché lottava al fianco dei contadini». E se è vero che Rizzotto fu ucciso dalla mafia, è soprattutto vero che a tradirlo furono gli uomini dello Stato. A cominciare da un giovane ufficiale di nome Carlo Alberto Dalla Chiesa, il futuro generale Dalla Chiesa, il quale al processo sulla morte di Rizzotto dichiarò che quel delitto non aveva nulla a che vedere con la politica e con la mafia. «Ma io capisco quella sua posizione, allora c’era un unico grande nemico: il comunismo». Ma anche i giudici ebbero un ruolo in quel sistema. Anche pezzi di magistratura fecero parte di quel blocco di potere. «Il giudice Guido Lo Schiavo teorizzò in un libro quel legame: “Dire che la mafia disprezza la polizia e la magistratura è un’inesattezza – scrisse Lo Schiavo -, la mafia ha sempre rispettato la giustizia e la magistratura, si è inchinata alle sue sentenza collaborando anche alla cattura dei banditi”». Ma qualcosa iniziava a cambiare, tanto che nel ‘ 78 la procura di Palermo fu affidata a Gaetano Costa: «Un uomo rigoroso, colto, onestissimo. Un amico che pur avendo le sue idee non si iscrisse mai a Magistratura democratica per mantenere la sua indipendenza. Ma Costa fu isolato – ha raccontato Macaluso – tanto che quando preparava mandati di arresto per i mafiosi nessun aggiunto li firmava con lui. E questa fu la sua condanna». Poi arrivò la generazione che si era laureata nel ‘ 68 e allora la magistratura cambiò davvero e quel patto osceno venne meno: «E fu proprio la fine di quell’alleanza che determinò l’inizio del terrorismo mafioso che raggiunse il culmine negli anni ‘ 90». Ma di lì in poi Cosa nostra inizia a perdere. «Io credo che la mafia siciliana abbia perso – ha infatti ribadito alla platea di giovani magistrati Macaluso-. Questo non vuol dire che la mafia non c’è più. Io ritengo che le cose siano cambiate, che i mafiosi non hanno più il potere e il ruolo che hanno avuto in passato». Poi la frase finale, il congedo da quella platea così particolare: «I giudici non fanno battaglie, i giudici devono far rispettare la legge. Non lasciate che la politica scarichi su di voi questa responsabilità». E chissà se qualcuno ascolterà le parole di un vecchio comunista.

Magistratura che deve applicare la legge e cercare di non sbagliare.

Via la toga per un errore giudiziario. Giudice reintegrato dopo 24 anni, scrive Viviana De Vita Venerdì 27 Ottobre 2017 su "Il Mattino". Fuori dalla magistratura per colpa di un errore giudiziario, sotto processo da innocente, assolto con formula piena, è stato reintegrato a distanza di quasi un quarto di secolo. Oggi ha 73 anni e, dopo aver dovuto “reinventare” una professione indossando la toga di avvocato, può finalmente, e nonostante l’età “pensionabile”, ritornare tra gli scranni dei magistrati. È una sentenza del Consiglio di Stato a sancire il diritto dell’avvocato Antonio Feleppa di essere reintegrato nella categoria dei magistrati nella quale entrò a soli 23 anni e, all’interno della quale, potrà militare per altri 19 anni quelli che, secondo il regolare iter lavorativo, lo avrebbero condotto alla pensione. La sentenza chiude un “braccio di ferro” protrattosi per anni dichiarando inammissibile l’appello dell’Avvocatura per il consiglio superiore della magistratura, che aveva impugnato la pronuncia del Tar Lazio che accolse il ricorso dell’avvocato Feleppa consentendogli di rientrare in magistratura in base a quanto sancito dalla legge che prevede il reintegro dei magistrati e dei funzionari dello Stato ingiustamente deposti. «La sentenza – afferma l’avvocato Feleppa – mi restituisce, seppure a distanza di tanti anni, il mio onore di magistrato. Se avessi avuto una carriera normale oggi, a 73 anni, sarei in pensione: sicuramente ho perso delle chances, avrei avuto altre opportunità ma, in cuor mio, non riesco ad odiare nessuno e non rimpiango nulla perché ritengo che fare l’avvocato è molto più difficile che fare il magistrato. Sono stato ingiustamente calunniato e, uno dei miei principali accusatori è stato condannato; ci sono persone che, al mio posto si sono ammalate o, addirittura, si sono suicidate: io mi sono solo adirato». Era il 1993 quando Antonio Feleppa, sostituto procuratore presso la pretura circondariale di Salerno, finì nel mirino degli inquirenti per presunti ritardi nell’ambito di un’inchiesta su abusi edilizi. Era l’epoca di “mani pulite” e un vero e proprio terremoto si abbatté sulla magistratura campana: l’allora pretore Antonio Feleppa aveva 49 anni e, davanti a sé, una carriera brillante.

Quegli assurdi processi della giustizia militare fra brioche e risse ultrà. Quarantotto giudici inutili e costosi. In aula trattano casi veri, che sembrano barzellette, scrive Nino Materi, Venerdì 20/10/2017, su "Il Giornale". Sono casi entrati nella giurisprudenza. Che Gino Bramieri avrebbe certo apprezzato. Sentenze vere, ma così comiche da sembrare barzellette.

Condannati due carabinieri che in «servizio d'ordine» allo stadio se le sono date di santa ragione perché opposti tifosi delle squadre in campo.

Denunciato un sottufficiale che aveva scritto con lo spray sul muro della caserma: «Tua moglie è una gran p...».

Alla sbarra un caporale che aveva sottratto dal bancone del bar una brioche e un commilitone che «con mossa repentina ne ha mangiata una parte»: sotto processo entrambi, il primo per furto e il secondo per ricettazione «perché traeva profitto dal furto precedente».

Tenente a giudizio perché «rientrato in camerata entrando dalla finestra», il suo permesso d'uscita non era stato autorizzato.

Sono solo alcune delle sentenze emesse dai giudici militari, il cui «stupidario» dei verdetti che sembrano barzellette risulta particolarmente ampio e variegato. Mantenere in piedi il baraccone della magistratura con le stellette è come tenere aperto un'industria di stufe nel Sahara. Scelte lecite, per carità, ma assolutamente illogiche. Le toghe militari (competenti per i reati commessi da soldati e carabinieri) rappresenta infatti una microcasta - superflua, ma tutelatissima - all'interno della maxicasta delle toghe. Tecnicamente anche i magistrati militari fanno parte di quel potere giudiziario che è, insieme a quello esecutivo e legislativo, uno dei tre capisaldi fondamentali su cui si fonda lo Stato. Ma se poi si va a comparare la magistratura ordinaria con quella militare, la differenza balza subito agli occhi: nel primo caso migliaia di processi all'anno, nel secondo a poche decine. Uno squilibrio evidente conseguenza del fatto che per gli attuali 48 giudici militari (operativi fra tre Procure di Verona, Roma e Napoli) la materia del contendere è scarsissima e spesso relativa a illeciti «bagatellari» che potrebbero essere assorbiti dai magistrati ordinari, o nei casi più irrilevanti addirittura dai giudici di pace. Del resto con l'abolizione nel 2005 del servizio di leva obbligatoria, il crollo dei contenziosi era inevitabile, ma la lobby ha tenuto duro. Riuscendo a mantenere tutte le prebende che consentono di fare, con ottimi stipendi e una vita di tutto riposo. Quasi di letargo, a rileggere oggi la coraggiosa confessione del 2007 dell'allora giudice militare Benedetto Manlio Roberti che sull'Espresso dell'8 febbraio scrisse testualmente: «Devo riconoscerlo, rubo letteralmente lo stipendio all'amministrazione (...) È ora di finirla con questa farsa. Qui non si lavora più e questa non è dignità». Coerentemente a quanto denunciato il giudice Roberti ha chiesto e ottenuto il trasferimento nella magistratura ordinaria diventando nella Procura di Padova uno dei pm più impegnati soprattutto nel settore dei reati ambientali. Altri ex giudici militari colleghi di Roberti hanno seguito il suo esempio, ma molti altri hanno preferito continuare a godersi sonni tranquilli. Nel 2008 una riforma ha dato un serio taglio all'intero comparto della magistratura militare che però ancora oggi - se pur ridimensionata - continua ad avere un suo autonomo Csm (il Cmm), una sua Anm (l'Anmm), tre Tribunali, un Tribunale di sorveglianza, un Corte di Appello e una Procura Generale presso la Corte di Cassazione. Insomma, un perfetto - quanto pletorico - duplicato del già elefantiaco apparato della magistratura ordinaria. L'attuale ministro della Difesa, Roberta Pinotti, già 9 anni fa, in un'intervista del 3 giugno al Secolo XIX andava giù duro: «Abbiamo i processi più lenti d'Europa, mancano i giudici e ci permettiamo di mantenere decine di fannulloni forzati(...) Ci sono alcuni magistrati che giudicano indecoroso stare con le mani in mano e altri no. L'accorpamento dei tribunali comporterebbe un risparmio di oltre un miliardo di euro». Oggi siamo nel 2017 e la casta dei giudici con le stellette non lascia, anzi rilancia: «La giustizia militare è storicamente uno degli orgogli del nostro Paese, nonostante la politica stia facendo di tutto per farci sparire». Magari lo facesse davvero.

"Taccia lei è di Palermo", Ordine avvocati contro un giudice di Trento, scrive il 20 settembre 2017 "Nuovo Sud". "Avvocato, lei taccia, perchè qua siamo in un posto civile, non siamo a Palermo". La frase sarebbe stata pronunciata nel corso di una udienza al Tribunale del Riesame di Trento dal presidente Carlo Ancona all'avvocato palermitano Stefano Giordano (nella foto), figlio di Alfonso, storico presidente del maxiprocesso. "Un fatto sicuramente gravissimo quello accaduto al collega che me lo ha riferito. Domani pomeriggio informerò il Consiglio e aprirò un fascicolo", commenta il presidente dell'ordine degli Avvocati di Palermo Francesco Greco. "E' un fatto grave, oltre al riferimento razzista ed offensivo. Ho in ogni caso prova di tutto quello che è accaduto", si limita a confermare lo stesso Stefano Giordano che è riuscito, non senza difficoltà, ad ottenere la verbalizzazione di quanto accaduto. Il presidente dell'Ordine degli avvocati di Palermo precisa che, non appena ricevuta la nota da parte di Giordano, verrà trasmessa al Consiglio superiore della magistratura. Mentre il verbale di udienza - richiesto ma non ancora inviato - sarà trasmesso al procuratore generale della Corte di Cassazione.

«Siamo in un posto civile, mica a Palermo». Frase «shock» del giudice Ancona in aula durante un riesame. E l’avvocato siciliano è pronto a fare un esposto al Csm, scrive il 21 settembre 2017 "Trentino". «Avvocato, lei taccia, perché qua siamo in un posto civile, non siamo a Palermo». A pronunciare questa frase, come racconta l'avvocato Stefano Giordano, del foro di Palermo, il presidente del tribunale del riesame di Trento, Carlo Ancona, nel corso di una udienza che si è celebrata martedì mattina proprio in una delle aule del palazzo di giustizia di Trento. «È un fatto gravissimo oltre che una frase razzista - dice Giordano, che figlio del presidente del Maxiprocesso di Palermo, Alfonso Giordano, - Mi trovavo al tribunale di Trento per una udienza di rinvio al tribunale del riesame, quando è avvenuto un fatto increscioso. Il presidente Carlo Ancona - spiega Stefano Giordano - nel condurre l'udienza con un indagato palermitano e con il sottoscritto come difensore, mi ha impedito di svolgere la mia arringa, profferendo la seguente frase: “Avvocato, lei taccia, perché qua siamo in un posto civile, non siamo a Palermo”. A questo punto, ho chiesto, e solo dopo numerosi sforzi, ho ottenuto la verbalizzazione di quanto accaduto». Una frase che, dopo il racconto dell’avvocato, è finita su siti di informazioni e sulle agenzie di stampa avendo ampio risalto. Una frase che lo stesso giudice Ancona non rinnega. «L’avvocato - spiega il giudice - aveva aggredito, verbalmente, una pubblico ministero che neppure centrava con la causa che si stava discutendo. Un atteggiamento non tollerabile al quale ho risposto. Per altro l’avvocato aveva pacificamente ragione e non c’era molto da discutere, ma ha avuto un atteggiamento scorretto». Una frase, che avrà delle conseguenze. Con un esposto che sarà, infatti, portato all’attenzione del Consiglio Superiore della Magistratura, che l’organo di autogoverno della magistratura. «Purtroppo - aggiunge l’avvocato palermitano Stefano Giordano - nonostante numerose richieste, non sono riuscito a ottenere dalla cancelleria del tribunale del Riesame di Trento una copia del verbale dell’udienza. Manifesto, in relazione a quanto accaduto, la mia preoccupazione per quanto accaduto, in quanto avvocato, in quanto cittadino italiano e, soprattutto, in quanto palermitano - conclude l’avvocato Stefano Giordano - Ho già concordato con il presidente dell'Ordine di Palermo, l'avvocato Francesco Greco, di redigere insieme un esposto che sarà prontamente comunicato al Csm e alle altre autorità istituzionali competenti». «Quanto accaduto, per come appreso - commenta Andrea de Bertolini, presidente dell’ordine degli avvocati di Trento - è un episodio infelice che, ritengo, possa essere stato l’esito di tensioni quali quelle che a volte le udienze penali possono generare; interessa un magistrato del quale, peraltro, il Foro ha sempre riconosciuto la grande preparazione e la dedizione al lavoro».

Csm restituisce 20 milioni di euro al bilancio dello Stato: ma i magistrati si occupano di finanza, edilizia o giustizia? A Trento nel frattempo va in scena l’ennesimo abuso del giudice di turno… La denuncia arrivata dell’avvocato Stefano Giordano, peraltro figlio del giudice Alfonso Giordano che fu il presidente del Maxiprocesso di Palermo: “Sono preoccupato per ciò che è accaduto, presenterò esposto al Csm”. I membri togati Morosini, Aprile, Ardituro, Forteleoni e Spina hanno immediatamente chiesto l’apertura di una pratica nei confronti del giudice Carlo Ancona, una “vecchia conoscenza” della commissione disciplinare. Ecco di cosa dovrebbe occuparsi il CSM…, scrive Antonello de Gennaro il 21 settembre 2017 su "Il Corriere del Giorno". Nella delibera del Comitato di Presidenza del CSM, approvata ieri all’unanimità dal Plenum, ed annunciata con toni trionfalistici da un comunicato stampa, si legge che secondo il vicepresidente Giovanni Legnini la decisione di restituire 20 milioni “appare la più opportuna nell’attuale contingenza economica, tanto più se la somma potrà essere destinata al sostegno degli uffici giudiziari”.  Il Consiglio Superiore della Magistratura restituisce al Bilancio dello Stato 20 milioni di euro risparmiati nel corso degli anni, con il fine di destinarli al sostegno degli uffici giudiziari che si trovano nelle aree colpite d al terremoto e che versano in un’eccezionale condizione di difficoltà. In particolare, il Consiglio Superiore propone al Ministero dell’Economia di “prevedere presso il ministero della Giustizia, l’istituzione di un apposito Fondo” i cui obiettivi dovrebbero essere gli “aiuti agli uffici giudiziari delle aree colpite da eventi sismici e di quelli che versano in un’eccezionale situazione di difficoltà“, nonchè un “sostegno all’attività dei Consigli giudiziari, anche per rafforzare gli strumenti di cooperazione tra il Csm e gli organi di governo autonomo di prossimità“. “E’ un provvedimento storico – ha detto forse con troppa enfasi il Vice Presidente Giovanni Legnini nel corso del Plenum – Per la prima volta il Consiglio restituisce una somma consistente, auspicando che venga destinata interamente per la giurisdizione”. “Mi farò carico personalmente – ha aggiunto Legnini – di fare in modo che con la prossima legge di stabilità venga istituito un Fondo sul Bilancio dello Stato, alimentato con questa somma, che abbia queste finalità”. Restituire fondi inutilizzati allo Stato non è un gesto “esemplare”, ma secondo noi giusto e corretto da parte di chi ha un senso dello Stato, e quindi verso i cittadini, e quindi non ci sarebbe bisogno neanche di comunicarlo con tutta questa enfasi. Probabilmente il Csm farebbe bene a pensare a “lottizzare” di meno le sue nomine nei vari uffici giudiziari, e soprattutto intervenire sull’operato dei giudici che indossando una toga a volte credono di essere dei “supermen”, degli “intoccabili”, che possono tutto, e guai a chi li tocca….

L’ultimo cattivo esempio dell’arroganza manifestata da alcuni magistrati, è stato quello del Presidente del Tribunale del Riesame di Trento, Carlo Ancona che nel corso di una udienza che si è celebrata ieri proprio a Trento, rivolgendosi ad un avvocato ha detto “Avvocato, lei taccia, perché qua siamo in un posto civile, non siamo a Palermo”. Lo ha reso noto l ‘avvocato Stefano Giordano, che si dice “preoccupato per l’accaduto. E’ un fatto gravissimo oltre che una frase razzista – commenta l’avv, Giordano, che peraltro è il figlio di un giudice Alfonso Giordano che è stato il Presidente del Maxiprocesso di Palermo – Ieri mi trovavo al Tribunale di Trento per una udienza di rinvio al Tribunale del Riesame, quando è avvenuto un fatto increscioso”. “Il presidente del Tribunale del Riesame di Trento, il dottor Carlo Ancona – spiega Stefano Giordano, nel frattempo rientrato a Palermo – nel condurre l’udienza con un indagato palermitano e con il sottoscritto come difensore, mi ha impedito di svolgere la mia arringa, proferendo la seguente frase: “Avvocato, lei taccia, perché qua siamo in un posto civile, non siamo a Palermo”. A questo punto, ho chiesto, e solo dopo numerosi sforzi, ho ottenuto la verbalizzazione di quanto accaduto. Purtroppo nonostante numerose richieste – aggiunge l’avvocato Giordano – non sono riuscito a ottenere dalla cancelleria del Tribunale del Riesame di Trento copia del suddetto verbale”. “Manifesto la mia preoccupazione per quanto accaduto, in quanto avvocato, in quanto cittadino italiano e, soprattutto, in quanto palermitano – aggiunge ancora Stefano Giordano – Ho già concordato con il presidente dell’Ordine di Palermo, l’avvocato Francesco Greco, di redigere insieme un esposto che sarà prontamente comunicato al Csm e alle altre autorità istituzionali competenti”. A questo punto c’è è da auspicare il Ministro di Giustizia Andrea Orlando mandi degli ispettori anche presso il Tribunale di Trento ad accertare i comportamenti arroganti non solo del giudice in questione ma anche della cancelleria.

La frase shock è approdata al Consiglio superiore della magistratura, dove un componente togato del Csm Piergiorio Morosini ha chiesto ieri pomeriggio l’apertura di una pratica disciplinare nei confronti del giudice Ancona La richiesta sottoscritta anche da altri componenti togati del Csm, tra i quali Antonello Ardituro, da Ercole Aprile, da Luca Forteleoni e da Saro Spina, che ritengono  “dai toni inaccettabili, di matrice razzista” la frase espressa dal Presidente del Tribunale del Riesame di Trento, Carlo Ancona . Quello che è sfuggito a molti è, che già in passato il giudice Carlo Ancora è stato censurato dal Csm, insieme ai colleghi Claudia Miori e il sostituto procuratore Pasquale Profiti tutti in servizio presso gli uffici giudiziari del Tribunale di Trento.  La vicenda ebbe inizio nell’estate del 2008 quando davanti al giudice Ancona arrivò a giudizio un immigrato clandestino accusato di aver messo in atto una serie di danneggiamenti. Il giudice Ancona convalidò l’arresto e si va andò patteggiamento a otto mesi di reclusione sostituiti con l’espulsione dall’Italia per cinque anni.  A questo punto successe qualcosa di anomalo che poi portò al provvedimento disciplinare. L’immigrato, infatti, non venne scarcerato ed è il suo avvocato difensore, Filippo Fedrizzi, presentò istanza per la liberazione o, in subordine, per gli arresti domiciliari. Si andò quindi al riesame (il giudice era Claudia Miori) la quale acquisito anche il parere del pm Pasquale Profiti rigettò il ricorso. I giorni così passarono e il clandestino restò in cella in attesa dell’espulsione. Era il 14 agosto 2008 quando l’avvocato Filippo Fedrizzi, presentò un esposto a vari enti fra i quali il Ministero di Giustizia. Due giorni dopo, sia al 16 agosto, quindi a poco meno di un mese dal patteggiamento, avvenne finalmente la scarcerazione dell’immigrato. Dell’esposto se ne occupò il Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno dei giudici. Si arrivò quindi alla “censura”, provvedimento contro il quale presentano ricorso tutti e tre i magistrati trentini compreso il giudice Ancona protagonista dell’ultima ennesima arroganza. Il fascicolo finì davanti alla Suprema Corte Cassazione che rigettò le opposizioni dei tre magistrati di Trento e quindi confermò la censura, in quanto il clandestino non doveva restare in carcere quel mese in più.  Questo fu all’epoca dei fatti il commento dal giudice Carlo Ancona: “Siamo stati puniti solo per aver tentato di far rispettare le leggi”.

La Legge non “è uguale per tutti”, ma bensì deve essere uguale per tutti. Anche per i magistrati che la violano, calpestando l’articolo 111 della Costituzione sul giusto processo, dimenticando che il pm deve acquisire anche le prove a favore dell’indagato.  Chissà se adesso il Csm si deciderà ad applicare dei provvedimenti ben più incisivi e rigorosi di una semplice “censura”.

La storia del giudice che decise di morire da innocente, scrive il 13 Settembre 2017 "Il Dubbio". Il procuratore di Catanzaro Pietro D’Amico fu coinvolto nell’inchiesta “Why not?” di De Magistris. Ne uscì pulito ma qualcosa si ruppe. È una storia sconcertante. Una di quelle storie che lasciano l’amaro in bocca; è la storia è quella di un giudice, il Procuratore Generale di Catanzaro Pietro D’Amico. Comincia quasi dieci anni fa, nel 2008. L’alto magistrato si trova coinvolto in un’inchiesta che a suo tempo fece scalpore: quella “Why not?”, condotta dall’allora procuratore Luigi De Magistris. Accuse che col tempo si rivelano completamente infondate. La riabilitazione è netta, chiara; solo sospetti, tutto viene archiviato; ma D’Amico esce da questa vicenda profondamente scosso: il solo fatto che si sia potuto dubitare del suo corretto agire, lo getta in uno stato di profondo sconforto. L’uomo, all’apparenza, è quello di sempre: sorridente, solare. Ma evidentemente qualcosa “dentro” si è rotto. Congiunti, amici, sanno di questo “disagio”, ma non ne sospettano la profondità, la gravità di questa ferita che non riesce a rimarginarsi. Il 27 aprile 2010 D’Amico scrive a un amico, Edoardo Anselmi: «C’è poco da capire: in una situazione come la mia, io voglio morire perché aggredito da una malattia terribile in fase avanzata e terminale». Già: perché al magistrato, nel frattempo, è stato diagnosticato un tumore. D’Amico matura la convinzione che è meglio farla finita con “la dolce morte” da praticare là dove è consentito: in Svizzera; meglio scegliere come e quando, piuttosto di una lunga, lenta, dolorosa agonia senza scopo e speranza. «Sto pensando», scrive, «a qualcosa di indicibile, e che nessuno può immaginare. Vado in Svizzera poiché là é chi provvederà nel caso come il mio». Trascorrono così quasi due anni: D’Amico sembra determinatissimo nel suo proposito. Alla fine ottiene la documentazione necessaria: certificati che affermano l’esistenza di patologie che rendono possibile, in base alla legge elvetica il cosiddetto “suicidio assistito”. Nell’aprile del 2013, a Basilea, presso il centro “Life Circle- Eternal Spirit”, la vicenda si conclude: D’Amico trova la sua pace. L’inquietante storia, invece, comincia ora. Perché la famiglia, che nulla sa dei propositi di D’Amico, viene freddamente avvertita con una telefonata dell’avvenuto decesso; cerca di capire cosa è accaduto: chiede, e ottiene, che sia effettuata l’autopsia. Colpo di scena: D’Amico non era affatto malato di tumore, come forse credeva. Depresso, sì, per le ragioni che abbiamo detto. Ma l’autopsia, e approfonditi esami di laboratorio escludono l’esistenza di quella grave e patologia dichiarata da alcuni medici italiani, e asseverata da medici svizzeri. Clamoroso errore, diagnosi errate, che spingono D’Amico, già psicologicamente provato, a convincersi che l’unico modo per chiudere con dignità la propria esistenza, è quello di ricorrere al suicidio assistito? O, peggio: i documenti sono stati falsificati ad arte, per poter appunto accedere alla clinica svizzera e suicidarsi? E’ quello che invano la famiglia di D’Amico chiede da anni di sapere. La magistratura italiana, ripetutamente investita del caso, al momento non ha intrapreso particolari iniziative per accertare i fatti; e comunque la famiglia nulla sa. Come mai? Perché? Di questa sconcertante abbiamo trattato ne “La Nuda Verità”, la trasmissione che conduco assieme a Massimiliano Coccia, ogni domenica alle 19.30 su “Radio Radicale”. A “La Nuda Verità” abbiamo ospitato Francesca, la figlia del magistrato. Ha ripercorso con noi tutte le tappe della vicenda. Ha denunciato come al padre siano state diagnosticate patologie inesistenti, redatti certificati medici falsi; e rivendica il diritto di sapere come sono andate davvero le cose: «Mi chiamarono dalla Svizzera e mi dissero che mio padre era morto. Io cadevo dalle nuvole: ero convinta che fosse un errore, una omonimia… Invece era tutto tragicamente vero». Francesca non contesta l’aspirazione alla dolce morte, dice di rispettare la scelta di suo padre. Però ne fa un problema di deontologia: «Possibile che sia arrivato in Svizzera con due documenti sulle sue condizioni di salute e che nessuno abbia fatto accertamenti per capire, confermare, accertare? Quale medico si può arrogare il diritto di disporre della vita altrui? Voglio andare fino in fondo a questa faccenda, per capire come sono andate esattamente le cose e se sono stati commessi errori». Sullo sfondo di questa inquietante vicenda, i dilemmi e gli ineludibili interrogativi di sempre che lacerano le coscienze, quelle laiche come quelle dei credenti: come e quando si ha diritto di interrompere la propria vita? La depressione, pur nel suo stato profondo, va compresa tra le patologie che possono rendere possibile la “dolce morte”? Chi può stabilire quando il cosiddetto “mal di vivere” è incurabile? Fino a che punto il volere del soggetto va assecondato, e non si deve invece cercare di offrirgli alternative? Insomma: quali i limiti, e quali i diritti; come esercitarli, e fino a che punto esercitare la propria autodeterminazione? Ecco, al di là del caso specifico che abbiamo affrontato, l’essenza delle questioni. Che non vanno negate, e che bisogna, al contrario, cercare di “governare”. * Presidente Istituto Luca Coscioni

Che resta del pool di Mani pulite? Anche Di Pietro si dissocia, scrive Valter Vecellio il 12 Settembre 2017 su "Il Dubbio". «Ho fatto l’inchiesta Mani Pulite con cui si è distrutto tutto ciò che era la cosiddetta Prima Repubblica: il male, che era la corruzione e ce n’era tanta, ma anche le idee». Aggiunge: «Ho fatto politica basandola sulla paura e ne ho pagato le conseguenze». In principio, fu Diego Marmo: il pubblico ministero del “venerdì nero della camorra”, la vicenda in cui si vollero impigliare Enzo Tortora e Franco Califano (tra gli altri, che una moltitudine di altri dimenticati furono, poi, gli assolti). Implacabile, e impagabile, quel suo «ma lo sapete che più cercavamo le prove della sua innocenza, e più emergevano quelle della sua colpevolezza?». Come poi è finita, lo sappiamo bene. Con molti anni di ritardo, intervistato da Il Garantista e ormai in pensione, Marmo riconosce il clamoroso abbaglio. Errore che non può dirsi, propriamente, un errore; per dirla con Manzoni: era un’ingiustizia che poteva essere veduta da quelli stessi che la commettevano. Senza l’intervento di Marco Pannella, dei radicali, di Leonardo Sciascia e pochissimi altri, chissà quando e come quell’errore/ orrore lo si sarebbe visto, riconosciuto. Chissà quando e come si sarebbe visto e riconosciuto lo strame che si faceva di quelle regole ammesse anche da coloro che le trasgredivano; sempre con Manzoni: «È un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può essere forzatamente vittime, ma non autori». Aveva la vista lunga, il Grande Lombardo; e quanto sono attuali I promessi sposi e La storia della colonna infame, a saperli leggere; soprattutto a volerli leggere.

È poi la volta di Gherardo Colombo, uno dei “moschettieri” del milanese pool di “Mani Pulite”. Con libri, interventi, articoli, da qualche tempo ripensa la funzione della pena, l’amministrare la giustizia, il potere che detiene chi si assume questo compito. Coltiva il benefico tarlo del dubbio. Forse il Colombo di “oggi” albergava anche “ieri”, nel Colombo che indossava la toga del magistrato: il Colombo uno e il Colombo due convivevano. Confesso che allora non ho colto questa dualità. Chissà: forse era una convivenza tormentata, tormentosa. Come nella pirandelliana “Signora Morli una e due” Colombo era scisso: autentico il primo, sincero il secondo. Solo che “ieri”, con la toga sulle spalle, il Colombo di “uno” sovrastava il Colombo “due”; ora che quella toga è dismessa, i ruoli si sono invertiti.

La popolare saggezza ricorda che non è dato il due senza il tre; puntuale ecco il terzo, più villico, ripensamento (ravvedimento sarebbe dire troppo ardito). Nientemeno che Antonio Di Pietro, il dottor “che c’azzecca? “. Si confida a L’aria che tira d’estate su La7: «Ho fatto l’inchiesta Mani Pulite con cui si è distrutto tutto ciò che era la cosiddetta Prima Repubblica: il male, che era la corruzione e ce n’era tanta, ma anche le idee». Aggiunge: «Ho fatto politica basandola sulla paura e ne ho pagato le conseguenze». Quali conseguenze magari un giorno ci verrà chiarito. Per ora basta quello che ha sillabato: «Ho costruito la mia politica sulla paura delle manette, sul concetto che erano tutti criminali». Frasi dal sen fuggite, nella foga di un intervento? No. Con Paolo Vites de Il Sussidiario, Di Pietro integra il ragionamento; dice di aver fatto il suo dovere di magistrato, «anche l’inchiesta Mani Pulite non la rinnego, rifarei oggi tutto quanto feci allora». Riconosce però che da «quell’inchiesta si è creato un vuoto, non solo un vuoto di figure politiche, ma dell’idea stessa della ricostruzione della politica. L’inchiesta era doverosa, ma chi voleva fare o restare in politica doveva costruire una idea politica. Invece si è cercato il consenso sul piano individuale, sul personalismo. Sono nati i Bossi, i Berlusconi, i Di Pietro, i Salvini, i Renzi. Persone che basano il loro consenso su chi urla più forte. Io sono stato uno di quelli. Ho peccato di personalismo, senza creare un’idea politica».

A questo punto – lo si dice per celia – verrà un giorno in cui anche un Piercamillo Davigo, un Nicola Gratteri, faranno analoghe capriole? No. Tutto fa pensare che quel giorno non verrà; almeno loro manterranno le ben note posizioni di sempre. Per tornare a Di Pietro: «Tra i tanti effetti di Mani Pulite c’è stato anche l’effetto emulazione, sono nati i magistrati dipietristi. È uno dei rischi che la magistratura deve evitare. La magistratura fa lo stesso lavoro che fa il becchino. Il becchino interviene quando c’è il morto, la magistratura deve intervenire quando c’è il reato, la magistratura invece che vuole sapere se c’è il reato è una magistratura pericolosa, perché con le indagini esplorative si crea il delinquente prima che ci siano le prove». Si potrà ricavare, da queste parole, da questi riconoscimenti, motivo per dire: meglio tardi che mai; e aggiungere che il tempo si conferma galantuomo. No. Il detto in questo caso non può e non deve valere quando galantuomini finiscono impigliati, e spesso stritolati, nelle tenaglie della giustizia. Il problema, che non può essere eluso, il nodo che va sciolto, è che le persone cui viene attribuito il potere di giudicare i propri simili non possono e non devono vivere come potere questo potere. Può apparire paradossale; ma come diceva Sciascia, «la scelta della professione di giudicare dovrebbe avere radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio». La crisi in cui versa l’amministrazione della giustizia in Italia deriva «principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto a estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio». In mancanza di questo, anche il riconoscimento più sincero e sofferto, è inutile, vano. Una consolazione che nulla consola; un ripensamento che niente mette in discussione.

Dell’Utri, i Br e i bambini in carcere, scrive Piero Sansonetti il 15 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Quasi 57mila persone passano il ferragosto in carcere, la cosa non interessa molti. Giornali, intellettuali e politici son tutti presi dalla smania di buttar la chiave. Oggi è ferragosto e gli italiani sono quasi tutti in vacanza. I ricchi in luoghi di lusso, i mezzo- borghesi un po’ intruppati, i poveri a casa loro, alcuni allegri, alcuni tristi. Poi ci sono 56 mila e 766 persone che non sono in vacanza. Sono in carcere. Di loro, a parte gli addetti ai lavori e gli amici radicali ( e qualche volta il papa), non si occupa nessuno. Loro passano un ferragosto di dolore, come tutti gli altri giorni dell’anno, aggravato dalle sofferenze a volte insopportabili del caldo. Pigiati nelle celle, perché le celle sono piccole e ospitano molti detenuti, spesso molti di più di quelli che possono contenere. Tra questi quasi 57 mila nostri fratelli disgraziati, ce ne sono 730 che sono rinchiusi in regime di 41 bis. Cosa vuol dire? Semplicemente vuol dire “carcere duro”, una espressione che dopo la caduta del fascismo era stata cancellata dal nostro linguaggio, ed è tornata prepotentemente negli anni 90. Queste 730 persone, delle quali circa 100 sono in attesa di giudizio, non possono ricever visite se non una al mese e da dietro una vetrata, vivono isolati 24 ore su 24, senza tv, senza radio, non possono cucinare, non possono lavorare, non hanno l’ora d’aria con gli altri detenuti. Dell’Utri, i brigatisti, i bimbi in cella. Una cosa li unisce: sono persone…Una specie di Cajenna. E siccome sono quasi tutti accusati di essere mafiosi, è quasi impossibile immaginare che qualcuno, nel mondo per bene, abbia una parola gentile, o persino un nascosto pensiero affettuoso nei loro confronti. Eppure sono persone. Persone come tutti noi. La maggior parte di loro è colpevole di vari e talvolta efferatissimi delitti, alcuni invece – forse pochi – sono vittime di errori giudiziari, più frequenti di quel che si crede, in Italia. Tutti, però, sono persone. Tra le altre persone che passeranno in carcere il ferragosto ci sono anche 64 bambini. Per fortuna solo 64. Ma non sono pochissimi 64 bambini di meno di tre anni. In cella, con la loro mamma, qualcuno anche col fratello o con la sorellina. La maggior parte di questi bambini è straniero: 40 stranieri contro 24 italiani. Eppure, sebbene la maggioranza sia straniera, questa massa di bambini sicuramente riuscirà, più dei mafiosi, a strappare qualche buon sentimento, forse un sorriso, forse una parola di pietà, anche nel mondo perbene. Con i bambini ci sono 50 mamme. Più della metà straniere. Molte rom, o senza fissa dimora. In genere non scontano pene lunghissime, pochi anni o qualche mese. Ma sono recidive. Piccoli furti, borseggi, qualche truffa. Recidive e dunque niente scarcerazione. Ci sono anche delle persone famose in carcere. Generalmente le persone famose non suscitano nessuna simpatia. Spesso stimolano i sentimenti della rivalsa e della vendetta. “Hai avuto una vita agiata, sei stato potente? Ah ah: ora paghi, soffri maledetto”. E spesso questo senso di rivalsa e di vendetta non è nemmeno un sentimento che si nasconde, del quale ci si vergogna. Anzi lo si esterna con soddisfazione, si grida forte. Poi magari si va anche a messa, dopo.

Tra le persone famose ne ricordo tre, perché conosco bene la loro vicenda giudiziaria. Un medico, un senatore ed un ex senatore. Il medico si chiama Pier Paolo Brega Massone, è in cella da nove anni. Lo accusano di cose orribili, di avere operato pazienti che sapeva inoperabili, e di averli uccisi, per prendere qualche rimborso. Lo hanno imputato per quattro omicidi volontari e condannato all’ergastolo. Sebbene in sede civile fosse stato assolto, e dunque qualche dubbio sulla sua colpevolezza fosse evidente. La Corte d’appello, di fronte a una perizia del Pm che diceva “colpevole” e una perizia della difesa che diceva “innocente”, si è rifiutata di nominare un perito indipendente e ha creduto al Pm. Brega Massone chiedeva solo quello: un perito indipendente. Lui si è sempre dichiarato del tutto innocente, e molti medici, esperti, dicono che ha ragione. Ora la Cassazione ha stabilito che sulla base delle prove raccolte non può certo trattarsi di omicidi volontari. Sono eventualmente omicidi colposi. Niente ergastolo, bisogna ricalcolare la pena. C’è tempo, c’è tempo, hanno risposto i magistrati. E lui sta i carcere. Tra poco fa dieci anni. La moglie cerca di tirare avanti, lavoricchiando, con una bambina di 13 anni, perché il marito non produce più reddito, bisogna assisterlo in prigione, pagare gli avvocati…

Il secondo caso è quello che conoscete tutti. L’ex senatore Marcello dell’Utri. E’ in prigione da quasi tre anni. E’ accusato di un reato che non è scritto nel codice penale: concorso esterno in associazione mafiosa. Una specie di offesa al vocabolario e alla sintassi. La Corte europea ha stabilito che quel reato, seppure esiste, esiste dal 1994. I fatti imputati a dell’Utri sono degli anni 80. E’ chiaro che deve uscire. Perché non esce? La “compagnia dell’antimafia” non vuole, e talvolta i magistrati subiscono la pressione della “compagnia antimafia”. E poi dell’Utri è molto amico di Berlusconi, e se non si può mettere dentro Berlusconi si tiene in prigione, finché si può, un suo amico. Siccome non c’è il reato, tecnicamente Dell’Utri è un prigioniero politico.

Poi c’è il giovane senatore Caridi, del quale abbiamo parlato nei giorni scorsi. E accusato di associazione mafiosa. Prove? No non ce n’è. Ci sono alcune dichiarazioni dei pentiti di una decina d’anni fa. Dichiarazioni già considerate non attendibili dai giudici di allora, ma poi, si sa, i tempi cambiano. Uno di questi pentiti ha dichiarato di aver assistito a un incontro segreto tra Caridi e un certo boss mafioso nel 2007. Sarebbe la prova regina della colpa del senatore. Poi si è saputo che nel 2007 ‘ sto boss mafioso era al 41 bis. Non poteva incontrare proprio nessuno, tantomeno di nascosto. Però non è stato cancellato il pentito è stata corretta la data…

Cosa c’entra quel cuore di pietra di Dell’Utri coi bambini di tre anni? C’entra, perchè sono persone: nello stessissimo modo sono persone. E dovrebbero interessarci. Invece all’opinione pubblica sembra interessare solo che le carceri siano piene. Sempre più spesso si sente dire, anche da persone responsabili, importanti: «Buttate la chiave!» Recentemente due giornali nazionali di grande prestigio hanno protestato. Una volta perché un boss era stato portato a casa per 12 ore a vedere la mamma ammalata. E poi si è saputo che non era neanche vero. Un’altra volta, pochi giorni fa, perché Carminati (che non è più al 41 bis perché è stato assolto dal reato mafioso), adesso può spassarsela all’ora d’aria, può cucinare in cella, incontrare i parenti una volta a settimana per un’ora filata…C’è un verso famoso di una canzone di Fabrizio de André che dice così: «tante le grinte, le ghigne i musi, vagli a spiegare che è primavera… e poi lo sanno ma preferiscono vederla togliere a chi va in galera». Già, proprio così. Se vengono a sapere che ora Carminati può cucinarsi un uovo sodo fremono come bestie. E siccome abbiamo citato De André torniamo agli anni d’oro di De André, tra i settanta e i novanta. In quegli anni in Italia il tasso di criminalità era molto, molto più alto di ora. C’era il terrorismo, la mafia uccideva quasi tutti i giorni. Erano di più i furti, le rapine, le aggressioni. Le città non erano molto sicure, perché la violenza era alta. Beh, sapete quanti erano i detenuti, in quegli anni? Ho dato un’occhiata agli annuari Istat. Nel 1976, che è l’anno nel quale esplode il terrorismo, i detenuti erano 53,2 ogni 100.000 abitanti. Oggi invece sono 107, 4 ogni centomila abitanti. Un po’ più del doppio. Nel 1992, dopo più di un decennio di terrorismo scatenato e mentre era in pieno svolgimento la durissima iniziativa mafiosa, e cioè l’attacco frontale allo Stato deciso dai corleonesi, i detenuti erano 35.000, più o meno a parità di popolazione. 21 mila meno di oggi. Se volete qualche altra cifra dell’Istat posso dirvi che della attuale popolazione carceraria circa il 35 per cento è in prigione senza condanna definiva e circa il 20 per cento è in prigione senza aver ricevuto nessuna condanna, neanche di primo grado.

Qualunque manuale di sociologia ci spiega che con l’avanzare della civiltà le carceri si svuotano, piano piano. Le pene diventano sempre meno severe, crescono le misure alternative. Da noi no: è una corsa a far diventare le pene sempre più pesanti. Il numero dei carcerati è tornato quello degli anni trenta, durante il fascismo. I trattamenti si sono inferociti. Il 41 bis è un obbrobrio giuridico. Ed è un obbrobrio anche l’ergastolo ostativo, cioè la prigione a vita senza possibilità di una scarcerazione anticipata, senza un permesso premio, niente. E a me sembra un obbrobrio anche la situazione di circa 30 ex brigatisti rossi che sono stati dimenticati in carcere, chi da trentacinque chi da quarant’anni. Non usciranno mai. Serve a qualcuno?

In questi giorni stiamo pubblicando, a puntate, il trattato di Cesare Beccaria sui delitti e le pene. Nelle prime righe spiega come ogni pena non necessaria sia espressione della tirannia. Diceva proprio così, nel settecento, Beccaria: tirannia. Sono passati due secoli e mezzo, ma mica lo abbiamo capito…

Valentina Angela Stella, giornalista de "Il Dubbio": "Della attuale popolazione carceraria circa il 35 per cento è in prigione senza condanna definiva e circa il 20 per cento è in prigione senza aver ricevuto nessuna condanna, neanche di primo grado".

L’INCIVILTA’ GIURIDICA. LA CRUDELTA’.

Il Procuratore contro la gogna: «Basta foto degli arrestati», scrive il 16 gennaio 2018 "Il Dubbio".  Il commento di Edmondo Bruti Liberati contro polizia e stampa. L’articolo che segue, scritto dall’ex Procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati, è tratto da “Questione giustizia”, la rivista on- line di Magistratura democratica, ed è stato pubblicato l’8 gennaio 2018. Chi avesse scorso i quotidiani del 6 gennaio 2018 avrebbe trovato due notizie, di segno molto diverso, sul tema della diffusione di foto e riprese di persone arrestate. Il quotidiano Libero in prima pagina, con grande evidenza titola: «Il comandante dei carabinieri infuriato: “Questi signori ladri tornano liberi e riprenderanno a rubare”. I volti degli otto clandestini albanesi segnalati pubblicamente dai carabinieri di Padova»; nel riquadrato le otto fotografie segnaletiche a colori. L’articolo prosegue a pagina 13 con il titolo. «L’avvertimento del comandante dell’Arma di Padova. “Occhio a questi ladri, stanno per uscire di cella”. I carabinieri segnalano otto pregiudicati albanesi. “Tenete a mente queste facce, potrebbero riprendere a rubare nelle case”». Nel testo dell’articolo si riferisce che, nel corso di una conferenza stampa, il comandante provinciale dei Carabinieri di Padova «ha mostrato le foto segnaletiche perché le telecamere delle televisioni locali riprendessero bene i volti di questi malviventi e li diffondessero nelle case della gente. Sono tutti pregiudicati, hanno precedenti specifici, sono albanesi di famiglia zingara e sono sprovvisti del permesso di soggiorno. Vivono grazie ai proventi dei loro furti. (…) Il colpo più datato è di tre mesi fa, sono stati ammanettati da poco, ma il comandante dei Carabinieri si sente in dovere di dire alla popolazione di stare attenta, di guardarsi attorno dieci volte prima di lasciare la propria casa incustodita perché questi ceffi quando a breve avranno saldato il loro conto con la legge potrebbero tornare in azione. (…) Nel corso della conferenza stampa il comandante ha anche illustrato una sorta di vademecum per difendersi dai ladri». Segue, sempre a pagina 13, un commento dal titolo: «A questo porta l’inefficienza della nostra giustizia». La notizia viene riportata anche dai quotidiani della catena La Nazione- Il Resto del Carlino- Il Giorno con toni analoghi e pubblicazione delle otto foto; segue un commento dal titolo «Onore all’Arma». Non sappiamo quanto di enfasi sia dovuto alla penna dei cronisti rispetto alle dichiarazioni effettivamente rese dal comandante provinciale dei Carabinieri, ma il dato di fatto pacifico è l’iniziativa di diffondere alla stampa le foto segnaletiche degli arrestati. Sarà interessante vedere se vi saranno reazioni da chi ricorrentemente denuncia (e giustamente) episodi di “gogna mediatica” ovvero se l’indignazione si confermi selettiva in base alla personalità dei soggetti offerti alla gogna. Il Corriere del mezzogiorno (Napoli e Campania) sempre il 6 gennaio 2018 a pagina 6 titola: «Melillo: stop alla diffusione delle foto di persone indagate oppure arrestate. Circolare del procuratore alle forze dell’ordine, ad avvocati e giornalisti: va tutelata la dignità. Soprattutto se il soggetto coinvolto sia vulnerabile, come nel caso di chi ha perso la libertà».

LA CIRCOLARE. Merita subito una segnalazione il fatto che la circolare diretta alle autorità di polizia sia, molto opportunamente, indirizzata, per conoscenza, oltre che al procuratore generale e ai magistrati dell’ufficio, anche al Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati e al Presidente del Consiglio dell’Ordine dei giornalisti. La circolare muove dalla premessa: «La doverosa cura delle condizioni di efficace tutela della dignità delle persone sottoposte ad indagini ovvero comunque coinvolte in un procedimento penale appare, infatti, maggiormente meritevole di attenzione qualora la persona versi in condizioni di particolare vulnerabilità, come nel caso in cui sia privata della libertà personale». E prosegue: «Come costantemente rilevato dalla giurisprudenza di legittimità, il sistema normativo vigente impone il raggiungimento di un ponderato equilibrio tra valori diversi contrapposti, tutti di rilievo costituzionale, stante l’esigenza di un necessario contemperamento tra i diritti fondamentali della persona, il diritto dei cittadini all’informazione e l’esercizio della libertà di stampa». Vengono quindi richiamate le disposizioni dell’art. 25 del Codice per la protezione dei dati personali, l’art. 8 del Codice di deontologia dei giornalisti, il provvedimento n. 179 del 5 giugno 2012 dell’Autorità di garanzia dei dati personali, nonché la sentenza Cedu 11 gennaio 2005 (Sciacca contro Italia), che ha ravvisato una violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella diffusione della foto segnaletica di una persona arrestata. La circolare dopo aver rammentato che: «Del resto, tali principi sono espressamente richiamati anche nella circolare 123/ A183. B320 del 26.2.1999, con la quale il Ministero dell’Interno ha sottolineato l’esigenza che, anche nell’ipotesi di indiscutibile “necessità di giustizia e di polizia” alla diffusione di immagini, “il diritto alla riservatezza della tutela della dignità personale va sempre tenuto nella massima considerazione”» conclude disponendo: «In conformità alle precise indicazioni normative appena ricordate, pertanto, le SS. LL. vorranno assicurare – impartendo ogni opportuna disposizione agli uffici e ai comandi dipendenti – la più scrupolosa osservanza del divieto di indebita diffusione di fotografie o immagini di persone arrestate o sottoposte ad indagini nell’ambito di procedimenti la cura dei quali competa a questo Ufficio, segnalando preventivamente le specifiche istanze investigative o di polizia di prevenzione ritenute idonee a giustificare eventuali, motivate deroghe al principio sopra richiamato». La diffusione e la pubblicazione di riprese filmate e foto di persone al momento dell’arresto o della traduzione in carcere o delle foto segnaletiche, a dispetto dei principi e della normativa vigente, è purtroppo un costume diffuso. La comprensibile e pur legittima esigenza di visibilità delle autorità di polizia che hanno proceduto alle indagini può trovare uno sbocco nel modulo comunicativo che si realizza con la partecipazione alla conferenza stampa tenuta negli uffici della Procura della Repubblica. Il tema è controverso e le prassi sono difformi. Non sono mancate iniziative dirette a contrastare le prassi distorte. Nel Bilancio di Responsabilità sociale 2014/ 2015 della Procura della Repubblica di Milano, reperibile nel sito internet della procura, in un passaggio della Introduzione dedicato alla “Comunicazione della Procura” si segnala: «Per i casi di significativo interesse pubblico, è stata privilegiata la comunicazione con lo strumento del comunicato stampa emesso dal Procuratore e diffuso con la massima tempestività possibile consentita dal livello di discovery raggiunto, anche al fine di garantire parità di accesso a tutti i media. Nel periodo in esame sono stati diffusi numerosi comunicati stampa. In occasione di indagini di particolare rilievo al comunicato stampa è seguita una conferenza stampa, tenuta negli uffici della Procura della Repubblica, con la partecipazione dei responsabili della o delle forze di PG interessate. L’obiettivo è di fornire all’opinione pubblica una informazione il più possibile completa su quegli aspetti della indagine che non sono più coperti da segreto e sempre nel rispetto della presunzione di non colpevolezza. Il rispetto della dignità delle persone ha comportato, d’intesa con le forze di polizia, la adozione di precise prassi operative per evitare la ripresa fotografica o televisiva di persone al momento dell’arresto. Nel quinquennio, nonostante siano stati eseguiti numerosi arresti in tema di criminalità mafiosa, terrorismo, corruzione e criminalità economica suscettibili di grande risonanza mediatica, in nessuna occasione vi è stata la diffusione di immagini delle persone». Ma è sufficiente una rapida ricerca sul web per trovare diverse riprese filmate degli arrestati. Altrettanto frequente è la diffusione delle foto segnaletiche degli arrestati sia da parte delle autorità di polizia, sia anche nel corso di conferenze stampa tenute con la presenza del procuratore della Repubblica. Tre esempi recenti sul web: l’Operazione Gorgòni, Catania 28 novembre 2017; l’Operazione Metauros, Reggio Calabria 5 ottobre 2017; il Blitz Contatto, Lecce 5 settembre 2017. In questo contesto è tanto più apprezzabile la iniziativa del procuratore di Napoli, sia per la puntuale motivazione sia per le precise disposizioni impartite.

NORME E PRASSI. Può essere utile una rassegna della normativa per evidenziarne la inosservanza nella prassi. Con l’art. 14, comma 2 della legge 16 dicembre 1999, n. 479 è stato introdotto un nuovo comma 6 bis all’art. 114 cpp: «È vietata la pubblicazione dell’immagine di persona privata della libertà personale ripresa mentre la stessa si trova sottoposta all’uso di manette ai polsi ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che la persona vi consenta». Per la risposta sanzionatoria rimane operante l’art. 115 cpp: «Violazione del divieto di pubblicazione. Salve le sanzioni previste dalla legge penale, la violazione del divieto di pubblicazione previsto dagli artt. 114 e 329 comma 3 lettera b) costituisce illecito disciplinare esercenti una professione per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato. Di ogni violazione del divieto di pubblicazione commessa dalle persone indicate nel comma 1 il pubblico ministero informa l’organo titolare del potere disciplinare». Non risultano segnalazioni del pubblico ministero e tantomeno iniziative disciplinari a fronte della non infrequente pubblicazioni di foto e riprese di arrestati in manette, talora, ma non sempre, con l’ipocrita accorgimento delle manette “pixelate” e dunque paradossalmente ancor più sottolineate. Eppure vige da tempo il Codice di deontologia relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica (Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali del 29 luglio 1998, Gazzetta Ufficiale 3 agosto 1998, n. 179) che prevede: «Art. 8. Tutela della dignità delle persone. Salva l’essenzialità dell’informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona, né si sofferma su dettagli di violenza, a meno che ravvisi la rilevanza sociale della notizia o dell’immagine. Salvo rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia, il giornalista non riprende né produce immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell’interessato. Le persone non possono essere presentate con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi». È interessante segnalare che in Francia la legge n. 2000- 516 del 15 giugno 2000, intitolata al rafforzamento della presunzione di innocenza e dei diritti delle vittime, all’art. 92 ha introdotto un nuovo articolo 35- ter alla legge del 29 luglio 1881 sulla libertà di stampa: «Salvo che sia realizzata con il consenso dell’interessato, la diffusione, con qualunque mezzo o supporto, dell’immagine di una persona identificata o identificabile soggetta ad una procedura penale, ma non ancora condannata, che la mostri sottoposta all’uso di manette ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, ovvero mentre viene posta in detenzione provvisoria, è punita con l’ammenda di 100.000 F». La stessa legge del 2000 ha modificato l’art. 803 del codice di procedura penale nei termini seguenti: «Nessuno può essere sottoposto all’uso di manette ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, salvo che sia considerato pericoloso per sé o per gli altri o suscettibile di tentare la fuga. In queste ipotesi devono esser adottate tutte le misure utili, compatibilmente con le esigenze di sicurezza, ad evitare che la persona sottoposta all’uso di manette ovvero ad altro mezzo di coercizione fisica, sia fotografata o soggetta a ripresa audiovisiva». Una rapida ricerca sui siti web francesi non fa emergere casi di diffusione di foto segnaletiche o di persone ammanettate; è pubblicata una ripresa video di violenze da parte della polizia in servizio di ordine pubblico nei confronti di persone arrestate e ammanettate nel corso di una manifestazione in Place de la Republique il 28 aprile 2016. Il tema è stato riproposto con particolare evidenza nel 2011 quando il Consiglio superiore dell’audiovisivo (CSA) ha ritenuto che non fossero pubblicabili in Francia le foto diffuse negli Stati Uniti in occasione dell’arresto di Dominique Strauss Kahn. Le foto e le riprese televisive, largamente diffuse, in Italia hanno mostrato Dominique Strauss Kahn in manette deliberatamente e ripetutamente offerto alle riprese giornalistiche dalle autorità di polizia secondo la pratica cosiddetta del “perp walk”, controversa ma largamente diffusa. Il termine “perp” è una abbreviazione di “perpetrator”, con buona pace della presunzione di innocenza, trattandosi di persona arrestata dalla polizia e messa in pasto al pubblico prima ancora di essere presentata davanti al giudice. Gli esempi di “perp walk” sono numerosi: forse il più celebre è quello in cui Jack Ruby viene ripreso in diretta dalle Tv mentre spara ed uccide Lee Harvey Oswald, arrestato come sospetto assassino di J. F. Kennedy. A partire dagli anni ‘ 80 alla pratica del “perp walk” sono stati sottoposti anche “colletti bianchi”, soprattutto per iniziativa di Rudolph Giuliani.

LA SENTENZA CEDU. Se in Italia siamo ben distanti dalla barbarie del “perp walk” americano, il confronto con la Francia mostra quanto si debba operare ancora nel nostro Paese per eliminare prassi distorte. Eppure un monito forte ci è stato offerto oltre un decennio addietro dalla sentenza Cedu dell’11 gennaio 2005 Sciacca contro Italia, opportunamente citata nella circolare del procuratore di Napoli. La Corte ha ritenuto la violazione dell’art. 8 della Convenzione nella divulgazione alla stampa da parte della autorità di polizia della foto di una persona arrestata, in quanto ingerenza non giustificata nel diritto al rispetto della vita privata, non essendo necessaria per lo sviluppo delle indagini. Vi è da augurarsi che la meritoria iniziativa del procuratore Giovanni Melillo riesca ad innescare un circolo virtuoso tra magistratura, polizia e stampa.

“Il giornalista non è nè giudice nè poliziotto. Dia le notizie senza suggestionare e non anticipi i possibili sviluppi”. “A ciascuno il suo: agli inquirenti il compito di effettuare gli accertamenti, ai giudici il compito di verificarne la fondatezza, al giornalista il compito di darne notizia, nell’esercizio del diritto di informare, ma non di suggestionare la collettività”. Ma questa sentenza della Corte Cassazione deve essere rimasta ignota ad alcuni giornalisti troppo spesso al servizio effettivo del pm “protagonista” di turno. Ah quanti ne conosciamo…!!! Scrive "Il Corriere del Giorno" il 16 gennaio, 2018. “A ciascuno il suo: agli inquirenti il compito di effettuare gli accertamenti, ai giudici il compito di verificarne la fondatezza, al giornalista il compito di darne notizia, nell’esercizio del diritto di informare, ma non di suggestionare, la collettività”. È il monito della Corte di Cassazione, chiamata ad esaminare un caso di diffamazione. Secondo la Suprema corte, in particolare, “rientra nell’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria riferire atti di indagini e atti censori, provenienti dalla pubblica autorità, ma non è consentito effettuare ricostruzioni, analisi, valutazioni tendenti ad affiancare e precedere attività di polizia e magistratura, indipendentemente dai risultati di tale attività”. “È quindi in stridente contrasto con il diritto/dovere di narrare fatti già accaduti (…) l’opera del giornalista che confonda cronaca su eventi accaduti e prognosi su eventi a venire”, perchè “in tal modo – aggiunge la Cassazione, facendo riferimento al caso in esame – egli, in maniera autonoma, prospetta e anticipa l’evoluzione e l’esito di indagini in chiave colpevolista, a fronte di indagini ufficiali nè iniziate nè concluse“. Il caso su cui si è pronunciata la Quinta Sezione Penale riguardava un procedimento per diffamazione nei confronti del giornalista Peter Gomez (attuale direttore del sito ilfattoquotidiano.it ai danni del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. La Corte di Appello di Roma, nel 2009, pur dichiarando l’estinzione per prescrizione del reato per diffamazione aveva ritenuto fondata la tesi secondo cui il giornalista in un articolo sui presunti finanziamenti della mafia al gruppo Fininvest, oltre a riportare le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia contenute nelle indagini, aveva aggiunto “ulteriori considerazioni tratte da altre dichiarazioni di altri soggetti, che apparivano dirette ad avvalorare la credibilità del collaboratore di giustizia realizzando così una funzione di riscontro» che però non può fare il giornalista ma solo l’autorità giudiziaria”. Nel ricorso in Cassazione il giornalista ha chiesto che nonostante la prescrizione venisse lo stesso riconosciuto l’esercizio del diritto di cronaca, ma i supremi giudici con sentenza 3674 hanno respinto la richiesta. Scrivono infatti i giudici che “è interesse dei cittadini essere informati su eventuali violazioni di norme penali e civili, conoscere e controllare l’andamento degli accertamenti e la reazione degli organi dello Stato davanti all’illegalità per poter effettuare valutazioni sullo stato delle istituzioni e il livello di legalità di governanti e governati“; ugualmente, “è diritto della collettività ricevere informazioni su chi sia stato coinvolto in un procedimento penale o civile, specialmente se i protagonisti abbiano posizioni di rilevo nella vita sociale, politica o giudiziaria“. Ma, precisa la Cassazione, è “in stridente contrasto con il diritto-dovere” di cronaca l’azione del giornalista che “confonda cronaca su eventi accaduti e prognosi su eventi a venire”. Nel caso specifico, “il giornalista ha integrato le dichiarazioni della fonte conoscitiva con altri dati di riscontro, realizzando la funzione investigativa e valutativa rimessa all’esclusiva competenza dell’autorità giudiziaria”. E l’articolo pubblicato, sostiene la Suprema Corte, “non può ritenersi un’asettica riproduzione di dichiarazioni (…) ma un articolato discorso che, comprendendo altri dati storici, tende inequivocabilmente a sostenere la verità del contenuto di queste” dichiarazioni, “a fronte di indagini in corso proprio per l’accertamento di questa verità”. “La cronaca giudiziaria è quel particolare ramo della cronaca che riguarda l’esposizione di avvenimenti criminosi e delle vicende giudiziarie ad essi conseguenti, al fine di consentire alla collettività di avere una retta opinione su vicende penalmente rilevanti, sull’operato degli organi giudiziari e, più in generale, sul sistema giudiziario e legislativo del Paese. Difatti come ricordato dalla Cassazione (Cass. pen., 1 febbraio 2011, n. 3674, Pres. Calabrese, Rel. Bevere)  nella sentenza che qui si pubblica l’esimente delle cronaca giudiziaria riguarda il “diritto di informare i cittadini sull’andamento degli andamenti giudiziaria a cario degli altri consociati”, dato che “è interesse dei cittadini essere informati su eventuali violazioni di norme penali e civili, conoscere e controllare l’andamento degli accertamenti e la reazione degli organi dello stato dinanzi all’illegalità, onde potere effettuare consapevoli valutazioni sullo stato delle istituzioni e sul livello i legalità caratterizzante governanti e governati, in un determinato momento storico”. Continua sempre la Corte osservando come il “diritto di cronaca giornalistica, giudiziaria o di altra natura, rientra nella più vasta categoria dei diritti pubblici soggettivi, relativi alla libertà di pensiero e al diritto dei cittadini di essere informati, onde poter effettuare scelte consapevoli nell’ambito della vita associata. E’ diritto della collettività ricevere informazioni su chi sia stato coinvolto in un procedimento penale o civile, specialmente se i protagonisti abbiano posizioni di rilievo nella vita sociale, politica o giudiziaria”. Ne segue che “in pendenza di indagini di polizia giudiziaria e di accertamenti giudiziari nei confronti di un cittadino, non può essere a questi riconosciuto il diritto alla tutela della propria reputazione: ove i limiti del diritto di cronaca siano rispettati, la lesione perde il suo carattere di antigiuridicità”. Ciò posto, nell’ambito della cronaca giudiziaria si ritiene che sia certamente legittima l’esposizione di fatti recanti discredito all’onore ed alla reputazione altrui, purché i “fatti in questione trovino rispondenza in quanto espresso dalle autorità inquirenti ovvero nel contenuto degli atti processuali, dovendosi altresì considerare che per il cronista giudiziario il limite della verità delle notizie si atteggia come corrispondenza della notizia al contenuto degli atti e degli accertamenti processuali compiuti dalla magistratura, con la conseguenza che il fatto da dimostrarsi vero, al fine dell’accertamento della scriminante, è unicamente la corrispondenza della notizia agli atti processuali a prescindere dalla verità dei fatti da questi desumibili” (Tribunale di. Roma, 09.05.2003, in RCP, 2005, 232). Nella narrazione di tali atti è tuttavia necessario che venga rispettato il diritto dei soggetti coinvolti in tali fatti, cosicché l’opinione del consesso dei cittadini, si formi su notizie aderenti a quelle che sono le effettive risultanze processuali a loro carico. E’ dunque di tutta evidenza che la cronaca giudiziaria può collidere con il contrapposto interesse di tutela della riservatezza del soggetto coinvolto negli accadimenti giudiziari oggetto della cronaca. Altresì (e soprattutto) la cronaca giudiziaria si colloca in potenziale conflitto anche con i principi espressi dall’art. 27 della Costituzione, ai sensi del quale sono vietate affermazioni anticipatorie della condanna o, comunque, pregiudizievoli della posizione dell’indagato e dell’imputato: la ratio della norma è volta a tutelare detti soggetti contro ogni indicazione che li accrediti come colpevoli prima di un accertamento processuale definitivo che effettivamente li riconosca come tali (cfr. Cass. pen., 21.03.1991, in RPen, 1991, 912; Trib. Roma, 06.04.1988, in DInf, 1988, p. 837). Tanto premesso, d’altro canto, è parimenti ovvio che il diritto di cronaca (e, più in generale, di manifestazione del pensiero) non può venire del tutto sacrificato neppure nei confronti del principio di presunzione di innocenza; ciò sul presupposto che a favore dell’imputato o dell’indagato non militi alcuna ragione volta a riconoscere loro una tutela della reputazione maggiore di quanto non spetti ad altri soggetti. Date queste premesse, vediamo che la cronaca giudiziaria incontra i medesimi limiti delle altre forme di cronaca (verità della notizia, pubblico interesse alla conoscenza dei fatti narrati, e continenza), sui quali però sono state svolte doverose specificazioni. E difatti, quanto al limite della verità, esso viene inteso in senso restrittivo, poiché il sacrificio della presunzione di innocenza non deve spingersi oltre quanto strettamente necessario ai fini informativi. Ciò comporta che il giornalista non deve narrare il fatto in modo da generare un convincimento su una colpevolezza non solo non ancora accertata, ma che poi potrà rivelarsi anche inesistente (cfr. App. Roma, 20.01.1989, in GPen., 1991, II, c. 519); inoltre, se la notizia viene mutuata da un provvedimento giudiziario, occorre che essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, senza illazioni, allusioni, alterazioni o travisamenti (cfr. Cass. pen., 10.11.2000, Scalfari, in CPen, 2001, p. 3045) e senza ricostruzioni, o ipotesi giornalistiche, autonomamente offensive (cfr. Cass. pen., 20.09.2000, in CPen, 2001, p. 3405). Altresì si richiede che non venga omessa la narrazione di aspetti idonei a scagionare l’imputato: i fatti vanno, dunque, riferiti in termini di problematicità (Trib. Roma, 5.11.1991, in DInf, 1992, p. 478), chiarendo le opposte tesi dell’accusa e della difesa (c.d. principio dell’equilibrio), dando voce in ugual misura alle parti contrapposte senza tacere aspetti salienti delle tesi difensive, al fine di inculcare nel lettore la convinzione di una inevitabile pronunzia di condanna. Inoltre, nel dare la parola agli indagati, agli imputati ed ai loro difensori, il cronista giudiziario non deve raccogliere sfoghi ed invettive, ma elementi concreti di difesa o di accusa, atti a mettere il lettore di farsi una propria opinione sui fatti, sui criteri di gestione dei processi, sul ruolo della magistratura così da consentire il controllo diretto della collettività sull’operato delle istituzioni (L. BONESCHI, Etica e deontologia del giornalista nella cronaca giudiziaria: qualche regola da rispettare, in DInf., 1999, p. 569, ss). In questo contesto la Cassazione nella sentenza qui pubblicata ha precisato che i giudizi critici manifestati su una persona coinvolta in indagini devono porsi in correlazione con l’andamento del processo, perché “rientra nell’esercizio del diritto di cronaca giudiziaria riferire atti giudiziari e atti censori, provenienti dalla pubblica autorità, ma non è consentito effettuare ricostruzioni, analisi, valutazioni tendenti ad affiancare e precedere attività di polizia e magistratura, indipendentemente dai risultati di tali attività”. Secondo la Corte quindi è in contrasto con il “diritto / dovere di narrare fatti già accaduti, senza indulgere a narrazioni e valutazioni «a futura memoria», l’opera del giornalista che confonda cronaca su eventi accaduti e prognosi su eventi a venire. In tal modo egli, in maniera autonoma, prospetta e anticipa l’evoluzione e l’esito di indagini in chiave colpevolista, a fronte di indagini ufficiali né iniziate né concluse, senza essere in grado di dimostrare la affidabilità di queste indagini private e la corrispondenza a verità storica del loro esito. Si propone ai cittadini un processo garantista. Dinanzi al quale il cittadino interessato ha, come unica garanzia di difesa, la querela per diffamazione”. Conclude così la Corte: “a ciascuno il suo: agli inquirenti il compito di effettuare gli accertamenti, ai giudici il compito di verificarne la fondatezza, al giornalista il compito di darne notizia, nell’esercizio del diritto di informare, ma non di suggestionare la collettività”.

Minzolini: «Ora s’indignano per Cioffi E quando un giudice del Pd mi condannò?» Scrive Paola Sacchi il 4 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". «La Repubblica che ha protestato per la presunta partecipazione di un giudice a una convention non disse nulla sulla mia situazione ben più grave». «È un elefante in un occhio». Così commenta con Il Dubbio Augusto Minzolini, ex senatore di Forza Italia ed ex direttore del Tg1, con un curriculum da maestro dei cronisti parlamentari, il diverso atteggiamento dei media, in particolare del quotidiano La Repubblica, che ha messo nel mirino la presunta partecipazione del giudice dei fratelli di Luigi Cesaro, candidato campano di Fi, a una convention azzurra; e invece, ha denunciato Minzolini in un tweet, «ha ritenuto lecito che un giudice già parlamentare e membro di governi di centrosinistra condannasse il sottoscritto».

Ex senatore Minzolini, il giudice dei Cesaro, che ha smentito la sua partecipazione all’iniziativa di Forza Italia, si è dimesso da presidente del collegio giudicante. A lei, condannato in Cassazione per peculato, che ha abbandonato il parlamento per sua scelta, nonostante un fronte trasversale abbia bocciato le sue dimissioni, è stato usato quindi una trattamento diametralmente opposto?

«Io non sto a guardare il trattamento usato nei miei confronti. Ne faccio una questione di informazione che riguarda l’atteggiamento di “La Repubblica”. Quel quotidiano ha imbastito una campagna sulla vicenda campana per la presunta partecipazione di un giudice a una convention. E’ evidente che rispetto a questo la mia vicenda diventa un elefante in un occhio».

Ci spieghi.

«C’è stato un giudice che in Cassazione ha ribaltato una sentenza di assoluzione in primo grado, che se ne è infischiato del fatto che il giudice del Lavoro mi avesse dato ragione, facendomi addirittura risarcire dalla Rai. Questo giudice non ha neppure dato tanto peso alle richieste della pubblica accusa aumentando la pena di sei mesi. Quelli però necessari a far scattare la legge Severino. Ecco, questo magistrato non è uno che aveva partecipato semplicemente a una convention del Pd, ma ha fatto il deputato, il senatore, il sottosegretario più volte con governi del centrosinistra. Per La Repubblica questo invece non ha fatto scandalo. Non ho trovato lo stesso atteggiamento critico sull’imparzialità che invece ho trovato sulla vicenda campana. Il mio processo è stato caratterizzato da personaggi che hanno avuto a che fare con la politica: il relatore in Cassazione del mio processo era anche stato capo di Gabinetto del ministero di Grazia e Giustizia del governo Prodi. Credo che qui ci sia anche un problema di sensibilità istituzionale degli stessi giudici. Nella Prima Repubblica mi ricordo che un senatore Dc si astenne, senza che nessuno glielo avesse chiesto, perché si trovò a giudicare Arnaldo Forlani, colui che era stato il suo segretario».

Due pesi e due misure?

«Piuttosto mi sembra che ci sia un grammo da un lato e una tonnellata dall’altro».

Intanto, il giudice dei Cesaro si è dimesso dal collegio giudicante.

«Ha fatto un passo indietro evidentemente per impedire che qualsiasi sua decisione venisse analizzata rispetto alla sua presunta partecipazione a un evento politico. I miei giudici, invece, a quanto pare se ne sono assolutamente infischiati. Ma quel che è peggio è che se ne è infischiato il resto del Paese. L’unica a non infischiarsene è stata proprio la politica, e lo posso dire perché non ne faccio più parte. Per la prima volta dopo cinquant’anni il parlamento ha rigettato una sentenza definitiva. Uno schieramento trasversale, in cui c’erano molti esponenti del Pd, a voto palese, ha respinto la richiesta della mia decadenza. Io di fronte a persone che hanno avuto il coraggio di queste scelte a maggior ragione ho mantenuto per coerenza il mio impegno già preso da tempo di dimettermi. Ho rinunciato al mio stipendio di 140.000 euro netti e alla pensione. Da anni i grillini invitano a rinunciare alla pensione, ecco io l’ho fatto. Sono l’unico. Inoltre, si è creata una situazione particolare a livello istituzionale».

Perché?

«Il potere legislativo, cioè il parlamento, ha individuato nella mia sentenza fumus persecutionis. Il potere esecutivo, cioè il governo, attraverso l’avvocato dello Stato, ha recepito quel giudizio, a Strasburgo rispondendo ai giudici della Grande Chambre per spiegare la differenza di trattamento tra me e Berlusconi ha ricordato che su di me c’è stato fumus persecutionis. Il potere giudiziario, i magistrati, mi hanno condannato. C’è quindi una contraddizione evidente. Ma nessuno è intervenuto, neppure chi per ruolo istituzionale dovrebbe mediare tra questi poteri. C’è quindi una strana situazione, come se esistessero tre Stati paralleli. Tanto meno se ne è occupata l’informazione, lasciando le nostre istituzioni in una situazione singolare per non dire patetica».

Tutto si può dire tranne che per lei non sia stato usato un trattamento speciale. Ora cosa fa?

«Faccio lo stringher, mettiamola così (risatina ndr), ovvero quello che passa le notizie a “Yoda” per Il Giornale e a “Keiser Soze” per Panorama».

"Scrivono male di lei". E le banche scaricano l'imprenditore modello. Finito sotto inchiesta, gli istituti azzerano tutti i crediti sulla base degli articoli di giornale, scrive Cristina Bassi, Lunedì 05/02/2018, su "Il Giornale". Trasformato da un giorno all'altro da rispettabile imprenditore brianzolo a truffatore di bassa lega. Capita - si dirà - a chi incappa in guai giudiziari. Ma la storia di Marco Castoldi, 59 anni, al di là della sua colpevolezza o meno ancora da stabilire, è l'emblema del meccanismo perverso che a volte incrocia realtà e rappresentazione mediatica. Tutti a Monza sanno chi è Marco Castoldi. È il titolare della Castoldi srl, azienda con oltre 60 anni di storia fondata dal padre, leader nella distribuzione di elettrodomestici, articoli elettronici e informatici. I suoi negozi fanno parte del network Euronics. Gli affari sono sempre andati bene, finché il presidente del Cda è finito in un'inchiesta della Guardia di finanza di Como su una rete di frodi fiscali. Ora la ditta ha chiesto e ottenuto dal Tribunale il concordato preventivo, perché banche e assicurazioni hanno chiuso i rubinetti mettendola in grave difficoltà. Il motivo? Non ciò che è scritto negli atti d'indagine né tanto meno una condanna. Bensì le «notizie di stampa». Per i creditori insomma, Castoldi è un truffatore, la sua società merita di andare a gambe all'aria e i 150 dipendenti a casa sulla base degli articoli di giornale che hanno dato conto, nel settembre scorso, degli arresti e dell'inchiesta. Anche se due settimane dopo i provvedimenti cautelari, i domiciliari a carico di Castoldi sono stati revocati. Un passo indietro. A metà settembre scatta la retata con un centinaio di finanzieri, dopo l'indagine coordinata dalla Procura di Como. Gli indagati sono 39, gli arrestati 17. Tra loro, appunto, anche Castoldi e un consigliere dell'azienda. L'accusa è che abbiano partecipato a una associazione per delinquere finalizzata a una serie di reati fiscali e tributari. Le ipotesi degli inquirenti riguardano l'organizzazione a livello internazionale di cosiddette «frodi carosello» per totali 300 milioni di euro. Si tratta in sostanza di operazioni di compravendita fittizie, con relative false fatture emesse da società create ad hoc (le «cartiere»), finalizzate a ottenere crediti Iva non dovuti. Castoldi avrebbe «consapevolmente» partecipato al traffico di merci, definite «scadenti», mettendo a disposizione la propria società come anello della catena fraudolenta. E guadagnandoci circa 3 milioni di euro di illeciti crediti Iva. «Accuse cervellotiche - dice il suo difensore, l'avvocato Ivano Chiesa -. Il mio assistito non ha nulla a che vedere con tutti gli altri indagati e non aveva idea di cosa facessero. Ha semplicemente comprato e venduto merce, come ha sempre fatto. Comunque si è dimesso dalle cariche societarie e ha fornito a garanzia 6 milioni di immobili personali, il doppio di quanto contestato». A ottobre il Tribunale del riesame di Milano ha revocato i domiciliari a Castoldi, ritenendo che non sussistano gli indizi del reato associativo. Il processo farà il proprio corso, l'udienza preliminare è fissata per il 20 febbraio davanti al gup Laura De Gregorio. Intanto però l'azienda comunica l'apertura del concordato preventivo che ha lo scopo di tutelare i dipendenti e i fornitori e di provare ad assicurarsi un futuro. La Castoldi, si legge in una nota, «negli ultimi anni non ha riscontrato criticità dal punto di vista economico, patrimoniale o finanziario, come dimostrano i suoi bilanci. A partire dal mese di ottobre 2017, la società si è trovata nell'impossibilità di adempiere regolarmente alle proprie obbligazioni a causa dell'irrigidimento del sistema bancario e dell'azzeramento dei fidi da parte delle società di assicurazione del credito dei fornitori, determinati dalla propagazione della notizia dell'indagine». Da qui le difficoltà ad approvvigionarsi, proprio nel periodo a ridosso del Natale, il migliore per gli affari. Nei primi nove mesi del 2017, «la società aveva registrato un fatturato di oltre 66 milioni di euro con un risultato economico positivo. Nel 2016 il fatturato era stato pari a oltre 86 milioni di euro, con un utile di circa 400mila euro».

Storia del boss Navarra e del suo sangue che oggi ricade sul nipote, scrive Salvo Toscano l'1 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Il discendente del “medico” corleonese si candida e Crocetta s’infuria. Da quando è stata resa nota la sua epurazione dalle liste del nuovo Pd renziano, Rosario Crocetta lo ripete quotidianamente, come un mantra. «Renzi ha preferito schierare il rettore Navarra, nipote del capomafia di Corleone. Quelli ormai sono i riferimenti del Pd». Con il collaudato stile dell’antimafia politica doc, l’ex governatore siciliano scaricato dal Pd non ha perso tempo per “mascariare” (imbrattare, così si dice a queste latitudini) l’avversario. Ripescando la parentela del rettore di Messina, Pietro Navarra, schierato dai dem in un posto blindato nelle liste proporzionali per la Camera. «Navarra non si è avvicinato al Pd, ma è stato avvicinato dal Pd per sostituire il potere di Genovese (ex segretario regionale Pd, poi passato a Forza Italia, condannato in primo grado per lo scandalo dei “corsi d’oro della formazione professionale, ndr). L’Università di Messina ha sempre avuto un potere enorme, lo sanno tutti». Così ancora ieri l’altro Crocetta nella sua conferenza stampa indetta in un hotel palermitano per sparare a zero su Renzi, definito «primo uomo politico medievale d’Italia». Non molti sono andati appresso al campione deposto dell’antimafia politica nel tiro al Navarra. Un po’ di post al vetriolo in giro per i social, qualche articolo sul Fatto quotidiano, poco altro. Il rettore, dal canto suo, non ha fatto attendere la sua reazione. Con tanto di minaccia di querela preventiva ai giornali: «Noto con rammarico che, addirittura prima ancora dell’inizio della campagna elettorale, personaggi protagonisti del recente passato politico hanno rilasciato dichiarazioni infamanti nei miei confronti, con riferimento alla vicenda che vide coinvolto mio zio. Affermazioni ingiuriose, rilanciate da alcuni organi di stampa – ha detto Navarra – Premetto che la mia posizione su questo argomento è ben nota da tempo: si parla di persone morte prima della mia nascita e ogni collegamento non può che rappresentare una volgare strumentalizzazione». Con un post scriptum in cui annunciava querele «nei confronti delle testate che daranno spazio a simili considerazioni». Classe 1968, il messinese Navarra diventò poco meno di sei anni fa il più giovane rettore d’Italia. Eletto ai vertici di quell’ateneo definito “verminaio” una ventina d’anni fa, per l’influenza che secondo varie inchieste avrebbero avuto al suo interno i boss della ‘ ndrangheta, ma anche per un certo nepotismo esasperato. Nella Città dello Stretto, l’Università è sempre stata uno dei capisaldi del potere. E a Navarra si guardò proprio come il possibile volto nuovo della svolta, dopo gli scandali. Ma l’intemerata, a puntate, di Crocetta guarda a fatti ben più antichi. E cioè alle vicende di don Michele Navarra, medico, zio del rettore (fratello di suo padre) e boss corleonese del dopoguerra. La sua cosca è ritenuta responsabile dell’omicidio, avvenuto nel 1948, del sindacalista Placido Rizzotto, i cui resti vennero ritrovati sessant’anni dopo, infoibati in un precipizio. Un pastorello di tredici anni, probabilmente testimone oculare di quel delitto, morì l’indomani nell’ospedale di Corleone, dove lavorava il medico- boss, dopo un’iniezione, ufficialmente per una “tossicosi” da farmaci. Michele Navarra fu ammazzato il 2 agosto del 1958, crivellato di colpi – 94 proiettili furono trovati nel corpo – mentre tor- nava al paese a bordo di una Fiat 1100 nera. Con lui rimase ucciso un giovane medico, del tutto estraneo a vicende mafiose, che gli aveva dato un passaggio. Un delitto rimasto nella storia della mafia, che segnò l’avanzata del campiere Luciano Liggio nelle gerarchie di Cosa nostra e l’ascesa della mafia dei “viddani” corleonesi che vent’anni dopo con Totò Riina avrebbero dettato legge liquidando i vecchi boss palermitani. Sessant’anni sono passati dalla morte di don Michele. Sessant’anni che in Sicilia sembrano non essere sufficienti per ritenersi al riparo degli strali di una parte dell’antimafia in una terra dove non solo le colpe dei padri, ma pure quelle degli zii si vorrebbero imputare ai consanguinei. Anche se il bersaglio delle bordate, il giovane rettore, è nato solo dieci anni dopo l’omicidio del famoso boss, percorrendo in vita una strada ben diversa, anzi del tutto lontana, da quella dello scomodo parente. Professore di Economia del Settore Pubblico nell’Università di Messina, Navarra ha maturato un lungo elenco di esperienze internazionali tra la Gran Bretagna, l’Australia e soprattutto gli Stati Uniti, tenendo lezione in molte delle più prestigiose università americane. Il rettore era da tempo considerato vicino a Matteo Renzi. Alle elezioni regionali di tre mesi fa buona parte della nomenclatura universitaria messinese sostenne la candidatura del direttore generale dell’Ateneo Francesco De Domenico, che è stato eletto nel Partito democratico con una buona messe di voti. Ora, il salto nella politica tocca a Navarra, secondo in lista dietro l’onnipresente Maria Elena Boschi, che è candidata altrove e lascerà quasi certamente spazio. Con buona pace del Crocetta furioso e delle evocazioni di spettri di sessant’anni addietro.

Restituire alla Storia i cognomi infangati dalle mafie, scrive Valentina Tatti Tonni il 3 gennaio 2018 su "Articolo 21" e 20 Gennaio 2018 su "Antimafia duemila". Un corto circuito. Parliamo di mafia come se fosse un soggetto e un linguaggio. Riprendendo il libro Io non taccio scritto a più mani da giornalisti di inchiesta, ho notato che la presenza dei nomi che associamo alle famiglie dei clan hanno nel tempo disonorato e macchiato quei nomi stessi. L’etimologia di mafia come di ‘ndrangheta, ha connotati regionali e si riferisce a balordi presuntuosi travestiti da uomini che, usando metodi illeciti, interferiscono nelle attività economiche, commerciali e sociali del luogo in cui transitano, mettendo a repentaglio senza scrupolo la vita di chiunque si metta tra loro e gli affari. E’ il caso di innocenti, giornalisti, magistrati, forze dell’ordine e loro stessi a causa di guerre per il territorio, come cani che marcano il suolo oltre ad abbaiare sparano. Il quadro italiano, secondo la mappa interattiva consultabile grazie a “Il Fatto Quotidiano” e al Parlamento Europeo, vede quattro principali organizzazioni criminali muoversi sullo stivale: abbiamo la mafia, intesa come Cosa nostra in Sicilia, la camorra prevalente nelle zone campane di Napoli e Caserta, l’ndrangheta che dalla Calabria si è spostata anche al Nord in Lombardia, la pugliese Sacra Corona Unita. Tutte queste si occupano principalmente di spaccio di droga, riciclaggio, estorsione e infiltrazioni nell’economia, soprattutto tramite appalti pubblici e nel campo dell’edilizia privata. Inoltre ad operare con i clan principali abbiamo anche criminalità nigeriana, cinese e albanese. Il fatto che siano nate in certe regioni non li esenta dal trafficare anche in altri luoghi, grazie anche al sostegno con alcuni membri della politica. Non sembra essere un caso allora se il Bel Paese sia l’unico in Europa a dotarsi di una normativa ad hoc contro l’associazione di stampo mafioso, l’articolo 416 bis.

Rendere silenti le famiglie dei clan. Torniamo al linguaggio della mafia per riabilitare quei nomi. Dal libro di cui sopra, inizio dai Barbaro, facente parte all’ndrangheta calabrese molto presente in Lombardia, Piemonte, Germania e Australia. I Barbaro ben più importanti furono però quelli dell’alta aristocrazia veneziana che dal 1390 vantavano nel loro entourage vescovi, commercianti ed esploratori, come quel Nicolò che scrisse una cronaca sull’assedio di Costantinopoli nel 1453 al pari di Giosafat che ne scrisse sull’Asia. Che dire dei Papalia, ai Barbaro collegati per ‘ndrangheta, ma ben lontani nella Storia essendo stati estratti dalla nobiltà calabrese in principio legata, sembrerebbe, al marchesato di Saluzzo in Piemonte. Andando avanti troviamo i Brandimarte di Gioia Tauro e la faida aperta con i Priolo in quel di Vittoria in Sicilia, famiglie nella storia remota ben conosciute: i primi di origine medievale furono resi famosi dalle battaglie epiche francesi della Chanson de Roland e dal nostrano Ariosto nonché più di recente simbolo dell’artigianato e dell’argento a Firenze, la seconda dei Priolo invece abitante del Rinascimento veneto trovandosi un capo, un Doge, della Repubblica. In Sicilia, nel presente, vi è anche il clan mafioso dei Carbonaro-Dominante, appartenente alla Stidda una quinta organizzazione criminale operante soprattutto nelle province di Ragusa, Caltanissetta, Enna e Agrigento. Sì, ma i Carbonaro, come suggerisce il nome potrebbero derivare sia dalla Carboneria, quale società rivoluzionaria e liberale ottocentesca nata nel Regno di Napoli, sia dal carbonaio come mestiere di trasformazione della legna in carbone vegetale, Carbonaro-Dominante legato a Ventura, come il suo boss, cognome risalente al medioevo cristiano. Li conosciamo con questi cognomi che sembrano fare la Storia, ma la nostra Storia è un’altra. Grazie a "la Spia" sappiamo che: “Stidda e Cosa Nostra si dividono gli affari locali, la ‘Ndrangheta gestisce la cocaina e la Camorra (sarebbe più giusto parlare dei Casalesi) gestiscono i trasporti”. Casalesi, un altro nome balzato alle cronache a causa dei fatti e dei misfatti ad essi collegati e a Schiavone anche, il boss, derivante dagli slavi che seguita la rotta dei longobardi arrivarono dal fiume Natisone nel Friuli Venezia Giulia. Un’altra famiglia che ha infranto i valori della società civile è senz’altro la Bottaro-Attanasio, forte della sua prima origine di “fabbricante di botti” e della seconda dell’immortale che si è illuso di dare il nome a tutta la Sicilia greca che conta - tolte le persone perbene -, quella di Siracusa. Nonché i Corleonesi, sui quali ha avuto interesse persino l’industria del cinema producendo pellicole narranti di padrini più eroi che padroni. Una cosca formata all’interno di Cosa nostra negli anni Settanta e appoggiata dalle famiglie Liggio, Riina e Provenzano, il superficiale per origine, la mancata Regina e un Provenzano Salvani di Siena che un giorno rinvenne in una casa della Contrada della Giraffa e lì, meta di pellegrinaggio, una Madonna ancora porta il suo nome. Poi ci sono gli imprenditori Cavallotti che cercano invano di minare il radicalismo del primo Felice. Ai Corleonesi alleati i Cuntrera-Caruana, di Siculiana nella provincia di Agrigento e in principio campieri, ovvero guardie private al controllo di una tenuta agricola, nel 2013 seguendo le orme della Banda della Magliana si impadronirono, insieme ai fratelli Triassi, del litorale di Ostia. Triassi, d’origine una nobile famiglia spagnola che avrebbe guidato la conquista di Mallora, secondo le ultime cronache, avrebbe una certa comunanza (di complicità e rivalità) con i Fasciani e gli Spada. E a loro volta gli Spada e i Casalesi con i Casamonica, una famiglia dall’Abruzzo da tempo operante nella zona dei Castelli Romani, castelli senza più neanche un cavaliere. Dall’ndrangheta di Morabito, Logiudice e Musitano alla Sacra Corona Unita dei Giannelli-Scarlino: sconsolata la prima e più antica famiglia latina, la seconda di magistrati, la terza di predicatori e l’ultima non piena di virtù, ormai negate da famiglie con più facile collusione alla realtà. Infine, sempre in riferimento al libro di cui sopra, da Napoli i Mazzarella e i Giuliano, i primi una casata nobile del Cilento all’interno di cui si ricordano le gesta di valorosi uomini come quel Michele che difese Malta dai Turchi nel 1565, i secondi invece dalla Spagna trapiantati in Sicilia dal Re Federico III da Baldassarre, tale la potenza che lo stemma della famiglia ritraeva un leone con due rose a dimostrar forza e delicatezza, oggi anch’essa ormai sopita. Appare mitigata la bellezza in cambio dell’omertà, ma forse no, il faro è ora acceso.

I giornalisti e la politica, scrive Augusto Bassi il 3 febbraio 2018 su "Il Giornale". Gianluigi Paragone, Tommaso Cerno, Giorgio Mulè, Emilio Carelli, Francesca Barra, Primo Di Nicola sono i più illustri giornalisti che saranno candidati alle elezione del 4 marzo prossimo, trasversalmente, fra partiti e movimenti, fra forze conservatrici e riformiste. Una presenza in quantità e di qualità che non rappresenta tuttavia una rottura con il passato, quanto piuttosto la conferma di una interscambiabilità naturale fra l’impresa giornalistica e quella politica. Prima di loro c’erano stati, fra gli altri, Eugenio Scalfari, Michele Santoro, Dietlinde Gruber, Antonio Polito. E su questo tema mi era capitato di ascoltare una tavola rotonda del Parlamento Europeo dove intervenivano Antonio Tajani, David Maria Sassoli e Silvia Costa, anch’essi autorevoli ex giornalisti in seguito protagonisti ai più alti livelli di istituzioni sovranazionali. In questi giorni ho seguito con attenzione le testimonianze degli ex colleghi pronti al governo della comunità, invitati nei salotti televisivi a raccontare le ragioni di questa scelta. Così come ho letto le opinioni dei futuri elettori, ondeggianti fra convinto supporto e accuse di servilismo premiato. Ora, premetto che non ritengo deprecabile che un giornalista scenda, o salga, in politica. L’esercizio dell’obiettività, della neutralità, dell’imparzialità… è già di per sè ideologia. Ne abbiamo avuto manifesta testimonianza nell’ultima puntata di Piazza Pulita, dove Corrado Formigli – campione di quel giornalismo che pretende di raccontare i fatti, la realtà, senza filtri – ha mostrato una volta di più faziosità subdola quanto palmare. Vittorio Sgarbi gli ha levato la pelle con nevrosi chirurgica, lasciando all’osservatore il macabro spettacolo della crudité di un filisteo. Ma se è facile togliere la maschera al sedicente super partes, più difficile è prendere coscienza dell’inevitabilità di una dichiarazione, anche nel momento in cui la si rifiuta. Il giornalista non è un aruspice che legge le interiora degli animali, ma neppure un reporter. Il suo compito, in particolare nel tempo dell’immediatezza universale, non è quello di scattare l’istantanea del reale, che è comunque irriducibilmente parziale e soggettiva anche in un reportage. Non serve impegnarsi nel vano sforzo della terzietà. Deve piuttosto essere in grado di abdurre: ovvero di osservare i fatti come qualcosa di correlato, ipotizzandone le cause al fine di prevedere altri fatti, di scommettere sulle conseguenze, di condurre chi legge da ciò che è a ciò che sarà. Di pensare in maniera non lineare e post-convenzionale allargando l’orizzonte critico. Mentre il mondo è pieno di giornalisti che dopo sapevano tutto prima. Quando si parla un poco pretenziosamente di “ricerca della verità”, si intercetta la volontà buona di chi intende abdurre solo dopo essersi ripulito da incrostazioni ideologiche, farisaiche, opportunistiche. Questo è il massimo della professionalità che ci è concesso. Da lì in avanti si procede rendendo sempre maggiormente manifesta la propria idea di buona vita, chiarendo che cosa si ritiene auspicabile e che cosa nocivo. E in quel momento si fa politica, ovvero si interviene sulla realtà nella speranza di modificarla. I lettori rappresentano gli elettori e si conquistano con la lealtà e la lucidità. Escludendo i solipsismi, ogni pubblica rivendicazione morale è un’affermazione politica. Se un editorialista racconta i mali dell’Italia, dolendosene, fa politica, perché esprime implicitamente la sua idea di come l’Italia dovrebbe essere. Se in buona fede intercetta i responsabili, fa politica, perché costringe la politica stessa a correggersi. Per questo esiste un continuum naturale fra le due funzioni, fra le due dimensioni, e un equilibrio necessario. Ciò che si evince, per converso, è la buffoneria di quei colleghi che ostentano neutralità, obiettività, quasi come se le loro opinioni cadessero direttamente dalla navicella spaziale di John Rawls, per poi ritrovarli anni dopo schierati in una lista a sventolare bandierine. Paragone ha dichiarato: «Sono sempre stato un giornalista di parte, quindi non credo di presentarmi in una veste diversa. Ero già un attore politico. Non escludo dunque neppure di tornare a fare il giornalista. Mi considero come una sorta di inviato speciale nel Palazzo…». Vero. Anche se la parte è cambiata. Ma qui è possibile osservare il percorso di ciascuno e pesarne l’integrità. Nulla vieta di rimanere delusi da un partito e trovare comunanza di vedute con un altro, magari nuovo. Cerno confessa: «Ero stanco di fischiare dalle tribune, volevo scendere in campo e provare a segnare». Poi aggiunge: «L’imparzialità nasce dal pluralismo delle voci, non da una singola voce. Mi piace la parola partito perché significa prendere parte». Tutto legittimo. Anche quando si sceglie tragicamente di prendere parte al Partito Democratico. Cionondimeno, vorrei chiarire che cosa mi ha spinto a commentare. Nella totalità di questi interventi, testimonianze, confessioni, di oggi e di ieri, da ex colleghi e possibili riferimenti istituzionali, non ho sentito una sola parola sul futuro dell’informazione. Non una riflessione sulla professione che lasciano. Sull’epocale transizione digitale, fra i media intesi come medium circoscritto e regolamentato e il riconoscimento di ogni smartphone come strumento di comunicazione di massa. Sul delirante dibattito relativo alle fake news. Su come garantire l’indipendenza dell’informazione dalla politica proprio in virtù di una così stretta affinità di inclinazioni e intenti. E dall’economia sovranazionale, verso cui la politica nazionale stessa è in posizione sempre più ancillare. Silenzio. Compito del giornalismo oggi, urgente come mai prima, è la negazione dell’automatismo. La negazione di una verità immediatamente alienata. La negazione di una verità immediatamente manipolata. La negazione di ogni superstizione ideologica e del pensiero mercantile di dominio. La negazione dell’inevitabilità del reale. Il giornalista fa politica sorvegliando la politica. Vigilando sulla politica. Pungolando la politica. Potendo avvalersi di quella distanza dal potere rivendicata da Montanelli. Ma se i migliori giornalisti abbandonano la propria funzione per diventare politici stricto sensu, quis custodiet ispos custodes?

Giornalisti contro avvocati: «Vietato criticarci», scrive Giulia Merlo il 23 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Fnsi, il sindacato dei giornalisti, attacca l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria della Camera penale di Modena che replica: «Travisamento della notizia che offende la classe forense». Accetta di definirlo un «fraintendimento». Da penalista, però, specifica che il fraintendimento da parte della Federazione Nazionale della Stampa Italiana «si colloca tra la colpa grave e il dolo eventuale». La Camera Penale di Modena, per voce del suo presidente, Guido Sola, è al centro di una polemica al vetriolo proprio con la Fnsi e l’Ordine dei Giornalisti, ragione del contendere: la creazione dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria (iniziativa già in atto da due anni a livello nazionale, promossa dall’Unione Camere Penali italiane con la pubblicazione del Libro Bianco sull’informazione giudiziaria). Il “fraintendimento” è nato dopo l’annuncio della Camera Penale di Modena della costituzione dell’Osservatorio: «La cronaca giudiziaria ed i temi della giustizia hanno assunto negli ultimi tempi un interesse sempre maggiore da parte dell’opinione pubblica, tanto che da alcuni anni gli addetti ai lavori ed anche esperti di psicologia e sociologia si stanno interrogando sugli effetti distorsivi dei cosiddetti “processi mediatici”», si legge nel comunicato. E ancora, «l’informazione spesso diventa strumento dell’accusa per ottenere consensi e così inevitabilmente condizionare l’opinione pubblica e di conseguenza il giudicante: pensiamo ad esempio a quanto accaduto nel processo “Aemilia” allorché, pochi giorni dopo gli arresti, prima ancora delle decisioni del tribunale del riesame, è stato pubblicato e diffuso un libro che riportava fedelmente, quasi integralmente, il contenuto della misura cautelare con atti che dovevano rimanere segretati». Proprio questo passaggio ha scatenato la reazione del sindacato nazionale del giornalisti e dell’Ordine dei giornalisti nazionale e locale, che definiscono l’iniziativa dei penalisti «inquietante» e attaccano: «La Camera Penale di Modena fa esplicitamente riferimento al processo “Aemilia”, in corso da oltre un anno a Reggio Emilia, che per la prima volta ha alzato il velo sulle infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna, per decenni sottovalutate. E lo fa proprio in concomitanza con un’udienza dello stesso processo in cui un pentito ha rivelato che, tra i progetti degli ‘ ndranghetisti in Emilia, c’era anche quello di uccidere un giornalista scomodo. Notizia che pare non aver toccato in maniera altrettanto significati- va la sensibilità degli avvocati. Del resto, non è la prima volta che sindacato e Ordine dei giornalisti sono costretti a occuparsi di intimidazioni, esplicite o velate, fatte a chi si occupa di informare i cittadini sul processo “Aemilia”. Ricordiamo le minacce in aula ai cronisti reggiani, le richieste dei legali degli imputati di celebrare il processo a porte chiuse, le proteste contro i giornalisti già manifestate da alcuni difensori alle Camere Penali di competenza». Insomma, quella degli avvocati è un’iniziativa «dal sapore intimidatorio» ed è «grave e inquietante che i media debbano essere messi sotto osservazione da un organismo composto solo da avvocati». Allusioni che indignano il presidente delle Camere Penali modenesi. «Siamo davanti ad un esempio lampante di travisamento della notizia», ha commentato il presidente Sola, «che offende gravemente chi ha deciso di costituire l’Osservatorio e tutta la classe forense». Che quello tra avvocati e giornalisti sia stato o meno di un equivoco, il fatto più grave è che «alla nostra iniziativa è stata associata una difesa ideologica da noi mai espressa alla criminalità organizzata, identificando il difensore con l’imputato». Come se gli avvocati “fossero” i clienti che difendono (nel caso Aemilia, indagati per ‘ndrangheta). Al contrario, ha spiegato Sola, l’obiettivo dell’Osservatorio è di «aprire un percorso culturale a più livelli sul tema del bilanciamento del diritto di cronaca con il diritto alla difesa. In particolare, il monitoraggio sull’informazione giudiziaria e sulla politica giudiziaria verranno svolti con la finalità di organizzare un convegno e discuterne con tutte le parti in causa». Quanto al citato processo “Aemilia”, Sola ribadisce che «è stato citato come esempio di patologia, ma è scontato che l’Osservatorio non nasce certo per monitorare singoli processi, per di più ancora in corso. Aggiungo che, dal mio punto di vista, le fughe di notizie sono una patologia che non è certo da imputare ai giornalisti ma a chi permette che informazioni coperte da segreto trapelino illecitamente». La polemica non è ancora chiusa e se Sola ribadisce che «sarebbe importante avere un confronto con il mondo del giornalismo, cosa che del resto già è avvenuta proficuamente in molte sedi», la Camera Penale sottolinea come l’accaduto «rafforzi la convinzione che la decisione di costituire l’Osservatorio sia quanto mai più opportuna».

Polemica penalisti-giornalisti, chi critica diventa amico dei boss, scrive Giulia Merlo il 26 gennaio 2018 su "Il Dubbio". La polemica tra avvocati e giornalisti prosegue, oltre quello che la Camera Penale di Modena aveva definito un «fraintendimento della notizia, che si colloca tra la colpa grave e il dolo eventuale». La ragione rimane la stessa, il processo Aemilia (un’inchiesta sulle infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna). La vicenda, già raccontata su questo giornale, è della settimana scorsa: la Federazione Nazionale della Stampa Italiana e l’Ordine dei Giornalisti nazionale e locale hanno attaccato pesantemente l’istituzione, presso la Camera Penale di Modena, di un Osservatorio sull’informazione giudiziaria (sulla scia di un’iniziativa tra l’altro giù esistente a livello nazionale da parte dell’Unione Camere Penali, che ogni anno pubblica il Libro Bianco sull’informazione giudiziaria). I penalisti modenesi, nell’annuncio dell’istituzione dell’Osservatorio, avevano spiegato che «l’informazione spesso diventa strumento dell’accusa per ottenere consensi e così inevitabilmente condizionare l’opinione pubblica e di conseguenza il giudicante: pensiamo ad esempio a quanto accaduto nel processo “Aemilia” allorché, pochi giorni dopo gli arresti, prima ancora delle decisioni del tribunale del riesame, è stato pubblicato e diffuso un libro che riportava fedelmente, quasi integralmente, il contenuto della misura cautelare con atti che dovevano rimanere segretati». proprio questo passaggio, definito dal presidente dei penalisti modenesi Guido Sola «esemplificativo di una patologia, ma è scontato che l’Osservatorio non nasce certo per monitorare singoli processi, per di più se ancora in corso», aveva mandato su tutte le furie i giornalisti, che hanno definito «inquietante» e «dal sapore intimidatorio» l’iniziativa, perchè annunciata «in concomitanza con un’udienza dello stesso processo in cui un pentito ha rivelato che, tra i progetti degli ‘ndranghetisti in Emilia, c’era anche quello di uccidere un giornalista scomodo. Del resto, non è la prima volta che sindacato e Ordine dei giornalisti sono costretti a occuparsi di intimidazioni, esplicite o velate, fatte a chi si occupa di informare i cittadini sul processo “Aemilia”». La Camera Penale modenese, che ha incassato il sostegno dell’Unione Camere Penali, dell’ordine degli avvocati di Modena e della Camera Penale di Reggio Emilia, ha risposto sul punto, sottolineando come «alla nostra iniziativa è stata associata una difesa ideologica da noi mai espressa alla criminalità organizzata, identificando il difensore con l’imputato». Il presidente della Camera Penale di Reggio Emilia, Nicola Tria, ha inoltre fatto sapere che anche il suo direttivo istituirà un Osservatorio locale sull’informazione giudiziaria, «non per intimidire chicchessia, ma semplicemente per monitorare i meccanismi della comunicazione e misurarli alla luce dei principi costituzionali» e ha offerto di organizzare a Reggio Emilia un convegno con avvocati, magistrati e giornalisti, per «ragionare insieme sulle criticità».

La polemica ha infiammato la discussione per alcuni giorni e si è arricchita di un ulteriore tassello proprio ieri, quando è andato in onda sul Tg3 locale un servizio sul processo Aemilia. Nel servizio, è stata data notizia del fermo di un indagato e, dalle pagine del decreto di fermo della Dda di Bologna è emerso che, attraverso un avvocato, l’uomo avrebbe introdotto in carcere due chiavette usb a fini intimidatori. Nella chiosa, però, è stato fatto chiaro riferimento all’Osservatorio delle Camere Penali: «Proprio in questi giorni la Camera Penale di Modena e quella di Reggio Emilia hanno annunciato di voler monitorare l’informazione giudiziaria, in particolare sul processo Aemilia e, alla luce di quando indicato nel decreto della procura di Bologna, ci sarebbe quasi da sorridere, ma a far riflettere è il fatto che con le informazioni ricevute in cella gli imputati siano poi riusciti a condizionare alcune testimonianze». Immediata la reazione degli avvocati. «Fare giornalismo non significa approfittarsi del potere mediatico per travisare le notizie. Ironizzare sull’iniziativa dell’avvocatura significa gratuitamente offendere l’intera categoria», hanno dichiarato Sola, Tria e il responsabile dell’Osservatorio, Alessandro Sivelli. I tre hanno ribadito come l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria non nasca affatto in relazione all’inchiesta Aemilia ma, soprattutto, come sia assurdo collegare l’iniziativa con un fatto di reato («e gli avvocati, ammesso che siano indagati, sarebbero comunque presunti innocenti») che nulla ha a che vedere con l’attività delle Camere Penali. In effetti, questo lascerebbero intuire le parole del giornalista. Come se l’Osservatorio nascesse per intimidire i giornalisti, in concomitanza con l’ipotesi di reato di un avvocato. Tuttavia, gli avvocati hanno deciso di non sporgere querela per diffamazione nè di chiedere rettifiche, «perchè anni di professione hanno insegnato che chiedere la rettifica di notizie diffamatorie non provoca altro che ulteriore diffamazione». «Non abbiamo alcuna intenzione di rinfocolare una polemica», ha commentato Sola, il quale ha anticipato di aver già invitato, in accordo con la Camera Penale di Reggio Emilia, il presidente dell’Ordine dei giornalisti dell’Emilia Romagna, Giovanni Rossi, ad un confronto pubblico su quanto sta accadendo, «per urlare con forza che l’informazione va difesa, ma che la stessa non consente di ingiuriare chiunque e di svolgere processi mediatici senza contraddittorio».

Avvocati contro giornalisti? Una falsità Il nostro obiettivo è il processo mediatico, scrive il 31 gennaio 2018 "Il Dubbio". Dopo lo scontro tra penalisti modenesi e ordine dei giornalisti, un nuovo attacco da parte del Fatto Quotidiano e di Articolo 21. Nei giorni scorsi il direttore Sansonetti si è già occupato della polemica sollevata dall’Ordine dei giornalisti sulla istituzione degli Osservatori sulla informazione giudiziaria degli avvocati penalisti modenesi, accusati di voler esercitare una forma di censura sulla stampa e di volersi asseritamente occupare di “screditare” il processo “Aemilia”. La polemica, tuttavia, non si è stemperata, e con un articolo on line del 30 gennaio, Il Fatto Quotidiano e un intervento sul blog di “Articolo 21”, si torna alla carica con titoli che già dicono tutto: “Gli avvocati controllano i giornalisti”. Nei brani, ancora una volta, previa la identificazione tra avvocati e loro assistiti propria di concezioni culturali autoritarie, si tornano ad accusare i legali di voler intimidire la stampa, di voler limitare il diritto di cronaca e di denunciare solo i casi di processi relativi a imputati ricchi, o potenti, o legati alla criminalità. E, stavolta, viene chiamato in causa anche l’Osservatorio nazionale sull’informazione giudiziaria dell’Unione Camere Penali italiane ed il libro bianco sull’informazione giudiziaria italiana, pubblicato con il controllo scientifico dell’Università di Bologna. Si reiterano poi le accuse ai legali di Modena e Reggio Emilia di voler usare strumentalmente gli osservatori per condizionare il processo Aemilia. Ferme restando le puntuali risposte già date dai colleghi emiliani e dal presidente Ucpi Migliucci e pubblicate dal Dubbio, quello che è davvero preoccupante (per chi dovrebbe fornire una informazione imparziale anche se riguarda la propria categoria) è la strumentalizzazione ed il travisamento delle altrui posizioni e la lettura distorta del libro bianco. Questa pubblicazione ha esaminato, su 25 quotidiani italiani, circa 8000 articoli di cronaca giudiziaria in sei mesi: articoli che riguardavano ogni tipologia di processo (per intenderci, anche quelli ai “poveri cristi”), raccogliendo dati che – seppure opinabili e discutibili come tutti – hanno consentito una lettura di politica giudiziaria sulla quale si è chiesto un confronto leale con i giornalisti. Confronto che in questi ultimi anni vi è stato (il libro è stato presentato in numerose città, presso diverse Università ed in altre sedi pubbliche: sempre invitando giornalisti e dando luogo a un dibattito anche acceso ma sempre civile). Il libro bianco propone certamente una tesi polemica: le risultanze della ricerca hanno dato conferma che, con le dovute e rispettabili eccezioni, l’impostazione delle cronache giudiziarie è quasi totalmente appiattita sulle tesi dell’accusa e sulla fase delle indagini preliminari e di polizia; lo spazio dato alla difesa è percentualmente irrisorio; le notizie pubblicate provengono in percentuale bulgara dall’accusa; le pubblicazioni avvengono molto spesso in violazione del disposto di due norme del codice ( 114 II co. e 329 c. p. p.) che vietano di riprodurre la testualità di atti processuali anche quando è venuto meno il segreto; le “fughe” di notizie comportano che spesso i legali apprendano notizie ed atti prima dalla stampa che nelle sedi processuali; l’immagine di chi è sottoposto al processo è “mascariata” prima ed a prescindere dal processo. E il tratto più preoccupante ed evidente è lo stabilirsi di un asse tra investigatori e informatori destinato, volontariamente o meno, a condizionare o a rischiare di condizionare gli sviluppi del processo (si pensi a testimoni che depongono dopo mesi di bombardamento mediatico e agli stessi giudici: proprio ieri, sul Dubbio, il presidente del Tribunale di Torino, non un avvocato “prezzolato”, ha denunciato il pericolo di un giudice preoccupato di assumere decisioni “impopolari”). Detto questo, non si pretende ovviamente che questa analisi sia accolta con entusiasmo, ma che almeno non sia stravolta: è falso, gravemente falso, che i penalisti vogliano limitare il diritto di cronaca ed è preoccupante che si assuma essere impossibile criticare il mondo dell’informazione giudiziaria: se “Articolo 21” ha letto il libro bianco troverà, contrariamente a quanto afferma, più volte richiamata la sacertà della libera manifestazione della critica giornalistica; se ha letto i documenti dell’Osservatorio, troverà anche quelli a difesa del segreto professionale dei giornalisti ( mentre questi ultimi appaiono indifferenti alle violazioni di quello degli avvocati). E troverà anche spunti fortemente critici verso quegli avvocati che fanno strame del loro ruolo partecipando ai “processi mediatici” televisivi. Ed allora, posto che un confronto si impone senza toni ( quelli sì) intimidatori, per una volta l’informazione giudiziaria – o almeno quella che assume queste posizioni – si interroghi anche su sé stessa, al di là delle norme di legge: sul rapporto con le proprie fonti investigative; sull’assenza di spirito critico verso le prospettazioni accusatorie; sulla necessità di rispettare la presunzione di innocenza; sulla impostazione che viene data alle notizie, ai titoli, alle decisioni assolutorie che vengono considerate “spreco di indagini”. E quanto all’accusa che ci viene rivolta di occuparci solo dei potenti, per una volta, completi il proprio compito informativo: si vada a documentare sulle battaglie storiche dell’Unione delle camere penali sui diritti dei migranti, sui processi agli stranieri, sulle denunce sui Cie, sul rispetto delle regole in ogni processo, chiunque sia accusato. Chè solo in Italia ricorre l’equivoco che “il potere” sia solo la politica, e che la magistratura sia il “contropotere”.

L’intimidazione di Repubblica agli avvocati: «Dovete tacere», scrive Piero Sansonetti l'1 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Il processo mediatico. Il titolo, a tutta pagina, dice così: «I legali dei boss processano i cronisti ». Non è il titolo di un fogliaccio di propaganda populista ma del più importante giornale della borghesia moderna, progressista e illuminata, e cioè Repubblica. Il giornale erede del grande pensiero liberale, della grande tradizione giornalistica laica e democratica, di Mario Pannunzio, di Arrigo Benedetti, di Scalfari. Il titolo si riferisce a una iniziativa della Camera penale di Modena, che ha istituito un osservatorio sull’informazione giudiziaria. Questo osservatorio nasce dopo la pubblicazione di un libro bianco, realizzato a livello nazionale dall’Unione Camere penali con la collaborazione dell’Università di Bologna. Da questo libro bianco risulta, sulla base di dati statistici, che l’informazione giudiziaria italiana è assolutamente dipendente dall’accusa e dalle procure, e trascura, quasi nega, l’esistenza della difesa e delle sue argomentazioni. Il titolo di Repubblica denuncia la nascita di questo osservatorio che considera una intimidazione alla libertà di stampa. Analizziamo prima bene il titolo, poi parliamo dell’intimidazione. Il titolo poteva essere fatto in vari modi. Ad esempio: «Gli avvocati mettono sotto osservazione i giornali». Sarebbe stato un titolo molto oggettivo. Oppure si poteva fare un titolo malizioso: «Gli avvocati processano i giornali». Malizioso – per l’uso della parola “processano” – ma non arrogante. Invece, nel titolo che si è scelto, i giornali sono diventati “i cronisti”, con una evidente forzatura della realtà (la critica delle Camere penali è ai giornali, non ai singoli cronisti). E soprattutto gli avvocati sono diventati, nel titolo, «i legali dei boss». Scompare la parola avvocato, che ha un sapore nobile, alto, e compare la parola boss. “Legali dei boss”, in sostanza, allude a una dipendenza del legale dal boss. E dunque, oggettivamente, a una mafiosità dell’avvocato. Il quale, oltretutto, paradossalmente vorrebbe ribaltare lo stato di diritto e, invece di accettare di sottoporsi al processo, pretende di essere lui l’accusatore. Ora forse sarebbe necessario spiegare bene cos’è questo libro bianco e cos’è questo osservatorio, e come né l’uno né l’altro hanno nessun intento “accusatorio”, ma solo di analisi. Questa spiegazione però, molto dettagliata, l’ha fornita sul Dubbio di ieri l’avvocato Renato Borzone. A me invece interessa qui ragionare un momento su questa sbandata giustizialista di uno dei più importanti giornali italiani. E sull’accusa di intimidazione rivolta agli avvocati. Conosco il direttore di Repubblica e molti suoi giornalisti. Conosco la loro cultura, e in particolare la cultura di Mario Calabresi, il suo pensiero ispirato ai valori della democrazia, della libertà e dello Stato di diritto. Perciò mi rivolgo proprio a lui per porre questa domanda: se anche Repubblica finisce travolta dalla tendenza di trasformare la giustizia in giustizia sommaria, l’accusa in giudizio, l’imputato in colpevole e l’avvocato in sodale dei delinquenti, e cioè di trasformare il diritto in autoritarismo e lo stato di diritto in stato autoritario, o stato etico, o stato dei “migliori”, non credi che la democrazia corra un rischio grandissimo? Io sono convinto che oggi sia aperta una battaglia decisiva per il futuro della modernità, e della stessa civiltà, e che questa battaglia sia tra chi vuole mettere al centro di tutto il diritto e chi invece pensa che il diritto sia antimoderno, e francamente non capisco come si possa combattere questa battaglia senza l’aiuto delle roccaforti della cultura liberale, e quindi senza l’aiuto di un grande giornale come Repubblica. L’attacco agli avvocati di Modena, descritti come dei “mantenuti” dai boss veramente è preoccupante. È una vera e propria intimidazione, insopportabile, un attacco costruito su una cultura della giustizia nella quale il diritto di difesa è visto come un lusso. Nell’articolo si parla, testualmente di «avvocati retribuiti per difendere clienti del giro della cosca della ‘ndrangheta d’Emilia». Capite che questo è un linguaggio inaccettabile, che tradisce una cultura giuridica davvero rasoterra, e che assomiglia al lessico che si usava tra i questurini della Repubblica di Salò? A nessuno può venire seriamente in mente che l’iniziativa pubblica di una organizzazione di avvocati, che tende a ristabilire la cultura del diritto, possa essere una intimidazione. Gli avvocati, sì, con questa iniziativa hanno indicato il rischio del processo mediatico. Ma non c’è bisogno di immaginare che lo abbiano fatto perchè sono venduti ai mafiosi. Questo rischio è stato indicato, prima che dagli avvocati, nell’ordine (per fare pochissimi esempi) dal Presidente della Repubblica, dal procuratore generale della Cassazione Canzio, dal suo successore Mammone, da almeno una decina di Procuratori delle grandi città, a partire da Roma (Pignatone) e ancora l’altro giorno, sul Dubbio, dal presidente del Tribunale di Torino. C’è una parte molto grande della magistratura che ha chiarissimo il rischio che il processo mediatico travolga la nostra giurisdizione. Con enormi danni. Pericolo molto chiaro anche all’avvocatura. Possibile che il giornalismo italiano sia così indietro, sul piano culturale, rispetto alle altre professioni? Possibile che non si renda conto che il suo compito non è quello di ricopiare le informative dei carabinieri o le requisitorie dei Pm, ma quello di criticare, dubitare, indagare, ricercare? E anche quello di discutere, insieme ai protagonisti della giurisdizione, su come si possa ristabilire il diritto e fermare l’obbrobrio dei processi mediatici? Se i giornalisti riusciranno o no a risollevarsi, a rientrare nella dignità della loro professione, ovviamente non può dipendere solamente dal coraggio, o dalla cultura, o dell’anticonformismo dei singoli cronisti. Dipende dalle proprietà e dalle direzioni dei giornali, dalla Fnsi, dall’Ordine. Tutti soggetti che fin qui hanno preferito mettere il mercato, o il corporativismo, o la subordinazione a qualche Procura, al di sopra della propria dignità culturale. Sarà ora di invertire la tendenza? È immaginabile una inversione di tendenza senza l’impegno di “colossi” come Repubblica?

Ma insomma, Errani è un farabutto o no? Scrive Piero Sansonetti il 2 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Travaglio ci ripensa, ritira il fango e diventa garantista. Non c’è niente da fare: se volete trovare un forcaiolo vero, a 24 carati, coerente, ferreo, dovete per forza rivolgervi a Davigo. Lui sì che è stato mandato da Dio, e non vacilla mai, ed è incorruttibile. Lui e lui solo. Tutti gli altri nascondono un lato perverso, garantista o addirittura perdoni- sta. Compreso il capo dei capi dei giustizialisti, il Savonarola per eccellenza, l’accusatore, il colpevolista, il Viscinski del terzo millennio: Marco Travaglio. Ieri ha scritto sul “Fatto” un editoriale quasi tutto molto travagliano. Nel quale, come è sua abitudine, dà dello stragista a Berlusconi, dell’imbecille a Prodi, dello stalinista a Renzi, dell’ipocrita a quasi tutti i corrispondenti dei giornali esteri. Stragista a Berlusconi è testuale, le altre qualifiche sono solo sottintese. E però poi prende una paurosa sbandata. Scrive così: «Il professore (Prodi, ndr) a Bologna dovrà votare Casini… contro una figura storica del centrosinistra bolognese come Vasco Errani». Stupore del lettore. Vasco Errani?? Vasco Errani sarebbe una icona della grande politica e della sinistra, di fronte alla quale un elettore non può fare altro che inchinarsi? Ma, ma, ma… Andiamo a vedere cosa scriveva Marco Travaglio, meno di due anni fa, di questo Vasco Errani. C’è un articolo dell’agosto del 2017 che è intitolato così: «Errani humanum est, perseverare diaboliucum». E porta la firma di Travaglio. Ne trascrivo solo qualche riga: «Vasco Errani commissario alla ricostruzione. É stato assolto, ma è proprio il caso di nominare un ex governatore che finanziò la coop di suo fratello?». Un paio di mesi prima invece era uscito un articolo intitolato «La combriccola del Vasco». Anche qui trascrivo qualche riga: «Nel 2006 la giunta di Vasco Errani regala 1 milione di euro alla coop rossa Terremerse presieduta da suo fratello Giovanni per un nuovo stabilimento enologico a Imola che risulta già costruito. Un bel conflitto d’interessi, direbbe la combriccola del Vasco se al posto suo ci fosse Berlusconi o qualcuno dei suoi. Invece tutti zitti. Anche quando si scopre che la cantina finanziata dalla Regione non è stata costruita, dunque a quei fondi pubblici non aveva diritto». Voi direte: d’accordo, però dopo quegli articoli Errani fu assolto, e ora Travaglio ne prende atto e lo riabilita. Nient’affatto: quegli articoli sono stati scritti dopo l’assoluzione. E Travaglio riuscì a spiegare come l’assoluzione non valeva niente, perché comunque Errani forse era colpevole. Scriveva così: « Non solo un pm, ma tre giudici di primo appello e cinque di Cassazione, oltre a tre procuratori generali, hanno attestato che il processo andava fatto… Resta da capire se i fatti addebitati a Errani, giudicati delittuosi da alcuni giudici e penalmente irrilevanti da altri ( che, avendo l’ultima parola, hanno ragione per convenzione, non per scienza infusa) siano compatibili con la santificazione, o se invece siano almeno politicamente disdicevoli» Ora, come per miracolo, Errani diventa un gigante della sinistra. E Casini invotabile, sebbene Casini, in realtà, sia uno dei pochissimi esponenti della prima Repubblica a non aver mai avuto guai con la giustizia. Tanto che se si dovessero rispettare le idee del partito di Travaglio – onestà, onestà! – uno non potrebbe fare altro che votarlo. Detto questo vorrei spiegare bene una cosa. Errani è innocente, è stato dichiarato innocente, è una persona rispettabilissima, un dirigente politico di grande valore e con alle spalle una storia robusta. Caso abbastanza raro, peraltro, nella classe politica di oggi, dominata dai 5 Stelle e da vari cloni o imitatori. Sono convinto che chi lo voterà non si pentirà. Il problema non è Errani, è la fragilità del giustizialismo. La mia su Davigo non era una battuta. Le sue idee mi terrorizzano, penso che siano lontanissime dalle idee di un liberale, che siano incompatibili con una società basata sul diritto e sulla democrazia. Però provo un sentimento di grande rispetto per Davigo, perché non posso non riconoscere la sua coerenza. Il giustizialismo di Davigo è un principio formidabile, ferreo, non è lo strumento, agile e pieghevole, per una battaglia politica. È un caso unico. Lo stesso Travaglio vive il giustizialismo solo come una occasione per scagliarsi contro gli avversari. Lo sospende, naturalmente, se le vittime del giustizialismo sono i 5 Stelle, ma lo sospende persino con Errani, dopo aver rovesciato fango su di lui, se esaltare Errani può essere utile per polemizzare con Prodi o con Renzi. Devo dire, per onestà, anche un’altra cosa. Purtroppo, molto spesso, anche il garantismo è oscillante. E proprio per questo è debole, non riesce ad assumere la posizione che gli spetterebbe nel dibattito politico. Troppe volte viene usato solo come scudo per i propri amici. E poi viene smentito immediatamente se smentirlo può servire a colpire gli avversari. Quante volte ho sentito esaltare il garantismo e poi dire: «Buttate la chiave…». Mi viene in mente Salvini, per esempio, ma mica solo lui.

«I processi in tv ormai rischiano di sostituire noi giudici», scrive Errico Novi il 30 gennaio 2018 su "Il Dubbio".  Inizia tutto con Tangentopoli? «No, guardi, io credo che siamo di fronte a un salto degenerativo: durante Tangentopoli sulle prime pagine c’erano i pm, ora a essere oggetto di una vera e propria gogna, e altre volte di eccessivo plauso, è la decisione del giudice. Pericolosissimo. Anche perché si corre il rischio di un paradossale slittamento della giustizia dal luogo propriamente assegnatole a quello improprio dei mass media». Massimo Terzi, presidente del Tribunale di Torino, è uno dei magistrati che all’inaugurazione dell’anno giudiziario non hanno scelto un terreno di gioco facile.  Il suo discorso alla cerimonia in Corte d’appello ha puntato dritto sul rischio che «la decisione del magistrato giudicante venga ridotta a opinione personale». E invece, ricorda al Dubbio, «l’esercizio della giurisdizione è tutt’altra cosa da una delle tante opinioni espresse nel circuito mediatico».

I pericoli riguardano soprattutto le assoluzioni?

«Il punto è capire che la decisione del giudice non è un’operazione matematica. Altrimenti potremmo tranquillamente essere sostituiti da un computer. Si tratta di un percorso che spesso comporta un travaglio e, soprattutto quando questo travaglio conduce a un’assoluzione, bisogna rispettarlo, nell’interesse e a garanzia di tutti. Oltre che da questo, all’inaugurazione dell’anno giudiziario ho cercato di mettere in guardia da un’altra deriva».

Ovvero?

«Dal rischio di ridurre, appunto, la decisione del giudice a una delle tante opinioni della dialettica massmediale. Dovrebbe essere chiaro che solo nel caso del magistrato la decisone si accompagna a un’assunzione di responsabilità. E invece a volte il rispetto di tale principio può venir meno anche tra di noi».

I magistrati a volte eccedono nel contestare la decisione di un collega?

«Nei mezzi di impugnazione c’è tutto lo spazio per le contestazioni di merito anche più aspre. Io mi riferisco alle esternazioni gratuite che riguardano l’intero circuito massmediatico e che spesso si basano su una scarsissima conoscenza degli atti. Dopodiché, anche quando le critiche arrivano sulla base degli atti ci si dovrebbe ricordare che l’opinione è cosa ben diversa da una decisione che cambia la vita di qualcuno».

Il tribunale televisivo ha esautorato i Tribunali veri e propri?

«Senta, è chiaro che non tutte le decisioni sono inappuntabili dal punto di vista tecnico. Ma mi pare che adesso davvero si esageri: nel circuito massmediatico tutti diventano giudici. E ci si dimentica che il giudice vero assume una decisione non in quanto persona fisica ma in nome del popolo italiano, e come espressione di un determinato ufficio giudiziario, di cui è solo, per così dire, ambasciatore».

Lei ha parlato di magistrati a rischio gogna.

«Certo, nell’ultimo anno mi pare si sia verificato in più di un’occasione. E se è terribile che un magistrato venga messo alla gogna è potenzialmente persino più pericoloso il plauso, che rischia di avere effetti ancora più distorcenti».

Verso le toghe c’è la stessa sfiducia che investe le istituzioni in generale?

«Non credo si tratti di sfiducia ma di interessi mossi deliberatamente da qualcuno o di una inarrestabile logica massmediale in cui esasperare i toni è conveniente. Il meccanismo del consenso o del dissenso massmediale può essere devastante. Sembra davvero che l’ultima parola non spetti più all’ambito processuale ma sia devoluta all’opinione pubblica. Dio ci scampi e liberi da una giustizia che ricerca il consenso».

Nei confronti di un gip di Reggio Emilia che ha “osato” emanare un’ordinanza cautelare meno severa di quanto richiesto sono state indette manifestazioni di piazza. Gli avvocati di Reggio sono stati gli unici a difendere quel magistrato.

«Non conosco il caso specifico ma l’esempio, da come lo riferisce, mi pare molto pertinente: le manifestazioni costituiscono un prezioso strumento per influenzare le scelte della politica, ma se rivolte alla funzione giurisdizionale assumono un tratto inquietante. Anche perché il contrasto tra quanto l’opinione pubblica vorrebbe e la decisione resa possibile dalle norme è spesso assai vistoso. Certe decisioni possono non piacere alla gente, magari non piacciono neanche a me come persona fisica: ma se le norme ci sono vanno rispettate. Ci sono reati in cui anche in caso di flagranza non puoi tenere una persona in carcere. Prendersela con il giudice in quanto persona fisica crea anche un problema di sicurezza».

C’è la medicina difensiva: avremo giudici che per non essere linciati prenderanno le decisioni attese dalla gente?

«Le influenze possono anche essere inconsce. D’altra parte chiunque comprende come sia impossibile non modificare per nulla il proprio atteggiamento mentale con cinquanta telecamere puntate addosso».

La degenerazione si supera anche con una collaborazione sempre più intensa tra magistratura e avvocatura?

«Penso di sì. Credo che le storture di cui parliamo richiedano senz’altro un faticoso, forse utopistico dibattito culturale che porti a un codice deontologico massmediale. Ma sicuramente può essere molto preziosa una comunanza di intenti tra magistratura e avvocatura. È comprensibile come il difensore possa ritenere utile, nell’ambito del suo mandato, rimarcare una valutazione critica sulla decisione di un giudice, ma si tratta di un’utilità solo immediata. Alla lunga il meccanismo che si innesca è corrosivo per l’intero sistema».

Inizia tutto con Tangentopoli, presidente Terzi?

«Sicuramente Tangentopoli ha impresso un’enorme accelerazione al processo che ha visto intrecciarsi giustizia e mass media. Ma c’è una differenza sostanziale rispetto a quanto avviene oggi: all’epoca le prime pagine erano presidiate da pubblici ministeri. Vista la diversità dei ruoli, portare l’attenzione sulla magistratura giudicante è un grande salto degenerativo, che si arrivi al plauso o alla gogna. Dobbiamo trovare il modo di alzare un argine: la decisione del giudice è diversa da un’opinione, anche da quella pur qualificata del pm, e non è accettabile che la persona fisica che l’assume finisca sotto i riflettori»

In carcere da innocenti: ne entrano tre ogni giorno, scrive Damiano Aliprandi il 31 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Mille persone ogni anno ricevono un indennizzo perché sono stati ingiustamente detenuti. È quanto emerge da uno studio elaborato dai curatori del sito errorigiudiziari.com. Lo scorso anno si è chiuso con un aumento dei casi di ingiusta detenzione e, di conseguenza, lo Stato ha sborsato più soldi in indennizzi. Questo è il dato relativo al 2017 elaborato da Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone, giornalisti che curano il sito errorigiudiziari.com. Andando sullo specifico, gli autori dello studio, elaborando gli ultimi dati disponibili del ministero dell’Economia, sono riusciti a fare un raffronto con l’anno precedente. Il 2017 si è chiuso con un dato in aumento sia per quanto riguarda i casi di ingiusta detenzione che hanno toccato quota 1013, contro i 989 registrati nell’anno precedente, sia per l’ammontare complessivo dei relativi risarcimenti che superano i 34 milioni di euro. La città con il maggior numero di casi indennizzati è stata Catanzaro, con 158. Subito alle sue spalle c’è Roma (137) e a seguire Napoli (113), che per il sesto anno consecutivo si conferma nei primi tre posti. Gli autori fanno notare come nella top 10 dei centri dove è più frequente il fenomeno della ingiusta detenzione prevalgano le città del Sud: sono infatti otto su dieci, con le sole Roma e Milano a invertire la tendenza. Catanzaro e Roma sono anche le città in cui lo Stato ha speso di più in risarcimenti liquidati alle vittime di ingiusta detenzione: nel capoluogo calabrese lo scorso anno si è fatta registrare la cifra enorme di circa 8 milioni e 900 mila euro, ben più del doppio di quanto si è speso per i casi della Capitale (poco più di 3 milioni e 900 mila euro).  Al terzo posto Bari con indennizzi versati per oltre 3 milioni e 500 mila euro, che scavalca Napoli, quarta in classifica con più di 2 milioni e 870 mila euro. Il tema delle ingiuste detenzioni e degli errori giudiziari è scottante, eppure in occasione dell’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario, il 26 gennaio in Cassazione, non è stato nemmeno sfiorato. Come mai? Provano a rispondere Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone di errorigiudiziari.com, spiegando che le 1000 persone che finiscono in carcere ingiustamente ogni anno, e che per questo ricevono un risarcimento, secondo giudici e procuratori costituiscono un “dato fisiologico”, una sorta di “effetto collaterale” inevitabile di fronte alla mole di processi penali che si celebrano ogni anno nelle aule dei tribunali italiani. Prendendo in esame gli ultimi 25 anni, i dati complessivi risultano una ecatombe. Dal 1992 a oggi, 26.412 persone hanno subito una ingiusta detenzione. Per risarcirli, lo Stato ha versato complessivamente poco meno di 656 milioni di euro. Se poi si includono anche gli errori giudiziari, il numero delle vittime sale a 26.550, per una somma totale di 768.361.091 euro in risarcimenti versati dal 1992 a oggi. Parliamo dunque di una media annuale di oltre 1000 casi, per una spesa superiore ai 29 milioni di euro l’anno. I dati dei soldi sborsati dallo Stato sono anche poco indicativi. Prendiamo ad esempio l’anno 2016: c’è stato un brusco calo di indennizzi per ingiusta detenzione rispetto agli anni precedenti. Quindi meno innocenti in carcere? No, il vero motivo è un altro. Lo spiegano gli stessi esperti del ministero dell’Economia e delle Finanze: le diminuzioni degli importi corrisposti a titolo di R. I. D. (Riparazione per Ingiusta Detenzione) soprattutto negli ultimi anni non sono conseguenza di una riduzione delle ordinanze, bensì della disponibilità finanziaria sui capitoli di bilancio non adeguata. È necessario distinguere l’ingiusta detenzione dagli errori giudiziari. Nel primo caso si fa riferimento alla detenzione subita in via preventiva prima dello svolgimento del processo e quindi prima della condanna eventuale, mentre nel secondo si presuppone invece una condanna a cui sia stata data esecuzione e un successivo giudizio di revisione del processo in base a nuove prove o alla dimostrazione che la condanna è stata pronunciata in conseguenza della falsità in atti. Nel caso di ingiusta detenzione, l’indennizzo consiste nel pagamento di una somma di denaro che non può eccedere l’importo di 516.456 euro. La riparazione non ha carattere risarcitorio ma di indennizzo. Nel caso dell’errore giudiziario, invece, c’è un vero e proprio risarcimento. Il caso più eclatante di risarcimento è avvenuto esattamente un anno fa. Si tratta del più alto risarcimento per un errore giudiziario riconosciuto in Italia. Sei milioni e mezzo per ripagare 22 anni di carcere da innocente e circa 40 anni vissuti con una spada di Damocle sulla propria esistenza, tra galera e attesa delle decisioni dei giudici da Giuseppe Gullotta.

Lasciato morire in carcere per una condanna a un anno, scrive Damiano Aliprandi il 20 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Si chiamava Angelo Di Marco, aveva 58 anni. L’11 febbraio si è sentito male, vomitava sangue ed è stato ricoverato d’urgenza ed è morto. Gravemente malato, da novembre scorso era detenuto nel carcere romano di Rebibbia per scontare una pena di poco meno di un anno, ma il tribunale di sorveglianza non solo ha vietato la concessione dell’affidamento in prova (visto che parliamo di una condanna inferiore ai 3 anni), ha anche ritenuto che fosse compatibile con la carcerazione. L’ 11 febbraio si è sentito male, vomitava tantissimo sangue e solo a quel punto è stato ricoverato d’urgenza nell’ospedale Sandro Pertini. In codice rosso, operato di urgenza, l’hanno salvato in extremis, ma poi giovedì scorso il cuore ha smesso di battere ed è morto. Si chiamava Angelo Di Marco, aveva 58 anni, ma ne dimostrava molti di più. Un romano che faceva una vita ai margini, dedito a piccoli reati e soffriva di diverse patologie epatiche, compresa la cirrosi, che gli avevano compromesso anche il cuore. Era talmente grave che, secondo una relazione medica del Sert di Rebibbia datata 8/ 3/ 2016, le sue condizioni risultavano «mediocri, suscettibili di peggioramento e non compatibili con il regime carcerario». La sua è una storia emblematica che riguarda tante altre persone come lui. Secondo quanto riferito dai volontari che l’hanno seguito sia dentro che fuori dal carcere, Angelo era una persona che ha vissuto in un contesto ambientale degradato, da giovanissimo era entrato nel tunnel della droga e per procurarsela commetteva alcuni reati, da piccoli furti a spaccio. La tossicodipendenza, unito all’alcolismo, l’ha portato in un vicolo senza uscita, sia mentale che fisico. Eppure, negli ultimi anni, aveva chiesto aiuto. È stato seguito sia dal Sert che dal dipartimento sanitario mentale, ma non si trovavano strutture socio sanitarie disposte ad ospitarlo. Troppo vecchio per una comunità di recupero, troppo giovane per una casa famiglia con persone fragili. Un continuo rimpallarsi tra il Sert e l’azienda sanitaria locale, e se non fosse stato per la disponibilità di alcuni volontari, sarebbe rimasto completamente da solo. Ed effettivamente lo era, in balia dell’inconsistente gestione socio sanitaria esterna e l’assistenza sanitaria carceraria che presenta tuttora numerose criticità. Parliamo di un caso che Marcello Dell’Utri – stavano nello stesso reparto G 14 di Rebibbia – ha segnalato al suo legale di Antigone Simona Filippi. Che è stata nominata dal detenuto sua avvocata venti giorni prima che morisse. «Quando facevo i colloqui con lui – spiega l’avvocato a Il Dubbio – si vedeva che stava malissimo, il viso era giallo e non si reggeva più in piedi». Stava male Angelo, ma già prima di essere condannato. Per questo, tramite un avvocato d’ufficio, aveva richiesto l’incompatibilità, oltre alla sospensione della pena visto la piccola entità della condanna. «Nel fascicolo di rigetto che poi ho avuto modo di visionare – spiega sempre l’avvocata Filippi –, su due paginette e mezzo, non c’è uno straccio di documento medico. Lo mandano in carcere de- dicando solo due righe sul discorso della presunta compatibilità con il carcere».

In sostanza, il tribunale di sorveglianza non ha ritenuto di acquisire documenti che certificavano il suo stato di salute. Per i magistrati, Angelo Di Marco poteva senza dubbio essere curato in carcere. La mattina di domenica 11 febbraio, Angelo si sente male e gli esce dalla bocca un po’ di sangue, ma – secondo quanto ricostruito dai sui compagni di sezione – per i medici che l’hanno visitato la cosa non desta allarme. Il pomeriggio, però, comincia a peggiorare vomitando nuovamente sangue, ma così tanto da riempire un secchio. Gli stessi detenuti dell’infermeria hanno cominciato a protestare per chiedere soccorsi. Solo a quel punto viene trasportato di urgenza all’ospedale e lo operano. Uscito dalla camera operatoria, lo hanno allettato nel reparto ospedaliero civile, con tanto di piantoni. L’avvocato Simona Filippi, nel frattempo, alla luce di quello che era successo, è riuscita a fissare un’udienza urgente con il tribunale di sorveglianza. Ma oramai era troppo tardi. Dopo pochi giorni Angelo muore, in solitudine, in un letto di ospedale.

Il procuratore scopre la gogna: «Io, sbattuto in prima pagina…», scrive Davide Varì l'8 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Lo sfogo del magistrato di Brescia Tommaso Buonanno dopo l’arresto del figlio Gianmarco per rapina a mano armata. «Viviamo in uno stato di diritto dove la responsabilità penale è personale. Mio figlio risponderà dei fatti che gli sono contestati, ma io sono stato sbattuto in prima pagina anche se non ho fatto nulla». Sono giorni difficili per il procuratore capo di Brescia Tommaso Buonanno. Chi lo ha incontrato parla di un uomo provato, schiacciato tra la professione di magistrato e il ruolo di padre. La mazzata è arrivata lunedì scorso, giorno in cui il Gip di Bergamo ha chiesto l’arresto di suo figlio Gianmarco, accusato di rapina a mano armata. E contro Tommaso Buonanno si è subito messa in moto la macchina della gogna che ha convinto il procuratore a prendere un periodo “riposo” perché, dice: «Voglio stare vicino a mio figlio». Chi lo ha incontrato parla di un uomo provato, schiacciato tra la professione di magistrato e il suo ruolo di padre. Sono giorni molto difficili per il procuratore capo di Brescia Tommaso Buonanno. La mazzata è arrivata lunedì scorso, giorno in cui il Gip di Bergamo ha chiesto l’arresto di suo figlio Gianmarco, accusato niente meno che di rapina a mano armata. Il figlio del procuratore avrebbe infatti assaltato un supermercato Conad armato di mitra. Valore del colpo: 12mila euro. Ma le videocamere avrebbero fotografato la targa della sua auto, peraltro intestata al padre. Di lì al momento dell’arresto sono passate poche ore. E poco dopo il procuratore ha fatto sapere di voler lasciare il suo lavoro per un lungo periodo. «Mi metto in ferie per stare vicino a mio figlio» avrebbe confessato. E poi lo sfogo, raccolto dal Corriere di Brescia: «Sono stato sbattuto in prima pagina, anche se non ho fatto nulla». E in effetti la stampa di mezza Italia si è sbizzarrita: “Figlio del procuratore con problemi di droga rapinava con il mitra”, era il titolo che campeggiava sui Tutti molto attenti a mettere in relazione la professione del padre e quella decisamente “meno nobile”, ma ancora tutta da provare, del figlio. «Un trattamento che ha penalizzato anche mio figlio – ha continuato il procuratore – si è parlato solo di lui. Un trattamento che rischia di metterlo anche in condizioni di pericolo in carcere, lì non ci sono persone per bene, quando sapranno che è figlio di un magistrato potrebbe anche correre dei pericoli. Anche l’uso di un’auto intestata a me da parte di mio figlio è stato enfatizzato: si tratta di una vettura che mio figlio usa da una vita, abbiamo discusso più volte perché è talmente vecchia che volevo la rottamasse». «Fino a prova contraria – dice il procuratore – viviamo in uno stato di diritto dove la responsabilità penale è personale. Mio figlio risponderà personalmente dei fatti che gli sono contestati, io posso continuare a guardare gli altri in faccia senza dovermi vergognare. Da 41 anni faccio il magistrato con dignità e anche con qualche risultato, come è stato dimostrato più volte. Posso continuare a fare il mio lavoro, come ho fatto finora. Gli sbagli di mio figlio sono una cosa, il mio lavoro è un’altra: lui ha sbagliato a Bergamo, io sono il procuratore a Brescia. Non c’è nessun profilo di incompatibilità, le indagini sono della procura di Bergamo». «In procura precisa Buonanno – non c’è alcuna situazione di tensione. Ma a questo punto preferisco prendere un periodo di pausa per stare con la mia famiglia». Buonanno aveva già passato qualche guaio anche con l’altro figlio, Francesco, quattro anni più giovane di Gianmarco, che un anno fa era finito in un’inchiesta sullo spaccio di droga nel mondo degli ultras dell’Atalanta. Ma in Italia c’è lo stato di diritto e la responsabilità penale è sempre personale, come ripete in questi giorni il procuratore Buonanno.

Albamonte: «Pm e giornalisti, ora basta con le notizie a mercato nero», scrive Giulia Merlo il 28 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". L’allarme del presidente dell’Associazione nazionale magistrati: «C’è il rischio di effetti distorsivi e di cortocircuiti nell’informazione giudiziaria». Lo ha definito «il mercato nero delle fonti», il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, Eugenio Albamonte. Un “mercato nero” in cui «l’informazione è costretta a stabilire un rapporto preferenziale con una o con l’altra parte del processo per avere notizie e documenti» è sintomo di un giornalismo che «potrebbe essere forzato verso una posizione piuttosto che sull’altra, mentre deve essere neutrale». Mai il sindacato delle toghe si era espresso in maniera tanto esplicita, prendendo posizione nella battaglia contro la spettacolarizzazione delle inchieste anche a spregio dei limiti di legge, che da tempo viene portata avanti anche dall’avvocatura. «Con il giornalismo spettacolo c’è il rischio di effetti distorsivi e di cortocircuiti nell’informazione giudiziaria», ha continuato il leader di Anm, che ha parlato davanti a una platea più che interessata: i giornalisti che hanno preso parte al seminario sulla libertà di stampa, organizzato dall’Associazione Stampa Romana. Il magistrato ha poi evidenziato i rischi della mediatizzazione dei processi nei talk show: «può provocare effetti distorsivi, producendo un’opinione sfalsata rispetto al procedimento giudiziario in corso». Albamonte non ha risparmiato critiche a un giornalismo «borderline», dove «si fa credere di fare informazione e invece si fa intrattenimento, che è cosa ben diversa dal giornalismo “orientato”, che invece fa parte della tradizione italiana». E, siccome la giustizia non deve essere in alcun modo confondibile con l’intrattenimento, la cronaca giudiziaria avrebbe bisogno di un maggiore approfondimento. Sul fronte della magistratura, il leader di Anm ha rilevato come serva una «migliore comunicazione» tra toghe e giornalisti, perchè la distorsione delle notizie nasce da una mancata comprensione: «La giustizia italiana si dovrebbe dotare di uffici stampa, composti da professionisti dell’informazione e da magistrati, per diramare note esplicative sulle decisioni adottate e far capire il percorso seguito nel processo». E, a prescindere da questo intervento sugli uffici, «i magistrati devono lavorare sul linguaggio da utilizzare nei loro atti, che non deve essere criptico». Capitolo dolente in materia di giustizia, Albamonte ha affrontato anche la questione delle intercettazioni, riconoscendo alla riforma Orlando di essersi mossa nella giusta direzione: «Le intercettazioni strumenti molto forti sia dal punto di vista dell’indagine giudiziaria sia dal punto di vista dell’informazione all’opinione pubblica. Negli anni abbiamo assistito al tentativo di ridurre le intercettazioni o la loro pubblicazione, ora la legge cerca di raggiungere un punto di equilibrio». Infine, il presidente dell’Anm non ha risparmiato un’ulteriore critica alla stampa italiana: la mancanza di vero giornalismo d’inchiesta. «Siamo un Paese con una forte tradizione e una volta i capi delle Procure avevano fin troppi articoli di giornale sulla loro scrivania, oggi è il contrario». Forse anche questo un effetto del rapporto privilegiato della stampa con una sola parte del processo, rinunciando alla neutralità e dunque all’autonoma ricerca di notizie. L’intervento si è chiuso con un monito, rivolto non solo ai giornalisti: «L’informazione sulla giustizia è una scelta strategica: è indispensabile per la giustizia e per spiegarne le dinamiche ai cittadini».

Il giustizialismo? Una questione di classe…, scrive il 25 febbraio 2018 Iuri Maria Prado su "Il Dubbio". Il Paese è mantenuto in condizioni avvilenti e di inciviltà. Ma la responsabilità oltre che della politica è delle persone socialmente dominanti e influenti. "Caro direttore, è certamente colpa delle schiatte politiche e di governo se il sistema carcerario nel nostro Paese è mantenuto in condizioni avvilenti e di inciviltà. Ma a mantenerlo in quelle condizioni è anche l’atteggiamento delle classi socialmente dominanti e influenti: la gente che sta bene, per capirsi. Non che la fascia povera e disagiata dimostri più attenzione e umanità davanti alla rassegna di ingiustizia e illegalità quotidianamente offerta dalla cronaca carceraria, anzi: e semmai è proprio dal ventre plebeo del Paese che viene la reazione più violenta all’idea che ci si debba preoccupare di far vivere appena decentemente i detenuti. Ma almeno quel vasto settore di popolo reazionario ha una scusante: non ha avuto a disposizione gli strumenti per farsi un’idea diversa e, soprattutto, non ha nessuna capacità di influenza. E’ soltanto la materia passiva degli esperimenti elettorali e delle inerzie dei deputati a cambiare le cose: accomodati a non cambiarle in faccia a un popolo al quale va benissimo che non cambino. Le classi agiate e culturalmente più attrezzate non hanno analoghe scusanti. E la loro colpa è dunque più grave. E a contrassegnare questa colpa, a ben guardare, è un profilo particolarmente odioso: la sistemazione di classe, appunto. Il censo. La posizione di privilegio sociale. L’idea, immonda, che dopotutto un “delinquente” il carcere non lo soffre poi tanto: ché è il suo ambiente. Ricordo con un certo schifo una cerimonia di presentazione di un libro di non so più quale giornalista sopra i tanti casi di cosiddetta ( e giustamente detta) malagiustizia al tempo del terrore giudiziario degli anni Novanta, a Milano. Accanto a me stava un avvocato il quale, commentando quel reportage effettivamente agghiacciante, mi spiegava: “Sai, io sono garantista. Perché per un balordo, per un delinquente, finire in galera non è nulla: ma per una persona come noi, una persona perbene, è un dramma”. Ero allora piuttosto giovane e molto sprovveduto, ma non abbastanza per non capire di quale pasta fosse davvero fatto il “garantismo” di certi presunti liberali; sui quali doveva purtroppo aver ragione ancora dopo tanto tempo Corrado Alvaro: il loro, scriveva, “non è un partito, ma l’atteggiamento di chi non ha gravi ragioni di sofferenza”. A quella creatura seduta accanto a me, nemmeno remotamente si presentava il sospetto che il suo fervore garantista fosse magari male orientato, e determinato non dal senso di ribellione davanti all’ingiustizia del carcere incivile ma dal timore di poterci finire lui, un “galantuomo”. Che è già qualcosa, per carità, nel senso che un garantismo in prospettiva egoistica può in ogni caso contribuire a diffondere qualche sensibilità riformatrice: ma resta il segno di un rapporto abbastanza disturbato con le esigenze di amministrazione di un Paese che fino a prova contraria dovrebbe offrire la stessa giustizia a tutti, possibilmente decente e senza distinzioni di rango. C’è dunque anche questo, disgraziatamente, a restringere la via già accidentata verso un miglioramento possibile del sistema carcerario nel nostro Paese: una pulsione garantista semmai autoprotettiva, oltretutto dannosa perché offre alla reazione giustizialista l’argomento ottimo secondo cui la militanza per lo Stato di diritto ammanta in realtà l’interesse bieco di chi vuole “farla franca”. Se i “galantuomini” si occupassero in primo luogo dei “balordi”, proteggerebbero infine anche se stessi. Ma dovrebbero capire che non meritano un carcere così incivile perché sono persone: non perché sono persone “per bene”".

Squadrismo giudiziario: attenti, così ci abituiamo, scrive Mauro Mellini il 21 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". La politica dei perseguitati è quella di cercare che si parli del torto da loro subìto meno possibile, di farlo passare per un “incidente”, attribuendo la responsabilità a qualche disgraziato “equivoco”. C’è uno “squadrismo giudiziario”, una serie di operazioni di plateale giustizialismo con finalità soprattutto mediatiche (ma con danni d’ogni genere) che si susseguono e si confondono con la normale (e, come tale non certo esemplare) attività giudiziaria. Si confondono anche perché diversamente da quanto avveniva in altri episodi, colpiscono in direzioni diverse e, almeno apparentemente opposte. Ma ciò è determinato dal fatto che c’è ora uno schieramento politico più frastagliato e, poi, la tendenza ad abbandonarsi ad una attività che meglio non potrebbe definirsi come, appunto, “squadrismo giudiziario” e più ampia e diffusa. C’è indisciplina anche nel Partito dei Magistrati ed il potere e la mancanza di una correlativa responsabilità finisce per de- terminare uno stile, una “normalità dell’anormale” che ha preoccupanti connotazioni di un vero “anarchismo giudiziario”. La tendenza della magistratura ordinaria ad operare in modo da sostituirsi agli altri poteri dello Stato, a “sconfinare” in giudizi che sono e debbono essere riservati al potere esecutivo o, al più, alla magistratura amministrativa, crea questa situazione che ha, poi, nella pubblica opinione, l’effetto, da una parte, di ingigantire la convinzione, che già si fonda su dati assai rilevanti di indubbia gravità, di fenomeni corruttivi e di illegalità e dall’altra sta creando assuefazione e convinzione di ineluttabilità dell’arbitrarietà e della strumentalità politica della magistratura. Quello però che è più grave è che, come già le forze politiche fatte specifico e particolare oggetto della persecuzione giudiziaria, prima con “Mani Pulite”, poi con la caccia a Berlusconi ed ai suoi, continuano a non reagire, a non denunziare al Paese la gravità ed il carattere di gravissimo problema politico dell’atteggiamento della magistratura. La politica dei perseguitati è quella di cercare che si parli del torto da loro subìto meno possibile, di farlo passare per un “incidente”, attribuendo la responsabilità a qualche disgraziato “equivoco”. Si arriva a lamentare la facilità degli “avvisi di garanzia”, dei provvedimenti cautelari, si riduce a qualche ipocrita e cretina espressione di “ho fiducia nella giustizia”, espressione che varrebbe da sola a far cadere ogni fiducia in chi questo afferma. Ma lì ci si ferma. Si comincia a criticare qualche “eccesso” dell’Antimafia, ma non si denunzia la mafiosità intrinseca dell’Antimafia. Molti oramai credono che io non sia fuori di testa perché da anni parlo di “Partito di Magistrati”. Ma assai pochi ammettono che tale partito esiste e che negarlo significa non voler capire nulla della politica italiana. Il Centrodestra, bersaglio per anni di una sfrenata campagna di aggressione politicogiudiziaria, in nome della “moderazione” e di un presunto rispetto delle opinioni dei “moderati”, protesta meno di tutti, lasciando credere, con ciò, che nei suoi confronti la prevaricazione giudiziaria sia meno ingiustificata. Ho già avuto modo di esprimere la mia opinione che queste elezioni colgono a metà traiettoria una serie di movimenti che hanno cominciato a manifestarsi nel Paese. E’ certo così. Ma è pur vero che sono mezzi uomini quelli che non osano fare di certe convinzioni oggetto di battaglie politiche. Il pensiero “a metà”, l’” agire a metà”, non è espressione di cautela e di prudenza. Avremo, questo è quello che molti ammettono, risultati elettorali “a metà”. Si dovrebbe dire che, però, è questo il risultato che in fondo, rappresenta con dolente esattezza la realtà di un Paese, in cui non si ha il coraggio e la capacità di fare le cose per intero.

Così Woodcock “prometteva” vacanze a Poggioreale…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 20 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Come iniziare in un ufficio giudiziario l’interrogatorio di un testimone? Facendolo prima avvicinare alla finestra da dove si vede la facciata del vicino carcere e domandandogli se, per caso, non abbia voglia di trascorrervi una vacanza. Oppure, altro modo, mostrare dei fili spacciandoli per delle microspie e dicendo al testimone che è stato intercettato, anche se ciò non è vero. Sarebbe questo, in sintesi, il “metodo” Woodcock di condurre alla Procura di Napoli gli interrogatori. Tali tecniche investigative alquanto particolari, sono emerse ieri al Consiglio superiore della magistratura durante l’udienza disciplinare a carico dei pm napoletani Henry John Woodcock e Celestina Carrano, titolari di uno dei filoni dell’inchiesta Consip. Ai due magistrati è stato contestato l’interrogatorio di Filippo Vannoni, il presidente della municipalizzata fiorentina Publiacqua, già consigliere dell’allora Premier Matteo Renzi. Indicato dall’ex ad di Consip, Luigi Marroni, come uno dei soggetti che lo informarono di una indagine in corso, Vannoni, che chiamò in causa l’allora sottosegretario Luca Lotti e i vertici dell’Arma dei carabinieri, i generali Tullio Del Sette ed Emanuele Saltalamacchia, venne ascoltato dai pm napoletani come persona informata dei fatti, cioè come testimone, senza l’assistenza di un difensore. Secondo la Procura generale della Cassazione che ha esercitato l’azione disciplinare c’erano, però, già allora gli elementi per iscrivere Vannoni nel registro degli indagati, cosa che poi fecero i pm romani quando il fascicolo venne trasmesso nella Capitale per competenza territoriale. Averlo sentito come testimone senza il legale di fiducia e, soprattutto, con quelle “irrituali” modalità avrebbe leso la sua dignità. Al termine dell’interrogatorio Vannoni, come riportato nel capo di incolpazione del Pg della Cassazione Mario Fresa che ha svolto l’istruttoria, si sarebbe sentito “sconvolto”, “frastornato” e “scioccato”. Il metodo Woodcook prevederebbe, poi, anche carta bianca alla polizia giudiziaria, in questo caso i carabinieri del Noe comandati allora dal capitano, poi promosso maggiore, Gianpaolo Scafarto. Sempre secondo il Pg della Cassazione Vannoni doveva “confessare” con molteplici domande confuse che gli venivano rivolte dai carabinieri. Woodcock deve rispondere anche di un’altra accusa. Si riferisce ad un articolo pubblicato il 13 aprile scorso dal quotidiano La Repubblica nel quale, in un colloquio con la giornalista Liana Milella, il magistrato si sarebbe lasciato andare a giudizi di valore sui colleghi romani. In particolare, dopo la notizia che Scafarto era stato indagato per falso dai pm romani per aver attribuito ad Alfredo Romeo, l’imprenditore al centro dell’inchiesta, un’affermazione su un incontro con il padre di Matteo Renzi, Tiziano, in realtà pronunciata da Italo Bocchino, Woodcock dichiarò che quel falso doveva essere considerato come frutto di un mero errore e non come un depistaggio intenzionale. Dopo una relazione al Csm dell’allora procuratore reggente di Napoli Nunzio Fragliasso, l’allora Pg della Cassazione Pasquale Ciccolo avviò l’azione disciplinare, accusando il pm di un comportamento “gravemente scorretto”: sia nei confronti di Fragliasso per non aver rispettato il suo invito a mantenere il riserbo con gli organi di informazione, sia nei confronti dei colleghi della Procura di Roma per aver pubblicamente “contraddetto e svalutato l’impostazione dei magistrati della Capitale”. Il prossimo 15 marzo l’udienza disciplinare entrerà nel vivo con l’audizione dei testimoni. I pm napoletani sono difesi dal’ex procuratore generale di Torino Marcello Maddalena e da Antonio Patrono, attuale procuratore di La Spezia. I due magistrati sono fra gli esponenti di punta di Autonomia& Indipendenza, la corrente fondata dall’ex Pm di Mani pulite Piercamillo Davigo.

La ferocia al posto della legge, scrive Piero Sansonetti il 20 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". L’incredibile storia di Angelo Di Marco, morto a 58 anni e tenuto in carcere a Rebibbia in modo assolutamente illegale. Angelo Di Marco aveva 58 anni ed era tenuto in prigione in modo assolutamente illegale. Le sue condizioni di salute erano incompatibili con il carcere. La sua situazione giudiziaria permetteva largamente la concessione dell’affidamento ai servizi sociali. Tenerlo in prigione è stato un atto in violazione aperta ed evidente degli articoli 27 e 32 della Costituzione. Una sfida arrogante a quegli articoli. Se non li conoscete li copiamo qui (anche ad uso di qualche magistrato che magari li ha scordati): «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Così è scritto all’articolo 27. Invece l’articolo 32 precisa che «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo».

Angelo Di Marco è morto solo, da detenuto, vomitando sangue. Perché stava in prigione, per un reato che la giurisprudenza definisce bagatellare, sebbene avesse il fegato a pezzi? Perché è stato lasciato morire in modo atroce, solo e abbandonato nell’infermeria di Rebibbia, sebbene esistessero tutte le documentazioni necessarie che provavano la gravità della sua malattia? State tranquilli. Non solo nessuno pagherà per quello che è successo, ma non ci saranno né giornali né partiti politici che chiederanno conto. Se c’è il sospetto di una caso di malasanità, l’informazione scatta subito. Della malagiustizia non frega nulla a nessuno. State tranquilli, oggi sui giornali questa notizia non la troverete, o la troverete piccola piccola. State tranquilli, quello di Angelo Di Marco non è un caso clamoroso. È successo tante altre volte, e tante altre volte è passato sotto silenzio. No, non ho nessuna voglia di chiedere punizioni esemplari per i responsabili. Non mi piace chiedere punizioni per nessuno, e poi so che la legge non permette di punire i magistrati. Vorrei solo che qualche magistrato serio, come ce ne sono tanti, esprimesse solidarietà ai familiari di Angelo Di Marco. Mi piacerebbe se lo facesse anche il Csm, e magari anche il ministro. E soprattutto mi piacerebbe se il sacrificio del signor Di Marco valesse almeno come spinta per affrettare la riforma carceraria. La riforma è lì, sul tavolo del governo. Attende solo un atto formale. Cinque minuti. Bisogna approvarla senza modifiche. Rita Bernardini e quasi altre mille persone da un mese stanno facendo lo sciopero della fame per sollecitare questo provvedimento. Non è una riforma pericolosa, è solo un atto di civiltà. Come spiega molto bene Simona Giannetti a pagina 14, non è una riforma che libera i mafiosi né tantomeno che riduce il potere dei magistrati. Al contrario: allarga la possibilità per i magistrati di decidere sulla liberazione e sulle pene alternative per chi ne ha diritto. E noi speriamo che molti magistrati possano usare con saggezza questi nuovi poteri. Il grado di civiltà di un paese non si calcola sul numero delle persone che riesce a sbattere in prigione. Si calcola sulla capacità dello Stato di difendere la legalità e anche di rispettare la legalità. Nel caso di Angelo Di Marco la legalità non è stata rispettata. E questa è una ferita profonda per la dignità nazionale.

La Cassazione: «Toto Riina è malato, ha diritto a morire con dignità», scrive il 5 giugno 2017 "Il Dubbio". Apertura dei giudici del Palazzaccio alla scarcerazione del “boss dei boss”: ha 86 anni, è in carcere dal 1993. Valutare nuovamente se sussistano o meno i presupposti per concedere a Totò Riina il differimento della pena o gli arresti domiciliari per motivi di salute. È quanto ha disposto la Cassazione, che, accogliendo il ricorso presentato dalla difesa del boss di Cosa nostra, ha annullato con rinvio la decisione del tribunale di sorveglianza di Bologna che aveva detto “no” alla concessione di tali benefici penitenziari, nonostante le gravissime condizioni di salute in cui Riina versa da tempo. Il giudice bolognese aveva ritenuto che le “pur gravi condizioni di salute del detenuto” non fossero tali da “rendere inefficace qualunque tipo di cure” anche con ricoveri in ospedale a Parma (nel cui penitenziario Riina è recluso al 41 bis) e osservato che non erano stati superati “i limiti inerenti il rispetto del senso di umanità di cui deve essere connotata la pena e il diritto alla salute”. Il tribunale di sorveglianza di Bologna, invece, metteva in evidenza la “notevole pericolosità” di Riina, in relazione alla quale sussistevano “circostanze eccezionali tali da imporre l’inderogabilità dell’esecuzione della pena nella forma della detenzione inframuraria”. Oltre all'”altissimo tasso di pericolosità del detenuto”, il giudice ricordava “la posizione di vertice assoluto dell’organizzazione criminale Cosa nostra, ancora pienamente operante e rispetto alla quale Riina non ha mai manifestato volontà di dissociazione”: per questo, osservava il tribunale bolognese, era “impossibile effettuare una prognosi di assenza di pericolo di recidiva” del boss, nonostante “l’attuale stato di salute, non essendo necessaria, dato il ruolo apicale rivestito dal detenuto, una prestanza fisica per la commissione di ulteriori gravissimi delitti nel ruolo di mandante”. La prima sezione penale della Suprema Corte, con una sentenza depositata oggi, ha ritenuto fondato il ricorso, definendo “carente” e “contraddittoria” la decisione del tribunale di sorveglianza, che ha omesso di considerare “il complessivo stato morboso del detenuto e le sue generali condizioni di scadimento fisico”: affinchè la pena non si risolva in un “trattamento inumano e degradante”, ricordano i giudici di piazza Cavour, lo “stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto – si legge nella sentenza – avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria”. I giudici di Palazzaccio, inoltre, osservano che “ferma restando l’altissima pericolosità” di Riina e “del suo indiscusso spessore criminale”, il tribunale di sorveglianza non “chiarisce come tale pericolosità possa e debba considerarsi attuale” data la “sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e, del più generale stato di decadimento fisico” del boss. La decisione del giudice bolognese, secondo la Cassazione, non spiega come “si è giunti a ritenere compatibile con le molteplici funzioni della pena e con il senso di umanità” imposte dalla Costituzione italiana e dalla Convenzione europea dei diritti umani “il mantenimento in carcere” di Riina, viste le sue condizioni di salute: la Corte afferma quindi “l’esistenza di un diritto di morire dignitosamente, che deve essere assicurato al detenuto e in relazione al quale il provvedimento di rigetto del differimento dell’esecuzione della pena e della detenzione domiciliare deve espressamente motivare”, anche tenuto conto delle “deficienze strutturali della casa di reclusione di Parma”. Il giudice di merito, dunque, deve “verificare, motivando adeguatamente in proposito, se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un’afflizione di tali intensità da eccedere il livello che, inevitabilmente, deriva dalla legittima esecuzione di una pena”. Infatti, le “eccezionali condizioni di pericolosità” per cui negare il differimento pena devono “essere basate su precisi argomenti di fatto – conclude la Cassazione – rapportati all’attuale capacità del soggetto di compiere, nonostante lo stato di decozione in cui versa, azioni idonee in concreto ad integrare il pericolo di recidivanza”. Sulla base delle indicazioni e dei principi espressi della Suprema Corte nella sentenza di oggi, il tribunale di sorveglianza di Bologna dovrà riesaminare le istanze delle difesa di Riina.

La sentenza della Corte: «Ormai Riina è vecchio e malato. Non è più pericoloso». Secondo i giudici la giustificazione secondo la quale Riina può essere seguito e trattato anche in carcere è del tutto «parziale», scrive il 6 giugno 2017 "Il Dubbio". La sentenza che ha dato il via libera alla scarcerazione di Totò Riina è una vera e propria proclamazione del diritto e dei diritti della persona. Tra le pagine firmate da Mariastefania Di Tomassi presidente della prima sezione penale della Cassazione, si legge chiaramente che la permanenza in carcere del vecchio boss nega il diritto alla salute e il senso di umanità della pena. In particolare gli ermellini “contestano” la decisione di respingere la prima richiesta di scarcerazione, avanzata dal legale del boss lo scorso anno, spiegando che nel motivare il diniego, il tribunale di sorveglianza di Bologna aveva omesso di considerare il «complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico». «II provvedimento impugnato – spiega infatti oggi la Cassazione – pur affermando le gravissime condizioni di salute in cui versa l’istante – soggetto di età avanzata, affetto da plurime patologie che interessano vari organi vitali, in particolare cuore e reni, con sindrome parkinsoniana in vasculopatia cerebrale cronica – nega la sussistenza dei presupposti normativi richiesti dall’art. 147, comma 1, n. 2, cod. pen. per il rinvio facoltativo dell’esecuzione della pena, in particolare escludendo, da un lato, l’incompatibilità della detenzione con le condizioni cliniche dell’istante e, dall’altro, il superamento dei limiti imposti dal rispetto dei principi costituzionali del senso di umanità della pena e del diritto alla salute». Il Collegio spiega che la decisione di negare la libertà a Riina «è carente e, in alcuni tratti, contraddittoria». Secondo la Cassazione, infatti, «il provvedimento in esame sostiene l’assenza di un’ incompatibilità dell’infermità fisica del ricorrente con la detenzione in carcere, esclusivamente in ragione della trattabilità delle patologie del detenuto anche in ambiente carcerario, in considerazione del continuo monitoraggio della patologia cardiaca di cui quest’ultimo è affetto e dell’ adeguatezza degli interventi, anche d’urgenza, operati, al fine di prevenire danni maggiori, a mezzo di tempestivi ricoveri del detenuto presso l’Azienda ospedaliera Universitaria di Parma, ex art. 11 legge n. 354 del 1975» Insomma, secondo gli ermellini la giustificazione secondo la quale Riina può essere seguito e trattato anche in carcere è del tutto «parziale». «Tale prospettiva di valutazione è parziale e, pertanto, inadeguata a sostenere la ritenuta compatibilità delle condizioni di salute del ricorrente con il regime carcerario. In particolare, il Tribunale omette, nella motivazione adottata, di considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue generali condizioni di scadimento fisico, pure descritte nel provvedimento. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, affinchè la pena non si risolva in un trattamento inumano e degradante, nel rispetto dei principi di cui agli artt. 27, terzo comma Cost. e 3 Convenzione EDU, lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o l’applicazione della detenzione domiciliare non deve ritenersi limitato alla patologia implicante un pericolo per la vita della persona, dovendosi piuttosto avere riguardo ad ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare un’esistenza al di sotto della soglia di dignità che deve essere rispettata pure nella condizione di restrizione carceraria». 

I mafiosi ed una morte dignitosa. Cassazione: per Riina il diritto alla morte dignitosa. Rischio ricorsi per il 41bis, scrive Roberto Galullo il 5 giugno 2017 su "Il Sole 24 ore". Due boss di Cosa nostra, due valutazioni della Cassazione che rischiano di aprire strade opposte alla carcerazione dura.

Per l’uno, Bernardo Provenzano, morto il 13 luglio 2016 nel reparto adibito ai detenuti dell'ospedale San Paolo di Milano, il carcere duro non era incompatibile con la sua situazione di salute, ma al contrario era «fondamentale» per farlo sopravvivere.

L'altro, Totò Riina, alla pari di ogni altro detenuto, deve avere il diritto «a morire dignitosamente», a maggior ragione alla luce del fatto che le sue condizioni di salute sono a dir poco precarie. Ragion per cui il Tribunale di sorveglianza competente territorialmente, ha deciso la Cassazione, sarà chiamato a rivalutare la compatibilità o la sussistenza dei presupposti per il differimento della pena, lasciando il 41 bis.

Come se non bastasse si apre ora un varco per decine di reclusi al 41 bis (il carcere duro) che per questioni legate allo stato di salute possono appellarsi al fresco precedente di Riina.

Il 9 giugno 2015 la suprema Corte di Cassazione aveva bocciato il ricorso di “zu Binnu” - nell'ultimo periodo affetto, oltre che da tumore alla prostata, da decadimento cognitivo grave, ipertensione arteriosa, infezione cronica del fegato - perché il carcere duro è «fondamentalmente incentrato sulla necessità di tutelare in modo adeguato il diritto alla salute del detenuto». Se avesse lasciato il reparto ospedaliero del San Paolo di Milano per raggiungere un reparto comune, sarebbe stato a «rischio sopravvivenza», per la «promiscuità» e le cure che venivano invece dedicate. Gli avvocati del boss avevano fatto ricorso alla Suprema Corte contro il ricovero nella camera ospedaliera di massima sicurezza chiedendo che fosse spostato ai domiciliari in un reparto di lungodegenza dell'ospedale San Paolo.

L'11 luglio 2016, due giorni prima della morte, il giudice di sorveglianza di Milano 2 aveva respinto una nuova istanza di differimento pena per Provenzano (vale a dire che la pena va scontata ai domiciliari o in altro luogo di degenza al fine di garantire le cure o consentire una morte dignitosa) dell'avvocato Rosalba Di Gregorio che chiedeva la scarcerazione del boss o la revoca del carcere duro. I «trascorsi criminali e il valore simbolico del suo percorso criminale» avrebbero potuto esporlo «qualora non adeguatamente protetto nella persona» e «trovandosi in condizioni di assoluta debolezza fisica» ad «eventuali rappresaglie connesse al suo percorso criminale, ai moltissimi omicidi volontari dei quali è stato riconosciuto colpevole, al sodalizio malavitoso» di cui è stato «capo fino al suo arresto». In altre parole non era più lui ad essere un pericolo per gli altri ma lui ad essere potenziale vittima per scopi dichiarati o meno.

Sul profilo malavitoso torna la Cassazione nella decisione che coinvolge Riina, boss ottantaseienne. «Fermo restando lo spessore criminale», afferma infatti, «va verificato se Totò Riina possa ancora considerarsi pericoloso vista l'età avanzata e le gravi condizioni di salute». Si ripropone dunque il quesito che riguardò Provenzano e la contestuale necessità di garantirne la sicurezza pur in una situazione di grave salute fisica. La richiesta, recita la sentenza 27.766 relativa all'udienza del 22 marzo 2017 per Riina, era stata respinta lo scorso anno dal Tribunale di sorveglianza di Bologna, che però, secondo la Cassazione, nel motivare il diniego aveva omesso «di considerare il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico». Il Tribunale non aveva ritenuto che vi fosse incompatibilità tra l'infermità fisica di Riina e la detenzione in carcere, visto che le sue patologie venivano monitorate e quando necessario si era ricorso al ricovero in ospedale a Parma. La stessa che accade per Provenzano. Né più né meno. La Cassazione sottolinea, a tale proposito, che il giudice deve verificare e motivare «se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un'afflizione di tale intensità» da andare oltre la «legittima esecuzione di una pena». Il collegio ha ritenuto che non emerga dalla decisione del giudice il modo in cui si è giunti a ritenere compatibile con il senso di umanità della pena «il mantenimento in carcere, in luogo della detenzione domiciliare, di un soggetto ultraottantenne affetto da duplice neoplasia renale, con una situazione neurologica altamente compromessa», che non riesce a stare seduto ed è esposto «in ragione di una grave cardiopatia ad eventi cardiovascolari infausti e non prevedibili». Questa decisione apre la strada ad altri ricorsi, anche in ragione della visibilità e del potere di Riina. Ricorsi che non si limiteranno soltanto ai boss in regime di 41 bis ma anche di detenuti comuni, reclusi pur in gravi condizioni di salute psichica o fisica. Molti Tribunali di sorveglianza infatti non concedono frequentemente differimenti pena legati a ragioni di salute anche gravi.

No, non è vero che la Cassazione ha detto di liberare Riina. Cosa c'è dietro la sentenza dei giudici che hanno accolto (in parte) le richieste della difesa del boss mafioso, malato, scrive Massimo Bordin il 5 Giugno 2017 su "Il Foglio". Se martedì mattina qualche giornale dovesse titolare “Vogliono liberare Riina” è bene sapere che ci sarebbe dell’esagerazione. Lunedì è stata resa pubblica una sentenza della prima sezione penale della Cassazione sulle condizioni di detenzione del “capo dei capi”. La trafila è questa: Riina, che ha 86 anni, gli ultimi 24 dei quali trascorsi in carcere, sta male e il suo avvocato ha presentato un’istanza al tribunale di sorveglianza di Bologna (Riina è detenuto a Parma) in cui si chiede la sospensione della pena o almeno i domiciliari. I giudici bolognesi hanno risposto di no, motivando con la intatta pericolosità del personaggio. La Cassazione ha annullato la decisione ma – ecco il punto – rinviandola ai giudici bolognesi per “difetto di motivazione”. Vuol dire che dovranno scriverla meglio. La Cassazione spiega che la pericolosità da sola non basta come argomento, scrive che esiste per tutti, anche per i peggiori dunque, il “diritto a una morte dignitosa”. Non si esclude che possa avvenire in carcere ma si chiede di argomentare più analiticamente. Ci sono dei precedenti, l’ultimo è il caso di Provenzano che obiettivamente stava ancora peggio di Riina ma fu lasciato morire in carcere. Prima ancora analoga sorte ebbe Michele Greco detto “il Papa” e ancora prima toccò a quello che di Riina e Provenzano era stato il capo, Luciano Liggio. Erano tutti pluriergastolani e grandi capi. Per i boss di medio calibro il trattamento è stato talvolta diverso. Gaetano Fidanzati e Gerlando Alberti furono mandati a morire a casa loro. Difficilmente sarà così per Riina. La Cassazione ha chiesto solo di rispettare le forme. In fondo esiste per questo.

Un uomo è un uomo…, scrive Piero Sansonetti il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". La coraggiosa sentenza della Cassazione che attribuisce a Toto Riina il diritto a «morire con dignità» è un colpo al populismo giudiziario e a chi pensa che la legge non sia uguale per tutti. È una sentenza che provocherà molte polemiche. Un colpo secco a quell’ideologia giustizialista – e a quella retorica giustizialista – che da molti anni prevale in Italia. Nel senso comune, nel modo di pensare delle classi dirigenti, negli automatismi dell’informazione e anche della politica. Dire che Totò Riina va liberato – perché è vecchio, perché è malato, perché le sue condizioni fisiche non sono compatibili con la vita in carcere, perché non è più pericoloso – equivale a toccare il tabù dei tabù, e cioè a mettere in discussione, contemporaneamente, alcuni dei pregiudizi più diffusi nell’opinione pubblica e nell’intellettualità (espressioni che ormai, largamente, coincidono). Il primo pregiudizio è quello che riguarda la legge. Che spesso non è concepita come la regola che assicura i diritti e la difesa della civiltà, ma piuttosto come uno strumento per punire e per assicurare la giusta vendetta, privata o sociale.  Non è vista come bilancia: è vista come clava. Il secondo pregiudizio riguarda l’essere umano, che sempre più raramente viene considerato come tale – e dunque come titolare di tutti i diritti che spettano a qualunque essere umano – e sempre più frequentemente viene invece inserito in una graduatoria di tipo “etico”. Cioè si suddivide l’umanità in innocenti e colpevoli. E poi i colpevoli, a loro volta, in colpevoli perdonabili, semiperdonabili o imperdonabili. E i diritti vengono considerati una esclusiva dei giusti. Il diritto di negare i diritti ai colpevoli, o anche solo ai sospetti, diventa il nocciolo duro del diritto stesso. Salvatore Riina, capo della mafia siciliana per circa un ventennio tra gli anni settanta e i novanta, è concordemente considerato come il vertice dell’umanità indegna, e dunque meritevole solo di punizione. Chiaro che per lui il diritto non esiste e qualunque ingiustizia, se applicata a Riina (o all’umanità indegna) inverte il suo segno e diventa giustizia. E, dunque, viceversa, qualunque atto di giustizia verso di lui è il massimo dell’ingiustizia. La Corte di Cassazione, con una sentenza coraggiosissima, inverte questo modo di pensare. E ci spiega un concetto semplice, semplice, semplice: che la legge è uguale per tutti. Come è scritto sulle porte di tutti i tribunali e sui frontoni di ogni aula. Il magistrato la studia, la capisce, la applica: non la adatta sulla base di suoi giudizi morali o dei giudizi morali della maggioranza. La legge vale per Riina come per papa Francesco, per il marchese del Grillo come per il Rom arrestato l’altro giorno col sospetto di essere l’assassino delle tre sorelline di Centocelle. E poi la Corte di Cassazione ci spiega un altro concetto, che fa parte da almeno due secoli e mezzo, della cultura del diritto: e cioè che la pena non può essere crudele, perché la crudeltà è essa stessa un sopruso e un delitto, e in nessun modo, mai, un delitto può servire a punire un altro delitto. Un delitto non estingue un altro delitto, ma lo raddoppia. La Cassazione fa riferimento esplicito all’articolo 27 della nostra Costituzione (generalmente del tutto ignorato dai giornali e da molti tribunali) e stabilisce che non è legale tenere un prigioniero in condizioni al di sotto del limite del rispetto della dignità personale e del superamento del senso di umanità nel trattamento punitivo. La Cassazione non dice che è ingiusto, o incivile, o inopportuno: dice che è illegale. E cioè stabilisce il principio secondo il quale, talvolta, scarcerare è legale e non scarcerare è illegale. Idea molto rara e di difficilissima comprensione. La prima sezione penale della Cassazione, che ha emesso questa sentenza respingendo una precedente sentenza del tribunale di sorveglianza di Bologna, e dichiarandola “errata”, ha avuto molto coraggio. Ha deciso senza tener conto delle prevedibili reazioni (e infatti già ieri sono piovute reazioni furiose. Dai partiti politici, dai giornalisti, dai maestri di pensiero). Usando come propria bussola i codici e la Costituzione e non il populismo giudiziario. È la prova, per chi non fosse convinto, che dentro la magistratura esistono professionalità, forze intellettuali e morali grandiose, in grado di garantire la tenuta dello stato di diritto, che ogni giorno la grande maggioranza della stampa e dell’informazione tentano di demolire. La magistratura è un luogo molto complesso, dove vive una notevole pluralità di idee in lotta tra loro. Non c’è solo Davigo e il suo spirito di inquisizione.

L’ascesa di Riina, così “u Curtu” prese il posto di Liggio, scrive Paolo Delgado il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". È stato un’anomalia feroce e distruttiva. Durante il suo impero, amici e nemici sono morti a migliaia. Per trovare un altro nome capace di evocare al solo pronunciarlo l’ombra di Cosa nostra bisogna saltare nello spazio e nel tempo, al di là dell’Atlantico e negli anni ‘ 30, nel regno di Lucky Luciano, oppure sconfinare nell’immaginario, sino a quel don Vito che si chiamava come il suo paese, Corleone. Eppure nella storia di Cosa nostra Salvatore Riina, Totò “u curtu”, è stato un’anomalia assoluta, feroce, devastante e distruttiva. Perché Cosa nostra, a modo suo, è sempre stata una democrazia. Così l’aveva voluta Salvatore Lucania, detto Charlie “Lucky” Luciano, dopo aver stroncato nel sangue le ambizioni imperiali di Salvatore Maranzana. Nessun capo dei capi per Cosa nostra, al massimo un primus inter pares, un presidente con intorno una commissione a fare da governo. E così era sempre stata la mafia siciliana. Fino al golpe di don Totò e dei suoi corleonesi nel 1981, e all’instaurazione di una dittatura tra le più sanguinarie, con oltre tremila esecuzioni, finita solo quando “u Curtu”, dopo 24 anni di latitanza, fu arrestato il 15 gennaio 1993. Eppure nessuno sembrava meno destinato al ruolo di capo assoluto della più potente associazione criminale del “viddano” nato il 16 novembre 1930 a Corleone, poco distante da Palermo in termini di chilometri ma all’altro capo dell’universo nelle gerarchie mafiose. Di famiglia poverissima, orfano a 13 anni, col padre e un fratello saltati in aria mentre scrostavano una bomba inesplosa, condannato per omicidio a 19 anni e scarcerato 6 anni dopo, Riina era uno dei picciotti di fiducia di Luciano Leggio, braccio destro del capomafia locale, rispettato e temutissimo, il dottor Michele Navarra. Piccolo, baffuto, silenzioso e sempre serio Riina e i suoi amici d’infanzia e compagni della vita, Bernardo “Binnu” Provenzano e Calogero Bagarella, fratello di Ninetta, futura signora Riina, erano l’esercito privato di Leggio, i suoi uomini di mano e di fiducia. Guardando a ritroso, la differenza tra i corleonesi e il resto di Cosa nostra era già chiara sin dagli esordi, da quando senza curarsi di niente, rispetto, regole o gerarchie, lasciarono il potente Navarra steso in mezzo a una strada di campagna, il 2 agosto 1958, sorpreso col suo autista e fucilato senza esitazioni. Qualche giorno prima il medico aveva tentato di eliminare il suo ex campiere e braccio destro diventato troppo ambizioso, Leggio. Dopo l’omicidio eccellente fu proprio Riina a guidare la delegazione che doveva cercare la pace con gli uomini di Navarra. Accordo raggiunto con reciproca soddisfazione, se non fosse che proprio all’ultimo minuto, tra una pacca e l’altra, Riina aggiunse una condizione imprevista: la consegna «di quei cornuti che hanno sparato a Leggio». Un attimo dopo Provenzano e Bagarella cominciarono a sparare e la mattanza a Corleone finì solo quando tutti gli uomini di Navarra furono eliminati uno a uno. Quando approdarono a Palermo i corleonesi non avevano amicizie politiche, non avevano le mani in pasta negli affari grossi, che allora erano soprattutto gli appalti, non avevano eserciti a disposizione come i boss di prima grandezza come i Bontate, sovrani della famiglia palermitana di Santa Maria del Gesù o Salvatore Inzerillo, con le sue parentele altolocate, cugino del potente padrino di Brooklyn Carlo Gambino, o come don Tano Badalamenti di Cinisi. I corleonesi avevano dalla loro parte solo la fame, la determinazione e la disposizione alla violenza che avevano già dimostrato a casa loro. A Palermo salirono piano piano parecchi gradini. Riina si fece altri anni di carcere prima di essere assolto nel giugno 1969. Uscito di galera scomparve per 24 anni ma senza andare troppo lontano e continuando a scalare i vertici di Cosa nostra. Organizzò la strage di viale Lazio a Milano, che il 10 dicembre 1969 mise fine alla prima guerra di mafia. Furono ammazzati il boss Michele Cavataio e tre suoi uomini, ma ci rimise la pelle anche Bagarella, e Provenzano si guadagnò il soprannome di “u Tratturi”, il trattore, finendo Cavataio a colpi di calcio di pistola sul cranio. Quando Leggio, latitante nel Nord, entrò a far parte della Commissione, Riina fu delegato a rappresentarlo e quando il boss finì in carcere ne prese il posto, nel ‘ 74, lo stesso anno in cui coronava con le nozze il lungo fidanzamento con Ninetta Bagarella. Ma i “viddani” restavano la plebe di Cosa nostra. Il giro grosso ora erano gli stupefacenti, e a loro arrivavano le briciole, concesse con sprezzo e sufficienza da Stefano Bontate, “il principe di Villagrazia”. Ma Don Totò non era solo deciso e crudele. Era anche astuto. Lavorò nell’ombra conquistando quinte colonne in tutte le famiglie, incluso il fratello di Bontate. Nell’estate ‘ 81 passò all’azione con i metodi brevettati a Corelone: ammazzò Bontate, ammazzò Inzerillo, sterminò uno per uno tutti i fedeli dei boss nemici, poi, come capita spesso nelle dittature diventò diffidente, iniziò a vedere tradimenti ovunque e a sospettarli anche prima che si verificassero come quando fece ammazzare il suo killer di fiducia, Pino Greco “Scarpuzzedda” perché stava diventando troppo popolare tra gli uomini d’onore. Negli anni del suo impero di terrore amici e nemici sono morti a migliaia. Riina conosceva solo la guerra. Nel suo regno l’eliminazione di giudici e poliziotti scomodi diventò norma comune e dopo la sentenza definitiva nel maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino dichiarò guerra allo Stato: Lima, Falcone, Borsellino, poi la pianificazione delle stragi. Per la stessa Cosa nostra la sua dittatura è stata devastante: all’origine delle collaborazioni, dei pentimenti, c’è la sua ferocia, quella che lo spingeva a far ammazzare i nemici, e se non li trovava tutti i familiari. È stato il primo e l’ultimo imperatore di Cosa nostra, e forse, senza neppure rendersene conto, anche il suo più temibile nemico.

Nel carcere di Riina sono reclusi altri tre novantenni. Non c’è solo Totò “u’ curtu” nel carcere di Parma, scrive Damiano Aliprandi il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". Proprio nel carcere di massima sicurezza di Parma dove è detenuto Toto Riina, ci sono altri casi di detenuti al 41 bis affetti di gravi patologie dovuti soprattutto alla loro età avanzata. Almeno tre di loro hanno raggiunto il novantesimo anno di età. Il caso più eclatante riguarda Francesco Barbaro – 90 anni compiuti il mese scorso – che, come si legge nella cartella clinica, soffre di disturbi cognitivi, deficit della memoria e altre patologie legate all’età. Una situazione che dal momento all’altro potrebbe ulteriormente peggiorare, tant’è vero che gli stessi operatori sanitari del penitenziario hanno espresso parere favorevole per un trasferimento presso una struttura più adeguata. Questa notizia – pubblicata nei giorni scorsi da Il Dubbio – è emersa grazie alla segnalazione di Rita Bernardini, esponente del Partito Radicale, giunta al tredicesimo giorno dello sciopero della fame per la riforma dell’ordinamento penitenziario, per non vanificare il lavoro degli stati generali sull’esecuzione penale: non solo per porre rimedio all’impennata di sovraffollamento, ma anche per umanizzare l’intero sistema penitenziario comprensivo dello stesso 41 bis. Secondo gli ultimi dati, del 24/ 01/ 2017, ci sono 729 detenuti al 41 bis. Nel carcere di Parma vi sono recluse 65 persone al regime di carcerazione dura. Alcuni sono giovani, ma la media si alza a causa dell’invecchiamento dei detenuti. A questo va aggiunto il discorso sanitario, perché oltre ai tre novantenni, ci sono anche diversi ultra 80enni che necessitano di cure. Il 41 bis ha come finalità l’evitare eventuali rapporti all’esterno con la criminalità organizzata, ma come si evince dalla relazione della commissione del Senato, guidata dal senatore Luigi Manconi, esistono regole restrittive che non avrebbero nessun legame con questa esigenza. Ad esempio c’è un isolamento di 22 ore al giorno, è vietato di attaccare fotografie al muro, c’è una limitazione dei capi di biancheria, l’uso del computer per chi studia è consentito a patto che quell’ora venga sottratta dall’ora d’aria. Sempre nel carcere di Parma, il garante locale dei detenuti Roberto Cavalieri ci aveva segnalato che ai detenuti reclusi al 41 bis viene puntata la telecamera direttamente sul water. Una privacy completamente annientata.

I Pm chiedono garantismo (ma soltanto per loro), scrive Giovanni M. Jacobazzi il 5 giugno 2017 su "Il Dubbio". Pronta la delibera che “scagiona” le (poche) toghe che hanno subito provvedimenti disciplinari. Il 99,7% dei magistrati ha una valutazione positiva, un “unicum” nelle democrazie occidentali. Mercoledì scorso il Plenum del Consiglio superiore della magistratura ha approvato, su proposta della Sesta commissione, competente sull’ordinamento giudiziario, una delibera destinata sicuramente a far discutere. In estrema sintesi, i consiglieri chiedono al Ministro della Giustizia di adottare «ogni iniziativa nell’ambito delle proprie attribuzioni al fine di introdurre un’apposita disciplina legislativa che permetta l’estensione anche alle toghe dell’istituto della riabilitazione». Attualmente non è previsto, infatti, nessun meccanismo per eliminare dal curriculum della toga la ‘ macchia” disciplinare. Nella sostanza questo determina, ad esempio, un handicap nei giudizi comparativi per accedere ai posti direttivi. In primis di procuratore o di presidente di tribunale. «Dopo un congruo periodo di ineccepibile esercizio delle funzioni e buona condotta», si legge nella delibera indirizzata al Ministro Andrea Orlando, si potranno dunque eliminare gli effetti della sanzione, senza lasciare traccia alcuna. L’Assemblea del Palazzo dei Marescialli chiede, al momento, di limitare la riabilitazione ai casi di condanne alle sanzioni meno gravi (cioè censura e ammonimento), e di porre quale condizione ostativa la pendenza di procedimenti penali o disciplinari per fatti tali da pregiudicare la credibilità del magistrato o il prestigio dell’ordine giudiziario. Censura e ammonimento, in specie, colpiscono i casi di ritardo nel deposito di una sentenza. Va ricordato che ben il 99.7% dei magistrati italiani ha attualmente una valutazione positiva. Un “unicum” fra le democrazie occidentali come spesso ricorda il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che pone interrogativi su come vengono effettuate le valutazioni di professionalità. Con questo “colpo di spugna” si aumenterà verosimilmente tale numero. “L’ineccepibilità” della con- dotta richiesta, poi, dovrebbe essere la norma, un prerequisito, per chi esercita la giurisdizione e lo differenzia dalla platea dei dipendenti della Pubblica Amministrazione. Forse sarebbe stato il caso, per ottenere la riabilitazione, di richiedere un qualcosa che vada oltre. E c’è da chiedersi, infine, cosa penseranno i magistrati che si sono sempre comportati in maniera corretta, soprattutto quando vengono comparati i loro profili nell’assegnazione delle tanto ambite carriere direttive.

Totò Riina, scandalo italiano: vive in un centro di eccellenza medico, scrive "Libero Quotidiano" il 7 Giugno 2017. Da circa due anni Totò Riina non di fatto rinchiuso in carcere, ma ricoverato all'ospedale Maggiore di Parma. Il dettaglio non da poco era stato chiarito dal suo avvocato, Luca Cianferoni, durante la trasmissione L'aria che tira su La7, nel pieno del dibattito scatenato dalla sentenza della Cassazione sul diritto a "una morte dignitosa" per i detenuti. In attesa che il tribunale di sorveglianza di Bologna si esprima sull'eventuale scarcerazione, Riina resta in una sorta di stanza segreta della clinica universitaria di Parma, dove è ricoverato dal 5 novembre.  Come riportato da Repubblica, la stanza di Totò 'u Curtu è sostanzialmente una cella blindata, dove l'accesso è consentito solo a medici, infermieri e guardie. Ampia solo cinque metri per cinque, la stanza gode di un affaccio sulla città di Parma. Negli ultimi tempi il bosso avrebbe chiesto una radiolina e un calendario. Una richiesta che non potrà vedere soddisfatta, perché nella cella sono ammesse solo apparecchiature mediche. Il capo di Cosa Nostra è tenuto sotto stretta osservazione dai medici, a causa di diverse patologie che si sono aggravate nel corso degli anni.  Al di là della "morte dignitosa" e del diritto a curarsi e non peggiorare le condizioni in carcere, che è un sacrosanto diritto costituzionale, stona un po' che il boss sia così "coccolato", mentre spesso e volentieri per un cittadino libero qualunque le liste di attesa negli ospedali pubblici sono lunghissime, spesso in edifici fatiscenti. Così come stona un po' che un paziente le cui condizioni "sono ormai gravissime", prenda parte ad ogni tappa processuale (in collegamento video in barella) e sia l'unico degli imputati o teste a non assentarsi mai, a non fermarsi per pranzare o bere. In ogni caso la permanenza di Riina nell'ospedale di Parma non ha turbato la vita della struttura. L'ordine è quello di passare inosservati. Niente militari in divisa, niente mitragliette in vista. Gli spostamenti senza sirene. Adesso il Capo dei capi è in attesa del colloquio con i familiari, previsto una volta al mese. Ma il regime del 41bis vale anche in ospedale. La visita avverrà a un metro di distanza e non saranno permessi contatti fisici. Sarà tutto videoregistrato. Per i magistrati, Totò Riina è ancora in grado di mandare messaggi, è ancora riconosciuto come capo di Cosa Nostra.

Filippo Facci su "Libero Quotidiano" del 6 giugno 2017. Ha 86 anni, è in isolamento dal ’93, ne ha per poco. La Cassazione chiede i domiciliari, il tribunale si oppone in nome del carattere punitivo del carcere. Domanda: anche a Totò Riina va assicurato un «diritto a morire dignitosamente» che equivale a metterlo agli arresti domiliciari? Oppure, nonostante abbia 86 anni e la sua salute sia decisamente malmessa, deve restare in regime di carcere duro per ragioni di pericolosità o di principio? La questione è attuale, perché la Cassazione, a quanto pare, è della prima idea, mentre il tribunale di sorveglianza di Bologna è decisamente della seconda. Cercheremo si spiegare le ragioni di entrambe le parti, magari senza ammorbarvi troppo con le nostre valutazioni in merito. Allora. Riina è in galera dall’inizio del 1993 e dapprima c’era il problema di isolarlo per fargli perdere contatto con le sue truppe in rovina, perciò fu messo in regime di carcere duro 41 bis (la prima versione, la più implacabile e decisamente anticostituzionale) che tra varie vessazioni funzionò alla grande: soprattutto quando restarono operative Pianosa e l’Asinara, carceri talmente orrende da indurre alla collaborazione anche i peggiori mafiosi. Riina era monitorato notte e giorno da una telecamera (anche in bagno) e non distingueva il giorno dalla notte. In pratica vedeva solo la moglie che gli portava notizie dei figli. Poi, allentato giocoforza il 41bis anche su pressione di vari organismi internazionali, Riina potè presenziare a qualche processo dove cercò di fare quello che ha sempre cercato di fare: accreditarsi come capo di una mafia che intanto non esisteva più, svuotata di ogni struttura gerarchico-militare, coi capi e i sottoposti progressivamente tutti in galera, con armi e droga e patrimoni sequestrati, la presa sul territorio allentata, i traffici ceduti a mafie non siciliane. Dì lì in poi, Riina si è progressivamente acquietato e dalle intercettazioni (di cui era consapevole) è emerso una sorta di padre di famiglia con uscite paternalistiche che molti tuttavia si preoccupavano di interpretare o sovrainterpretare. Il processo­ectoplasma sulla “trattativa” è stata l’ultima occasione di Riina di inventarsi un contatto con la realtà degli ultimi 15 anni, coadiuvato da una preistorica “antimafia” (anche giornalistica) molto impegnata a inseguire fantasmi del passato e improbabili link col presente, tipo la panzana che Riina volesse far uccidere il pm Nino Di Matteo (che Riina probabilmente non sapeva neanche chi fosse). L’ultima fase è più o meno l’attuale: Riina è in carcere a Opera, ha 86 anni ed è affetto da duplice neoplasia renale, neurologicamente è discretamente rincoglionito (o «altamente compromesso», se preferite) e non riesce neppure a stare seduto per via di una grave cardiopatia. Insomma, non ne ha per molto. Il suo isolamento è peggiorato dal fatto che nessuno vuole condividere la cella con lui: troppi controlli e cimici, essendo lui ipersorvegliato. Ma Riina, secondo altri, resta sempre Riina. La Direzione antimafia lo considera a tutt’oggi il Capo di Cosa Nostra, benché non esista più Cosa nostra: ma si teme che i corleonesi ­ non è chiaro quali ­ dopo 25 anni possano riorganizzarsi. Per questa ragione il Tribunale di sorveglianza di Bologna, ancora l’anno scorso, respinse ogni richiesta di differimento o concessione degli arresti domiciliari, ed evidenziò «l’altissima pericolosità» e «l’indiscusso spessore criminale», dopodiché osservò pure che non vedeva incompatibilità tra le sue infermità e la detenzione in carcere: tutte le patologie risultavano monitorate, al punto che, quando necessario, era stato ricoverato in ospedale a Parma. Invece la Cassazione, a cui hanno ricorso i legali, è stata di diverso avviso, e ha invitato il Tribunale a ripensarci: ha accolto il ricorso nel marzo scorso, anche se l’abbiamo saputo solo ora. La Suprema corte ha detto che il Tribunale non aveva considerato «il complessivo stato morboso del detenuto e le sue condizioni generali di scadimento fisico», poi che un giudice dovrebbe (doveva) motivare «se lo stato di detenzione carceraria comporti una sofferenza ed un’afflizione di tale intensità» da oltrepassare la «legittima esecuzione di una pena», e che non si capisce come possano essere compatibili la condizione di Riina e la stretta detenzione riservata a un vecchio. Perciò va affermato il suo «diritto di morire dignitosamente», anche perché non si vede che cosa potrebbe comandare, ridotto com’è. Chi ha ragione? In ogni caso, il Tribunale di sorveglianza di Bologna ci tornerà sopra il 7 luglio prossimo. Dovessimo scommettere, premetteremmo anzitutto che non c’è giurisprudenza che non tenga conto dell’umore del Paese: ed è una fase, questa, in cui molti italiani e parlamentari continuano a pensare che la repressione penale debba avere un carattere punitivo e non rieducativo, come pure prevederebbe l’articolo 27 della Costituzione. In carcere si deve andare a star male, questo il sentire comune. Non fu diverso, del resto, per Bernardo Provenzano: la stessa Cassazione riconobbe che fosse affetto da patologie «plurime e gravi di tipo invalidante» ma disse pure che era compatibile con la galera. Il boss morì agli arresti ospedalieri nel luglio dell’anno scorso, sempre al 41 bis.

Vittorio Sgarbi su "Il Giorno" il 7 Giugno 2017: "Totò Riina a casa non è pietà umana, ma giustizia". "se il criminale compie il crimine, lo Stato non può imitarlo, Lo Stato non si vendica, non cerca una corrispondenza tra violenza patita e pena, che non deve andare oltre quei limiti che il criminale ha calpestato". Così, Vittorio Sgarbi oggi nella rubrica quotidiana "Sgarbi Vs Capre" che ha sul quotidiano Il Giorno. Scrive, Sgarbi, a proposito della pronuncia della Cassazione sulla carcerazione del boss mafioso Totò Riina, che ha scatenato reazioni indignate pressochè ovunque, tanto da parte dei cittadini che da parte della politica. "Chi cerca la vendetta - prosegue - è come lui. Lo Stato, come non uccide, non umilia. E non è pietà cristiana. E' giustizia".

Vittorio Feltri su “Libero Quotidiano” il 7 Giugno 2017: Riina in carcere, i brigatisti rossi a spasso da anni. La polemica del giorno esalta la faziosità che serpeggia in Italia. Secondo la Cassazione, Totò Riina, condannato all'ergastolo per una serie di omicidi mafiosi, potrebbe uscire dal carcere di Opera dove è blindato in regime di 41 bis e sottoposto a torture quotidiane, come ha dimostrato Melania Rizzoli nell' articolo pubblicato ieri su Libero. Il boss è dietro le sbarre da oltre due decenni, ha 86 anni, non ha molto da vivere perché soffre di svariate malattie, cardiache e tumorali. Tenerlo in galera non è un atto di giustizia, bensì di gratuita crudeltà dato che egli non è in grado di fare male a una mosca, essendo ridotto a uno straccio. I soliti cattivoni (politici e commentatori di pronto intervento) sono indignati all' idea che il detenuto venga spedito a casa sua in barella, preferiscono che costui patisca in cella pur essendo in stato preagonico. Sono duri e puri? Nossignori, sono ignoranti, non conoscono in che cosa consista il 41 bis e non hanno letto nemmeno una pagina di Cesare Beccaria (consigliamo a tutti di ripassarne il testo famoso, Dei delitti e delle pene). Altrimenti saprebbero che la prigione riservata ai criminali organizzati è una vergogna nazionale, per eliminare la quale nessuno muove un dito. Trattasi di isolamento perenne, un'ora di aria al dì, telecamere e luci sempre accese inquadrano anche il water e chi lo usa. La sorveglianza spietata è prevista 24 ore. Guantanamo, al confronto delle nostre strutture dedicate ai farabutti incalliti, è un ameno villaggio turistico. Fantastico. Il Parlamento è in procinto di approvare il reato di tortura da contestare ai poliziotti che eventualmente ricorrano ai muscoli per arrestare un delinquente. Però i deputati e i senatori consentono alle istituzioni di sottoporre a supplizi gli "ospiti" del succitato 41 bis. Non solo, non pensano neanche ad abolire le cosiddette pene accessorie. Esempio. Bossetti si è beccato l'ergastolo, che tuttavia non bastava: gli hanno aggiunto per sovrammercato un paio d' anni di isolamento. Mancavano due calci quotidiani nel didietro. Altro che culla del diritto, siamo la tomba della civiltà. Torniamo a Riina. Lo hanno spacciato per capo dell'onorata società, lui analfabeta tenne in scacco per venti anni e passa carabinieri e agenti, i quali lo cercarono dovunque, in qualsiasi angolo della Sicilia tranne che nella sua abitazione nel centro di Palermo, e qui fu poi scovato. Vengono dei sospetti: o fingevano di dargli la caccia, oppure erano un po' storditi. Altra spiegazione non esiste. Se il comandante supremo della mafia era davvero Totò, un nano capace a malapena di firmare, ci domandiamo con inquietudine per quale motivo gli intelligentoni della sicurezza non lo acchiapparono prima che ne combinasse di cotte e di crude. Un mistero ancora da svelare. Adesso che il nano è uno zombi, gli inflessibili giustizialisti insistono: fatelo marcire nella tomba di cemento che lo rinchiude. Deve patire. Essi agirono diversamente con i bastardi delle Brigate rosse che fecero più vittime del morbillo. Non ne è rimasto uno sotto chiave. Tutti liberi e belli, uno è entrato a Montecitorio, alcuni insegnano (quali materie si ignora) addirittura all' università, scrivono brutti libri, concionano in centinaia di conferenze pubbliche. Pluriassassini come Viscardi di Prima linea sono stati scarcerati subito, restituiti al consorzio umano quasi che fossero dei ladruncoli di ortaggi. In effetti ci sono assassini e assassini, quelli politici, via dalle pazze carceri medievali: meritano la riabilitazione di fatto; quelli mafiosi, Riina docet, benché la vecchiaia e la malattia li abbiano stritolati, rimangano all' inferno a tribolare finché non avranno tirato le cuoia. Se questa è giustizia, ci sputiamo sopra.

"Lucido, determinato e non pentito. Il mio incontro con Totò Riina nel carcere di massima sicurezza". Melania Rizzoli, medico e scrittrice, ha visto e visitato il capo di Cosa Nostra. "Mandarlo a casa? Esistono centri medici carcerari che possono curare i suoi problemi di salute". Intervista di Cristiano Sanna del 6 giugno 2017 su "Tiscali notizie". Il capo dei capi sta male. Molto: neoplasia ad entrambi i reni. Ha 87 anni, è sottoposto al regime di isolamento carcerario più duro, il 41bis, dal 1993. Nelle ultime ore non si discute che di lui, dopo la decisione della Cassazione di accogliere la richiesta di mandarlo ai domiciliari per permettergli di affrontare la morte in mezzo ai familiari. Una morte dignitosa, si direbbe. Ma cosa si intende per morte dignitosa quando il protagonista della richiesta è l'uomo che ha insanguinato e terrorizzato l'Italia, quello delle bombe, dei giudici fatti saltare per aria, delle crudeli esecuzioni, della strage di Capaci, dei bambini fatti sciogliere nell'acido, delle minacce di morte violenta all'attuale pm Antimafia, Di Matteo? Dove si ferma il concetto di giustizia e comincia quello di vendetta e di accanimento nei confronti di un super criminale? Melania Rizzoli, giornalista, scrittrice, medico e politico, sei anni fa ha incontrato Totò Riina nel braccio di massima sicurezza del carcere di Opera.

Melania, tu hai raccolto le storie dei carcerati celebri e delle loro condizioni di salute in un libro.

"Sì, tra gli altri raccontai anche di Provenzano, morto in carcere, in regime di isolamento, lo scorso luglio. Quando lo incontrai era incapace di intendere e di volere. Ho visitato i centri di detenzione perché facevo parte della Commissione sanità, occupandomi dei casi di malati incompatibili con il regime detentivo: come quelli affetti da sclerosi multipla, ad esempio".

Nel 2011 ad Opera incontri Totò un Riina lucido, integro, cosciente della sua condizione di carcerato.

"Rimasi colpita: dopo tanti anni di detenzione al 41bis, che è un regime spaventoso, perché sei sempre sotto terra, isolato, non hai giornali, aveva perfino il telecomando della tv bloccato, poteva solo cambiare canale e il televisore si accendeva a orari prestabiliti, trovai un uomo fiero. Orgoglioso, di spirito elevato, Riina pareva detenuto da massimo tre mesi. Sapeva di avere una storia di potere alle sue spalle e probabilmente nel suo presente. L'ho visitato come medico, l'ho stimolato a scrivere ma si rifiutò. Nun sacciu scrivere, rispose, mai lo farei. Io volevo che lasciasse una testimonianza della sua storia criminale. Lui disse: se casomai finissi in un libro di storia mai lascerei una testimonianza di me".

Perché? Riina si percepisce più grande di quanto possano raccontare gli altri?

"Io ho avuto l'impressione che non volesse condividere la sua storia con quella della reclusione".

Dunque una specie di scissione fra l'uomo siciliano privato e il capo dei capi che ha commesso stragi e violenze di ogni genere.

"Esatto, ho avuto l'impressione che fosse tornato in libertà avrebbe ricominciato la sua storia criminale senza problema".

Quindi la posizione dell'Antimafia che continua a considerarlo il perno di tutta la storia mafiosa ancora in movimento nel nostro Paese, non è semplice allarmismo.

"Riina è in regime 41bis aggravato, se la magistratura ha deciso di tenerlo in queste condizioni ne ha tutte le ragioni. Io sono un medico, ho seguito tanti terminali, ritengo che quando una persona affronta il momento più fragile e terribile della sua vita, la morte, abbia diritto di farlo in modo dignitoso. Riina è stato trasferito nel centro medico di Parma, un'eccellenza italiana, dove sono perfettamente in grado di seguirlo". 

Un'assistenza che gli si può dare tenendolo al 41bis o anche spostandolo altrove?

"In questi centri medici ci sono strutture di massima sicurezza, per permettere di assistere malati gravi in isolamento. Non è necessaria la scarcerazione".

Torniamo all'incontro con Riina ad Opera del 2011. In un braccio di massima sicurezza con quattro celle per lato, vuoto. Dentro c'era solo lui.

"Man mano che mi avvicinavo vedevo l'ombra del cancello riflessa sul pavimento del carcere, e si sentiva una musica, l'Ave Maria di Schubert che lui stava seguendo alla tv. Incontravo il personaggio che ha firmato la storia più orribile del nostro Paese. Ancora oggi Sicilia e mafia sono sinonime. L'ex premier Renzi, di fronte all'idea di tenere il G7 in Sicilia, fu sconsigliato di farlo, perché ancora oggi all'estero la Sicilia significa mafia. Riina è responsabile della fama negativa di quella regione".

Lo vedi, gli stringi la mano, lo visiti: a parte i problemi alla tiroide, c'erano già evidenze delle neoplasie ai reni?

"Aveva già problemi renali, prima che io andassi via mi sollecitò perché accelerassi le visite specialistiche. E' un uomo molto intelligente, ci teneva ad essere curato e alla sua salute".

Il rapporto dei boss, pervertito, con la religiosità: Riina disse che leggeva regolarmente la Bibbia. Come adesione alle tradizioni religiose o come passatempo?

"Sia come passatempo sia come conforto. Quando sei in quella condizione di isolamento, solo con te stesso, rinchiuso e impedito in qualsiasi forma di comunicazione, ti resta da pensare. Avrà riflettuto probabilmente sulle sue azione e responsabilità. Mi disse che non pregava ma che la Bibbia la leggeva tutte le sere. Non ha mai voluto dare un'immagine di cambiamento".

Quindi: no scarcerazione, se c'è bisogno di curarlo lo si può fare tenendolo in isolamento carcerario.

"Se non ci fosse la possibilità di curarlo in modo dignitoso direi che bisognerebbe spostarlo da li. Non come è stato fatto per Provenzano. Ma in Italia ci sono centri di eccellenza nelle case circondariali italiane in grado di assistere un detenuto anche condannato al 41bis. Certo non avrà ciò a cui tiene di più, la vicinanza della famiglia. Chi sta in isolamento ha diritto ad una sola visita al mese, per una sola ora. Ma ribadisco: Totò Riina si trova nel centro medico del carcere di Parma, in grado di affrontare qualsiasi emergenza medica e chirurgica". 

«Il mio incontro con Totò Riina in carcere». L’ho conosciuto in cella nel 2011. Era ancora vitale, per niente depresso Parlava in siciliano, faceva il galante. «Qui divento un monachello...», scrive su "Libero Quotidiano" il 6 giugno 2017 Melania Rizzoli. Ho incontrato Totò Riina nel carcere di Opera (Mi) nel 2011, durante una delle mie visite ispettive nei centri di reclusione italiani, che svolgevo in qualità (...) (...) di parlamentare della Commissione Sanitaria della Camera dei Deputati. Il “Capo dei capi” di Cosa Nostra era recluso in regime di 41bis, in isolamento assoluto, dal giorno del suo arresto, il 15 gennaio del 1993, ma quando me lo sono trovato di fronte ho visto un uomo forte e vitale, per niente depresso, anzi ancora fiero ed orgoglioso, come fosse incarcerato da appena pochi mesi. Avevo chiesto di vederlo per verificare il suo stato di salute, poiché, oltre alle varie patologie dalle quali era affetto, pochi mesi prima era stato colpito da un infarto, era stato curato ed era ancora convalescente. Sapevo che Riina non gradiva le visite di estranei, né tantomeno di parlamentari, che aveva sempre rifiutato di incontrare, per cui io chiesi aiuto al direttore del carcere di Opera, che mi accompagnò da lui nei sotterranei dell’isolamento. E per me fu un’esperienza indimenticabile. Totò “u’ curtu” era rinchiuso da solo in un intero reparto interrato, senza finestre e luce naturale, nel quale c’erano otto celle, quattro per lato, separate da un ampio corridoio, all’ingresso del quale era stato posizionato un metal detector con due agenti di polizia penitenziaria armati, alloggiati in un gabbiotto con quattro monitor, tutti collegati con la cella dell’unico detenuto di quel settore. Avanzando verso quel reparto calcolavo che quello spazio, seppur ampio, non sarebbe stato sufficiente a contenere in piedi tutte le vittime di mafia collegate a lui ed ai suoi sicari. Dopo i controlli di routine ai quali siamo stati sottoposti, io, il collega Renato Farina che si era offerto di accompagnarmi, e lo stesso direttore, questi andò avanti da solo, per informare Riina della nostra visita, avanzando verso la sua ferrata, dalla quale usciva una musica celestiale, l’Ave Maria di Schubert. Riina, senza spegnere il televisore od abbassare il volume, chiese chi volesse incontrarlo, rispose che lui non gradiva vedere nessuno e che non era interessato, esprimendosi in stretto dialetto siciliano, che però io conoscevo bene, avendolo appreso dai miei nonni materni, siciliani anche loro, per cui avanzai d’impeto di fronte a lui presentandomi, ed informandolo sullo scopo della mia visita inaspettata. Naturalmente mi rivolsi a lui nel suo stesso dialetto, cosa che lo colpì molto, e che lo fece sorridere, oltre che autorizzare gli agenti ad aprire il cancello per farmi entrare. «Allora lei mi capisce, s’accomodasse, prego trasisse» furono le sue prime parole, mentre allungava il braccio per porgermi la mano. Io ebbi un attimo di esitazione, ma poi quella stretta inevitabile mi diede un brivido, perché stavo ricambiando il saluto e stringendo la mano di un criminale assassino. Riina era vestito con una camicia bianca, pantaloni e scarpe nere senza stringhe, era sbarbato, e nonostante fosse quasi ottantenne, era brizzolato, pettinato ed ordinato, diritto come una spada, e non aveva l’aria sofferente. Notai subito un suo grosso gozzo tiroideo evidente e sporgente, e quando gli chiesi di visitarlo lui acconsentì, aprendo il collo della camicia, che era stirato, lindo e pulito, fresco di lavanderia. Il direttore si era raccomandato di non accennare nella maniera più assoluta con il detenuto alle sue vicende giudiziarie, per cui parlammo soprattutto del suo stato di salute, della sua situazione cardiaca e degli altri problemi che si evidenziavano dalla sua cartella clinica. Lui si lamentava della difficoltà e della lentezza per ottenere le visite specialistiche che gli spettavano, ma quello che mi colpiva di più era il suo stato d’animo. Riina era spiritoso, a tratti addirittura ironico, e ci teneva a dimostrare che la detenzione non gli pesava, non lo piegava, che la accettava ma non la subiva. «Qui mi stanno facendo diventare un monachello sa, ma io ero tutt’altro...». La sua cella era spoglia come quella dei frati, con un letto a branda, un solo cuscino, un comodino ed uno sgabello tondo di legno scuro vicino ad un piccolo tavolo. Sulle pareti nemmeno un crocifisso o una foto, ma un piccolo armadio senza sportelli con camicie, magliette e biancheria riposte in ordine, con una sola stampella con appesa una giacca blu. «Quando la indosso? Quando vengono gli avvocati, o quando, una volta al mese per un’ora sale su mia moglie. Io la aspetto e la vedo sempre volentieri, e mi faccio trovare ordinato. Perché io ho una buona mugliera lo sa? Le viene sempre da me, tutti i mesi prende la corriera, poi il treno e viene a trovarmi». In regime di 41bis si ha diritto ad una sola visita al mese con un solo familiare a volta e ad una sola telefonata mensile. «Se ho nostalgia della Sicilia? Ma quando mai, non sento nostalgia io, mai. Qui sto bene, mi trattano bene, mangio bene, sempre le stesse cose, ma non mi posso lamentare. E poi ho questi miei due angeli custodi (gli agenti di guardia) con i quali ogni tanto scambio qualche parola.

Il populismo giudiziario stavolta ha perso, scrive Sergio D'Elia il 6 giugno 2017 su "Il Dubbio". Il commento del segretario di Nessuno tocchi Caino. La sentenza della corte di Cassazione sul caso di Totò Riina è ineccepibile sotto il profilo giuridico, ed è un raro esempio di indipendenza del giudizio di una suprema corte da considerazioni di tipo moralistico, populistico o, peggio, politico che non dovrebbero mai albergare in un’aula di giustizia, anche di rango inferiore a quella della Cassazione. Principi e norme come «umanità della pena», «diritto a morire dignitosamente», «attualità della pericolosità sociale», sono raramente rispettati da un giudice quando si tratta di persona che per il suo passato criminale ha rappresentato l’emblema della mostruosità che non può mai svanire, che va alimentato per tutta la vita. In tempi di populismo giudiziario e, ancor più, penale non è accettabile che tali simboli del male assoluto si sciolgano come neve al sole. Totò Riina non può essere un pupazzo di neve con la coppola e la lupara di plastica in un giardino d’inverno che dura solo fino a primavera. Deve rimanere un monumento granitico e indistruttibile in servizio permanente effettivo, insieme a tutti gli altri armamentari speciali ed emergenziali della lotta alla mafia, dal 41 bis al ‘ fine pena mai’ dell’ergastolo ostativo da cui si può uscire in un solo modo: da collaboratori di giustizia o, come si dice, coi piedi davanti. La forza di uno Stato non risiede nella sua ‘ terribilità’, come diceva Leonardo Sciascia, ma nel diritto, cioè nel limite insuperabile che lo Stato pone a sé stesso proprio nel momento in cui deve affrontare il male assoluto. Se quel limite viene superato a morire non è solo Totó Rina, così come è stato lasciato morire Bernardo Provenzano, come rischiano di morire alcuni ultra novantenni ancora in 41 bis nel carcere di Parma o come Vincenzo Stranieri ancora in misura di sicurezza in regime di 41 bis nonostante abbia scontato la sua pena e sia gravemente malato. A morire e lo stato di diritto, la legge suprema che vieta trattamenti disumani e degradanti, a morire è anche la nostra Costituzione, il senso stesso della pena, che non può essere quello della vendetta nei confronti del più malvagio dei nemici dello Stato. 

Vincenzo Stranieri è grave e la figlia fa lo sciopero della fame, scrive Damiano Aliprandi il 31 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Anna, la figlia di Vincenzo Stranieri in carcere dal 1984 e in regime del 41 bis dal 1992, è in sciopero della fame dopo che il tribunale de L’Aquila ha respinto l’ennesima richiesta di scarcerazione per incompatibilità con il regime detentivo perché malato di tumore. Una vicenda paradossale che Il Dubbio ha seguito fin dall’inizio. Stranieri ha un tumore alla laringe e i 24 anni di 41 bis gli hanno causato gravi problemi di tipo psichiatrico. La sua pena teoricamente sarebbe dovuta finire il 16 maggio del 2016, ma gli restano ancora da espiare due anni di misura di sicurezza in una colonia penale agricola. Secondo la Direzione nazionale antimafia, però, risulta ancora pericoloso. Quindi il ministro della Giustizia, seguendo le indicazioni della Dna, gli ha prorogato di fatto il 41 bis trasformando la colonia penale in “casa lavoro” nella sezione del regime duro del carcere de L’Aquila. Però nell’Istituto abruzzese il lavoro non c’è per gli internati. A denunciarlo era stata la radicale Rita Bernardini quando lo scorso luglio si rivolse al capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Santi Consolo, proprio per porre rimedio alla situazione: durante la visita di Pasqua dell’anno scorso, l’esponente del Partito Radicale, aveva ritrovato internati cinque detenuti al 41 bis che dovevano scontare la cosiddetta “casa lavoro”; aveva chiesto a uno di loro quale fosse il suo lavoro attraverso il quale avrebbe dovuto “rieducarsi” e la risposta fu: «Lo scopino per 5 minuti al giorno». Un altro che faceva il porta- vitto, le chiese: «Come faccio a dimostrare che non sono più pericoloso?». E ancora un altro detenuto le fece presente che l’ora d’aria si svolgeva in un passeggio coperto senza mai poter ricevere la luce diretta del sole. «Qui non possiamo fare una revisione critica del nostro percorso; uno di noi che si vuole salvare che deve fare?». Rita Bernardini fece presente che a Vincenzo Stranieri, gravemente malato e quasi impazzito per i disumani e degradanti trattamenti subiti, era riservato questo trattamento assolutamente non compatibile con i diritti e la dignità di una persona. Nel frattempo però le condizioni fisiche di Stranieri si erano aggravate, trasferito nella struttura protetta di Milano “Santi Paolo e Carlo” per ricevere le cure adeguate, ha subìto un secondo intervento chirurgico. Ora si trova nel carcere milanese di Opera in completo isolamento con un sondino direttamente collegato allo stomaco per farlo nutrire. Aveva 24 anni quando venne arrestato nel lontano giugno del 1984 per aver fatto parte del sequestro di Annamaria Fusco, la giovane maestra figlia dell’imprenditore del vino Antonio Fusco rimasta per sei mesi nelle mani della Sacra corona unita prima di essere liberata dopo un lauto riscatto. Stranieri infatti era stato il numero due della cosiddetta quarta mafia. «Me lo hanno tenuto lontano per 32 anni – dice Anna Stranieri che non ha mai smesso di lottare per suo padre – ed ora che ha pagato i suoi errori lo Stato si accanisce e non si ferma neanche davanti al tudel more; ormai è chiaro che gli vogliono far fare la fine di Provenzano». Nel frattempo l’ultima batosta: per il Tribunale di sorveglianza, Stranieri può restare in carcere. Una decisione che va in controtendenza con le disposizioni dello stesso perito del giudice che consigliava il ricovero del detenuto in una proprietà della fondazione Don Gnocchi di Milano a causa del suo tumore che andrebbe monitorato presso strutture adeguate. Non può deglutire, né parlare. Si alimenta tramite un sondino e respira grazie alla tracheotomia. È dimagrito e non può camminare da solo. Ricordiamo che per il rapimento di Anna Maria Fusco, Vincenzo Stranieri fu condannato a 27 anni di carcere ridotti in appello a 18 e 10 mesi. Ma nel frattempo gli anni sono diventati 32 per delle condanne inflitte quando era in carcere per reati di associazione mafiosa. Al momento della condanna era giovanissimo e non sta pagando nessuna condanna per omicidio: è giusto avergli prorogato gli anni di carcerazione presso la sezione dedicata al 41 bis, nonostante il sopraggiungere di questa grave malattia e abbia scontato tutti gli anni inflitti?

L’avvocata di Provenzano: «Quanti sconosciuti lasciati morire al 41 bis». Intervista di Valentina Stella su "Il Dubbio" del 12 luglio 2017 alla legale Rosalba Di Gregorio che difese il vecchio boss: «Ci sono centinaia di persone in condizioni gravemente malate solo che si chiamano Mario Rossi e Pinco Pallino e di loro quasi nessuno si occupa». Riina, il cosiddetto carcere duro, alla presunta trattativa Stato- mafia. Di questi temi parla l’avvocata Rosalba Di Gregorio, legale di numerosi boss come Bernardo Provenzano. «Molti si scandalizzano per la sentenza della Cassazione su Riina, che invece non è affatto scandalosa perché afferma principi di diritto. L’informazione è stata disinformante perché si è concentrata solo sul nome dell’imputato. La popolazione carceraria non si compone solo di Provenzano e Riina, ci sono centinaia di persone in condizioni disastrose, solo che si chiamano Mario Rossi e Pinco Pallino e di loro quasi nessuno si occupa».

Continua a tenere banco la condizione di salute di Riina rispetto ai suoi status di detenuto e imputato. Dello stato di salute di Provenzano non si discusse con lo stesso approfondimento.

«Molti si scandalizzano per la sentenza della Cassazione su Riina, che invece non è affatto scandalosa perché afferma principi di diritto. L’informazione è stata disinformante perché si è concentrata solo sul nome dell’imputato: quando la Suprema corte afferma che bisogna motivare sull’attualità della pericolosità. Sostiene cose talmente ovvie, scontate e conformi al diritto che non ci sarebbe proprio da discuterne, se non per dire che andrebbe applicata a chiunque. La popolazione carceraria non si compone solo di Provenzano e Riina, ci sono centinaia di persone in condizioni disastrose dal punto di vista sanitario, solo che si chiamano Mario Rossi e Pinco Pallino e di loro quasi nessuno si occupa. Vorrei chiedere all’onorevole Bindi perché non è andata a verificare anche le condizioni di salute di Provenzano, quando all’epoca la stampa se ne occupò dopo che sollevammo l’incompatibilità con il 41bis per una persona che era un vegetale. Perché non sono andati a visitarlo quando anche lui era a Parma? Io ho documentato che quando si ritiravano le magliette intime di Provenzano erano intrise di urina perché lì gli cambiavano il pannolone solo due volte al giorno e quindi poi l’urina arrivava dappertutto, fino al collo. Ho fatto fare persino il test del Dna sull’urina perché non si dicesse che non era la sua. Tutto è stato denunciato alla Procura di Parma che naturalmente ha archiviato. Ora l’onorevole Fava della commissione Antimafia dice che le condizioni di Riina non sono paragonabili a quelle di Provenzano: allora deduco che all’epoca la Commissione era in ferie».

L’Antimafia all’epoca era senza dubbio attiva: quale altra spiegazione si può trovare?

«Si scelse di dare una risposta ai familiari delle vittime lasciandolo al 41bis. Ai quali va tutta la mia comprensione, ma i problemi giuridici andrebbero affrontati in quanto tali».

Rita Dalla Chiesa, dice "mio padre non ha avuto una morte dignitosa": perché concederla a Riina?

«Il dolore è comprensibile, la solidarietà è massima, ma ciò non significa che uno Stato di diritto possa abrogare o non applicare le norme perché esiste la sofferenza delle vittime».

La presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi, al termine della visita a Parma dove ha verificato le condizioni di Riina, ha dato l’impressione di voler anticipare la sentenza del Tribunale di Bologna sul differimento pena.

«È bene precisare che la Commissione è andata nel reparto detenuti 41 bis dell’ospedale Maggiore di Parma. Io invito tutti invece ad andare al carcere per rendersi conto se quello al suo interno è un centro clinico e se non ci dobbiamo vergognare dei nostri cosiddetti centri clinici nei penitenziari. Ma per tornare alla domanda, a me hanno insegnato che siamo in una Nazione in cui il potere giudiziario è indipendente da quello politico. Non credo che i parlamentari dell’Antimafia abbiamo acquisito capacità medico diagnostiche e possano stabilire, con uno sguardo, al posto dei Tribunali, cosa sia giusto per un detenuto. Io non ne faccio un problema per Riina ma per tutti i reclusi. Il 41 bis si lascia ai soggetti pericolosi».

Bindi è certa che Riina sia "ancora il capo di Cosa nostra, è così per le regole interne alla mafia".

«Per principio lo dice. E così si disse di Provenzano. Bisogna che si mettano d’accordo su chi era il capo dei capi. Se muore anche Riina avremo allora una organizzazione acefala».

Lei ha lanciato un appello ai politici affinché visitino i reparti del 41 bis.

«Più che un appello era una sfida che credo nessuno raccoglierà mai. Per fare una cosa del genere bisogna recarsi lì all’improvviso e visitare tutte le sezioni, non solo quelle che vogliono farti vedere i direttori delle carceri».

Sul 41 bis si sono espresse riserve sia nella relazione di Luigi Manconi sia negli Stati generali dell’esecuzione penale.

«Il problema è la modalità di attuazione del 41 bis, ovvero la vivibilità in termini umani. E che si tratta di un provvedimento emergenziale diventato la norma. Non ci può essere una presunzione della presenza del contatto del detenuto con l’organizzazione criminale. Ci devono essere segnali precisi, per ipotizzare che il recluso stia veicolando ordini all’esterno. I pareri sulla permanenza al 41 bis vengono elaborati dal profilo criminale, dalle vecchie schede, ma c’è gente nel carcere che dopo anni ha fatto percorsi di ravvedimento, di cui nessuno prende atto».

In realtà come ha documentato Ambrogio Crespi nel docufilm Spes contra Spem, prodotto da Nessuno Tocchi Caino, anche persone che hanno commesso 40 omicidi dopo decenni possono riabilitarsi.

«Il problema oggi, e lo ha detto il presidente del Senato Grasso, è che o accedi alla collaborazione oppure si deduce che non vi è stata rivisitazione critica del proprio vissuto. Teoricamente si dovrebbero trasformare tutti in collaboratori di giustizia».

C’è il rischio che non si abbia nulla da dire e che si offrano false informazioni su cui poi però si imbastiscono processi.

«Il problema è a monte: lo Stato non può pretendere di usare il 41 bis per farti pentire».

Al processo Borsellino bis, Vincenzo Scarantino ha mandato al 41 bis per 20 anni degli innocenti.

«Il Borsellino quater ha stabilito che Scarantino è stato indotto a "collaborare". Si può presupporre un mancato vaglio da parte dei magistrati, prima inquirenti poi giudicanti, sul lavoro degli investigatori. Che cosa c’è stata a fare tutta la Procura in questi anni?»

Del processo Borsellino quater si è parlato pochissimo.

«L’agenda rossa di Borsellino non l’ha presa Toto Riina e neppure Graviano, non se ne facevano niente. Se Borsellino avesse annotato “la Mafia mi fa schifo” era una notizia già nota ai mafiosi. Dal processo è emerso l’intervento di terzi un po’ più in alto rispetto a quelli che io considero esecutori del depistaggio, a partire da dirigenti della Polizia, e a qualcuno non fa comodo che si sappia».

Capitolo "trattativa": Mori è stato assolto dall’accusa di favoreggiamento aggravato alla mafia per non aver catturato Provenzano quando si poteva.

«Non ho letto le carte processuali, ma qualcosa si può dedurre dal fatto che c’è una triplice conformità sull’assoluzione. O buttiamo via i processi o dobbiamo prendere atto di queste sentenze».

Il Fatto Quotidiano ha pubblicato come inedita la dichiarazione di Graviano secondo cui Pannella nell’ 87 andò in carcere a raccogliere iscrizioni tra i detenuti.

«Da sempre in carcere si trova sostegno per le battaglie garantiste. Non mi pare una notizia che possa scalfire l’immagine del Partito radicale».

Ilaria D'Amico imprigionata in tribunale per 5 ore, lo sfogo contro la giustizia italiana: "Scusate, ora devo andare", scrive il 2 Giugno 2017 “Libero Quotidiano”. Contro i tempi biblici della giustizia italiana, in un'aula di tribunale, tuona anche Ilaria D'Amico. Già, perché la signora del calcio su Sky è rimasta "imprigionata" per quasi 5 ore in tribunale soltanto per confermare le accuse contro il suo ex commercialista, Davide Censi, che l'avrebbe truffata sottraendole 1,2 milioni di euro, destinati al pagamento delle tasse. Cinque ore d'attesa per dire poche parole: "Confermo quanto ho già dichiarato nel luglio 2016". Dunque, la D'Amico ha aggiunto con tono polemico: "Devo tornare a Milano, ho due figli". Ilaria, compagna di Gianluigi Buffon, ha atteso cinque ore senza mai incrociare lo sguardo dell'ex commercialista, che da par suo si è poi sfogato con i giornalisti presenti: "Non ho fatto nulla, voi dovete sentire tutte le campane". Durissima la replica della D'Amico: "Dico solo che la mia querela è del dicembre del 2013 - polemizza ancora contro i tempi della giustizia -. Ma questo è il paese delle sòle. Lunga vita alle sòle. Rimango a bocca aperta, ma non è che lo scopra oggi".

I giudici la zavorra dell'Italia: piangono e intanto ci fottono, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano" il 3 Giugno 2017. La Giustizia è il problema di questo Paese. Non è uno dei problemi: è «il» problema che li racchiude tutti, perché è un freno allo sviluppo imprenditoriale e all’attrazione di capitali esteri. È questa la Giustizia che interessa agli indicatori internazionali, non quella intrisa di malanimo sociale di cui vedete cianciare nei talkshow; è questa la zavorra che blocca un Paese in cui, negli ultimi venticinque anni, è cambiato semplicemente tutto tranne la Giustizia e la corresponsabilità della magistratura in questo sfascio: toghe che si atteggiano a vittime del problema e invece ne sono parte. I dati di Bankitalia, che oggi rilanciamo, sono noti a tutti gli osservatori internazionali, ma il parolaio italiano tende ormai a liquidarli come «ritardi della giustizia» quasi che fossero un destino fisiologico, un rumore ambientale, e non un carico che pesa - anche - sulle spalle di esseri umani che rappresentano l’ultima vera casta della Prima Repubblica. I dati dicono che la produttività dei tribunali nei procedimenti civili è calata dal 2014 al 2016 in tutto il territorio nazionale (la produttività è data dal rapporto tra il numero di procedimenti definiti e i giudici che se ne occupano) e spiegano che, tanto per cambiare, al Sud va nettamente peggio che al Centro Nord. Non solo: dicono che «i divari non dipendono da carenze di organico dei giudici e del personale amministrativo» (non fosse chiaro) e che questo «potrebbe dipendere da aspetti organizzativi», che è un modo gentile per dire che qualcuno lavora poco. Ma guai a dirlo. Ricorderete tutta la lagna perché il governo Renzi cercò di limitare l’unico primato occidentale della nostra magistratura: quello delle ferie. Beh, alla fine ci sono riusciti con complicati magheggi procedurali: le ferie sono più o meno quelle di prima. Anche perché molti lavorano semplicemente quanto vogliono: nessuno li controlla, non timbrano un cartellino, possono lavorare anche da casa. Poi ci sono dei fatti notori a tutti gli addetti ai lavori: tipo i corridoi dei tribunali già deserti il venerdì, le pause dopopranzo alla messicana, le assenze che coincidono spesso con le feste scolastiche, l’avvertenza che il dottore «oggi non c’è» oppure appunto «lavora a casa» o ancora «non è venuto», punto. Senza contare la chiusura estiva dei tribunali (che è una chiusura, non prendiamoci in giro: e infatti la maggioranza degli avvocati è costretta a prendere le ferie nello stesso periodo) che non esiste in nessun altro Paese serio al mondo. Sono problemi, questi? Non sia mai: la solita Associazione magistrati (che in pratica è la Cgil delle toghe) ogni volta provvede a puntualizzare che tutto quel che riguarda i magistrati è sempre sbagliato, anzi è sempre un problema di «risorse» e di «organici», poi certo, di «leggi» e loro interpretazione. La Fondazione Einaudi aveva già evidenziato che non solo l’Italia, sulla giustizia, si classifica in una posizione nettamente inferiore rispetto a Francia, Germania, Spagna e Regno Unito: ma pure che - rispetto agli altri Paesi - non è nemmeno riuscita a difendere la sua posizione, passando dal 39° posto del 2012 al 42° del 2015. Altri dati (The European House-Ambrosetti) hanno spiegato che ogni anno perdiamo l’1,3% del Pil a causa della malagiustizia: fanno 22 miliardi di euro. Anche Mario Draghi ha riconosciuto che il Paese ha smesso di crescere anche per la lentezza della giustizia civile: «La durata dei processi ordinari di primo grado supera i mille giorni e colloca l’Italia al 157esimo posto su 183 nelle graduatorie stilate dalla Banca Mondiale», disse da governatore della Banca d’Italia. Traduzione: è arduo che una banca possa finanziare una piccola azienda - magari poco conosciuta, come tutte le piccole aziende - senza una un sistema giudiziario che dia affidamento e che garantisca sentenze in tempi ragionevoli. Del resto negli anni Ottanta, secondo l’Istat, una procedura fallimentare durava in media quattro anni, ora dura più di nove. Problema di risorse, dicono i magistrati, come no: ma a parte che le toghe italiane hanno stipendi tra i più alti del mondo (qualcuno dice i i più alti), lo Stato italiano per la giustizia spende circa 70 euro per abitante (dati del Consiglio d’Europa) quando la Francia ne spende 58 a parità di giudici e cancellieri. Gli addetti ai lavori queste cose le sanno tutte, politici compresi: ma non c’è governo - anche perché i governi sono sempre d’emergenza, per definizione - che non giudichi la questione strutturale della giustizia come troppo rognosa per affrontarla come meriterebbe. E poi porta male: la giustizia i governi li fa cadere, altroché. Per il resto ci siamo abituati a considerare la giustizia come una variante del palinsesto mediatico: si è adeguata ai tempi che corrono, spettacolarizzata, la celebrità di un caso aumenta gli sforzi per risolverlo (a discapito di altri) e le indagini con rilevanza mediatica sfociano spesso in pene sproporzionate. Da qualche mese le Cemere Penali raccolgono firme per introdurre una vera separazione delle carriere dei magistrati: ci fosse un giornale che lo scrive. Anche il centrodestra ormai è fermo: Silvio Berlusconi ha cercato di cambiare le cose, ma l’ha fatto male - sicuramente - e l’ha fatto per ragioni prima personali e solo dopo pubbliche, ma almeno ci ha provato. Mentre il Pd, per lustri interi, ha finto che i problemi della giustizia fossero il falso in bilancio e il conflitto d’interessi di Berlusconi: difendendo anche la magistratura più indifendibile pur di non regalare vittorie all’avversario. I governi Renzi e Gentiloni sull’intoccabile Giustizia non hanno voluto grane (al solito) e il fiato su collo dei pitecantropi grillini, a oggi, contribuisce a una politica che sulla giustizia fa il pesce in barile: come se la definitiva affermazione del populismo penale, in Italia, fosse un mero accidente atmosferico, anzi, una colpa della «casta» che peraltro ha nella magistratura la sua vera e fossilizzata regina. Ma non l’hanno capito, i grillini. Trent’anni che ne parliamo, e ora vogliono candidare Davigo. Filippo Facci

Cittadini e magistrati. Di chi sono i tribunali? Scrive il 20 maggio 2017 Francesco Petrelli, Segretario Unione Camere Penali Italiane. Non tutti sanno che ne suo progetto originario, risalente agli anni ’60, la pavimentazione del Tribunale di Roma, uffici, aule e corridoi, era interamente costituita da “sampietrini”, i cubetti di porfido caratteristici delle strade e piazze romane. Una scelta questa, discutibile sotto il profilo pratico ed estetico, ma dotata di una straordinaria potenza evocativa: il luogo della giustizia, non è un luogo separato dalla città, ma ne rappresenta l’inevitabile continuazione. Le strade della città entrano all’interno del tribunale che appartiene dunque a tutti i cittadini e non è dominio incontrastato di una magistratura separata ed autocratica. Nel tempo la ragion pratica ha prevalso sulla bella metafora del “foro” aperto alla città ed anonimi pavimenti hanno sostituito i sampietrini. Da allora la distanza fra la Giustizia ed il Paese si è fatta sempre più grande, procedendo di pari passo con l’idea che i tribunali fossero dei “giudici”, che i palazzi di giustizia fossero i luoghi nei quali i pubblici ministeri esercitavano il loro potere. Difficile non pensare a questo percorso, non solo simbolico, che l’idea stessa di giustizia ha disegnato negli ultimi decenni, quando apprendiamo dal diniego apposto da alcuni importanti magistrati di poter raccogliere firme per la proposta di legge di iniziativa popolare per la separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante.  A Firenze in particolare, la presidente della corte d’appello ed il procuratore generale hanno giustificato la mancata autorizzazione con non meglio precisate ragioni di sicurezza. Ed è difficile immaginare quale pericolo possano costituire un cancelliere dello stesso Tribunale, intento ad effettuare l’autentica delle firme di pacifici cittadini, considerato che questi esercitano i loro più naturali diritti politici e quelli la più tipica delle loro funzioni. Nei nostri Tribunali vi sono banche, uffici postali, cartolerie, edicole e librerie, si raggiungono accordi e si firmano contratti, ma non si sottoscrivono leggi che vogliono distinguere le carriere di quel giudice e di quel procuratore generale. E’ bizzarro riflettere sulla circostanza che l’iter di raccolta delle firme ha inizio con il deposito formale del testo di legge di riforma di iniziativa popolare proprio all’interno del “Tribunale Supremo”, in un aula della Corte di Cassazione, raccogliendo le firme dei promotori, mentre ai cittadini dovrebbe essere preclusa la possibilità di promuovere tale iniziativa in una normale aula di Tribunale. In ogni altro luogo ma non lì. Resta la sensazione che questa proposta di legge che non fa altro che realizzare un articolo della Costituzione rimasto inattuato, e avvicina il sistema giudiziario italiano a quello degli altri paesi europei cui è del tutto ignota quella “colleganza” tra giudici e pubblici ministeri, in fondo scopra un nervo sensibile dell’organo giudiziario di questo Paese, da troppo tempo adagiato sull’idea che la giustizia sia una cosa propria della magistratura, una cosa da somministrare paternalisticamente ad ignari cittadini , fissata su cardini di potere inamovibili, fondata su principi che le leggi umane non devono e non possono mutare.

«Quella madre era malata: non doveva stare in cella». Parla l’avvocato della donna detenuta a Rebibbia che ha ucciso i due figli, scrive Simona Musco, il 23 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Non avrebbe dovuto stare in carcere, Alice Sebesta, la 33enne di origini tedesche che martedì, a Rebibbia, ha scaraventato violentemente i figli giù per le scale del nido del carcere, uccidendo sul colpo la più piccola, Faith, di 4 mesi, e ferendo in modo gravissimo Divine, di 19 mesi, per il quale è stata decretata la morte cerebrale. La madre, attualmente sottoposta a trattamento sanitario obbligatorio e piantonata nel reparto di psichiatria dell’ospedale Pertini, non ha potuto dare l’ok all’intervento per l’espianto degli organi. La donna, dicono oggi le cronache, «era stata più volte segnalata per alcuni comportamenti, sintomatici di una preoccupante intolleranza nei confronti dei due piccoli», tanto che il personale del carcere aveva segnalato «la necessità di accertamenti anche di tipo psichiatrico», secondo quanto contenuto in un documento firmato dal capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Francesco Basentini, visionato dall’Ansa. Informazioni che al suo legale, Andrea Palmiero, non sono state, però, mai comunicate. «L’istanza per farle avere i domiciliari spiega al Dubbio l’avvocato, che ieri ha parlato di nuovo con la donna in ospedale – è stata rigettata dal giudice per le indagini preliminari come fosse acqua fresca. Se il ministro della Giustizia vuole capire davvero come sono andate le cose allora lo invito a leggere questi documenti».

Avvocato, cosa sapeva dello stato di salute di Alice prima che avvenisse la tragedia?

«No, in questi 20 giorni nessuno mi ha mai segnalato nulla. Non mi sono stati comunicati episodi che lasciassero anche solo immaginare un epilogo del genere e non ho mai letto la nota del Dap di cui si parla in queste ore. Se queste informazioni dovessero rivelarsi vere, la cosa sarebbe davvero molto grave: avrei dovuto certamente essere informato di certe circostanze. Invece non ho mai saputo nulla».

Lei aveva presentato istanza affinché la donna andasse ai domiciliari. Come sono andate le cose?

«La mia richiesta è stata rigettata per ben due volte. Nel primo caso si poneva un problema effettivo: la donna, che non si trovava nel proprio paese, non aveva una casa in cui poter eleggere domicilio, così la prima volta la mia istanza è stata respinta. Mi sono impegnato per trovare una casa in cui potesse passare questo periodo di custodia cautelare ai domiciliari e alla fine ci sono riuscito. Così ho presentato per la seconda volta istanza, ad un nuovo giudice, in quanto nel frattempo era cambiato. Ma, inspiegabilmente, è stata rigettata una seconda volta, senza alcuna giustificazione a mio avviso plausibile: secondo il gip, la difesa non aveva portato alcun elemento nuovo. In realtà, però, l’elemento nuovo c’era: la casa, appunto. Non so davvero spiegarmelo».

Parliamo di com’è finita in carcere il 26 agosto scorso, quando è stata arrestata in flagranza. È possibile che per spaccio di marijuana, con due figli piccolissimi dietro, si trovasse lì?

«Sicuramente non possiamo parlare di un reato minore, per via dell’ingente quantitativo di sostanza stupefacente che aveva con sé (10 chili nascosti in macchina tra i pannolini dei bambini, ndr). Ma comunque parliamo di marijuana, in un periodo storico in cui si sta andando verso la liberalizzazione… Non si tratta certo di droghe pesanti, di cocaina o eroina. Ritengo che non potesse stare in carcere. Io il domicilio alternativo l’avevo proposto, ma non è comunque servito. Ma al di là di questo, nel caso in cui si fosse arrivati ad una condanna definitiva, per questo reato la scarcerazione sarebbe stata obbligatoria. In ogni caso, dunque, non avrebbe dovuto trovarsi lì».

Aveva già commesso altri reati?

«No, questo era il suo primo arresto. Non stiamo parlando, quindi, di una persona recidiva, ma di una persona che affrontava questa esperienza per la prima volta, in un paese straniero, che non le apparteneva, per giunta. L’ho vista molto spaesata, com’è comprensibile. Ma nulla poteva farmi pensare che le cose sarebbero andate a finire in questo modo».

E dopo la tragedia come l’ha vista?

«L’ho vista insofferente, depressa. Oggi (ieri per chi legge, ndr) sono andata a trovarla in ospedale, ma di quanto ci siamo detti preferisco non dire nulla, perché domani ( oggi, ndr) ci sarà l’udienza di convalida e riferirò tutto al giudice. Di sicuro, prima che si verificassero questi eventi non mi era stato fatto presente nulla circa il suo stato di salute».

Durante i vostri colloqui non era emerso nessun elemento che potesse anche solo lasciare immaginare, dunque?

«Lei non mi ha mai detto nulla. Ero io a vederla sempre un po’ sofferente, ma in un colloquio di dieci minuti sono poche le cose di cui si può parlare. Avevo notato che si presentava sempre un po’ più trascurata, ma da qui a pensare che potesse accadere una cosa del genere…»

Il ministro della giustizia ha sospeso i vertici del carcere…

«Non so chi abbia responsabilità, non tocca a me dirlo. So soltanto che questi bambini li abbiamo pianti soltanto noi. Chi lavora in carcere vive gomito a gomito con queste persone, con i detenuti, e non credo che le responsabilità si debbano cercare lì o che non avessero a cuore queste persone. Invito, piuttosto, il ministro ad andare a visionare il fascicolo con il rigetto dell’istanza di carcerazione domiciliare. Vada a vedere lì se c’è qualcosa che non quadra».

Carcere e bambini: perché quello che si fa non basta. Il caso della detenuta che ha ucciso i 2 figli a Rebibbia getta sale sulla ferita dei bimbi in prigione, scrive Barbara Massaro il 20 settembre 2018 su "Panorama". "Ora almeno loro sono finalmente liberi". Lo ha detto Alice S., 33 anni, di nazionalità tedesca, detenuta da agosto presso il carcere di Rebibbia per essere stata colta in flagranza di reato con 14 chili di marijuana. Lo ha detto a proposito della morte dei suoi due figli, un bimbo di meno di due anni e una neonata. A ucciderli è stata lei, la madre Medea di questa tragedia greca drammaticamente contemporanea. La donna, interrogata dagli psichiatri del carcere, con fredda lucidità ha dichiarato: "Sapevo che era in programma l'udienza davanti ai giudici del Riesame che dovevano discutere della mia posizione. I miei figli intanto li ho liberati, adesso sono in Paradiso". "Ora sono liberi". Per questa donna donare la vita è stato meno importante che concedere la morte e piuttosto che trattenere i suoi figli, nati liberi, in prigione ha preferito ucciderli gettandoli dalle scale del nido carcerario in cui vivevano. Per il gravissimo episodio il Ministro per la Giustizia Alfonso Bonafede ha sospeso la direttrice della sezione femminile del penitenziario e la sua vice responsabili di non aver fatto abbastanza per prevedere la tragedia. La donna - si legge in un documento firmato dal capo del Dap, Francesco Basentini e riportato da Ansa "Era stata più volte segnalata per alcuni comportamenti sintomatici di una preoccupante intolleranza nei confronti dei due piccoli" e il personale in servizio presso il carcere aveva segnalato "La necessità di accertamenti anche di tipo psichiatrico". Ad appurare responsabilità ed eventuali omissioni ci penserà l'inchiesta giudiziaria già avviata, quel che resta alla fine di questa storia è il dramma sempre attuale dei bambini tra gli zero e i tre anni che, pur nati liberi, vivono i propri primi mille giorni da detenuti.

Bambini in carcere. I bimbi uccisi dalla madre, meno di due anni in due, dal 28 agosto alloggiavano all'interno del nido di Rebibbia, uno dei 15 asili nido che si trovano nelle sezioni femminili delle carceri italiane. A Rebibbia il nido si trova in una sezione distaccata. Ogni cella ha una culla in legno per i bambini e in reparto ci sono una ludoteca e una piccola cucina. I bambini sono assistiti da pediatri e terapeuti e anche le madri sono sostenute dal supporto psicologico, o per lo meno dovrebbero esserlo, ma comunque sempre di carcere si parla. In Italia al momento dietro le sbarre ci sono 62 bambini figli di 52 madri detenute. La legge prevede che una donna madre di bimbi molto piccoli venga tutelata nel suo diritto a mantenere la genitorialità e per questo in Italia esistono 15 nidi all'interno delle strutture carcerarie.

Gli Icam. Molto meglio delle ludoteche dietro le sbarre, però, sarebbero di ICAM, istituti a custodia attenuata per madri. Il problema è che in tutto il territorio nazionale sono solo 5. Si tratta di luoghi che assomigliano più a una casa che a un carcere (pur essendolo a tutti gli effetti) dove le madri sono sottoposte a una sorta di custodia domiciliare sotto tutela dell'istituzione carceraria. Pur non potendo uscire dagli ICAM e pur essendoci sbarre alle finestre e guardie fino a fine pena le madri possono condurre un'esistenza tutto sommato normale e i bambini vivono in maniera meno intensa il trauma del carcere. Il problema è che per gestire questi istituti servono fondi che non ci sono e quindi restano nel ridicolo numero di 5 su territorio nazionale. Ci sarebbe anche l'opzione delle case famiglia protette, ma in questo caso va anche peggio visto che in Italia ce ne sono solo due. Mancano strutture, investimenti e soprattutto volontà politico istituzionale di costruirle.

Cosa dice la legge. Va precisato che una madre non ha l'obbligo di portare il figlio in carcere con sé, ma spesso coloro che scelgono questa opzione è perché sono sole al mondo e non saprebbero dove lasciare le proprie creature. Si tratta di un problema non solo logistico, ma anche etico ed educativo a proposito del quale esiste un'ampia giurisprudenza e che coinvolge un intero nucleo famigliare che il carcere avrebbe il compito di rieducare alla vita. Il problema è capire come. L'episodio di Rebibbia pone l'accento, tra l'altro, sul dramma della depressione tra le neo-madri già violenta per donne libere e ancora più drammatica con l'aggravante della prigione. Perché si tratta di donne che hanno problemi con la giustizia penale, ma che non perdono le prerogative genitoriali e lo Stato ha l'obbligo di preservare il diritto del minore a vivere con la propria madre.

Un bimbo muore a Rebibbia. Che civiltà è questa? Scrive Damiano Aliprandi il 19 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Dramma nella sezione nido del carcere di Rebibbia. Una detenuta tedesca ha tentato di uccidere i suoi figli: la neonata di 4 mesi è morta sul colpo, per l’altro è in programma l’accertamento di morte cerebrale. Dramma nella sezione nido del carcere di Rebibbia. Una detenuta tedesca ha tentato di uccidere i suoi figli, di fatto, ristretti nel carcere: la neonata di 4 mesi è morta sul colpo, l’altro, di due anni, ha lottato tra la vita e la morte all’ospedale del Bambin Gesù ed ora è in programma l’avvio della procedura di accertamento di morte cerebrale. Il ministro ha sospeso la direttrice e la vicedirettrice della sezione femminile del carcere e inoltre il vicecomandante del reparto di Polizia Penitenziaria. Prima di compiere il terribile gesto, la donna ha atteso che le altre detenute sfilassero prima di lei per poi rimanere in disparte e sbattere ripetutamente, con forza, il corpo dei suoi due bimbi per terra. Una volta compreso quanto stava accadendo, sono intervenute alcune agenti della polizia penitenziaria e diverse detenute rom per cercare di fermare la furia della donna. La donna, 33 anni, nata in Germania ma di cittadinanza Georgiana, era stata arrestata in flagranza di reato il 26 agosto scorso a Roma per concorso in detenzione di sostanze stupefacenti. Nei giorni scorsi avrebbe manifestato segnali di disagio nel ritrovarsi in carcere con una bimba di pochi mesi e uno di appena due anni. Ma non solo, qualche giorno fa, la donna aveva parlato con l’avvocato a cui aveva fatto presente di soffrire di depressione e di non reggere la situazione carceraria. Appena giunta la notizia, il ministro della giustizia Alfonso Bonafede si è dapprima recato al carcere per avere chiarezza della situazione, dopodiché ha raggiunto l’ospedale per constatare le condizioni di salute del bambino ricoverato in codice rosso. Il guardasigilli ha subito avviato un’inchiesta interna volta a ricostruire l’esatta dinamica dei fatti e ad accertare eventuali profili di responsabilità. A Rebibbia si è recata anche il procuratore aggiunto Maria Monteleone, coordinatrice del pool dei magistrati che si occupa dei reati sui minori. Avvierà una indagine per omicidio e tentato omicidio. Sono in corso anche i rilievi tecnici dei carabinieri del nucleo investigativo di via In Selci per ricostruire con esattezza la dinamica dei fatti. A dare per prima la tragica notizia è Lillo Di Mauro, presidente della Consulta penitenziaria e responsabile della struttura romana protetta per le detenute madri “Casa di Leda”. «Ho appreso la notizia direttamente dai volontari e operatori che operano nella struttura – spiega a Il Dubbio Di Mauro -, e tutto il personale è sconvolto visto la loro attenzione alle questioni che riguardano i bambini». Lillo Di Mauro ha colto anche l’occasione per dire a Il Dubbio che questa tragedia si poteva evitare visto che i bambini – per legge – non ci devono proprio stare in carcere. Si riferisce alla legge del 2011 la quale prevede che le detenute madri devono scontare la pena con i loro figli fino al compimento del sesto anno di vita del bambino, non più solo fino al terzo, ma non in carcere. L’intento della norma è di facilitare l’accesso delle madri alle misure cautelari alternative. La pena deve essere quindi scontata in istituti a custodia attenuata (ICAM), luoghi colorati, senza sbarre, a misura di bambino. Sono però in media circa 60, in Italia, i bambini al di sotto dei tre anni che ogni anno entrano in carcere con le mamme. In alcuni casi sono ospitati in asili nido colorati, ma non tutte le strutture femminili riescono a garantire questi spazi. E così capita anche che un bambino o una bambina debba crescere dietro le sbarre, scontando la pena per una colpa che non ha commesso. Oltre all’ICAM, sempre secondo la legge del 2011 si dovrebbe privilegiare la casa famiglia protetta dove le donne che non hanno un posto possono trascorrere la detenzione domiciliare portando con sé i bambini fino a 10 anni. Sono dei veri e propri appartamenti, le madri possono portare a scuola i figli, assisterli in ospedale se sono malati. Niente sbarre, niente cancelli. Sono strutture inserite nel tessuto urbano, possono ospitare un massimo di sei nuclei familiari e devono rispecchiare le caratteristiche di una casa: spazi personali, servizi, luoghi per giocare. Ad oggi ne esiste solo una, ed è proprio “Casa di Leda” inaugurata un anno fa. La casa non a caso è intitolata a Leda Colombini, figura di primissimo piano del Pci e, negli ultimi anni, strenuo difensore dei diritti delle mamme detenute. Morì nel 2011, all’età di 82 anni, in seguito a un malore che l’ha colpita nel carcere di Regina Coeli, dove stava svolgendo la sua quotidiana opera di volontariato. Nel volontariato in carcere, come presidente dell’associazione – tuttora attiva – “A Roma Insieme” aveva promosso numerosi progetti a favore delle mamme detenute e, soprattutto, per i bambini fino a tre anni reclusi nel carcere romano di Rebibbia con le loro madri. Il responsabile della “casa di Leda” ha spiegato a Il Dubbio che la struttura è nata per ospitare sei madri con bambini fino al decimo anno di età. «Ma da tempo – denuncia Lillo Di Mauro – ne ospitiamo solo quattro, ci sono due posti liberi: come mai alcune di quelle madri ristrette a Rebibbia non sono state fatte giungere qui?». Il responsabile conclude con un auspicio: «Questa tragedia deve sollecitare il parlamento a trovare la soluzione definitiva di questo problema relativo ai bambini in carcere!».

Mai più bimbi in galera. Ma in Italia sono almeno 60. È lunga la lista dei minori costretti a vivere dietro le sbarre, scrive Simona Musco il 19 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Sessantadue bambini dietro le sbarre. Anzi 60 da ieri, dopo la morte del bimbo di quattro mesi e il ferimento grave del fratellino di due anni, che i medici stanno tentando di strappare alla morte. Numeri in crescita: a dicembre 2017 erano infatti 56 i minori costretti a vivere in carcere assieme alle proprie madri, 37 a fine 2016. I dati, pubblicati sul sito del ministero dell’Interno, fotografano la situazione in tutta Italia al 31 agosto. Nel nostro paese si contano 2551 detenute, 52 delle quali vivono in compagnia dei propri figli, troppo piccoli per allontanarsi dalle madri. Sono 15 gli istituti che ospitano madri e figli: 27 sono italiane, in cella assieme a 33 bambini. Venticinque le madri straniere, che si prendono cura in stato di detenzione di 29 bambini, in una condizione lontana anni luce da una normale infanzia. I numeri più alti sono quelli di Rebibbia, dove ieri si è consumata la tragedia: al “Germana Stefanini” sono presenti 16 bambini a seguito di 13 madri. Un carcere sovraffollato, dove sono presenti 353 donne su 276 posti disponibili. A seguire c’è il Lauro Icam – istituto a custodia attenuata per detenute madri -, in Campania, con 12 bambini e 10 madri. Un istituto che rientra nelle strategie stabilite dalla legge 62/ 2011, pensata per valorizzare il rapporto tra le madri e i loro figli all’interno del penitenziario, in ambienti pensati come una casa- famiglia, per tenere i bambini il più possibile lontani dal clima carcerario. Anni dopo quella legge, però, sono soltanto cinque gli Icam attivati: Milano San Vittore, da dove è partito il primo progetto e dove vivono quattro bambini con le loro madri, Venezia Giudecca (dove sono presenti sei minori e cinque madri), Torino “Lorusso e Cutugno” ( dove si trovano 10 bambini e sette madri), Cagliari e, appunto, Avellino Lauro. E dove gli Icam non esistono, come nel caso di Rebibbia, i bambini finiscono “reclusi”, fino ai 3 anni, nelle sezioni nido nei penitenziari femminili. La legge rimane dunque attuata a metà, facendo, di fatto, ricadere le colpe delle madri sui figli. Come nel “Giuseppe Panzera” di Reggio Calabria, dove è presente una madre straniera assieme ai suoi due bambini, il “Rocco D’Amato” di Bologna, con due madri straniere e due bambini, il “Bollate” di Milano, con tre madri e tre bambini, e una madre con un bambino a seguito negli istituti di Brescia, Foggia, Lecce, Sassari, Messina, Firenze e Perugia. «La tragedia di Rebibbia ci ricorda il dramma dei tanti troppi – bambini che crescono e vivono dietro le sbarre senza aver commesso alcun reato, da innocenti», ha commentato Mara Carfagna, vice presidente della Camera e deputato di Forza Italia. Sette anni dopo la legge sull’istituzione degli Icam, «sono solo cinque le strutture dedicate e insufficienti le case protette: troppi bambini sono oggi condannati a crescere dietro le sbarre. È inaccettabile, oltre che pericoloso. Forza Italia chiederà conto del ritardo accumulato negli anni – ha concluso – e pretenderà che nella legge di Bilancio vengano stanziate le risorse necessarie», conclude. Sulla stessa lunghezza d’onda anche la collega di partito e deputata Renata Polverini. «I bambini non devono pagare le colpe dei genitori e non è giusto che vivano in certe realtà – ha commentato -. Esistono case protette ma non sempre vengono utilizzate. Bisogna riflettere davanti a certe tragedie e se il caso cambiare qualcosa nella legge». Sul caso, la consigliera regionale del Lazio del Pd, Michela De Biase, ha chiesto di ascoltare il VII Commissione welfare il garante dei detenuti e il garante dell’infanzia e dell’adolescenza del Lazio. «Mi auguro si apra presto un dibattito serio sulla presenza dei minori nelle carceri – ha dichiarato -. Le istituzioni hanno il dovere di difendere e tutelare la vita dei minori».

La morte di Cucchi ha lasciato il segno sulla nostra pelle. Successo e polemiche per il film che racconta gli ultimi giorni del giovane ucciso in carcere, scrive Boris Sollazzo il 19 Settembre 2018 su "Il Dubbio". «Quando smetterete di cadere per le scale?». A chiederlo è un secondino, un agente di polizia penitenziaria. «Quando smetteranno di picchiarci». A rispondere è Stefano Cucchi. Questo dialogo è diventato una sorta di parola d’ordine sui social, copiato e incollato ovunque, nelle discussioni fuori sui cinema o sui prati e nei centri sociali. Sulla mia pelle, come non succedeva da anni – neanche per La grande bellezza, che pure era entrato prepotentemente nel dibattito pubblico – ha riportato un film all’interno della dialettica di un paese. Non si parla d’altro, tutti vogliono vederlo. Un miracolo per una realtà marginale, commercialmente e purtroppo culturalmente, come il cinema italiano. Ora tutti sembrano darlo per scontato, eppure la storia di Stefano Cucchi poteva essere respingente e quindi fallimentare. Tanti, troppi di fronte alle prime recensioni positive, hanno reagito istintivamente con un “non so se ce la farò a vederlo”. Lo stesso accadde per lo splendido Diaz di Daniele Vicari con cui Sulla mia pelle di Alessio Cremonini condivide una fedeltà e un’onestà intellettuale verso il materiale processuale e verso la ricerca della verità quasi insopportabile. Ma rispetto a Diaz, che pure ebbe successo in Italia ( 2 milioni di incasso) e fu venduto all’estero, ora c’è Netflix. Ovvero 130 milioni di utenti per 190 paesi e la novità di un’uscita contemporanea in streaming legale e in sala. Il luddismo conservatore tipico di un’Italia pigra e corporativa ha reagito violentemente: in particolare l’Anec e l’Anica, che l’hanno visto come un attacco alla sacralità della sala. Senza capire, purtroppo, che l’enorme visibilità e l’incredibile successo di questo film, anche in sala (seconda media per sala delle ultime uscite), nasce proprio da quel pubblico raggiunto in poche ore. Più che un passaparola, uno tsunami, sottolineato da quella commovente seppur ambigua ondata di proiezioni gratuite pirata che non fanno altro che aumentare il “mito” del film. Commovente, perché costituita da giovani avidi di una storia dura, dolorosa, terribile, di farsi parte di un’indignazione civile. Ambigua perché chi ha “approfittato” del film – che pure era stato messo a disposizione di queste iniziative sociali dal 12 ottobre dai produttori con l’avallo della famiglia Cucchi, che in proposito ha fatto un appello esplicito – ha deciso di agire contro quel produttore, Lucky Red, che ha rischiato di suo per raccontare quella storia che, “piratata”, potrebbe non convenire narrare ad altri. Lo hanno fatto alla luce del sole (spesso troppa, tanto da non riuscire a vedere le immagini sui lenzuoli appesi in questi immensi consessi) perché sapevano che mai, visto il tema di quel film, avrebbe chiamato le forze dell’ordine per impedirlo. E hanno fatto vedere un bellissimo film nelle condizioni peggiori. Una storia italiana, fin troppo. Perché mentre Stefano faceva tanti miracoli, dal far diventare di massa una storia che aveva trovato l’attenzione mediatica solo grazie all’eroismo di Ilaria Cucchi, al far tornare il cinema al centro di tutto, mostrandoci un pubblico avido di storie difficili e impegnate, ci si dedicava al tafazzismo. Gli esercenti, per dire, hanno pensato bene, in gran parte, di boicottare il film. E giustamente il loro rappresentante, guarda un po’ quell’Andrea Occhipinti di Lucky Red che ha messo parecchio di suo per costruire il film e poi ha puntato su questa doppia distribuzione contemporanea, ha mollato. «Ho deciso di dimettermi perché la nostra scelta di distribuire Sulla mia pelle di Alessio Cremonini in contemporanea nelle sale e su Netflix ha creato molte tensioni tra gli esercenti che lo hanno programmato (pochi) e quelli che hanno scelto di non farlo ( molti). II successo del film ha aumentato queste tensioni. Nonostante esistessero dei precedenti in Italia e ci sia un acceso dibattito a livello internazionale, non voglio che una scelta puramente aziendale venga considerata come una posizione della sezione distributori dell’Anica, visto il mio ruolo. Per non creare ombre o imbarazzo ai miei colleghi, ritengo quindi opportuno lasciare la carica di Presidente». Una dichiarazione dura nella parte iniziale e solo apparentemente conciliante nella seconda che fa capire quanto sia lontano il mondo dell’industria cinematografica non solo dalle esigenze del pubblico (altrimenti quelle sale indegne le terrebbero meglio) ma addirittura dalla propria stessa convenienza. Senza Netflix, senza i pirati sociali, senza la fame di questa storia alimentata di ora in ora, non ci sarebbe stato questo clamoroso successo di pubblico (non economico, ed essendo il cinema anche un’industria, è un problema) e questa penetrazione nell’immaginario collettivo. Merito di Alessandro Borghi, che ha il talento cristallino dei migliori interpreti americani degli anni ’ 70 e una modernità di sguardo e recitazione straordinari, della scrittura limpida e tesa di Lisa Nur Sultan, della regia impietosa di Alessio Cremonini, di un Max Tortora sontuoso e di una Jasmine Trinca come sempre perfetta. Ma soprattutto di Stefano Cucchi. Che ha lasciato abbastanza semi per far germogliare una storia tragicamente vera, spudoratamente onesta, raccolta da chi non ne ha voluto fare un santo, pur essendo morto da martire. Questo non è solo un film. Stefano Cucchi siamo noi, per questo lo sentiamo tanto sulla nostra pelle. Stefano, e quindi Alessandro, è tutti noi che le abbiamo prese da chi avrebbe dovuto proteggerci, tutti voi che potreste ogni giorno inciampare in scale che non smettono di picchiarvi. Quest’omicidio di stato ci rimane tatuato addosso nella sua verità, nella disperazione di un ragazzo indifeso che sbaglia troppe scelte e muore perché non trova rami a cui aggrapparsi. Non smettiamo di andarlo a vedere. Sosteniamo il film, sosteniamo la famiglia Cucchi che rimane uno dei pochi motivi per essere fieri di essere italiani. Continuiamo a sentire questa ingiustizia, questa infamia sulla nostra pelle. Ogni giorno, ogni volta che avremo la tentazione di voltare lo sguardo dall’altra parte. Perché Stefano ha cominciato a morire per le botte di quei carabinieri, ma il colpo di grazia l’ha ricevuto dall’indifferenza complice di tutti coloro, con camici e divise e toghe, che non lo hanno aiutato e difeso. Solo facendo valere i suoi diritti. Abbiamo il dovere di non rimanere indifferenti. E di andare in sala, perché non si smetta di raccontare le storie che non vorremmo vedere. Ma dobbiamo.

E Grillo pubblica la lettera di Musumeci al Guardasigilli. Beppe Grillo ha pubblicato sul suo blog una lettera dell’ergastolano Carmelo Musumeci rivolta al ministro della giustizia Alfonso Bonafede, scrive Damiano Aliprandi il 4 Agosto 2018 su "Il Dubbio". Mentre il governo legastellato svuota il pilastro principale della riforma dell’ordinamento penitenziario che punta all’allargamento delle pene alternative, Beppe Grillo – il padre del Movimento Cinque Stelle – ha pubblicato sul suo blog, per la seconda volta, un contenuto critico al sistema carcerocentrico. Questa volta apre alla messa in discussione dell’ergastolo e dell’utilità del 41 bis. Lo fa pubblicando una lettera dell’ergastolano Carmelo Musumeci rivolta al ministro della giustizia Alfonso Bonafede. «Qualche giorno fa ho ricevuto questa mail da Carmelo Musumeci, un ergastolano attualmente in semilibertà. Ha indirizzato la sua lettera al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, e in copia a me. Voglio condividerla con voi perchè so che sarà sicuramente fonte di grande dibattito», così introduce la lettera dell’ergastolano. «Continuo comunque a lottare scrive Musumeci nella lettera contro la pena dell’ergastolo, perché io sono l’eccezione che con- ferma la regola e, purtroppo, stando così le cose, molti miei compagni usciranno solo cadaveri dalle loro celle». Per eccezione, Carmelo, intende che dopo più di un quarto di secolo di carcere duro, sono ormai 20 mesi che è sottoposto al regime di semilibertà, anche se il suo fine pena rimane, come per tutti gli ergastolani, il 31 dicembre 9999. Si rivolge al ministro chiedendo cosa ne pensa della pena dell’ergastolo. «Non crede – scrive l’ergastolano – che pretendere di migliorare una persona per poi farla marcire dentro sia una pura cattiveria? Anche perché in carcere se uno rimane cattivo soffre di meno». Sottolinea al ministro che una persona in carcere «dovrebbe perdere solo la libertà e non la dignità, la speranza, la salute, l’amore e, a volte, anche la vita». Musumeci spiega che «quasi sempre si finisce in questi posti per avere commesso dei reati, ma poi nella maggioranza dei casi si va, di fatto, in un luogo che nega la legalità e dove la legge infrange la sua stessa legge». L’ergastolano denuncia le condizioni del carcere che «in Italia sembra di stare in un cimitero, con molti detenuti nelle brande sotto le coperte a guardare i soffitti, imbottiti di psicofarmaci». Aggiunge che molti di loro «non sono ancora morti, anche se a volte ci comportiamo come se lo fossimo. Il carcere ti lascia la vita, ma ti divora la mente, il cuore, l’anima e gli affetti che fuori ti sono rimasti». E quelli che riescono a sopravvivere? Musumeci scrive nella lettera rivolta a Bonafede che «una volta fuori, saranno peggio di quando sono entrati». L’ergastolano insiste sull’inutilità delle carceri e di come incattiviscono le persone. Un pensiero che rispecchia esattamente quello di Grillo quando pubblicò l’articolo contro l’istituzione carceraria. Poi denuncia il carcere duro. «Cosa c’entra la sicurezza sociale con tutte le privazioni previste dal regime di tortura del 41 bis?», scrive sempre Musumeci. «Io credo che alla lunga – sottolinea l’ergastolano – il regime di tortura del 41bis, e una pena realmente senza fine come l’ergastolo ostativo, abbiano rafforzato la cultura mafiosa, perché hanno innescato odio e rancore verso le Istituzioni anche nei familiari dei detenuti. Penso che sia davvero difficile cambiare quando sei murato vivo in una cella e non puoi più toccare le persone che ami, neppure in quell’unica ora al mese di colloquio che ti spetta. Con il passare degli anni i tuoi stessi familiari incominciano a vedere lo Stato come un nemico da odiare e c’è il rischio che i tuoi figli, che si potrebbero invece salvare, diventino loro stessi dei mafiosi» . Parla della funzione rieducativa espressa dalla nostra Costituzione, che si oppone alla vendetta. «E la pena – scrive l’ergastolano non deve essere certa, ma ci dev’essere la certezza del recupero, per cui in carcere un condannato dovrebbe stare né un giorno in più, né uno in meno di quanto serva. Io aggiungo che ci dovrebbe stare il meno possibile, per non rischiare di farlo uscire peggiore di quando è entrato». L’intento di Musumeci è far venire qualche dubbio al ministro. Così come, pubblicando la lettera, vuole farlo venire anche Beppe Grillo.

Carmelo Musumeci scarcerato, era all’ergastolo ostativo. Per i giudici che gli hanno concesso la liberazione condizionale, Carmelo Musumeci è un'uomo “nuovo”, scrive il 17 Agosto 2018 "Il Dubbio". Con un provvedimento “storico”, il Tribunale di Sorveglianza di Perugia ha concesso la liberazione condizionale a Carmelo Musumeci, condannato all’ergastolo ostativo per reati di criminalità organizzata e in carcere dall’ottobre del 1991. A dare notizia della scarcerazione è lo stesso Musumeci ieri sul suo profilo Facebook: ‘ L’altro ieri ho ricevuto una di quelle telefonate che ti cambiano la vita. Il numero era quello del carcere di Perugia. Mi avvisano di rientrare in carcere perchè devo essere scarcerato’. Per i giudici che gli hanno concesso la liberazione condizionale, Carmelo Musumeci è un ‘ uomo nuovo’, com’è testimoniato anche dal fatto che persegue il suo ‘ riscatto dal passato impegnandosi quotidianamente ad assistere la disabilità’ in una casa famiglia. Nella decisione, il Tribunale della Sorveglianza di Perugia argomenta il provvedimento col quale viene concessa la liberazione condizionale a un ergastolano ostativo evidenziando pure "il percorso di grande crescita personale che ha portato Musumeci a leggere e studiare in carcere con granitica volontà, così da lasciarsi alle spalle la mera licenza elementare posseduta all’avvio della detenzione per fregiarsi di tre lauree". Musumeci, si legge ancora nel provvedimento, ‘ è inoltre divenuto scrittore e conferenziere, principalmente sulle tematiche dell’ergastolo ostativo e in tale veste collabora con studenti universitari delle facoltà giuridiche che a lui si rivolgono’. Maria Brucale, avvocato ed esponente dell’associazione “Nessuno tocchi Caino” spiega all’Agi la portata del provvedimento firmato dai giudici umbri: "Non mi risultano altre casi di liberazione condizionale concessi a ergastolani ostativi. Musumeci godeva già della semilibertà da due anni, dopo che i giudici avevano riconosciuto l'inesigibilità della collaborazione”. È una notizia meravigliosa, un grido di speranza nel buio. Gli ergastolano ostativi, a differenza di quelli comuni, non hanno diritto a benefici penitenziari in assenza di una condotta collaborante con la giustizia, salvo i casi, rari, in cui venga riconosciuta l’inesigibilità della collaborazione. Musumeci durante il periodo di semilibertà lavorava di giorno in una casa famiglia di don Oreste Benzi e di notte faceva rientro in carcere. Ora, con la decisione dei giudici non dovrà invece far rientro dietro le sbarre, ovviamente rispettando le prescrizioni imposte. L’ex boss della Versilia, 63 anni, entrato in carcere con la licenza elementare ne esce con due lauree, una in Legge e l’altra in Sociologia. Tra le sue opere anche “L’urlo di un uomo ombra”. Nei giorni scorsi, ha scritto una lettera sul tema del carcere al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, pubblicata anche dal blog di Beppe Grillo. ‘ Non si può educare una persona tenendola all’inferno per decenni – le parole di Musumeci – senza dirle quando finirà la sua pena. Lasciandola in questa situazione di sospensione e d’inerzia la si distrugge e dopo un simile trattamento anche il peggior assassino si sentirà innocente’’.

Con il suo blog dalla prigione (i testi erano affidati a persone a lui vicine che provvedevano a pubblicarli in rete) e alcuni libri, uno scritto col costituzionalista Andrea Pugiotto, Musumeci è diventato la voce degli “uomini ombra”, cioè i reclusi la cui pena detentiva coincide con la durate della vita e una data che non lascia speranze: 31/12/99999.

Musumeci: «All’ergastolo il carcere da medicina diventa malattia», scrive Damiano Aliprandi il 19 Agosto 2018 su "Il Dubbio". «Mi sono sentito l’uomo più felice dell’universo il giorno che mi è arrivata la telefonata dal carcere di Perugia per dirmi che devo essere scarcerato». È Carmelo Musumeci a spiegare a Il Dubbio quei momenti inaspettati visto che aveva perso ogni speranza per ottenete la liberazione condizionale attraverso l’accertamento della cosiddetta “collaborazione impossibile”. Ha varcato la soglia del carcere fin dal 1991 con una condanna all’ergastolo ostativo. La scadenza della pena è fissata al 31 dicembre 9999, mentre anni fa si scriveva: fine pena mai. Il che vuol dire la stessa cosa. Musumeci ha attraversato dure prove durante gli anni di prigionia. Il 41 bis, le celle di isolamento a causa della sua ribellione al sistema carcerario, si è trovato a combattere non solo contro l’istituzione penitenziaria, ma anche contro diversi detenuti che, appartenendo alla cultura mafiosa, mantenevano l’ordine, quello di subire e basta, senza rivendicare i diritti. Un percorso che l’ha portato a creare relazioni con il mondo esterno, quello della cultura e della politica. È riuscito a creare un ponte con l’esterno, ha scritto diversi libri con prefazioni autorevoli della comunità scientifica come Margherita Hack o Umberto Veronesi. Ha intrapreso dialoghi con Agnese, la figlia di Aldo Moro. È entrato con la licenza elementare ed è uscito con tre lauree. Ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica nei confronti dell’inutilità della pena come l’ergastolo, in particolare quello ostativo che non permette l’accesso ai benefici o alla libertà salvo rare eccezioni e dove si può cambiare la sua condizione solo diventando collaboratore di giustizia. Carmelo ha sempre rifiutato quest’ultima opzione. Ma perché? Nel 1990 fu vittima di un agguato teso dal clan rivale. Fu raggiunto da sei colpi di arma da fuoco, riuscì miracolosamente a salvarsi. Dopo essersi rimesso in sesto, assieme ad altri componenti della banda, organizzò la vendetta e la portò a compimento. Viene arrestato nel ‘ 91 e condannato all’ergastolo ostativo. Se solo avesse voluto, ne avrebbe fatti meno di anni. «Ma avrei messo un altro al mio posto e non me lo sarei mai perdonato», spiega Musumeci. Due anni fa aveva ottenuto la “collaborazione impossibile”: i reati per cui è stato arrestato, infatti, erano finiti in prescrizione. Fare i nomi non sarebbe comunque più servito. Così era riuscito ad ottenere la semilibertà. Oggi, finalmente, è in libertà condizionale grazie alla tenacia del suo avvocato Carlo Fiorio, un professore straordinario di Diritto processuale penale nell’Università degli Studi di Perugia che fu anche relatore della tesi di laurea di Musumeci proprio sull’ergastolo ostativo che non a caso era intitolata “la pena di morte viva”.

La scarcerazione è stata una notizia inaspettata?

«Il passo successivo alla semilibertà, ottenuta due anni fa, è l’ottenimento della libertà condizionale. Ho provato a fare l’istanza già due volte, e tutte e due è stata rinviata soprattutto per un ostacolo».

Quale?

«Il risarcimento. È uno dei requisiti per ottenere la liberazione anticipata. Per rimuovere quell’ostacolo ho dovuto rinunciare al risarcimento di 28mila euro che avevo ottenuto per le condizioni disumane e degradanti che ho subito negli anni 90 nel famigerato carcere dell’Asinara. Sì, lo so, è paradossale che da una parte il ministero della Giustizia ti risarcisce, ma dall’altra si riprende i soldi. Però l’ho fatto ben volentieri pur di ottenere la libertà e dimostrare, con un comportamento concreto, il ravvedimento anche lasciando allo Stato i soldi che mi spettavano».

Ora lei vivrà in libertà, ma per cinque anni a determinate condizioni. Come si vede proiettato nel futuro?

«Sì, ovviamente in questi cinque anni dovrò firmare un giorno a settimana alla caserma dei carabinieri di Bevagna (comune della provincia di Perugia ndr.), non mi posso ovviamente allontanare dalla provincia, posso uscire al mattino alle 6 e rientrare alle 10. Non è una libertà piena, ma finalmente vivo fuori dal carcere e dimoro presso la comunità Papa Giovanni XIII di don Benzi. In questi cinque anni continuerò a fare il volontariato presso la comunità e lo faccio ben volentieri perché è un modo anche per rimediare al male causato facendo del bene. Finiti i cinque anni, l’ergastolo sarà estinto e in quel momento chiederò la riabilitazione per poi – è il mio sogno – aprire uno studio legale che si occupi dell’esecuzione penale. Il mio scopo è quello di continuare ad aiutare – questa volta fuori dalle mura – soprattutto gli ergastolani che sono dentro fin da quando erano giovanissimi».

Facciamo un enorme passo indietro. Lei è entrato in carcere nel ‘91. Come ha acquisito la coscienza che l’ha portata a intraprendere la battaglia contro l’ergastolo?

«Deve sapere che ero un delinquente anomalo. Fin da giovane ero un ribelle, simpatizzavo per la sinistra ed ero molto vicino agli ideali anarchici. Ma a causa di certe condizioni ambientali ero finito per fare il delinquente. Dal momento che mi hanno dato l’ergastolo è scattato un meccanismo mentale paradossale. “Finalmente posso essere me stesso perché non ho nulla da perdere visto che la società mi ha condannato ad essere colpevole per sempre”, mi dicevo. Da lì che è cominciata una mia crescita interiore. Ma essere se stessi, in carcere la paghi cara».

Perché?

«Se studi, ti arricchisci, cominci ad acquisire strumenti che ti permettono di riconoscere i propri diritti, ti scontri inevitabilmente con l’istituzione carceraria. Anche per questo motivo, per me, furono anni duri, difficili, venivo spesso punito perché facevo istanze, reclami, chiedevo ai parlamentari di entrare in carcere per fargli comprendere quello che accadeva, soprattutto all’Asinara. Ma mi sono dovuto scontrare anche con i miei compagni».

Quindi lei si scontrava anche con i detenuti?

«Sì. Molti di loro entravano in carcere già “istituzionalizzati”. Non dallo Stato, ma dalla cultura mafiosa che è volta all’ubbidienza e all’ordine. Mi ritrovai a scontrarmi con alcuni boss mafiosi, perché io pretendevo che ci ribellassimo tutti insieme alle torture che subivamo all’Asinara. Loro invece no, rispondevano che avrebbero subito le umiliazioni e torture a testa alta. Io pur essendo stato un delinquente, avevo acquisito una coscienza ribelle durante le sommosse degli anni 70 che avvenivano anche negli istituti penali minorili. Deve sapere che a 15 anni mi sono fatto il primo carcere: il minorile di Marassi per una rapina in un ufficio postale. Noi stavamo al piano terra, i maggiorenni al primo piano. Uscii peggio di prima. A 16 anni rapinai una bisca clandestina con due amici. Poi ne sono diventato socio. E da lì è iniziata la mia carriera criminale. Ritornando al discorso del mio scontro contro tutti all’interno del carcere, erano momenti che mi ritrovai solo: sia contro la ferocia di quel tipo di Stato, sia contro quelli che rappresentavano “l’antistato”. L’atteggiamento dei boss mafiosi, paradossalmente, convenivano alla direzione del carcere. Quando venivano i parlamentari a far visita ispettiva, le uniche denunce arrivavano da me e pochi altri».

A proposito di solitudine, quando è nato il primo ponte con l’esterno, soprattutto per rendere visibili le sue battaglie contro l’ergastolo ostativo?

«I primi furono gli anarchici che dimostravano solidarietà fuori dal carcere di Spoleto o di Nuoro. Attraverso volantini e comunicati pubblicati tramite internet davano voce agli scioperi della fame degli ergastolani che organizzavo. Ero isolato da tutti e da tutto. Quindi gli devo molto. E poi pian piano sono riuscito a crearmi delle relazioni con altre personalità del mondo libero».

La svolta è stata il suo contatto con un’associazione cattolica.

«Sì, la comunità Papa Giovanni XIII di don Oreste Benzi. Parliamo del 2007 e tutto nacque con un incontro. Pensi che io ero – e lo sono tuttora – un ateo convinto e avevo dei pregiudizi nei confronti dei cattolici. Li consideravo dei “buoni” che andavano a messa e prendevano la comunione. Tutto lì. Era il periodo che provocatoriamente avevamo raccolto petizioni per chiedere di tramutare l’ergastolo ostativo in pena di morte. Quel giorno, al carcere di Spoleto, organizzammo un convegno e si presentò don Oreste Benzi. Lo sfidai ad appoggiare lo sciopero della fame promosso da ergastolani mafiosi. Io, che dei preti non mi fidavo, pensavo che avrebbe risposto di no, invece mi spiazzò perché, sorridendo, accettò immediatamente. Assieme a lui c’erano altri membri della comunità come Nadia Bizzotto, e don Benzi disse loro di appoggiarci e seguirci. Fu lì che si realizzò un grande ponte verso la società esterna e nello stesso tempo, per la prima volta, mi sentii davvero un “colpevole”. Questo accade quando una parte della società ti prende in considerazione e vuole aiutarti nonostante il danno che hai causato».

Lei dice che l’ergastolo è inutile perché è “pena di morte viva”, però lei alla fine ce l’ha fatta a liberarsi.

«L’ergastolo non serve a nulla. Se non hai la speranza di uscire prima o poi, ti dimentichi di essere colpevole e ti ritieni una vittima. Il carcere all’inizio dovrebbe essere una medicina ma a lungo andare diventa una malattia. Io sono un caso eccezionale, ma che conferma la regola. Voglio dire agli ergastolani che sono entrati a 19 anni e sono invecchiati dentro quelle mura che devono lottare, non devono delegare, ma combattere in prima persona partendo dall’istruzione, la lettura dei libri, acquisire una coscienza e liberarsi anche da quell’idea che loro si sentono meno colpevoli di tanti altri detenuti che magari hanno commesso altre atrocità. Ci vuole un cambiamento culturale anche tra i detenuti, non solo dall’alto».

Durante tutti questi anni di prigione, ha mai pensato al suicidio?

«È inevitabile pensarci, soprattutto in quei momenti di sconforto, oppure quando sei in isolamento e ti tolgono tutto. Quando non vedi nessuna via di uscita, pensi di farla finita. Questa sofferenza aumenta ancora di più quando acquisisci una coscienza, ti istruisci, ti alimenti di cultura. In quel momento ti senti diverso dagli altri. Farsi la galera dopo aver acquisito una certa sensibilità, non solo soffri per te stesso, ma anche per gli altri. A volte reagivo io per loro e questo mi portava scontri con le direzioni delle carceri. Io ci ho pensato al suicidio e ricordo di averlo fatto capire alla mia compagna. Lei me lo vietò, perché mi fece capire che avrei fatto del male a lei e ai miei figli. Non sarebbe stato giusto».

In cella 7 anni dopo il reato: la prescrizione è davvero inutile? Il caso di uno chef e di una accusa controversa di violenza sessuale, con la condanna definitiva l’uomo ha perso tutto, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 Agosto 2018 su "Il Dubbio". La certezza della pena: la storia di S. B. dovrebbe far riflettere tutti quelli che la invocano come panacea dei mali che affliggono il sistema giudiziario italiano. S. B è uno chef che ha appena compiuto 50 anni. Nato a Venezia, fin da giovane ha avuto una grande passione per la cucina, e ha lavorato in molti ristoranti in Italia e all’estero. Trasferitosi a Parma agli inizi del 2000, decide di fare il grande passo e di mettersi in proprio aprendo un ristorante di pesce nella patria del prosciutto e del parmigiano. Il successo è immediato. Nonostante il locale sempre pieno, come tutti gli chef, anche S. B. dopo qualche tempo sente il bisogno di rimettersi in gioco e di tentare l’avventura altrove. Nella primavera del 2011 la scelta dunque di vendere il locale di Parma per aprirne uno alle Cinque Terre. La trattativa si rivela alquanto complicata. L’acquirente, una donna della città emiliana, tergiversa, tratta sul prezzo, allunga i tempi. S. B ha invece fretta, avendo già versato un importante acconto per il nuovo ristorante in Liguria. Quei soldi sono quindi indispensabili. Una sera di giugno di quell’anno, quando sembra che finalmente tutto si è sistemato, la donna ci ripensa e si presenta nel ristorante per comunicarglielo. La discussione è molto accesa. Volano parole grosse. S. B. alza anche le mani. La donna esce dal locale e corre subito dai carabinieri. «S. B. l’ha violentata», scrivono i militari, allegando il referto del pronto soccorso che parla di «abrasione ad un braccio». Passano solo pochi giorni e S. B. si ritrova nel carcere di massima sicurezza di Parma. «Tentata violenza sessuale», l’accusa riportata sull’ordine di custodia cautelare. Inutili i tentativi di difendersi. La parola della donna contro quella di S. B. E poi quel referto medico. Dopo alcuni mesi trascorsi in carcere, i domiciliari. Poi l’obbligo di dimora. Finché agli inizi del 2012 S. B. è completamente libero. Il progetto di trasferirsi alle Cinque Terre è rimasto nella testa di S. B. ed è difficile rimanere a Parma dopo quanto successo. Il sogno di avere un locale nel frattempo è sfumato e i soldi dell’anticipo definitivamente persi. Arriva l’estate e S. B. riparte dalla cucina di un ristorante vicino al porto di La Spezia come aiuto cuoco con un contratto a chiamata. Le indagini si chiudono nel 2014. Il processo inizia l’anno dopo. Arriva la condanna in primo ed in secondo grado: 4 anni e mezzo. Nel frattempo S. B. si è sposato, ha comprato casa con un mutuo, ed è tornato a fare lo chef in un importante ristorante delle Cinque Terre. Ma agli inizi di quest’estate la Cassazione conferma la sentenza di condanna. Nonostante il “presofferto”, S. B. deve andare in carcere: i reati di violenza sessuale non ammettono la sospensione dell’ordine di esecuzione. I carabinieri lo vengono a prendere all’alba della scorsa settimana. Secondo la legge deve effettuare un percorso di rieducazione, dietro le sbarre. Anche se S. B. il percorso di rieducazione in questi anni l’ha già fatto da solo: si è sposato, ha rifatto la gavetta fino a guadagnarsi un lavoro a tempo indeterminato (un miraggio di questi tempi), ha comprato casa. Ieri S. B. è stato licenziato: la moglie, a carico, sta cercando urgentemente lavoro. La richiesta alla banca di sospensione del mutuo verrà presentata oggi. Ultima nota. Il ristorante in cui S. B. lavorava è rimasto senza chef proprio nel periodo clou della stagione. La certezza della pena.

Benedetto, recluso a Rebibbia ma lui non sa neanche il perché. Si trova detenuto nel poliambulatorio di Rebibbia, condannato a quattro anni in contumacia, ha un problema cognitivo, scrive Damiano Aliprandi il 30 giugno 2018 su "Il Dubbio". «Ho visitato numerose carceri in tutti questi anni, ma non ho mai visto un caso del genere». Così denuncia a Il Dubbio Irene Testa, membro della presidenza del Partito Radicale, a proposito della visita al carcere di Rebibbia effettuata assieme a Maria Antonietta Farina Coscioni. Una visita particolare perché indirizzata ad una sezione specifica del carcere, il poliambulatorio. Un reparto, quello del G14, nel quale vi sono reclusi detenuti malati, disabili, anche con sofferenze psichiche evidenti. Tra loro c’è l’ex senatore Marcello Dell’Utri che è gravemente malato, così come tanti altri ristretti che potrebbero scontare una pena alternativa al carcere. Ma è anche emerso un caso di uno che non sa nemmeno perché si trova in carcere ed ha 4 anni da scontare. «A differenza degli altri detenuti che hanno sempre qualcosa da chiedere e segnalare – spiega Irene Testa –, non diceva nulla. I suoi compagni di cella hanno insistito perché ci parlassi». L’esponente radicale sottolinea che si era resa conto da sola che qualcosa non andava in lui, perché aveva lo sguardo assente. È un ragazzo e si chiama Benedetto. «Mi sono trovata davanti non un tossico – continua Irene Testa -, non un malato con problemi psichiatrici, non un delinquente, ma un ragazzo, orfano e senza altri familiari che si occupino di lui, che a seguito di un incidente occorsogli in giovane età ha un grave ritardo mentale con invalidità annessa». Ovviamente è tutto da verificare visto che non hanno potuto accedere alla sua documentazione, ma la storia che emerge, se confermata, ha dell’incredibile. Benedetto forse era stato raggirato, una firma a sua insaputa e denunciato per questo. Al processo non si sarebbe presentato, perché neanche sapeva dove si sarebbe dovuto recare. «Secondo il suo racconto – spiega l’esponente radicale Irene Testa – è stato quindi condannato a quattro anni in contumacia». Quindi senza che il giudice lo abbia visto. «Credo che se l’avesse visto -, il magistrato avrebbe capito che qualcosa in lui non andava, un evidente ritardo mentale e che quindi non sarebbe stato in grado di firmare coscientemente».

Benedetto è solo, non ha nessuno. La madre, unico familiare rimasto, sarebbe morta qualche anno fa. Sembrerebbe che sia stato difeso da un avvocato d’ufficio, ma che non avrebbe mai visto di persona. Una storia, ripetiamo se confermata, parla di un buco nero, la scomparsa del mondo esterno e lui, rinchiuso là dentro, in carcere, senza saperne il motivo e senza sapere che cosa gli aspetta. Irene Testa, che tra l’altro è candidata a Garante dei Detenuti della Regione Sardegna, ha denunciato questa storia prendendo spunto da un post su Facebook pubblicato dal grillino Alessandro Di Battista dove si legge che al primo posto vengono i diritti economici, prima ancora di quelli umani e civili. «Una vicenda come questa – denuncia l’esponente radicale – fa capire l’importanza dello Stato di Diritto e che i diritti in generale non diventino di serie A e di serie B». Ora del caso di Benedetto, anche per verificarne la veridicità della sua narrazione, se ne sta occupando il garante dei detenuti della regione Lazio Stefano Anastasìa. Un intervento autorevole che servirà per attivare tutte le garanzie del caso. Può finire in prigione, 4 anni di carcere da scontare, una persona che probabilmente presenta dei problemi cognitivi?

DENUNCE A PERDERE.

«Mio figlio curò zu Binnu per questo fu ucciso», scrive Errico Novi il 18 Agosto 2017 su "Il Dubbio". La madre di Attilio Manca contro la pronuncia che afferma la morte per overdose dell’urologo. Lunedì scorso la giudice del Tribunale di Viterbo Silvia Mattei ha depositato la sentenza con cui si stabilisce che la morte del dottor Attilio Manca fu procurata da Monica “Monique” Mileti, la donna che gli procurò due dosi fatali di eroina. Una sentenza che esclude la pista che legherebbe il suo destino a un’assistenza medica segretamente assicurata a Provenzano. Ma la madre del medico non si arrende: «Un pentito attendibile ha detto che Attilio è stato ucciso per aver assistito Provenzano». Certo qualche iperbole scoraggia. Ad esempio le parole con cui Antonio Ingroia grida la sua verità: “Attilio Manca è una vittima di Stato e di mafia, ma lo Stato non può e non vuole ammetterlo”. Eppure la storia di questo giovane e brillante medico trovato morto, per overdose secondo i giudici, a 34 anni il 12 febbraio 2004, lascia ancora qualche zona d’ombra. Lunedì scorso, alla vigilia di Ferragosto, la giudice del Tribunale di Viterbo Silvia Mattei ha depositato la sentenza con cui si stabilisce che Monica “Monique” Mileti procurò a Manca le due dosi fatali di eroina. La 58enne è stata dunque condannata a 5 anni e 4 mesi di reclusione in primo grado. Con la verità giudiziaria affermata dal magistrato, per l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, verrebbe esclusa la pista che legherebbe il suo destino a un’assistenza medica segretamente assicurata a Bernardo Provenzano. Ma oltre a Ingroia, avvocato della famiglia Manca insieme con il collega Fabio Repici, è la madre del medico, Angela, a non arrendersi: “Il pentito barcellonese Carmelo D’ Amico”, ha scritto la donna su facebook, “ha detto che Attilio è stato ucciso per aver assistito Provenzano: è molto attendibile e tutto quello che ha detto fino ad oggi è stato regolarmente verificato. Che motivo avrebbe a mentire sull’omicidio di Attilio? ”. Secondo la famiglia, l’urologo sarebbe stato ucciso, e la sua morte mascherata da overdose, pochi mesi dopo aver visitato, e forse operato alla prostata, il boss mafioso a Marsiglia. Ipotesi che sarebbe suffragata da una telefonata fatta a casa dal figlio proprio nell’autunno del 2003, in cui spiegò di trovarsi in Costa azzurra per ragioni professionali. Poi, la dichiarazione di D’Amico. E ancora, il fatto che mai in famiglia si era potuto solo sospettare della tossicodipendenza di Attilio. Diverse anomalie nella stanza della casa di Manca a Viterbo in cui il corpo fu ritrovato: per esempio il fatto che i buchi attraverso i quali sarebbe stata iniettata la droga erano nel braccio sinistro, nonostante Attilio fosse mancino. Le tumefazioni al labbro, il fatto che nel bagno fossero state trovate impronte di Ugo Manca, cugino e teste chiave sia rispetto al fatto che l’urologo fosse da anni un “consumatore anomalo” di eroina (non ne veniva intralciato nella sua attività clinica, che svolgeva all’ospedale Belcolle di Viterbo) sia dei rapporti ormai ultradecennali tra lo stesso medico e la spacciatrice da poco condannata. Nelle motivazioni, la giudice Mattei nota come “l’istruttoria non si è limitata a esaminare le prove a carico dell’imputata in relazione al reato di spaccio, ma ha avuto a oggetto una serie di elementi apparentemente non direttamente riferibili al reato contestato che, tuttavia, si è ritenuto opportuno prendere in esame per valutare, infine escludendola, la possibilità di individuare cause alternative alla morte di Manca”. La giudice scrive anche che “altre ipotesi sono estranee all’attuale vicenda processuale”. Come pure che “non esiste una prova diretta della cessione dello stupefacente da Mileti a Manca nei giorni immediatamente precedenti il decesso”. C’è però “una serie di elementi” che “inducono a ritenere” come “l’autrice della cessione fatale sia stata l’imputata”. Soprattutto i “plurimi contatti (telefonici, nda) nei giorni immediatamente precedenti” la morte del medico. Ingroia parla di “ingiustizia”. La pronuncia con cui il Tribunale accoglie la tesi della morte da eroina e dunque nega quella dell’omicidio mascherato da overdose si basa sulle “stesse ricostruzioni lacunose e le stesse considerazioni infondate sostenute dalla Procura, lo stesso incredibile capovolgimento della realtà, la stessa ignobile calunnia verso una persona perbene, un giovane e stimato chirurgo spacciato come un tossicodipendente”. E poi c’è quel grido di dolore della madre Angela. Sull’ipotesi mafiosa la Procura di Roma è prossima all’archiviazione. Difficile che l’esposto alla Procura nazionale antimafia possa modificare le scelte di Piazzale Clodio. Ma un interrogativo continua ad agitarsi: le due verità in conflitto, tragedia personale e manipolazione criminale, potrebbero essere intrecciate? Possibile che proprio averle considerate alternative tra loro impedisca di cercare ancora la verità?

Torino, cade dalla moto per una buca. Il pm vuole archiviare: "Se piove lo scooter si lascia a casa". Una buca nell'asfalto: in caso di pioggia ancora più insidiosa. Secondo il magistrato non c'è nesso causale tra il fondo stradale sconnesso e la caduta, ma soprattutto meglio la prudenza se le condizioni meteo non sono favorevoli, scrive "La Repubblica" l'8 aprile 2017. La pioggia da sola avrebbe dovuto convince lo scooterista a lasciare in garage la moto. Tra la buca in strada e le lesioni provocate dalla caduta rovinosa di un uomo di 37 anni, il 16 giugno del 2015 nel quartiere Vanchiglietta a Torino, non c'è "un nesso causale". E' quanto scrive il pm Vincenzo Pacileo nella richiesta di archiviazione alla denuncia presentata da un motociclista di Giaveno che era finito con la ruota anteriore del suo scooter in una buca tra via Nievo e via Ravina nel mezzo di un temporale. Il motociclista "ha ugualmente voluto proseguire", nonostante la pioggia battente "condizioni di tempo che già di per sé avrebbero sconsigliato di viaggiare in scooter", scrive ancora il magistrato che ha chiesto di archiviare la pratica senza farla arrivare in un'aula di tribunale. La prudenza, insomma -  sembra dire la procura -  comincia ancora prima di mettersi in strada, guardando le previsioni del tempo e se il clima sembra brutto è meglio scegliere un mezzo più adeguato alle circostanze. O comunque andate pure in moto, se vi pare, ma ve ne assumete la piena responsabilità e se le strade sono piene di buche il problema è solo vostro che sfidate il maltempo. E soprattutto poi non lamentatevi pretendendo ragioni e risarcimenti in nome della legge. Per giunta, prosegue il pm, la denuncia dello scooterista è sempre rimasta a carico di ignoti "non essendo stato possibile identificare l'eventuale responsabile". Ma per il legale del motociclista il responsabile c'è ed è da cercare tra chi aveva la responsabilità della manutenzione di quella strada. Ora l'avvocato dello scooterista ha depositato l'opposizione alla richiesta di archiviazione chiedendo nuove indagini.

Si fa la piega nel suo salone: parrucchiera multata. Accusata di evasione, sanzione di 500 euro. L'ultima follia di uno Stato forte solo coi deboli, scrive Riccardo Pelliccetti, Lunedì 10/04/2017, su "Il Giornale". Ormai si sfiora il ridicolo. È vero che l'Italia sia la patria del melodramma, ma certi episodi di rigidità mentale e di pedissequa osservanza delle norme, peraltro assurde, hanno i contorni grotteschi. Stiamo parlando del Stato, naturalmente, e dei blitz della Guardia di Finanza, che è costretta a fare cassa su mandato del fisco. Oramai abbiamo perduto il conto di tutte le multe scaturite dalla fantasia della burocrazia e comminate con zelo dagli agenti che devono compiacere un moloch vorace. Si potrebbe scriverne un libro. Ma ci limitiamo a raccontare l'ultimo caso in ordine di tempo, accaduto a Lecco a una parrucchiera. La signora Mara Lucci, titolare di un salone, è stata sanzionata dalla Guardia di Finanza per essersi fatta la piega nel proprio esercizio senza emettere lo scontrino. Non stiamo scherzando. Se voi avete un'attività commerciale, per esempio un bar, una pasticceria, una salumeria eccetera non potete assolutamente permettervi di bere un caffè, mangiare una pastina oppure un panino col prosciutto anche se appartengono a voi. Il motivo? La normativa sull'autoconsumo che impone, anche al titolare dell'attività, di emettere la fattura o lo scontrino fiscale. Non sappiamo cosa passasse per la testa del creativo legislatore quando ha avuto la brillante ideona, ma sta di fatto che questa è la sconsolante realtà. A questo punto, pensiamo che per qualsiasi pubblico esercente sia più conveniente andare a prendere un caffè, una pasta o un panino dalla concorrenza e non nel proprio esercizio perché, a conti fatti, gli costerebbe meno che autoemettere lo scontrino. La parrucchiera di Lecco, probabilmente ignara di questa vessazione di Stato, ha pensato di farsi la piega nei tempi morti dell'attività, fra una cliente e l'altra. E, senza rendersene conto, è diventata un pericoloso evasore fiscale, tanto da ricevere dai solerti finanzieri una multa di 500 euro. Quando le hanno contestato la violazione, ha pensato a uno scherzo, ma i toni degli agenti l'hanno subito stroncata, facendola sentire una disonesta. La signora Lucci è scoppiata in lacrime e ha invocato inutilmente il buon senso. Il buon senso? È un termine bandito nei dizionari dello Stato italiano, la cui voracità ha ormai raggiunto livelli insostenibili. Quello che sembra un caso di cronaca locale è invece il paradigma di un Paese intero, dove il cittadino è un suddito che deve piegarsi ogni qualvolta un burocrate, da Roma o Bruxelles, imponga norme incomprensibili, contradditorie, in antitesi con il buon senso. Una tirannia subdola e vendicativa. Sembra di vivere in un romanzo di Orwell. E così lo Stato despota, che ci impone di giustificare come spendiamo i nostri soldi quando dovrebbe essere lui a spiegare come spende i nostri, invece di andare a caccia di grandi evasori, di coloro che sfruttano il lavoro nero minacciando la previdenza pubblica, dei possessori di grandi patrimoni al di là dei confini, spreme i cittadini-sudditi. E se la prende con una parrucchiera di Lecco o con un barista di Albisola Superiore, che si è bevuto un caffè nel proprio bar, costatogli 500 euro; perseguita un cafè restaurant di Carpi perché il titolare ha evaso 95 centesimi non emettendo scontrini e lo bastona con una multa di 2.400 euro; sanziona pesantemente un imprenditore di San Donà di Piave perché ha scaricato con il carrello elevatore, che non ha la targa, un camion a un metro dall'azienda e non dentro la sua proprietà. Insomma, smettiamola di definire ipocritamente questi episodi come «lotta all'evasione», questa si chiama semplicemente persecuzione fiscale.

Alle mamme che spalmano marmellata 1.032 euro di multa. Scatta la colletta. Accade a Lallio (Bergamo), dove l’Associazione Genitori ha organizzato una marcia non competitiva. Solo il gestore di un chiosco poteva distribuire cibo, ma l’hanno fatto anche le mamme: «Una leggerezza». E un consigliere di minoranza le ha segnalate al Comune, scrive Armando Di Landro l'8 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". Nell’Italia dei parcheggi in doppia fila troppo spesso tollerati e dei favori oltre le regole su cui troppe volte si chiude un occhio, accade anche questo: una multa da 1.032 euro a un gruppo di mamme colpevoli di aver spalmato marmellata sulle fette biscottate per i bambini, durante una marcia non competitiva. Colte con le mani nella marmellata, già, le battute potrebbero sprecarsi, ma stavolta è la sanzione a suonare assurda. Oltre che vera. A settembre l’Associazione Genitori di Lallio, paese alle porte di Bergamo, organizza la «Funny A.Ge. Run», attorno al paese. Per poter somministrare bevande il gruppo chiede un aiuto al gestore del chiosco di un parco del paese, il parco dei Gelsi, che ha già le sue licenze. Sulla carta solo lui potrebbe distribuire bibite e cibo per chi partecipa alla marcia. «Poi però quella mattina, quando abbiamo visto che la partecipazione era alta, ci siamo rimboccate le maniche e abbiamo iniziato anche noi mamme a spalmare marmellata sulle fette biscottate, soprattutto per i più piccoli, senza verificare che lo facesse solo la persona preposta — racconta Marzia Cugini, presidente dell’A.Ge. —. È stata solo una leggerezza, non avremmo mai immaginato quel che è accaduto dopo». Manifestazione ben riuscita, tutto a posto? Solo in apparenza. A novembre l’associazione riceve una comunicazione dagli uffici comunali in merito a «un’indagine amministrativa». E a fine marzo arriva una multa che sembra uno scherzo, ma non lo è, come ha segnalato il settimanale Bergamopost: 1.032 euro, è la sanzione amministrativa che l’Associazione deve pagare. Il tutto dopo una serie di controlli e accertamenti dell’ufficio tecnico iniziati su segnalazione di un consigliere comunale di minoranza, Giacomo Lodovici, della lista «Un paese in Comune Lai-Lallio». Di «comune» c’è ben poco, in questa storia: un gruppo di mamme arrabbiate da una parte, un consigliere d’opposizione dall’altra, che ritiene di aver fatto il suo dovere. Il paese bergamasco si indigna: alla festa degli Alpini sono state messe in vendita, nemmeno troppo provocatoriamente, fette biscottate con marmellata, per aiutare l’Age a pagare la multa. Lo stesso ha fatto la pasticceria caffetteria del paese «Peccati di gola», mettendo a disposizione per l’associazione un salvadanaio dove lasciare le offerte. Esempio seguito da un altro locale pubblico, che preferisce non comparire. Mentre un’azienda del paese ha promesso un contributo di 25 euro per coprire la multa a ogni coppia che sponsorizzerà i suoi prodotti. «Io ho segnalato qualcosa e qualcuno è stato multato, sono io ad aver sbagliato? — chiede il consigliere d’opposizione Lodovici —. Io gradirei che la presidente dell’associazione e il Comune rendessero pubblica la contestazione degli uffici, per far capire meglio quanto accaduto». «La manifestazione aveva tutte le autorizzazioni del caso ed è stata anche molto partecipata — replica il sindaco Massimo Mastromattei —. L’unico difetto dei volontari, e lo dico ironicamente ma anche con amarezza, è che si danno un gran da fare. Dopodiché c’è un certo divario tra il buon senso e le norme. Il caso si è cristallizzato nel momento in cui in Comune è arrivata la segnalazione del consigliere di minoranza: gli uffici hanno dovuto accertare e agire, non potevano fare altrimenti». Il sindaco non lo dice chiaramente ma il messaggio è piuttosto semplice: senza esposto si sarebbe potuto chiudere un occhio. E le mamme? Nel pomeriggio di oggi, sabato 8 aprile, la presidente dell’associazione ha dato l’annuncio soddisfatta, dopo l’amarezza: «Posso dire finalmente che il grande cuore di Lallio ci ha permesso di coprire la cifra della sanzione, ce l’abbiamo fatta. Ci hanno aiutato più associazioni, tra cui gli Alpini, più bar del paese, semplici cittadini che ci hanno portato i soldi in contanti o hanno fatto un bonifico. Com’è accaduto in altri casi, ad esempio quando ci avevano rubato un defibrillatore, anche in questo caso la catena di solidarietà ha funzionato. È bastata una settimana, o poco più».

«La moglie è posseduta»: per i giudici la colpa del divorzio è del demonio. Sentenza a Milano in una causa di separazione: «Eventi inspiegabili anche per i medici e gli esorcisti». E il Tribunale scrive «La signora non agisce consapevolmente, è agìta», scrive Luigi Ferrarella il 6 aprile 2017 su "Il Corriere della Sera". Il Diavolo esiste davvero. Parola del Tribunale civile di Milano. Che in una causa di separazione, pur riconoscendo che il marito avesse ragione nel lamentare l’insostenibilità di un matrimonio sconvolto dagli inspiegabili comportamenti ossessivi della moglie da lui ascritti a possessione demoniaca, in sentenza non ha ritenuto di poter addebitare la colpa della separazione alla moglie: perché costei, a detta dei medici priva di patologie che possano giustificare quei fenomeni, «non agisce consapevolmente» ma «altrettanto chiaramente è “agita”». Se viene voglia di sorridere, passa subito a leggere la motivazione della sentenza depositata dai giudici della IX sezione civile. In partenza sembra una causa di separazione come tante, moglie e marito al capolinea con due figli. Il marito domanda che l’addebito della separazione sia posto a carico della moglie per l’«ossessione religiosa» scatenatale dal 2007 da «devastanti comportamenti compulsivi» ascrivibili «a possessione demoniaca».

E l’istruttoria raccoglie prove che in effetti «hanno sostanzialmente confermato la veridicità materiale» dei «fenomeni inspiegabili» narrati dal marito (anch’egli «fervente fedele» in chiesa) e confermati da molti fedeli, dal parroco, da un frate cappuccino: ecco la signora che cade vittima di improvvisi irrigidimenti o convulsioni corporee «che richiedono l’intervento di terze persone in funzione contenitiva», striscia e si scuote sul pavimento della chiesa, pur essendo di esile corporatura solleva con una sola mano una pesante panca e la scaglia contro l’altare, appare sollevarsi in aria per poi ricadere con «proiezioni paraboliche» a notevole distanza. Lei stessa, ascoltata dai giudici, sussurra solo di «non gradire parlare» di questi eventi sottoposti anche a «un monsignore esorcista della Diocesi di Milano». Anche sua sorella «conferma pudicamente che dal 2007» la familiare «aveva cominciato a stare male, un male che generava “fenomeni esterni e non dipendenti dalla sua volontà”, di cui» nessuno «sapeva dire la natura». E un frate cappuccino si dice «impressionato dai fenomeni “poltergeist”» che «si verificavano sotto i suoi occhi» nella signora, «seguita per diversi anni da sacerdoti investiti ufficialmente della funzione di esorcista».

Il Tribunale - lo si percepisce nell’imbarazzo della motivazione - non sa come uscirne. Negli atti trova «tutte testimonianze che convergono nel confermare comportamenti parossistici della signora», «eventi singolari», «fenomeni inspiegabili» anche «da un clinico medico» che ha sottoposto la donna a «una accurata valutazione psichiatrica», sottoponendola ai vari test scientifici per poi concludere che «la signora non risulta affetta da alcuna conclamata patologia tale da poter spiegare i fenomeni». E tuttavia i giudici scrivono che «la separazione non può essere addebitata alla moglie perché difetta il requisito della imputabilità soggettiva di questi comportamenti» nei quali non esprime una volontà, ma nemmeno simula, e neppure è pazza: «Non agisce consapevolmente», ma «altrettanto chiaramente ella è “agìta”». E «i tormenti» e gli «inspiegabili fenomeni subìti dalla signora sono la causa e non la conseguenza del suo atteggiamento di esasperata spiritualizzazione», attraverso il quale «fa quello che può per guarire». La separazione è così dichiarata dai giudici in via ordinaria, senza «addebito» per alcuno dei coniugi: al marito andrà la casa, alla moglie un assegno di mantenimento.

Giudici, un italiano su due non si fida. Dati ribaltati rispetto a Mani Pulite. Nel ‘94, secondo l’Ispo, la fiducia nei confronti dei magistrati arriva a toccare il 70 per cento. Venticinque anni dopo la realtà è capovolta: secondo il sondaggio Swg, il 69 per cento degli italiani pensa che «settori della magistratura perseguano obiettivi politici», scrive Goffredo Buccini il 21 marzo 2017 su "Il Corriere della Sera". Forse la caduta comincia con un colpo di teatro: la mossa a effetto con cui Antonio Di Pietro, il 6 dicembre 1994, si sfila la toga dopo la requisitoria Enimont, iniziando un’inarrestabile marcia d’avvicinamento alla politica. Nei due anni precedenti il pm simbolo di Mani Pulite arriva, secondo la Doxa, a guadagnarsi la fiducia dell’83 per cento degli italiani. E ancora quell’anno, il ’94, sette italiani su dieci, secondo l’Ispo, si fidano dei magistrati, convinti che non abbiano fini politici. La realtà che un quarto di secolo dopo fotografa l’ultimo sondaggio Swg (fra il 13 e il 15 marzo, su un campione di 1.500 cittadini) è assai diversa. Due italiani su tre non credono nel sistema giudiziario, uno su due ha poca o nessuna fiducia nei giudici. E, soprattutto, la stragrande maggioranza (il 69 per cento, percentuale quasi identica ma rovesciata rispetto al ’94) pensa che «settori della magistratura perseguano obiettivi politici». Il 72 per cento trova «inopportuno» che un magistrato si candidi e il 62 per cento è contrario alle «porte girevoli», ovvero al rientro nei ranghi togati dopo un mandato elettorale. Mondi distanti. Il sondaggio, commissionato dall’associazione «Fino a prova contraria», è stato presentato ieri con l’introduzione dell’ex ministro Paola Severino e l’intervento di Giovanni Legnini. Il vicepresidente del Csm da sempre teorizza distanza tra i due mondi: per evitare «sia in fase di accesso che di reingresso che l’indipendenza della magistratura possa essere messa in discussione dalla militanza a qualunque titolo», spiegò nell’illustrare la stretta in materia del plenum del Csm più d’un anno fa. Naturalmente non c’è solo questo nel grande freddo che pare calato tra gli italiani e i loro giudici. Come è improprio imputarlo al cambio di casacca — da arbitro a giocatore — di un singolo, si chiami pure Di Pietro. Ma la percezione muta. E non pare possa attribuirsi a una svolta garantista dell’opinione pubblica se l’80 per cento continua, sia pur con diversi gradi di convinzione, a ritenere utile la carcerazione preventiva e il 74 per cento invoca mano libera per i magistrati nelle intercettazioni (uno su due è però contrario a pubblicarle sui giornali). Dubbi sul processo. La sfiducia sta, insomma, nell’istituzione, non più percepita come «altro» dalla politica. S’annida tra infelici esperienze quotidiane e distorsioni mediatiche. Quei sei italiani su dieci con poca o nessuna fiducia nel sistema si lagnano soprattutto dell’iter processuale: insomma di quel meccanismo farraginoso che, specie nel campo del civile, trasforma in una vera lotteria ogni causa. Ne deriva, fortissima, l’esigenza di una riforma del sistema, urgente per il 43, importante per il 41 per cento. Quasi sette su dieci invocano un «cambio radicale», a rammentarci pure quanto la riforma Vassalli del 1989 abbia lasciato, in fondo, a metà del guado il processo penale con rito accusatorio: un processo di parti, dunque, in cui il pm resta tuttavia ben al di sopra delle altre parti. Lo scoppio di Tangentopoli, tre anni dopo, non è forse del tutto estraneo a quest’impasse. È un Paese sconcertato. Dai troppi epigoni di Di Pietro, forse, e certo dalle tante invasioni di campo: come si coglie nei sondaggi degli ultimi vent’anni, con la fiducia nei magistrati che cala a picco tra gli elettori del centrodestra per effetto dei processi a Berlusconi, flette poi tra i supporter dell’Unione di Prodi quando i pm si concentrano sul fronte progressista, torna a salire nel centrosinistra tra il 2009 e il 2010, coi berlusconiani di nuovo al governo e nel mirino. Pm come goleador. Questo moto pendolare del consenso, da uno schieramento all’altro, disegna l’incrinarsi di un rapporto. Ora gli italiani non si fidano ma tifano, si sceglie un pm come un goleador della propria squadra. Il tempo del consenso bipartisan è passato, il patrimonio di credibilità che accompagnò i pm di Milano nella primavera del ’92 è dissipato per sempre. E la campana suona anche per noi giornalisti. Quasi un italiano su due ci chiede «più cautela» nel rivelare notizie riguardo persone sulle quali le indagini non sono ancora concluse. Il 48 per cento vorrebbe che se ne «valutassero le conseguenze». Una massima pericolosa se si fa filtro di convenienza politica, ineccepibile se diventa garanzia di umanità.

Lo stato della gogna giudiziaria nel 2016. Uno studio dell'Unione delle camere penali: dopo avere esaltato arresti e indagini, soltanto l'11% degli articoli racconta come va a finire un processo, scrive Maurizio Tortorella il 15 dicembre 2016 su Panorama. È probabilmente la prima volta che un tribunale penale aggredisce la "gogna giudiziaria" su internet. Il primato spetta a Genova, dove sono state appena depositate le motivazioni di una sentenza del 20 giugno scorso (per i cultori del genere, è la numero 3582). È una condanna per diffamazione: stabilisce che "chi inserisce notizie a mezzo internet relative a indagini penali è tenuto a seguirne lo sviluppo e, una volta appreso l'esito positivo per l'indagato o l'imputato, deve darne conto con le stesse modalità di pubblicità. In caso contrario è configurabile il reato di diffamazione a mezzo stampa". Il processo di primo grado ha chiuso così la vicenda della pubblicazione sul sito di un’associazione di consumatori della notizia relativa al rinvio a giudizio per concussione del presidente e vicepresidente di un'associazione, alla fine di un’inchiesta su presunti appalti irregolari. In seguito, i due indagati erano stati prosciolti, ma la notizia online non era mai stata aggiornata. Per il tribunale di Genova il reato sussiste in quanto non c'è dubbio che "l'omesso aggiornamento mediante inserimento dell'esito del procedimento penale" configuri un comportamento diffamatorio. Per il giudice, infatti, la qualifica di un soggetto quale indagato o imputato "è certamente idonea a qualificare negativamente l'immagine, il decoro e la reputazione di una persona, soprattutto quando si tratta di soggetto noto al pubblico". Quindi la notizia, che pure era vera e corretta al momento della sua pubblicazione online, avrebbe dovuto essere aggiornata perché smentita dall'evolversi del procedimento penale. "La verità della notizia" sostiene testualmente la condanna "deve essere riferita agli sviluppi d’indagine quali risultano al momento della pubblicazione dell'articolo, mentre la verifica di fondatezza della notizia, effettuata all'epoca dell'acquisizione di essa, deve essere aggiornata nel momento diffusivo, in ragione del naturale e non affatto prevedibile percorso processuale della vicenda". La sentenza, ignorata dai siti internet come dalla stragrande maggioranza dei giornali, arriva proprio nel momento in cui l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle camere penali italiane (l’associazione degli avvocati penalisti) dà alle stampe un saggio rivelatore. Per sei mesi, dal giugno al dicembre 2015, gli avvocati hanno raccolto e analizzato la cronaca giudiziaria di 27 quotidiani. È una massa imponente di materiale: 7.373 articoli. Quasi sette su dieci danno notizie sulle indagini preliminari, e in particolare il 27,5% tratta dell’arresto di un indagato. Ma quando poi il processo arriva al dibattimento, l’attenzione si dissolve: solo il 13% degli articoli segue le udienze in tribunale. Va ancora peggio alla sentenza: appena l’11% degli articoli informa i lettori su come è andata a finire la vicenda giudiziaria che nelle fasi iniziali, invece, veniva squadernata su pagine e pagine. Beniamino Migliucci, che dell’Ucpi è presidente, scrive che "le informazioni sulle indagini preliminari vengono sapientemente pubblicate e divulgate per creare consenso preventivo". Il risultato è negativo anche sulla correttezza del processo, perché si viola "la verginità cognitiva del giudice, che viene bombardato da informazioni riguardanti le indagini". Secondo lo studio, gli articoli sono dichiaratamente colpevolisti quasi nel 33% dei casi; un altro 33% riporta le tesi della pubblica accusa senza esprimere giudizi; il 24% ha toni neutri. E soltanto il 3% prende una posizione più garantista, se non direttamente innocentista. Soltanto il 7% degli articoli riporta notizie di natura difensiva, fornite dall’avvocato dell’indagato o dell’imputato. 

Devastare le città non è reato Assolto un altro antagonista. Alla vigilia delle proteste di Roma cade l'accusa principale contro il leader No Expo per i danni del 1° maggio a Milano, scrive Luca Fazzo, Sabato 25/03/2017, su "Il Giornale".  Alla lettura della sentenza gli imputati si abbracciano in aula, increduli. E allo stesso modo potrebbero festeggiare i loro compagni di fede che oggi si preparano a calare su Roma per urlare la loro rabbia contro le celebrazioni dei Trattati di Roma, perché la sentenza pronunciata ieri dalla Corte d'appello di Milano sancisce l'inerzia dello Stato davanti alle violenze di piazza: violenze annunciate e micidiali come quelle che il Primo Maggio 2015 rovinarono l'inaugurazione di Expo, e come quelle che - secondo l'allarme del Viminale - frange antagoniste apparecchiano per la giornata di oggi nella Capitale. A quasi due anni di distanza dal giorno di fuoco inflitto a Milano dai no Expo, con le forze dell'ordine attaccate a freddo e una lista interminabile di auto, negozi, banche e vetrine incendiate e distrutte, la Corte d'appello milanese annulla l'unica condanna per devastazione inflitta in primo grado. Già era quasi grottesco che delle centinaia di incappucciati del Primo Maggio ne fosse stato condannato solo uno. Ora anche quell'uno - Andrea Casieri, 38 anni, militante di un centro sociale milanese - viene salvato dai giudici d'appello: la devastazione sparisce, i tre anni e otto mesi inflitti in primo grado si riducono a due anni e quattro mesi per resistenza e travisamento, la prospettiva di finire davvero in carcere a scontare la pena svanisce nel nulla. Casieri raggiunge gli altri tre imputati nella certezza dell'impunità. Tripudio in aula. Nel dispositivo letto dal giudice Guido Piffer, Casieri viene assolto «per non avere commesso il fatto». Significa che la devastazione vi fu (e sarebbe difficile negarlo, di fronte a immagini che fecero il giro del mondo) ma che il giovanotto non ne risponde. Come e più dei giudici di primo grado, la Corte d'appello spezzetta l'analisi dei fatti, si ferma al singolo gesto del singolo incappucciato: una scelta che nel suo ricorso contro le assoluzioni dei compagni di Casieri il pm Piero Basilone aveva definito «illogica» e «inaccettabile», perché in una guerriglia pianificata come fu il Primo Maggio «l'agire di ciascun imputato nel medesimo contesto criminoso ha generato i gravi fatti di devastazione: e ogni facinoroso aveva la chiara percezione del contributo materiale e morale dato con la propria condotta al complessivo ampio scenario di devastazione». Ad Andrea Casieri, peraltro, la sentenza di primo grado attribuiva ruoli diretti e addirittura di comando tra i black bloc protagonisti delle violenze: «Le foto consentono di apprezzare come Casieri sia stabilmente posizionato nel gruppo di appartenenti al blocco nero, anche armati di bastone (...) l'azione di Casieri si segnala come quello di coordinamento/direzione di persone partecipanti agli attacchi»: è lui, scrisse il giudice, che fa segno di avanzare, lui a «presidiare l'avanzamento di un contingente in attacco», lui a «dirigere il formarsi di un altro contingente armato di bastoni e dotato di caschi». Bisognerà attendere le motivazioni per capire come, di fronte a simili comportamenti, la Corte abbia deciso di graziare l'unico condannato. Resta il fatto che il bilancio giudiziario della peggiore giornata vissuta da Milano è un nulla di fatto. In diretta, durante gli scontri, le forze dell'ordine scelsero (su ordine del governo) di non intervenire, anche quando sarebbe stato agevole farlo, lasciando di fatto mano libera ai violenti. «Li identificheremo, li processeremo e li puniremo», venne garantito all'epoca. Sono stati identificati e processati: ma nessuno è stato punito. A rispondere di devastazione restano solo cinque anarchici greci: che se ne stanno tranquilli a casa loro, dopo che Atene ha rifiutato la loro estradizione.

Il procuratore assolve gli scafisti: «Sono migranti come gli altri», scrive Simona Musco su "Il Dubbio" il 24 marzo 2017. Secondo Carmelo Zuccaro, capo dei Pm di Catania, chi guida i barconi viene scelto tra gli stessi rifugiati: «Gli danno in mano una bussola, un telefono satellitare e una rotta da seguire». Inutile prendersela con gli scafisti: sono migranti disperati come gli altri, scelti a caso al momento della partenza. A dirlo, davanti al comitato Schengen a Palazzo San Macuto, è stato il procuratore di Catania Carmelo Zuccaro. Una consapevolezza nata da un’indagine conoscitiva effettuata sui flussi migratori volta a fare chiarezza sul ruolo delle organizzazioni non governative nell’ambito del salvataggio in mare. Dall’indagine, è stato spiegato nel corso dell’audizione, sono emerse ipotesi di collaborazione “eccessiva” tra ong e trafficanti di uomini durante i viaggi della speranza. Accuse che sarebbero già state prospettate in due rapporti di Frontex, con riferimento alla rotta migratoria dalla Libia all’Italia. In uno dei rapporti si leggerebbe che i migranti irregolari provenienti dal nord Africa avrebbero ricevuto indicazioni chiare alla partenza sul tragitto da seguire per raggiungere le imbarcazioni della Ong. Una presenza, quella delle organizzazioni non governative, che non ha diminuito il numero di morti in mare. «Quelli che riusciamo a prendere sono soltanto gli scafisti ma questi scafisti non sono né più né meno che migranti individuati a caso», ha spiegato Zuccaro. Le indicazioni fornite ai magistrati, dunque sono chiare: «Ho detto loro che non si doveva più richiedere misura cautelare nei loro confronti perché la gravità della condotta a loro ascrivibile non era tale da giustificare la misura, essendo da giudicare come migranti a tutti gli effetti. Registriamo così una sorta di scacco che la presenza di queste ong provoca nelle attività di contrasto nel fenomeno degli organizzatori del traffico». Una visione illuminata che svuota le carceri da quelli che finiscono per essere vittime due volte. Zuccaro ha spiegato come i barconi utilizzati dai migranti siano sempre più inadeguati al loro scopo, così come inidonee sono le persone che si mettono alla guida degli stessi. «Ormai non sono più persone che appartengono, seppur a livello basso, all’organizzazione del traffico, ma persone scelte all’ultimo momento tra gli stessi migranti, a cui viene data in mano una bussola e un telefono satellitare e a cui si dice di seguire una determinata rotta che tanto prima o poi li verrà a soccorrere una ong. Ma per quanto queste organizzazioni possano essere numerose – ha aggiunto Zuccaro – non riescono a coprire tutto l’intenso traffico che parte dalle coste della Liba. Cosa comporta per quanto riguarda l’attività giudiziaria? La possibilità di intercettare i cosiddetti facilitatori, che accompagnavano le imbarcazioni nei primi tratti, ce la possiamo dimenticare, perché queste ong hanno fatto venir meno questa esigenza». Le indagini puntano a comprendere i canali di finanziamento di queste organizzazioni, in molti casi ingrassate con il 5 per mille. Sono 13 le navi di ong attive nel Canale di Sicilia e nei primi mesi del 2017, a Catania, il 50% dei migranti soccorsi è arrivato a bordo di quelle. Zuccaro ha anche evidenziato, nel corso dell’audizione, «fenomeni di radicalizzazione al terrorismo» registrati tra i migranti finiti in carcere. «Ci giungono segnalazioni molto concrete – ha spiegato – di fenomeni di reclutamento, di radicalizzazione che vedono come promotori alcuni dei migranti che sono stati arrestati per avere commesso degli illeciti e che a loro volta tentano di fare proselitismo nelle carceri. E nei due istituti di Catania abbiamo riscontri su questo». Fenomeni di radicalizzazione si sarebbero registrati anche in alcuni centri in cui è vivo il fenomeno del ‘ caporalato”, nei campi e nelle serre dove i migranti entrano in contatto con soggetti che poi sono risultati più o meno collegati con organizzazioni terroristiche. Il sospetto è che parte dei soldi derivanti dal traffico di clandestini finisca nelle mani di gruppi militari o paramilitari. «Non si possono escludere anche organizzazioni che siano collegate con il mondo del terrorismo – ha spiegato -. La mafia non è interessata direttamente dal traffico di migranti, se non indirettamente e in maniera marginale nel caporalato, perché agisce dove ci sono i grandi flussi finanziari, come quelli per i centri di accoglienza e assistenza. Le organizzazioni criminali hanno grosso interesse a potere intercettare il flusso di denaro abbastanza cospicuo che riguarda i centri di accoglienza». Come il Cara di Mineo, dove la criminalità «ha preteso l’utilizzo d’imprese a lei vicine o collegate per ottenere appalti da parte delle cooperative che gestiscono il Centro accoglienza richiedenti asilo».

Treviso, giudice inseguito in auto: "Io mi armo, lo Stato non c'è". Lettera aperta ai quotidiani Finegil del magistrato Angelo Mascolo: "Avevo superato un'auto e me la sono trovata dietro che mi abbagliava. Finché ho incontrato una pattuglia dei carabinieri. E i miei inseguitori hanno detto che volevano solo esprimermi critiche per la guida. Cosa sarebbe successo se mi avessero aggredito e io, armato come è mio diritto, avessi sparato? Troppe leggine tutelano simili gentiluomini", scrive Paolo Gallori il 24 marzo 2017 su "La Repubblica". Se un giudice irrompe a livello personale nel dibattito che divide la Nazione tra chi invoca il diritto di armarsi per difendersi e chi invece crede fermamente che l'uso della forza debba restare monopolio dello Stato, la sua opinione pesa. E se lo stesso giudice si schiera con il primo, proprio in quel Nordest dove esercita e dove il tema è rovente, il peso di quella opinione diventa incalcolabile. Perché destinato a spaccare il fronte di coloro ai quali proprio lo Stato demanda l'amministrazione delle sue prerogative chiedendo loro fedeltà e distacco rispetto ai tumulti dell'anima del comune cittadino. Ma è proprio l'esperienza da comune cittadino che si sente in pericolo e scopre di non sentirsi protetto dallo Stato che ha indotto il togato trevigiano Angelo Mascolo a lanciare la sfida. Pubblicamente, con una lettera aperta indirizzata ai quotidiani veneti del gruppo Finegil in cui racconta dell'incubo personale vissuto non tra le pareti domestiche ma in auto, l'abitacolo come unica barriera protettiva dalla violenza della strada e l'acceleratore come unica ancora a cui aggrapparsi per sfuggire al male. Per tenersi a distanza dai fari abbaglianti di un inseguitore senza volto, che ti bracca e ti sfinisce. Come in Duel, il film di debutto di Steven Spielberg. Se nella pellicola l'automobilista corre su strade aride e deserte senza trovare un'anima che corra in suo aiuto, il giudice Mascolo si imbatte invece in una pattuglia dei carabinieri. Ma il finale della storia non è quello che l'inseguito si aspetta. E allora il giudice rompe gli indugi e annuncia: "D'ora in poi sarò armato". Nella lettera Mascolo fa riferimento a un episodio accadutogli qualche sera fa. Aveva sorpassato un'auto di grossa cilindrata e una volta davanti si era ritrovato la maschera aggressiva della vettura incollata dietro e raffiche di abbaglianti ad accecarlo rimbalzando sui suoi occhi dallo specchietto retrovisore. Situazione anche piuttosto familiare agli automobilisti delle grandi città, dove sulle strade accanto alle auto corrono gli stress, i malumori, l'aggressività repressa di chi è al volante. Ma dove il coatto confronto con un "altro" senza identità risveglia anche paure e insicurezze addormentate tra le pieghe più profonde dell'inconscio. Uno di quei momenti in cui ci si ritrova a sperimentare una legge della giungla con cui l'umanità si è illusa di aver chiuso con il contratto sociale. Il giudice è immerso in quello che percepisce come un confronto diretto e dalle conseguenze imprevedibili con un improvviso nemico, quando esce dalla giungla e torna nella civiltà, rappresentata dalla pattuglia di carabinieri. Di fronte alle divise, i selvaggi e aggressivi inseguitori tornano cittadini, ritrovano l'uso della parola. E si spiegano: Mascolo era stato "seguito" per "esprimere critiche sul suo modo di guidare". A freddo, il giudice si fa delle domande. E si dà le sue risposte, arrivando alla fine a dubitare del senso del suo stesso lavoro. "Se fossi stato armato, come è mio diritto e come sarò d'ora in poi, che sarebbe successo se, senza l'intervento dei carabinieri, le due facce proibite a bordo della Bmw mi avessero fermato e aggredito, come chiaramente volevano fare?". E aggiunge: "Se avessi sparato, avrei subito l'iradiddio dei processi - eccesso di difesa, la vita umana è sacra e via discorrendo - da parte di miei colleghi che giudicano a freddo e difficilmente - ed è qui il grave errore - tenendo conto dei gravissimi stress di certi momenti". Il problema della legittima difesa "è un problema di secondo grado - accusa Mascolo - come quello di asciugare l'acqua quando si rompono le tubature. Il vero problema sono le tubature. E cioè: lo Stato ha perso completamente e totalmente il controllo del territorio, nel quale, a qualunque latitudine, scorazzano impunemente delinquenti di tutti i colori". Per il giudice, "la severità nei confronti di questi gentiluomini è diventata, a dir poco, disdicevole, tante sono le leggi e le leggine che provvedono a tutelarli per il processo e per la detenzione e che ti fanno, talvolta, pensare: ma che lavoro a fare?".

"Lo Stato non c'è, voglio un'arma". Lo sfogo del giudice terrorizzato, scrive il 25 marzo 2017 Alessandro Gonzato su "Libero Quotidiano". Che in Italia la questione della legittima difesa sia molto sentita non è una novità. Ma non avevamo mai sentito un magistrato affermare pubblicamente - e con una simile veemenza - di volersi armare per difendersi dai delinquenti, «perché lo Stato ha perso completamente il controllo del territorio». Il giudice Angelo Mascolo, componente dell'ufficio dei gip del tribunale di Treviso, ha inviato una lettera ad alcuni quotidiani veneti per denunciare il clima di insicurezza che ci attanaglia. Ha preso spunto da un episodio capitatogli qualche sera fa quando, sorpassata un'auto, il conducente (che viaggiava con un passeggero) ha cominciato a inseguirlo a colpi di abbaglianti. Il giudice, qualche minuto dopo, ha incrociato una pattuglia dei carabinieri, ha segnalato gli inseguitori che, fermati, si sono giustificati dicendo che volevano solo esprimere le proprie rimostranze sul modo di guidare del magistrato. Il quale nella lettera si chiede: «Se fossi stato armato, come è mio diritto e come sarò d' ora in poi, cosa sarebbe successo se, senza l'intervento dei carabinieri, le due facce proibite a bordo della Bmw mi avessero fermato e aggredito, come chiaramente volevano fare? Se avessi sparato», continua Mascolo, «avrei subito l'iradiddio dei processi - eccesso di difesa, la vita umana è sacra e via discorrendo - da parte di miei colleghi che giudicano a freddo e difficilmente, ed è qui il grave errore, tenendo conto dei gravissimi stress di certi momenti». Il magistrato si è poi soffermato sulle conseguenze economiche di una sua eventuale reazione: «Sarei andato incontro quantomeno alla rovina per le spese dell'avvocato». In Italia, secondo il giudice del tribunale di Treviso, «scorrazzano a qualunque latitudine delinquenti di tutti i colori, nonostante gli sforzi eroici di poliziotti anziani, mal pagati e meno ancora motivati dallo scarso rigore della magistratura». Mascolo prosegue puntando il dito contro «le leggi» che spesso tutelano i criminali «e che talvolta ti fanno pensare: ma cosa lavoro a fare? Il lavoro di un giudice penale oggi è paragonabile a quello del soldato al quale, per tenerlo calmo, fanno scavare un buco per poi riempirlo». Va detto che Mascolo non è nuovo a uscite di un certo tipo. Lo scorso luglio, dopo aver scarcerato un imprenditore e due finanzieri accusati di corruzione, in un'intervista aveva derubricato a «regalino» due orologi consegnati a chi doveva effettuare l'ispezione. «Non ho visto nessun elemento da cui si desuma la corruzione» aveva detto, motivando la sua decisione. «Può essere benissimo che questo qui, grato del fatto che non ci sono stati problemi, abbia fatto un regalo di sua volontà. Sono cose che sfuggono alla mente, ci sono reazioni psicologiche che non sono controllabili e che non sono comprensibili». Ma torniamo alla lettera del giudice e alle reazioni che ha suscitato. «Sono contento che anche tra la magistratura comincino a sentirsi voci autonome» dice a Libero Matteo Salvini. «Per molti versi, in Italia, la magistratura è un problema. Io non ho il porto d' armi, però chi ce l'ha deve potersi difendere senza essere perseguitato. Se avessi detto io le stesse cose che ha detto il giudice sarei finito probabilmente sotto processo: sono contento che le abbia dette un magistrato e sarei felice di prendermi un caffè con lui». Va però ricordato che poco più di un anno fa la Lega si era scagliata contro lo stesso giudice reo, secondo il Carroccio, di aver liberato tre immigrati presunti complici di un rapinatore. Questa volta no: il magistrato e i leghisti la pensano allo stesso modo. «Sono d' accordo col giudice Mascolo» afferma il governatore del Veneto Luca Zaia. «Aggiungo che è urgente rivedere e ampliare al massimo il concetto di legittima difesa. E i carabinieri, la polizia e la guardia di finanza devono poter scendere in strada con il codice penale, non con il libro del galateo».

"Non urla e non piange": violentatore assolto Torino diventa porto delle nebbie sugli stupri. Terzo caso in poche settimane sotto la Mole: vittime non credute o reati prescritti, scrive Luca Fazzo, Giovedì 23/03/2017, su "Il Giornale". Torino, di nuovo Torino: nelle cronache giudiziarie dei processi per stupro le sentenze che arrivano dal capoluogo piemontese hanno avuto spesso negli ultimi mesi la prima pagina dei giornali; e ogni volta si è trattato di vicende in grado di suscitare dubbi sull'operato dei magistrati chiamati a processare i responsabili di crimini odiosi. Al punto da rendere inevitabile chiedersi se esista un «caso Torino», una sorta di buco nero nella macchina della giustizia che all'ombra della Mole offre ai violentatori la scappatoia verso l'impunità. L'ultimo caso viene alla luce ieri, quando un articolo del Corriere rende note le motivazioni con cui il tribunale torinese ha assolto un infermiere accusato dello stupro di una collega, e hanno proposto alla Procura di incriminare per calunnia la presunta vittima. A rendere inattendibile la versione della donna sarebbe il fatto che durante l'aggressione non avrebbe cercato di difendersi e nemmeno gridato. «Non grida, non urla, non piange e pare abbia continuato il turno dopo gli abusi», scrivono i giudici. Non lamenta dolori, non fa neanche un test di gravidanza, e anche questo convince la corte che menta. Eppure altre sentenze di altri tribunali si guardano bene dal pretendere dalle vittime comportamenti logici e lineari durante e dopo l'aggressione. L'assoluzione dell'infermiere arriva a poche settimane di distanza da altre due notizie torinesi sullo stesso tema: e che sollevano entrambe l'aspetto dei tempi biblici che a Torino permettono a due violentatori di farla franca. Il 21 febbraio si era scoperto che uno stupratore di bambini era tornato libero, dopo essere stato condannato in primo grado a dodici anni di carcere, per il semplice motivo che in dieci anni la Corte d'appello torinese non era riuscita a fissare l'esame del suo ricorso, provocando così la prescrizione del reato. Una manciata di giorni dopo, il 3 marzo, storiaccia simile: un patrigno che stuprava la figlia della sua compagna se la cava in Cassazione con tre anni e mezzo di condanna perché gli altri capi d'accusa sono prescritti grazie alla Corte d'appello torinese ha impiegato otto anni a fare il suo lavoro. Intanto lo stupratore se n'è tornato a casa sua, in Perù, donde difficilmente verrà mai estradato; e a rendere tutto più tragico c'è il fatto che la vittima non conoscerà mai l'esito del processo perché si è ammazzata lanciandosi dalla finestra. Sui giudici che hanno lasciato prescrivere il primo caso il ministro della Giustizia ha disposto una inchiesta interna, ma il timore è che il problema sia più vasto, ovvero una sottovalutazione della gravità di questi crimini e della necessità di reprimerli severamente e rapidamente. Il Giornale ha parlato di numerosi casi di processi per stupro persi per anni nelle nebbie torinesi. E anche altre fonti confermano che - almeno fino a tempi recenti - a Torino nessuno si era mai preso la briga di garantire una corsia preferenziale ai processi per stupro, che finivano a bagnomaria nel minestrone dei furti e delle bancarotte, delle truffe e dei piccoli spacci di droga: perché indicare delle priorità vuol dire anche prendersi responsabilità e correre dei rischi. Ora l'aria sta cambiando: «Sono reati su cui indagare è delicato e complesso - dice il procuratore torinese Armando Spataro - ma i pm che qui se ne occupano lavorano tanto e bene. E col nuovo presidente del tribunale abbiamo stilato un programma che prende di petto queste esigenze». 

Un convegno a Milano per parlare di malagiustizia all’italiana. Dal settimanale Radar del 9 marzo 2017. Basta un piccolo errore, una semplice superficialità, una svista o un cavillo, e qualunque persona può finire nel tritacarne di un sistema giustizia che, come un meccanismo che si inceppa, improvvisamente inizia a lavorare male. E succede così che la vita di quella persona, e la sua salute mentale, subiscono dei danni gravi e sono compromesse per sempre. Quante sono le cosiddette vittime della malagiustizia penale, civile, amministrativa e tributaria in Italia? E come si può fare se si ritiene di stare subendo un errore giudiziario? A Milano dal 2012 è nata un’associazione che si chiama Aivm. L’ha fondata Mario Caizzone, un commercialista siciliano che da trent’anni lavora a Milano e che, sulla sua pelle, ha sperimentato il tormento e la pena di essere accusato ingiustamente. Finì dentro un’inchiesta avviata dalla Procura di Milano nel 1993 quando venne ritenuto responsabile del fallimento della società Imprenori spa: peccato che Caizzone non aveva mai ricoperto in quella società nessuna carica.

“Il mio processo è durato 21 anni – racconta – e soltanto dopo 21 anni sono stato finalmente assolto”. In questo tempo lunghissimo ci sono stati per lui arresti domiciliari, finanzieri che non lo hanno mai ascoltato (lui lo ha raccontato, col risultato che poi è stato rinviato a giudizio per calunnia per poi, dopo il processo nel pro- cesso, essere assolto), amici che lo hanno abbandonato, carte su carte, solitudine e sofferenza interiore. Ancora adesso, quando lo racconta, gli viene da piangere. Gli hanno rovinato così tanto la vita che l’associazione l’ha fondata lui. Con l’obiettivo di aiutare tutti quelli che sono vittime di sbagli. E le storie sono tante.

Tanto per fare un esempio, Mario Caizzone racconta che l’associazione ha provato a fare un sondaggio tra i parlamentati italiani. La domanda era: chi è vittima di un errore giudiziario a chi può rivolgersi? Le risposte da sole fanno capire più di ogni altro commento. Al primo posto: al Padre Eterno. Al secondo posto: al Papa. Al terzo: al Presidente della Repubblica. Al quarto: al Consiglio superiore della magistratura. Al quinto posto: Al consiglio giudiziario presso la Corte d’appello. Nessuna di queste cinque risposte è risolutiva. Chi cade vittima della malagiustizia si può ritenere in un modo e basta: una persona che resterà sola.

Elisa Fasolin è la segretaria della Aivm: “A Milano abbiamo uno sportello in piazza Luigi di Savoia in cui riceviamo le persone e anche un centro di ascolto telefonico allo 02.66715134. Dal 2012 ci sono arrivate 5mila richieste di aiuto. La nostra associazione è tutta composta sol-tanto da volontari: ci sono studenti di giurisprudenza che si fanno le ossa ma anche legali professionisti. Analizziamo tutte le carte che ci vengono fornite, dalla prima all’ultima, e valutiamo se sussiste una base per parlare di malagiustizia. Di quelle 5mila richieste, ne abbiamo portate avanti 3mila. Cosa facciamo? Procediamo per chiedere una revisione del processo”.

Dentro al sito internet aivm.it ci sono le opinioni di parlamentari, esperti, giornalisti che spiegano quali sono le cause secondo loro della malagiustizia. Qui vi riportiamo per fare un esempio quella di Piero Colaprico, firma storica di Repubblica: “Tra le cause, temo che ci sia un intreccio tra la mancanza di professionalità e la mancanza di empatia, in primis da parte di avvocati, che illudono e imbrogliano il cliente, dandogli sempre e comunque ragione, e poi da parte di magistrati, che vedono talvolta numeri e seccature dove ci sono persone e storie”.

Le storie sono tantissime. C’è quella di don Marco Doppido, 47 anni, di Zidibo San Giacomo. “Andavo in bicicletta, c’era un tombino rotto, sono caduto e mi sono rotto una clavicola”, racconta. Il giovane parroco decide di chiedere il risarcimento al comune ma ha un avvocato che lo consiglia male. Succede che una perizia del Tribunale gli dà ragione (quel tombino era pericoloso), ma il giudice, non si sa perché, gli dà torto. Gli arriva il conto delle spese del processo: 8mila euro che deve pagare lui. “Il mio avvocato mi ha detto di pagare e l’ho fatto”. Cornuto e mazziato.

C’è il caso di Giuseppe Casto, di Lecce, che nel 1996 per- de il padre, investito e ucciso da un pirata della strada. Lui e la famiglia si affidano ad un avvocato per chiedere il risarcimento: il legale alla fine chiede una parcella di 160mila euro. Giuseppe li paga. Solo alla fine scopre che l’avvocato si era intascato anche i soldi dell’assicurazione. “Siccome non pagavo, hanno anche pignorato la pensione di mia madre. Alla fine me ne sono andato dall’Italia”.

La faccenda è aggravata da ulteriori due fattori: sui social “si è per sempre”. Sempre più avvocati chiedono l’applicazione del diritto all’oblio perché spesso, quasi sempre, su internet restano articoli datati anche dieci o vent’anni, quando magari una persona ha terminato il processo con l’assoluzione. Ma il problema è a monte: i giornalisti dovrebbero imparare a usare di più il condizionale, quanto meno finché non sono sicuri della colpevolezza di una persona. C’è differenza tra “preso il boss” e “preso il presunto boss”. Ricordiamoci che nessuno è colpevole finché non lo stabilisce una sentenza e in questo Paese esiste la presunzione di innocenza.

Deborah Nasti, avvocato civilista volontaria dell’associazione, aggiunge poi un altro tassello: “In Italia ci sono 250mila avvocati, in Francia ce ne sono 50mila. Un numero così alto, e l’ha detto il magistrato Piercamillo Davigo, è uno dei motivi per cui ci sono così tante cause in Italia.

Al posto di spingere le persone alla conciliazione civile (ndr la conciliazione è il procedimento attraverso il quale due parti in contrasto raggiungono un accordo amichevole con l’aiuto di un terzo), gli avvocati spingono i loro clienti a fare causa. E poi c’è il fenomeno dei cosiddetti avogati, cioè quelli che la laurea in giurisprudenza se la vanno a prendere in Spagna perché è più facile e poi vengono ad esercitare in Italia, peggiorando questo problema”.

Don Virgilio Balducchi è ispettore e cappellano delle carceri. Ha passato la vita a stare dalla parte dei detenuti: “In carcere non ci sono solo colpevoli ma ci finiscono anche innocenti. Uno dei primi che ho incontrato era un pregiudicato che non voleva ammettere di aver commesso un certo reato che gli veniva attribuito. Diceva: io quella cosa non l’ho fatta! Si è fatto quattro anni in più ma alla fine è uscito innocente. Purtroppo la giustizia cerca quasi sempre un colpevole a cui addossare la colpa”. Il cappellano ricorda due frasi dette da Papa Francesco: “State attenti a non incitare alla violenza”, e “Attenzione al populismo penale: non fate processi sui giornali”. Don Virgilio poi ricorda una cosa: “Giustizia non è punire il colpevole ma riconciliare una situazione. Altrimenti è vendetta”. Il carcere in effetti servirebbe a questo: in teoria dovrebbe essere un modo per far pagare una colpa riuscendo però a redimere la persona che ha sbagliato, restituendola alla società consapevole del suo errore e in grado di non sbagliare più.

Masturbarsi in auto davanti ai minori si può: la Cassazione salva un moldavo, scrive il 23 Giugno 2017 Cristiana Lodi su "Libero Quotidiano”. Il moldavo ha cercato le minorenni per sentirsi ispirato. E una volta che queste sono arrivate davanti ai suoi occhi, lui ha preso a masturbarsi. Una volta lo ha fatto in macchina, un’altra al parco e successivamente si è esibito per strada. Alla luce del giorno. E sempre aspettando le bambine. Segnalato dai passanti. Beccato in flagranza in tutte e tre le occasioni. Denunciato e condannato in primo e secondo grado dalla corte d’Appello di Trieste per atti osceni. Fino a quando la corte di Cassazione (sentenza numero 30798 - Presidente Amoresano - Relatore Gentili) non lo ha assolto. Depenalizzando la sua condotta oscena. Motivo? Il maniaco, quegli atti di autoerotismo deliberato e stimolato dalle minorenni, li ha sì consapevolmente messi in scena davanti alle stesse che (anzi) ha appositamente cercato (come riconoscono i giudici), ma lo merita ugualmente di essere assolto, proprio perché quegli stessi atti li ha consumati al parco. E poi per strada, in macchina e non certo in un luogo (per usare le parole del legislatore) «abitualmente frequentato dalle sue vittime», cioè le minori. Insomma per gli ermellini, che già si erano pronunciati allo stesso modo (nel 2015 e nel 2016) assolvendo altri maniaci sessuali per fatti identici, a fare la differenza è il luogo in cui il depravato si masturba.

I giudici lo spiegano nel linguaggio del codice, tecnico ma eloquente: «nel caso in questione, la condotta dell’uomo, sebbene veda come soggetti passivi delle condotte delle bambine o comunque delle adolescenti, non è stata realizzata, come locus commissi delicti» ossia in un ambito territoriale «abitualmente frequentato da minori «come, invece, impone «il secondo comma dell’articolo 527 c.p., affinché il compimento di atti osceni conservi la sua rilevanza penale». Tradotto: il moldavo si è reiteratamente masturbato sotto gli occhi strabiliati e terrorizzati delle bambine, però questo in fondo non è accaduto davanti a un asilo, una scuola, un oratorio o qualsivoglia luogo frequentato “abitualmente” e “sistematicamente” dalle bambine. Basta e avanza dunque per assolvere il moldavo da ogni colpa. Di più quel «abitualmente» e quel «sistematicamente» per i magistrati supremi che hanno pronunciato il verdetto (fotocopia), non sono termini casuali.

E lorsignori provano a spiegarlo. Scrivono: «anche se la nozione di luogo “abitualmente frequentato da minori”, va tenuta distinta da quella di “prevalentemente frequentato da minori”, essa deve comunque intendersi un luogo connotato da una frequentazione nel senso di una certa sua “elettività e sistematicità”, tale da fare ritenere “abituale”, quindi “attesa” ovvero “prevista” sulla base di una valutazione significativamente probabilistica, la specifica presenza di minori in tale ubicazione». Significa che per i giudici, i luoghi abitualmente frequentati da minori, sarebbero le vicinanze di un edificio scolastico, o i centri di aggregazione giovanile. Poco importa che il maniaco masturbatore (da perfetto predatore sessuale) abbia puntato le sue vittime e si sia messo all’opera soltanto quando le bambine gli sono finite davanti; il luogo in cui egli ha agito non era “sistematicamente” battuto dalle sue stesse vittime. Vittime che non si possono proprio definire “per caso”, se è vero che la strada o il parco (magari attrezzato di giostre scivoli e altalene come la maggior parte dei parchi che si definiscano tali), non sono siti interdetti alle bambine. Ma per i giudici in ermellino, si legge nella sentenza numero 30798 «affinché ricorra il predetto requisito della “abitualità” della frequentazione del luogo da parte dei minori non è sufficiente - laddove non si voglia diluire il concetto sino a farlo sostanzialmente coincidere con quello di luogo aperto o esposto al pubblico, in tal modo trascurando la evidente volontà del legislatore che ha inteso conservare la rilevanza penale solamente a quelle condotte che presentino una potenziale maggiore offensività - che in quello stesso luogo si possa trovare un minore, ma è necessario che, sulla base di una attendibile valutazione statistica, sia “altamente probabile” che il luogo presenti la presenza di più soggetti minori di età». Da qui, l’annullamento senza rinvio della sentenza di condanna per il maniaco moldavo, che resterà libero di ripetere i suoi gestacci. Di notte o in pieno giorno, ai giardinetti, in piazza, al supermercato o alle Poste o in chiesa durante la Messa. Insomma liberi di masturbarsi tra la folla, purché le statistiche non dimostrino che la stessa (folla) non sia composta da minorenni. Se gli atti osceni vengono consumati e sbandierati in ogni dove, il massimo che si può rischiare è una multa. Stessa sorte capitata al moldavo, per il quale la Corte ha scritto: «si ordina la trasmissione degli atti al prefetto per l’irrogazione della sanzione amministrativa». Cristiana Lodi

Uccisa nel parcheggio dell’ospedale. «Quel maledetto che ti perseguitava», scrive Giusi Fasano il 22 giugno 2017 su “Il Corriere della Sera”. «Basta, basta, fermati!». Le urla, disperate, prima di cadere a terra colpita alla gola e al petto. È morta così, nel parcheggio dove stava prendendo la sua auto a fine turno, Ester Pasqualoni. Aveva 53 anni, era responsabile del day hospital oncologico dell’ospedale di Sant’Omero, in provincia di Teramo, madre di due ragazzi di 14 e 16 anni, Nausicaa e Alessio. Erano circa le 16. L’aggressione è stata feroce. «L’hanno sgozzata, uno spettacolo straziante» hanno raccontato i colleghi accorsi attorno al corpo a terra, coperto dal lenzuolo verde. Si cercano testimoni, ma sembra che nessuno abbia visto niente. Qualcuno ha sentito le grida e poi un rumore sordo, come un tonfo. Roberta, titolare del ristorante di fronte, è in lacrime: «Stamattina, come ogni giorno, è venuta a prendere un caffè, era tranquilla e gioiosa. Dietro quel sorriso nascondeva le sue paure». Le sue paure avevano un volto ben definito, quello di un uomo più grande di lei, 65 anni circa, di Martinsicuro, un ex investigatore privato che la perseguitava da oltre dieci anni e che lei aveva conosciuto perché aveva in cura il padre. Solo gli amici più stretti di Ester sapevano. «Se non ti posso avere, prima o poi ti ammazzerò» le aveva detto. Lei quasi si vergognava di quelle persecuzioni e cercava di tenere nascosta la cosa al lavoro anche se, in passato, aveva denunciato quell’uomo che la tormentava con appostamenti, telefonate, messaggi. Si era decisa, raccontano gli amici, quando l’aveva trovato sotto casa di Fabrizio, il compagno scomparso a febbraio di due anni fa per un infarto. Si era decisa a farlo, sottolinea il suo avvocato, Caterina Longo, «con ben due denunce, ma non era servito a niente, erano state archiviate. Lui aveva avuto anche il divieto di avvicinarsi ma poi la misura è stata revocata». Il legale non si dà pace e, sul profilo Facebook, scrive: «Quante volte sedute a ragionare di quell’uomo, quel maledetto che ti perseguitava... e non sono riuscita a risolverti questa cosa... Me lo porterò dentro tutta la vita. Ti voglio bene donna e amica speciale... Ti voglio bene». Sul luogo dell’omicidio arriva il pm Davide Rosati. I carabinieri del reparto operativo di Teramo, coordinati dal comandante Roberto Petroli, cercano un’auto, forse una Peugeot 205 bianca, che alcuni testimoni hanno visto girare più volte intorno all’ospedale prima del delitto e poi allontanarsi subito dopo. Chi ha ucciso Ester è stato fortunato oppure molto bravo: nel parcheggio non ci sono telecamere e all’ora in cui la vittima è stata colpita l’edicola all’ingresso era ancora chiusa. «È morta tra le mie braccia. Una cosa assurda pensare che fosse lei» dice Piergiorgio Casaccia, il medico del pronto soccorso di Sant’Omero intervenuto per primo. Racconta di averla trovata a terra, in una pozza di sangue, e di non aver capito subito che era lei. «Quando sono arrivato non aveva polso, non c’era più nulla da fare». Intorno al corpo segni di colluttazione, due borse, il cellulare. Il manager della Asl, Roberto Fagnano, ricorda le qualità professionali di Ester. «È stata uccisa barbaramente una persona che lavorava per salvare le vite degli altri».

Sant’Omero. Ammazzata a coltellate davanti all’ospedale: morta donna medico. Aggredita e ferita a morte, scrive il 21 Giugno 2017 "Prima da noi". Una dottoressa dell'ospedale di Sant'Omero, Ester Pasqualoni, 53 anni, oncologa, è stata accoltellata davanti all'ospedale. Ricoverata in gravi condizioni, si è appreso, è morta poco dopo. Sul posto sono arrivati subito i carabinieri della Compagnia di Alba Adriatica e i colleghi del Reparto operativo di Teramo che hanno trovato la donna riversa in una pozza di sangue. Fatale, secondo i primissimi accertamenti, un fendente alla gola.  A far scattare l'allarme dopo aver coperto il corpo senza vita, a terra tra due macchine, è stato un altro medico che ha tentato di rianimare la donna senza successo. L’episodio si sarebbe verificato intorno alle 16 quando la donna si stava dirigendo verso la sua auto per tornare presumibilmente a casa. Il suo turno era infatti terminato. Pasqualoni, madre di due figli minorenni, abitava a Roseto e aveva già presentato due denunce per stalking. Non si sa se chi ha agito sia proprio la persona indicata dalla vittima come responsabile di atti persecutori. Pasqualoni veniva descritta dai suoi pazienti come un medico preparato, competente e dalla grande sensibilità e umiltà. Nel giro di meno di 24 ore è il secondo delitto efferato che si registra nella provincia teramana.

Ester Pasqualoni, 53 anni, lascia due figli minori, una ragazza di 15 anni e un ragazzo di 17 anni. Un medico molto amato sia nella professione che a livello umano, come testimoniano i tanti colleghi giunti sul posto e i commenti su Facebook postati sotto i profili dei suoi amici. «Abbiamo idea di chi possa essere l'omicida e lo stiamo cercando», ha riferito un investigatore aggiungendo che «si tratta molto probabilmente di una persona che dava fastidio alla vittima». Verifiche sono in corso in merito a denunce che la donna avrebbe presentato. A dare conferma di quanto stesse accadendo è una sua amica, Caterina Longo. «Aveva presentato due denunce contro il suo stalker, ma erano state entrambe archiviate».

L'uomo, dice Caterina Longo, la perseguitava «da diversi anni, la osservava e seguiva, sempre e dappertutto. Si era intrufolato nella sua vita non sappiamo neanche come, con artifici e raggiri. Non era un suo ex, non avevano niente a che fare, era solo ossessionato da lei». E sempre Caterina su Fb aveva scritto: «Quante volte sedute a ragionare di quell'uomo... quel maledetto che ti perseguitava... e non sono riuscita a risolverti questa cosa.....e me lo porterò dentro tutta la vita.....ti voglio bene». E sotto una valanga di commenti di chi l'ammirava. Ad accorrere per primo subito dopo la tragedia un medico del pronto soccorso che era in servizio: «È morta tra le mie braccia. Una cosa assurda pensare che era Ester», dice Piergiorgio Casaccia, che lì, in quella pozza di sangue non l'aveva riconosciuta. Intorno c'erano evidenti segni di colluttazione, c'erano due borse in terra, il cellulare. Una cosa assurda. Poi c'è stata solo disperazione e pianto. Perché, chi, chi può volere del male a Ester? Una persona che ha aiutato tutti i pazienti, anche di notte. Tra le mie mani ha fatto gli ultimi respiri. Assurdo pensare che era Ester».

 «Sapevamo di questa paura che lei aveva e di quest’uomo che la perseguitava. Spesso si faceva accompagnare al parcheggio perchè lei aveva paura», ha detto ancora Casaccia intervistato da Chi l’ha visto?. «Ero a lavorare al pronto soccorso», ha detto il medico, «ad un certo punto è arrivato un signore a chiedere aiuto perchè c’era una persona a terra in una pozza di sangue. Sono uscito con le mie mani nude, non era proprio vicinissimo. Ho visto una persona a terra in una pozza di sangue che stava esalando gli ultimi respiri. Mi è parso subito chiaro che la persona a terra era stata accoltellata. Ho urlato, ho detto “chiamate subito i carabinieri, questo è un omicidio”. Ho sentito il polso ma non c’era più. Ho coperto il corpo e mi sono assicurato che nessuno inquinasse la scena. Poi sono arrivati i carabinieri e sono andato via». Poi il medico ha raccontato di essere stato contattato dai carabinieri che gli hanno mostrato il tesserino di Ester e solo allora ha realizzato che si trattasse della sua collega. «Io purtroppo non l’ho riconosciuta e quando mi sono accorto della barbarie che è capitata mi sono disperato. Una oncologa così non si trova facilmente in giro, aiutava i pazienti al di fuori del lavoro, lei c’era sempre per tutti. E’ stata colpita con l’intento di uccidere. Non è riuscita a dire nulla. Ha esalato gli ultimi respiri, era già in arresto cardiaco». Il luogo del delitto, il parcheggio dell’ospedale, è un luogo ben in vista soprattutto dalle camere e tutto è accaduto in pieno giorno tra le auto parcheggiate a pettine. Tutti dunque avrebbero potuto vedere. Non ci sono invece telecamere che avrebbero ripreso la scena. 

L’amica Caterina Longo ha poi confermato anche a Chi l’ha visto? che Ester si era recata alla questura di Atri per sporgere querela per stalking ma che subito si è giunti alla archiviazione.  «Era una cosa che aveva tenuta nascosta a tutti», ha raccontato Longo, «“Perchè hai fatto la querela ad Atri?” le domandai, “non volevo che si sapesse in giro per non far preoccupare i figli, il compagno e l’ex marito” mi rispose. Lei era fatta così. Ci teneva alla tranquillità dei suoi familiari e doveva risolversela da sola. Devo dire, però, che è andata in questura, ha denunciato i fatti gravi e di essere perseguitata. Aveva mostrato gli sms, gli aveva dato orari e riprese fatte col cellulare, quell’uomo passava davanti casa, al lavoro, all’angolo della strada: se lo trovava ovunque andasse. Ho poi saputo che sono state fatte perquisizioni anche nella sua abitazione ma nelle videocassette che sono state trovate non c’erano fotogrammi che ritraevano Pasqualoni. La denuncia è stata poi archiviata per difetto di querela ovvero Ester non aveva espresso in maniera esplicita la volontà di denunciarlo». La donna, delusa dall’esito della vicenda, non ha voluto fare una nuova denuncia. “Si stancherà” diceva, non aveva nessun tipo di rapporto con questa persona, non aveva mai dato adito a nulla, mai stata insieme, mai uscita insieme.

Poi l’amica ha racconta anche un altro particolare inquietante. L’uomo denunciato sarebbe stato anche fermato dagli investigatori mentre era in auto nei pressi della scuola dei figli della donna e sorpreso a filmare. «Ester sapeva di questa cosa glielo aveva scritto: aveva tante videocassette nascoste in casa ma non le hanno trovate. Una volta le scrisse: “non le troveranno mai”. Lei ha denunciato, ha avvisato le autorità ma non ha voluto fare la guerra giudiziaria opponendosi all’archiviazione: sperava sempre che si stancasse. Ma non è stato così».

Secondo alcune fonti non confermate l'uomo sarebbe stato rintracciato ieri sera a Martinsicuto e arrestato dai carabinieri. Si tratterebbe di un uomo di più di 60 anni. Non sono arrivate però arrivate conferme dalle forze dell'ordine a questa notizia. Sembrerebbe più realistico invece il recupero dell'auto utilizzata dall'uomo vista allontanarsi dalla scena e descritta da alcuni testimoni. Si tratterebbe della Peugeot di colore bianco che è stata ritrovata proprio a Martinsicuro e all'interno vi sarebbero delle macchie di sangue.

Sistema pro-killer: due denunce archiviate, oncologa uccisa dallo stalker, scrive Lucia Mosca il 21 giugno 2017 su "La Notizia.net". Ci hanno abituati ad un sistema che non funziona. Hanno abbassato il nostro livello culturale. Ci hanno abituati ad un sistema ingiusto, privo di tutele, in cui i cittadini onesti non hanno voce. Ci hanno abituati alla violenza, fisica e psicologica, agli abusi, senza poter in alcun modo alzare la voce. Ci hanno abituati a dover assistere alle pantomime della politica come se si trattasse di un dovere, a cui non ci si può sottrarre. Ci hanno anche abituati al fatto che la vita delle persone oneste non vale più nulla. Ci hanno abituati ad una giustizia che non svolge le proprie reali funzioni. Ogni qual volta si parla di violenza, spesso con vittime di sesso femminile, si susseguono stucchevoli interviste in tv che parlano della rete protettiva tessuta intorno alla donna che deve solo avere la forza di denunciare. Tutto ciò non è assolutamente vero. Ne abbiamo parlato nel corso degli ultimi giorni. Dodici denunce senza che si sia ritenuto opportuno fermare il potenziale assassino. La vittima che descrive persino l’arma con la quale si reciderà la sua esistenza. La giustizia arriva solo a fatto compiuto e dopo la morte per mano del killer. Oggi è accaduto di nuovo, a Sant’Omero. Un’oncologa di 53 anni, Ester Pasqualoni, è stata uccisa nel parcheggio dell’ospedale della Val Vibrata. Lei, che salvava vite, è stata brutalmente uccisa probabilmente per mano di uno stalker, denunciato per ben due volte.  Quindi, ci dicono di denunciare, ci chiedono di esporci. E spesso il coraggio si paga con la vita. In tutto questo, dov’è questo lo Stato, che non tutela i terremotati, che non si cura delle nostre vite, che non ha interesse nel creare un futuro ai nostri giovani, che scappano all’estero per cercare lavoro e rimangono uccisi in attentati terroristici, e che si preoccupa esclusivamente dello Ius Soli e della legge elettorale?  Siamo vittime di un sistema cleptocratico, che si disinteressa del benessere dei cittadini perbene. L’oncologa è stata trovata con la gola tagliata, riversa a terra in una pozza di sangue. Inutili i tentativi di rianimarla.   La vittima, responsabile del day hospital oncologico dell’ospedale di Sant’Omero, nata nel 1964 a Roseto degli Abruzzi (Te) e madre di due figli, aveva concluso il suo turno di lavoro e stava raggiungendo la sua vettura quando è stata aggredita. Questo il post con cui un’amica della vittima ha descritto la situazione subita dalla dottoressa e poi denunciata.  “Quante volte sedute a ragionare di quell’uomo – si legge – quel maledetto che ti perseguitava. E non sono riuscita a risolverti questa cosa, e me lo porterò dentro tutta la vita. Ti voglio bene, donna e amica speciale… Ti voglio bene”. “Aveva presentato – spiega – due denunce, ma erano state entrambe archiviate”. Quell’uomo la perseguitava “da diversi anni”, la “osservava e seguiva, sempre e dappertutto. Si era intrufolato nella sua vita non sappiamo neanche come, con artifici e raggiri. Non era un suo ex, non avevano niente a che fare, era solo ossessionato da lei”. E questa è la nostra giustizia. Quella che ti rende impotente di fronte alla violenza ma che poi, se rubi un’arancia per fame, ti mette dietro le sbarre.

Archiviazione per tenuità del fatto. Reati lievi, da oggi parte l’archiviazione. I giudici potranno archiviare la lite con il vicino o il furto ed evitare che si finisca in aula di tribunale, scrive Mario Valenza, Giovedì 02/04/2015, su "Il Giornale". Da oggi parte la rivoluzione nel sistema giudiziario italiano voluto dal governo Renzi per i reati "minori". I giudici possono bollare la lite con il vicino o il furto ed evitare che si finisca in aula di tribunale. Non c'è solo la bega condominiale o il furtarello per disperazione. Potrà godere della "tenuità del fatto" anche chi è accusato di aver aperto una discarica abusiva o di aver trafficato con rifiuti pericolosi e scarichi industriali. Questioni di grande impatto sociale nelle quali rientrano ancora l'adulterazione di cibi, di medicinali, l'omissione delle misure di sicurezza sul lavoro, la truffa, l'intrusione informatica. E anche la guida in stato di ebbrezza. Senza dimenticare la detenzione sul proprio pc di materiale pedopornografico. Stavolta c’è il plauso dei magistrati: da anni sollecitavano un intervento del genere. Neanche gli avvocati fanno le barricate. Il loro timore, semmai, è che le decisioni dei giudici non siano uniformi per fatti analoghi, influenzate dalla sensibilità personali, dai contesti e persino dai luoghi geografici. Il giudice diventa dominus della decisione. La valutazione dei fatti è rimessa alla sua serenità e al suo equilibrio. Una discrezionalità, secondo alcuni, persino eccessiva. Ecco qui di seguito la lista dei reati compresi nella nuova norma:

- Esercizio abusivo della professione

- Abuso d’ufficio

- Accesso abusivo a sistema informatico o telematico

- Appropriazione indebita

- Arresto illegale

- Attentati alla sicurezza dei trasporti

- Atti osceni

- Commercio o somministrazione di medicinali guasti

- Commercio di sostanze alimentari nocive

- Danneggiamento

- Detenzione di materiale pedopornografico

- Diffamazione

- Frode informatica

- Furto semplice

- Gioco d’azzardo

- Guida in stato d’ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti

- Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato

- Ingiuria

- Interruzione di pubblico servizio

- Istigazione a delinquere

- Lesioni personali colpose

- Millantato credito

- Minaccia

- Oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale

- Omissione di soccorso

- Rissa

- Simulazione di reato

- Sostituzione di persona

- Truffa

- Turbata libertà degli incanti

- Violazione di domicilio

- Violenza privata

Addio a tutti i reati più piccoli, saranno archiviati senza processo. La Camera sta per modificare il codice di procedura penale per dire basta ai procedimenti contro i "mini crimini". Così i "fatti di particolare tenuità" come microfurti, liti e ingiurie non saranno più perseguiti: ma la modifica non riguarderà recidivi e delitti gravi, scrive Liana Milella il 22 febbraio 2012 su "La Repubblica". Piccoli reati addio. Archiviati dal giudice senza arrivare al processo. Niente più primo, secondo, terzo grado. Un decreto per dire che non hanno né il peso né il valore per meritare ore di dibattimento. Proprio perché sono piccoli e occasionali reati. Perché hanno un valore economico modesto. Perché possono essere "perdonati". Alla Camera stanno per approvare un nuovo articolo del codice di procedura penale, il 530bis, il "proscioglimento per particolare tenuità del fatto". Il relatore, il pd Lanfranco Tenaglia, fa l'esempio del furto della mela: "Se la rubo in un supermercato è un furto, ma il danno per il proprietario è tenue. Ma se la rubo alla vecchietta che ne ha comprate tre, quel fatto non sarà tenue". La Lega lo ha già battezzato legge "svuota-processi" dopo quella svuota-carceri. Ribatte la pd Donatella Ferranti: "È un articolo rivoluzionario, una pietra miliare sulla via della depenalizzazione". Basta leggere il testo: "Il giudice pronuncia sentenza di proscioglimento quando, per le modalità della condotta, la sua occasionalità e l'esiguità delle sue conseguenze dannose o pericolose, il fatto è di particolare tenuità". Chi commette reati di frequente è fuori. Fuori rapine, omicidi, sequestri, violenze sessuali. Il giudice archivia e avvisa la parte offesa che può utilizzare il decreto per rivalersi in sede civile.

Furto al supermercato. Di un capo di biancheria, reggiseno, slip, maglietta intima. Forzando e sganciando la placchetta anti-taccheggio. Il ladro viene scoperto e fermato. Il suo, codice alla mano, è un furto aggravato con violenza sulle cose, a stare agli articoli 624 e 625 del codice penale la persona rischia da uno a sei anni. Ma il giudice prende in mano il caso, valuta innanzitutto l'esiguo valore dell'oggetto portato via, poi si documenta e soppesa la personalità e la storia del soggetto che ha commesso il furto. Scopre che si tratta della prima volta. Il suo non è un reato abituale. Decide di archiviare per la "tenuità del fatto".

Assegni trafugati. Un commerciante in difficoltà economiche e strozzato dagli usurai incassa un assegno di cento euro senza andare troppo per il sottile. Lo riutilizza pagando un fornitore. Purtroppo l'assegno arriva da un furto e il commerciante rischia, come ricettatore e in base all'articolo 648 del codice penale, da due a otto anni di reclusione. Ma se davanti al giudice riesce a dimostrare la sua buona fede, rivela le sue difficoltà, documenta che nella sua vita professionale non è mai incorso in un simile incidente, potrà evitare il processo e ottenere un'archiviazione.

I beni pubblici. Telefonate private di due dipendenti da un ministero di Roma. Nel quale è in corso un'inchiesta proprio per evitare questi abusi. Il primo chiama una volta New York perché suo figlio, che vive lì, è gravemente malato. Il secondo telefona ogni giorno, e a lungo, alla fidanzata che vive a Milano. Il codice, all'articolo 314, punisce il peculato dai tre ai dieci anni. La prima persona potrà fruire di un'archiviazione perché il suo è un "piccolo" reato, una sola chiamata e per ragioni gravi. Il secondo andrà incontro al suo processo perché abusa quotidianamente e di nascosto di un bene pubblico.

Lite di condominio. In un appartamento vive una coppia di coniugi. In quello accanto un gruppo di studenti che spesso invitano gli amici e si divertono fino a notte fonda. Un giorno, dopo l'ennesima nottata, scoppia una lite furibonda in cui volano parole grosse e si arriva alle mani. I vicini si allarmano e chiamano la polizia. Scatta una denuncia per minaccia e violenza privata contro i coniugi. Il 612 prevede il carcere fino a un anno e la procedibilità d'ufficio. Passa qualche giorno e i ragazzi chiedono scusa. Il fatto è isolato, occasionale, non ha precedenti. Il giudice archivia pure questo "piccolo" reato.

Armi dimenticate. Un fucile vecchio, ma funzionante, scoperto in soffitta dalla polizia durante un controllo. Ma il proprietario della casa dice di non saperne niente, poi si ricorda che quel fucile era di suo padre, che aveva un regolare porto d'armi e aveva fatto regolare denuncia. Alla sua morte il figlio non si è più ricordato del fucile chiuso in un baule. La sua è detenzione illegale d'armi punibile da uno a otto anni in base alla legge 895 del 1967 poi modificata da quella del 1974, la 497. Rischia l'arresto in flagranza. Ma se dimostrerà la buona fede e proverà d'aver davvero "dimenticato" il fucile lasciandolo inutilizzato, potrà ottenere un'archiviazione.

Guida in stato di ebbrezza. Un giovane manager va a cena a casa di amici che abitano poco lontano da lui. Tre isolati in tutto. Usa l'auto perché sa che rientrerà tardi. Durante la serata beve un paio di bicchieri di vino e un paio di whisky. Al ritorno, quando sta per arrivare sotto casa, viene fermato da una volante che lo sottopone alla prova del palloncino. Che risulta positiva. In base al codice della strada rischia il sequestro dell'auto, la revoca della patente, il processo. Ma se non ha infranto il codice della strada né provocato incidenti e se il fatto è isolato può usufruire dell'archiviazione.

La diffamazione. Il giornalista scrive un articolo su un personaggio pubblico riportando nel suo pezzo una citazione dal pezzo di un suo collega che contiene una ricostruzione, peraltro non smentita, ma giudicata falsa e diffamatoria solo quando essa viene riportata, per citazione, in questo articolo. L'articolo 595 del codice penale sulla diffamazione infligge una pena da sei mesi a tre anni. Ma se il giornalista può dimostrare che riteneva la fonte attendibile, che non aveva un intento persecutorio nei confronti del destinatario dell'articolo, che il suo curriculum professionale è immacolato, il giudice può archiviare la sua posizione.

Ingiuria aggravata. Due colleghi, di fronte ad altri dello stesso ufficio, litigano per il possesso di una scrivania. S'insultano malamente ("Sei un cornuto..." dice uno all'altro, "tua moglie è una grande p..." risponde l'altro), arrivano alle mani, parte un cazzotto che colpisce a un occhio uno dei due. È un caso classico di ingiuria aggravata, punita dal 594 del codice penale con una pena fino a un anno di carcere. Ma se, di fronte ad altri testimoni che possono provare l'autenticità del fatto, i due si riappacificano veramente, il giudice può valutare l'opportunità di un'archiviazione.

PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO. Tenuità del fatto: il vademecum della Cassazione, scrive Carmelo Minnella, Avvocato penalista, il 5 Gennaio 2016.Dopo i primi arresti giurisprudenziali sulla causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, a seguito dell’introduzione dell’art. 131-bis c.p. da parte dell’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 28/2015, la Corte di Cassazione ha iniziato a perimetrare i confini applicativi dell’istituto. Dopo i primi arresti giurisprudenziali sulla causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, a seguito dell’introduzione dell’art. 131-bis c.p. da parte dell’art. 1, comma 2, d.lgs. n. 28/2015 (vedasi Non punibilità per “tenuità del fatto”: primi orientamenti in  giurisprudenza), la Corte di Cassazione ha iniziato a perimetrare i confini applicativi dell’istituto, secondo il quale, nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo, valutate ai sensi dell’art. 133, comma 1, c.p., l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale. Non si applica dinanzi al Giudice di Pace. L’art. 131-bis c.p. si affianca alle analoghe figure per irrilevanza del fatto già presenti nell’ordinamento minorile (art. 27 d.P.R. n. 448/1988) e in quello relativo alla competenza penale del Giudice di Pace (art. 34 d.lgs. n. 274/2000). Proprio prendendo atto della specificità della disciplina configurata nel procedimento penale davanti al giudice di pace, la Suprema Corte ha espressamente escluso che, in tale sede, possa trovare applicazione la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, proprio perché prevista esclusivamente per il procedimento davanti al giudice ordinario (sezione IV, 14 luglio 2015, n. 31920).

“Offensività necessaria” del fatto lieve. Per la Sez. III, 7 luglio 2015, n. 38364, affrontando la questione della offensività in concreto della condotta di coltivazione di piante da sostanza stupefacente, solo dopo il vaglio positivo della offensività della condotta incriminata, è possibile porsi in presenza di un fatto di coltivazione “modesto” la questione della possibile applicabilità dell'istituto di cui all'art. 131-bis c.p., in presenza ovviamente dei relativi presupposti.

Si applica a tutti i reati. Per Sez. IV, 2 novembre 2015, n. 44132, il legislatore, avendo posto l'istituto in parola nel contesto della parte generale del codice penale, ha evidentemente inteso attribuirgli valenza non limitata a alcune fattispecie di reato; pertanto, non appare in dubbio che l'istituto possa e debba trovare applicazione in tutti i reati, anche quelli tradizionalmente indicati come “senza offesa”, tranne le eccezioni legate ai limiti di pena (detentiva superiore a cinque anni) o alle particolari modalità del fatto (crudeltà, sevizie o condotte causative di un danno grave come la morte o lesioni gravi) o del reato (abituale o fatto non occasionale).

La stessa Cassazione ha d'altronde già affermato in passato che la particolare tenuità del fatto, concretizzatasi nella nota causa di improcedibilità di cui all'art. 34, d.lgs. n. 274/2000, trova applicazione anche con riferimento a reati di pericolo astratto o presunto.

Anche quelli a diverse soglie di punibilità. La Suprema Corte ha ritenuto applicabile la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto al reato di cui all’art. 186, comma 2, lett. b, d.lgs. n. 285/1992, in quanto l’incriminazione definisce la meritevolezza di astratte classe di fatti, laddove l’art. 131-bis c.p. si impegna sul diverso piano del singolo fatto concreto. Sicché che il legislatore abbia utilizzato la tecnica della soglia (come nel caso della guida in stato di ebbrezza alcolica) o meno per selezionare classi di ipotesi che, per essere in maggior grado offensive, impongono il dispiegarsi dell’armamentario penalistico, vi è in ogni caso la necessità di verificare se la manifestazione reale e concreta – il fatto unico ed irripetibile descritto dall’imputazione elevata nei confronti di un determinato soggetto – non presenti rispetto alla cornice astratta un ridottissimo grado di offensività (Sez. IV, 2 novembre 2015, n. 44132; 31 luglio 2015, n. n. 33821).

Che la previsione di più soglie di punibilità sia compatibile con il giudizio di tenuità del fatto considerato, in quanto essa manifesta un giudizio legislativo già ispirato ai principi di sussidiarietà e offensività della tutela penale, ai quali si ispira pure l’istituto descritto dall’art. 131-bis c.p., è stata affermato anche in relazione ai reati tributari (Sez. III, 15 aprile 2015, n. 15449, anche se Sez. III, con ordinanza del 20 maggio 2015, n. 21014, ha rimesso alle Sezioni Unite (tra le altre) la quaestio se sia possibile l’applicabilità della particolare tenuità del fatto per i reati tributali per i quali è prevista la soglia di punibilità.

In verità gli Ermellini ricordano che le due ipotesi non sono perfettamente coincidenti in quanto nell’art. 186, comma 2, CdS, la progressione dell’offensiva è scandita non soltanto dal passaggio dall’area delle sanzioni amministrative all’area del penalmente rilevante ma dal trascorrere di due fattispecie di reato diversamente punite.

Anche al reato permanente. Per Sez. III, 27 novembre 2015, n. 47039, il reato permanente è caratterizzato non tanto dalla reiterazione della condotta, quanto, piuttosto, da una condotta persistente (cui consegue la protrazione nel tempo dei suoi effetti e, pertanto, dell’offesa e del bene giuridico protetto) e non è quindi riconducibile nell’alveo del comportamento abituale come individuabile ai sensi dell’art. 131-bis c.p., sebbene possa essere certamente oggetto di valutazione con riferimento all’indice-criterio della particolare tenuità dell’offesa, la cui sussistenza sarà tanto più difficilmente rilevabile quanto più tardi sia cessata la permanenza.

Anche al reato formale di reati. Sempre per Sez. III, n. 47039/2015, essendo il concorso formale tra i reati (violazione di due o più distinte violazioni di legge, pacificamente tra loro concorrenti, stante la diversità del bene giuridico tutelato) caratterizzato da una unicità di azione od omissione, risulta impossibile collocarlo tra le ipotesi di “condotte plurime, abituale e reiterate” menzionate nel terzo comma dell’art. 131-bis c.p., mentre riguardo ai “reati della stessa indole”, il fatto che la disposizione rivolga l’attenzione al soggetto che abbia commesso più reati, va escluso il concorso formale  in quanto l’espressione va riferita all’unica azione od omissione che ha poi comportato la violazione di diverse disposizioni di legge.

Ma non al reato continuato. Invece, nel caso di commissione di più reati uniti dal vincolo della continuazione, Sez. III, 13 luglio 2015, n. 29897, ha affermato che la particolare tenuità del fatto è esclusa in presenza di reato continuato, che ricade tra le ipotesi di “condotta abituale” ostativa al riconoscimento del beneficio.

Sentenza predibattimentale: non opposizione dell’imputato e del P.M.. Per la sentenza di non doversi procedere, prevista dall’art. 469, comma 1-bis c.p.p., perché l’imputato non è punibile ai sensi dell’art.131-bis c.p., presume che l’imputato medesimo e il pubblico ministero non si oppongano alla declaratoria di improcedibilità, rinunciando alla verifica dibattimentale (Sez. III, n. 47039/2015).

Le parti potrebbero infatti avere interesse ad un diverso esito del procedimento. L’imputato potrebbe mirare all’assoluzione nel merito o ad una diversa formula di proscioglimento o mirare alla prescrizione (per sez. III, con la sentenza n. 27055 depositata il 26 giugno 2015, la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevale sulla esclusione della punibilità per la particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p.), considerato che anche che la dichiarazione di non punibilità per particolare tenuità del fatto comporta, quale conseguenza, l’iscrizione del relativo procedimento nel casellario giudiziale.

… la persona offesa non ha alcun veto ma va avvisata. La persona offesa che, diversamente dall’imputato e dal P.M., non ha alcun potere di veto (Sez. IV, n. 31920/2015), mancando una espressa previsione in tal senso, deve essere comunque messa in condizione di scegliere se comparire ed interloquire sulla questione della tenuità e deve ricevere avviso della fissazione dell’udienza in camera di consiglio, con l’espresso riferimento alla specifica procedura dell’art. 469, comma 1-bis, c.p.p., non potendovi sopperire la notifica del decreto di citazione a giudizio, effettuata quando tale particolare esito del procedimento non è neppure prevedibile (Sez. III, n. 47039/2015).

… appello o ricorso in Cassazione avverso pronuncia sulla tenuità? Se la pronuncia avviene in camera di consiglio, l’unico rimedio esperibile avverso la pronuncia che dichiara l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto è il ricorso per cassazione.

Tuttavia, la giurisprudenza di legittimità è unanime nel ritenere che, indipendentemente dalla qualificazione datane dal giudice, la sentenza pronunciata in pubblica udienza (anche per una causa di improcedibilità dell’azione come la tenuità del fatto o di estinzione del reato), dopo la formalità di verifica della costituzione delle parti, deve considerarsi come sentenza dibattimentale ed è pertanto soggetta ad appello. In questi casi, il ricorso immediato in Cassazione per violazione di legge costituisce, quindi, ricorso per saltum, con la conseguenza che, se il suo accoglimento comporti l’annullamento con rinvio, il giudice del rinvio è individuato in quello che sarebbe competente per l’appello (ancora Sez. III, n. 47039/2015).

Questa la sostanza, poi c’è la prassi.

"Nel dubbio archiviate le inchieste": tribunale intasato dai processi, il consiglio ai pm di Cagliari, scrive Enrico Fresu il 12 Giugno 2017 su "Youtg". Il messaggio ai magistrati cagliaritani è: nel dubbio, archiviate le inchieste penali. Il tribunale di Cagliari è soffocato dai processi e molti – stando alle statistiche del 2016 – si chiudono con un’assoluzione per l’imputato. Per questo l’ex procuratore Gilberto Ganassi ha diramato una circolare tra i pm: portate avanti solo le indagini che hanno buona probabilità di finire con una condanna all’esito del giudizio. Il provvedimento firmato dal procuratore aggiunto risale a marzo, ad aprile è stato comunicato all’Ordine degli avvocati. Intanto a capo della Procura cagliaritana è arrivata Maria Alessandra Pelagatti ma la circolare di Ganassi continua a sortire i suoi effetti. Creando qualche malcontento tra gli avvocati. Perché non ci sono solo i procedimenti per reati contro la pubblica amministrazione, altre ruberie o spaccio. C’è anche l’altissima incidenza dei processi scaturiti da querele e denunce: sono queste a intasare le aule. E tra vedere e non vedere, il pm deve archiviare. Ganassi nella circolare richiamava due interpretazioni del principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Secondo la prima “l’archiviazione deve essere richiesta solo nei casi di inequivoca infondatezza della notizia di reato”. Ossia quando è chiaro, senza ombra di dubbio, che il processo non andrà da nessuna parte. Secondo un’altra tesi c’è “idoneità a sostenere l’accusa in giudizio solo quando gli elementi acquisiti fanno ragionevolmente prevedere che all’esito del giudizio verrà confermata la responsabilità penale dell’imputato”. Il pm quindi deve cercare di capire se l’azione penale porterà con molta probabilità a una condanna, sulla base degli elementi raccolti durante le indagini. Sennò, se quindi ha qualche dubbio, la bilancia della giustizia deve pendere verso l’archiviazione. Il procuratore consigliava così di presentare “richiesta di archiviazione anche nei casi di insufficienza o contraddittorietà della prova non superabili in giudizio”. Fatte salve, è l’inciso, “le specifiche particolarità di ogni singola vicenda”. 

Sicilia, condannata la procura: non fermò in tempo l'uomo che uccise la moglie. Saverio Nolfo era stato denunciato dodici volte dalla moglie alla Procura di Caltagirone. La corte d'Appello: "Inerzia dei magistrati". Condanna a 260mila euro, scrive Manuela Modica il 13 giugno 2017 su “La Repubblica”. “Mi ha minacciato con un coltello, non so più che devo fare: aiutatemi”: con queste parole Marianna Manduca si rivolgeva alla procura di Caltagirone, poco prima di essere uccisa dal marito, Saverio Nolfo con sei coltellate al petto e all’addome il 4 ottobre del 2007 a Palagonia. Dodici denunce cadute nel vuoto e fattesi particolarmente allarmanti negli ultimi sei mesi di vita. Quei sei mesi in cui i pm la ignorarono: “All’epoca la questione fu considerata alla stregua di una lite familiare”, commenta l’avvocato del padre adottivo dei figli di lei, Alfredo Galasso. La procura di Caltagirone (genericamente il capo dell'ufficio all’epoca dei fatti, Onofrio Lo Re, che nel frattempo è morto) è stata infatti condannata da tre giudici messinesi, due donne e un uomo, della corte d'Appello di Messina. Si tratta della presidente Caterina Mangano, Giovanna Bisignano e Mauro Mirenna, che hanno riconosciuto il danno patrimoniale condannando la presidenza del Consiglio dei ministri al risarcimento di 260mila euro, e riconoscendo l’inerzia dei magistrati dopo una lunga trafila giudiziaria. L’azione legale di Carmelo Calì, lontano cugino della donna uccisa che ha oggi adottato i tre figli maschi (15, 13 e 12 anni) è iniziata cinque anni fa. Il processo infatti ha dovuto passare un giudizio di ammissibilità, richiesto nel caso di responsabilità dei magistrati. L’ammissibilità della richiesta era stata rifiutata dal tribunale di Messina, poi dalla corte d’Appello fino alla Cassazione che ha bocciato le corti messinesi. Solo dopo la sentenza della corte di Cassazione, dunque, che ha accolto la richiesta dei legali Alfredo Galasso e Licia D’Amico, il processo ha avuto inizio e il 7 giugno il tribunale di Messina ha depositato la sentenza riconoscendo la responsabilità negli ultimi sei mesi di vita di Marianna della magistratura. La donna aveva 35 anni quando fu uccisa da sei coltellate al petto e al torace sferrate dal marito Saverio Nolfo, all’epoca trentasettenne, adesso in carcere, condannato a vent’anni per l’omicidio. Lei era geometra e lavorava presso uno studio privato mentre lui era disoccupato e tossicodipendente. I giudici di Messina hanno riconosciuto il danno patrimoniale derivato dal fatto che i tre figli non hanno più goduto dello stipendio della madre: “Siamo parzialmente soddisfatti, ricorreremo in appello: c’è un danno morale che a Messina non è stato riconosciuto soltanto perché all’epoca la legge sulla responsabilità della magistratura era diversa ma non è un caso che sia stata modificata e che non riguardi più soltanto la limitazione della libertà personale”, ha concluso Galasso.

Denunce a perdere. Marianna Manduca e la condanna civile dei Pubblici Ministeri negligenti. 12 denunce disattese che hanno causato la morte di Marianna per mano del marito. La condanna è per responsabilità civile del Magistrato, fatto eccezionale e dopo traversie, dove a pagare sarà lo Stato e non il Magistrato, in quanto i fatti sono antecedenti all'entrata in vigore della legge sulla responsabilità civile. Lo Stato, comunque, se si si rivarrà sul suo dipendente, sarà rimborsato dall’assicurazione per responsabilità civile che i magistrati hanno stipulato per poche decine di euro annue. Assicurazione valida anche come strumento risarcitorio post riforma. Come dire: Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. 

La condanna non è per omissione d’atti di ufficio.

La condanna non è per omicidio colposo o per concorso in omicidio volontario con dolo eventuale, in quanto l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende la esistenza del reato, è conseguenza della sua azione od omissione. Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo (art. 40 c.p.). 

Cari giornali, fate i nomi dei condannati anche se si tratta di due pm di Catania, scrive Vincenzo Vitale il 15 giugno 2017 su "Il Dubbio". Le agenzie di stampa e i giornali di tutta Italia hanno riportato in questi giorni a più riprese la triste vicenda di quella donna – Marianna Manduca – uccisa dal marito, ma che inutilmente aveva denunciato, alla Procura della Repubblica, numerosi precedenti di aggressioni subite dallo stesso. Per tale motivo, i figli della donna uccisa hanno intentato causa allo Stato per ottenere un congruo risarcimento del danno per la negligenza mostrata nel caso in specie da parte di due pubblici ministeri – allora in servizio a Catania o a Caltagirone (le notizie si contraddicono) – i quali, esaminando le denunce della donna, non avevano fatto quanto necessario a dotarla di un opportuno dispositivo di sicurezza che la ponesse al sicuro dalle aggressioni del marito. E dunque, lo Stato dovrà pagare trecentomila euro ai figli e poi si potrà rivalere sui due magistrati riconosciuti responsabili dal Tribunale di Messina per tale inescusabile negligenza. La notizia suscita interesse per due motivi.

Innanzitutto, perché si tratta di una delle rarissime occasioni in cui un Tribunale riconosce la responsabilità di un magistrato (anzi di due magistrati) nell’esercizio della propria funzione: a questi esiti l’opinione pubblica è del tutta non avvezza, al punto che ormai di ricorsi per responsabilità dei giudici se ne propongono in misura sempre decrescente – prossima allo zero – temendo appunto che vengano rigettati, consacrando invece una sorta di originaria infallibilità di costoro.

Invece, da un secondo punto di vista, scandalizza davvero che nessuna agenzia di stampa o fonte giornalistica in tre giorni filati che la notizia esce a ripetizione abbia sentito il normale impulso professionale a fare i nomi di questi due pubblici ministeri: silenzio assoluto! Nessuno, dico nessuno fra gli organi di stampa li ha pubblicati o forse addirittura conosciuti: e questo sarebbe ancor più assurdo.

Ma come è possibile? Come è possibile che chi siano costoro – tanto più se, come pare, uno almeno di loro è ancora in servizio – rimanga avvolto dalla nebbia più fitta? Che si tratti di un segreto di Stato? Che ce lo dicano… E allora delle due l’una. O la stampa si autocensura, evitando di rendere pubblici i nomi dei due pubblici ministeri, per una sorta di timore non confessabile (ma timore di che cosa? Di possibili ritorsioni? Da parte di chi? E perché?); oppure opera in modo sotterraneo, ma ben percepibile dagli addetti ai lavori, una sorta di silenziosa forza intimidatrice, proveniente dal sistema giudiziario nel suo complesso, la quale mette paura a chi sia incaricato per vocazione e per obbligo deontologico – come appunto il giornalista – di dire la verità: in questo caso la verità del nome di questi due pubblici ministeri.

Questa eventualità – se fosse vera – sarebbe ancor più inquietante dell’autocensura. E allora, siccome io non credo né alla prima tesi né alla seconda, chiedo qui formalmente a tutti gli organi di stampa italiani di trattare questi due pubblici ministeri come di solito si trattano in casi del genere i sindaci, gli assessori, i primari di medicina, gli avvocati, gli stessi giornalisti e in genere tutti gli uomini normali: chiedo cioè di fare una buona volta i nomi di questi due innominati. Chi sono? Come si chiamano? Attendo.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando…Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

"In Italia ci sono milioni di vittime della male giustizia". Silvio Berlusconi non poteva evitare di ricordarlo durante l’incontro con il club lombardo di Forza Silvio, riunito a Milano. "Siamo arrivati ad avere magistrati che con troppa leggerezza arrivano a togliere libertà a cittadini italiani - dice Berlusconi - e per questo nella riforma della giustizia che vogliamo realizzare dopo aver vinto le elezioni inseriremo anche l’istituto della cauzione, come accade in America, che sarà graduata a seconda delle possibilità economiche del singolo cittadino. In carcere si dovrebbe andare solo per reati di sangue". Sempre in tema di giustizia, il Cavaliere ha anticipato qualcosa dell’instant book che ha scritto in questi giorni e che verrà distribuito a tutti i club Forza Silvio d'Italia. "Nel libro - ha detto l’ex premier - spiego la magistratura con cui abbiamo a che fare. Che è incontrollata e incontrollabile. Non paga mai anche quando sbaglia. Sono impuniti, godono di un privilegio medioevale. Se ci sono 100 imputati in un processo di solito 50 sono giudicati colpevoli. Ma qual è il risultato se l'imputato è un giudice? la percentuale scende al 4-5%. Ci troviamo in una situazione molto lontana da quella di libertà in cui dovremmo vivere. Nessun italiano può essere sicuro, in queste condizioni dei propri diritti".

Frodi, furti, corruzioni: quando il processo diventa criminogeno, scrive Donatella Stasio il 23 luglio 2013 su "Il Sole 24 ore". A leggerla bene, la cronaca giudiziaria recente descrive un paradosso: il processo, luogo di accertamento della verità, viene stravolto e piegato a interessi criminali. Nello Rossi, Procuratore aggiunto di Roma e capo del pool sui reati economici, lo conferma: «Il processo si trasforma in un inedito ambiente criminogeno, nel quale si corrompe, si falsifica, si ruba. Siamo di fronte a un segmento altamente specializzato della criminalità dei colletti bianchi: la criminalità del giudiziario». I protagonisti principali sono giudici e avvocati, che «sfruttano a proprio vantaggio, spesso con straordinaria astuzia, tutti i fattori di crisi della giustizia in Italia: l'enorme numero di processi, la complessità e farraginosità delle procedure, le difficoltà degli enti (soprattutto previdenziali) di controllare i dati di un contenzioso spesso sterminato». L'ultimo caso eclatante è di ieri, con i sette arresti per corruzione in atti giudiziari chiesti dalla Procura di Roma e ordinati dal Gip. Una fogna in cui sguazzavano giudici, imprenditori, banchieri, faccendieri, aspiranti notai bocciati al concorso. Uno scandalo di dimensioni enormi. L'ennesimo emblema di un «fenomeno» più generale e allarmante, su cui Rossi accetta di riflettere con Il Sole 24 ore. Premettendo: «Forse dobbiamo avere il coraggio di guardare di più al nostro interno, ai meccanismi che vengono alterati e alle cadute di moralità dei protagonisti della giustizia». La corruzione dei giudici, anzitutto. «È certamente il fenomeno più inquietante: qui il patto tra corruttore e corrotto è il più iniquo perché getta sulla "bilancia" un peso truccato con effetti devastanti sia sulla singola vicenda processuale sia sulla credibilità del sistema giudiziario, tant'è che neanche un anno fa il legislatore ha aumentato le pene per questo reato». Eppure, l'effetto deterrente di questo intervento sembra smentito dalla cronaca. Come mai? «Spesso, negli episodi più recenti non siamo di fronte a un singolo accordo corruttivo; il giudice infedele mette in moto un vero e proprio ciclo corruttivo, un ingranaggio ben oliato che investe più processi». Il vero deterrente sono «indagini accurate, che reggano alla prova del processo, eliminando il senso di impunità del giudice corrotto». Ma «molto resta da fare sul piano della deontologia di tutte le categorie, compresi gli avvocati». La corruzione giudiziaria è infatti solo uno dei tasselli del mosaico della «criminalità del giudiziario». C'è anche «l'utilizzazione truffaldina del processo», come quella emersa nel caso altrettanto clamoroso - e recente - dei processi previdenziali "finti". «Avvocati che falsificano le firme di incarico di clienti inesistenti (persone ignare, per lo più residenti all'estero, o morte), che ottengono in giudizio moltissime condanne dell'Inps a pagare interessi e rivalutazione su prestazioni previdenziali e che infine incassano personalmente le somme liquidate, grazie alla complicità di funzionari di banca. Non solo: su questa frode ne hanno subito innestata un'altra, altrettanto redditizia, imbastendo ulteriori processi, anch'essi fittizi, e incassando, in base alla legge Pinto, anche il risarcimento per l'eccessiva durata dei processi previdenziali fasulli». Un'integrale strumentalizzazione del processo, insomma. «Sì, come luogo in cui vengono fatti agire dei fantasmi, vere e proprie "anime morte" della giurisdizione». Va bene Gogol', ma ci sono anche processi veri con anime vive e avide. «È la terza tessera del mosaico», occasione di torsione della giustizia e di clamorose ruberie. Sono «i furti perpetrati sui beni che restano dopo il fallimento dell'impresa, da ripartire ugualmente tra tutti i creditori e spesso sviati su altre strade. Soldi dirottati da curatori infedeli, ingannando il giudice o talvolta con la sua complicità, verso creditori inesistenti o per prestazioni artificiose in favore dell'impresa fallita, e subito smistati verso banche di paradisi fiscali».

L'elenco potrebbe continuare. Le indagini rivelano trucchi e stratagemmi sofisticati. «Certo, la stragrande maggioranza di chi opera nel mondo della giustizia è fatta di onesti. Anche loro sono vittime della criminalità del giudiziario. La repressione dei corrotti e dei falsari, oltre a tutelare i cittadini, serve anche a salvaguardare questi onesti».

Il tribunale di Vicenza, nuovo porto delle nebbie. Prima non si è occupata del caso BpVi, ora dichiara la sua incompetenza territoriale e spedisce gli atti a Milano, che a sua volta ha passato le carte alla Cassazione, scrive Paolo Madron su "Lettera 43" l'8 giugno 2017. La giustizia italiana ha un nuovo porto delle nebbie. No, non è più il tribunale di Roma, in passato famoso per la sua propensione a insabbiare. È quello di Vicenza che, di fronte al disastro della locale Popolare (siccome bisogna essere trasparenti con i lettori, azionista minore di questo giornale) ha girato la testa dall’altra parte. E quando qualcuno dei suoi magistrati pensò invece di non girarla, il tracollo era di là da venire ma già se ne intuiva qualche indizio, si pensò bene di risolvere il problema alla radice trasferendo l’impicciona, visto che era anche una discreta alpinista, nella ridente Cortina. Sto parlando del gip Cecilia Carreri, che nel 2002 respinse la richiesta di archiviazione delle indagini nei confronti di Gianni Zonin, per oltre vent’anni incontrastato dominus della banca. Da allora nel tribunale della città del Palladio (il nuovo è un obbrobrio urban paesaggistico che non ha eguali) quello della Popolare di Vicenza è diventato un non luogo a procedere. Fino a due anni fa, quando la Bce squarciò il velo mostrando tutto il marcio che allignava in un istituto che tutti credevano sano e al riparo dai rovesci della crisi. Fu solo allora che, di fronte alla protesta di migliaia di risparmiatori ridotti sul lastrico e all’irrompere del caso Vicenza sul palcoscenico nazionale, la Procura si mosse accusando i vertici dell’istituto di aggiotaggio e ostacolo alla vigilanza. Ma, come quasi sempre avviene, al suo risveglio i buoi erano già scappati e il danno consumato. Il gip di Vicenza, dopo essersi tenuta per mesi il fascicolo sula scrivania, ha pensato bene di dichiarare la sua incompetenza territoriale spedendo gli atti a Milano. Zonin aveva trasferito per tempo tutti i suoi beni a figli e parenti, e sui suoi sodali complici del misfatto non si registra esserci stata una particolare lena nell’indagarli. Almeno fino a quando due sostituti della Procura, meglio tardi che mai, hanno deciso di mettere sotto sequestro 106 milioni di euro chiedendo sei mesi fa al gip di convalidarla. Non a tutti, però, visto che tra coloro oggetto del provvedimento guarda caso non compare incredibilmente il presidente Zonin, ma solo l’ex direttore generale dell’istituto e il suo vice. Ma al danno ora i aggiunge la beffa. Il gip di Vicenza, dopo essersi tenuta per mesi il fascicolo sula scrivania, ha pensato bene di dichiarare la sua incompetenza territoriale spedendo gli atti a Milano dove, fino a prova contraria, hanno sede molte importanti istituzioni ma non la Consob e nemmeno la Banca d’Italia. Ovviamente ai colleghi di Milano è bastata una rapida occhiata alle carte per dichiarare a loro volta l’incompetenza. Toccherà quindi alla Cassazione, non si sa bene quando, risolvere l’arcano. Un pasticcio che anche nel porto delle nebbie vicentino deve essere sembrato troppo, visto che il procuratore capo ha pubblicamente denunciato come abnorme la decisione del gip. Piccola nota conclusiva giusto per capire come gira da noi il mondo. Ricorda oggi Repubblica che le indagini aperte sul cda della Vicenza, quando ancora era additata come un modello di banca, per la mancata iscrizione a bilancio di alcuni milioni di minusvalenza furono repentinamente archiviate dall’allora procuratore capo Antonio Fojadelli. Il cui nome, una volta dimessosi dalla magistratura nel 2011, compare tra i consiglieri d’amministrazione della Nordest Merchant, società interamente controllata dalla Popolare di Vicenza.

L'IMPRESA IMPOSSIBILE DELLA RIPARAZIONE DEL NOCUMENTO GIUDIZIARIO.

La melanzana rubata che ci costa 8.000 euro. In Italia si moltiplicano le cause intentate per motivi assurdi e si accumulano pendenze che non si riesce a sbrigare. In Cassazione nell’ultimo anno sono circa 106 mila, scrive il 27 marzo 2018 Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera". Può una melanzana costare ai contribuenti 8.000 euro? Certo, ci sono questioni di principio che non hanno prezzo. Ed è ovvio che la magistratura deve esser libera di andare avanti con una causa giudiziaria anche se dovesse costare un milione. Ma solo se si tratta, appunto, di una questione di principio fondamentale. Non per una melanzana rubata nel campo di un contadino che, per non coprirsi di ridicolo, non aveva neppure sporto denuncia. Eppure così è andata: Simone Saba, rubato nel lontano 2009 l’ortaggio (1,20 euro al chilo, oggi) è stato protagonista di tre processi finché la Cassazione, finalmente, ha chiuso la faccenda per la «tenuità» del reato. Il tutto a spese, come spiegano le cronache, della collettività. Compreso il difensore dato che il ladruncolo era nullatenente. Se si trattasse di una curiosità bizzarra, amen. Il guaio è che il costosissimo tormentone è solo l’ultimo di una lunga serie. Che ha visto la Cassazione trascinata nel gorgo di processi demenziali. Come quello sul bucato steso ad asciugare: «Qualora i panni sciorinati invadano con la loro parte pendente o l’acqua gocciolante il terrazzo alieno ci si trova di fronte a una compressione del godimento del proprietario sottostante?». O sull’asina andata a brucare sul campo del vicino: anni di udienze e scontri dal primo grado al secondo e su su in Cassazione finché i giudici avevano rinviato tutto al primo grado perché, per quel reato, l’asina solitaria andava «considerata mandria».

Per non dire di altre cause avviate con le motivazioni più assurde. Dalla permalosissima signora che querela la vicina perché le ha mandato un Sms con scritto «Perepe qua qua qua qua perepe» fino al suocero che fa causa per truffa alla nuora rea di aver messo in tavola agnolotti comprati e non fatti in casa e così via... Deliri. Tanto più in un Paese dove la Cassazione, dice l’ultimo dossier di Studio Ambrosetti, continua ad accumulare pendenze che non riesce a sbrigare: «Circa 106mila rispetto alle 103mila dell’anno precedente». «Causa che pende / causa che rende», recita un vecchio adagio degli avvocati più cinici. Certo è che ancora una volta torniamo a rimpiangere Eleonora, la giudicessa d’Arborea che alla fine del Trecento stabilì nella «Carta de Logu»: «Vogliamo e ordiniamo che al fine di limitare le spese ai sudditi ed ai litiganti circa vertenze o liti che non superano i 100 soldi sia vietato appellarsi a Noi o ad altri funzionari regi...».

Per uscire fuori dall'incubo giudiziario si ha bisogno di una forte dose di culo (inteso come fortuna). Essere innocenti non è essenziale. Il malcapitato che incappa nell'amo della giustizia, si dibatte come un pesce, ma il malcapitato più si muove (a rivendicare la sua innocenza), più l'amo si infilza nella bocca. Il sistema è programmato a produrre risultati, per giustificare il suo costo, ed il conto si presenta in fascicoli chiusi, non in rei condannati. La riparazione del nocumento (danno che altera o interrompe la funzionalità o l'efficacia di un fatto naturale) è quasi impossibile che si compia. Per corporativismo delle toghe giudiziarie, ossia per viltà delle toghe forensi, perchè è difficile trovare qualcuno di loro che abbia il coraggio di additare un magistrato come reo di un errore eclatante e chiederne conto, inimicandosi tutta la categoria del foro locale e suscitando il biasimo dei colleghi, che temono ritorsioni.

È necessario precisare e distinguere i casi di riparazione per ingiusta detenzione da quelli di riparazione derivante da errore giudiziario. Nel primo caso si fa riferimento alla detenzione subita in via preventiva prima dello svolgimento del processo e quindi prima della condanna eventuale, mentre nel secondo si presuppone invece una condanna a cui sia stata data esecuzione e un successivo giudizio di revisione instaurato (a seguito di una sentenza irrevocabile di condanna) in base a nuove prove o alla dimostrazione che la condanna è stata pronunciata in conseguenza della falsità in atti. In questa sezione ci occuperemo del caso di riparazione per ingiusta detenzione.

Secondo quanto disposto (artt. 314 e 315 c.p.p.) all'imputato è riconosciuto un vero e proprio diritto soggettivo ad ottenere un'equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente, diritto che è stato introdotto con il codice di procedura penale del 1988 ed è in adempimento di un preciso obbligo posto dalla Convenzione dei diritti dell'uomo (cfr. art 5, comma 5, C.E.D.U.). Rilevanti novità In materia sono state apportate dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, cosiddetta "Legge Carotti". In particolare, è aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire ad un miliardo (oggi € 516.456,90), ed è altresì aumentato il termine ultimo per proporre, a pena di inammissibilità, domanda di riparazione: da 18 a 24 mesi. Il presupposto del diritto ad ottenere l'equa riparazione consiste nella ingiustizia sostanziale o nella ingiustizia formale della custodia cautelare subita.

L'ingiustizia sostanziale è prevista dall'art. 314, comma 1, c.p.p. e ricorre quando vi è proscioglimento con sentenza irrevocabile perché il fatto non sussiste, per non aver commesso il fatto, perché il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato. E' importante tenere presente che, ai sensi del successivo comma 3 dell'art. 314 c.p.p., alla sentenza di assoluzione sono parificati la sentenza di non luogo a procedere e il provvedimento di archiviazione. L'ingiustizia formale è disciplinata dal comma 2 dell'art. 314 c.p.p. e ricorre quando la custodia cautelare è stata applicata illegittimamente, cioè senza che ricorressero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p., a prescindere dalla sentenza di assoluzione o di condanna. La domanda di riparazione per l'ingiusta detenzione (315 c.p.p.- 102 norme di attuazione cpp) deve essere presentata (a pena di inammissibilità) entro due anni dal giorno in cui la sentenza di assoluzione o condanna è diventata definitiva, presso la cancelleria della Corte di Appello nel cui distretto è stata pronunciata la sentenza o il provvedimento di archiviazione che ha definito il procedimento. Nel caso di sentenza emessa dalla Corte di Cassazione, è competente la Corte di Appello nel cui distretto è stato emesso il provvedimento impugnato; sulla richiesta decide la Corte di Appello con un procedimento in camera di consiglio. E' obbligatoria l'assistenza di un legale munito di procura speciale e la parte che si trovi nelle condizioni di reddito previste dalla legge può chiedere il patrocinio a spese dello Stato. Nel caso di decesso della persona che ha subito l'ingiusta detenzione possono richiederne la riparazione: il coniuge, i discendenti e gli ascendenti, i fratelli e le sorelle, gli affini entro il primo grado e le persone legate da vincolo di adozione con quella deceduta. La riparazione per ingiusta detenzione deve essere estesa alle ipotesi di detenzione cautelare sofferta in misura superiore alla pena irrogata o comunque a causa della mancata assoluzione nel merito. Tutti coloro che sono stati licenziati dal posto di lavoro che occupavano prima della custodia cautelare e per tale causa, hanno diritto di essere reintegrati nel posto di lavoro se viene pronunciata a favore sentenza di assoluzione, di proscioglimento o di non luogo a procedere ovvero ne viene disposta l'archiviazione. Vale la pena ricordare che La Corte di Giustizia di Strasburgo (sentenza 9 giugno 2005 ricorso 42644/02) ha richiesto una modifica dell'art. 314 c.p.p. che ammette l'indennizzo per ingiusta detenzione solo se l'imputato è assolto, se è disposta l'archiviazione del caso o il non luogo a procedere o se, in caso di condanna, la custodia cautelare è stata disposta in assenza di gravi indizi di colpevolezza o per reati per i quali la legge stabilisce una reclusione superiore a tre anni. Per la Corte si tratta di previsioni restrittive perché l'art 5 comma 5 della convenzione prevede in ogni caso di illegittima restrizione il diritto ad una riparazione.

L'interessato deve presentare in cancelleria (Corte d'Appello – Cancellerie Penali): 

la domanda di riparazione del danno per ingiusta detenzione da lui sottoscritta, eccetto il caso di procura speciale. Oltre all'originale devono essere presentate 2 copie dell'istanza;

la sentenza di assoluzione con l'attestazione di irrevocabilità;

il certificato dei carichi pendenti;

le dichiarazioni rese al Giudice Indagini Preliminari (G.I.P.) o al Pubblico Ministero (P.M.);

fotocopia del documento di riconoscimento e codice fiscale.

Nel caso di arresti domiciliari deve essere depositato anche:

il provvedimento di concessione degli arresti domiciliari e l'ordine di scarcerazione;

la posizione giuridica, da richiedere all'ultimo carcere di detenzione previa autorizzazione della Corte di Appello;

gli atti del procedimento da cui si evince che il ricorrente non ha concorso a dar causa alla sua carcerazione per dolo o colpa grave.

Tutti i documenti a corredo dell'istanza possono essere depositati in carta semplice e per la loro richiesta non è dovuto alcun diritto di cancelleria. Ogni comunicazione o richiesta in merito al pagamento della somma dovrà essere indirizzata a: "Ministero dell'Economia e delle Finanze – dipartimento dell'Amministrazione Generale del Personale e dei Servizi del Tesoro – Serv. Centr. Per gli AA. GG. e la Qualità dei Processi e dell'Organizzazione – responsabile sig.ra Lofaro -via Casilina, -00182 Roma". Ufficio XIV 06-47615451 fax 06-47615155

Utopia, invece è riconoscersi il danno per INGIUSTA IMPUTAZIONE.

«Sì, sei innocente ma ora le spese te le paghi da solo», scrive il Aprile 2017 "Il Dubbio". Una nuova legge in discussione prevede un rimborso di appena 5mila euro per l’imputato innocente. Il disegno di legge n.2153 in materia di rimborso delle spese di giudizio, presentato lo scorso anno in Commissione giustizia dal senatore Gabriele Albertini (Ap), era composto da un solo articolo. Un articolo che introduceva un principio di “equità e di giustizia” nell’ordinamento e che era in grado di rivoluzionare in radice il sistema giustizia del Paese. All’articolo 530 del codice di procedura penale (sentenza di assoluzione) era previsto che fosse inserito il comma 2bis: «Se il fatto non sussiste, se l’imputato non lo ha commesso, se il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato, il giudice, nel pronunciare la sentenza, condanna lo Stato a rimborsare tutte le spese di giudizio, che sono contestualmente liquidate (…) Nel caso di dolo o di colpa grave da parte del pubblico ministero che ha esercitato l’azione penale, lo Stato può rivalersi per il rimborso delle spese sullo stesso magistrato che ha esercitato l’azione penale». Tecnicamente la disposizione prende il nome di “ingiusta imputazione”. Attualmente, quando l’imputato viene riconosciuto innocente, le spese legali affrontate per difendersi restano comunque a suo carico. L’unico tipo di risarcimento previsto è quello nei casi di “ingiusta detenzione”. Quando, cioè, sottoposto inizialmente alla misura della custodia cautelare, l’imputato è stato al temine del processo assolto. Oltre all’aspetto economico, le traversie giudiziarie, va ricordato, hanno pesanti ricadute sul quelle che sono le condizioni morali e familiari. La modifica legislativa in questione, dunque, avrebbe introdotto una norma di civiltà giuridica a tutela del cittadino nel suo complesso, “responsabilizzando” di fatto anche il pubblico ministero. Il disegno di legge Albertini riscosse un grandissimo consenso bipartisan, con ben 194 senatori che lo sottoscrissero immediatamente. A memoria è difficile trovare nella storia del Parlamento italiano una proposta di legge condivisa da una maggioranza così ampia. La disposizione sul rimborso delle spese legali, per altro, è in vigore, pur con qualche differenza, in 30 paesi europei. Particolare questo non da poco. In alcuni paesi la cifra da rimborsare viene valutata di volta in volta dal giudice, in altri, come ad esempio la Gran Bretagna, il rimborso attiene all’intera parcella del legale. La discussione del disegno di legge 2153 in questi mesi si è, però, scontrata con un problema di carattere strettamente economico. Non ci sarebbe, infatti, la necessaria copertura. Per capire meglio quanto davvero sarebbe costata la norma, il senatore Giacomo Caliendo di Forza Italia, che in Commissione è il relatore della legge, ha provato anche a cercare dati certi sul numero delle assoluzioni piene negli ultimi anni. Ma oltre all’aspetto economico è subentrato un problema di natura “tecnica” che ha impedito alla legge di vedere la luce nella sua formulazione originaria: l’unificazione della proposta Albertini con quella di Maurizio Buccarella (M5s), il ddl 2259, che propone la sola deducibilità fiscale delle spese legali, ma non oltre i 5 mila euro. Un obolo, considerati quelli che sono i costi della difesa penale. Il testo unificato, sul quale c’è tempo fino al 26 aprile per presentare gli emendamenti, stabilisce che si possa chiedere la detrazione al massimo di 10.500 euro in tre anni. Stop, quindi, al rimborso integrale come voleva Albertini. La maggioranza, che prevede di stanziare 12 milioni nel 2016 e 25 dal 2017, obietta che una copertura finanziaria più ampia sia impossibile da trovare di questi tempi. Strano perché per le indagini i budget a disposizione delle Procure sono “no limits”. Tanto per fare qualche esempio, solo per le intercettazioni telefoniche, le Procure italiane hanno speso nel 2014 la cifra monstre di 250 milioni di euro. Albertini, comunque, non ci sta a che il suo testo sia “annacquato” e ha già annunciato battaglia: «Presenterò un emendamento che alzi almeno a 100 mila euro la detrazione fiscale e preveda il rimborso totale per gli incapienti».

OTTENERE IL RISARCIMENTO PER INGIUSTA DETENZIONE È UN’ODISSEA. Scrive Roberto Paciucci su "Fino a Prova Contraria". Arrivano in casa alle 5 di mattina e ti buttano in carcere. L’opinione pubblica pensa: qualcosa di losco avrà fatto altrimenti non gli capitava. Anni dopo sei innocente. Nessuno ti chiede scusa e resta il pregiudizio dei problemi con la giustizia. Con chi te la pigli? In Italia con nessuno. Si dirà che è prevista la riparazione per l’ingiusta detenzione. Vero.  Ma quanto devi tribolare? Per ottenere una equa riparazione il Malcapitato dovrà provvedere ad una serie di procedure e formalismi bizantini buoni solo ad ostacolare l’esercizio di un diritto al punto che alcuni uffici giudiziari (ad esempio la Corte di Appello di Roma) hanno elaborato delle vere e proprie avvertenze sulle modalità di presentazione e sui documenti da allegare. La domanda deve essere proposta per iscritto, a pena di ammissibilità, entro due anni dalla decisione definitiva e l’entità della riparazione non può eccedere € 516.456,90.

La domanda deve essere depositata in cancelleria personalmente o a mezzo di procuratore speciale.

La domanda deve essere sottoscritta personalmente dall’interessato con eventuale procura speciale e delega per la presentazione nonché espressa richiesta di svolgimento in camera di consiglio o udienza pubblica.

Il presentatore della domanda deve essere identificato dal cancelliere.

Nell’istanza devono essere indicate le date di inizio e fine di ciascuna misura cautelare sofferta e la specie di essa (detenzione, arresti domiciliari).

All’istanza devono essere allegati una miriade di atti e documenti (formando due distinti fascicoli con indice, il primo dei quali dovrà contenere alcuni atti in copia autentica, il secondo gli stessi atti (compresa l’istanza) ma tutti in copia semplice) nonché altre tre copie della sola istanza:

Decreto di archiviazione e relativa richiesta del PM o sentenza di assoluzione in forma autentica completa di timbri di collegamento tra i fogli e data di attestazione del passaggio in giudicato;

Copia delle sentenze di merito emanate nello stesso procedimento e che riguardano l’istante;

Copia dell’eventuale verbale di fermo e ordinanza di convalida;

Copia del verbale di arresto e ordinanza di convalida;

Copia della richiesta del PM di applicazione della custodia cautelare;

Copia dell’ordinanza applicativa della custodia cautelare in forma autentica; provvedimento di eventuale concessione degli arresti domiciliari; provvedimento di modifica del luogo degli arresti domiciliari; provvedimento di rimessione in libertà;

Dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà in cui l’istante attesta la pendenza di procedimenti penali (da indicare con i rispettivi numeri di registro e le relative imputazioni) in circoscrizioni diverse da quella di residenza con firma autenticata dal difensore o da un pubblico ufficiale oppure dichiarazione sostitutiva di certificazione ove l’istante dichiara di non essere a conoscenza di procedimenti penali pendenti in circoscrizioni diverse da quelle di residenza;

Copia degli interrogatori resi prima della carcerazione e in ogni fase del processo;

Copia dell’ordinanza di rinvio a giudizio nonché copia della requisitoria del PM ove trattasi di procedimenti con vecchio rito;

Certificato dei carichi pendenti della Procura del luogo di residenza;

L’istante deve indicare i luoghi in cui sono stati trascorsi gli arresti domiciliari.

Poi la domanda dovrà essere valutata nel merito in quanto l’equa riparazione non spetta al soggetto sottoposto a custodia cautelare qualora, così recita la legge, “vi abbia dato o concorso a darvi causa per dolo o colpa grave”.

È facile imbattersi in sentenze secondo cui la condotta dell’indagato è causa ostativa all’indennizzo qualora si sia avvalso della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio come suo diritto difensivo oppure “sia anteriormente che successivamente al momento restrittivo della libertà personale abbia agito con leggerezza o macroscopica trascuratezza”. Insomma a perdere la libertà è un attimo, per prendere i soldi un’odissea. Roberto Paciucci

In cella per errore, nessun risarcimento. Ogni anno su 7mila richieste solo una minima parte viene accolta. Gli indennizzi solo per mille detenuti. E così un articolo del codice di procedura penale finisce sotto accusa, scrive Alessandro Belardetti il 7 marzo 2017 su "Il Quotidiano.net". Un esercito tradito dalla giustizia. Sono circa 6mila all’anno le persone assolte in Italia che non ricevono l’indennizzo dopo aver subito una custodia cautelare ingiusta (in carcere o ai domiciliari). Tra loro c’è Raffaele Sollecito, accusato e detenuto quattro anni per il delitto di Meredith Kercher, poi assolto in Cassazione. L’anno scorso sono state 1.001 le ordinanze di pagamenti per riparazioni a ingiuste detenzioni ed errori giudiziari, pari a 42.082.096 euro. Dunque, uno su sette riceve l’indennizzo, stabilito da un tariffario governativo: 250 euro per ogni giorno in carcere, 125 euro per i domiciliari, con un massimo di 516mila euro (mentre per gli errori giudiziari non c’è limite al risarcimento). «Ma l’entità dell’indennizzo dev’essere proporzionata alle conseguenze personali e familiari dell’imputato – spiega l’avvocato Gabriele Magno, presidente dell’Associazione nazionale vittime di errori giudiziari –: non può bastare un quantum al giorno perché ci sono, per esempio, danni come la perdita di guadagni dal fallimento dell’azienda di un imprenditore incarcerato». I Giudici d’appello di Firenze nel caso Mez, sopraggiungendo l’assoluzione di Sollecito, hanno ammesso la sua ingiusta detenzione «ma lui ha concorso a causarla con la propria condotta dolosa o colposa». Comma uno dell’articolo 314 del codice di procedura penale: se un imputato provoca la propria ingiusta detenzione, non ha diritto all’indennizzo. «È un paracadute dello Stato, che lo usa a piacimento – prosegue il 41enne Magno –. A livello costituzionale così appare più importante l’essersi, per esempio, avvalso della facoltà di non rispondere durante un interrogatorio nelle indagini, che l’essere stato assolto con formula piena. Abbiamo proposto una modifica alla legge chiedendo di cambiare l’articolo 315. Ora il soggetto assolto ha due anni per chiedere l’indennizzo, ma è un trucco: questo fa prescrivere l’errore del giudice. Un limite che va cancellato». Il giurista Giuseppe Di Federico, ex membro laico del Csm, aggiunge: «È ridicolo che si allunghi la prescrizione per le attività commesse dai cittadini e si tengano strette quelle dei giudici. Quando uno ha subito un’ingiusta detenzione l’indennizzo deve essere automatico. Rovistare nei comportamenti degli imputati per non dargli i soldi non è giusto, le loro condotte non possono giustificare la mancanza di capacità professionale nei magistrati». I distretti in cui vengono rimborsati gli indennizzi maggiori per gli errori dei magistrati sono al Sud e Centro Italia: Napoli, Catanzaro, Bari, Catania, Roma le maglie nere. Eurispes e Unione delle Camere penali italiane, analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che sono 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. «Un fenomeno patologico, ma non c’è solo un colpevole: si va dalla polizia giudiziaria che crede in una pista e non batte le altre, al pm che perseguita gli indagati, fino agli avvocati che non fanno il proprio dovere. La giustizia è una bilancia, ma questi numeri gridano vendetta», analizza l’avvocato chietino. Proprio gli avvocati, però, vengono accusati di fare super guadagni con questi casi: «Nessun business, la nostra associazione è composta anche da giudici, periti, giornalisti e politici». Dal 1992 il ministero dell’Economia e Finanze ha pagato 630 milioni di euro per indennizzare quasi 25mila vittime di ingiusta detenzione, ma negli ultimi anni i risarcimenti sono calati: se nel 2015 lo Stato ha versato 37 milioni di euro, nel 2011 sono stati 47, mentre nel 2004 furono 56. «Se lo Stato deve indennizzare un’ingiusta detenzione prova imbarazzo – conclude Magno – e i soldi per i risarcimenti si trovano a fatica. Il fatto che sia la Corte d’appello dello stesso distretto che ha sbagliato il giudizio ad accogliere o rigettare l’indennizzo, limita la disponibilità del magistrato a riconoscere un errore».

Quella confessione estorta con botte e scariche ai testicoli…scrive Simona Musco il 27 Aprile 2017 su "Il Dubbio". Il racconto di Giuseppe Gulotta che ha passato 22 anni in carcere da innocente per la strage di Alcamo Marina. «Ho subito tutto senza sapere né come né perché». Ora arriva il risarcimento. Tredici milioni di euro per mettere la parola fine a quello che forse verrà ricordato come il più grande errore giudiziario italiano e che ancora continua a registrare colpi di scena. Tredici milioni da dividere per due famiglie dilaniate per anni e anni da accuse ingiuste, che hanno divorato le vite di tutti i protagonisti. Si tratta di Giovanni Mandalà e Giuseppe Gulotta, due dei protagonisti della strage di Alcamo. Una strage alla quale, in realtà, non hanno mai preso parte. Ma per riconoscerlo hanno dovuto passare decenni dietro le sbarre e affrontare torture e tribunali. Un’innocenza che per Gulotta vale appunto 6 milioni e mezzo di euro, la cifra stabilita per ripagare 22 anni in carcere senza motivo. Quaranta anni dopo essere finito in manette con un’accusa pesantissima, ad aprile 2016, la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha stabilito quanto costa l’errore giudiziario che si è consumato sulle sue spalle, condannando il ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento di un maxi risarcimento. «Nessuna cifra al mondo potrebbe risarcire quanto ho subito. Sei milioni e mezzo sono tanti e di certo adesso, dopo una vita di stenti, potrò far fronte alle necessità familiari. Ma dopo 40 anni di vita rubata, possono bastare?», ha commentato Gulotta al Dubbio, lo scorso anno, poco dopo la lettura della sentenza. Lo Stato, infatti, ha riconosciuto ad ogni anno della sua vita un valore di 163mila euro. Poco, pochissimo a fronte di come Gulotta ha trascorso quegli anni: dietro le sbarre. Per questo i suoi avvocati, Saro Lauria e Pardo Cellini, avvalendosi di un tecnico, avevano chiesto 56 milioni di euro. «Non è una somma a caso. Questa, forse, è l’ennesima beffa subita in questi 40 anni – ha spiegato -. Speravo in qualcosa di più ma se per lo Stato tutte le mie difficoltà corrispondono a questa cifra rispetterò la sentenza. Però l’amarezza rimane. Alle volte non si trovano le parole per esprimere i sentimenti». La vita di Gulotta è stata presa e gettata via quando aveva solo 18 anni. Era un giovane muratore quando, di notte, si è ritrovato ammanettato, legato con le caviglie ad una sedia, picchiato e umiliato fino a confessare un reato che non aveva commesso e del quale non sapeva nulla. Per 22 lunghissimi anni, quel 27 gennaio del 1976 è stato lui a trucidare il 19enne Carmine Apuzzo e l’appuntato Salvatore Falcetta, della caserma di “Alkamar”, in provincia di Trapani. Dopo settimane di rastrellamenti, il colonnello Giuseppe Russo e i suoi uomini ammanettarono quattro ragazzi. Furono ore di pestaggi, minacce, finte esecuzioni, scariche elettriche ai testicoli, acqua e sale in gola, fino ad una confessione urlata per ottenere la salvezza. Iniziarono così i 36 anni di calvario di Gulotta, che ha ottenuto la revisione del processo dopo la rivelazione di un ex carabiniere, Renato Olino, sui metodi usati per estorcere quelle confessioni. Fu poi un pentito, Vincenzo Calcara, a parlare di un ruolo della mafia nella strage, collegandola all’organizzazione “Gladio”, la struttura militare segreta con base nel trapanese: i militari potrebbero essere stati uccisi per avere fermato un furgone carico di armi destinato a loro. L’assoluzione di Gulotta è arrivata il 13 febbraio 2012, 36 anni esatti dopo il suo arresto. «Ho subito tutto senza sapere né come né perché. So che è stato fatto il mio nome, mi hanno fatto confessare e, anche se ho ritrattato subito, i giudici non mi hanno creduto – ha raccontato -. Lo Stato, per errore, ha tenuto la mia vita in sospeso per 40 anni. Spero in un futuro migliore. Ma il mio passato è andato perso, i miei 18 anni non ci saranno più».

Ecco come la giustizia in Italia sia strabica. A Firenze il silenzio vale il diniego all’indennizzo; a Reggio Calabria una confessione di colpevolezza vale una elargizione del medesimo.

Indagati e condannati per sbaglio Il risarcimento? Lo tiene lo Stato. Uno preso per corruttore, l'altro 2 anni in cella per droga Indennizzo negato alla 81enne: è scivolata per colpa sua, scrive Stefano Zurlo, Mercoledì 22/02/2017, su "Il Giornale".  C'è l'errore, d'accordo. Ma spesso i guai sono come le ciliegie. Uno tira l'altro. E così l'imputato o più semplicemente la persona che vorrebbe solo giustizia deve strisciare sotto una galleria di umiliazioni, sofferenze, paradossi. Qualche volta la sentenza timbra anche la beffa, dopo aver certificato il danno subito dal malcapitato. Dipende. Il ventaglio delle sorprese è purtroppo sterminato. Torna in mente l'errore giudiziario per eccellenza, quello di Daniele Barillà, il piccolo imprenditore brianzolo arrestato sulla tangenziale di Milano il 13 febbraio 1992, nei giorni in cui il motore di Mani pulite scalda i motori. Barillà non c'entra niente con Tangentopoli, lui dovrebbe essere, e invece non è, un trafficante di droga. Ma il gip che lo interroga, Italo Ghitti, è lo stesso che firmerà nei mesi seguenti centinaia di arresti per i colletti bianchi dei partiti. E Ghitti si sorprende perché l'indagato, ammanettato secondo lui con le mani nel sacco, resiste e si ostina a proclamarsi innocente. «Se lei non confessa - è la profezia - si beccherà vent'anni». Previsione quasi azzeccata, perché l'artigiano viene condannato a 18 anni, ridotti poi a 15 in appello e confermati in cassazione. Lui, per tirarsi fuori da quel disastro, racconterebbe pure quello che non ha fatto, ma il problema è che non sa cosa confessare. Come Crainquebille, il verduraio uscito dalla penna di Anatole France che racconterebbe volentieri il proprio peccato alle forze dell'ordine se solo sapesse qual è. La storia di Barillà si trascina per sette anni mezzo, fino alla svolta nel 1999, come una somma di equivoci: il suo silenzio colmo di angoscia viene scambiato, anche nei verdetti, per lo spessore criminale di un boss incallito. E quei testimoni, amici e parenti, che gli hanno garantito l'alibi narrando per filo e per segno cosa ha fatto, e dove era nelle ore decisive del 13 febbraio 1992, vengono incriminati e rischiano di essere processati a loro volta. L'errore chiama errore. A volte invece si mischia alla prepotenza. Enrico Maria Grecchi, altro nome sconosciuto al grande pubblico e lontano dai riflettori, si fa 654 giorni di cella per traffico di stupefacenti, prima di essere assolto in appello e secondo grado. Con la banda di malfattori lui non c'entra niente. Potrebbe bastare, ma la giustizia si prende la rivincita alleandosi con la burocrazia più ottusa. Succede infatti che il ministro dell'Economia stacchi finalmente l'assegno per l'ingiusta detenzione: 91.560 euro. Stirati. Stiratissimi, molti meno di quelli richiesti perché Grecchi, a sentire i magistrati, non ha schivato l'amicizia con un tipo poco raccomandabile e questo ha indotto in errore i giudici che l'hanno incarcerato. Alla fine, è sempre colpa sua. Ma non è finita. Quei soldi dovrebbero essere un mezzo risarcimento, innescano un nuovo scempio. Nella partita si butta infatti Equitalia che vanta crediti pari a 67.056,21 euro. Pare si tratti di somme legate a tasse automobilistiche. Sembra impossibile, ma dopo tante esitazioni e balbettii, Equitalia piomba come un fulmine sul tesoretto e glielo porta via. Con tanto di bollo del tribunale di Lecco. Nessun rispetto, dunque, per quello che è successo. Lo Stato avrebbe dovuto cospargersi il capo di cenere, invece eccolo azzannare quel gruzzolo sacrosanto. Poi, altro colpo di scena in un procedimento surreale, si scopre che gran parte delle multe contestate, ormai datate, è andata in prescrizione. Una parte, una parte soltanto del malloppo conteso, viene restituita a Grecchi in un andirivieni indecoroso. Errori grandi, errori piccoli. Nel penale e nel civile. Conditi spesso con la pena supplementare del disprezzo. La signora ottantunenne è caduta nella buca? Affari suoi, altro che risarcimento da parte del Comune di Milano. «È noto - scrive una toga di rito ambrosiano - che con il progredire dell'età il sistema motorio e quello sensoriale (oltre che quello cognitivo) perdono parte della propria efficienza». E avanti con diagnosi serrate e impietose. Nessun indennizzo, ci mancherebbe. Ma una conclusione folgorante: se la donna è scivolata è solo colpa sua.

Processo dura 20 anni, lo stupro è prescritto. Il giudice: "Chiedo scusa alla vittima". Cade l'accusa per l'uomo che abusò della figlia della convivente. In Appello tutto si è arenato. Il ministro Orlando manda gli ispettori: "è un fatto che ribollire il sangue", scrive Sarah Martinenghi il 21 febbraio 2017 su "La Repubblica". "Questo è un caso in cui bisogna chiedere scusa al popolo italiano". Con queste parole, la giudice della Corte d'Appello Paola Dezani, ieri mattina, ha emesso la sentenza più difficile da pronunciare. Ha dovuto prosciogliere il violentatore di una bambina, condannato in primo grado a 12 anni di carcere dal tribunale di Alessandria, perché è trascorso troppo tempo dai fatti contestati: vent'anni. Tutto prescritto. La bambina di allora oggi ha 27 anni. All'epoca dei fatti ne aveva sette. Dall'aula l'hanno chiamata per chiederle se volesse presentarsi al processo, iniziato nel 1997, in cui era parte offesa. Ma lei si è rifiutata: "Voglio solo dimenticare". Il procedimento è rimasto per nove anni appeso nelle maglie di una giustizia troppo lenta. Lo ammette senza mezzi termini il presidente della corte d'Appello Arturo Soprano: "Si deve avere il coraggio di elogiarsi, ma anche quello di ammettere gli errori. Questa è un'ingiustizia per tutti, in cui la vittima è stata violentata due volte, la prima dal suo orco, la seconda dal sistema". In aula, a sostenere l'accusa della procura generale, è sceso l'avvocato generale Giorgio Vitari. "Ha espresso lui per primo il rammarico della procura generale per i lunghi tempi trascorsi - spiega il procuratore generale, Francesco Saluzzo - Questo procedimento è ora oggetto della valutazione mia e del presidente della Corte d'Appello. È durato troppo in primo grado, dal 1997 al 2007. Poi ha atteso per nove anni di essere fissato in secondo". La storia riguarda una bambina violentata ripetutamente dal convivente della madre. La piccola, trovata per strada in condizioni precarie, era stata portata in ospedale, dove le avevano riscontrato traumi da abusi e addirittura infezioni sessualmente trasmesse. La madre si allontanava da casa per andare a lavorare e l'affidava alle cure del compagno. Il procedimento alla procura di Alessandria parte con l'accusa di maltrattamenti e violenza sessuale. In udienza preliminare viene però chiesta l'archiviazione per parte delle accuse e l'uomo riceve una prima condanna, ma solo per maltrattamenti. Contemporaneamente, il giudice dispone il rinvio degli atti in procura perché si proceda anche per violenza sessuale. Nel frattempo, però, sono già trascorsi anni. L'inchiesta torna in primo grado e, dopo un anno, viene emessa la condanna nei confronti dell'orco: 12 anni di carcere. Da Alessandria gli atti rimbalzano a Torino per il secondo grado. Ma incredibilmente il procedimento resta fermo per nove anni in attesa di essere fissato. Finché, nel 2016, il presidente della corte d'Appello Arturo Soprano, allarmato per l'eccessiva lentezza di troppi procedimenti, decide di fare un cambiamento nell'assegnazione dei fascicoli. "Ho tolto dalla seconda sezione della corte d'Appello circa mille processi, tra cui questo, e li ho ridistribuiti su altre tre sezioni. Ognuna ha avuto circa 300 processi tutti del 2006, 2007 e del 2011. Rappresentavano il cronico arretrato che si era accumulato", spiega. La prima sezione ha avuto tra le mani per un anno il caso iniziato nel 1997. E l'udienza si è svolta solo ieri. "Ormai, però, era intervenuta la prescrizione". Un altro errore si è aggiunto alla catena di intoppi giudiziari: per sbaglio è stata contestata all'imputato una recidiva che non esisteva, il che avrebbe accorciato ulteriormente la sopravvivenza della condanna. I giudici, ascoltate le scuse della procura generale, si sono chiusi a lungo in camera di consiglio. Forse nella speranza di trovare un'ancora di salvezza. Alla fine, però, ha vinto il tempo. Sulla vicenda è anche intervenuto il ministro della giustizia Andrea Orlando che ha deciso di mandare gli ispettori di via Arenula per svolgere accertamenti preliminari in merito al processo, caduto in prescrizione.

Reato prescritto, pedofilo libero: il giudice chiede scusa, scrive di Roberta Catania il 22 febbraio 2017 su “Libero Quotidiano”. «Abbiamo chiesto scusa alla vittima perché siamo stati costretti a chiedere il proscioglimento dell'imputato, nonostante non volessimo. È intervenuta la prescrizione». Ecco la giustificazione del procuratore generale di Torino, Francesco Saluzzo, dopo che si è concluso, senza alcuna condanna, il processo a carico di un uomo che violentò la figlia della sua compagna dell'epoca, una bimba di sette anni. Per carità, sentire un giudice chiedere scusa è un evento di tale rarità che non si può non darne atto. Però rimane un fatto gravissimo che un caso così delicato sia rimbalzato per vent' anni da una scrivania all' altra senza trovare una giusta collocazione e dare un giusto processo alla vittima e al suo aguzzino. L'altro ieri la vittima di quelle violenze sessuali - che il compagno della madre le infieriva mentre la donna era al lavoro - non si è presentata in aula al Palagiustizia di Torino. Lei oggi ha 27 anni, vuole solo dimenticare e andare avanti. Un reset che sarebbe stato giusto offrirle molti anni fa, con tempi della giustizia più rapidi, condannando il suo stupratore ai giusti anni di prigione, invece di rammaricarsi oggi dichiarando «la prescrizione». Anche il presidente della corte d' Appello ha chiesto perdono alla donna e «al popolo italiano» per l'esito di una vicenda «su cui giustizia non c' è stata, perché non è stato possibile farla». Ma la colpa di chi è? Di quella ragazza che forse non aveva il denaro per pagare un brillante avvocato che incalzasse le udienze o di quei giudici che oggi chiedono perdono? Forse non loro direttamente, visti gli intoppi in cui è inciampato il caso, ma comunque qualcuno dovrebbe pagare un risarcimento o i danni morali. Il primo passo di questo processo è datato 1997. Il fascicolo arriva al tribunale di Alessandria, dove avviene il primo inciampo della giustizia. In udienza preliminare, il gup della provincia piemontese non aveva riconosciuto l'accusa di violenza sessuale ma soltanto quella di maltrattamenti. Accusa contestata successivamente dal giudice, che riesce a far riconoscere lo stupro, ma intanto altri anni erano andati persi. Il processo di primo grado dura tantissimo: dieci anni. E non per colpa di centinaia di testimoni da sentire o migliaia di perizie da esaminare, ma perché tra un'udienza e l'altra trascorrevano tempi inspiegabilmente biblici. Come se non fosse bastato un primo grado durato dieci anni, ce ne sono voluti altri nove prima che venisse fissato l'Appello. Diciannove anni, quindi, perché il caso arrivasse al tribunale di Torino per discutere il secondo grado di giudizio. E quando il fascicolo è stato preso in mano dai togati, oplà, era già tutto scaduto. Dopo molte ore di camera di consiglio, due giorni fa la giudice della Corte d' Appello Paola Dezani che ha dichiarato «prosciolto lo stupratore». Lo ha fatto con imbarazzo, dicono. Anche lei mortificata per una lentezza della giustizia che non ha lasciato impunito un abuso edilizio, ma che ha condonato le ripetute violenze sessuali su una bambina di sette anni. Adesso, in Piemonte arriveranno gli ispettori del ministero della Giustizia. Adesso, i giudici chiedono scusa. Adesso, la notizia rimbalza su tutti i giornali. Ma per venti anni nessuno ha preso a cuore la giustizia che meritava quella bambina e domani nessuno pagherà per qualcosa che tornerà ad essere catalogato come ordinaria lentezza della giustizia italiana. 

Reato di stupro prescritto: ma chi paga? Le parole non restituiranno sollievo alla 27enne che 20 anni fa fu abusata, ma la sanzione dei responsabili. Di chi ha omesso, ignorato, e non ha vigilato, scrive il 22 febbraio 2017 Marco Ventura su Panorama. Per la giustizia negata non c’è altra soluzione che accelerare i processi e far valere il principio che chi sbaglia paga. Anche il magistrato negligente o lavativo. Tutto il resto è retorica: proposte di grande riforma del sistema giudiziario, ipotesi illiberali come quella di rendere infinito il tempo della prescrizione, scuse pubbliche prive di conseguenze concrete che servono soltanto a lavare le coscienze. Ben venga la prescrizione per l’uomo condannato in primo grado a 12 anni per aver abusato della figlia (che di anni ne aveva 7) della convivente; ben venga la notizia dei 20 anni di processo che non sono bastati a restituire, se non la serenità, almeno la giustizia a una donna che oggi ha 27 anni e dice di voler “solo dimenticare”; ben venga il proscioglimento del (dobbiamo dire presunto?) violentatore, se questa ennesima sconfitta della giustizia italiana servirà a qualcosa. Per esempio, a evitare in futuro nuove sentenze di prescrizione di reati che se non puniti “fanno ribollire il sangue”, come ha sollecitamente dichiarato con espressione suggestiva il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, annunciando l’invio di ispettori. E ben vengano le scuse agli italiani del giudice della Corte d’Appello di Torino, Paola Dezani, che ha dovuto emettere “in nome della legge” la sentenza, prendendo atto che il reato era prescritto: troppi dieci anni per il processo di primo grado (1997-2007) più altri nove per fissare l’udienza in appello. Ben venga la denuncia del presidente della Corte d’Appello, Arturo Soprano, che parla di “ingiustizia per tutti” e vittima “violentata due volte, la prima dall’orco, la seconda dal sistema”. Eppure. Il Sistema ha un volto. Un nome. Altrimenti sono tutti colpevoli e nessuno è colpevole. E anche questo è il Sistema. Che si difende auto-accusandosi. Il dubbio che qualcosa cambi davvero è forte. Perché in Italia manca del tutto il concetto di responsabilità, che è sempre personale ed è quella per la quale meriti e demeriti producono premi o sanzioni. Succede invece che il buon giudice continui a svolgere il proprio lavoro in silenzio, smazzando sentenze e trattando equamente le cause che trova sul tavolo, sforzandosi di leggere le carte prima di prendere decisioni. E capita poi che vengano emesse sentenze prima ancora di ascoltare le parti in udienza: la condanna pre-confezionata e “per errore” firmata e controfirmata. Per dire quanto la giustizia possa essere veloce: la sentenza precede l’udienza. Svista che smaschera anch’essa un Sistema. C’è una lacuna nello scandalo dello stupro pedofilo impunito. Un difetto, forse, nella comunicazione dei magistrati. Un dubbio, un rovello anzi, che deve assillare chiunque non si accontenti di denunciare le imperfezioni del Sistema. Il dubbio è che la vittima di 7 anni che oggi ne ha 27 e vuole solo dimenticare abbia tragicamente ragione. Primo, perché se anche la giustizia fosse arrivata in tempo (nei termini) sarebbe stata comunque tardiva. È ragionevole che si debbano aspettare 17-18 anni per vedere condannato il proprio violentatore o perché un uomo accusato di violenza venga processato? Siamo un Paese incivile. È di ieri la notizia che a Rio de Janeiro sono stati condannati a 15 anni di carcere due autori della violenza di gruppo su una sedicenne commessa lo scorso maggio. E parliamo di Brasile e favelas. Non di Alessandria o Torino. Secondo, perché il moltiplicarsi di scuse dei magistrati (pur benvenute e doverose) e dichiarazioni di quanti hanno la responsabilità della “giustizia” nascondono una diffusa ipocrisia. Qui non sono le parole a poter restituire uno straccio di riparazione alla 27enne che vent’anni fa fu abusata, ma la sanzione dei responsabili. Di chi ha omesso, ignorato, sottovalutato. Di chi ha lavorato male e provocato un danno con la sua negligenza. Di chi non ha vigilato. La sanzione può anche essere semplicemente un fermo alla carriera, un trasferimento, una censura. La magistratura gode di benefici economici (e non solo) in ragione della sua autorevolezza. Che oggi è ai minimi nell’opinione pubblica. E la sua autonomia, invece, rischia di esser vista come arroccamento corporativo e difesa dei privilegi. Se nessuno, alla fine e dopo tante belle parole, non pagherà per la denegata giustizia o per l’errore giudiziario (le carceri ne sono piene), avrà sempre ragione il presidente della Corte d’Appello di Torino, che ha scelto male le parole quando ha detto che la 27enne che vuole solo dimenticare è vittima due volte: dell’orco e del sistema. E la vittima rischia così di essere vittima non due ma tre volte, vittima dell’ipocrisia di quelli che puntano l’indice contro un ente inafferrabile e irresponsabile (il Sistema) invece di volgere lo sguardo al proprio fianco, nell’ufficio accanto, tra i colleghi, e additare i colpevoli, i veri ir-responsabili, con nome e cognome.

Se il processo dura 20 anni non c’entra la legge ma i magistrati, scrive Piero Sansonetti il 22 Febbraio 2017, su "Il Dubbio". Lo scandalo non sta nel fatto che è scattata la prescrizione, dopo 20 anni dal reato e 20 anni dall’inizio del procedimento penale. Lo scandalo sta nel fatto che non sono bastati 20 anni alla magistratura per concludere l’iter processuale. Se un processo per lo stupro di una bambina dura vent’anni e poi l’accusa cade in prescrizione, la colpa di chi è? È successo in Piemonte. Ieri la notizia ha conquistato le home page di tutti i siti, e l’hanno data le Tv. Un po’ ovunque è sembrato sentire un atto di accusa vibrante contro la prescrizione, cioè quel meccanismo satanico e da azzeccagarbugli che permette agli imputati di farla franca. Il procuratore generale di Torino ha dichiarato ai giornali che occorre una profondissima riforma, e che il compito tocca al legislatore. È il ritornello di sempre, ripetuto incoro da giornali e procure: le colpe per la malagiustizia comunque sono del potere politico e delle norme troppo garantiste. Mentre i magistrati, di solito, si comportano in modo egregio e infatti, come è noto, combattono contro la prescrizione. Se il potere politico non si opponesse alle giuste battaglie dei magistrati e facesse le cose a modino, come i magistrati chiedono, ecco che questo scandalo del presunto pedofilo che la fa franca non sarebbe avvenuto…Davvero è così? Non solo non è così ma è esattamente il contrario.  La prescrizione è una misura estrema che serve solo a mettere un argine alla violazione di un principio costituzionale che è quello della “ragionevole durata del processo” (art 111 della Costituzione). E nessuno può avere dubbi sul fatto che 18 o 19 anni devono essere più che sufficienti per concludere un processo nel quale un uomo è accusato di avere esercitato violenza sessuale su una bambina di 7 anni. Noi, né nessun altro giornalista, non siamo assolutamente in grado di sapere se a carico dell’imputato ci fossero o no prove sufficienti. Essere accusati d i pedofilia, insegnano casi giudiziari anche molto recenti, non vuole assolutamente dire essere colpevoli. Spesso le accuse per pedofilia cadono, risultano infondate (pensate solo alla vicenda assurda di quei poveretti accusati di “pedofilia” di massa in una scuola di Rignano, in provincia di Roma, e poi risultati tutti completamente innocenti, dopo mesi di carcere e anni di infamie). Ma qui la questione non è certo quella di stabilire se l’imputato fosse o no colpevole. Si tratta semplicemente di capire perché il processo è andato in appello dopo 20 anni, quando ormai l’accusato era diventato vecchio, e la bambina era diventata una signora (la quale, tra l’altro, ha fatto sapere che di questa storia non vuole sapere più niente). Allora, proviamo a vedere come stanno le cose. Le Procure e le Corti d’appello, sicuramente, sono intasate da migliaia di procedimenti giudiziari che non riescono a smaltire. Questo vuol dire che tutti i provvedimenti giudiziari durano 20 anni? No. E sarebbe logico che i processi per i reati più gravi andassero più spediti. Non sempre è così. Per esempio gli avvocati di tal Silvio Berlusconi ci dicono che dal 1995 a oggi il suddetto Silvio Berlusconi ha subito 70 processi. Naturalmente nei processi a Berlusconi, la procura di Alessandria e la corte d’appello di Torino (cioè le due istituzioni che non sono riuscite a processare il sospetto pedofilo) non c’entrano niente. Berlusconi è stato processato soprattutto dalla Procura di Milano. Però il paragone, dal punto di vista politico, regge eccome. Le procure hanno trovato tutto il tempo necessario per processare 70 volte Berlusconi, mentre altre procure non riuscivano a fare un solo processo a quel signore accusato di aver violentato una bambina. Come è possibile questo? Forse c’è una sola spiegazione: processare un tipo come Berlusconi è attività assai più attraente che processare un sospetto pedofilo sconosciuto. Produce uno spettacolo molto maggiore, titoli sui giornali in grande rilievo, tv, fama. Un procedimento giudiziario che garantisca un alto tasso di spettacolarità e che magari abbia la possibilità di avere un peso significativo sulla vicenda politica italiana, procede spedito. Nell’unica condanna subita da Berlusconi (quella per una evasione fiscale commessa da Mediaset) tra la conclusione dell’appello e la sentenza della Cassazione (assegnata a una sezione presieduta da un giudice che poi è andato in pensione e ora fa il commentatore sul “Fatto Quotidiano”) passarono addirittura pochi mesi. Fu un caso esemplare di giustizia speedy gonzales. Dunque è del tutto evidente che non è l’istituto della prescrizione il colpevole, ma il colpevole va cercato nel funzionamento di alcuni settori della magistratura. Ha fatto molto bene la giudice Paola Dezani, pronunciando la sentenza che prendeva atto dell’avvenuta prescrizione, a chiedere scusa agli italiani a nome della magistratura. Però ora sarebbe anche il caso di chiedersi di chi sia la colpa del sovraffollamento di procedimenti penali. Forse, per esempio, è colpa dell’obbligatorietà dell’azione penale, norma difesa col coltello tra i denti dall’Associazione magistrati, e che ormai è diventata insensata? E magari è colpa anche dell’ostinazione con la quale molti Pm ricorrono in appello di fronte a una sentenza di assoluzione in primo grado (che pure dovrebbe far scattare, a lume di logica, il ragionevole dubbio previsto dal codice penale come condizione di non condanna)? È chiaro che una riforma della giustizia è assolutamente necessaria. Da anni molti governi di centrodestra e di centrosinistra tentano di realizzarla, ma nessuno ci riesce proprio per la tenace e potente resistenza dell’Anm.

Giustizia carogna, scrive Fabrizio Boschi il 31 gennaio 2017 su "Il Giornale”. Nel febbraio 2012 ci provò un deputato di Forza Italia, Daniele Galli: presentò una proposta di legge per obbligare lo Stato a rifondere le spese legali del cittadino che viene imputato in un processo penale e ne esce assolto con formula piena. Non venne mai nemmeno discussa. Eppure affrontava una delle peggiori ingiustizie italiane. Il corto circuito che ne viene fuori è poi un altro: chi è sotto la soglia di povertà, ovvero meno di 16mila euro all’anno, può ottenere l’avvocato pagato dallo Stato, ovvero il gratuito patrocinio. Chi usufruisce di questo favore pagato da noi cittadini sono di solito, delinquenti, evasori seriali, ed extracomunitari. Pochissimi gli italiani. Doppia beffa. Davanti al Tar poi la cosa si fa ancora più triste: le cause contro lo Stato vengono pagate dallo Stato stesso. Ogni anno in questo paese si aprono 1,2 milioni di procedimenti penali, più alcune centinaia di migliaia di processi tributari. Gli assolti, alla fine, sono la maggioranza: secondo alcune stime sono quasi i due terzi del totale. Moltissimi sono quelli che escono dalle aule di giustizia assolti con una “formula piena”, come si dice, e cioè perché il fatto non sussiste o per non avere commesso il fatto. Costoro, però, devono comunque pagare di tasca propria l’avvocato e i professionisti di parte: periti, tecnici, consulenti. Si tratta di cifre a volte molto importanti. La famiglia di Raffaele Sollecito, processato per otto anni come imputato per l’omicidio di Meredith Kercher a Perugia, ha dovuto pagare 1,3 milioni di euro al suo avvocato Giulia Bongiorno. Elvo Zornitta, accusato ingiustamente di essere “Unabomber”, il terrorista del Nord-Est, dovrebbe pagarne 150mila al suo avvocato. Giuseppe Gulotta, vittima del peggiore errore giudiziario nella storia d’Italia (22 anni di carcere da innocente) dovrebbe affrontare una spesa da 600mila euro. Ci sono poi tantissimi casi nei quali anche parcelle da alcune decine di migliaia di euro rappresentano la rovina economica per qualcuno. Oppure casi in cui per non sentir più parlare di quel caso, il cliente soccombe a questa ingiustizia, si china e paga. Quando poi il querelante decide di rimettere la querela, perché magari ha obbligato,  tramite il proprio avvocato, ad un accordo segreto il querelato, che decide di pagare (in nero) pur di veder finito il suo calvario (un ricatto in piena regola insomma: io rimetto la querela se tu mi dai tot altrimenti vado avanti con la causa), allora dopo alcuni anni il querelato si vede pure arrivare a casa una bella cartella di Equitalia, riguardo alle spese originate dalla remissione di querela, come prevede la legge: è la norma processuale, infatti, che fissa a carico del querelato la refusione delle spese del procedimento. Altra follia pura. Insomma, lo Stato ti obbliga a pagare le spese legali anche se vinci le cause, ma non ha remore nel pagare il difensore all’extracomunitario che non ha nulla ed è in Italia illegalmente. Anche importanti giuristi e magistrati concordano col fatto che far pagare le spese legali a chi ha vinto la causa o è innocente sia una pura follia. Carlo Nordio, procuratore aggiunto di Venezia, si dice convinto che sia «una fondamentale questione di giustizia: con il discutibile principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, lo Stato stabilisce il dovere d’indagare dei pubblici ministeri; ma ha anche l’obbligo di risarcire l’avvocato all’innocente che senza alcun motivo ha dovuto affrontare spese legali, spesso elevate». Giorgio Spangher, docente di procedura penale alla Sapienza di Roma, ipotizza un fondo «che provveda almeno in parte a indennizzare le spese sostenute», come già avviene per l’ingiusta detenzione. Certo, il problema (come sempre in questi casi) sono le casse dello Stato: con la legge di Stabilità per il 2016 il governo ha appena dimezzato e reso praticamente inaccessibili le disponibilità previste per la legge Pinto, la norma che dal 2001 indennizzava gli imputati vittime della lunghezza dei processi a un ritmo di circa 500 milioni l’anno. Sarà forse difficile, pertanto, che si possa mettere in atto qualcosa di valido sul rimborso delle spese legali. Ma non può essere questa la scusa per distogliere lo sguardo da questa vera ingiustizia. Se sei stato accusato di un reato o querelato ingiustamente e poi al termine di un processo una sentenza sancisce la tua innocenza o estraneità ai fatti o il fatto non sussiste, o il fatto non costituisce reato, non è giusto che sia tu a pagare l’avvocato: deve farlo lo Stato. Che invece paga il patrocinio ai delinquenti. 

La confessione SHOCK del GIUDICE: “In ITALIA giustifichiamo i REATI degli IMMIGRATI! Ecco perché…” Si chiama Ignazio de Francisci, ed è procuratore capo di Bologna, che ha espresso molti dei suoi dubbi nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario. Oggi, su “La Verità”, è uscita un’esclusiva intervista nel quale ha rilasciato dichiarazioni molto forti. Ha iniziato dicendo che in Italia “c’è un malinteso senso di accoglienza che disorienta i giudici” che quindi diventerebbero molto più clementi con i furfanti stranieri, rispetto a quelli italiani. Inoltre, secondo De Francisci, le nostre carceri sarebbero ricercate dagli stranieri “perché meno dure e perché si esce più in fretta”. In pratica, accade che a causa di una serie di regole europee, un immigrato che viene arrestato in un altro paese della comunità europea, può richiedere di scontare la pena qui da noi in Italia. E così le nostre carceri diventano quelle più ambite da una gran bella parte di furfanti immigrati di mezza Europa. Perché l’Italia è uno dei pochissimi paesi della Comunità Europea dove vige il principio della buona condotta, con enormi sconti di pena. Come se non bastassero i delinquenti nostrani, ci ritroviamo a carico dello stato anche migliaia di delinquenti stranieri!

Lo dice il pm: "Carcere comodo: criminali stranieri scelgono l'Italia". La denuncia choc del procuratore di Bologna, Ignazio De Francisi: "Qui carcere più vantaggioso, vengono soprattutto dall’Est", scrive Claudio Cartaldo, Lunedì 30/01/2017, su "Il Giornale". La denuncia non viene da un pericoloso razzista xenofobo. Ma dal procuratore generale della Corte di Appello d Bologna. Ignazio De Francisci, durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario, ha lanciato l'allarme riguardo le leggi troppo poco severe, le "carceri comode" e gli sconti di pena che spingono i criminali stranieri a venire in Italia dove hanno vita facile. Non è un segreto infatti che negli ultimi anni si siano impennati i reati commessi da stranieri, che spesso vanno a ingolfare le carceri italiane. Il 32% dei detenuti (17mila su 52mila) è straniero, sebbene la popolazione immigrata in Italia sia appena l'8,5%. Gli immigrati, in sostanza, delinquono in media 4 volte in più. "Agli occhi della criminalità dell’est Europa, la commissione di delitti in Italia è operazione più lucrosa e meno rischiosa che in patria - ha detto De Francisci - E alle loro carceri sono preferibili le nostre". Per gli "amministratori di giustizia", anche in Emilia-Romagna i problemi sono sempre complessi e, rispetto al passato, in parte più gravi. I mali della giustizia. Ma i problemi della giustizia non finiscono ovviamente qui. Ieri è arrivata anche una sferzata al "troppo precariato", l'allerta sui troppi reati prescritti, il boom dei procedimenti per il riconoscimento della protezione internazionale che rendono la situazione "critica". A cui si è aggiunto il monito di De Francisci sulla "radicalizzazione" dei detenuti riguardo al terrorismo.

Gli intoccabili clandestini, scrive Nino Spirlì su “Il Giornale” il 2 Febbraio 2017. E perché mai dovremmo tacere sui reati e sui problemi che commettono e procurano gli oltre cinquecentomila clandestini, sbarcati forzatamente sulle nostre coste senza alcuna vera giustificazione? Fossero realmente dei poveracci che scappano da persecuzioni personali, familiari, razziali, perpetrate a loro danno nei loro paesi d’origine, potremmo anche cominciare a riflettere sulla possibilità di dar loro una mano. Ma sono quaglie grasse e arroganti, pretenziose e violente, senza nome e senza documenti che attestino la loro vera identità, nazionalità, fedina penale pulita; invece, no: spacconi, con le tasche piene di soldi destinati a caporali, scafisti, volontari venduti, capibranco e smistatori corrotti, tonache sporcaccione e nere come i fumi dell’inferno. Tutto un popolo, quello dei loro “difensori e padrini”, di delinquenti, massopoliticomafiosi, che sta costruendosi un futuro unto di sangue e merda, quanto e più dei nazisti che si spartivano gli ori raccattati nei lager. Bestie dalla faccia (ri)pulita dalla Comunicazione al soldo dei poteri occulti. Finti moralizzatori che vorrebbero imporci le loro sporche regole del silenzio, a danno della nostra onestà e libertà, costate la vita ai nostri nonni, ai nostri Eroi. No! Non resteranno impuniti o, peggio, occultati, gli orrori commessi dai clandestini sul suolo Italiano. Non taceremo sugli stupri, le violenze, gli accoltellamenti, le arroganze, le rapine, gli abusi, le pretese assurde. Non chiameremo solo delinquenti, gli zingari delinquenti che scippano quotidianamente migliaia di indifesi turisti e cittadini Italiani nelle nostre città d’Arte. Non chiameremo solo malfattori, gli africani malfattori che distruggono alberghi e case d’accoglienze, stuprano le volontarie, ammazzano la gente per strada sull’esempio di quel kabobo, che nel maggio 2013 seminò il terrore per le strade di Milano. Non saranno solo terroristi, o, peggio, malati di mente, gli islamici terroristi che stanno tritando carne umana Cristiana con le loro sporche bombe attaccate ai coglioni e fatte esplodere in mezzo alla gente ignara ed innocente. Non saremo onerosi, né stitici della lingua Italiana. Sarà pane, al pane. Nero al nero. Zingaro allo zingaro, che sia rom o sinti. Ci scandalizzeremo ancora a vedere gli Italiani che crepano di fame e si impiccano per la vergogna di essere rimasti senza lavoro e senza casa, mentre una pletora di beduini e neri scansafatiche dorme al caldo e si sveglia sui comodi letti degli hotel a 4 stelle, scia e gioca a pallone a nostre spese, mentre – per giunta – ci urla in faccia il proprio odio razziale. Difenderemo il diritto dei popoli occidentali di alzare gli stessi muri che esistono nel resto del mondo, per contrastare invasioni e malaffare. Così come difenderemo il diritto dello stato vaticano, sede non solo di vergogne e immoralità da enciclopedia, a mantenere e tutelare la bellezza e la ricchezza della cinta muraria medievale che lo preserva (e ci preserva), oggi, dalla possibile evasione del peggior papa della sua storia. Sorrideremo ancora tragicomicamente davanti ai cortei di femmine e femministe che urlano contro Trump, il quale cerca di difenderle, e restano mute davanti agli orrori e alle violenze dei paesi islamici, dove le donne valgono meno di uno sputo a terra. E continueremo a lottare perché il mare diventi muro e le navi militari, sentinelle. Perché i confini nazionali vengano rispettati, onorati. Difesi. Perché esista il nazionale e il forestiero. Lo straniero.

LE COMPATIBILITA’ ELETTIVE. IO SON IO E TU NON SEI UN CAZZO.

QUANDO IL DNA GIUDICANTE E’ QUESTIONE DI FAMIGLIA.

Come la legislazione si conforma alla volontà ed agli interessi dei magistrati.

Un’inchiesta svolta in virtù del diritto di critica storica e tratta dai saggi di Antonio Giangrande “Impunitopoli. Legulei ed impunità” e “Tutto su Messina. Quello che non si osa dire”.

Marito giudice e moglie avvocato nello stesso tribunale: consentito o no? Si chiede Massimiliano Annetta il 25 gennaio 2017 su “Il Dubbio”.  Ha destato notevole scalpore la strana vicenda che si sta consumando tra Firenze e Genova e che vede protagonisti due medici, marito e moglie in via di separazione, e un sostituto procuratore della Repubblica, il tutto sullo sfondo di un procedimento penale per il reato di maltrattamenti in famiglia. Secondo il medico, il pm che per due volte aveva chiesto per lui l’archiviazione, ma poi, improvvisamente, aveva cambiato idea e chiesto addirittura gli arresti domiciliari – sia l’amante della moglie. Il tutto sarebbe corredato da filmati degni di una spy story.

Ebbene, devo confessare che questa vicenda non mi interessa troppo. Innanzitutto per una ragione etica, ché io sono garantista con tutti; i processi sui giornali non mi piacciono e, fatto salvo il sacrosanto diritto del pubblico ministero di difendersi, saranno i magistrati genovesi (competenti a giudicare i loro colleghi toscani) e il Csm a valutare i fatti. Ma pure per una ragione estetica, ché l’intera vicenda mi ricorda certe commediacce sexy degli anni settanta e, a differenza di Quentin Tarantino, non sono un cultore di quel genere cinematografico.

Ben più interessante, e foriero di sorprese, trovo, di contro, l’intero tema della incompatibilità di sede dei magistrati per i loro rapporti di parentela o affinità. La prima particolarità sta nel fatto che l’intera materia è regolata dall’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, che la prevede solo per i rapporti con esercenti la professione forense, insomma gli avvocati. Ne discende che, per chi non veste la toga, di incompatibilità non ne sono previste, e quindi può capitare, anzi capita, ad esempio, che il pm d’assalto e il cronista sempre ben informato sulle sue inchieste intrattengano rapporti di cordialità non solo professionale. Ma tant’è.

Senonché, pure per i rapporti fra avvocati e magistrati la normativa è quantomeno lacunosa, poiché l’articolo 18 del regio decreto 30.1.1941 n. 12, che regola la materia, nella sua formulazione originale prevedeva l’incompatibilità di sede solo per “i magistrati giudicanti e requirenti delle corti di appello e dei tribunali […] nei quali i loro parenti fino al secondo grado o gli affini in primo grado sono iscritti negli albi professionali di avvocato o di procuratore”. Insomma, in origine, e per decenni, si riteneva ben più condizionante un nipote di una moglie, e del resto non c’è da sorprendersi, la norma ha settantasei anni e li dimostra tutti; infatti, all’epoca dell’emanazione della disciplina dell’ordinamento giudiziario le donne non erano ammesse al concorso in magistratura ed era molto limitato pure l’esercizio da parte loro della professione forense.

Vabbe’, vien da dire, ci avrà pensato il Csm a valorizzare la positiva evoluzione del ruolo della donna nella società, ed in particolare, per quanto interessa, nel campo della magistratura e in quello dell’avvocatura. E qui cominciano le soprese, perché il Cxm con la circolare 6750 del 1985 che pur disciplinava ex novo la materia di cui all’articolo 18 dell’ordinamento giudiziario, ribadiva che dovesse essere “escluso che il rapporto di coniugio possa dar luogo a un’incompatibilità ai sensi dell’art. 18, atteso che la disciplina di tale rapporto non può ricavarsi analogicamente da quella degli affini”. Insomma, per l’organo di governo autonomo (e non di autogoverno come si suol dire, il che fa tutta la differenza del mondo) della magistratura, un cognato è un problema, una moglie no, nonostante nel 1985 di donne magistrato e avvocato fortunatamente ce ne fossero eccome. Ma si sa, la cosiddetta giurisprudenza creativa, magari in malam partem, va bene per i reati degli altri, molto meno per le incompatibilità proprie.

Della questione però si avvede il legislatore, che, finalmente dopo ben sessantacinque anni, con il decreto legislativo 109 del 2006, si accorge che la situazione non è più quella del ‘41 e prevede tra le cause di incompatibilità pure il coniuge e il convivente che esercitano la professione di avvocato. Insomma, ora il divieto c’è, anzi no. Perché a leggere la circolare del Csm 12940 del 2007, successivamente modificata nel 2009, si prende atto della modifica normativa, ma ci si guarda bene dal definire quello previsto dal novellato articolo 18 come un divieto tout court, bensì lo si interpreta come una incompatibilità da accertare in concreto, caso per caso, e solo laddove sussista una lesione all’immagine di corretto e imparziale esercizio della funzione giurisdizionale da parte del magistrato e, in generale, dell’ufficio di appartenenza. In definitiva la norma c’è, ma la si sottopone, immancabilmente, al giudizio dei propri pari. E se, ché i costumi sociali nel frattempo si sono evoluti, non c’è “coniugio o convivenza”, ma ben nota frequentazione sentimentale? Silenzio di tomba: come detto, l’addictio in malam partem la si riserva agli altri. Del resto, che il Csm sia particolarmente indulgente con i magistrati lo ha ricordato qualche giorno fa pure il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, dinanzi al Plenum di Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare come “il 99% dei magistrati” abbia “una valutazione positiva (in riferimento al sistema di valutazione delle toghe, ndr). Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa”.

Insomma, può capitare, e capita, ad esempio, che l’imputato si ritrovi, a patrocinare la parte civile nel suo processo, il fidanzato o la fidanzata del pm requirente.

E ancora, sempre ad esempio, può capitare, e capita, che l’imputato che debba affrontare un processo si imbatta nella bacheca malandrina di un qualche social network che gli fa apprendere che il magistrato requirente che ne chiede la condanna o quello giudicante che lo giudicherà intrattengano amichevoli frequentazioni con l’avvocato Tizio o con l’avvocata Caia. Innovative forme di pubblicità verrebbe da dire.

Quel che è certo, a giudicare dalle rivendicazioni del sindacato dei magistrati, è che le sempre evocate “autonomia e indipendenza” vengono, evidentemente, messe in pericolo dal tetto dell’età pensionabile fissato a settant’anni anziché a settantacinque, ma non da una disciplina, che dovrebbe essere tesa preservare l’immagine di corretto ed imparziale esercizio della funzione giurisdizionale, che fa acqua da tutte le parti.

Al fin della licenza, resto persuaso che quel tale che diceva che i magistrati sono “geneticamente modificati” dicesse una inesattezza. No, non sono geneticamente modificati, semmai sono “corporativamente modificati”, secondo l’acuta definizione del mio amico Valerio Spigarelli. E questo è un peccato perché in magistratura c’è un sacco di gente che non solo è stimabile, ma è anche piena di senso civico, di coraggio e di serietà e che è la prima ad essere lesa da certe vicende più o meno boccaccesche. Ma c’è una seconda parte lesa, alla quale noi avvocati – ma, a ben vedere, noi cittadini – teniamo ancora di più, che è la credibilità della giurisdizione, che deve essere limpida, altrimenti sovviene la sgradevole sensazione di nuotare in uno stagno.

Saltando di palo in frasca, come si suo dire, mi imbatto in questa notizia.

Evidentemente quello che vale per gli avvocati non vale per gli stessi magistrati.

VIETATO SPIARE L'AMORE TRA GIUDICI. I CASI DI INCOMPATIBILITA' FINO AL 1967 (prima di quell' anno, i magistrati erano soltanto uomini): Tra padre e figli (o tra fratelli o tra zio o nonno e nipote) entrambi magistrati nello stesso collegio giudicante o nel collegio d' impugnazione; oppure uno magistrato e uno avvocato nello stesso circondario, scrive Giovanni Marino il 25 maggio 1996 su "La Repubblica". Dopo IL 1967 (cioè dopo la legge che permetteva l'ingresso in magistratura delle donne): Incompatibilità estesa anche: Tra marito e moglie, uno magistrato e uno avvocato nello stesso circondario Tra marito e moglie entrambi magistrati, se nello stesso collegio giudicante o nel collegio d' impugnazione Tra marito Pm e moglie Gip (o viceversa) nello stesso circondario Magistrati conviventi e operanti nello stesso circondario.

Giudici e avvocati compagni di vita. Il Csm apre una pratica a Torino. Palazzo dei Marescialli, contestata la compatibilità ambientale, scrive Raphael Zanotti il 18/09/2010 su “La Stampa”. L’amore non ha diritto di cittadinanza nelle aride lande della Giustizia e dei codici deontologici. Non è previsto, non è contemplato. Quando lo si scopre, si cerca di annichilirlo, azzerarlo. Si può essere buoni magistrati se si ama l’avvocato dall’altra parte della barricata? Si può difendere al meglio il proprio assistito se si deve battagliare con il giudice con cui, il mattino dopo, ci si alza per fare colazione? L’uomo è fragile, la legge no. Tra gli uomini e le donne di giustizia, l’amore è vietato. Lo si cancella con due parole e un articolo di legge: incompatibilità ambientale. Oppure, il più delle volte, lo si tiene nascosto, riservato. Perché tra quelle aule austere, tra i corridoi e gli scartafacci, è come in qualsiasi altro posto: l’amore sboccia, cresce, s’interrompe. È la vita che preme contro le regole che gli uomini si sono dati per riuscire a essere più equi, per non doversi affidare a eroi e asceti. Ma per quanto discreto, disinteressato e onesto, l’amore - a volte - viene scoperto. E allora la legge interviene, implacabile. E gli amanti tremano. Per uno che viene sorpreso, altri nove restano nell’ombra. Tutti sanno di essere di fronte a una grande ipocrisia. Perché nei tribunali ci sono sempre stati amori clandestini, che vivono di complicità. Oppure ufficiali e stabili da così tanto da sentirsi al sicuro. Il giudice torinese Sandra Casacci e l’avvocato Renzo Capelletto vivono la loro storia sentimentale da 31 anni. Una vita. L’hanno sempre fatto alla luce del sole. Il nuovo Consiglio Superiore della Magistratura, targato Michele Vietti, che solo per un caso è torinese e avvocato anch’egli, ha appena aperto la sua prima pratica disciplinare. L’ha aperta nei confronti del giudice Casacci per incompatibilità ambientale. Il suo compagno, Capelletto, è amareggiato: «Mi spiace per Sandra - racconta - Stiamo insieme da tanto, non ci siamo mai nascosti. Sono stato anche presidente degli avvocati di Torino e nessuno ha mai potuto dire che ci siano stati contatti tra la mia attività di avvocato e la sua di giudice. Il vero problema è che Sandra, dopo una vita di lavoro, sta per diventare capo del suo ufficio e forse questo dà fastidio a qualcuno». Il Csm ha aperto un’altra pratica contro un giudice torinese. Questa volta si tratta di Fabrizia Pironti, legata per anni sentimentalmente all’avvocato Fulvio Gianaria, uno dei legali più conosciuti e stimati del foro torinese. «Della mia vita privata preferirei non parlare - dice l’avvocato - ma una cosa la dico: in tutto questo tempo non ho mai partecipato a un processo che avesse come giudice la dottoressa Pironti. E così i miei colleghi di studio. È la differenza tra la sostanza e il formalismo». La pratica aperta dal Csm mette il dito in una piaga. Nei tribunali italiani non ci sono solo coppie formate da giudici e avvocati, ma anche giudici e giudici sono incompatibili in certi ambiti. Oppure parenti, affini. La legge dice, fino al secondo grado. «Abbiamo aperto questa pratica perché ci è arrivata una segnalazione - si limita a dire il vicepresidente del Csm, Vietti - È una pratica nuova, verificheremo». Il 4 ottobre, a Palazzo dei Marescialli, è stato convocato il procuratore generale del Piemonte Marcello Maddalena che dovrà spiegare se esiste una situazione di incompatibilità dei suoi due giudici. E, nel caso esista da tempo, perché non è stata risolta prima. Dovrà spiegare, insomma, come mai l’amore ha trovato spazio tra le aule austere e i faldoni dei suoi uffici giudiziari.  

TRA MOGLIE E MARITO NON METTERE L’EXPO - PER GIUSTIFICARE IL SILURAMENTO DI ROBLEDO DAL POOL ANTITANGENTI, BRUTI LIBERATI HA SEGNALATO AL CSM CHE LA NOVELLA MOGLIE DEL PM LAVORA ALL’UFFICIO LEGALE DI EXPO: “C’ERA INCOMPATIBILITÀ”. Per Robledo la storia della moglie sarebbe solo un “pretesto” di Bruti Liberati per dare legittimità alla propria rimozione, bocciata il 28 ottobre dal Consiglio Giudiziario come “esautoramento usato per risolvere in modo improprio l’esistenza di un conflitto”…, scrive Luigi Ferrarella per “il Corriere della Sera” il 6 novembre 2014. L’ex capo del pool antitangenti Alfredo Robledo, che indagava sugli appalti collegati a Expo 2015, ha la moglie avvocato amministrativista che lavora all’ufficio legale di Expo 2015: è quanto il procuratore Edmondo Bruti Liberati ha segnalato ieri al Csm e al Consiglio Giudiziario, alla vigilia dell’odierna assemblea dei pm da lui convocata per «voltare pagina» e «rilanciare l’orgoglio di appartenere alla Procura». Lo fa inviando anche una lettera di risposta richiesta al commissario di Expo 2015 Giuseppe Sala, e aggiungendo che la potenziale incompatibilità nel pool antitangenti tra il pm e la coniuge non esiste invece ora nel nuovo pool («esecuzione delle pene») al quale il procuratore rivendica di aver trasferito Robledo il 3 ottobre. Ma questi ribatte che la storia della moglie sarebbe solo un «pretesto» di Bruti per dare una rinfrescata di legittimità alla propria rimozione, bocciata il 28 ottobre dal Consiglio Giudiziario come «esautoramento usato per risolvere in modo improprio l’esistenza di un conflitto»: ad avviso di Robledo, infatti, non c’è mai stata alcuna possibile incompatibilità neppure quando la moglie faceva l’amministrativista perché — spiega — operava in una nicchia estranea alle indagini, e comunque ora proprio per evitare «pretesti» si è cancellata dall’Ordine degli Avvocati.  L’ordinamento giudiziario, per prevenire incompatibilità nel lavoro, impone ai magistrati di segnalare entro 60 giorni (e ai capi di vigilare) relazioni sentimentali con altri magistrati o avvocati del distretto. Robledo non lo fa nei 60 giorni dopo le nozze il 10 luglio 2014 con l’avvocato amministrativista Corinna Di Marino. A Bruti che ne chiede conto, risponde che non ravvisa alcuna incompatibilità. Bruti chiede allora il 23 ottobre «dettagli» sul tipo di lavoro della moglie, e il 31 ottobre Robledo, pur «ribadendo l’insussistenza di incompatibilità», aggiunge che la moglie, avvocato dal 2009, ha svolto la professione forense «esclusivamente nel campo del diritto amministrativo sino a giugno 2013», quando ha smesso e ha chiuso in luglio la partita Iva. Ma «al solo di fine di non lasciare spazio a qualsiasi ulteriore incertezza o pretesto, si è anche cancellata dall’Albo degli Avvocati il 27 ottobre 2014». Intanto Bruti ha interpellato il commissario di Expo, Sala, che il 3 novembre spiega che l’avvocato «nel settembre 2013» rispose a un bando online di Expo «per una posizione di specialista legale amministrativa», fece la preselezione con altri candidati, la superò, svolse i colloqui e infine ebbe il punteggio più alto. Mentre in Expo raccontano che è una professionista stimata e chi l’ha selezionata non sapeva fosse legata a un pm, la lettera di Sala prosegue indicando in 60.000 euro lordi l’anno lo stipendio della moglie di Robledo con contratto co.co.pro. sino a fine 2015 per la stipula dei «contratti commerciali» del Padiglione Italia in Expo. In linea con quanto Robledo scrive sul fatto che la moglie, «in seguito al superamento di concorso pubblico nel settembre 2013, svolge attività di mera consulenza legale interna presso Expo 2015 nella materia specifica della valorizzazione ed esposizione di prodotti tipici d’eccellenza nella filiera agroalimentare ed enogastronomica italiana». 

Procuratore Napoli, il figlio legale ostacolo per Cafiero de Raho, scrive Mercoledì 7 Giugno 2017 Il Mattino. Il suo curriculum è eccellente, così come le sue doti professionali sono riconosciute al Csm da tutti. Ma sulla via che potrebbe portare il capo della procura di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho alla nomina a procuratore di Napoli c'è un ostacolo che non si sa ancora se possa essere aggirato: un figlio che fa l'avvocato penalista proprio nel capoluogo campano. Una situazione che potrebbe determinare - se effettivamente De Raho venisse preferito al suo diretto concorrente, l'ex capo di gabinetto del ministro della Giustizia, Giovanni Melillo - quella che tecnicamente viene chiamata «incompatibilità parentale», e che è causa di trasferimento ad altra sede per i magistrati. Per questo al Csm c'è chi chiede di affrontare subito questo nodo, prima ancora che, la prossima settimana, la Commissione Direttivi entri nel vivo della discussione sul candidato da proporre al plenum. Anche per Melillo - che con De Raho si contende pure la nomina a procuratore nazionale antimafia - la strada non è in discesa: su di lui restano i dubbi di una parte dei consiglieri di Area (gruppo di riferimento dello stesso magistrato e ago della bilancia in questa difficile partita), che giudicano poco opportuno affidare la guida della procura di Napoli, alle prese con inchieste delicate con implicazioni politiche, come quella su Consip, a chi sino a poco tempo fa ha ricoperto un ruolo di diretta collaborazione con il ministro Orlando. Per quanto riguarda De Raho, il problema del figlio avvocato, Francesco, si era già posto in passato, quando il magistrato era procuratore aggiunto a Napoli. E nel 2009, dopo una lunga istruttoria, il Csm aveva escluso che vi fosse un'incompatibilità ambientale e funzionale. Non c'è «il pericolo di interferenze», stabilirono allora i consiglieri, accertato che Francesco non aveva mai trattato la materia specialistica del padre (all'epoca alla guida della sezione sulle misure di prevenzione della Dda), non aveva con lui nessun rapporto di natura professionale, e che, esercitando a Napoli, non avrebbe potuto occuparsi nemmeno in futuro di criminalità casertana, materia di competenza del genitore. Allora però De Raho era un procuratore aggiunto e dunque coordinava un settore limitato. Per questo il ragionamento seguito all'epoca non potrebbe essere riproposto ora per il ruolo di capo dell'ufficio. E il fatto che tra il magistrato e il figlio non ci siano più rapporti dal 1997, ribadito dal capo della procura di Reggio nell'audizione di dieci giorni fa al Csm, potrebbe non essere decisivo. Anzi, nel 2009, i consiglieri ritennero questo elemento «privo di rilevanza» perché «l'intensità della frequentazione tra i congiunti non è presa in considerazione dalla legge e può mutare nel tempo in maniera del tutto imprevista». La più facile soluzione del rebus sarebbe destinare De Raho al vertice della procura nazionale antimafia e Melillo alla guida di quella campana. Ma un piano del genere richiederebbe l'unità di Area, che ancora non c'è.

Parentopoli al tribunale di Lecce, il presidente verso l'allontanamento. Il figlio di Alfredo Lamorgese, avvocato iscritto a Bari, segue in Salento 37 cause civili, ma in base alla legge sono ammesse, in via eccezionale, deroghe all'incompatibilità parentale solo per piccole situazioni. Sul caso è intervenuto il Csm per il trasferimento d'ufficio, scrive Chiara Spagnolo 12 giugno 2012 su "La Repubblica". Il padre presidente del Tribunale di Lecce, il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, ma con 37 cause civili in itinere davanti allo stesso Tribunale del capoluogo salentino. È la saga dei Lamorgese, famiglia di giudici e avvocati, che potrebbe costare il trasferimento al presidente Alfredo, dopo che la prima commissione del Csm ha aperto all’unanimità la procedura per "incompatibilità parentale". A Palazzo dei Marescialli è stata esaminata la copiosa documentazione inoltrata dal Consiglio giudiziario di Lecce, che, qualche settimana fa, ha rilevato la sussistenza delle cause di incompatibilità attribuite all’attuale presidente del Tribunale. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede, infatti, che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità. Per ottenere la deroga, tuttavia, i legami parentali tra giudici e avvocati devono essere portati all’attenzione del Csm, cosa che Lamorgese non avrebbe fatto all’atto della sua nomina a presidente del Tribunale, avvenuta nel 2009. A distanza di soli tre anni quella leggerezza rischia di costargli cara, ovvero un trasferimento prematuro rispetto agli otto anni previsti per il suo incarico, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Diversamente per quanto riscontrato rispetto alla figlia e alla nuora, anche loro avvocati, le cui professioni non sarebbero però incompatibili con l’attività del presidente, dal momento che la prima non esercita la professione e la seconda si occupa di giustizia amministrativa. Il prossimo passo del Consiglio superiore della magistratura sarà la convocazione di Lamorgese a Roma, che sarà ascoltato il prossimo 25 giugno per chiarire la propria posizione. All’esito dell’ascolto, e dell’esame di eventuali documenti prodotti, la prima commissione deciderà se chiedere al plenum il trasferimento o archiviare il caso. 

Lecce, trasferito il presidente del tribunale. "Il figlio fa l'avvocato, incompatibile". La decisione presa all'unanimità dal Csm: Alfredo Lamorgese non può esercitare nello stesso distretto dove lavora il suo congiunto. Il magistrato verso la pensione anticipata, scrive Chiara Spagnolo il 13 febbraio 2013 su "La Repubblica". Finisce con la parola trasferimento l’esperienza di Alfredo Lamorgese alla guida del Tribunale di Lecce. Il plenum del Csm è stato perentorio: impossibile sedere sulla poltrona di vertice degli uffici giudicanti salentini se il figlio avvocato, formalmente iscritto all’albo di Bari, in realtà esercita la sua professione anche a Lecce. Trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale era stato chiesto dalla Prima commissione e così sarà, in seguito alla decisione presa ieri all’unanimità a Palazzo dei Marescialli. Prima che la Terza commissione scelga per Lamorgese una nuova destinazione, tuttavia, il giudice potrebbe presentare domanda di pensionamento, così come è stato comunicato ad alcuni membri del Csm, che avevano consigliato di chiudere immediatamente la lunga esperienza professionale onde evitare l’onta di una decisione calata dall’alto. La vicenda tiene banco da mesi nei palazzi del barocco, da quando il Consiglio giudiziario di Lecce ha inoltrato al Consiglio superiore una copiosa documentazione che ha determinato l’apertura della pratica per incompatibilità “parentale”. Le verifiche effettuate dall’ordine degli avvocati hanno permesso infatti di appurare che Andrea Lamorgese risulta nominato come legale in 193 procedimenti pendenti davanti agli uffici giudiziari salentini e che la sua appartenenza al Foro di Bari, probabilmente, non basta a far venire meno le cause di incompatibilità previste dall’ordinamento giudiziario. La legge prevede che i magistrati non possano esercitare funzioni direttive in un Tribunale in cui un familiare svolga l’attività forense. La deroga a tale norma si può ottenere solo quando l'attività difensiva del congiunto sia "sporadica e poco significativa" anche dal punto di vista della qualità e deve essere tempestivamente comunicata all’organo di autogoverno della magistratura. Stando a quanto verificato dal Csm, tuttavia, il presidente non avrebbe comunicato alcuna causa di incompatibilità all’atto della sua nomina, avvenuta nel 2009, né negli anni successivi. E a poco è servito il tentativo di difendersi che in realtà le cause in cui il figlio è stato protagonista come avvocato sono in numero di gran lunga inferiore rispetto alle 193 contestate, perché l’accertamento sull’attività svolta dal figlio ha permesso di scoprire come l’esercizio della funzione legale di Andrea a Lecce non fosse né sporadica né poco significativa. Al punto che, secondo il Consiglio superiore, uno dei due Lamorgese avrebbe dovuto lasciare.

Brindisi, giudici contro il procuratore, scrive il 27 giugno 2008 Sonia Gioia su "La Repubblica". Il procuratore Giuseppe Giannuzzi, oggetto di un pronunciamento di incompatibilità parentale da parte del Consiglio superiore della magistratura, che lo costringe ad abbandonare il ruolo rivestito nella procura brindisina, non potrà mai più dirigere un'altra procura. E' questo, a quanto pare, quello che stabilisce la legge. Sebbene a Giannuzzi resti la chance del ricorso al tribunale amministrativo contro il provvedimento adottato dall' organo di autogoverno dei magistrati. Incompatibilità sorta sulla base di un procedimento penale nel quale un figlio del magistrato, Riccardo Giannuzzi, avvocato iscritto all'albo forense di Lecce, assunse la difesa di alcuni indagati sulla base di una richiesta al gip controfirmata dallo stesso procuratore capo. Giannuzzi junior, raggiunto telefonicamente, si esime da qualsiasi commento: "Non parlo per una questione di correttezza nei confronti di mio padre. Senza il suo consenso non sarebbe giusto rilasciare alcuna dichiarazione". Ma la famiglia, coinvolta in una vicenda senza precedenti, almeno nella procura brindisina, è comprensibilmente provata. Sono stati i magistrati della città messapica i primi a far emergere il caso della presunta incompatibilità parentale. Gli stessi giudici difesi a spada tratta da Giannuzzi quando gli strali del gip Clementina Forleo, autrice della denuncia contro i pm Alberto Santacatterina e Antonio Negro, si sono abbattuti sulla procura di Brindisi. A settembre scorso la sezione locale dell'associazione nazionale magistrati si riunì per discutere il caso, dopo che da tempo, nei corridoi del palazzo al civico 3 di via Lanzellotti, si mormorava insistentemente e non senza insofferenza. L'avvocato Giannuzzi, per quanto iscritto all'albo salentino dal 1999, figurava in qualità di difensore in diversi processi celebrati nel tribunale brindisino. Fino all' ultimo caso, esploso a seguito di un blitz per droga. Il legale assunse la difesa di uno degli indagati, arrestato a seguito dell'operazione, sulla base di una richiesta al gip controfirmata da Giuseppe Giannuzzi. A seguito della vicenda, i giudici tanto della procura quanto del tribunale, riuniti in consesso, insorsero siglando a maggioranza una delibera in cui si legge: "L' evidente caso di incompatibilità parentale mina il prestigio di cui la magistratura brindisina ha sempre goduto". Parole pesanti, che il procuratore capo Giuseppe Giannuzzi, di stanza a Brindisi dal settembre 2004, non ha mai voluto commentare. Adesso, il pronunciamento del Csm: padre e figlio non possono convivere professionalmente nello stesso distretto giudiziario. Diciotto i voti a favore, sei i favorevoli a Giannuzzi, fra cui quello del presidente Nicola Mancino. La decisione è stata adottata sebbene l'avvocato Riccardo Giannuzzi abbia, a seguito del putiferio venutosi a creare, rinunciato a tutti i mandati che potevano vedere in qualche modo coinvolto il procuratore capo della Repubblica di Brindisi. La prima commissione del Csm si era già espressa all' unanimità a favore del trasferimento, sempre alla luce del fatto che Giannuzzi junior esercita la professione forense anche nel capoluogo messapico. Le conseguenze del procedimento, a quanto pare, non sortiranno effetti in tempi brevi: la decisione del plenum del Csm infatti, dopo la notifica potrà essere impugnata dal procuratore capo. La prassi prevede che a indicare le nuove, possibili sedi di destinazione sia ora la terza commissione del Consiglio superiore della magistratura. La scelta toccherà direttamente al giudice, che se non dovesse esprimersi, sarà trasferito d' ufficio. Ma in nessuna sede in cui Giuseppe Giannuzzi verrà destinato, lo prevede il regolamento, mai più potrà rivestire il ruolo di procuratore capo. A meno che non presenti ricorso al Tar e lo vinca.

Uccise il figlio, condanna ridotta a 18 anni di reclusione per un 66enne barcellonese, scrive il 22 febbraio 2017 “24live.it”.  Condanna ridotta a 18 anni per il 66enne muratore barcellonese Cosimo Crisafulli che nel maggio del 2015 uccise con un colpo di fucile il figlio Roberto, al termine di una lite verificatisi nella loro abitazione di via Statale Oreto.  Nel giugno 2016 per l’uomo, nel giudizio del rito abbreviato davanti al Gup del tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, Salvatore Pugliese, era arrivata la condanna a 30 anni di reclusione. La Corte d’Assise d’Appello di Messina, che si è pronunciata ieri, presieduta dal giudice Maria Pina Lazzara, ha invece ridotto di 12 anni la condanna, sebbene il sostituto procuratore generale, Salvatore Scaramuzza, avesse richiesto la conferma della condanna emessa in primo grado. Decisiva per il 66enne la concessione delle attenuanti generiche ritenute equivalenti alle aggravanti, richieste già in primo grado dall’avvocato Fabio Catania, legale del 66enne Cosimo Crisafulli.

Cosa c’è di strano direte voi.

E già. Se prima si è parlato di incompatibilità tra magistrati e parenti avvocati, cosa si potrebbe dire di fronte ad un paradosso?

Leggo dal post pubblicato il 2 febbraio 2018 sul profilo facebook di Filippo Pansera, gestore di Messina Magazine, Tele time, Tv Spazio e Magazine Sicilia. “Nel 2016, la dottoressa Maria Pina Lazzara presidente della Corte d'Assise d'Appello di Messina, nonchè al vertice della locale Sezione di secondo grado minorile emetteva questa Sentenza riformando il giudizio di primo grado statuito dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto. L'accusa era rappresentata in seconde cure, dall'ex sostituto procuratore generale Salvatore Scaramuzza (oggi in pensione). La dottoressa Lazzara ed il dottor Scaramuzza... sono marito e moglie dunque per la presidente della Corte vi era una incompatibilità ex articolo 19 dell'Ordinamento Giudiziario. Invece come al solito, estese ugualmente il provvedimento giudiziario... che è dunque da intendersi nullo. Inoltre, malgrado il dottor Salvatore Scaramuzza sia andato in pensione, la dottoressa Lazzara è comunque incompatibile anche al giorno d'oggi nel 2018. Salvatore Scaramuzza e Maria Pina Lazzara infatti, hanno una figlia... Viviana... anch'essa magistrato che opera presso Barcellona Pozzo di Gotto in tabella 4 dal 2017. Sempre ex articolo 19 dell'Ordinamento Giudiziario, madre e figlia non possono esercitare nello stesso Distretto Giudiziario... come invece succede ora ed in costanza di violazione di Legge. A Voi..., il giudizio.”

Egregio signore, apprendo in data odierna da telefonate di amici che una citazione riferentesi a me è apparsa nel contesto di un articolo intitolato " IO SON IO E TU NON SEI UN C........quando il dna giudicante è questione di famiglia". Il riferimento concerne un presunto rapporto di coniugio tra me e il sostituto procuratore generale di Messina, Dr. Scaramuzza oggi in pensione, e un rapporto filiale tra me e tale Viviana. Mi sorprende come circostanze di semplice verifica siano attestate senza il minimo controllo: la informo che mio marito non è il dr. Scaramuzza, è persona estranea all'ordine giudiziario ed io ho tre figli tutti maschi, nessuno dei quali ha intrapreso la carriera di magistrato. Il primo anzi, e per fortuna, ha pensato bene di andarsene all'estero dove si è guadagnato un dottorato con borsa, è un libero pensatore, studioso dei movimenti e attivista lui stesso per tentare di scardinare questo sistema che - sembrerebbe- ella cerchi di mettere alla gogna. L'accostamento del mio nome ad altre vicende che non conosco e non giudico non fa giustizia del mio ultratrentennale impegno professionale e personale: per mia formazione ho in odio chiunque cerchi scorciatoie e agevolazioni, fosse anche il saltare una fila o segnalare per un esame all'università il proprio figlio (nell'ultimo anno uno di essi è stato bocciato per ben 3 volte ad un esame, senza che questo abbia creato turbamenti o sensazione di lesa maestà). Per questo il suo articolo mi ha fatto sorridere, ma mi ha anche lasciato l'amaro in bocca. Spero in una pronta rettifica, ma ove questa non intervenisse, me ne farò una ragione. F.to D.ssa Maria Pina LAZZARA.

Dr.ssa Lazzara mi spiace per il qui pro quo e per il turbamento creato, a cui porrò immediato rimedio con la doverosa rettifica. Ha fatto bene ad avvisarmi. Io sono un saggista. Ho riportato un post di un direttore di un portale d’informazione. Un giornalista a cui spetta la verifica delle fonti e di cui io mi sono fidato. Questo comunque non mi esime dal chiederle scusa e ringraziarla nell’essersi comportata da perfetta gentil donna.  Alle sentite scuse, seguirà pronta rettifica.

Si rettifica un errore di persona. Maria Pina Lazzara non è moglie del dr Scaramuzza e Viviana Scaramuzza non è sua figlia. Nel saggio si è riportato un post di un direttore di un portale d’informazione. Un giornalista a cui spetta la verifica delle fonti.

Dopo il tono conciliante e nonostante la pronta rettifica segue messaggio di minaccia.

Buonasera, sono la d.ssa Maria Pina LAZZARA, Presidente della Corte d'Assise d'Appello di Messina, nonchè della sezione Minori. Con riferimento all'articolo pubblicato in data 4/2/2018 dal titolo IO SON IO E TU NON SEI UN C.....QUANDO IL DNA GIUDICANTE E' QUESTIONE DI FAMIGLIA, vi segnalo - sempre che la verità abbia per voi rilevanza- che : a) sono coniugata con BARTOLO Umberto fin dal 1985 e non con il dr Salvatore Scaramuzza, sostituto procuratore generale oggi in pensione; mio marito , in quiescenza dal 2017, ha svolto le sue funzioni sempre al di fuori dell'ambito giudiziarioi b) non ho alcuna figlia femmina a nome Viviana , ma tre figli maschi , ancora studenti. La collocazione della citata falsa notizia in un contesto di evidente denigrazione dei magistrati, indicati come soggetti adusi ad operare al di fuori delle regole, è quanto di più estraneo alla mia formazione personale e professionale: ho sempre odiato le prevaricazioni da chiunque esse provengano ( ho sempre rispettato la fila, ho sempre prenotato le visite mediche con il numero verde delle prenotazioni , ho assistito rigorosa ed impassibile alle numerose bocciature ad alcuni esami universitari di qualcuno dei miei figli, che sono cresciuti con la consegna del silenzio sulla identità della madre e di tutto ciò vado orgogliosa). Proprio in ragione di quanto sopra, mi ha particolarmente turbato l'accostamento della mia persona alle altre vicende trattate nel corpo dell'articolo e mi riservo di valutare le opportune iniziative da assumere a tutela della mia dignità. F.to D.ssa Maria Pina LAZZARA

«Cari giornalisti dovete sentire le due campane», scrive Giulia Merlo l'11 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Un giornale scrive il falso, ma il diritto di stampa prevale su quello alla reputazione e dunque il cittadino non ha diritto a veder ristabilita in via immediata (e dunque con un ricorso cautelare) la verità, ma solo dopo un processo di cognizione piena. A contraddire almeno parzialmente questo principio, stabilito da due sentenze delle Sezioni Unite di Cassazione penali del 2015 (29 gennaio 2015 n. 31022e civili del 2016 (18 novembre 2016 n. 23469), è intervenuto il Tribunale civile di Milano. Il caso è quello di due avvocati, indicati da un articolo apparso sul sito de L’Espresso come titolari di conti correnti off shore e come amministratori di società off shore, sulla base del contenuto dei cosiddetti “Paradise Papers” (un fascicolo riservato composto da 13,5 milioni di documenti confidenziali presso la Appleby, uno studio legale che fornisce consulenze internazionali in campo societario e fiscale). I due, dimostrando di non avere conti off shore e di non essere amministratori di società, hanno chiesto in via d’urgenza al tribunale di ordinare la rimozione dei loro nomi dal sito del settimanale. L’ordinanza di primo grado ha dichiarato la richiesta inammissibile proprio sulla base delle sentenze delle Sezioni Unite ma, in sede di reclamo, il tribunale ha parzialmente riformato la decisione. «La vicenda presenta un problema di giustizia sostanziale molto chiaro», ha spiegato l’avvocato Iuri Maria Prado, difensore dei due diffamati, «Se una testata online pubblica una notizia palesemente e provatamente falsa, seguendo l’orientamento della Cassazione il cittadino non ha diritto ad avere una tutela d’urgenza con la rimozione della notizia, ma deve attendere i tempi di un processo ordinario per diffamazione: e questo perché il diritto alla reputazione è considerato da quella giurisprudenza ‘ recessivo’ ( cioè vale meno) rispetto al diritto alla libera manifestazione del pensiero attraverso la stampa». Il Tribunale, dunque, ha stabilito che non è possibile privare la vittima di qualunque tutela di urgenza, anche se questa tutela in via cautelare non può tradursi nè nel sequestro della pubblicazione, nè nell’inibizione alla sua ulteriore diffusione, ma «sono ammissibili rimedi di tipo integrativo e correttivo» o «un “aggiornamento” della notizia». Si tratta di «un piccolo spiraglio aperto dal tribunale di Milano, che scalfisce almeno in parte il poco condivisibile orientamento delle Sezioni Unite», ha riconosciuto l’avvocato Prado. Tuttavia, a fronte di questa apertura sul piano del riconoscimento generale di un diritto, nel caso di specie il Tribunale ha rigettato la richiesta di far pubblicare sul sito de L’Espresso il provvedimento del giudice, Secondo il collegio, infatti, «nel caso di specie sarebbe superfluo, perchè nel corpo dell’articolo è stato inserito il link contenente le lettere di precisazioni e spiegazioni inviate per email alla redazione dai reclamanti». In questo modo, secondo i giudici, «è stato garantito il diritto degli stessi di far conoscere la “loro verità”, informando il lettore dell’esistenza di elementi ulteriori e contrastanti rispetto a quelli contenuti nell’articolo». Proprio in questo, secondo l’avvocato Prado, sta l’elemento di non condivisibilità: «Il fatto che non siano titolari di conti off shore non è la “loro verità” ma “la” verità oggettiva e non controvertibile. Nel caso dei due avvocati la diffamazione non sta nell’espressione di un giudizio, ma nell’attribuzione di un fatto specifico falso». In sostanza, aggiungere ad un articolo online la rettifica dei diretti interessati non ha certo la stessa portata di pubblicare un provvedimento che attesta la verità stabilita da un giudice, sia pure in via d’urgenza. Eppure, anche se l’ordinanza non riconosce pieno diritto alla richiesta di vedere ristabilita la verità da parte delle vittime, riconosce un elemento importante: «il carattere pervasivo e diffusivo» di una notizia pubblicata online «è idoneo a causare danni potenzialmente irreparabili». Per questo, il cittadino non deve attendere il corso di un giudizio a cognizione piena, ma ha diritto ad ottenere una qualche forma di tutela immediata. Un piccolo passo nella direzione di riconoscere che il diritto all’onore e alla reputazione del cittadino non possa essere considerato figlio di un Dio minore rispetto al diritto di stampa. Allargando l’orizzonte della vicenda, infatti, si potrebbe arrivare al paradosso che «per diffondere fake news contando sul fatto che esse possano essere eliminate dalla rete solo al termine di un lungo processo per diffamazione, basterebbe che un ricco magnate apra una testata online e la registri in tribunale indicando un direttore responsabile», ha spiegato Prado. Se contiene notizie false, infatti, un sito ordinario può essere sequestrato, una testata giornalistica online invece no. Dunque, incuneandosi tra le maglie della giurisprudenza, basterebbe un adempimento burocratico per riparare sotto l’ombrello dei diritti costituzionalmente riconosciuti un abuso dei mezzi di informazione.

Scrive Filippo Pansera il 9 marzo 2018 sulla sua Pagina Facebook: "Molte settimane fa, scrivevo di una giudice altolocata (perchè con incarichi direttivi di vertice a Palazzo Piacentini - Messina), che essa avesse una figlia magistrato ed un marito giudice..., in realtà sono stato tratto in inganno da una dei miei avvocati e da un secondo amico mio avvocato. Successivamente, ho scoperto come stanno effettivamente le cose. La dottoressa non ha figli giudici o avvocati, bensì è cognata di una avvocatessa con Studio legale in Messina presso altro collega... arrestato nel 2017... e con trascorsi politici di centro-destra. Dunque, la signora, è incompatibile ex articolo 18 dell'Ordinamento Giudiziario".

Tribunale di Messina, le relazioni pericolose emerse dallo screening di un gruppo di giovani avvocati, scrive l'1 settembre 2016 "100 Nove". Nello “screening” effettuato in relazione al Tribunale di Messina, un gruppo di giovani avvocati emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause. E altro, dopo l’esplosione del caso Simona Marra. Un dettagliato elenco di tutte le anomalie nei rapporti tra avvocati e magistrati nel distretto giudiziario di Messina. Lo ha predisposto un gruppo di giovani avvocati che ha passato al setaccio le situazioni “controverse” nei tribunali della provincia, dopo l’esplosione del “caso Simona Merra”, il pm di Trani titolare del fascicolo sull’incidente ferroviario del 12 luglio tra Bari e Barletta dove hanno perso la vita 23 persone, sorpresa da uno scatto fotografico a farsi baciare il piede dall’avvocato Leonardo De Cesare, legale di Vito Picaretta, capostazione di Andria che è il principale indagato della strage. Nello “screening” del Tribunale di Messina, conosciuto in passato come “rito peloritano”, emergono una serie di rapporti in chiaroscuro tra magistrati, prima sposati e poi divorziati, che si trovano ad operare nello stesso tribunale; magistrati che si ritrovano cognati avvocati a discutere le stesse cause; magistrati togati che, tra i 64 incaricati alla commissione tributaria, si ritrovano nella rotazione ad avere parenti diretti in commissione; magistrati invitati la sera a cena da avvocati, con i quali hanno fascicoli aperti. Una situazione anomala, tollerata per una sorta di quieto vivere, che preoccupa ora i giovani avvocati promotori dello screening: si stanno interrogando se inviare in forma anonima il documento solo ai giornali e al Consiglio giudiziario, o solo alla sezione disciplinare del Csm e alla procura generale della Cassazione: temono rappresaglie professionali, da parte dei magistrati e consiglieri dell’Ordine. Sulla questione delle incompatibilità, si è aperto un vivace dibattito anche a livello nazionale. Se da una parte il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini chiede ai magistrati di assumere un maggiore senso di sobrietà e finirla con la giustizia-spettacolo, dall’altra, la stessa categoria dei magistrati, dilaniata dalle correnti, si è spaccata sul caso “Simona Marra” con posizioni divergenti tra Magistratura Indipendente, Magistratura Democratica, Unicost, Area, la corrente di sinistra, e Autonomia & Indipendenza, il gruppo che fa capo al presidente nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, che ha raccolto un buon numero di adesioni in provincia di Messina, dove esponente di punta è il procuratore aggiunto, Sebastiano Ardita.

Giustizia alla cosentina: tutte le “parentele pericolose” tra giudici, pm e avvocati, scrive Iacchite il 22 luglio 2016. Diciassette magistrati del panorama giudiziario di Cosenza e provincia risultano imparentati con altrettanti avvocati dei fori cosentini. Una situazione impressionante, che corre da anni sulle bocche di tutti i cosentini che hanno a che fare con questo tipo di “giustizia”. Il dossier Lupacchini, già dieci anni fa, faceva emergere in tutta la sua gravità questo clima generale di “incompatibilità ambientale” ma non è cambiato nulla, anzi. La legge, del resto, non è per niente chiara e col passare del tempo è diventata anche più elastica. Per cui diventa abbastanza facile eludere il comma incriminato e cioè che il trasferimento diventa ineludibile “quando la permanenza del dipendente nella sede nuoccia al prestigio della Amministrazione”. Si tratta, dunque, di un potere caratterizzato da un’ampia discrezionalità. E così, dopo un decennio, siamo in grado di darvi una lettura aggiornata di tutto questo immenso “giro” di parentele, difficilmente perseguibili da una legge non chiara e che comunque quantomeno condiziona indagini e sentenze. E coinvolge sia il settore penale che quello civile. Anzi, il civile, che è molto più lontano dai riflettori dei media, è ricettacolo di interessi, se possibile, ancora più inconfessabili. Cerchiamo di capirne di più, allora, attraverso questo (quasi) inestricabile reticolo di relazioni familiari.

LE PARENTELE PERICOLOSE

Partiamo dai magistrati che lavorano nel Tribunale di Cosenza.

Il pubblico ministero Giuseppe Casciaro (chè tanto da qualcuno dovevamo pur cominciare) è sposato con l’avvocato Alessia Strano, che fa parte di una stimata famiglia di legali, che coinvolge anche il suocero Luciano Strano e i cognati Amedeo e Simona.

Il giudice Alfredo Cosenza è sposato con l’avvocato Serena Paolini ed è, di conseguenza, cognato dell’avvocato Enzo Paolini, che non ha certo bisogno di presentazioni.

Il gip Giusy Ferrucci, dal canto suo, è sposata con l’avvocato Francesco Chimenti.

Paola Lucente è stata giudice del Tribunale penale di Cosenza e adesso è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro e mantiene il ruolo di giudice di sorveglianza e della commissione tributaria cosentina. Di recente, il suo nome è spuntato fuori anche in alcune dichiarazioni di pentiti che la coinvolgono in situazioni imbarazzanti riguardanti il suo ruolo di magistrato di sorveglianza.

Anche la dottoressa Lucente ha un marito avvocato: si chiama Massimo Cundari.

Del giudice Lucia Angela Marletta scriviamo ormai da tempo. Anche suo marito, Maximiliano Granata, teoricamente è un avvocato ma ormai è attivo quasi esclusivamente nel settore della depurazione e, come si sa, in quel campo gli interventi della procura di Cosenza, in tema di sequestri e dissequestri, sono assai frequenti. Quindi, è ancora peggio di essere “maritata” con un semplice avvocato.

Se passiamo al civile, la situazione non cambia di una virgola.

La dottoressa Stefania Antico è sposata con l’avvocato Oscar Basile.

La dottoressa Filomena De Sanzo, che proviene dall’ormai defunto tribunale di Rossano, si porta in dote anche lei un marito avvocato, Fabio Salcina.

La dottoressa Francesca Goggiamani è in servizio nel settore Fallimenti ed esecuzioni immobiliari ed è sposato con l’avvocato Fabrizio Falvo, che fino a qualche anno fa è stato anche consigliere comunale di Cosenza.

GIUDICI COSENTINI IN ALTRA SEDE

Passando ai magistrati cosentini che adesso operano in altri tribunali della provincia o della regione, il giudice penale del Tribunale di Paola Antonietta Dodaro convive con l’avvocato Achille Morcavallo, esponente di una famiglia da sempre fucina di legali di spessore.

Il giudice penale del Tribunale di Castrovillari, nonché giudice della commissione tributaria di Cosenza, Loredana De Franco, è sposata con l’avvocato Lorenzo Catizone. Anche lui, come Granata, non fa l’avvocato di professione ma in compenso fa parte da anni dello staff di Mario Oliverio. Che non ha bisogno di presentazioni. Catizone, inoltre, è cugino di due noti avvocati del foro cosentino: Francesco e Rossana Cribari.

Il neoprocuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla si trascina molto più spesso rispetto al passato la figura ingombrante del fratello Marco, avvocato. In più, lo stesso Facciolla è cognato dell’avvocato Pasquale Vaccaro.

Sempre a Castrovillari, c’è un altro giudice cosentino, Francesca Marrazzo, che ha lavorato per molti anni anche al Tribunale di Cosenza. E che è la sorella dell’avvocato Roberta Marrazzo.

La dottoressa Gabriella Portale invece è in servizio alla Corte d’Appello di Catanzaro (sezione lavoro) ed è giudice della commissione tributaria di Cosenza. Suo marito è l’avvocato Gabriele Garofalo.

Il dottor Biagio Politano, giudice della Corte d’Appello di Catanzaro già proveniente dal Tribunale di Cosenza e giudice della commissione tributaria di Cosenza, ha una sorella tra gli avvocati. Si chiama Teresa.

Non avevamo certo dimenticato la dottoressa Manuela Morrone, oggi in servizio nel settore civile del Tribunale di Cosenza dopo aver lavorato anche nel penale. Tutti sanno che è la figlia di Ennio Morrone e tutti sappiamo quanto bisogno ha avuto ed ha tuttora di una buona parola per le sue vicissitudini giudiziarie, sia nel penale, sia nel civile.

Morrone non è un avvocato ma riteniamo, per tutte le cause che lo vedono protagonista, che lo sia diventato quasi honoris causa.

Poiché non ci facciamo mancare veramente nulla, abbiamo parentele importanti anche per giudici onorari e giudici di pace.

La dottoressa Erminia Ceci è sposata con l’avvocato Alessandro De Salvo e il dottor Formoso ha tre avvocati in famiglia: suo padre e le sue due sorelle.

Tra i giudici di pace, infine, la dottoressa Napolitano è la moglie dell’avvocato Mario Migliano.

CHE COSA SIGNIFICA

Mentre le “conseguenze” delle reti personali nel settore penale sono molto chiare e riguardano reati di una certa gravità, le migliori matasse si chiudono nel settore civile, come accennavamo. Numerosi avvocati, familiari di magistrati, sono nominati tutori dai giudici tutelari del Tribunale di Cosenza, per esempio gli avvocati De Salvo e Politano, ma anche curatori fallimentari oppure avvocati nelle cause dei tutori e della curatela del fallimento in questione. Alcuni avvocati, per evitare incompatibilità, fanno condurre le cause ad altri avvocati a loro vicini. Cosa succede quando uno degli avvocati che cura gli interessi del familiare di un giudice ha una causa con un altro avvocato imparentato con un altro giudice? Lasciamo ai lettori ogni tipo di risposta. Un discorso a parte meritano le nomine dei periti del tribunale. Parliamo di una schiera pressoché infinita di consulenti tecnici d’ufficio, medici, ingegneri, commercialisti, geologi e chi più ne ha più ne metta. Pare che alcuni, quelli maggiormente inseriti nella massoneria, facciano collezione di nomine e di soldini. Questo è il quadro generale, diretto, tra l’altro da un procuratore in perfetta linea con i suoi predecessori: coprire tutto il marcio e continuare a far pascere i soliti noti. Questa è la giustizia “alla cosentina”. E nessuno si lamenta. Almeno ufficialmente.

Sarebbe interessante, però, sapere di quanti paradossi sono costellata i distretti giudiziari italiani.

Art. 19 dell’Ordinamento Giudiziario. (Incompatibilità di sede per rapporti di parentela o affinità con magistrati o ufficiali o agenti di polizia giudiziaria della stessa sede). 

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al secondo grado, di coniugio o di convivenza, non possono far parte della stessa Corte o dello stesso Tribunale o dello stesso ufficio giudiziario.

La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità di sede è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità sino al terzo grado, di coniugio o di convivenza, non possono mai fare parte dello stesso Tribunale o della stessa Corte organizzati in un'unica sezione ovvero di un Tribunale o di una Corte organizzati in un'unica sezione e delle rispettive Procure della Repubblica, salvo che uno dei due magistrati operi esclusivamente in sezione distaccata e l'altro in sede centrale.

I magistrati che hanno tra loro vincoli di parentela o di affinità fino al quarto grado incluso, ovvero di coniugio o di convivenza, non possono mai far parte dello stesso collegio giudicante nelle corti e nei tribunali.

I magistrati preposti alla direzione di uffici giudicanti o requirenti della stessa sede sono sempre in situazione di incompatibilità, salvo valutazione caso per caso per i Tribunali o le Corti organizzati con una pluralità di sezioni per ciascun settore di attività civile e penale. Sussiste, altresì, situazione di incompatibilità, da valutare sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, in quanto compatibili, se il magistrato dirigente dell'ufficio è in rapporto di parentela o affinità entro il terzo grado, o di coniugio o convivenza, con magistrato addetto al medesimo ufficio, tra il presidente del Tribunale del capoluogo di distretto ed i giudici addetti al locale Tribunale per i minorenni, tra il Presidente della Corte di appello o il Procuratore generale presso la Corte medesima ed un magistrato addetto, rispettivamente, ad un Tribunale o ad una Procura della Repubblica del distretto, ivi compresa la Procura presso il Tribunale per i minorenni.

I magistrati non possono appartenere ad uno stesso ufficio giudiziario ove i loro parenti fino al secondo grado, o gli affini in primo grado, svolgono attività di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. La ricorrenza in concreto dell'incompatibilità è verificata sulla base dei criteri di cui all'articolo 18, secondo comma, per quanto compatibili.

Si sa che chi comanda detta legge e non vale la forza della legge, ma la legge del più forte.

I magistrati son marziani. A chi può venire in mente che al loro tavolo, a cena, lor signori, genitori e figli, disquisiscano dei fatti di causa approntati nel distretto giudiziario comune, o addirittura a decidere su requisitorie o giudizi appellati parentali?

A me non interessa solo l'aspetto dell'incompatibilità. A me interessa la propensione del DNA, di alcune persone rispetto ad altre, a giudicare o ad accusare, avendo scritto io anche: Concorsopoli.

«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d'Appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell'Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall'ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c'erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell'inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell'immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre 2008 pagina 20, sezione: cronaca).

L'INCHIESTA DI M. SCHINELLA SULLA PARENTOPOLI DI MESSINA: LE CATTEDRE DI FAMIGLIA. TUTTI I NOMI DI TUTTE LE FACOLTA'! Scrive il 18 novembre 2008 "Stampalibera.it". Identico cognome. Identico luogo di nascita. Il 50% dei 1500 docenti dell’Ateneo di Messina, uno ogni 20 iscritti, ha almeno un omonimo. Ed è accomunato ai colleghi dallo stesso luogo di nascita, la città di Messina. Il dato statistico, rapportato alla esigua popolazione della città, è l’indizio che la parentopoli nell’Università peloritana non teme confronti neanche con gli altri Atenei siciliani. Un indizio che diventa prova non appena si va oltre le omonimie. Altro che Palermo. Del “dovere morale di sistemare mio figlio”, come dice Battesimo Macrì, ordinario e preside di Medicina Veterinaria impegnato a fine 2006 a far vincere a tutti i costi un posto di associato al figlio Francesco, che benchè già ricercatore è considerato dalla commissione “carente di preparazione di base, in possesso di superficiale conoscenza della materia, di scarsa capacità espositiva e sensibilità didattica”, all’Università di Messina nel reclutamento dei docenti ma anche degli amministrativi, si è fatto un larghissimo uso. L’Ateneo da luogo del sapere si è trasformato in azienda in cui sistemare i familiari. E se molti hanno scalato i gradini accademici con sacrifici e dopo anni di gavetta, i numeri sono impietosi: sono legati da parentela 27 dei 75 docenti di Giurisprudenza. A Palermo sono 21 su 132. A Medicina e Chirurgia i rapporti di parentela diretta uniscono 90 dei 531. A Palermo, per rimanere al confronto, 58 su 440. A Medicina Veterinaria, dei 63 docenti 23 sono legati da un rapporto che non va oltre a quello che intercorre tra nonno e nipote. Gruppi familiari si sono impadroniti di intere facoltà. E quando i rampolli da piazzare sono stati troppi o i posti pochi sono stati dirottati su altre. Chi a Messina ha fatto carriera universitaria ha avuto la fortuna di nascere nella famiglia giusta: Navarra, Carini, Vermiglio, Saitta, Galletti, Tommasini, Falzea, Dugo, Tigano, Teti, Resta, Guarnieri, Basile, Trimarchi, Germanà. O ha avuto un padre ordinario: decine sono i cattedratici che non sono riusciti ad insediare l’intera famiglia ma prima di abbandonare si sono assicurati un erede. Un risultato frutto di valutazioni comparative che di comparativo hanno avuto poco: tra la fine del 2006 e l’inizio 2007, l’Università ha bandito74 concorsi per ricercatore. Nel 60% di questi la valutazione ha avuto un solo candidato, il vincitore. Gli altri si sono ritirati anzitempo. «Che il fenomeno fosse imponente lo sospettavo. Ma il problema più grosso è che i figli di qualcuno hanno comunque, anche se i concorsi fossero regolari, molte più opportunità dei figli di nessuno», dice Andrea Romano, preside di Scienze politiche, una delle facoltà meno colpita. Adesso l’Università ha pronto un codice etico: lo ha preparato Antonio Ruggeri, docente di Diritto costituzionale e prorettore. Prevede che il figlio del cattedratico, se vuole seguire le orme del padre nella stessa disciplina debba emigrare in altri atenei. Ironia della sorte, la chiamata nello stesso dipartimento, alla cattedra di procedura penale, del figlio trentenne di Ruggeri, Stefano, associato (l’idoneità l’aveva conseguita all’Università privata Kore di Enna), la cui madre, Carmela Russo, è ordinario nella stessa facolta di Istituzione di diritto romano, determinò nel corso del Consiglio di facoltà del 21 dicembre 2007, una mezza sollevazione. Il segno che in una delle Facoltà più prestigiose dell’Ateneo il livello di guardia fosse stato superato, lo sintetizzò Sara Domianello, ordinario di diritto Ecclesiastico: «Da questo momento mi rifiuterò di esprimere un giudizio su conferimenti di incarichi a persone legate a colleghi da vincoli di parentela od affinità fino al quarto grado», affermò nello stupore generale la docente. Centonove, è andato a caccia dei vincoli di parentela. 

GIURISPRUDENZA – La Domianello, allieva del preside, Salvatore Berlingò, ha presieduto la commissione che ha attribuito l’idoneità di associato a Marta Tigano, figlia di Aldo Tigano, ordinario di diritto amministrativo. Che si ritrova come collaboratrice la figlia di Berlingò, Vittoria, ricercatrice di diritto amministrativo. E nel corpo docente vanta 2 nipoti, Francesco Martines, e Valeria Tigano, entrambi ricercatori. Nello stesso dipartimento gomito a gomito lavorano Giuseppe Giuffrida, ordinario di diritto agrario, e la figlia Marianna, ordinario anch’ella, della stessa disciplina del padre. All’Istituto di diritto privato impera Raffaele Tommasini, ordinario di Lavoro e Civile, un numero di incarichi compendiato in un elenco che riempirebbe un’intera pagina, che si avvale nel proprio dipartimento della figlia Alessandra. E del genero, Antonino Astone, associato. L’altra figlia Maria, è associato, sempre della stessa disciplina, alla facoltà di Economia. L’altro genero, Orazio Pellegrino, è ricercatore a Ingegneria. Nello stesso settore, diritto privato, in cui opera anche Francesca Panuccio, associata figlia di Vincenzo, una vita da ordinario, muove i primi passi da cattedratico, Francesco Rende, figlio di Ciraolo Clorinda, associato nella stessa disciplina, e di Mario Rende, assistente ad Economia. Vincenzo Michele Trimarchi, era stato anche giudice della Corte costituzionale, il figlio Mario, è ordinario di privato, (la moglie di questi, Renata Altavilla, è associato nello stesso dipartimento), il nipote Francesco è ordinario a Medicina. 

MEDICINA E CHIRURGIA – Trecentoventi dei 540 docenti della Facoltà, secondo il Ministero dell’Università, sono di troppo ma l’Ateneo di Messina fa finta di nulla e continua a bandire concorsi (7 nell’ultima tornata) per ricercatori, associati e ordinari. Che vanno quasi sempre ai soliti figli di cattedratico. Come quello del 2005 per ricercatore di Chirurgia, andato a Giuseppinella Melita, figlia di Paolo, ordinario. O a Rocco Caminiti, figlio di un ordinario in pensione. La dinastia dei Galletti regna all’Otorinolaringoiatria: Cosimo Galletti è stato il capostipite, il figlio Franco, ordinario, e Bruno, associato, i suoi eredi. L’ultimo figlio Claudio si è spostato ad Anestesiologia, dove è ricercatore. Massimo, invece, è divenuto associato di diritto privato a Giurisprudenza. Al defunto chirurgo Salvatore Navarra, è succeduto in sala operatoria uno dei 3 figli, Giuseppe, diventato ordinario giovanissimo. Pietro, è ordinario ad Economia (e prorettore). Michele è associato a Scienze. La Dermatologia porta il nome di Guarnieri: Biagio è ordinario, i figli Claudio e Fabrizio, ricercatori. Diana Teti, patologo, e Giuseppe Teti, microbiologo, entrambi ordinari, hanno raccolto lʼeredità del padre, Mario, ordinario di microbiologia in pensione. Diana si è sposata con Matteo Venza, ordinario a Scienze. Un’unione che ha dato a Medicina altri due ricercatori: Mario e Isabella Venza. L’oculista Giuseppe Ferreri, ordinario, lavora fianco a fianco della figlia Felicia, ricercatrice. Cosi come Gaetano Barresi, ordinario, con la figlia, Valeria, ricercatrice. Ci lavoravano fino alla scorsa settimana Giuseppe Romeo, ordinario di Chirurgia pediatrica, e il figlio Carmelo, ordinario delle stessa disciplina. Corrado Messina, ordinario di Neurologia ha una figlia Maria Francesca, ricercatrice in altro settore. Maurizio Monaco, ordinario, figlio dell’ex Prefetto di Messina, ha il figlio Francesco ricercatore. Hanno avuto un padre o la madre, ordinario o associato nella stessa o in disciplina affine, solo per fare degli esempi, Eugenio Cucinotta, Antonio D’Aquino, Marcello Longo, Massimo Marullo, Filippo De Luca, Antonino Germanò, Ignazio Barberi, Giorgio Ascenti, Michele Colonna, Impallomeni Carlo, Giuseppe Santoro, Antonella Terranova. 

MEDICINA VETERINARIA – Giovanni Germanà, ordinario di Fisiologia, ha lasciato il segno. Nello stesso settore è associato il figlio Antonino e la nipote Germana. Un’altra nipote, Maria Beatrice Levanti, è ricercatrice, sempre nello stesso settore. Luigi Chiofalo era ordinario di Zootecnia, Vincenzo, il figlio, attuale preside di Facoltà ne ha preso il posto, Biagina, l’altra figlia è ricercatrice, così come il marito, Luigi Liotta: tutti nello stesso settore. Ma a Veterinaria nello stesso settore, Sanità pubblica, operano Antonio Pugliese, ordinario e la figlia Michela che si è aggiudicata un posto di ricercatrice in un concorso in cui era unica candidata, per le pressioni, secondo la Procura di Messina, del padre su concorrenti più titolati. E Battesimo Macrì, e il figlio ricercatore, Francesco, la cui ascesa è stata interrotta dalla magistratura. Sono figli di cattedratici ormai in pensione una schiera di docenti: Anna Maria Passantino, associato, figlia di Michele; Bianca Orlandella, ricercatrice, figlia di Vittorio; Antonio Panebianco, diventato ordinario senza salire per gli scalini intermedi; Antonio Ajello e Adriana Ferlazzo, (moglie di Alberto Calatroni, ordinario a Medicina) sorelle entrambe ordinario, figlie di Aldo, ordinario, invece, di Pediatria. Pippo Cucinotta, ordinario di Chirurgia, infacoltà non ha parenti, ma da Claudia Interlandi, associato dello stessa disciplina ha avuto 2 figli. 

SCIENZEMATEMATICHE E FISICHE – La fisica e la matematica a Messina parla Carini. Giovanni, il capostipite, era ordinario di Fisica Matematica. E ha sdoppiato i geni scientifici: il figlio Giuseppe, è ordinario di Fisica; la figlia Luisa, associato di Matematica è moglie di Giuseppe Magazzù, ordinario a Medicina. Il primo ha 2 figli, Manuela, già ricercatrice di Matematica all’Università della Calabria. L’altro figlio Giovanni è assegnista di ricerca. I fratelli Dugo, Giacomo e Giovanni, sono entrambi ordinari. Giovanni, nello stesso Dipartimento a Farmacia ha una figlia, Paola, associato, moglie di Luigi Mondello, ordinario nello stesso dipartimento del suocero. Laura, figlia di Giovanni, ha già ottenuto un dottorato di ricerca e si prepara a seguire le orme del padre. Come Giuseppe Gattuso, ricercatore di chimica, figlio di Mario, ordinario della stessa disciplina, di Marisa Ziino, ordinario a Scienze. E Armando Ciancio, figlio di Vincenzo, ordinario di Matematica e delegato del rettore, che si è aggiudicato un recente concorso di ricercatore dello stesso settore del padre, bandito, però, dalla Facoltà di Medicina. Ed è in attesa di chiamata. Nella facoltà di Scienze operano come associati, Enza Marilena Crupi, il padre era ordinario nella stessa facoltà. Cosi come lo era il padre dell’ordinario Viviana Bruni, Augusto, docente per decenni di Microbiologia. E il padre di Ulderico Wanderling, associato, figlio di Franco, ordinario. Di cui è nipote Rita Giordano, associato sempre di Fisica. La figlia di Rita De Pasquale, ordinario a Farmacia e prorettore, Chiara Costa, figlia anche di Giovanni, ordinario di farmacologia, si è aggiudicata un posto da ricercatrice a Medicina. Carlo Caccamo, ordinario, ha potenziato il corredo genetico sposandosi con Maria Caltabiano, ordinario a Lettere: la figlia Daniela è ricercatrice di biologia a Medicina. 

ECONOMIA – Lavorano nella stessa Facoltà, ma in dipartimenti diversi, Antonino Accordino, ordinario, e la figlia Patrizia, ricercatrice. E’ figlia d’arte anche Maria Teresa Calapso, ordinario di Matematica: il padre Pasquale Calapso, era ordinario di matematica seppure a Scienze. Così come Paolo Cubiotti, ordinario di analisi matematica, cui ha trasferito i geni scientifici il padre Gaetano, ex ordinario di Fisica. E Filippo Grasso, associato, figlio dell’ordinario a Fisica, Vincenzo. 

LETTERE – L’attuale preside, Vincenzo Fera, ha una figlia Maria Teresa, che ha intrapreso la carriera medica ed è associato. L’ex preside Gianvito Resta ha passato il testimone alla figlia Caterina, ordinario nella facoltà del padre. L’altra figlia, Maria Letizia è associato a Medicina. L’ordinario Angelo Sindoni, prorettore, ha una figlia, Maria Grazia, uscita di recente vincitrice di un concorso per ricercatrice. Lavora, invece, a Scienze politiche, nello stesso dipartimento del padre, Mario Centorrino, ordinario ed ex prorettore, Marco, benchè il posto di ricercatore lo avesse bandito la facoltà di Lettere.

TRAVERSALITA’ – Francesco Basile, ordinario, è stato preside di Scienze. Non si può dire che i suoi figli nel mondo accademico non abbiano fatto strada: Maurizio, ordinario a Medicina, Massimo, ordinario di diritto a Scienze politiche, Fabio, ordinario a Ingegneria. La figlia di quest’ultimo, Rosa, ha appena vinto un concorso di ricercatrice in diritto costituzionale a Giurisprudenza. Dopo il ritiro degli altri candidati è rimasta da sola. A presiedere la commissione Antonio Saitta, ordinario, ex sindaco di Messina, appartenente ad una delle famiglie che all’Ateneo ha dato molto. E’ figlio di Emilio, che fu ordinario a Medicina. E nipote di Nazzareno, ordinario a Giurisprudenza, il cui figlio Fabio è docente a Catanzaro, e di Gaetano, ordinario a Ingegneria. Sono solo cugini tra di loro ma i Vermiglio si sono fatto valere: uno, Mario Vermiglio, è vincitore di un concorso di ordinario a Medicina, sempre a Medicina c’è Giuseppe, associato di Fisica, la moglie Maria Giulia Tripepi, è associato dello stesso settore. Franco è invece ordinario ad Economia. L’eredità di Diego Cuzzocrea, ordinario di Chirurgia, ed ex rettore dell’Università, l’hanno raccolta, Salvatore, associato a Medicina e Francesca, ricercatrice a Scienze della Formazione. Del precedente rettore Guglielmo Stagno D’alcontres, ordinario di Chimica, sono nipoti Francesco, deputato nazionale, ordinario di Chirurgia plastica a Messina e Alberto, ordinario di diritto commerciale a Palermo. MICHELE SCHINELLA – CENTONOVE 07-11-08

Se il rettore non può firmare. I casi in cui il Magnifico deve ricorrere al vicario. Da Gaetano Silvestri a Franco Tomasello. Il concorso ad un posto di ricercatore in diritto amministrativo si è celebrato nel giugno del 2008. Francesco Martines, figlio di Maria Chiara Aversa, ordinario alla facoltà di Scienze, delegato del rettore per la ricerca, nipote di Aldo Tigano, ordinario di diritto amministrativo, e genero del rettore Franco Tomasello, di cui ha sposato la figlia, si è aggiudicato il posto. Ed è rimasto in attesa della chiamata della facoltà di Scienze politiche. A firmare il decreto di approvazione degli atti del concorso non è stato il suocero, come succede in tutti gli altri casi: per prassi consolidata, infatti, lo fa il rettore vicario. Non è la prima volta che il rettore vicario debba intervenire per firmare gli atti di un concorso vinto da un parente stretto di Tomasello. Lo fece già per il figlio Dario, vincitore nel 2005, del concorso di associato alla Facoltà di Lettere. E non è il primo rettore vicario dell’Università di Messina. Toccò anche al predecessore. Durante il rettorato di Gaetano Silvestri, la moglie di quest’ultimo, Marcella Fortino, divenne docente ordinario. Insegna a Scienze politiche. (M.S.)

Concorsi truccati: «Io raccomandata pentita, mi sono riscattata...», scrive Nino Luca il 18 novembre 2008 su "Il Corriere della Sera".  «Non ci dormivo la notte. I finanziamenti "ad hoc " sono la prassi accettata da tutti». Raccomandazioni all'università: il mondo del web reagisce. Raccomandazioni all'università: il mondo del web reagisce. «Un posto, un solo candidato: il figlio del professore». Sommersi dalle email. Dare spazio alle denunce oppure spiegare il meccanismo cioè come si fa a truccare un concorso nelle università italiane? Citare a caso qualcuna tra le centinaia di segnalazioni che ci sono arrivate da Milano, Roma, Avellino, Bari o scegliere solo alcuni casi emblematici? La storia che abbiamo raccontato venerdì, del concorso da ricercatore a Messina, «Un posto, un solo candidato: il figlio del professore», ha scatenato il web. Dalle centinaia e centinaia di e-mail ricevute è chiaro che si tratta di un fenomeno che colpisce tutti gli atenei italiani, da nord a sud. Molte di queste email contengono delle vere e proprie notizie di reato e innumerevoli casi di disonestà che scatta in maniera meccanica laddove la legge lascia margini di discrezionalità all'individuo. E quindi «taroccare» diventa quasi una prassi. Molti, impauriti da possibili ritorsioni, ci chiedono di non pubblicare i loro nomi ma fanno nomi, precisando anche i fatti e circostanziandoli. E sono tantissimi anche gli italiani, fuggiti all'estero, che ci hanno scritto. Quindi, dopo le opportune verifiche, organizzeremo meglio questo «urlo di denuncia» e magari lo faremo attraverso una pubblicazione. Ma adesso non troviamo di meglio che pubblicare un'autodenuncia che è anche un augurio. Perché, come in tanti ci hanno scritto, la «parola "cultura" dovrebbe necessariamente essere associata ad un vivere corretto e civile».

LA LETTERA - Ecco il testo di Lucia (nome di fantasia): «Io ottenni una borsa di studio dottorale messa in palio dall'università di ... che fu finanziata dall'ente pubblico presso il quale lavoravo, ergo: era la mia borsa di dottorato. Volevo fare il dottorato da quando mi ero iscritta all'università; non sono né figlia né nipote di, ma ero l'assistente di... In attesa nel concorso trovai un posto come consulente presso un ente pubblico, nel quale mi occupavo della stessa materia della mia tesi, e il mio Professore «arrangiò» il finanziamento. Mi presentai al concorso. Mi sedetti coi 7 partecipanti; si fecero gli scritti a porte aperte e gli orali a porte chiuse. Vinsi, ovviamente, la borsa. Sono pronta a difendere quanto le sto per dire sotto giuramento: mi creda quando le dico che non ci dormivo la notte, mentre questa prassi (di raccomandazione o finanziamenti ad hoc) era del tutto accettata, e non criticata, dai dottorandi che ne usufruivano».

I DUBBI - «Io invece - prosegue Lucia - mi chiedevo in continuazione: sono un dottorando perché sono veramente dotata in questo campo o perché sono l'assistente di con la borsa finanziata da? Le sembrerà banale e invece è un punto chiave: quel che i dottorandi si sentono dire è infatti che, in virtù della mancanza di risorse, «vanno create le occasioni» per poterli mandare avanti. Mi domandavo: mi mandano avanti perché sono brava, o sono brava perché mi mandano avanti? Inutile dirle infatti che io ricerca, negli 8 mesi che resistetti, non ne feci mai. Feci solo, e tanta, assistenza. Senza mai sentire NESSUNO lamentarsene oltre misura. Torturata - letteralmente - da una profonda insicurezza circa le mie reali capacità e la mia volontà di sostenere un compromesso che mi sembrava, di fatto, una truffa venduta come «l'aver creato l'occasione», mi iscrissi di nascosto ad un secondo concorso al Politecnico di Milano. Mi alzai alle 4 del mattino per presentarmi al concorso senza sapere nulla né della commissione né dei partecipanti, e vinsi la seconda borsa in palio; inutile dire che si fecero scritti e orali a porte aperte. Ricordo il messaggio che spedii a mia sorella con le lacrime agli occhi: "Una vittoria mia, ma una vittoria di tutta l'università italiana".

IL RISCATTO - Di lì a poche settimane mi chiamò per una intervista di lavoro un politecnico olandese per un posto di assistente alla ricerca, sulla base del mio mero curriculum vitae, e mi fu offerto il posto. Me ne andai, e non mi sono mai voltata indietro. Mi «licenziai» dall'Università di... con una lettera congiunta a tutto il dipartimento in cui spiegavo le mie ragioni ed il mio grande senso di autostima ritrovato. Nessuno dei dottorandi, mi rispose; dal mio professore e dal preside fui presa, verbalmente, ma letteralmente, a calci, e fui accusata di aver tradito la loro fiducia e di aver osato non presentare prima le mie rimostranze di fronte a quel che io definii «il sistema». Ma questa è un'altra storia, che riguarda me e la mia coscienza, e di cui sono alla fine, tutto sommato, orgogliosa.

IL CAMBIAMENTO - Sono passati tanti anni e quel che vorrei dirle in sostanza è questo: il cambiamento vero partirà dalla volontà e dal senso di dignità dei singoli di non accettare il compromesso cui le università italiane chiamano la nostra coscienza. Essere un buon ricercatore significa avere gli standard per lavorare non in quell'ateneo o quel dipartimento, ma nel mondo. La conoscenza appartiene al mondo; e quindi, a cosa serve avere il posticino messo in palio da papà, senza poi il rispetto della comunità scientifica internazionale, che è l'unico vero giudice dell'operato di un ricercatore? Mi rendo conto che è molto banale quanto le scrivo. Ma è tutto quel di cui mi sento di far da tramite e testimone, nel mio immensamente piccolo. Cordialmente, Lucia».

Eppure è risaputo come si svolgono i concorsi in magistratura.

Roma, bigliettini negli slip al concorso magistrati. Bufera sulle perquisizioni intime. Nel mirino della polizia oltre 40 persone sospettate di aver occultato le tracce: cinque candidate espulse, scrive Roberto Damiani il 2 febbraio 2018 su “Quotidiano.net. Il concorso in magistratura iniziato il 20 gennaio a Roma per 320 posti (sono state presentate 13.968 domande) rischia di diventare una questione da intimissimi. Nel senso di slip. Perché attraverso le mutandine sono state espulse diverse candidate. Stando a ciò che trapela, i commissari d’esame hanno mandato a casa cinque candidate e c’era incertezza su una sesta. Tutte hanno avuto una perquisizione totale, cioè la polizia penitenziaria femminile ha fatto spogliare completamente le candidate perché sospettate di nascondere qualcosa. E su circa 40 controlli corporali totali, cinque o forse sei ragazze avevano foglietti con dei temi (non gli stessi poi usciti per la prova) negli slip. E per queste candidate, non c’è stata giustificazione che potesse tenere: sono state espulse immediatamente. La polemica delle perquisizioni fino a doversi abbassare le mutande è divampata per un post della candidata Cristiana Sani che denunciava l’offesa di doversi denudare: «Ero in fila per il bagno delle donne – ha scritto su Facebook la candidata – arrivano due poliziotte, le quali si avvicinano alla nostra fila e iniziano a perquisire una ad una le ragazze in fila. Me compresa. Io lì per lì non ho capito quello che stesse succedendo, non me lo aspettavo, visto che durante le due giornate precedenti non avevo avuto esperienze simili». «Capisco – continua Cristiana – che c’è un problema nel momento in cui una ragazza esce dal bagno piangendo. Tocca a me e loro mi dicono di mettermi nell’angolo (non del bagno, ma del corridoio, con loro due davanti che mi fanno da paravento) per la perquisizione. Non mi mettono le mani addosso, sono sincera. Mi fanno tirare su maglia e canotta, davanti e dietro. Mi fanno slacciare il reggiseno. Poi giù i pantaloni. Ma la cosa scioccante è stata quando mi hanno chiesto di tirare giù le mutande. Io mi stavo vergognando come la peggiore delle criminali e le ho tirate giù di mezzo millimetro. A quel punto mi hanno detto: ‘Dottoressa, avanti! Si cali le mutande. Ancora più giù, faccia quasi per togliersele e si giri. Cos’è? Ha il ciclo, che non se le vuole tirare giù?!’. Mi sono rifiutata, rivestita e tornata al mio posto ma ero allibita. Questa si chiama violenza». Nel forum del concorso, i candidati si scambiano opinioni, tutte abbastanza negative sull’esperienza in atto e contestano le perquisizioni ritenendole illegali. Ma nessuno sembra aver letto il regio decreto del 15/10/1925, n. 1860, all’art. 7 che regola i concorsi pubblici e tuttora in vigore: «... i concorrenti devono essere collocati ciascuno a un tavolo separato (...) È vietato ai concorrenti di portare seco appunti manoscritti o libri. Essi possono essere sottoposti a perquisizione personale prima del loro ingresso nella sala degli esami e durante gli esami». Sembra che le perquisizioni siano scattate solo nei confronti di chi frequentava troppo il bagno. Eppure quegli aspiranti magistrati espulsi avrebbero dovuto conoscere la regola d’oro: l’«assassino» torna sempre due volte sul luogo del delitto. 

Ma non è lercio solo quel che appare. E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare. Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

Ma come ci si può difendere da decisioni scellerate?

Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

A Taranto per due magistrati su tre, dunque, Sebai non è credibile. Il tunisino è stato etichettato dalla pubblica accusa come un «mitomane» che vuole scagionare detenuti che ha conosciuto in carcere. Solo l’omicidio Lapiscopia, per il quale è stata chiesta la condanna, era ancora insoluto, quindi senza alcun condannato a scontare la pena. Il gup Valeria Ingenito nel corso dell’udienza ha respinto la richiesta di sospensione del processo e l’eccezione di legittimità costituzionale dell’art. 52 del Codice di procedura penale nella parte in cui prevede la facoltà e non obbligo di astensione del pubblico ministero. L'eccezione era stata sollevata dal legale di Sebai, Luciano Faraon. Secondo il difensore, i pm Montanaro e Petrocelli, che hanno chiesto l’assoluzione del tunisino per tre dei quattro omicidi confessati dall’imputato, "avrebbero dovuto astenersi per gravi ragioni di convenienza per evidenti situazioni di incompatibilità, esistente un grave conflitto d’interesse, visto che hanno sostenuto l’accusa di persone, ottenendone poi la condanna, che alla luce delle confessioni di Sebai risultano invece essere innocenti e quindi forieri di responsabilità per errore giudiziario".  Non solo i pm erano incompatibili, ma incompatibile era anche il foro del giudizio, in quanto da quei procedimenti addivenivano responsabilità delle parti giudiziarie, che per competenza erano di fatto delegate al foro di Potenza. Nessuno ha presentato la ricusazione per tutti i magistrati, sia requirenti, sia giudicanti.

Comunque il presidente del Tribunale di Taranto Antonio Morelli, come è normale per quel Foro, ha respinto l'astensione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini, rispettivamente presidente e giudice a latere della Corte d'Assise chiamata a giudicare gli imputati al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi. I due magistrati si erano astenuti, rimettendo la decisione nelle mani del presidente del Tribunale dopo la diffusione di un video in cui erano “intercettate” mentre si interrogavano sulle strategie difensive che di lì a poco gli avvocati avrebbero adottato al processo. Secondo il presidente del Tribunale però dai dialoghi captati non si evince alcun pregiudizio da parte dei magistrati, non c'è espressione di opinione che incrini la capacità e serenità del giudizio e quindi non sussistono le condizioni che obbligano i due giudici togati ad astenersi dal trattare il processo. Il presidente del Tribunale di Taranto ha respinto l’astensione dei giudici dopo che era stata sollecitata dalle difese per un video fuori onda con frasi imbarazzanti dei giudici sulle strategie difensive delle imputate. E adesso si va avanti con il processo. Tocca all’arringa di Franco Coppi. Posti in piedi in aula. Tutti gli avvocati del circondario si sono dati appuntamento per sentire il principe del Foro. Coppi inizia spiegando il perché della loro richiesta di astensione: «L’avvocato De Jaco ed io abbiamo sollecitato l’astensione in relazione alle frasi note.

29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?». «La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa». A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate.

12 ottobre 2011. Il rigetto dell’istanza di rimessione. La prima sezione penale della Cassazione ha infatti respinto la richiesta di rimessione del processo per incompatibilità ambientale, con conseguente trasferimento di sede a Potenza, avanzata il 29 agosto 2011 dai difensori di Sabrina Misseri, gli avvocati Franco Coppi e Nicola Marseglia.

Eppure la stessa Corte ha reso illegittime tutte le ordinanze cautelari in carcere emesse dal Tribunale di Taranto.

Per quanto riguarda la Rimessione, la Cassazione penale, sez. I, 10 marzo 1997, n. 1952 (in Cass. pen., 1998, p. 2421), caso Pomicino: "l'istituto della rimessione del processo, come disciplinato dall'art. 45 c.p.p., può trovare applicazione soltanto quando si sia effettivamente determinata in un certo luogo una situazione obiettiva di tale rilevanza da coinvolgere l'ordine processuale - inteso come complesso di persone e mezzi apprestato dallo Stato per l'esercizio della giurisdizione -, sicché tale situazione, non potendo essere eliminata con il ricorso agli altri strumenti previsti dalla legge per i casi di alterazione del corso normale del processo - quali l'astensione o la ricusazione del giudice -, richiede necessariamente il trasferimento del processo ad altra sede giudiziaria … Consegue che non hanno rilevanza ai fini dell'applicazione dell'istituto vicende riguardanti singoli magistrati che hanno svolto funzioni giurisdizionali nel procedimento, non coinvolgenti l'organo giudiziario nel suo complesso".

Per quanto riguarda la Ricusazione: «Evidenziato che non può costituire motivo di ricusazione per incompatibilità la previa presentazione, da parte del ricusante, di una denuncia penale o la instaurazione di una causa civile nei confronti del giudice, in quanto entrambe le iniziative sono “fatto” riferibile solo alla parte e non al magistrato e non può ammettersi che sia rimessa alla iniziativa della parte la scelta di chi lo deve giudicare. (Cass. pen. Sez. V 10/01/2007, n. 8429).

In questo modo la pronuncia della Corte di Cassazione discrimina l’iniziativa della parte, degradandola rispetto alla presa di posizione del magistrato: la denuncia del cittadino non vale per la ricusazione, nonostante possa conseguire calunnia; la denuncia del magistrato vale astensione.  Per la Cassazione per avere la ricusazione del singolo magistrato non astenuto si ha bisogno della denuncia del medesimo magistrato e non della parte. Analogicamente, la Cassazione afferma in modo implicito che per ottenere la rimessione dei processi per legittimo sospetto è indispensabile che ci sia una denuncia presentata da tutti i magistrati del Foro contro una sola parte. In questo caso, però, non si parlerebbe più di rimessione, ma di ricusazione generale. Seguendo questa logica nessuna istanza di rimessione sarà mai accolta.

Qui non si vuole criminalizzare una intera categoria. Basta, però, indicare a qualcuno che si ostina a difendere l’indifendibile che qualcosa bisogna fare. Anzi, prima di tutto, bisogna dire, specialmente sulla Rimessione dei processi.

Questa norma a vantaggio del cittadino è da sempre assolutamente disapplicata e non solo per Silvio Berlusconi. Prendiamo per esempio la norma sulla rimessione del processo prevista dall’art. 45 del codice di procedura penale. L'articolo 45 c.p.p. prevede che "in ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato a norma dell'articolo 11".

Tale istituto si pone a garanzia del corretto svolgimento del processo, dell'imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti. Si differenzia dalla ricusazione disciplinata dall'art. 37 c.p.p. in quanto derogando al principio costituzionale del giudice naturale (quello del locus commissi delicti) e quindi assumendo il connotato dell'eccezionalità, necessita per poter essere eccepito o rilevato di gravi situazioni esterne al processo nelle sole ipotesi in cui queste non siano altrimenti eliminabili. Inoltre mentre per la domanda di ricusazione è competente il giudice superiore, per decidere sull'ammissibilità della rimessione lo è solo la Corte di Cassazione.

«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state due.»

I magistrati criticano chiunque tranne se stessi, scrive Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 28 gennaio 2018. I procuratori generali hanno inaugurato l'anno giudiziario con discorsi pieni di banalità e senza fare nessun mea culpa. "Abbiamo una giustizia che neppure in Burkina Faso". "La Banca Mondiale mette l'Italia alla casella numero 108 nella classifica sull'efficienza dei tribunali in rapporto ai bisogni dell'economia". "Se per far fallire un'azienda che non paga ci vogliono sette anni, è naturale che gli stranieri siano restii a investire nel nostro Paese". "Ultimamente abbiamo ridotto i tempi ma non si può dire che tre anni di media per arrivare a una sentenza in un processo civile sia un periodo congruo". "È imbarazzante che restino impuniti per il loro male operato e non subiscano rallentamenti di carriera magistrati che hanno messo sotto processo innocenti, costringendoli a rinunciare a incarichi importanti e danneggiando le aziende pubbliche che questi dirigevano, con grave nocumento per l'economia nazionale". "Non se ne può più di assistere allo spettacolo di pubblici ministeri che aprono inchieste a carico di politici sul nulla, rovinandone la carriera, e poi magari si candidano sfruttando la notorietà che l'indagine ha procurato loro". "La giustizia viene ancora strumentalizzata a fini politici". "In Italia esistono due pesi e due misure a seconda di chi è indagato o processato". "L'economia italiana è frenata da un numero spropositato di ricorsi accolti senza ragione". "Le vittime delle truffe bancarie non hanno avuto giustizia e i responsabili dei crack non sono stati adeguatamente perseguiti". "A questo giro elettorale qualcosa non torna, se Berlusconi non è candidabile in virtù di una legge entrata in vigore dopo il reato per cui è stato condannato".

Una pioggia di denunce contro i magistrati Ma sono sempre assolti. Più di mille esposti l'anno dai cittadini. E le toghe si auto-graziano: archiviati 9 casi su 10, scrive Lodovica Bulian, Lunedì 29/01/2018, su "Il Giornale". Tra i motivi ci sono la lunghezza dei processi, i ritardi nel deposito dei provvedimenti, ma anche «errori» nelle sentenze. In generale, però, è il rapporto di fiducia tra i cittadini e chi è chiamato a decidere delle loro vite a essersi «deteriorato». Uno strappo che è all'origine, secondo il procuratore generale della Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio, «dell'aumento degli esposti» contro i magistrati soprattutto da parte dei privati. Il fenomeno è la spia di «una reattività che rischia di minare alla base la legittimazione della giurisdizione», spiega il Pg nella sua relazione sul 2017 che apre il nuovo anno giudiziario con un grido d'allarme: «Una giustizia che non ha credibilità non è in grado di assicurare la democrazia». Nell'ultimo anno sono pervenute alla Procura generale, che è titolare dell'azione disciplinare, 1.340 esposti contenenti possibili irregolarità nell'attività delle toghe, tra pm e giudicanti. Numeri in linea con l'anno precedente (1.363) e con l'ultimo quinquennio (la media è di 1.335 all'anno). A fronte della mole di segnalazioni, però, per la categoria che si autogoverna, che si auto esamina, che auto punisce e che, molto più spesso, si auto assolve, scatta quasi sempre l'archiviazione per il magistrato accusato: nel 2017 è successo per l'89,7% dei procedimenti definiti dalla Procura generale, era il 92% nel 2016. Di fatto solo il 7,3% si è concluso con la promozione di azioni disciplinari poi portate avanti dal Consiglio superiore della magistratura. Solo in due casi su mille e duecento archiviati, il ministero della Giustizia ha richiesto di esaminare gli atti per ulteriori verifiche. Insomma, nessun colpevole. Anzi, la colpa semmai, secondo Fuzio, è della politica, delle campagne denigratorie, dell'eccessivo carico di lavoro cui sono esposti i magistrati: «Questo incremento notevole di esposti di privati cittadini evidenzia una sfiducia che in parte, può essere la conseguenza dei difficili rapporti tra politica e giustizia, in parte, può essere l'effetto delle soventi delegittimazioni provenienti da parti o imputati eccellenti. Ma - ammette - può essere anche il sintomo che a fronte di una quantità abnorme di processi non sempre vi è una risposta qualitativamente adeguata». Il risultato è che nel 2017 sono state esercitate in totale 149 azioni disciplinari (erano 156 nel 2016), di cui 58 per iniziativa del ministro della Giustizia (in diminuzione del 22,7%) e 91 del Procuratore generale (in aumento quindi del 13,8%). Tra i procedimenti disciplinari definiti, il 65% si è concluso con la richiesta di giudizio che, una volta finita sul tavolo del Csm, si è trasformata in assoluzione nel 28% dei casi e nel 68% è sfociata nella censura, una delle sanzioni più lievi. Questo non significa, mette in guardia il procuratore, che tutte le condotte che non vengono punite allora siano opportune o consone per un magistrato, dall'utilizzo allegro di Facebook alla violazione del riserbo. E forse il Csm, sottolinea Fuzio, dovrebbe essere messo a conoscenza anche dei procedimenti archiviati, e tenerne conto quando si occupa delle «valutazioni di professionalità» dei togati. Che, guarda caso, nel 2017 sono state positive nel 99,5% dei casi.

Messina, pornografia minorile: un giudice finisce in carcere. Gaetano Maria Amato, 57 anni, era in servizio alla corte d'Appello di Reggio Calabria. Il gip ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare. Nel 2009 aveva subito una sanzione dal Csm per i ritardi nella pubblicazione delle sentenze, scrive il 2 ottobre 2017 "La Repubblica". Un giudice in servizio alla corte d'Appello di Reggio Calabria, Gaetano Maria Amato, è stato arrestato dalla polizia a Messina per pornografia minorile. Nei suoi confronti il gip della città dello Stretto, su richiesta del procuratore capo Maurizio de Lucia e dell'aggiunto Giovannella Scaminaci, ha emesso un'ordinanza di custodia cautelare in carcere. Gli investigatori non forniscono particolari, a tutela delle vittime. Gaetano Maria Amato, 57 anni, nato a Messina, ha iniziato la sua carriera giudiziaria come pretore a Naso. Si era poi spostato a Messina, prima al tribunale civile e poi a quello fallimentare. Infine, nel 2009, il trasferimento alla corte d'Appello di Reggio Calabria. È padre di tre figli. Il giudice Amato nel 2009, quando era in servizio a Messina, subì un procedimento del Consiglio superiore della magistratura per presunti ritardi nel deposito degli atti. Nella contestazione si rilevava come ci fossero troppe sentenze del magistrato depositate oltre i termini. Per questi ritardi il Csm lo aveva dichiarato colpevole e sanzionato con l'ammonizione. Il reato di pedopornografia configura vari tipi di comportamento, dalla sola detenzione di materiale pornografico alla cessione e diffusione, fino alla produzione di immagini con lo sfruttamento di minori. Il reato prevede, in caso di condanna, la reclusione fino a 12 anni. Pornografia minorile, tre foto a un unico “amico” della rete. Ecco nel dettaglio l’accusa al giudice Gaetano Maria Amato: qualche settimana prima degli arresti aveva ammesso le chat e l’invio di immagini. Sequestrati personal computer e cellulare, gli inquirenti a caccia di nuove prove e di (eventuali) altri “appassionati” di bambini.

Tre foto di due persone minorenni seminude (due) e nude (una), tutte carpite all’insaputa delle vittime e inviate tra il 2014 e il 2015 a un solo utente della rete con dei commenti a corredo, scrive il 5 ottobre 2017 Michele Schinella.  Sono questi i fatti per cui il giudice della Corte d’appello di Reggio Calabria Gaetano Maria Amato, su richiesta della Procura di Messina accolta dal Giudice per le indagini preliminari Maria Vermiglio, è stato arrestato e condotto nel carcere di Gazzi il 3 ottobre scorso. L’accusa per il cinquantottenne è di Pornografia minorile, reato per cui è prevista una pena da 6 a 12 anni di reclusione. Tuttavia, le indagini sul magistrato sono tutt’altro che chiuse. Da quanto si è riuscito a sapere da ambienti vicini agli inquirenti, pochi giorni prima che scattassero gli arresti, a casa del giudice residente a Messina si sono presentati gli agenti della polizia con in mano un provvedimento di perquisizione e di sequestro di supporti telematici e informatici. Nell’occasione della perquisizione, lo stesso giudice ha fatto dichiarazioni spontanee, minimizzando i fatti e ammettendo che in passato aveva intrattenuto delle chat con un pedofilo a cui aveva inviato tre o 4 foto: in sostanza, ciò che gli inquirenti sapevano già e che gli è stato contestato al momento dell’esecuzione della misura cautelare. Gli inquirenti al termine della perquisizione hanno sequestrato e portato via personal computer e telefoni cellulari. La perizia sui supporti informatici permetterà di stabilire se il magistrato ha raccontato la verità e, quindi lo scambio di materiale pedo pornografico è stato occasionale e limitato a quello già accertato, oppure le foto prodotte e inviate sono molto di più e l’interlocutore del giudice non è stato uno solo ma diversi. In quest’ultimo caso, altri interlocutori con la “passione” per le immagine pedo pornografiche potrebbero finire nel mirino della Procura.

Nella rete…della perizia informatica. E’ con lo strumento della consulenza tecnica su strumentazione informatica che – secondo quanto si è riuscito a sapere dagli inquirenti della squadra mobile della polizia di Stato di Bolzano – ci è si imbattuti nel giudice di Messina. Le indagini infatti erano concentrate su un pedofilo che, a tempo pieno, usando diversi account e nick name, navigava sulla rete alla ricerca di materiale pedo pornografico. E’ stata l’accertamento tecnico sul materiale sequestrato a quest’ultimo che ha consentito di individuare tra la miriade di chat e scambio di materiale scottante, le comunicazioni e, soprattutto, le foto che il giudice gli ha inviato. Le carte sono state così trasmesse per competenza territoriale alla Procura di Messina.

La partita giuridica. La normativa che il legislatore ha dettato dal 1998 in poi contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minore, prevede diverse fattispecie di reato, di gravità diversa e quindi punite con pena diversa, i cui confini sono stati oggetto di interpretazioni non sempre univoche da parte della giurisprudenza. Al magistrato Amato, in attesa degli esiti degli ulteriori accertamenti tecnici sul pc e sul cellulare, è contestata la fattispecie più grave (art. 600 ter, primo comma): quella che incrimina chi “utilizzando minori di anni 18, realizza esibizioni o spettacoli pornografici ovvero produce materiale pornografico”.

Per quanto le foto inviate dal giudice sono state realizzate all’insaputa delle vittime (e, ovviamente, senza la loro minima collaborazione), e sono state inviate a un solo utente, i fatti accertati sembrano rispondere appieno alla interpretazione che la Cassazione (a Sezioni unite) ha offerto della norma. La cassazione nel 2000 (numero 13) ha, infatti, stabilito che la norma “offre una tutela penale anticipata volta a reprimere quelle condotte prodromiche che mettono a repentaglio il libero sviluppo personale del minore, mercificando il suo corpo e immettendolo nel circuito perverso della pedofilia. Per conseguenza il reato è integrato quando la condotta dell’agente che sfrutta il minore per fini pornografici abbia una consistenza tale da implicare concreto pericolo di diffusione del materiale pornografico prodotto”. Non sarà semplice, ma ciò dipenderà anche dal tipo e dalla natura delle chat, per il giudice Amato difendersi sostenendo che l’aver trasmesso le foto a uno sconosciuto (che quindi non dava alcuna garanzia di riservatezza) non abbia determinato il concreto pericolo di diffusione delle stesse e quindi il rischio di pregiudicare il libero sviluppo personale dei minori raffigurati.

Primi provvedimenti. In applicazione della legge, che sul punto non ammette deroghe e riguarda tutti i pubblici funzionari senza che via la necessità di alcuna richiesta specifica di alcuno, il magistrato in conseguenza degli arresti e sin dal giorno successivo è stato sospeso dalle funzioni e dallo stipendio. Allo stesso modo, è stato avviato nei suoi confronti procedimento disciplinare: si tratta, allo stato delle cose, di un grave illecito disciplinare, rientrante nella categoria degli “Illeciti conseguenti a reato” (e dunque diverso da quello compiuto nell’esercizio delle funzioni o fuori dalle stesse, ma sempre facendo pesare il ruolo di magistrato). Questo tipo di illeciti possono portare alla sanzione (anche della rimozione dalla magistratura) solo dopo la condanna irrevocabile.

I viaggi, il teatro e i chihuahua: chi è il giudice arrestato per pedopornografia. Gaetano Maria Amato aveva iniziato la sua carriera in magistratura nel 1986. Adesso rischia da sei a dodici anni di carcere per pornografia minorile, scrive il 03/10/2017 "Tribupress.it". Viaggi, teatro, mostre d’arte. Abbondanti foto di due chihuahua di nome Dino e Minou. Sono gli elementi principali del profilo Facebook di Gaetano Maria Amato, il giudice della Corte d’Appello di Reggio Calabria arrestato nelle scorse ore per pornografia minorile. Un’accusa pesantissima, quella avanzata nei suoi confronti dal Procuratore di Messina Maurizio De Lucia e dall’Aggiunto Giovannella Scaminaci, che ha fatto in breve tempo il giro d’Italia. L’ipotesi di reato è quella prevista dall’articolo 600 ter del Codice Penale, che punisce con la reclusione da sei a dodici anni e con la multa fino a 240.000 euro chiunque produca materiale pornografico o realizzi esibizioni o spettacoli pornografici con protagonisti minorenni. Sulla vicenda gli inquirenti mantengono il più stretto riserbo a tutela delle vittime. Le indagini sarebbero state svolte dalla Polizia Postale di Catania e riguarderebbero fatti avvenuti a Messina. Nato a Messina cinquantasette anni fa, Amato aveva iniziato la sua carriera in magistratura nel 1986, con l’incarico di Pretore a Naso, piccolo centro dei Nebrodi. Poi il trasferimento nel capoluogo e gli scatti di carriera, dalla sezione Civile a quella Fallimentare alla Penale. Qui aveva partecipato ai Collegi di Corte di Assise e alla Sezione Misure di prevenzione. Una carriera regolare, quella del magistrato messinese, che adesso oltre al procedimento penale rischia di essere sospeso e messo fuori organico dal Consiglio Superiore della Magistratura. Non sarebbe la prima volta che la toga passa al vaglio del Csm. Già nel 2009, a seguito di un’ispezione avvenuta durante il suo servizio a Messina nell’inverno del 2005, Amato subì un procedimento per ritardi nel deposito degli atti. Troppe sentenze depositate oltre i termini, secondo l’organo di autogoverno della magistratura, che sanzionò il giudice con un’ammonizione. Nel 2016 aveva difeso con altri giudici l’operato di una collega accusata della stessa inadempienza. Fin qui il profilo professionale. Ma l’accusa per la quale Amato è finito in manette attiene alla sfera privata. A dire qualcosa in più del magistrato finito nella bufera resta soltanto il profilo social. Popolato appunto da una grande quantità di foto di viaggi, di pièce teatrali, di cani per i quali mostra grande tenerezza. Foto di Lipari, Istanbul, delle Bahamas raggiunte a coronamento di un lungo viaggio negli States, iniziato a New York con la visita alla collezione Guggenheim. Poi foto in famiglia, qualche considerazione estemporanea sulla società e le sue brutture. E sempre i cagnolini fotografati in tutte le salse, anche sulle carte che il giudice si portava a casa dal lavoro. “Io ho tre vite, la mia, quella che si inventano gli altri e quelli che gli altri pensano che sia la mia vita”, fa dire a Snoopy in una foto condivisa nel gennaio 2015. Quale di queste sia oggetto delle valutazioni degli inquirenti che hanno portato all’arresto sarà compito della giustizia chiarirlo. 

«Ciao Melitta, hai saputo? Mio marito è stato nominato all'unanimità presidente della Corte d' appello di Messina. Sono molto contenta, dillo anche a Franco (Tomasello, rettore dell'Università) e ricordagli del concorso di mio figlio. Ciao, ciao». Chi parla al telefono è la moglie del presidente della Corte d'appello di Messina, Nicolò Fazio, chi risponde è Melitta Grasso, moglie del rettore e dirigente dell' Università, il cui telefono è intercettato dalla Guardia di Finanza perché coinvolta in una storia di tangenti per appalti di milioni di euro per la vigilanza del Policlinico messinese. Ma non è la sola intercettazione. Ce ne sono tante altre, anche di magistrati messinesi, come quella del procuratore aggiunto Giuseppe Siciliano che raccomanda il proprio figlio. Inutile dire che tutti e due i figli, quello del presidente della Corte d'appello e quello del procuratore aggiunto, hanno vinto i concorsi banditi dall' ateneo. Posti unici, blindati, senza altri concorrenti. Francesco Siciliano è diventato così ricercatore in diritto amministrativo insieme a Vittoria Berlingò (i posti erano due e due i concorrenti), figlia del preside della facoltà di Giurisprudenza, mentre Francesco Siciliano è diventato ricercatore di diritto privato. Senza nessun problema perché non c' erano altri candidati, anche perché molti aspiranti, come ha accertato l'indagine, vengono minacciati perché non si presentino. Le intercettazioni sono adesso al vaglio della procura di Reggio Calabria che, per competenza, ha avviato un'inchiesta sulle raccomandazioni dei due magistrati messinesi, che si sarebbero dati da fare con il rettore Franco Tomasello per fare vincere i concorsi ai propri figli. Altri guai dunque per l'ateneo che, come ha raccontato «Repubblica» nei giorni scorsi, è stato investito da una bufera giudiziaria che ha travolto proprio il rettore, Franco Tomasello, che è stato rinviato a giudizio e sarà processato il 5 marzo prossimo insieme ad altri 23 tra docenti, ricercatori e funzionari a vario titolo imputati di concussione, abuso d' ufficio in concorso, falso, tentata truffa, maltrattamenti e peculato. In ballo, alcuni concorsi truccati e le pressioni fatte ad alcuni candidati a non presentarsi alle prove di associato. E in una altra indagine parallela è coinvolta anche la moglie del rettore, Melitta Grasso, dirigente universitaria, accusata di aver favorito, in cambio di «mazzette», una società che si era aggiudicata l'appalto, per quasi due milioni di euro, della vigilanza Policlinico di Messina. Un appalto che adesso costa appena 300 mila euro. L'inchiesta sull'ateneo messinese dunque è tutt'altro che conclusa ed ogni giorno che passa si scoprono altri imbrogli. Agli atti dell' inchiesta, avviata dopo la denuncia di un docente che non accettò di far svolgere concorsi truccati, ci sono molte intercettazioni della moglie del rettore. Convinta di non essere ascoltata, durante una perquisizione della Guardia di Finanza Melitta Grasso dice ad un suo collaboratore («Alberto») di fare sparire dall'ufficio documenti compromettenti. In una interrogazione del Pd al Senato, si chiede al ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini «se intende costituirsi parte civile a tutela dell' immagine degli atenei e inoltre se intenda sospendere cautelativamente il rettore di Messina». (Repubblica — 20 novembre 2008   pagina 20   sezione: cronaca).

COME SI DICE…“CANE NON MANGIA CANE!”

Risarcire Morlacchi o Di Matteo, scrive Piero Sansonetti il 14 ago 2016 su "Il Dubbio". L'editoriale del Direttore sulle sproporzioni. Piero Ostellino, recentemente, è stato condannato a risarcire con 150 mila euro due delle tre magistrate che nel giugno del 2013 condannarono Berlusconi per il caso Ruby. Ostellino criticò aspramente quella sentenza. I giudici dell'appello e della Cassazione, successivamente, diedero retta ad Ostellino e torto alle due magistrate: bocciarono la sentenza e assolsero Berlusconi. Le due magistrate però si sono sentite offese da Ostellino e gli hanno fatto causa. Hanno vinto. Criticare un magistrato - sembra - è proibito. Manolo Morlacchi - cittadino come un altro - è stato accusato qualche anno fa di aver rifondato le Brigate Rosse. Cinque mesi in cella. Rischio ergastolo. L'accusa era falsa: assolto in primo e secondo grado. Assolto in Cassazione. Lo hanno risarcito con 15 mila euro. C'è proporzione tra i 15 mila euro per cinque mesi di galera ingiusta, e 150 mila euro per una critica (giusta o ingiusta che fosse)? Le due magistrate hanno fatto causa anche a me (forse per questo sono particolarmente sensibile). A me addirittura hanno fatto due cause: una per un'intervista e una per una dichiarazione in Tv: in tutto altri 150 mila euro. Intanto mi ha fatto causa anche un altro magistrato. Il famoso Pm di Palermo Di Matteo. Altri centomila euro, vuole, perché ho scritto che lui è stato maleducato nell'interrogatorio di De Mita nel famoso processo Stato-Mafia. Ho così appreso che dire a un magistrato che è stato maleducato è dieci volte più grave che prendere un povero cristo e sequestrarlo in cella per cinque mesi. Tra i 150 mila euro alle due milanesi e i 100 mila a Di Matteo, mi tocca impegnare l'intero mio reddito futuro, se va bene, per sette o otto anni. Ho pensato che l'alternativa è quella di farmi arrestare ingiustamente e poi farmi risarcire per ingiusta detenzione. Però, per arrivare a 250 mila euro (Morlacchi docet) mi ci vorranno sempre sette o otto anni.

Le carriere con l'air bag di certi pm: sbagliano e vengono pure promossi. Il privilegio speciale delle toghe: da Esposito e Robledo a Woodcock, quando la punizione diventa un premio, scrive Enrico Lagattolla, Martedì 24/02/2015 su "Il Giornale".  Ammettiamolo: è il sogno di tutti. Una carriera con l'air bag, una vita con la rete di protezione, pochi rischi e tanto onore, l'invidiabile privilegio di cadere sempre in piedi e la lunare dispensa dai contraccolpi di uno sciagurato sfondone. Anzi, a volte pure l'insensato beneficio di un avanzamento per demeriti. È il sogno di tutti e per qualcuno è realtà. Prendete il giudice di Torino che - pochi giorni fa - è stato trasferito a Milano perché strapagava le consulenze all'amante. Non a Canicattì. A Milano, l'ufficio più prestigioso del Paese. Promoveatur ut amoveatur. A essere trombati in questo modo, c'è da metterci la firma. Vincenzo Toscano - il magistrato del capoluogo piemontese - ha affidato «incarichi remunerati» a una consulente a «cui era legato da vincoli sentimentali». La Cassazione, che lunedì ne ha confermato il cambio di sede, spiega che dava lavoro alla compagna, liquidava «compensi molto superiori alla media degli altri consulenti», e si lavorava il collegio giudicante «per ottenere una decisione favorevole» alla donna. Cosa sarebbe accaduto in qualunque azienda privata? Ma la giustizia segue altre regole. Quindi, l'insopportabile sanzione è stata la perdita di un anno di anzianità - e capirai - e il trasferimento nel palazzaccio più in vista d'Italia. Diciamola tutta: promosso. Ma per uno che da Torino viene a Milano, due fanno il tragitto opposto. L'estenuante disputa tra il procuratore Edmondo Bruti Liberati e il suo ex vice Alfredo Robledo si è conclusa con il trasloco di quest'ultimo in Piemonte. Che onta. Oddio, diciamo un alone. I fatti: secondo il Csm, Robledo è culo e camicia con l'avvocato della Lega Domenico Aiello. Gli «soffia» notizie riservate su un fascicolo che coinvolge alcuni politici del Carroccio. Vero o falso che sia, il punto è un altro: l'organo di autogoverno dei magistrati gli attribuisce un «provato rapporto di contiguità con l'avvocato Aiello», «improntato allo scambio di favori», così come è «inequivoca» la «propalazione» al legale dei lumbard «di atti coperti dal segreto». Sembra grave. Perciò via, Robledo lasci Milano e dismetta i panni da pm. E cosa va a fare? Il giudice. Un gradino più in alto nella scala evolutiva dell'homo togatus. Ma a Torino è andato anche un giovane pubblico ministero milanese, anche lui silurato con tutte le cautele. È una storia di leggerezze e bella vita, quella di Ferdinando Esposito, di amicizie bislacche e di un'improvvida visita ad Arcore che gli ha attirato gli strali di Ilda Boccassini. Che l'ha indagato, l'ha fatto pedinare e intercettare, e poi ha mandato gli atti a Brescia, dove un fascicolo è stato aperto senza che finora abbia portato ad alcunché. Anche su Esposito si è pronunciata la disciplinare del Csm: non può più fare il pm a Milano, sarà gip a Torino. A parte l'incomodo della breve trasferta, la carriera del magistrato prosegue spedita. Sono solo tre storie, le più recenti. Ma sono storie che si ripetono. Henry John Woodcock - quello dei disastri Vip Gate e Savoia Gate - da Potenza finisce a Napoli (qualche dubbio su quale sia la sede più rilevante?). Per le disfatte giudiziarie Why not e Toghe lucane, Luigi De Magistris se la cava con censura, trasferimento e cambio di casacca: da pm a giudice. Ma per non sbagliare, Giggino Masaniello sceglie la terza via: la politica. Ai magistrati di sorveglianza che concedono la semilibertà ad Angelo Izzo, e grazie alla quale il «mostro del Circeo» torna a uccidere, il Csm riserva un ammonimento. L'ex magistrato antimafia di Napoli che va a caccia con i boss viene assolto dal Consiglio. E il sottobosco degli sconosciuti è pieno di miracolati. Vero che ultimamente le condanne nei procedimenti disciplinari sono aumentate, ma si tratta perlopiù di sanzioni minime. Di gente cacciata dalla magistratura, negli ultimi vent'anni, se ne conta sulle dita di una mano. Quanto alla responsabilità civile, peggio che andar di notte: in un quarto di secolo i ricorsi accolti sono stati quattro su 400. È un tratto tristemente sbagliato in questa nobile categoria, semidei del diritto con la tendenza all'autoassoluzione. Avete mai visto la deferenza con cui un avvocato bussa all'ufficio di un pm? Credete davvero che in un'aula di giustizia accusa e difesa godano sempre di pari dignità? Ci dev'essere qualcosa che, strada facendo, scolla alcuni magistrati dal mondo reale. Non si spiega altrimenti, sennò, la meravigliosa ingenuità con cui il fu presidente del tribunale di sorveglianza di Milano Francesco Castellano si rivolse al Csm. Accusato di aver brigato per parare il didietro all'indagato Giovanni Consorte, Castellano propose alla disciplinare del Consiglio la sua soluzione. Facciamo così: io lascio Milano, voi mandatemi in Cassazione. Non si sa se a qualcuno scappò da ridere, ma almeno in quel caso sembrò troppo persino ai suoi pari.

Libri: "Quattro anni a Palazzo dei Marescialli", se la lottizzazione diventa magistratura. Recensione di Antonio Bevere su Il Manifesto, 15 luglio 2015. Aniello Nappi racconta in un libro i suoi quattro anni all'interno di Palazzo dei Marescialli. E si misura con i 200 "fuori ruolo", ma anche con alcune pratiche di valutazione da parte del Csm. "Soprattutto a Roma c'è contiguità fra amministrazione della giustizia e politica". Per fronteggiare la crescente espropriazione di potere giuridico ed economico, attuata da organizzazioni mafiose e da ceti finanziari e imprenditoriali, gli attuali vertici dello Stato sono ricorsi al rimedio costituito da un'anomala collocazione di pubblici ministeri in torri di controllo (Autorità Nazionale Anticorruzione, assessorato comunale delle legalità e simili) nel territorio dell'illegalità dominante. Questi avamposti delle guardie togate nelle terre dei ladri creano perplessità sotto due aspetti: da un lato, aggravano il fenomeno di magistrati distolti dal lavoro giudiziario ed inseriti nella gestione di incarichi dell'amministrazione centrale e periferica, con palese violazione del principio della separazione dei poteri prevista dalla Costituzione; dall'altro, i singoli magistrati si espongono al rischio di essere coinvolti, quanto meno per scarsa capacità di vigilanza e di prevenzione, nelle inevitabili indagini dei colleghi togati, con paradossali risvolti negativi nell'accertamento delle responsabilità penali e contabili. È di tutta evidenza che la presenza delle avanguardie giudiziarie non potrà non costituire un argomento difensivo di ottimo spessore per dimostrare la buona fede del politico e dell'imprenditore che hanno trasgredito le regole, ma sotto il vigile occhio del fuori ruolo giudiziario in missione per conto dello Stato. Né va sottovalutato che il fenomeno delle carriere parallele di alcuni magistrati, che si sviluppa frequentemente con la decisione del Consiglio superiore della magistratura di concedere collocamenti "fuori ruolo" con la destinazione a funzioni non giudiziarie presso pubbliche amministrazioni, è stato fortemente criticato dal consigliere di Cassazione Aniello Nappi, reduce dall'esperienza di componente dell'organo di autogoverno. Questa anomalia riguarda circa duecento posti, ma coinvolge una popolazione di postulanti ben più numerosa. "E questo crea le basi per un rapporto inquinante della magistratura, soprattutto a Roma, dove c'è la contiguità tra amministrazione della giustizia e politica. Qui la questione dei fuori ruolo si pone come questione morale fondamentale" (Quattro anni a Palazzo dei Marescialli, Aracne, 2014, p. 45). La lettura di questo libro - ricco di un'impressionate casistica di deroghe alla legge e alle regole interne - fa sorgere il quesito se la magistratura-impegnata in maniera generalmente encomiabile nella tutela della legalità tra i comuni cittadini e tra i cittadini eccellenti - sia capace di autogovernarsi correttamente attraverso l'organo assembleare previsto dall'art. 104 della Costituzione. È noto che il Csm è un'istituzione democratica nel senso che i suoi componenti vengono eletti da tutti i magistrati e dal Parlamento in seduta comune e nel senso che nei dibattiti in commissione e nel plenum è garantita la piena libertà di espressione, con conseguente immunità, al pari dei parlamentari. I singoli consiglieri non hanno vincolo di mandato nei confronti degli elettori e dei gruppi che ne hanno proposto la candidatura. Nel quotidiano svolgimento della valutazione della capacità professionale dei singoli, della assegnazione dei ruoli dirigenziali, il consigliere Nappi ha dovuto fare i conti con la consolidata regola pragmatica, secondo cui le determinazioni e le scelte espresse con il voto devono essere soggette al principio di maggioranza, nel senso devono essere assunte non secondo coscienza, ma secondo l'indicazione della maggioranza del gruppo di appartenenza. È stato facile rilevare che il voto per vincolo di maggioranza, alias per disciplina di gruppo, risponde alla logica, alla teorizzazione, alla pratica del voto di scambio: io voto uno dei tuoi se tu voti uno dei miei, come la riconosciuta esigenza di risarcire il contraente nei confronti del quale si è rimasti inadempienti...È vero che all'interno dei gruppi il principio di maggioranza viene applicato con qualche elasticità. Ma è proprio questa elasticità a farne lo strumento fondamentale dei baratti, che sono di per sé occasionali. È appunto l'accettazione del principio di maggioranza a rendere possibili occasionali accordi, ora con l'uno ora con l'altro gruppo, tanto più vantaggiosi quanto maggiori sono i pacchetti di voti disponibili. In questo contesto è nato un goffo e spiacevole episodio che ha avuto inopinata diffusione, nella totale indifferenza delle istituzioni: da una corrispondenza riservata di un componente dell'organo di autogoverno inavvertitamente è volata in rete, il 23.11.2012, una missiva in cui il mittente - pur riconoscendo "più opportuno politicamente piazzare una giovane collega napoletana di Area ad un posto direttivo, sia pure di rilievo minore", auspicava che non si facesse "tuttavia una ingiustizia troppo grossa". Nappi osserva che, pur essendo l'opportunità politica collegata a più criteri (età, territorio, appartenenza ad una corrente), è documentabile che "il criterio dell'appartenenza è accettato e riconosciuto all'interno dei gruppi consiliari". Che non si sia trattato di un caso eccezionale è dimostrato dal silenzio e dall'indifferenza della corporazione: mercoledì 8 maggio 2014 il medesimo consigliere, in qualità di Presidente della Quarta Commissione del Csm (competente per materia nelle progressioni in carriera), ha partecipato, nella sessione della Scuola superiore della magistratura dedicata all'ordinamento giudiziario, a un confronto a due voci sul tema Standard di rendimento e carichi esigibili). Talvolta gli scambi falliscono per una sopravvenuta modifica tattica delle alleanze e più raramente per l'imprevista dissociazione dal gruppo di appartenenza, con reazioni sanzionatorie, come è accaduto proprio a Nappi, la cui espulsione "venne giustificata anche con la dissociazione nel voto per un incarico semi direttivo". La lottizzazione guidata dai vertici delle tre correnti - osserva l'autore - è giustificata con l'esigenza di garantire il pluralismo culturale negli uffici e nell'organo di autogoverno, ostentando di ignorare una realtà ben visibile in magistratura e in tutte le istituzioni: "La pratica della lottizzazione, spacciata per pluralismo, ha impoverito il nostro Paese, privandolo di una classe dirigente adeguata". In conclusione, poiché è impossibile presumere che la bussola del criterio di appartenenza, impiegato per selezionare e premiare con pratiche spartitorie e preordinate, conduca infallibilmente a beneficiare i migliori, è indubbio il danno degli "indipendenti n.n." e il pregiudizio dei cittadini cui è sottratta la possibilità di avvalersi adeguatamente della capacità professionale di questi ultimi.

Quattro anni a Palazzo dei Marescialli. Pubblichiamo, a cura dell’Unione delle Camere Penali, fra gli editoriali, il testo integrale dell’intervento del Presidente dott. Aniello Nappi al convegno tenutosi a Camerino il 19 novembre 2015 a margine della presentazione dell’omonimo libro, nel quale l’autore racconta la sua esperienza al CSM. Il volume contiene una lucida e spietata disamina sul declino dell’organo di autogoverno della magistratura, le cui cause vengono individuate proprio nella sindacalizzazione delle correnti dell'Anm, che ha determinato inesorabilmente la trasformazione del Consiglio stesso “in una sorta di condominio sindacale”. La gestione correntizia delle carriere dei magistrati, recentemente evidenziata dalla Commissione Scotti istituita dal governo, coincide con l’allarme, come si legge nel libro, sulla degenerazione del Csm che, afferma l’autore, “rischia di mettere in discussione l’essenza stessa dell’attività giurisdizionale, che è nella sua indipendenza e nella sua terzietà”. La sindacalizzazione della componente togata del consiglio, sostiene sempre l’autore, comporta moltissime conseguenze negative, perché “i sindacalisti tutelano il lavoratore, non il giudice; e non sempre le due posizioni si sovrappongono”.

Camerino, 19 novembre 2015. Intervento del Dott. Aniello Nappi. "Quando si tenne alla Luiss di Roma la presentazione del mio libro sul CSM (Quattro anni a Palazzo dei marescialli – Idee eretiche sul Consiglio superiore della magistratura), il Vicepresidente Legnini esordì in funzione difensiva del Consiglio, domandando: “Ma chi ha mai parlato bene del Consiglio?”; e qualcuno gli fece eco, rilevando che in effetti il CSM non ha mai goduto di buona stampa. Sicché ci si domanda dov’è l’eresia, se del CSM si è sempre parlato male. Sennonché non mi sarei di certo scomodato, non avrei dedicato un’estate a mettere giù queste memorie, solo per parlar male del Consiglio. Ho invece inteso proporre una ben precisa diagnosi di un problema, che definisco come crisi di credibilità, come declino del Consiglio, individuandone la causa nella sindacalizzazione delle correnti dell'Anm, con la trasformazione del Consiglio in una sorta di condominio sindacale. Considero questa una degenerazione, non perché ce l’abbia con i sindacati, ma per una ragione molto semplice e banale. Il Consiglio Superiore della Magistratura è un particolare ufficio del personale: gestisce la carriera, la mobilità, la valutazione di professionalità dei magistrati. Occorrerebbe domandarsi allora perché per questa attività di gestione del personale, che in altri uffici pubblici o nelle aziende private è svolta dall’amministrazione, da un consiglio di amministrazione, si scomoda il Presidente della Repubblica e si mette su un organo di rilevanza costituzionale. E la risposta è evidente: perché è chiaro che nel momento in cui si decide del destino professionale di un magistrato, del suo trasferimento piuttosto che della sua valutazione di professionalità, c’è il rischio di condizionarne l’attività giurisdizionale. Si rischia dunque di mettere in discussione l’essenza stessa dell’attività giurisdizionale, che è nella sua indipendenza e nella sua terzietà. È questo che giustifica l’esistenza del Consiglio Superiore della Magistratura. Tuttavia se le componenti togate del CSM, che sono elette sulla base delle indicazioni dell’Associazione nazionale magistrati, sono formate di sindacalisti, viene fuori un palese conflitto di interesse. Tutti comprendono che il sindacalista non può essere l’amministratore del personale, perché avrebbe due parti in commedia: quella della tutela del lavoratore e quella della gestione del lavoratore. Questo determina una situazione insostenibile. Ed è qui la mia denuncia, fondata su una diagnosi precisa. Non parlo genericamente di degenerazione, perché la degenerazione delle istituzioni pubbliche, non solo nel nostro Paese, è un fenomeno al quale purtroppo ci siamo abituati. E parlare genericamente di degenerazione non avrebbe giustificato che si scrivesse un libro sul CSM. Il problema del Consiglio è dunque nella sindacalizzazione della sua componente togata. E questo comporta moltissime conseguenze negative, perché la missione del Consiglio sarebbe quella di tutelare il giudice come istituzione. I sindacalisti tutelano invece il lavoratore, non il giudice; e non sempre le due posizioni si sovrappongono. Molto spesso la tutela del lavoratore contraddice gli interessi e la funzionalità dell’istituzione. Si determina inoltre una burocratizzazione dei magistrati. La sindacalizzazione nella gestione del personale ne comporta la burocratizzazione, perché si privilegia il rispetto delle garanzie destinate a tutelare il lavoratore anziché le garanzie dell'istituzione giudiziaria. Il giudice, ciascun giudice, è un’istituzione, di cui va garantita l’indipendenza e l’autonomia, oltre a essere un lavoratore, cui vanno riconosciute tutele economiche e “contrattuali”. Al Consiglio superiore della magistratura non è demandata però la tutela economica e contrattuale del magistrato lavoratore, bensì la ricerca di un equilibrio tra garanzie individuali dei magistrati ed efficienza dell’istituzione giudiziaria. Le garanzie individuali dei magistrati, che attengono all’ambito del loro ruolo istituzionale, vengono invece sempre più interpretate all’interno del CSM in termini di garanzie sindacali del lavoratore magistrato. Tutto questo accade per di più in un momento in cui il ruolo del giudice va sempre più enfatizzandosi. Una volta il giudice doveva essere solo il mediatore tra il caso concreto e la norma di diritto, espressa di regola in una legge. La situazione è oggi radicalmente mutata. Viviamo oggi una moltiplicazione degli ordinamenti, dalla Convenzione europea diritti dell’uomo al diritto dell’Unione Europea; e una moltiplicazione delle corti, dalla Corte europea di giustizia alla Corte europea dei diritti dell’uomo alla Corte costituzionale. Si pensi solo alla recente sentenza europea sul caso Contrada, quale esempio di riconoscimento della funzione normativa della giurisprudenza, a proposito della punibilità del concorso esterno in associazione mafiosa. Sicché oggi il diritto lo fanno sempre di più i giudici. Cresce perciò l’esigenza di un approccio sempre meno burocratico alla funzione giudiziaria, nel momento stesso in cui si burocratizza invece sempre di più la posizione del giudice. È come lo spostamento della crosta terrestre, la deriva dei continenti nella teoria della tettonica delle placche. Le nostre istituzioni giudiziarie sono sollecitate da due spinte opposte: da una parte la burocratizzazione, provocata dalla gestione sindacalizzata del Consiglio, dall’altra la spinta di tutto il sistema, anche sovranazionale, verso un’assunzione sempre maggiore di responsabilità del giudice come produttore di norme. Temo che ne possa venir fuori un sommovimento istituzionale, che metterà a rischio le tradizionali garanzie del nostro sistema giudiziario. Quando in questo Paese la politica avrà finalmente conquistato il suo primato, non accetterà più che il piccolo sindacato di una corporazione burocratizzata rivendichi un ruolo di autonomo interlocutore istituzionale senza assumersene anche le responsabilità. Così sarà a rischio non solo il destino di qualche magistrato, ma sarà a rischio la tenuta dello stesso sistema democratico. Per far fronte a questo rischio, occorre che la magistratura associata recuperi al più presto l'orizzonte culturale di un tempo. E’ opportuno a questo punto domandarsi in che senso il Consiglio tutela il magistrato come lavoratore piuttosto che come giudice, come istituzione. Gli esempi sono tanti. Prendiamo il caso dell’incompatibilità parentale tra magistrati e avvocati. La legge prevede tre criteri per definirla: la natura delle materie (penale, civile o lavoro), la dimensione dell’ufficio e l’importanza, l’intensità del lavoro dell’avvocato. Questi sono i tre criteri che detta la legge, per stabilire quando un magistrato non può svolgere le sue funzioni nella stessa sede in cui opera un suo congiunto esercente la professione forense. Questa legge viene interpretata nel senso che basta che risulti favorevole uno soltanto di questi criteri per escludere l’incompatibilità. Insomma, se il magistrato è coniuge dell’avvocato più importante del piccolo tribunale, purché l’uno si occupi di diritto civile e l’altro di diritto penale, si esclude l’incompatibilità. Se fosse invece richiesto l’esito favorevole di tutti e tre i criteri, non solo la differenza delle materie, ma anche le dimensioni dell’ufficio e l’intensità dell’attività lavorativa, dovrebbe in un caso del genere riconoscersi l’incompatibilità. Contrariamente a quanto sarebbe stato ragionevole attendersi, invece, è stata respinta la proposta di considerare necessariamente concorrenti i tre criteri. E’ questa una tipica applicazione sindacale di una norma, perché tende a tutelare l’interesse del lavoratore anziché dell'istituzione. Tende a tutelare gli interessi di chi fa il magistrato nel luogo dove è nato, dove abita. Ed è comprensibile che, se arriva un congiunto a fare l’avvocato, è duro dover cambiare sede. Sennonché la logica sindacale è incompatibile con la logica istituzionale. Non perché i sindacati siano cattivi. Ma perché i sindacati debbono essere l’interlocutore dell’istituzione, non possono sostituire l’istituzione. Le delibere del Consiglio sono pubbliche. E secondo la legge sulla privacy, quando si tratta di un pubblico funzionario, di chiunque eserciti funzioni pubbliche, tutto deve essere controllabile e deve essere conoscibile, tutto ciò che attiene alla carriera e all’attività di chi svolge funzioni pubbliche. Benché tanto preveda la legge, non è stato possibile ottenerlo. Si è detto che soltanto la delibera è pubblica, ma i documenti sui quali la delibera si fonda non sono pubblici. Mentre è evidente che, se non si può accedere ai documenti, non si può controllare criticamente la delibera. In realtà il Consiglio si dà regole molto rigide per le sue decisioni, detta criteri di decisione molto rigorosi, che agevolano le risposte negative. Una decisione che può determinare scontento risulta così giustificabile come inevitabile. Quando però la domanda alla quale bisogna dare risposta viene da chi è vicino agli apparati sindacali, allora il consiglio si riconosce esplicitamente il potere di derogare all’eccessiva rigidità dei suoi stessi criteri. Ed è chiaro che, se si riconoscesse il controllo dei documenti oltre che della delibera, risulterebbe palese la singolarità della deroga. Veniamo così ad un altro aspetto, perché poi tutto si tiene. Ci sono circa 450 magistrati, tra i 400 e i 500 magistrati, che hanno esoneri dal lavoro, totali o parziali. Ad esempio gode giustamente di un parziale esonero dal lavoro chi fa parte del Consiglio giudiziario. Ma un parziale esonero dal lavoro è riconosciuto anche ai cosiddetti RID, referenti informatici distrettuali, ai formatori decentrati, e via elencando. Questi incarichi, che hanno il vantaggio di ridurre l’impegno nel lavoro giudiziario, sono distribuiti su indicazione delle correnti dell’ANM. È uno dei mezzi per creare un piccolo ceto dei sindacalisti, con la conseguenza di una separazione sempre più netta da tutta la magistratura reale, dai tanti magistrati di prim’ordine, di grandissimo valore, che in questo contesto non contano assolutamente nulla. Negli anni in cui le correnti dell’associazione avevano un contenuto progettuale, programmatico, c’erano idee diverse sul ruolo del magistrato, sulla funzione dell’interpretazione della legge, E fu questa diversità di orientamenti culturali a determinare la nascita delle correnti dell’Associazione. La sindacalizzazione ha oggi portato all’omogeneizzazione su quasi tutte le questioni di principio. Si è discusso ad esempio di quali conseguenze debba avere la mancata osservanza del calendario del processo, uno strumento di efficienza dell’istituzione giudiziaria. E tutti i gruppi sono stati d’accordo nel dire che non debba avere conseguenze disciplinari, indipendentemente dalla considerazione delle conseguenze sulla funzionalità del sistema, perché del funzionamento del processo al sindacalista non interessa molto. Al sindacalista interessa tutelare il magistrato lavoratore che, se non ha rispettato il calendario, non deve andare incontro a una responsabilità disciplinare. Sulla questione della partecipazione dei magistrati alle commissioni d’esame degli avvocati, necessaria per favorire una comune cultura forense, si è detto che non può essere considerata obbligatoria, perché ancora una volta prevale l'interesse del lavoratore sull'interesse dell'istituzione. E così sul problema dell’incompatibilità parentale tra magistrati (si ammette che due coniugi svolgono le proprie funzioni all’interno della stessa Procura della Repubblica, anche se di piccole dimensioni); sul problema del rapporto tra condanna disciplinare e valutazione di professionalità (si esclude che il giudicato disciplinare possa in qualche misura vincolare la valutazione di professionalità); sul livello massimo di “carichi esigibili” di lavoro (si tende a fissarlo in misura eguale per tutti, con un livellamento verso il basso della professionalità dei magistrati, perché la logica sindacale non ammette che si diano occasioni per distinzioni e comparazioni di merito). In questo senso si può dunque affermare che la sindacalizzazione determina un conflitto d’interessi, perché la gestione del personale non può essere affidata a chi il personale lo tutela come lavoratore. È infatti questa logica individualistica e sindacale che ha portato anche a una degenerazione del rapporto con il giudice amministrativo, soprattutto, ma non solo, nel conferimento degli incarichi direttivi. In realtà dovrebbe essere scontato che l’incarico direttivo non è previsto per permettere ai magistrati di fare carriera; è previsto per far funzionare gli uffici. E tra l’altro comporta tali e tanti impegni di lavoro, aggiuntivo è diverso, che richiederebbe una notevole dose di altruismo. Se nella scelta dei magistrati ai quali affidare gli incarichi direttivi si segue una logica individualistica, intesa a soddisfare le aspirazioni del lavoratore piuttosto che le esigenze dell’istituzione, è evidente che il giudice amministrativo, abituato appunto a tutelare gli interessi individuali nei confronti della Pubblica Amministrazione, non potrà non riconoscere ai magistrati una sorta di diritto alla carriera. Solo se il CSM fosse in grado di esprimersi secondo una logica istituzionale, anche il giudice amministrativo avrebbe dei problemi a garantire i singoli piuttosto che la istituzione. Invece il giudice amministrativo è giunto ad affermare che, se il presidente di un tribunale trasferiva alla sede centrale una grande quantità di cause di una sezione distaccata, ledeva illegittimamente gli interessi dell’ufficio periferico. Mentre sarebbe stato più plausibile garantire gli interessi della funzionalità dell’ufficio, anziché del gruppo locale di avvocati che protestava contro quel provvedimento. Da questo sistema, da questo cambiamento della logica della partecipazione e della selezione dei componenti del Consiglio, deriva poi tutto il resto; deriva anche l’inefficienza degli uffici, perché tutto è destinato a tutelare i singoli piuttosto che le istituzioni. Si sono avute in particolare conseguenze estremamente negative e preoccupanti nell’interpretazione della disciplina dell’organizzazione degli uffici di Procura. Benché la legge dica chiaramente che il procuratore della Repubblica può revocare l’incarico a un sostituto anche per un mero dissenso sulla conduzione e conclusione delle indagini, si sostiene che il procuratore della Repubblica, nel momento in cui ha assegnato il procedimento, ha consumato il suo potere. I sostituti rivendicano, senza alcun fondamento, le stesse garanzie di precostituzione e tendenziale immutabilità che la Costituzione prevede per il giudice. E il CSM tende, almeno nelle proclamazioni di principio, ad assecondare questa rivendicazione, rinunciando così a ricercare un equilibrio ragionevole tra le garanzie individuali dei magistrati e le esigenze di funzionalità degli uffici. Certo, è necessario un controllo del CSM sugli interventi del procuratore della Repubblica, ma non è ammissibile una così palese elusione del testo legislativo. I rimedi a questa situazione di crisi vanno ricercati soprattutto sul piano culturale. Ma interventi normativi sono comunque auspicabili. Le soluzioni sono necessarie innanzitutto con riferimento al sistema elettorale dei togati e ai criteri di scelta dei laici. In realtà nella selezione della componente laica si tende a predeterminare la nomina del Vicepresidente. I partiti politici vogliono decidere preventivamente chi dovrà essere il Vicepresidente, benché ne sia prevista l’elezione da parte dell’Assemblea, dopo l’insediamento del consiglio. E’ certamente opportuno che il compito del Vicepresidente sia affidato a un politico, perché si tratta di un ruolo appunto politico, che richiede una specifica professionalità. Ma la pretesa di predeterminare la scelta del Vicepresidente comporta che i segretari dei partiti coinvolti prendano contatto con i responsabili delle correnti, con evidenti problemi per l'autonomia dei singoli consiglieri. E poiché gli accordi preliminari non sono abbastanza garantiti, si sceglie come predestinato alla vicepresidenza un personaggio che abbia una certa levatura politica, avendo cura di fare in modo che tutti gli altri siano ben al di sotto di questa levatura. Altrimenti c’è il rischio che si vada in Assemblea e venga eletto un personaggio diverso quello che era stato predeterminato. Dunque, poiché si deve fare in modo che quello che sarà eletto Vicepresidente sarà proprio colui che hanno scelto i gruppi parlamentari prima che il Consiglio si costituisca, si deve creare un gap notevole di spessore politico tra chi è destinato a fare il Vicepresidente e gli altri. Per quanto riguarda i professori il margine è più elastico, si può eccedere in bravura per qualcuno; ma per quanto riguarda i politici, deve essere netta la distinzione, la differenza di peso politico. E tutti gli altri vengono preventivamente informati che non debbono candidarsi alla vicepresidenza. Per quanto riguarda il sistema elettorale dei magistrati, l’obbiettivo dovrebbe essere quello di evitare che ciascuna corrente limiti il numero dei propri candidati al numero dei seggi che ritiene di poter ottenere, perché così si predetermina il risultato delle elezioni. Occorre costringere ad aumentare il numero di candidati, per evitare queste distorsioni del sistema istituzionale. Quanto alla sezione disciplinare l’esigenza principale, in una prospettiva di riforma, è quella della specializzazione dei suoi componenti. Si è detto: «chi giudica non amministra e chi amministra non giudica». A me sembra ragionevole. Ai componenti della sezione disciplinare dovrebbero essere affidati solo compiti giurisdizionali e compiti di controllo. C'è una commissione di controllo sul bilancio, una commissione che si occupa del regolamento interno e che vigila sul regolamento.  Affidiamo a questa commissione tutti i compiti di controllo e giurisdizionali e non quelli di amministrazione: non perché questa commistione sia di per sé ostativa a una corretta amministrazione della giustizia o a una corretta amministrazione dei magistrati; ma perché comporta una scarsa professionalità, non si riesce a ottenere una giurisprudenza coerente e uniforme. Ci sono poi l’ufficio studi e i magistrati segretari, che sono uffici importantissimi, perché il consigliere appena eletto e per almeno un anno o due è in genere inesperto; mentre i magistrati segretari, cioè coloro che li assistono, sono già del luogo, hanno competenza specifica in materia di ordinamento giudiziario. C'è una marea di circolari, delibere, risoluzioni del CSM, di cui è difficile impadronirsi senza il sostegno di chi è già del posto ed è esperto. Ma sono le correnti dell’Anm a scegliere chi mandare all'ufficio studi o alla segreteria, con una rigida lottizzazione. Per gli incarichi direttivi c’è una competizione per i posti; e gli accordi sono occasionali, ora con una corrente ora con un'altra. Non c’è una spartizione lottizzatoria, tranne quando si debbono assegnare tanti posti insieme, come avviene ad esempio per la Cassazione. Per i magistrati segretari c’è invece una proporzione rigorosa tra il peso elettorale di ciascun gruppo e il numero di magistrati segretari e di componenti dell’ufficio studi. Nel 1990 era stata approvata una legge che escludeva i magistrati dalla segreteria e dall’ufficio studi, prevedendo l’affidamento di questi ruoli a funzionari assunti per concorso. Con una delibera di legittimità almeno dubbia si è detto che questa legge è stata implicitamente abrogata. Sarebbe comunque necessario che questi posti fossero sottratti alla lottizzazione, che esclude chi non ha una tessera, esclude chi non ha appartenenza. Ma non si è voluto nemmeno che i magistrati vengano scelti per concorso: si è preteso che siano scelti col bilancino delle correnti, perché ciascuna corrente deve avere un numero di magistrati segretari e di componenti dell’ufficio studi proporzionale al suo peso elettorale. Il fondo della questione è tuttavia nell’involuzione dell’ANM. Negli anni ‘60 e ‘70 la Magistratura ha rappresentato in questo Paese una forza di emancipazione, contribuendo, ad esempio, all’attuazione della Costituzione e alla diffusione di una sensibilità ecologica. Questa funzione propulsiva è stata conservata certo dai giudici; ma è ormai del tutto estranea all’impegno delle correnti dell’ANM. Le correnti si distinguono solo come apparati, come apparati che cercano di giustificare la propria esistenza. Non c’è più differenza progettuale. Tant’è che per quasi tutte le questioni di fondo, tutte le correnti finiscono per convergere su un’impostazione sindacale. In una situazione disastrosa, qual è quella del sistema giudiziario italiano, si è arrivati a proporre l’allungamento dei termini di deposito delle sentenze civili monocratiche. La crisi della giustizia è certamente una crisi da eccesso di input: c’è un eccesso di domanda. E questo eccesso di input è responsabilità della politica, una politica abnormemente interventista. Sul codice di procedura penale siamo ad oltre centodieci leggi di modifica. Non c’è stabilità dei criteri di giudizio. Tuttavia se non c’è un’assunzione di responsabilità da parte della magistratura, per favorire una efficiente organizzazione degli uffici e una ragionevole prevedibilità delle proprie decisioni; se i magistrati non si riappropriano del proprio ruolo progettuale, nelle scelte anche politiche relative all’organizzazione del proprio lavoro, risulterà inutile qualsiasi riforma. Purtroppo il CSM, cui queste scelte organizzative sono in misura notevole affidate, manca di capacità progettuale. In consiglio c’è solo un sindacato che pensa prevalentemente agli interessi dei lavoratori, molto poco a quelli dell’istituzione". 

Interpellata dal Dubbio, il 2 agosto 2016, la portavoce del Comitato Altra Proposta, il giudice presso il Tribunale di Pisa Milena Balsamo, fa subito una premessa: «Noi vogliamo ricondurre le correnti, patrimonio storico-culturale dell’Anm, al loro originario ruolo: quello di essere centri di elaborazione culturale indispensabili alla democratica affermazione dell’indipendenza interna e dell’autonomia che rappresentano le prerogative fondamentali della magistratura». E per tale ragione, aggiunge la giudice Balsamo, «siamo per il sorteggio come sistema di selezione dei candidati al Csm».

Le correnti sono il problema principale della magistratura?

«Per capire a che punto siamo arrivati, suggerisco la lettura del libro scritto dall’ex togato Aniello Nappi Quattro anni a Palazzo dei Marescialli. Idee eretiche sul Consiglio Superiore della Magistratura, dove sono descritti il sistematico abuso d’ufficio, la violazione delle regole e i favoritismi per gli amici».

Lei ritiene che la magistratura abbia perso di credibilità a causa della cosiddetta deriva correntizia?

«Si, e questo perché le correnti si sono trasformate in centri di potere che condizionano, secondo strettissime logiche di appartenenza, ogni scelta di autogoverno della magistratura, a cominciare dalla selezione dei magistrati dirigenti».

Riccardo Magherini, un’altra "sentenzina" per omicidio colposo, scrive Susanna Marietti, coordinatrice associazione Antigone, il 13 luglio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Un altro omicidio colposo. Di nuovo c’è stata negligenza, imprudenza o imperizia in quelle manette messe dietro la schiena e quella faccia buttata sul terreno per circa mezz’ora in una posizione che impediva a Riccardo Magherini di respirare. “Aiuto, aiuto, sto morendo”, sono state le ultime parole pronunciate da Riccardo in quella notte tra il 2 e il 3 marzo 2014 a Firenze, registrate dal cellulare di un uomo affacciato a una finestra lì vicino. Arriva ora la sentenza di primo grado nella quale tre carabinieri vengono condannati per omicidio colposo, uno di loro a otto mesi di carcere e gli altri due a sette. Per il primo era stato chiesto ben un mese di più. Sapete perché? Perché mentre Magherini era a terra ammanettato e soffocante lui lo ha preso a calci. Ma il giudice non ha voluto procedere per l’accusa di percosse. Un altro omicidio colposo, come quello di Federico Aldrovandi, pericolosissimo ragazzino di diciotto anni, persino un po’ mingherlino, che tornava dalla discoteca a Ferrara una notte del settembre 2005 ed è stato picchiato a morte da quattro poliziotti. Lui urlava “basta, aiutatemi, sto morendo” e loro lo prendevano a manganellate e a calci. Cosa c’è di colposo nella condotta tenuta dai poliziotti? Lo stesso pubblico ministero affermò al processo: “Chiedeva aiuto, diceva basta, rantolava, e i quattro imputati non potevano non accorgersi che stava morendo, eppure non lo aiutarono ma lo picchiarono”. Un evidente omicidio preterintenzionale, punito con il carcere dai dieci ai diciotto anni, per come viene descritto in queste parole. Eppure è lo stesso pm a chiedere una condanna a tre anni e otto mesi, con il crimine derubricato a omicidio colposo (scusate, non l’ho fatto apposta…). E all’indomani della sentenza dicevamo tutti che finalmente Federico aveva avuto giustizia, che ora si sapeva chi erano i suoi assassini. Il papà di Federico affermava: “Sono fiero che in Italia ancora esistano magistrati così”. Oggi accade lo stesso per il processo relativo alla morte di Riccardo Magherini. Il fratello è contento della “sentenzina”, sa che di più non può aspettarsi per rendere giustizia a Riccardo. Tutti noi lo sappiamo. Diamo per scontato che quando di mezzo ci sono le forze dell’ordine la scelta sia tra impunità completa o “sentenzine” esemplari. Ci hanno abituato che in Italia è così. Eppure i crimini compiuti da funzionari dello Stato sono tra i più odiosi che si possano immaginare. Quei poliziotti e quei carabinieri erano lì a nome di tutti noi. Il loro non è un crimine privato.

Toghe innominabili, scrive Filippo Facci il 12 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. Piercamillo Davigo non è più lui. Da presidente dell'Anm è stato investito da così tante bufere che ogni sua uscita pubblica ora suona imbarocchita da distinguo e premesse: sabato ha parlato a un convegno dei Cattolici democratici (sarà questo: era pieno di democristiani) e ogni volta premetteva che «non penso che tutti i politici rubano, rubano in molti... Non credo siano tutti mascalzoni, ma...». Ce l'hanno rovinato. Fortuna che non manca di che obiettargli. Ha parlato di «politici che non si vergognano più» e verrebbe da chiedergli quando mai si siano vergognati i magistrati colti in castagna: anche perché fare i loro nomi è proibito. Già. Dovete sapere che la sezione disciplinare del Csm ogni anno sanziona blandamente con ammonimenti, censure e perdite di anzianità una serie di magistrati che, per esempio, non hanno pagato il conto al ristorante, hanno dimenticato innocenti in carcere, hanno perso fascicoli e anni di lavoro altrui, o semplicemente non lavorano, o sono mezzi pazzi (uno l'hanno visto chiedere l'elemosina per strada, un altro ha spalmato l'ufficio di nutella, un altro ha urlato «ti spacco il culo» a un avvocato) e però i loro nomi non sono divulgabili. Il Csm ha invocato la legge sulla privacy e la protezione dei dati personali, come d'obbligo solo per i minori e le vittime di violenze sessuali: eppure parliamo di gente che giudica della vita altrui. Ecco, dottor Davigo: secondo lei è giusto?

Subisci e taci ti intima il sistema gognatico medio-giudiziario.

Un buon libro ricorda le perversioni italiane del sistema “gognatico” giudiziario, scrive Giulia De Matteo il 4 Agosto 2011 su "Il Foglio". La perp walk italiana comincia con un avviso di garanzia e interminabili chilometri di carta in cui ci si sbizzarrisce a interpretare ogni parola strappata alle intercettazioni, in cui si costruiscono teoremi fatti di parole d’ordine (“cricca”, “la rete di relazioni”, “appaltopoli”, “l’affare”) da cui si ricavano accuse vaghe ma efficaci a relegare l’indagato nell’angolo dei cattivi. Il cammino è destinato a concludersi nella dimenticanza generale, a luci spente, tra l’indifferenza dei quotidiani e delle televisioni, animatori inferociti alla partenza. Maurizio Tortorella ha raccolto le storie più eclatanti di questa dinamica nel libro “La Gogna” (Boroli Editori), in cui smonta fase per fase la catena di montaggio della diffamazione che prelude i processi ai personaggi pubblici, attraverso un’analisi a freddo delle storie su cui ormai si sono spenti i bollori mediatici e si è fatta strada la verità processuale. C’è per esempio la vicenda di Guido Bertolaso, ex capo della Protezione civile, raggiunto dall’accusa di corruzione negli appalti sui lavori straordinari per il G8 sull’isola della Maddalena (poi spostato a L’Aquila) il 10 febbraio 2010. Tortorella racconta i giorni seguenti l’apertura delle indagini attraverso i titoli dei giornali e le ricostruzioni della vicenda. Così tra le intercettazioni pubblicate sui giornali quella in cui Bertolaso racconta il piacere suscitato da un certo massaggio fattogli da una tal Francesca diventa l’indizio che alimenta il sospetto del coinvolgimento di Bertolaso in un giro di escort usate a mo’ di tangente nel giro di favori fra i potenti dei grandi appalti. Quando si scopre che Francesca è una fisioterapista professionista di quarantadue anni è troppo tardi. Soprattutto non interessa più: gli untori degli scandali hanno già impresso il loro sigillo (quello che conta per l’opinione pubblica). Il 5 aprile 2010 si è aperto il procedimento che tratta degli abusi edilizi e da allora non una riga è stata più scritta. Difficile dire quando questo selvaggio rito giudiziario sia iniziato in Italia, sicuramente la sua massima celebrazione è stata Tangentopoli: l’età della presunzione di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. Dalla caduta della Prima Repubblica, è sorta la Seconda e i nuovi decisori, scampati al tritacarne giustizialista, hanno riscritto l’articolo 111 della Costituzione, ispirandosi ai principi di tutela dell’indagato e dell’imputato delle carte europee, adeguato il codice penale ai principi del giusto processo e adottato il modello accusatorio. Ma poco di questa mano di vernice garantista è riuscita a incidere sulla mentalità comune. Soprattutto non ha impregnato il sistema mediatico che ha continuato a riversare, con il sostegno dei gestori dei processi, il solito appannaggio culturale collaudato durante Mani pulite. L’apertura di un’indagine, a cui segue in automatico la carcerazione preventiva, giustificata da un uso pervertito dell’articolo 56 del codice di procedure penale, è il vero fulcro della vicenda processuale. I dati citati da Tortorella parlano di 37.591 condannati definitivi su un totale di 67.000 detenuti in carcere: 43 detenuti su 100 sono in cella senza che sia stata ancora pronunciata una sentenza di condanna definitiva. E’ questa fase che dà il via a fiumi di inchiostro, ad approfondimenti televisivi in cui si alimenta lo scandalo con gli indizi raccolti nella indagini. La ricerca della verità è secondaria rispetto alla foga di emettere un verdetto di popolo. Tutto questo dura fino al rinvio a giudizio. Poi i riflettori si spengono e la farraginosa, lenta e poco accessibile ai non addetti ai lavori macchina processuale comincia. “La Gogna” come un occhio di bue ha seguito alcuni figuranti del circuito mediatico-giudiziario prima e dopo il rinvio a giudizio, ricostruendo le vicende giudiziarie di Alfredo Romeo, Ottaviano Del Turco, Calogero Mannino, Silvio Scaglia, Antonio Saladino (al centro dell’operazione “Why Not”). Leggete le loro storie e capirete meglio in che senso Tortorella usa la parola gogna.

Ed eccola l'orda dei gognatori. Il tipico esempio di disinformazione.

Mafia capitale, la minaccia in aula contro il cronista. L'avvocato difensore di Massimo Carminati, Bruno Naso, aggredisce in aula con frasi ingiuriose e pesanti insinuazioni il giornalista dell'Espresso Lirio Abbate, da anni sotto scorta per le minacce subite dopo aver rivelato gli affari di mafia e crimine a Roma, scrive Attilio Bolzoni il 30 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Puntare il dito contro un giornalista - sempre lo stesso - è come indicare un bersaglio, prendere la mira. Ma c'è un avvocato, qui a Roma, che forse non ha capito che Lirio Abbate non è solo. Una Mafia Capitale sotto processo si agita e si dimena nelle gabbie cercando disperatamente alibi e vie di fuga, i suoi difensori intanto sono a caccia di capri espiatori e di cronisti "colpevoli " per avere raccontato un potere criminale tollerato per troppo tempo. Chi parla (o chi scrive) sta diventando giorno dopo giorno e udienza dopo udienza obiettivo di insinuazioni e di attacchi spericolati, sta diventando un'ossessione che non annuncia niente di buono ma che al contrario comincia a preoccupare tutti noi giornalisti. Potremmo chiamarlo il "caso Abbate", ci sembra però più opportuno presentarlo come il "caso Naso". L'avvocato Bruno Naso, difensore del nero Massimo Carminati e di alcuni imputati del dibattimento contro i boss Fasciani, il penalista che all'apertura del processo su Mafia Capitale l'ha battezzato "un processetto". È da settimane, da mesi, che questo legale non perde occasione in pubblico dibattimento di aggredire - con frasi ingiuriose e pesanti allusioni - il giornalista dell'Espresso Lirio Abbate, il primo che nel dicembre del 2012 ha svelato i misteri e le contiguità della mafia della capitale italiana citando i "quattro re di Roma ", Massimo Carminati, Michele Senese, Carmine Fasciani, Giuseppe Casamonica. L'ultima imboscata dell'avvocato Naso contro Abbate è di ieri mattina, in un'aula di Piazzale Clodio di Roma, al processo d'appello contro i Fasciani, padrini e padroni di Ostia, malacarne di incerta nobiltà mafiosa ma con entrature nel crimine che conta e nelle amministrazioni locali. L'avvocato Naso nella sua arringa finale prima si augura che i giudici "emetteranno una sentenza politicamente scorretta", poi parla della "regia inequivoca" del procuratore Pignatone "che è venuto a Roma pensando che Roma fosse una grande Reggio Calabria ", poi ancora riserva le sue azioni offensive - davanti agli imputati, particolare non insignificante - a "De-lirio" Abbate, il giornalista che prima ancora che i mafiosi di Roma fossero catturati aveva descritto come si muovevano da Sacrofano al Campidoglio, dalle miserabili periferie fino alle stanze della spartizione degli appalti. L'avvocato Naso si chiede perché "non hanno dato a De-Lirio il premio Pulitzer", fa credere che non sia un giornalista ma che agisca praticamente in combutta con investigatori e magistrati: "Abbate, che è casualmente di Palermo, che casualmente ha lavorato a Palermo quando c'era Pignatone, che casualmente frequenta ambienti frequentati da Pignatone…il cerchio si chiude". Su un altro palcoscenico, quello di Mafia Capitale a Rebibbia, il 4 gennaio scorso, lo stesso Naso aveva più volte citato "De-Lirio" (interrotto dal pm Cascini e tra le risatine di alcuni suoi colleghi) giustificando i suoi insulti al giornalista "perché se li meritava". E non era neanche quella, la prima volta che gli dedicava la sua attenzione. L'avvocato Naso ha naturalmente il diritto di difendere i suoi clienti - Carminati, gli amici dei Fasciani, gli ex Nar che ha sempre assistito - con ogni mezzo che la legge gli consente. Quello che non può fare - e non solo in un'aula di giustizia ma anche fuori - è additare un giornalista come "organizzatore" di un complotto, come protagonista di una trama ordita insieme a carabinieri e a pubblici ministeri, come un supporter operativo della procura della Repubblica. Abbate ha fatto semplicemente quello che sa fare: il giornalista. Trasformarlo in altro, come sta provando l'avvocato Naso fin da prima del dibattimento di Mafia Capitale - è estremamente pericoloso. Lirio Abbate vive sotto scorta dal 2007, negli ultimi anni il livello di protezione intorno a lui si è elevato, nel dicembre del 2013 è stato anche oggetto di una scorribanda (un'auto che ha speronato quella della polizia dove era a bordo) mai chiarita, intercettazioni ambientali e telefoniche ci svelano che Carminati ha più volte manifestato la volontà di fargliela pagare. L'avvocato Naso tenga debitamente in conto tutto questo. Ogni sua parola può venire facilmente fraintesa. Anche da chi sta dentro le gabbie.

Ed ecco, invece, l'altra verità.

"Pignatone vive nel far west di Reggio". L'avvocato Naso accusa: "Regia politico giudiziaria". "Avvocati pedinati e intercettati, violato il principio di legalità e indagini fatte con lo stampino per cercare reati e non ipotesi". Al processo al clan Fasciani l'avvocato Naso difensore anche di Carminati si scaglia contro il Procuratore di Roma e dice ai giudici..., scrive Venerdì, 29 gennaio 2016, Valentina Renzopaoli su “Affari Italiani”. Pignatone “giudice del far west”, abituato a utilizzare metodi istruttori che “violano il principio di legalità”, capace di tessere una regia di “politica giudiziaria” che travalica i confini del Tribunale. E' un attacco durissimo e senza precedenti: le parole dell'avvocato Giosuè Bruno Naso impietriscono i giudici della II sezione della Corte d'Appello del Tribunale di Roma, dove si sta svolgendo il processo di secondo grado per Carmine Fasciani e altri diciassette imputati. Nell'arringa finale, per la difesa del suo cliente Riccardo Sibio, considerato dall'ipotesi accusatoria come uno degli organizzatori dell'associazione a delinquere di stampo mafioso, Naso si lancia in uno scontro frontale. “Questo processo fa parte di una certa operazione di politica giudiziaria, spiegata da una ragione inequivocabile, che porta il nome del nuovo procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone, che è venuto a Roma pensando che Roma fosse una grande Reggio Calabria per applicare metodi investigativi e processuali da far west”, ha tuonato l'avvocato nell'incipit del suo discorso. Parole di fuoco che, senza lasciare molto spazio alla fantasia, demoliscono l'azione del super procuratore, “padre” di Mafia Capitale, raccontando di “processi fatti con lo stampino” e basati su una massa di intercettazioni “sparate” in ogni direzione, “non per ricercare la prova di un reato ipotizzato ma per ricercare il reato”. “Il meccanismo istruttorio è sempre lo stesso, mediante intercettazioni a catena: si individua un soggetto che può incarnare sospetti, gli si viviseziona l'esistenza e si comincia a intercettare “a strascico” tutti quelli che gli girano intorno, alla ricerca di un reato ad ogni costo” ha spiegato. “La contestazione avviene sotto il profilo della contestazione di stampo mafioso, scattano le misure di natura patrimoniale per neutralizzare le possibilità di difesa e non ci si ferma nemmeno di fronte all'attività defensionale”. A questo punto, si è voltato verso i colleghi avvocati: “Guardate che ciascuno di voi è sottoposto ad un controllo massiccio e invasivo, attraverso i vostri telefoni personali e di studio”. E urlando: “Mia figlia, avvocato di Carminati, è stata pedinata dalle 8 del mattino alle 19 di sera, un pedinamento che non poteva che nascere da un'intercettazione. Questo procuratore pensa che il crimine si debba combattere come nel far west”. Con una conclusione degna dell'intera arringa, alla Corte esterrefatta il legale esclama: “Qui si vedrà se avete la cultura della giurisdizione in forza della quale il crimine non si combatte con metodi criminali, o se pensate che siamo tornati nel “far west” per fare giustizia ad ogni costo. Il vero tema è: ve la sentite di fare una sentenza politicamente scorretta?”. Il messaggio finale è ancora per Pignatone: “Chi sta coltivando ambizioni non può servirsi della vostra libertà di coscienza. Questo è un momento difficile e abbiamo bisogno che il principio di legalità siano salvaguardato”.

L'Ordine degli avvocati di Roma pronto a studiare il caso Naso - Abbate - Pignatone, scrive Roberto Galullo l'1 febbraio 2016 Fino a questa mattina il telefono dell'avvocato Mauro Vaglio, presidente dell'Ordine degli avvocati di Roma non aveva squillato. Nessuno, tra i suoi colleghi, in questi ultimi giorni, aveva sollevato la necessità di prendere posizione su quanto accaduto in un aula di Tribunale di Roma la scorsa settimana. Nel corso di un'udienza del processo di appello contro i Fasciani di Ostia, l'avvocato Giosuè Naso, difensore di Massimo Carminati, si era scagliato contro Lirio Abbate, inviato dell'Espresso (definendolo “de-lirio” Abbate e rivendicando l'uso legittimo dell'ironia nella sua requisitoria), che per primo descrisse la cupola criminale che ruotava intorno al “cecato” e alla sua banda di allegri compari. Sorte analoga aveva avuto il capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone, descritto come sodale di Abbate. Non vale quasi la pena ricordare che Abbate vive blindato da nove anni per le continue minacce di morte. Vaglio, però, nel fine settimana ha studiato la situazione ed è stato pronto a rispondere con la massima trasparenza all'unica chiamata giunta: quella del Sole 24 Ore.

Presidente Vaglio, l'Ordine degli avvocati di Roma viene chiamato in causa su quanto accaduto. Prego, esprima il suo giudizio.

«Tecnicamente la situazione è questa: l'Ordine è ente pubblico non economico, e dunque è fuori luogo la forzatura di chi cerca di suggerirci un comportamento pubblico da sbandierare ai giornali».

Nulla quaestio, come direste voi legali, sulla natura giuridica dell'Ordine ma insistiamo: i termini per un vostro intervento ci sono o non ci sono?

«Effettivamente c'è stato un riferimento al giornalista oltre che al procuratore e a questo punto il consiglio dell'ordine ha due possibilità: ritenere che questa notizia possa avere risvolti disciplinari oppure ritenere che non ci siano. La valutazione non è discrezionale, di solito il consiglio dell'ordine dovrebbe trasmettere la richiesta al consiglio di disciplina».

Bene. E a chi spetta fare il primo passo?

«Posso farlo anche io come presidente dell'ordine, sentiti gli altri consiglieri. E' l'ufficio nella sua coralità, comunque, che svolge questa funzione. Normalmente c'è la comunicazione al consiglio di disciplina e contemporaneamente si dà un termine di 20 giorni all'avvocato investito della questione, per le sue deduzioni».

Ritentiamo la domanda: l'Ordine di Roma si attiverà o no?

«Abbiamo un ufficio apposito che ogni giorno analizza i giornali e quanto accade nelle aule dei Tribunali in tutta Italia. E' molto probabile che il consiglio di disciplina analizzi il caso».

Lei si sarebbe mai comportato come il suo collega Naso?

«Non può pormi questa domanda. Veramente sì. Sarebbe come chiedere a un giudice di esprimere un concetto sul processo che si sta svolgendo».

Ma lei non deve intervenire su un processo in corso.

«Non posso rispondere. Non mi sembra corretto criticare pubblicamente un collega prima di aver analizzato gli atti e le eventuali controdeduzioni».

Aggiriamo l'ostacolo: si è mai trovato nella sua professione o nella sua vita associativa di fronte ad atteggiamenti simili?

«Capita molto spesso di avere questo tipo di atteggiamento in ambito civile, con termini forti nei confronti del collega o dell'avvocato controparte».

E cosa succede in quei casi?

«La procedura descritta sopra. Ricordo che le sanzioni partono da un avvertimento, che è la sanzione minima, una sorta di rimprovero e arrivano fino alla sospensione o alla radiazione. Se ci dovesse essere un'azione penale da parte del giornalista o del magistrato anche l'eventuale condanna costituisce un'azione disciplinare».

Solidarietà dell’AIGA all’Avv. Giosuè Bruno Naso espressa l’8 febbraio 2016. L’Associazione Italiana Giovani Avvocati esprime piena e incondizionata solidarietà all’Avvocato Giosuè Bruno Naso, fatto oggetto di pesanti attacchi mediatici per aver, nel corso di un’arringa difensiva, stigmatizzato il contenuto di alcune inchieste giornalistiche del dott. Lirio Abbate e contestato la sistematica violazione della segretezza delle indagini preliminari. La libertà di stampa, presidio di garanzia di uno Stato democratico, non sarà mai messa in discussione dall’avvocatura, che storicamente ha vigilato per il rispetto dell’art. 21 della nostra Costituzione. È amaro constatare che, viceversa, un valore di rango straordinariamente più elevato, quello della libertà personale e conseguentemente il diritto di difesa, sia oggi messo in discussione, in modo così becero e violento, da quello stesso mondo che vive in funzione della libertà di manifestazione del pensiero. Proprio per tutelare al massimo la sacralità del diritto di difesa, la Costituzione e il codice di procedura penale pongono quale unico limite quello della continenza verbale, che è stato considerato rispettato dall’unico soggetto legittimato a contestarlo (il giudice procedente). Senza entrare nel merito dei fatti affermati dal Collega, della cui fondatezza non spetta ad altri che al Tribunale compiere valutazioni, l’arringa “incriminata”, lungi dal costituire, come pure gratuitamente lasciato intendere, una sorta di “minaccia” al giornalista da parte di un “portavoce” di un presunto criminale, rappresenta, viceversa, un luminoso esempio di richiamo ai valori della Giurisdizione, della presunzione di innocenza, del rispetto delle regole processuali, soprattutto da parte di chi rappresenta lo Stato ed esercita la pretesa punitiva, e della libertà dell’avvocato nella difesa dei propri assistiti. Senza scomodare l’esempio dell’Avvocato Otto Stahmer, protagonista al processo di Norimberga della difesa di imputati poi riconosciuti responsabili di crimini contro l’umanità, la Giovane Avvocatura tiene a sottolineare come la difesa degli imputati, quanto più impopolare (e quindi difficile), tanto più è nobile. L’AIGA auspica che tutte le Istituzioni Forensi prendano immediatamente una rigida posizione a tutela dell’Avvocato Giosuè Bruno Naso e, tramite esso, di tutta l’Avvocatura.

La Camera Penale di Trapani ha deciso di far sentire su questo caso la propria voce, anche se in fin dei conti le vicende romane sono lontane da questa città. In sostanza la Camera Penale di Trapani, con un documento mandato al ministro della Giustizia Orlando, per sottolineare il rango di diritto inviolabile che la Costituzione riconosce alla difesa, prendendosela a male con i giornalisti che hanno stigmatizzato il comportamento dell’avvocato Naso, ha deliberato che ad apertura di tutte le udienze penali che si svolgeranno dal 22 al 26 febbraio 2016, gli avvocati chiederanno che si metta a verbale la seguente dichiarazione: “l’avvocato difende la libertà con la libertà di difendere”.

A Naso è tutto un De-Lirio, scrive “Il Fango Quotidiano” il 31 gennaio 2016. A noi, piace fare la voce fuori dal coro, non in modo pretestuoso, ma per cercare di offrire una visione, un punto di vista meno fazioso e schierato con la massa. Non prendiamo parti, non siamo amici di nessuno e si può dire non (su)sopportiamo nessuno: dai politici ai criminali, fino ai giornalisti e agli sbirri (non usiamo il termine in senso dispregiativo ma storico). Il caso, tutto giornalistico, che tiene banco in questi giorni è quello della battuta fatta dall’avvocato Giosuè Naso difensore di Massimo Carminati nel processo che vede quest’ultimo come imputato e accusato di essere il capo della cosiddetta “mafia capitale”. In particolare 2 sono le affermazioni che hanno indignato la stampa italiana: lo storpiamente del nome del Giornalista Lirio Abbate in De-Lirio Abbate e quella in cui l’avvocato parla di un complotto tutto politico che vedrebbe Lirio Abbate come collaboratore e referente della procura, in particolare con il procuratore Giuseppe Pignatone. Sono stupidaggini? Sicuramente, ma rientrano nelle facoltà, e nelle possibilità lecite che ogni avvocato ha il diritto di utilizzare. Come previsto dalla legge anche i serial killer o appunto i capimafia hanno diritto a una difesa e naturalmente un avvocato non si può limitare a dire “il mio cliente è innocente” o “sono tutte falsità” deve riuscire a trovare il modo di replicare e smontare e dimostrare l’infondatezza delle accuse. Inoltre Volendo essere precisi un avvocato difensore non deve trovare le prove. Quelle le deve trovare chi accusa perchè secondo la legge si è innocenti fino a prova contraria e non viceversa.  Non avendo strumenti efficaci è quindi comprensibile che l’avvocato cerchi di delegittimare coloro che hanno avviato l’inchiesta e coloro che l’hanno ispirata/anticipata (in questo caso il giornalista Lirio Abbate). Il giornalista Peter Gomez Lancia il suo editto via twitter (i giornalisti possono devono usarlo, solo i politici ci fanno brutta figura…) "Gli avvocati italiani tolgano il saluto all'avvocato Naso. Sanzionare socialmente le sue parole contro Lirio Abbate". 22:23 - 30 Gen 2016. Anche il suo collega Marco Lillo segue a ruota. "Non basta abbracciare il mio amico @LirioAbbate. Tutti quelli che incontrano l'avv Naso in tribunale gli tolgano il saluto. O di qua o di là". 21:56 - 30 Gen 2016. Eh qui non capiamo. Naso è il difensore di Carminati per forza di cose sta di là… Forse Lillo e Gomez pensano che il dovere di un avvocato con la schiena dritta sia di non difendere i criminali e quelli d’ufficio dovrebbero fare solo finta di difendere il loro assistito. Per carità, sono punti di vista. Roberto Saviano che non perde certo occasione scrive (sempre su twitter) "Solidarietà a Giuseppe Pignatone e @LirioAbbate per le violente parole dell'avvocato del boss Carminati contro di loro". 21:01 - 30 Gen 2016. Ora, premesse le ovvietà sulla solidarietà, sul giornalismo, sulla mafia che è una montagna di merda e bla bla (no perchè se no Lillo pensa che stiamo di là). Noi vorremmo provare a fare alcune riflessioni (sempre che ciò ci sia concesso). Prima che montasse la vicenda soprannominata “mafia capitale” nessun magistrato, processo o condanna aveva mai sancito o ipotizzato che la criminalità romana fosse ascrivibile alla mafia (una leggera svista…). L’oggi super boss Carminati, prima di sentire le intercettazioni di Buzzi che diceva che con gli Immigrati si facevano più soldi che con la droga e che si imbastisse l’inchiesta girava tranquillamente per la città e non aveva alcuna pendenza o reati da scontare. Era un uomo libero e nessuno ne parlava (a parte Lirio Abbate). Durante il “sindacato” targato Alemanno nessuno mai si era sognato di parlare di cooperative, di minacce, pollici spezzati, mazzette ecc. Poi quando bisognava fare fuori Marino che aveva “brutte intenzioni” ecco che hanno scoperchiato il vaso di pandora. Massimo Carminati il 7 dicembre parla con una persona (non si sa chi sia…) con tono “furioso”: “FINCHÉ MI DICONO CHE SONO IL RE DI ROMA MI STA PURE BENE, COME L’IMPERATORE ADRIANO.  PERÒ SUGLI STUPEFACENTI NON TRANSIGO, LUNEDÌ VOGLIO ANDARE A PARLARE COL PROCURATORE CAPO E DIRGLI: SE SONO IL CAPO DEGLI STUPEFACENTI A ROMA MI DEVI ARRESTARE IMMEDIATAMENTE. NON SO CHI C… È QUESTO ABBATE, QUESTO INFAME PEZZO DI M… FINCHÉ MI ACCUSANO DI OMICIDI … MA LA DROGA NO… COME TROVO IL GIORNALISTA GLI FRATTURO LA FACCIA… TANTO SARÀ SCORTATO, COSÌ GLI AUMENTANO PURE LA SCORTA”. Carminati si incazza dopo aver letto l’articolo di Lirio Abbate su L’Espresso. Ora, bisogna comprendere che Carminati è uno di quei criminali che tengono alla loro reputazione, che ha un sistema di valori e principi tutto suo. Ma quello che però lo rende credibile è che difficilmente un criminale farebbe di tutto per smentire solo l’accusa meno grave nei suoi confronti. Carminati non sa di essere intercettato e non ha motivo di mentire. A lui non frega nulla delle accuse di omicidio, di mafia o dell’appellativo “Re di Roma” (quelle lo lusingano) a lui dà fastidio la più insignificante, lo spaccio di droga. L’articolo di Lirio Abbate, con tutto il rispetto per la causa, l’impegno e le conseguenze che il giornalista ha subito e sta ancora affrontando, non ci sembra un gran lavoro. Se dobbiamo essere sinceri è scritto davvero maluccio. Un giornalista quando fa della accuse dovrebbe in un certo senso dimostrarle, fornire fonti (non rivelarne l’identità ovviamente) fornire argomentazioni, testimonianze. Abbate fa solo una lunga lista di quelle che a noi sembrano più che altro sue convinzioni riportate con lo stile del romanziere. Ci sarebbero dovute essere delle “prove” (non di livello processuale naturalmente) ma almeno argomentazioni in grado di supportare le tesi espresse. Se provassimo a metterci nei panni di uno dei mafiosi di qui parla l’articolo non ci saremmo preoccupati più di tanto perchè non c’è nulla nell’articolo che possa costituire un reale problema: non ci sono date, fatti, non si smaschera nulla. Si dice solo, quello controlla la zona ovest, quell’altro la est, spacciano droga (ma non dove e come). Insomma nulla che un avvocato appena laureato non possa risolvere (stiamo ragionando dal punto di vista criminale ovviamente). Il giornalismo d’inchiesta per noi è un’altra cosa. Anche la magistratura e ci fa un po’ sorridere perchè, come detto nessuno aveva mai parlato di mafia, ma dopo che il giornali e i media hanno sdoganato il termine ecco che tutti si sono precipitati nei soliti “io l’avevo detto”, “eh, era evidente” ecc. Inoltre quando oramai tutti parlavano di mafia ecco che arriva la relazione del prefetto Gabrielli che invece dice che non si tratta di mafia. Ma insomma, è mafia o non è mafia? mmm e chi lo sa… Quello che è certo è che in tutta questa storia non ci sono morti ( e meno a male ), non si zittiscono persone, non ci sono faide per la conquista di posizioni vacanti tutte cose tipiche di un contesto mafioso,  e non è vero come scrive Abbate che è perchè la mafia è cambiata, basta vedere quello che accada Napoli in questi giorni…Oggi, come detto, sono tutti lì a indignarsi e a schifarsi delle parole dello squallido avvocato Naso a cui va tolto il saluto (se che se ne importa Naso, con quello che prende…) però ad essere sinceri a noi sono anche altre le cose che ci fanno schifo. Forse siamo folli, ma a noi fa schifo:

Che gli agenti dei servizi o altro corpo dello stato, come emerso dalle intercettazioni, avvertivano e tenevano costantemente informato Carminati, non risparmiando encomi, elogi e ammirazione.

Che era impossibile che finanza e carabinieri non sapessero o non vedessero cose che per la loro evidenza (questi facevano tutto alla luce del sole, nei bar, per strada, parlavano al cell) era davvero difficile non vedere.

Che dopo l’esplosione del caso sono partiti i consueti depistaggi (furti misteriosi e inquinamenti vari).

Che politici di ogni schieramento sapevano ma nessuno di loro parlava.

Che tanto alla fine pagheranno i capri espiatori (che se lo meritano, sia chiaro) da dare in pasto all’opinione pubblica, ma forze dell’ordine colluse, servizi deviati e politici la faranno franca come avviene sempre.

Che come evocato dall’avvocato Naso ci sono cose che a confronto mafia capitale sembra una fiaba per bambini. Come quella della brutta storia del generale Ganzer e del suo gruppo di gruppo di ufficiali e sottufficiali dei Carabinieri del ROS (ci sono omicidi, spaccio di droga ‘ndrangheta e chi più ne ha ne metta) che ha è finita a tarallucci e vino con una bella prescrizione (noi del fango ne parleremo a breve in un articolo dedicato al caso).

Che giornalisti o sedicenti tali partecipano a fabbricazioni di false intercettazioni (vedi caso Crocetta/Tutino) o manipolano le trascrizioni. Per non parlare di quando vengono in possesso illecitamente e dietro compenso o altra utilità di informazioni, documenti fascicoli segretati che una volta resi pubblici, non solo rischiano di vanificare anni di lavoro di delicate indagini, ma anche di far organizzare e allertare indagati e sospetti ringraziando si prodigano per eliminare possibili tracce e prove.

Potremmo andare avanti a lungo.  Ma ci sta venendo da vomitare. L’avvocato Naso è stato offensivo ma il giornalista/conduttore Massimo Giannini che ha parlato di rapporti incestuosi fra il ministro Maria Elena Boschi e il padre no, lui lo difendiamo, perchè “è uno di noi” bisogna tutelare la categoria… E poi si sa che la Boschi, Boldrini, e le renzioidi possono/devono essere offese screditate e delegittimate. La Boldrini era la stronza sotto scorta, Abbate l’eroe della carta stampa minacciato dal perfido cecato. Il mondo va così due pesi e due misure, anzi a Naso si potrebbe dire che è tutto un De-lirio.

Criminale con diritto alla difesa. Non ha mai negato rapine e eversione nera e banditismo. Ma Carminati odia droga e mafia. Al Cecato è negata una tutela giudiziaria decente. Icona mediatica, non sta al gioco. Le ragioni del 416 bis secondo i legali, scrive Annalisa Chirico il 30 Dicembre 2014 su “Il Foglio”. Anche i criminali hanno diritto alla difesa. Quella che leggete è una difesa di Massimo Carminati. Il giornalista collettivo, per definizione, è megafono della requisitoria e censore dell’arringa. Qui si contraddice la pubblica accusa. Non è lesa maestà ma tributo alla giurisdizione. Ci hanno raccontato che Carminati è un fascio cecato, dominus di una romanissima cupola mafiosa, trafficante e pluriomicida. Di sicuro c’è un fatto: “Er Cecato” è cecato veramente. Orbo di un occhio. Nell’epopea mitica del “re di Roma” propalata dalla grancassa massmediatica, l’occhio lo avrebbe perso in uno “scontro a fuoco” con la polizia. Prima bufala. L’unica arma che Carminati indossa quel 20 aprile del 1981 è un passaporto falso. Al valico di Gaggiolo, in provincia di Varese, Carminati è a bordo di una Renault 5 con due sodali in fuga dalla retata anti Nar della magistratura romana. Quando l’auto si ferma e i tre tentano di scappare, gli agenti della Digos sparano. Carminati è salvo per un pelo: il bulbo oculare sinistro è spappolato, un frammento del proiettile gli rimane conficcato nella testa. Il giovane, nato 23 anni prima da una famiglia borghese ben insediata nella capitale, maturità classica e qualche esame alla facoltà di Medicina, non è un neofita del crimine. Infiammato dall’ideologia eversiva, estremista, dei Nuclei armati rivoluzionari, nel ’79 insieme a quattro camerati mette a segno la rapina della Chase Manhattan Bank di piazzale Marconi a Roma. Da allora il certificato penale di Carminati s’ingrossa tra rapine, eversione, banda della Magliana, fino all’ultima clamorosa impresa: il furto nel caveau della banca interna del Palazzo di giustizia a Roma. “Massimo ha un’alta considerazione di sé”, sorride sornione l’avvocato Giosué Bruno Naso che lo difende da trent’anni. La reputazione conta. Per questo, quando nel dicembre 2012 l’Espresso pubblica un articolo a firma di Lirio Abbate che svela in anticipo l’inchiesta detta Mafia Capitale e attribuisce al Nero condanne per droga e omicidi, Carminati s’infuria: “Finché mi dicono che sono il re di Roma mi sta pure bene, come l’imperatore Adriano. Però sugli stupefacenti non transigo. Lunedì voglio andare a parlare col procuratore capo e dirgli: se sono il capo degli stupefacenti a Roma mi devi arrestare immediatamente”. Assistito dall’avvocato Ippolita Naso, figlia di Giosué Bruno, cita per danni editore e giornalista. L’articolo di “De-Lirio Abbate”, come lo ribattezza Naso pater, alimenta l’ego di Carminati definito “arbitro di vita e di morte”, “unica autorità in grado di guardare dall’alto quello che accade nella capitale”. Ma poi l’articolista si spinge oltre e lo tira in ballo nel “business della cocaina”. Il che, per il Carminati pensiero, equivale alla peggiore delle infamie. E’ cresciuto nel mito volontaristico che non ammette dipendenze. L’uomo vero è un soggetto nel pieno controllo di sé. La droga è robaccia per il “Mondo di sotto”. Il casellario giudiziario di Carminati conferma la sua impostazione: zero condanne per droga. Quanto al profilo del pluriomicida, in entrambi i processi per l’assassinio del giornalista Carmine Pecorelli (presunto mandante l’ex presidente del Consiglio Giulio Andreotti) Carminati è assolto. Il nome del Nero rimbalza in “Romanzo Criminale”, nonché in diverse inchieste su servizi segreti deviati e depistaggi di stragi. Sconta pure il carcere inseguito da accuse poi falcidiate a colpi di archiviazioni e assoluzioni. “E’ la solita mania tutta italiana di riscrivere la storia del paese in chiave giudiziaria – commenta il legale Naso pater – Massimo non è un frate trappista ma con la mafia non c’entra niente. Hanno tentato di coinvolgerlo nelle trame dei cosiddetti ‘misteri italiani’ privi di alcun esito giudiziario. Se non quello di rinverdire il mito carismatico del Nero”. Una vita tra fiction e realtà. Fino all’ultimo colpo di scena: Mafia Capitale. L’annuncio dell’“imminente scoperta” avviene nel corso di un convegno del Partito democratico a opera del procuratore capo Giuseppe Pignatone, magistrato stimatissimo che lo scorso sabato ha rilasciato una corposa intervista al Sole 24 Ore per dettagliare sullo sviluppo dell’inchiesta. Pignatone contesta il 416 bis perché è convinto che esista una mafia autoctona, romanissima, dotata degli “indici rivelatori” della tipica struttura associativa mafiosa. Pignatone vuole riuscire laddove gli inquirenti fallirono nei confronti della banda della Magliana (per la quale l’aggravante mafiosa fu esclusa dal giudice). “A quel punto – insinua maliziosamente Naso pater – chi potrà negargli il posto di procuratore nazionale antimafia?”. L’avvocato Naso filia ha coniato l’espressione “mafia parlata”: “Non ci sono morti né feriti.  Pullulano invece gli episodi di corruzione, estorsione… ma che senso ha contestare il 416 bis?” L’imputazione mafiosa estende la gamma dei mezzi investigativi disponibili, abbassa la soglia di gravità indiziaria, consente una gestione dei detenuti più favorevole alla procura. Il ministero di via Arenula ha disposto il 41 bis per l’indagato Carminati (non è ancora neanche imputato), il che significa 23 ore in cella e una sola visita al mese per i familiari. Chi lo conosce dubita che il “carcere duro” possa fiaccarlo nello spirito ribaldo. Ma di certo una misura cautelare così rigida rende assai ardua l’articolazione di una strategia difensiva. “Il 41 bis c’è anche a Rebibbia e a Civitavecchia. Perché trasferirlo prima a Tolmezzo, in provincia di Udine, e poi a Parma? Hanno sequestrato i conti suoi e dei familiari. Come farà a coprire almeno le spese della difesa? – si domanda Naso pater – Non siamo messi nelle condizioni materiali per difenderlo. Ma lo sa che hanno pedinato e intercettato me e mia figlia per mesi? Persino durante i colloqui con il mio assistito, cosa che è espressamente vietata dalla legge”. All’indomani dell’arresto avvenuto il 2 dicembre scorso, si consuma la prima “colossale buffonata”: un interrogatorio di garanzia in cui Carminati dovrebbe rendere conto delle risultanze d’indagini durate quattro anni e racchiuse in 80 mila pagine. Mentre i giornali ricamano sulla scelta di avvalersi della facoltà di non rispondere, manco fosse un’implicita ammissione di colpa, gli avvocati che hanno ricevuto il malloppone appena 12 ore prima dell’incontro con il gip, si tormentano: “Come facciamo a consigliare al nostro assistito di rispondere se non abbiamo avuto il tempo di vagliare le carte?”. L’ordinanza d’arresto di oltre 1.200 pagine, un compendio d’intercettazioni telefoniche e ambientali, replica quasi testualmente l’istanza dei pm “i quali, a loro volta, ricalcano l’ultima informativa dei carabinieri. Il che vuol dire che non c’è più un controllo giurisdizionale sull’operato degli investigatori”, sostiene Naso pater. Davanti al collegio del tribunale del Riesame che potrebbe scarcerare Carminati ma non lo fa, Naso filia si scaglia contro “i metodi di un’indagine ossessiva, quotidiana, mostruosa” e contro un’imputazione, il 416 bis, che è “un calderone senza confini definiti in cui rientra ogni tipo di condotta, secondo il pericoloso e subdolo schema dell’argomentazione assiomatica”. Come un dogma. In effetti, le intercettazioni andrebbero ascoltate oltre che lette. “Il tono conta – prosegue la giovane e agguerrita Ippolita – E’ una manifestazione di spacconeria romana, un autentico cazzeggio che sconfina nel turpiloquio. Come si può pensare che un mafioso impartisca ordini imprecando seduto su una panchina con la gente che si volta a guardarlo?”. L’ormai famigerata pompa di benzina è un palcoscenico a cielo aperto. Di quale omertà parliamo? Carminati sa da tempo di essere pedinato e intercettato. Con le telecamere installate presso il benzinaio di corso Francia improvvisa siparietti da smargiasso rivolgendosi direttamente ai carabinieri: “Che ne dite, oggi facciamo un’estorsione o un’usura?”. Quando telefona a Naso filia, esordisce così: “Buongiorno, avvocato, sono il re di Roma”. Sembra una barzelletta. Stando all’ipotesi accusatoria, mentre a Roma scorrono miliardi di euro tra metropolitane e cantieri infiniti, Mafia Capitale si avventerebbe sul bottino delle corruzioni municipali con funzionari disposti a vendersi per 400 euro… “Fateci delinquenti ma non cojoni”, confida un risentito Carminati all’avvocato di una vita, Naso pater, all’indomani dell’episodio di intimidazione denunciato da Lirio Abbate. “Ma davvero credono che per mettere paura a un giornalista già scortato prendiamo un ventenne inesperto e lo mettiamo a bordo di una Clio per speronare un’auto blindata?”. La reputazione prima di tutto. “Forse ci siamo dimenticati che cos’è la mafia vera, come agisce – commenta Naso pater – C’è indubbiamente un malcostume diffuso che riguarda molte amministrazioni comunali. Ma è roba per “Striscia la Notizia” più che per la procura di Roma”. Si spieghi meglio, avvocato. “Se volete c’è una cultura mafiosa ma nessun metodo mafioso. E quella cultura mafiosa, se mi permette, permea la realtà italiana a molti livelli: negli appalti, nell’università, nella magistratura”. Attenzione che la incriminano. “Dico, e ripeto, che quando alcuni incarichi direttivi in magistratura restano vacanti per mesi e anni perché i capicorrente non si mettono d’accordo sulla spartizione dei posti, anche lì si appalesa una logica spartitoria di stampo mafioso”. I legali sono pronti a dare battaglia. Nessun giudizio abbreviato ma un processo vero, udienza per udienza. Naso pater non esita a definire Carminati un “Robin Hood del XX secolo”: se poteva aiutare qualcuno, non si risparmiava. Se occorreva sbloccare in Campidoglio una pratica, che riguardasse gli affari suoi o di persone a lui vicine, Carminati sapeva chi contattare. “Avete ridotto a questo stato la politica per la quale tanti di noi sono morti? E adesso io vi uso”, era l’atteggiamento sprezzante che il Nero riservava al mondo dei colletti bianchi e dei politicanti all’ombra del Cupolone. Per il resto, conduceva una vita morigerata e rigorosa con la sua compagna nella villetta di Sacrofano, una smart e pochissime uscite, una grande passione per National Geographic, “Quark” e SkyTg24. Banditi alcol e droghe. “Sa quante volte ha pagato le visite mediche private a ex camerati e ai loro familiari?”, evidenzia Naso pater. E allora uno si chiede come potesse mantenere un figlio ventenne a Londra e fare pure beneficenza con le sole entrate del negozio della compagna. “Ricordiamoci che del bottino del caveau è stata rinvenuta soltanto una minima parte”, si lascia scappare l’avvocato. Il Nero le rapine non le ha rinnegate, se l’è appuntate al petto come una medaglia al valore. Adesso che a 56 anni si ritrova per la prima volta nella sua vita al 41 bis, sussurra impaziente al suo legale: “Fateci fascisti ma non mafiosi”. Carminati invoca giustizia.

Per altri avvocati come i Naso, però, non è finita bene.

Ora si racconta un fatto: un avvocato ha chiesto il trasferimento del dibattimento per legittimo sospetto. Quando si parla di “legittimo sospetto” ci si riferisce ad un presupposto applicativo dell’istituto giuridico della rimessione dei processi. Quest’ultimo, attualmente contemplato dall’art. 45 c.p.p., concretando una deroga a previsioni ordinarie in materia di competenza, comporta, come noto, il trasferimento del processo da una ad altra sede giudiziaria. Ratio ispiratrice del rimedio è la necessità di assicurare l’imparzialità della decisione finale rispetto a fattori di turbativa ambientale, capaci di incidere, dall’esterno, sulla regolarità processuale, intaccando così la genuinità del verdetto definitivo. Di fatto l'istituto non è stato mai applicato.

Anche perchè i magistrati, con l'ausilio della stampa, sanno come far impedire la richiesta travisandone gli effetti.

Camorra, lesse proclama contro Cantone e Cafiero de Raho: l’avvocato dei boss condannato a 5 anni e mezzo. I giudici hanno assolto con la formula "per non aver commesso il fatto" Francesco Bidognetti e l’altro esponente del clan di Casal di Principe, Antonio Iovine. Come era già avvenuto nell'altro processo per diffamazione nei confronti di Rosaria Capacchione e Roberto Saviano, scrive "Il Fatto Quotidiano" l'11 luglio 2016. “Un camorrista in toga”. Così il pm della dda di Napoli Sandro D’Alessio definì Michele Santonastaso, ex difensore dei boss dei Casalesi Francesco Bidognetti e Antonio Iovine, definì l’avvocato che il 13 marzo 2018 nell’aula del processo d’Appello Spartacus, il 13 marzo del lesse una lettera-istanza per legittimo impedimento in cui venivano messi nel mirino due giornalisti e due magistrati: Rosaria Capacchione e Roberto Saviano, Raffaele Cantone (nella foto) e Federico Cafiero de Raho. Per la diffamazione della giornalista de Il Mattino e ora senatrice Pd e per lo scrittore Santonastaso è stato già condannato a un anno l’11 dicembre 2014, oggi – a distanza di quasi un anno dalla requisitoria è arrivata la condanna per diffamazione e calunnia nei confronti dell’attuale presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione e del procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho. Il Tribunale di Roma lo ha condannato a 5 anni e sei mesi. I giudici hanno assolto con la formula “per non aver commesso il fatto” lo stesso Bidognetti e l’altro esponente del clan di Casal di Principe, Antonio Iovine. Come era già avvenuto nell’altro processo. A Santonastaso i reati contestati sono aggravati dal metodo mafioso. Il procedimento nato a Napoli è giunto a Roma per competenza perché sia Cantone sia De Raho erano in servizio alla Dda di Napoli all’epoca dei fatti. L’accusa aveva chiesto per tutti gli imputati sei anni di reclusione. Il legale lesse a nome dei due boss (non presenti in aula) una memoria in cui veniva messa in dubbio la serietà dell’inchiesta chiedendo, quindi, il trasferimento del dibattimento per legittimo sospetto. La lettera diffamatoria nei confronti dei magistrati conteneva espressioni minacciose e accusava i pm “di essere in cerca di pubblicità”. Nel documento venivano citati anche lo scrittore Saviano e Capacchione. A Santonastaso inoltre un anno fa furono confiscati beni mobili e immobili per 8 milioni di euro dai Carabinieri di Caserta e dagli agenti della Dia di Napoli che notificarono anche una misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di dimora nel comune di residenza della durata di 4 anni. L’avvocato era stato arrestato due volte, nel settembre del 2010 e nel gennaio del 2011, per avere commesso una serie di reati finalizzati ad agevolare la fazione Bidognetti del clan dei Casalesi, il clan Cimmino e il clan La Torre. Fu nell’udienza per chiedere la confisca dei beni – che l’11 dicembre 2014 – il pubblico ministero definì Santonastaso “camorrista in toga la cui attività, iniziata negli anni ’90, ha avuto un’escalation culminata con la lettura nell’aula del processo d’Appello Spartacus, il 13 marzo del 2008, dell’istanza per legittimo impedimento in cui vengono messi nel mirino due giornalisti e due magistrati, l’estremo tentativo dei Casalesi di ricompattarsi come aveva fatto Cosa Nostra dopo l’omicidio di Salvo Lima”.

Le maldicenze dicono che i giornalisti sono le veline dei magistrati. Allora, per una volta, facciamo parlare gli imputati.

Tribunale di Potenza. All’udienza tenuta dal giudice Lucio Setola finalmente si arriva a sentenza. Si decide la sorte del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, conosciutissimo sul web. Ma noto, anche, agli ambienti giudiziari tarantini per le critiche mosse al Foro per i molti casi di ingiustizia trattati nei suoi saggi, anche con interrogazioni Parlamentari, tra cui il caso di Sarah Scazzi e del caso Sebai, e per le sue denunce contro l’abilitazione nazionale truccata all’avvocatura ed alla magistratura. Il tutto condito da notizie non iscritte nel registro dei reati o da grappoli di archiviazioni (anche da Potenza), spesso non notificate per impedirne l’opposizione. Fin anche un’autoarchiviazione, ossia l’archiviazione della denuncia presentata contro un magistrato. Lo stesso che, anziché inviarla a Potenza, l’ha archiviata. Biasimi espressi con perizia ed esperienza per aver esercitato la professione forense, fin che lo hanno permesso. Proprio per questo non visto di buon occhio dalle toghe tarantine pubbliche e private. Sempre a Potenza, in altro procedimento per tali critiche, un Pubblico Ministero già di Taranto, poi trasferito a Lecce, dopo 9 anni, ha rimesso la querela in modo incondizionato.

Processato a Potenza per diffamazione e calunnia per aver esercitato il suo diritto di difesa per impedire tre condanne ritenute scontate su reati riferiti ad opinioni attinenti le commistioni magistrati-avvocati in riferimento all’abilitazione truccata, ai sinistri truffa ed alle perizie giudiziarie false. Alcuni giudizi contestati, oltretutto, non espressi dall’imputato, ma a lui falsamente addebitati. Fatto che ha indotto il Giangrande per dipiù a presentare una istanza di rimessione del processo ad altro Foro per legittimo sospetto (di persecuzione) ed a rivolgersi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Rigettata dalla Corte di Cassazione e dalla Cedu, così come fan per tutti.

Per dire: una norma scomoda inapplicata.

Processato a Potenza, secondo l’atto d’accusa, per aver presentato una richiesta di ricusazione nei confronti del giudice di Taranto Rita Romano in tre distinti processi. Motivandola, allegando la denuncia penale già presentata contro lo stesso giudice anzi tempo. Denuncia sostenuta dalle prove della grave inimicizia, contenute nelle motivazioni delle sentenze emesse in diversi processi precedenti, in cui si riteneva Antonio Giangrande una persona inattendibile. Atto di Ricusazione che ha portato nel proseguo dei tre processi ricusati all’assoluzione con giudici diversi: il fatto non sussiste. Questione rinvenibile necessariamente durante le indagini preliminari, ma debitamente ignorata.

Ma tanto è bastato all’imputato, nell’esercitare il diritto di difesa ed a non rassegnarsi all’atroce destino del “subisci e taci”, per essere processato a Potenza. Un andirivieni continuo da Avetrana di ben oltre 400 chilometri. Ed è già una pena anticipata.

L’avvocato della difesa ha rilevato nell’atto di ricusazione la mancanza di lesione dell’onore e della reputazione del giudice Rita Romano ed ha sollevato la scriminante del diritto di critica e la convinzione della colpevolezza del giudice da parte dell’imputato di calunnia. La difesa, preliminarmente, ha evidenziato motivi di improcedibilità per decadenza e prescrizione. Questioni Pregiudiziali non accolte. L’accusa ha ravvisato la continuazione del reato, pur essendo sempre un unico ed identico atto: sia di ricusazione, sia di denuncia di vecchia data ad esso allegata.

Il giudice Rita Romano, costituita parte civile, chiede all’imputato decine di migliaia di euro di danno. Imputato già di per sé relegato all’indigenza per impedimento allo svolgimento della professione.

Staremo a vedere se vale la forza della legge o la legge del più forte, al quale non si possono muovere critiche. Che Potenza arrivi a quella condanna, dove Taranto dopo tanti tentativi non è riuscita?

E anche stavolta, come decine di volte ancora prima con accuse montate ad arte, non ci sono riusciti a condannare il dr Antonio Giangrande. Il Dr Lucio Setola del tribunale di Potenza assolve il dr Antonio Giangrande il 19 maggio 2016, alle ore 17, dopo un’estenuante attesa dalla mattina da parte dell’imputato e dei sui difensori l’avv. Pietrantonio De Nuzzo e l’avv. Mirko Giangrande.

La stessa cosa si ripete a Taranto dove l’avv. Nadia Cavallo ha ripresentato una querela per diffamazione, per un fatto già giudicato e da cui è scaturita assoluzione. La nuova querela della Cavallo aveva prodotto un decreto penale di condanna emesso dal Gip Giuseppe Tommasino senza contradditorio. La doverosa opposizione del difensore, l’avv. Mirko Giangrande, per “ne bis in idem”, ossia non processato è condannato per lo stesso fatto, portava al Giudizio Immediato presso il Tribunale di Taranto da cui il 3 ottobre 2016 scaturiva ennesima sentenza di assoluzione.  

Come si dice..."Cane non mangia cane!". Toga non tocca toga e alla fine perdono sempre i cittadini. Perché la vera casta pericolosa non è quella della politica, è quella che non caccia i tanti Scavo che ha in seno, scrive Alessandro Sallusti (la destra politica), Sabato 14/05/2016, su "Il Giornale". A riprova che i magistrati non sono esseri superiori, esenti dai limiti e vizi di noi comuni mortali, un importante pubblico ministero di Roma, Francesco Scavo, titolare dell'inchiesta sui marò e di quella sull'omicidio di Luca Varani, è stato processato dal Csm per molestie sessuali nei confronti di alcune avvocatesse: apprezzamenti imbarazzanti a sfondo sessuale, avance e «repentini palpeggiamenti». Dopo aver accertato i fatti, che sanzione ha deliberato il Csm? Censura e trasferimento d'ufficio, come giudice, al tribunale di Viterbo. Ora, qui non parliamo di un manager sporcaccione o di un impiegato esuberante, ma di un magistrato. Cioè di un professionista che avendo in mano le vite e i destini di altri uomini dovrebbe dimostrare doti di equilibrio al di sopra di ogni sospetto. Doti evidentemente incompatibili con il profilo psicologico di un molestatore seriale. Che continuerà invece ad operare, non più come accusatore ma, peggio mi sento, come giudice. Non voglio ironizzare in base a quali giudizi Francesco Scavo emetterà le sue sentenze a carico di imputati magari difesi da giovani avvocatesse. Ma dico che è come se un pilota trovato positivo al test antidroga, invece che messo a terra venisse spostato a pilotare un aereo solo un po' più piccolo. Come se un chirurgo alcolizzato fosse trasferito dal grande ospedale a uno di provincia. Volereste su quell'aereo? Vi fareste curare in quell'ospedale? Penso di no. E allora mi chiedo perché i cittadini di Viterbo debbano finire nelle mani di un giudice poco equilibrato. E la risposta è una sola: la magistratura italiana usa due pesi e due misure, a seconda che si tratti di noi o di loro, e chissà quante volte accade perché il caso Scavo non è certo una eccezione. Se Piercamillo Davigo, neo presidente dell'Associazione nazionale magistrati, invece di dare dei ladri a tutti i politici e di considerare imprenditori e cittadini colpevoli fino a prova contraria, facesse un bel po' di pulizia in casa sua, il Paese ne avrebbe certamente maggiori benefici. Ma è come chiedere al tacchino di anticipare il Natale. Perché la vera casta pericolosa non è quella della politica, è quella che non caccia i tanti Scavo che ha in seno.

Storia di magistrati, di malagiustizia e del popolo che paga sempre…Come un magistrato viene beccato dalla polizia nei cessi di un cinema che fa un pompino a un ragazzino ed esce dalla vicenda con una promozione che farà lievitare anche gli stipendi dei suoi colleghi. Un costo da 70 milioni di euro all’anno…Il “pompino” più caro della storia, scrive Stefano Livadiotti (la sinistra politica), giornalista del settimanale L’ ESPRESSO (tratto dal libro “MAGISTRATI L’ULTRACASTA”). Un magistrato viene sorpreso in un cinema di periferia, dove ha promesso soldi a un ragazzino per appartarsi con lui. Scattano le manette e la sospensione dal lavoro. Poi, però, dopo tre gradi di giudizio e grazie a un’amnistia, tutto è annullato. E il Consiglio superiore della magistratura lo riabilita. Con una sentenza grottesca che fa impennare gli stipendi di migliaia di suoi colleghi. Ecco i verbali segreti di tutta la storia. Sono le 18 di un freddo pomeriggio di dicembre quando L.V., rispettabile magistrato di corte d’appello con funzioni di giudice del Tribunale di Milano, fa il suo ingresso nella sala dell’Ariel, un piccolo cinema all’estrema periferia occidentale di Roma. Sullo schermo proiettano il film western La stella di latta. Ma ad attirare Vostro Onore nel locale non sono certo le gesta di John Wayne nei panni dello sceriffo burbero. No, a L.V., che ha ormai 41 anni suonati, dei cow-boy non frega proprio un fico secco. Se si è spinto tanto fuori mano è perché è in cerca di tutt’altro. Così, dopo aver scrutato a lungo nel buio della platea, individua il suo obiettivo. E, quatto quatto, scivola sulla poltroncina accanto a quella occupata dal quattordicenne I.M. Quello che succede in seguito lo ricostruisce il verbale della pattuglia del commissariato di Polizia di Monteverde che alle 19.15 raggiunge il locale su richiesta della direzione. “Sul posto c’era l’appuntato di polizia G.P., in libera uscita e perciò casualmente spettatore nel cinema, che consegnava ai colleghi sopravvenuti due persone, un adulto e un minore, e indicava in una terza persona colui che aveva trovato i due in una toilette del cinema. L’adulto veniva poi identificato per il dottor L.V. e il minorenne per tale I.M. Il teste denunciante era tale F.Z”.L’appuntato G.P. riferiva che verso le 19, mentre assisteva in sala alla proiezione del film, aveva sentito gridare dalla zona toilette: “zozzone, zozzone, entra in direzione!”. Accorso, aveva trovato il teste Z. che, indicandogli i due, affermava di averli poco prima sorpresi all’interno di uno dei box dei gabinetti, intenti in atti di libidine. Precisava, poi, lo Z. che, entrato nel vestibolo della toilette, aveva scorto i due che si infilavano nel box assieme, richiudendovisi. Aveva allora bussato ripetutamente, invitandoli a uscire, ma senza esito. Soltanto alla minaccia di far intervenire la Polizia l’uomo aveva aperto, tentando di nascondere il ragazzo dietro la porta.” “Il minorenne, a sua volta, raccontava che verso le 18 era seduto nella platea del cinema intento a seguire il film quando un individuo si era collocato sulla sedia vicina: poco dopo questi aveva allungato un mano toccandogli dall’esterno i genitali. Egli aveva immediatamente allontanato quella mano e l’uomo se n’era andato. Ma dopo dieci minuti era ritornato, rinnovando la sua manovra. Questa volta egli aveva lasciato fare e allora l’uomo gli aveva sussurrato all’orecchio la proposta di recarsi con lui alla toilette, promettendogli del denaro. Egli s’era alzato senz’altro, dirigendosi alla toilette, seguito dall’uomo. Entrati nel box, l’uomo gli aveva sbottonato i calzoni, ed estratto il pene lo aveva preso in bocca.” Adescare un ragazzino in un cinema è un fatto che si commenta da solo. Che a farlo sia poi un uomo di legge, o che tale dovrebbe essere, appare inqualificabile. Ma non è solo questo il punto. Se i fatti si fermassero qui, non potrebbero essere materia di questo libro. Invece, come vedremo, la storia che comincia nella sala dell’Ariel giovedì 13 dicembre del 1973, per concludersi ingloriosamente 8 anni dopo, va ben oltre lo squallido episodio di cronaca. Per diventare emblematica della logica imperante almeno in una parte del mondo della magistratura ordinaria (di cui esclusivamente ci occuperemo, senza prendere in considerazione quelle contabile, amministrativa e militare). Cioè, in una casta potentissima e sicura dell’impunità. Dove lo spirito di appartenenza e l’interesse economico possono portare a superare l’imbarazzo di coprire qualunque indecenza. Dove il vantaggio per la categoria finisce a volte per prevalere su tutto il resto e l’omertà è la regola. Dove in certi casi giusto la gravità dei comportamenti riesce a offuscare la loro dimensione ridicola. Quel giorno, e non potrebbe essere altrimenti, V. viene dunque arrestato. Vostro Onore cerca disperatamente di negare l’evidenza. S’arrampica sugli specchi, raccontando di aver pensato che il ragazzino si sentisse male e di averlo quindi seguito nel bagno proprio per assisterlo. Ma non c’è niente da fare: l’istruttoria conferma la versione della polizia. Così, il Tribunale di Grosseto rinvia a giudizio V. per “atti osceni e corruzione di minore”. E, il 28 dicembre del 1973, si muove anche la sezione disciplinare del Csm, l’organo di governo della magistratura, che lo sospende dalle funzioni. V. sembra davvero un uomo finito. Ma non è così. Il 21 gennaio del 1976, il verdetto offre la prima sorpresa. Con il loro collega, i giudici toscani si dimostrano più che comprensivi. Il tribunale della ridente cittadina dell’alta Maremma ritiene infatti che, “atteso lo stato del costume”, l’atto compiuto da V. nella sala del cinema vada considerato soltanto come contrario alla pubblica decenza. Come, “atteso lo stato del costume”? Cosa succedeva all’epoca nei cinema di Grosseto: erano un luogo di perdizione e nessuno lo sapeva? Boh. Andiamo avanti: “Conseguentemente, mutata la rubrica nell’ipotesi contravvenzionale di cui all’articolo 726 del codice penale, lo condanna alla pena di un mese di arresto […] Per quanto poi riguarda la seconda parte dell’episodio, esclusa la procedibilità ex officio, essendo ormai il fatto connesso con una contravvenzione, proscioglie il V. per mancanza di querela dal delitto di corruzione”. Ma il procuratore generale non è d’accordo, e questa è una buona notizia per tutto il paese. E V., che pure dovrebbe fregarsi le mani, neanche. Entrambi presentano ricorso. Si arriva così all’8 marzo del 1977, quando a pronunciarsi è la corte d’appello di Firenze, che ribalta il precedente giudizio. Ma lo fa a modo suo. Per i giudici di secondo grado, quelli di V. sono atti osceni. Evviva. Però, siccome il primo approccio con il ragazzino è avvenuto nella penombra e l’atto sessuale si è poi consumato nel chiuso del gabinetto, il fatto non costituisce reato. V. se la cava quindi con una condanna a 4 mesi, con la condizionale, per la sola corruzione di minori. E di nuovo, non contento, ricorre, con ciò stesso dimostrando la sua incrollabile fiducia nella giustizia. Assolutamente ben riposta, come dimostra il terzo atto della vicenda, che va in scena due anni dopo, il 30 marzo del 1979: “La corte suprema, infine […] annulla senza rinvio limitatamente al delitto di corruzione di minorenne, a seguito dell’estinzione del reato in virtù di sopravvenuta amnistia”. Amen. V. era definitivamente sputtanato davanti a tutti i colleghi. Ma senza più conti in sospeso con la legge. E tanto bastava al Consiglio superiore della magistratura (d’ora in avanti Csm), che il successivo 29 giugno revocava la sua sospensione, rigettando una richiesta in senso contrario del procuratore generale della cassazione, perché “le circostanze non giustificavano l’ulteriore mantenimento […] di una sospensione durata cinque anni e mezzo”. A V. restava da superare solo un ultimo scoglio: il verdetto della sezione disciplinare. Ed è proprio in quella sede che la storia assumerà i toni più grotteschi. La sceneggiata finale, come racconta nel dettaglio la sentenza finora inedita, scritta a macchina e lunga 12 pagine, si svolge il 15 maggio del 1981, quando si riunirono i magnifici 9 della giuria che deve esaminare il dossier n. 294. Molti di loro faranno una carriera coi fiocchi. C’è l’allora vicepresidente del Csm, che è addirittura Giovanni Conso, futuro numero uno della consulta e ministro della giustizia, prima con Amato e poi con Ciampi. C’è Ettore Gallo, che all’inizio degli anni novanta s’accomoderà anche lui sul seggiolone di presidente della corte costituzionale. C’è Giacomo Caliendo, che siederà poi nel governo di Silvio Berlusconi, con l’incarico di sottosegretario alla giustizia. C’è Michele Coiro, che sarà procuratore generale del Tribunale di Roma e poi direttore generale del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. E ancora: i togati Luigi Di Oreste, Guido Cucco, Francesco Marzachì e Francesco Pintor, e il laico Vincenzo Summa. Chi pensa che in un simile consesso le parole siano misurate con il bilancino è completamente fuori strada. Vista dall’esterno, la sede del Csm ha perfino un che di lugubre, ma quando si riunisce la sezione disciplinare l’atmosfera è più quella del Bagaglino. La sentenza offre un campionario di spunti dalla comicità irresistibile. Come quello offerto dal medico di V., che lascia subito intendere quale incredibile piega potrà prendere la vicenda. “Veniva anche sentito il medico curante, dottor G., che testimoniò di aver sottoposto il V. a intense terapie nell’anno 1970 a causa di un trauma cranico riportato per il violento urto del capo contro l’architrave metallico di una bassa porta. Si trattava di ferita trasversale da taglio all’alta regione frontale, che il medico suturò previa disinfezione. Vostro Onore, insomma, aveva dato una craniata. E allora? “Benché fosse rimasto per dieci giorni nell’assoluto prescritto riposo, il paziente accusò per vari mesi preoccupanti disturbi, quali cefalee intense, sindromi vertiginose, instabilità dell’umore, turbe mnemoniche. Le ulteriori terapie praticate diedero temporaneo sollievo, ma vi furono frequenti ricadute, soprattutto di carattere depressivo, che si protrassero fino al 1972 […] È emerso che la madre dell’incolpato è stata ricoverata per 25 anni in clinica neurologica a causa di gravi disturbi.” Che c’entra?”, direte voi. Tempo al tempo. Dopo quella del luminare, la seconda chicca è la testimonianza dell’amico notaio. “All’odierno dibattimento sono stati escussi sette testimoni, dai quali è rimasta confermata l’irreprensibilità della vita dell’incolpato, prima e dopo il grave episodio, e soprattutto la serietà dei suoi studi e del suo impegno professionale. In particolare, il notaio dottor M. ha ricordato il fidanzamento del dottor V.con la sorella, assolutamente ineccepibile sul piano morale per i quattro-cinque anni durante i quali egli ha frequentato la famiglia. Il matrimonio non è seguito per ragioni diverse dai rapporti tra i fidanzati, che sono anzi rimasti buoni amici.” Par di capire, tra le righe, che V. non molestasse sessualmente la fidanzata. La credibilità della qual cosa, alla luce della sua successiva performance con il ragazzino, appare, questa sì, davvero solida. Nonostante le strampalate deposizioni, gli illustri giurati sembrano decisi a fare sul serio. E subito escludono in maniera categorica di poter credere alla versione che il collega V., a dispetto di tutto, si ostina a sostenere. “I fatti,” tagliano corto, “vanno assunti così come ritenuti dai magistrati di merito dei due gradi del giudizio penale”. Poi, però, cominciano a tessere la loro tela. “E tuttavia ciò che colpisce e stupisce, in tutta la dolorosa e squallida vicenda, è la constatazione che l’episodio si staglia assolutamente isolato ed estraneo nel lungo volgere di un’intera esistenza, fatta di disciplina morale, di studi severi e di impegno professionale.” Come diavolo abbiano fatto a stabilire che “l’episodio si staglia assolutamente isolato”, i giurati lo sanno davvero solo loro. Ma andiamo avanti. La prosa è zoppicante, però vale la fatica: “Tutto questo non può essere senza significato e non può essere spiegato se non avanzando due diverse ipotesi. O l’episodio ha avuto carattere di improvvisa e anormale insorgenza, quasi di raptus, la cui eziologia va ricercata e messa in luce; oppure se, al di sotto delle apparenze, sussiste effettivamente una natura sessuale deviata o almeno ambigua, è doveroso stabilire perché mai essa si sia rivelata soltanto e unicamente in quell’occasione, durante tutto il corso di un’intera esistenza”. L’alto consesso propende, ça va sans dire, per la prima delle due ipotesi. “Già […] i giudici penali avevano adombrato suggestivamente, in presenza dei referti clinici, della deposizione del curante e di quella del maresciallo S. che eseguì l’arresto, che la capacità di intendere e di volere del V., al momento del fatto, doveva essere scemata a tal punto da doversi ritenere ‘ridotta in misura rilevante’, e ciò – secondo i giudici – “per una sorta di psicastenia, di una forma di malattia propria, tale da alterare specialmente l’efficienza dei suoi freni inibitori contro i suoi aberranti impulsi erotici’“. Poste le premesse, i giudici dei giudici preparano il gran finale, citando il parere pro veritate di due professori, scelti naturalmente dalla difesa di V. “Secondo gli psichiatri […] l’episodio in esame, non soltanto costituisce l’unico del genere, ma esso, anzi, ponendosi in netto contrasto con le direttive abituali della personalità, è da riferirsi a quei fatti morbosi psichici che, iniziatisi nel 1970, si trovavano in piena produttività nel 1973, all’epoca del fatto. Durante il quale, pur conservandosi sufficientemente la consapevolezza dell’agire, restò invece completamente sconvolta la ‘coscienza riflettente’, cioè la rappresentazione preliminare degli aspetti etico-giuridici della condotta da tenere e delle sue conseguenze. Il che ha reso inerte la volontà di inibire quelle spinte pulsionali su cui il soggetto non riusciva più a esprimere un giudizio di valore.” Tutta colpa, dunque, della “coscienza riflettente”, che era andata in tilt. Ma come mai? Chiaro: “Su tutta questa complessa situazione il trauma riportato nel 1970 ha svolto un ruolo – secondo i clinici – di graduale incentivazione delle dinamiche conflittuali latenti nella personalità, fino all’organizzazione della sindrome esplosa nell’episodio de quo”. Vostro Onore, dunque, dopo la zuccata è diventato scemo? Neanche per sogno. Lo è stato, ma solo per un po’. “D’altra parte, poi, proprio l’alta drammaticità delle conseguenze scatenatesi a seguito del fatto, unita alle ulteriori cure e al lungo distacco dai fattori contingenti e condizionanti, hanno favorito il completo recupero della personalità all’ambito della norma, come è testimoniato dai successivi otto anni di rinnovata irreprensibilità.” Adesso insomma Vostro Onore è guarito e può senz’altro rimettersi la toga. “Il che comporta essersi trattato di un episodio morboso transitorio che ha compromesso per breve periodo la capacità di volere, senza tuttavia lasciare tracce ulteriori sul complesso della personalità.” Conclusione, in nome del popolo italiano: “Il proscioglimento, pertanto, si impone”. Addirittura. “La sezione assolve il dottor V. perché non punibile avendo agito in istato di transeunte incapacità di volere al momento del fatto”. Il procuratore se n’è fatta una ragione e non propone l’impugnazione. Il futuro ministro non ha nulla da eccepire. Il collega che siederà sullo scranno di presidente della consulta se ne sta muto come un pesce. E, diligentemente, i giurati mettono la firma sotto una simile sentenza. Dove si racconta la storiella di uno che ha sbattuto la testa e tre anni dopo è diventato scemo e ora però non lo è più. A parte il fatto che una zuccata prima o poi l’abbiamo presa tutti, magari pure Conso e Gallo, e qualcuno di noi da piccolo è perfino caduto dalla bicicletta: ma non è che poi ci siamo messi proprio tutti a dare la caccia ai ragazzini nei cinema di periferia. Il fatto che la sezione disciplinare del Csm non sia esattamente un tribunale islamico non è certo una notizia. Nel capitolo 3, intitolato Gli impuniti, ne racconteremo davvero di tutti i colori. Ma il caso di V.è al di là di ogni limite. Anche perché la sua storia non è rimasta sotto traccia come molte altre. Al contrario, nel mondo della magistratura è diventata molto, ma proprio molto popolare. Per un motivo semplicissimo, raccontato, nell’ottobre del 1994, dall’avvocato ed ex parlamentare radicale Mauro Mellini, in Il golpe dei giudici. Mellini sa bene quel che dice. Il libro lo ha infatti scritto quando aveva appena lasciato il Csm, di cui era consigliere: “A conclusione della vicenda V. non solo aveva ripreso servizio, ma era stato valutato positivamente per la promozione a consigliere di cassazione, conseguendo però tale qualifica con un ritardo di molti anni. E, avendo cumulato nel frattempo molti scatti di anzianità sul suo stipendio di consigliere d’appello, si trovò per il principio del trascinamento a portarsi dietro, nella nuova qualifica, lo stipendio più elevato precedentemente goduto grazie a tali scatti e a essere quindi pagato più di tutti i suoi colleghi promossi in tempi normali. Questi ultimi, allora, grazie all’istituto del galleggiamento, ottennero un adeguamento della loro retribuzione al livello goduto dal nostro magistrato”. Come consigliere, Mellini aveva modo di accedere agli archivi segreti del Csm. E così si era tolto la curiosità di fare due conti. “Pare che tale marchingegno abbia comportato per lo stato un onere di oltre 70 miliardi.” Tanto è costato ai cittadini italiani il caldo pomeriggio del pedofilo in toga. Trasformato d’un colpo da reprobo a benefattore dell’intera categoria. La domanda è inevitabile. Quando hanno deciso di prosciogliere il collega, Lor Signori del Csm non avevano a portata di mano un pallottoliere per fare due conti? O, al contrario, hanno prosciolto V. proprio perché i conti li avevano fatti, eccome? La risposta è arrivata nel 1993: il 29 settembre V. si è visto negare l’ultimo passaggio di carriera, quello alle funzioni direttive superiori della Cassazione. Eppure, i fatti sulla base dei quali è stato giudicato erano gli stessi di prima. Sarà perché nel frattempo era stato abolito il galleggiamento? E quindi nessuno avrebbe beneficiato di una sua ulteriore promozione?

PARLIAMO DI INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA.

Cos’è la Legalità: è la conformità alla legge.

Ancora oggi l’etimologia di lex è incerta; i più ricollegano effettivamente lex a legere, ma un’altra teoria la riconduce alla radice indoeuropea legh- (il cui significato è quello di “porre”), dalla quale proviene l’anglosassone lagu e, da qui, l’inglese law.

Nella Grecia antica le leggi sono il simbolo della sovranità popolare. Il loro rispetto è presupposto e garanzia di libertà per il cittadino. Ma la legge greca non è basata, come quella ebraica, su un ordine trascendente; essa è frutto di un patto fra gli uomini, di consuetudini e convenzioni. Per questo è fatta oggetto di una ininterrotta riflessione che si sviluppa dai presocratici ad Aristotele e che culmina nella crisi del V secolo: se la legge non si fonda sulla natura, ma sulla consuetudine, non è assoluta ma relativa come i costumi da cui deriva; dunque non ha valore normativo, e il diritto cede il campo all'arbitrio e alla forza. La relazione che intercorre tra il concetto di legge e il concetto di luogo è insito nell’etimologia del termine greco nomos, che significa pascolo e che, progressivamente, dietro alla necessaria consuetudine di legittimare la spartizione del “pascolo”, ha finito per assumere questo secondo significato: legge. Ma nemein significa anche abitare e nomas è il pastore, colui che abita la legge, oltre che il pascolo; la conosce e la sa abitare. E nemesis è la divinità che si accanisce inevitabilmente su coloro che non sanno abitare la legge.

Da qui il detto antico “qui la legge sono io”. Conflittuale se travalica i confini di detto pascolo. Legge e luogo sono intrinsecamente connessi. Infatti, la nemesi della legge è proprio quella libertà commerciale che esige un’economia globale, che travalica tutti i confini, che considera la terra come un unico grande spazio. Insieme ai paletti di delimitazione degli stati sradica così anche la legge che li abita.

I greci, con Platone, avevano teorizzato l’origine divina del nomos. Obbedire alle leggi della polis significava implicitamente riconoscere il dio (nomizein theos) che si nasconde dietro l’ethos originario.

La conclusione di entrambi i percorsi - quello lungo e quello breve - dovrebbe condurre a definire la politica come scienza anthroponomikè o scienza di amministrare gli esseri umani. Nómos in greco significa "norma", "legge", "convenzione"; vuol dire "pascolo" e nomeus vuol dire "pastore": il procedimento dicotomico sembra condurre lontano dal nómos nel suo primo senso, a far intendere l'antroponomia come l'arte di pascolare gli uomini.

Cicerone adotta l’etimologia di lex da legere, non perché la si legge in quanto scritta, bensì perché deriva dal verbo legere nel significato di “scegliere”.

“Dicitur enim lex a ligando, quia obligat agendum”, Questa etimologia di “legge” si trova all’inizio della celebre esposizione di Tommaso d’Aquino sulla natura della legge, presente nella Summa theologiae.

Da qui il concetto di legge: “la legge è una regola o misura nell’agire, attraverso la quale qualcuno è indotto ad agire o vi è distolto. Legge, infatti, deriva da legare, poiché obbliga ad agire.”

Il termine italiano legge deriva da legem, accusativo del latino lex.

Lex significava originariamente norma, regola di pertinenza religiosa.

Queste regole furono a lungo tramandate a memoria, ma la tradizione orale - che implicava il rischio di travisamenti - fu poi sostituita da quella scritta.

Sono così giunte fino a noi testimonianze preziose come le Tavole Eugubine, una raccolta di disposizioni che riguardavano sacrifici ed altre pratiche di culto dell’antico popolo italico di Iguvium, l’attuale Gubbio.

A Roma, in età repubblicana, vennero promulgate ed esposte pubblicamente le Leggi delle Dodici Tavole, che si riferivano non più solamente a questioni religiose: il termine lex assunse così il valore di norma giuridica che regola la vita e i comportamenti sociali di un popolo.

Sul finire dell’età antica l’imperatore Giustiniano fece raccogliere tutta la tradizione legislativa e giuridica romana nel monumentale Corpus Iuris, la raccolta del diritto, che ha costituito la base della civiltà giuridica occidentale.

Dalla riscoperta del Corpus Iuris sono state costituite circa mille anni fa le Facoltà di Legge - cioè di Giurisprudenza e di Diritto - delle grandi università europee, nelle quali si sono formati i giuristi, ovvero gli uomini di legge di tutta l’Europa medievale e moderna.

La parola legge è divenuta sinonimo di diritto, con il valore di complesso degli ordinamenti giuridici e legislativi di un paese.

In questo senso oggi la Costituzione italiana sancisce che la legge è uguale per tutti, e afferma la necessità per ogni persona di una educazione al rispetto della legalità: una società civile deve fondarsi sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini che trovano nelle leggi le loro regole.

Per millenni, tuttavia, il concetto di legge è stato collegato esclusivamente ad ambiti religiosi o sacrali, e per alcuni popoli ancora oggi all’origine delle leggi vi è l’intervento divino.

Pensiamo agli ebrei, per i quali la Legge - la Thorà nella lingua ebraica - è senz’altro la legge divina, non soltanto in riferimento ai Comandamenti consegnati dal Signore a Mosè sul monte Sinai - la legge mosaica - ma in generale a tutta la Bibbia, considerata come manifestazione della volontà divina che regola i comportamenti degli uomini.

Anche i Musulmani osservano una legge - la legge coranica - contenuta in un testo sacro, il Corano, dettato da Dio, Allah, al suo profeta Maometto.

Una legalità fondata sulla giustizia è dunque l’unico possibile fondamento di una ordinata società civile, e anche una delle condizioni fondamentali perché ci sia una reale difesa della libertà dei cittadini di ogni nazione.

Dura lex, sed lex: la frase, tradotta dal latino letteralmente, significa dura legge, ma legge. Più propriamente in italiano: "La legge è dura, ma è (sempre) legge" (e quindi va rispettata comunque).

Chi vive ai margini della legge, o diventa fuorilegge, si pone al di fuori della convivenza civile e va sottoposto ai rigori della legge, cioè a una giusta punizione: in nome della legge è proprio la formula con cui i tutori dell’ordine intimano ai cittadini di obbedire agli ordini dell’autorità, emanati secondo giustizia.

Il giusnaturalismo (dal latino ius naturale, "diritto di natura") è il termine generale che racchiude quelle dottrine filosofico-giuridiche che affermano l'esistenza di un diritto, cioè di un insieme di norme di comportamento dedotte dalla "natura" e conoscibili dall'essere umano.

Il giusnaturalismo si contrappone al cosiddetto positivismo giuridico basato sul diritto positivo, inteso quest'ultimo come corpus legislativo creato da una comunità umana nel corso della sua evoluzione storica. Questa contrapposizione è stata efficacemente definita "dualismo".

Secondo la formulazione di Grozio e dei teorici detti razionalisti del giusnaturalismo, che ripresero il pensiero di Tommaso d’Aquino, attualizzandolo, ogni essere umano (definibile oggi anche come ogni entità biologica in cui il patrimonio genetico non sia quello di alcun altro animale se non di quello detto appartenente alla specie umana), pur in presenza dello stato e del diritto positivo ovvero civile, resta titolare di diritti naturali, quali il diritto alla vita, ecc. , diritti inalienabili che non possono essere modificati dalle leggi. Questi diritti naturali sono tali perché ‘razionalmente giusti’, ma non sono istituiti per diritto divino; anzi, dato Dio come esistente, Dio li riconosce come diritti proprio in quanto corrispondenti alla “ragione” connessa al libero arbitrio da Dio stesso donato.

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INGIUSTIZIA E MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.

Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.

LA MALAGIUSTIZIA, oggetto della presente opera, è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.

L’INGIUSTIZIA è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!! 

Troppi giudici impreparati? Serve un intervento legislativo per riformare l'accesso alla magistratura. Sono diventati forse troppi gli errori giudiziari per non porsi il problema di una riforma dei criteri di accesso all'esame da magistrato, scrive Annamaria Villafrate su “Studio Castaldi”. Concorso in magistratura: desiderio di molti alla portata di pochi? Probabilmente no. Dato che vi può partecipare anche chi si è laureato a fatica e dopo una serie infinita di 18. E le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Da diversi anni fanno notizia anche sui media errori grossolani delle prove scritte degli aspiranti giudici, una professione complessa che richiederebbe molto studio e impegno. In Italia avvocati, giuristi e cittadini denunciano la gravissima situazione di incertezza del diritto. Soggetti condannati per il reato di omicidio in primo grado, magicamente assolti in appello. Sentenze con motivazioni e dispositivi spesso frutto di un veloce copia e incolla. La giustizia italiana è affidata tal volta a magistrati degni di grande rispetto, altre volte però a decidere delle sorti di un giudizio vi sono magistrati che farebbero bene a rimettere mano allo studio di manuali e codici di procedura. Che vi sia una grossa fetta di magistrati dalla scarsa preparazione oramai è sotto gli occhi di tutti ed è anche attestata dal quotidiano ribaltamento di sentenze di merito da parte della Corte di Cassazione che fin troppo spesso è costretta a intervenire per correggere errori talvolta "imbarazzanti". Proviamo soltanto ad accedere al CED della Cassazione nella pagina in cui è possibile visualizzare le sentenze per esteso (italgiure.giustizia.it/sncass/) e a digitare le parole virgolettate "cassa la sentenza impugnata": rimarremo sorpresi di quante sentenze vengono quotidianamente bocciate dalla Suprema Corte a conferma del fatto che i giudizi di merito sono spesso, anzi troppo spesso, decisi in modo inaffidabile. Cosa dire poi dei continui e destabilizzanti contrasti giurisprudenziali? Identiche questioni giuridiche risolte con sentenze diametralmente opposte in diversi ambiti territoriali e che costringono la Corte di legittimità a un surplus di lavoro per fare chiarezza. Senza parlare del problema che si crea alla "certezza del diritto" che sta sempre più somigliando a un miraggio. Il ruolo del magistrato è senza dubbio molto delicato. Le sue decisioni possono incidere profondamente sulla vita delle persone. Una sentenza penale errata o basata su un'analisi superficiale dei fatti può privare un individuo della propria libertà. Mentre una sentenza civile può incidere sugli equilibri privati di una coppia o portare alla rovina economica un intero nucleo familiare, un'azienda o un'impresa. Come possiamo dunque accettare che si commettano così tanti errori e che ci sia così tanta incertezza? Un problema di questa portata si potrebbe anche risolvere con due interventi da mettere in campo:

1) Redigere testi di legge più chiari e non soggetti ad interpretazione. Il linguaggio giuridico è ancora troppo complesso e solleva troppi dubbi interpretativi. E a peggiorare la comprensibilità delle norme è poi la copiosa presenza di continui rinvii ad altri testi di legge e l'assenza d'interpretazioni autentiche da parte del legislatore. Non è infrequente che dopo l'emanazione di una nuova legge, decreto o regolamento, gli addetti ai lavori manifestino dubbi in merito alla concreta applicabilità delle nuove disposizioni alle fattispecie concrete.

2) Garantire un maggiore livello di preparazione dei magistrati. Un simile risultato è conseguibile anche introducendo, per legge, un filtro efficace per fare accedere al concorso solo i più meritevoli. Possiamo davvero permetterci di consentire l'accesso all'esame anche studenti che non abbiano un curriculum scolastico di tutto rispetto? Non è troppo delicato il compito affidato a chi diventerà poi magistrato? Una maggiore competenza della magistratura si può ottenere solo attraverso una preventiva severa selezione.

Tutto questo nella speranza che si possa tornare a ciò che accadeva in passato, quando, come scriveva Calamandrei, un avvocato non doveva preoccuparsi di "insegnare ai giudici quel diritto, di cui la buona creanza impone di considerarli maestri".

Quei 44 ergastolani ostaggio dell'antimafia populista, scrive Giuseppe Rossodivita il 5 settembre 2016 su "Il Dubbio". "Boss e stragisti al Congresso dei Radicali? Provocazione spudorata". Così il titolo di un articolo su Il Fatto Quotidiano di qualche giorno fa che, come rivendicato successivamente dalle colonne dello stesso giornale, ha bloccato il trasferimento da parte del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), di 44 ergastolani presso il carcere di Rebibbia per consentirgli di partecipare al 40° Congresso (da qualche ignorante chiamato raduno) del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito. Bene, l'Italia è salva, viva Il Fatto Quotidiano. Purtroppo, al di là delle autocelebrazioni del giornale di Travaglio, non è così. La vicenda è invece paradigmatica di una sottocultura che ha condizionato negativamente la crescita di un paese che sul punto da anni non compie altro che passi indietro. Sulla spinta di questa sottocultura populista e che fonda il proprio successo sull'ignoranza, madre e padre delle paure di chi in questa condizione viene mantenuto, l'Italia non solo non è salva, ma sta messa decisamente male. Allora cerchiamo di fare un po' di informazione, quella che, come da prassi in questi casi, è stata fatta scientificamente mancare. Il trasferimento dei detenuti ergastolani, diversi ex 41 bis, era stato richiesto nell'ambito di un progetto cui questi detenuti hanno aderito denominato "Spes contra Spem", che si potrebbe tradurre con la frase per cui non basta avere speranza ma occorre essere speranza, farsi speranza in prima persona, con il proprio agire quotidiano, come ripetuto quasi ossessivamente negli ultimi anni da Marco Pannella. Con tutti questi detenuti si sono tenuti diversi incontri, ai quali anche chi scrive ha partecipato, quale Segretario del Comitato Radicale per la Giustizia Piero Calamandrei che affianca Nessuno Tocchi Caino nella battaglia volta a far accertare l'incostituzionalità dell'ergastolo cosiddetto "ostativo". Cos'è l'ergastolo ostativo? È quell'ergastolo che esiste, ma che per finalità ora editoriali, ora elettorali, viene negato che esista. Se chiedete ad un passante per strada com'è l'ergastolo in Italia, vi risponderà che in Italia l'ergastolo non c'è, perché tanto prima o poi tutti escono di galera. Ovviamente non è così, ma far credere il contrario alimenta paure che poi determinano vendite di giornali e consensi elettorali per chi si propone come salvatore della patria, essendone invece il boia. L'ergastolo ostativo è quell'ergastolo che viene comminato per aver commesso particolari tipi di delitti di mafia, che impediscono di godere di qualsiasi beneficio penitenziario legato ad un percorso di rieducazione e reinserimento. L'ergastolo ostativo è quell'ergastolo che porterà queste persone, un migliaio circa, ad uscire di galera, come si usa dire con cruda espressione, solamente "con i piedi in avanti". È la morte per pena, molto simile alla pena di morte. A meno che non barattino la loro vita con quella di qualcun'altro: potrebbero uscire vivi, gli ergastolani ostativi, solo se "collaborando" facciano chiamate di reità nei confronti di altri. Solo a quel punto le porte del carcere si potrebbero aprire. Ma "collaborare" nell'unico modo oggi preso in considerazione dallo Stato, facendo cioè incarcerare altri, non sempre è possibile, magari anche volendolo, per mille diverse ragioni, basti pensare alle ritorsioni nei confronti di figli e familiari tipici della criminalità organizzata. Senza contare che una "collaborazione" determinata da motivi egoistici non morire in carcere non necessariamente risulta sincera o veritiera, potendo rivelarsi calunniosa e non necessariamente restituisce alla società una persona migliore: ma questo ai Travaglio d'Italia non interessa, interessando loro solo la certezza della virile vendetta dello Stato, anche se contraria alla Costituzione. Il punto però è che il problema di questi detenuti è un problema del nostro Paese. Con il sistema attuale le mafie prosperano. È un dato di fatto. La storia e la cronaca testimoniano che le mafie non si sconfiggono solo a colpi di sentenze: per ogni mafioso condannato altre giovani leve sono pronte a prenderne il posto, essendo cresciute nel loro mito. Ciò che alimenta le mafie è una vera e propria sottocultura, che trae la sua forza dalle deteriori condizioni economiche, sociali e culturali in cui larghe fette di Paese vengono mantenute, anzitutto dalle mafie stesse, anche quando indossano il "vestito buono" della politica politicante. I 44 detenuti iscritti al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito sono stati assassini e stragisti, ciascuno almeno venti se non trenta anni fa. Ora sono altro, lo sono divenuti giorno dopo giorno, nei venti o trent'anni di reclusione che hanno subito e vorrebbero poter esser testimoni e testimonial di una dissociazione come quella che portò alla sconfitta del terrorismo che lo Stato invece sino ad ora si ostina a non prendere in alcuna considerazione. Per lo Stato o collabori o muori in carcere: questo è il modello fallimentare con cui combattere i fenomeni mafiosi. Il messaggio culturale che questi 44 detenuti potrebbero invece lanciare  e avrebbero potuto lanciare dal Congresso del Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito - è dirompente, soprattutto nei loro territori di provenienza, soprattutto per quelle giovani leve che oggi li considerano come esempi in quanto boss, killer o stragisti: la cultura mafiosa è sbagliata, è sottocultura, c'è un altro modo per poter vivere da uomini e donne in Sicilia, in Calabria, in Campania, in Puglia ed è un modo che ripudia quella sottocultura mafiosa e sposa la legalità su cui solo si può fondare la pacifica e civile convivenza, quella legalità che solo lo Stato può garantire. Firmato ex boss ed ex assassini di mafia. Così, ancora una volta, la sottocultura dell'antimafia populista e di facciata si è contrapposta ad un'altra sottocultura, quella mafiosa. È il Paese, e non certo i Radicali o i 44 detenuti, ad aver perso un'occasione. Per ora. Perché essere speranza di lotta alla mafia - come hanno voluto essere con il coraggio civile maturato in decenni di detenzione questi 44 detenuti - significa non stare lì ad aspettare che qualcun'altro combatta la mafia per loro o per noi, magari solo con quegli strumenti messi in campo sino ad oggi e che hanno garantito alle mafie, come alle antimafie di facciata, lunga vita e prosperità.

Giustizia digitale, chiusa per ferie, scrive Guido Scorza il 22 luglio 2016 su “L’Espresso”. “A far data dal 21 luglio e sino al 7 settembre 2016 sarà consentito il solo deposito in maniera cartacea degli atti urgenti con esclusione del deposito telematico stante l’impossibilità a riceverli da parte del personale amm.vo e del magistrato titolare in quanto assenti per ferie”. Recita letteralmente così un avviso, firmato dal Presidente della Sezione Fallimentare del Tribunale di Napoli e rivolto a tutti i curatori delle procedure fallimentari. A leggerlo verrebbe da ridere se il funzionamento della Giustizia non fosse così importante sul piano economico e su quello democratico. Una manciata di righe piene zeppe di contraddizioni che sembrano, per davvero, lo scherzo di un burlone che ha rigirato il senso di una comunicazione con la quale si intendeva dire l’opposto ovvero che, in estate, per consentire a personale amministrativo ed a magistrati di prendere visione degli atti, anche se fuori dall’ufficio, il loro deposito deve necessariamente avvenire solo per via telematica. Eppure è tutto drammaticamente vero. Il Presidente di una Sezione di un Tribunale importante come quello di Napoli è costretto – perché è difficile credere che se non costretto, qualcuno sarebbe riuscito a concepire una regola tanto apparentemente illogica – a mettere nero su bianco che il tanto decantato processo civile telematico è chiuso per ferie e che durante i mesi estivi si ritorna alla sana e vecchia carta. Ma più che il divieto di procedere al deposito per via telematica, ciò che lascia davvero senza parole è la sua motivazione: “stante l’impossibilità a riceverli da parte del personale amm.vo e del magistrato titolare in quanto assenti per ferie”. Impossibile resistere alla tentazione di leggere e rileggere questa motivazione nella convinzione – o, almeno, nella speranza – di aver capito male e che il senso sia esattamente l’opposto. Può essere difficile – e, forse, persino impossibile - ricevere un atto depositato in forma cartacea ma come fa a considerarsi impossibile, nel 2016, ricevere un atto trasmesso per via telematica? Sarebbe intellettualmente disonesto però puntare l’indice contro il Presidente della Sezione fallimentare del Tribunale di Napoli – che, per inciso, non è certamente né il primo, né l’unico ad aver dovuto stabilire certe regole – dimenticando che, evidentemente, se si arriva a certi tragicomici epiloghi è perché, ad oltre tre lustri dall’entrata in vigore della prima disciplina sul processo civile telematico, sistemi ed interfacce continuano ad essere disegnati, progettati ed implementati in modo tale da complicare la vita agli utenti del sistema giustizia anziché semplificarla. Che la giustizia digitale debba chiudere per ferie prima e più di quella cartacea è, veramente, una barzelletta dal retrogusto amaro. [Grazie a Matteo G.P. Flora per la segnalazione]

La diseguaglianza della giustizia, scrive Michele Ainis il 22 luglio 2016 su "La Repubblica". La Giustizia è un treno a vapore. Ma non tutte le tratte ferroviarie sono lente, non tutti i convogli procedono a passo di lumaca. Dipende dai macchinisti, dipende inoltre dai binari: come mostra l'analisi dei dati pubblicata oggi su questo giornale, la velocità dei tribunali cambia notevolmente da un angolo all'altro del nostro territorio. E alle deficienze s'accompagnano, talvolta, le eccellenze. Solo che gli italiani non lo sanno, non conoscono le performance dei diversi uffici giudiziari. È un paradosso, giacché nella società online siamo tutti nudi come pesci. Un clic in Rete e puoi scoprire usi e costumi del tuo vicino di casa, del collega d'ufficio, del compagno di banco. Sono nude anche le amministrazioni pubbliche, da quando un profluvio di decreti ha reso obbligatoria l'"Amministrazione trasparente": quanto guadagna il Capo di gabinetto e dov'è situato il gabinetto, nulla più sfugge ai controlli occhiuti dell'utente. Anzi: il "decreto Trasparenza" del ministro Madia ha appena introdotto l'istituto dell'accesso civico, permettendo a ciascun cittadino d'accedere - senza alcun onere di motivazione - ai dati in possesso delle amministrazioni locali e nazionali, dal comune di Roccacannuccia alla presidenza del Consiglio. Sennonché troppe informazioni equivalgono di fatto a nessuna informazione. Dal pieno nasce il vuoto, come mostra la condizione del diritto nella patria del diritto: migliaia di leggi, migliaia di regole che si contraddicono a vicenda, sicché in ultimo ciascuno fa come gli pare. Anche l'eccesso di notizie offusca le notizie, le sommerge in una colata lavica. E spesso ci impedisce di trovare l'essenziale, l'informazione di cui abbiamo bisogno per davvero. Quando c'è, naturalmente. Perché talvolta manca proprio l'essenziale. Un esempio? La giustizia, per l'appunto. Grande malata delle nostre istituzioni, su cui s'addensa - di nuovo - un fiume di libri, analisi, commenti. Per lo più autoreferenziali, come i temi su cui discetta la politica: di qua la separazione delle carriere fra giudici e pm, oppure i tempi della prescrizione; di là un estenuante contenzioso sulla legge elettorale. Ma è davvero questo che interessa ai cittadini? Un bel saggio appena pubblicato dal Mulino (Daniela Piana, Uguale per tutti?, 226 pagg., 20 euro) rovescia l'usuale prospettiva. L'eguaglianza davanti alla legge - osserva infatti la sua autrice - è il caposaldo dello Stato di diritto. Ne discende, a mo' di corollario, che l'applicazione delle leggi sia sempre impersonale, dunque garantita da giudici obiettivi e indipendenti, senza oscillazioni, senza asimmetrie fra i tribunali. Ma non è così, non è questa la norma. Perché, di fatto, in Italia vige una forte diseguaglianza nell'accesso alla giustizia, nelle opportunità di tutela dei diritti. Dipende dalla discontinuità del nostro territorio, dalla forbice socio-economica che divide Mezzogiorno e Settentrione. Dipende da storture organizzative ma altresì comunicative, psicologiche. Insomma, non basta misurare l'universo normativo per misurare la giustizia. Conta piuttosto la percezione dei cittadini, che a sua volta deriva da fattori extragiuridici, esterni alla dimensione del diritto. Quanto sia complicato, per esempio, raggiungere i tribunali, orientarsi al loro interno, prelevarne documenti. Come tradurli nella lingua che parliamo tutti i giorni. Il costo d'ogni causa. La percentuale di successo dei diversi avvocati che operano nello stesso territorio. Quando verrà fissata l'udienza per una procedura di divorzio o per il recupero d'un credito. Quale sia la probabilità di soccombere in una controversia civile, rispetto alle statistiche di quel particolare ufficio giudiziario. I tempi dei processi del lavoro, delle liti condominiali, delle cause di sfratto. Sono queste le informazioni essenziali, è questo che interessa al cittadino prima di bussare al portone della legge. Se non so come funziona il tribunale della mia città, non potrò avvalermene per tutelare i miei diritti. Oppure dovrò farlo al buio, tirando in aria i dadi. Da qui una richiesta, anzi un'ingiunzione in carta bollata: fateci sapere. Scrivete tutti questi dati sui siti web dei tribunali, cancellando il sovrappiù che genera soltanto confusione. O lo fate già? Magari ci siamo un po' distratti, meglio controllare. Con un'indagine a campione fra tre tribunali di provincia, al Sud, al Centro, al Nord. Messina: che bello, qui c'è un link su "Amministrazione trasparente". Ci guardi dentro, però trovi soltanto l'indice di tempestività dei pagamenti ai fornitori. Meglio che niente, ma per te che non sai ancora se intentare causa è niente. Rieti: l'immagine d'un edificio anonimo, qualche sommaria informazione. In compenso tutti i dettagli sulla festività del Santo Patrono. Parma: niente anche qui, tranne una carrellata d'udienze rinviate. E un servizio indispensabile: il Servizio di anticamera del Presidente del Tribunale. A questo punto blocchi il mouse, però prima d'arrenderti non rinunci a visitare il sito del palazzo di giustizia più famoso: Milano. Più che un tribunale, un tempio, dove la seconda Repubblica (con Tangentopoli) ricevette il suo battesimo. Strano, proprio lì manca una foto del palazzo, che resta perciò invisibile ai fedeli. Tuttavia c'è una lieta sorpresa: il link con tutte le tabelle sugli arretrati del tribunale milanese, nonché sulle politiche intraprese per smaltirli. Peccato che i dati siano fermi al 2010, quando al governo c'era ancora Berlusconi, quando il papa si chiamava Benedetto XVI. Ma dopotutto si tratta d'un esercizio di coerenza: nella giustizia italiana è in arretrato pure l'arretrato.

I giudici arroccati nelle loro “garanzie” rendono la legge diseguale per tutti. Orlando sulla prescrizione e un libro della politologa Piana, scrive Marco Valerio Lo Prete il 28 Giugno 2016 su "Il Foglio”. Ieri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, in visita ad alcuni uffici giudiziari siciliani, ha detto che “non esiste un nord e un sud nell’ambito della giustizia”. E quella che a una prima lettura potrebbe apparire come una carezza buonista a tutto il sistema, contiene in realtà un messaggio critico che gli addetti ai lavori hanno carpito. “Dalle performance legate alle prescrizioni, emerge che nello stesso paese, con le stesse leggi e spesso anche con le stesse condizioni materiali, ci sono uffici che hanno, rispetto ai procedimenti sottoposti, il 30-40 per cento di prescrizioni e altri che stanno sotto il 2 o l’1 per cento. E anche in questo caso non sono le solite Trento e Bolzano, che vengono sempre citate come realtà virtuose: sono spesso, invece, uffici del Mezzogiorno, uffici di frontiera che però sono in grado di dare una risposta perché nel corso del tempo hanno prodotto elementi di innovazione organizzativa”, ha detto Orlando. In altre parole: cari magistrati, rimboccatevi le maniche, perché tante delle attuali disfunzioni del pianeta giustizia non sono colpa del governo ladro ma dipendono da voi. E’ questa una delle riflessioni al centro dell’ultimo libro della politologa Daniela Piana, pubblicato dal Mulino e intitolato “Uguale per tutti? Giustizia e cittadini in Italia”. Con linguaggio scientifico, quasi asettico, la studiosa dell’Università di Bologna mette in dubbio che l’uguaglianza di fronte alla legge sia oggi garantita a tutto tondo nel nostro paese. Con indagini sul campo e dati alla mano, l’autrice sottolinea infatti che “il diritto garantisce” ma “la funzione rende reale ed effettiva tale garanzia. Fra il diritto e la funzione (rendere giustizia) intervengono diversi fattori”, che a loro volta influenzano “quelle variabili che rendono diseguale o potenzialmente diseguale l’accesso alla giustizia resa al cittadino e alla collettività”. Un procedimento di diritto del lavoro viene definito nel distretto di Milano in 280 giorni in media (meno di 10 mesi), contro i 1.371 giorni di media (quasi quattro anni) nel distretto di Bari; allo stesso tempo, all’interno del distretto di Milano, una causa di diritto della famiglia si chiude in 142 giorni a Busto Arsizio e 258 giorni a Milano, poi – nel distretto di Bari – in 447 giorni a Foggia e in 536 giorni a Trani. Per la politologa Piana “non trova riscontro nella realtà dei fatti” l’ipotesi che “maggiore è il numero dei magistrati che lavorano in un tribunale, maggiore la performance e minore il numero di giorni per definire i procedimenti”. Infatti “ad Ancona la scopertura dell’organico togato è del 17 per cento, mentre a Belluno del 18 per cento. I tempi medi del primo ufficio sono di 224 giorni, mentre nel secondo 326. Palermo ha una scopertura dell’organico togato dell’11 per cento, mentre Milano del 16 per cento. I tempi medi di Palermo sono 436, quelli di Milano 229”. Piuttosto sembra incidere di più, secondo Piana, il personale amministrativo presente nei tribunali. Anche qui, però, non è questione di “quantità”: “Il rapporto Cepej (del Consiglio d’Europa, ndr) pubblicato nel 2014 rileva che solo il 2,5 per cento del personale non togato (cioè del personale non appartenente al corpo dei magistrati) è specializzato in management”. Nel resto d’Europa va diversamente: il tentativo di offrire una risposta in termini di professionalità ed efficienza ha spinto gli uffici giudiziari di altri paesi, come l’Olanda, ad avvalersi sistematicamente di figure professionali specializzate in management e accounting. D’altronde mentre il budget allocato complessivamente per il comparto nel nostro paese è in linea con gli standard europei – l’1,5 per cento del pil, come in Germania, il doppio del Belgio (0,7), poco meno di Francia (1,9) e Paesi Bassi (2) –, noi ci caratterizziamo per una ripartizione delle stesse risorse particolarmente generosa verso il solo sistema giudiziario (i tribunali) e sparagnina invece nei confronti degli utenti (vedi per esempio il patrocinio a spese dello stato). “I dati del Cepej mostrano che nel 2008 l’Italia spende 1,9 euro per cittadino per l’accesso alla giustizia contro una media europea di 7,2”. Così non c’è da meravigliarsi se sui media hanno trovato eco negli ultimi anni le proteste per l’eliminazione di tutte le sezioni distaccate dei tribunali, come anche la cancellazione di 31 tribunali e di 31 procure, avviate dal governo Monti, mentre è passato quasi sotto silenzio il fatto che “le recenti analisi dell’Osservatorio per il monitoraggio degli effetti sull’economia delle riforme della giustizia istituito dal ministro della Giustizia Orlando (…) hanno mostrato che la revisione della geografia giudiziaria ha comportato un miglioramento generale dei tempi con cui vengono definiti i procedimenti”. E’ l’organizzazione, bellezza! La politologa Piana lo ripete e lo dimostra, senza addossare croci in maniera preconcetta, rilevando che anche la politica preferisce annunciare il cambiamento senza poi seguire da vicino “il governo del cambiamento”. La sorte della riforma Mastella docet: solo nel 2015, a otto anni dall’entrata in vigore di quella legge, il Consiglio superiore della magistratura ha stilato incentivi e meccanismi di valutazione previsti dal testo per gli incarichi diretti e semidirettivi. Ecco spiegato perché “l’Italia è un paese che si è lungamente qualificato per un alto grado di garanzie ordinamentali e processuali e al contempo per un basso rendimento nella risposta resa al cittadino”. Siamo il paese con le norme e le garanzie per i giudici “più belle del mondo” ma allo stesso tempo il paese più condannato dalle corti europee per la lunghezza dei processi e quello in cui sono peggiori gli indicatori oggettivi e soggettivi sullo stato di diritto.

Una giustizia giusta, fino a prova contraria, scrive Silvia Dalpane il 20 luglio 2016 su “Il Dubbio”. Presentato il movimento fondato da Annalisa Chirico. Significativa la testimonianza dell'infermiera di Piombino, vittima di un vero e proprio processo mediatico. Fino a prova contraria. Un principio giuridico, un auspicio, che dà il nome al nuovo movimento presieduto dalla giornalista Annalisa Chirico: «Siamo stanchi di una giustizia ostaggio delle schermaglie politiche, che pregiudica anche la qualità della democrazia». Alla presentazione in Piazza Colonna la testimonianza più forte è stata quella di Fausta Bonino, l'infermeria di Piombino vittima di un processo mediatico che l'ha trasformata in mostro. Dopo 21 giorni in carcere con l'accusa, tremenda, di aver ucciso 13 pazienti in corsia, è stata scarcerata dal Tribunale del Riesame di Firenze, che ha sconfessato l'indagine della procura di Livorno: «Sono qui perchè spero che cambi qualcosa. Sono stata sbattuta in galera con grande clamore. Non lo auguro a nessuno, la mia vita è cambiata per sempre. Sono giunta peraltro all'amara constatazione che se non si hanno soldi o supporto non se ne esce fuori, perché non avrei potuto consultare i periti che sono stati fondamentali». Eloquenti i dati raccolti dai promotori del movimento: in Italia ci vogliono in media 600 giorni per arrivare al giudizio di primo grado nelle cause civili. Soltanto Malta fa peggio di noi; in Francia ne bastano 300, in Germania 200. A Foggia, Salerno e Latina il 40% dei processi si protrae da oltre tre anni. In video-collegamento il presidente dell'Autorità nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone, che ha rimarcato quanto questa lentezza incida in termini di competitività. L'Italia infatti è soltanto l'ottavo paese dell'Unione Europea per investimenti provenienti dagli Usa, mentre logica vorrebbe che fosse almeno sul podio: «Le classifiche internazionali vengono utilizzate per scegliere se portare o meno i capitali in alcuni paesi. Gli imprenditori vogliono certezze sulla durata delle controversie e prevederne gli esiti». Il giudice costituzionale Giuliano Amato ha indicato dei possibili correttivi: «Ero ragazzo quando ho sentito parlare per la prima volta di riforma della giustizia. Bisognerebbe rafforzare i filtri che in campo penale precedono l'intervento dell'inquirente e del giudicante. Qualunque illecito amministrativo diventa automaticamente penale, anche perché i pm italiani hanno la capacità di individuare potenziali irregolarità e fattispecie di reato che altrove non esistono. Negli uffici arrivi di tutto, senza prima essere setacciato». L'ex presidente del consiglio indica negli Usa l'esempio da seguire: «Siamo molto più lenti di loro, che hanno soltanto due gradi di giudizio invece di tre. Puntano a chiudere in fretta le controversie, mentre noi inseguiamo per anni la chimera della verità assoluta. Spesso l'appello è più lungo del primo grado: un'inciviltà difficile da comprendere e accettare». Dall'ex ministro è arrivato anche un riferimento, forte, all'attualità: «Il caso Cucchi urla vendetta, quelle immagini fanno male. Evidentemente all'interno di alcune categorie c'è ancora oggi dell'omertà». Il confronto con il modello statunitense è stato approfondito grazie all'intervento dell'ambasciatore americano a Roma, John R. Phillips: «Gli investitori spesso non sbarcano in Italia per via di un sistema legale ritenuto inaffidabile. Negli Usa e in molti altri paesi europei i procedimenti viaggiano molto più spediti. Da noi è stata determinante la quantificazione di un limite alla produzione degli incartamenti da parte degli avvocati, che può essere derogato soltanto in casi eccezionali. Anche la digitalizzazione ha rappresentato un evidente passo avanti rispetto al cartaceo». Smaltimento degli arretrati e esaustività delle pronunce di primo grado gli altri capisaldi di un modello al quale l'Italia è chiamata a ispirarsi: «Negli Usa ci sono metodi alternativi per risolvere le dispute. Le parti raggiungono un compromesso in tempi brevi e addirittura il 90% dei casi viene archiviato senza processo. Rispetto all'Italia si arriva al grado successivo di giudizio soltanto quando possono essere contestate questioni di diritto e non di fatto. Mediamente la Corte Suprema è chiamata a pronunciarsi soltanto 80 volte l'anno». Non è mancato un riferimento all'indagine della Procura di Trani, che denunciò possibili interessi speculativi da parte di una nota agenzia di rating: «Alcuni dirigenti di Standard & Poor's sono stati accusati dopo avere declassato i conti italiani. La criminalizzazione dei comportamenti negligenti ha rappresentato un grande deterrente per imprenditori e amministratori delegati. Ecco perché si allontanano: in Italia i rischi sono troppo alti». Per l'ex ministro della Giustizia Paola Severino l'Italia deve compiere tanti progressi anche dal punto di vista culturale: «La corruzione emerge a tanti livelli. Ancora oggi chi paga le tangenti viene considerato più furbo degli altri, mentre sta commettendo un grave delitto. A Hong Kong hanno insegnato ai bambini dell'asilo che corrompere è reato e hanno sgominato il fenomeno. Da bambina mia madre mi fece restituire una mela e mi disse che si vergognava di me, che l'avevo rubata. Tante famiglie dovrebbero imitarla. La prevenzione e l'applicazione delle regole vengono prima della repressione». Il presidente dell'Unione delle camere penali Beniamino Migliucci condivide i principi ispiratori di Fino a prova contraria: «Bisogna recuperare alcuni valori del processo liberale democratico: la presunzione d'innocenza, la separazione delle carriere e il ragionevole dubbio. Troppo spesso si dà importanza ai risultati delle indagini o alle sentenze di primo grado. Il giustizialismo invece non è proficuo. L'opinione pubblica è influenzata molto dai media e va formata in modo differente. È come con le malattie: quando riguardano gli altri non ci si rende conto di cosa rappresentino nè come vadano affrontate». Un punto ribadito da Giovanni Fiandaca, docente di diritto penale all'università di Palermo: «Parte del sistema mediatico è molto appiattita sull'attività giudiziaria. Alcuni giornalisti hanno un rapporto privilegiato con i magistrati e quindi non possono essere sufficientemente critici. Prese di posizione oggettivamente discutibili non vengono approfondite sul serio, con un approccio intellettuale autonomo». Vi sono comunque esempi virtuosi. I 22 tribunali delle imprese hanno risolto il 70% dei casi a loro sottoposti in meno di un anno. «Rappresentano un'esperienza felicissima e hanno accorciato moltissimo i tempi del diritto civile. Andrebbero estesi all'ambito penale», ha aggiunto la Severino. Torino, grazie all'impegno del magistrato Mario Barbuto, ha smaltito il 26% di arretrati, imponendosi come modello di organizzazione: «Prima della legge Pinto alcuni processi si erano dilungati per 15 o addirittura 30 anni e avevamo subito ben quindici condanne della Corte Europea. La vergogna mi ha imposto un differente programma di gestione, improntato su una statistica comparata di 24 parametri. L'Osservatorio ci ha consentito di studiare le performances di 140 tribunali italiani e non sono mancate le sorprese». Smentiti tanti luoghi comuni: «Non è vero che la giustizia è in crisi dappertutto. 28 uffici giudiziari superano le medie europee. Il pieno organico non è sinonimo di maggiore efficienza e neppure gli indici di litigiosità o criminalità incidono in modo determinante. Non vi è una questione meridionale: Marsala è il secondo tribunale in Italia per velocità dei processi. E i carichi esigibili non sono affatto una soluzione. D'altronde è come se gli ospedali esponessero un cartello per annunciare che i medici cureranno soltanto i primi 150 pazienti e che tutti gli altri dovranno arrangiarsi...».

Chirico: «Il mio corpo è uno strumento di lotta...» Intervista di Errico Novi del 15 luglio 2016 su "Il Dubbio". «Marco è stato un grande maestro e mi ha insegnato a essere sfacciata come le persone che hanno idee forti. Il privato è anche politico, non concepisco l’ipocrisia della separazione tra le due vite». Bisogna essere sfacciati per mettersi a parlare di giustizia dalla parte degli indagati, per sfidare il mainstream forcaiolo. E ad Annalisa Chirico il coraggio non manca, l’entusiasmo neppure né una splendida indole pannelliana che «mi porta a considerare il mio corpo uno strumento di lotta: l’ho imparato da quel gigante che è Marco Pannella, certo». E adesso questa giornalista che con un’intervista a un togato del Csm è capace di far scoppiare un caso istituzionale da restare nella storia di Palazzo dei Marescialli, presiede un movimento che «intende promuovere una vera riforma del sistema giudiziario italiano». Si chiama “Fino a prova contraria”, è una specie di bandiera con su impresso l’articolo 27 della Costituzione e ha in programma un incontro per martedì prossimo a Palazzo Wedekind intitolato “Cambiamo la giustizia per cambiare l’Italia”, con il giudice costituzionale Giuliano Amato, il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone, il professor Giovanni Fiandaca, il presidente del Consiglio nazionale forense Andrea Mascherin e il numero uno delle Camere penali Beniamino Migliucci, oltre ai giuristi, imprenditori e magistrati che Annalisa ha coinvolto nella sua associazione.

Di questi tempi si rischia, a mettersi contro il mainstream giustizialista.

«Be’ ci sono polemiche persino per il fatto che alla presentazione interverrà Fausta Bonino, l’infermiera di Piombino che i pm continuano a inseguire armati di manette fino in Cassazione, e l’ex ergastolano Giuseppe Gulotta che si è fatto 22 anni di carcere prima di vedersi dichiarato innocente. Noi comunque non ci proponiamo come un’associazione di vittime della giustizia ma per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla patologia del processo mediatico, un caso tutto italiano che si regge sulla commistione incestuosa tra giornalisti e magistrati».

Andate controvento.

«Sono contenta del riscontro che abbiamo trovato già dal giorno del battesimo a Villa Taverna con l’ex ministro della Giustizia Paola Severino, mi pare che siamo già riusciti a conquistare una certa autorevolezza. Già ci riconoscono come movimento che si batte per una giustizia più efficiente in funzione di un Paese più competitivo. Sono soprattutto gli stranieri che hanno bisogno di essere rassicurati sul funzionamento del processo, in Italia. Gli americani sono rimasti choccati dal caso Amanda Knox. La grandissima parte dell’opinione pubblica Usa è rimasta incredula nello scoprire che con il sistema processuale italiano si può essere dichiarati innocenti dopo quattro anni di carcere. Ci sono altre vicende in cui il collegamento con il sistema economico è ancora più netto».

Ad esempio?

«Il caso Ilva, in cui un polo siderurgico di livello mondiale è già stato oggetto di sequestri di beni alle persone nonostante, dopo diversi anni, si sia ancora alle battute iniziali del processo».

Fai esempi che difficilmente possono intenerire l’opinione pubblica assetata di condanne.

«E invece io credo che già ora qualcosa tenda a cambiare. Ci sono episodi che segnano un passaggio, lo fu il cosiddetto referendum Tortora che raccolse un consenso fortissimo. Credo che oggi la battaglia in difesa delle garanzie per le persone indagate, degli imputati, possa far breccia nell’opinione pubblica. Anche grazie al fatto che il re, cioè la magistratura, è nudo».

A cosa ti riferisci.

«Agli episodi che hanno spezzato l’incantesimo del magistrato infallibile: penso a quando si è scoperto il valore degli immobili di Di Pietro, al capitombolo elettorale di Ingroia, alla giudice Silvana Saguto coinvolta nello scandalo di Palermo sui beni confiscati, a un caso come quello di Morosini che racconta in un’intervista come la corrente Md intenda impegnarsi contro il governo sul referendum costituzionale».

Quell’intervista c’è stata o no?

«Mi attengo alla prima smentita di Morosini, in cui parlò di colloquio informale che lui riteneva non avrebbe dovuto essere inteso come intervista».

Tu perché l’hai inteso come intervista?

«Perché a un certo punto ho cominciato a prendere appunti sul taccuino, e davo per scontato che lui avesse compreso la mia intenzione di riportare le sue parole. D’altronde mi era parso che lui potesse essere interessato a rendere pubbliche quelle considerazioni per giochi interni alla sua corrente».

E invece?

«E invece lui pensava che prendessi appunti chissà perché. Dopo il comunicato dell’Anm e l’intervento del guardasigilli ha pronunciato una smentita completa, per mettersi in salvo. Io a quel punto, per la simpatia che ho nei suoi confronti, sono rimasta silente».

Vi siete più sentiti?

«Come no. Siamo rimasti in buoni rapporti».

Davvero? Non ti ha sbranato al telefono?

«No. Sa che non ho infierito, né lo ha fatto il mio giornale, il Foglio».

I togati del Csm sono impreparati all’esposizione mediatica?

«I magistrati in generale usano la comunicazione benissimo. E ci riescono grazie al fatto che quasi tutti, a cominciare dai giornaloni, ben si guardano dal far loro le pulci come fanno con i politici».

Sei stata provocatoria con il libro Siamo tutte puttane, continui a esporti in modo temerario: esagero se dico che in questo sei un po’ pannelliana?

«Io mi considero pannelliana, considero il mio corpo uno strumento di lotta, l’ho imparato dai radicali, anche grazie al lavoro fatto all’Strasburgo quando Marco era deputato europeo. Lui è stato un grande maestro e mi ha insegnato a essere sfacciata come le persone che hanno idee forti. Il privato è anche politico, non concepisco l’ipocrisia della separazione tra le due vite. Le cose che scrivo e che porto avanti costituiscono un unico habitat umano con il modo in cui vivo e le persone che conosco».

Ecco, ma prima o poi il Fatto ti toglierà la pelle di dosso.

«Il Fatto si è già occupato di me e dei miei fidanzati veri o presunti in varie occasioni. Ho molta simpatia per Marco Travaglio, un uomo eccentrico e incline allo spettacolo».

A proposito di simpatie: con Chicco Testa vi siete lasciati così male?

«Lasciati? Ma che dici?»

Lo hai scritto tu sul Giornale di Sallusti.

«Macché. È qui vicino a me mentre parlo al telefono. Quell’articolo aveva un tono letterario, parla di Becoming, il memoir della Williams su come si risorge dopo una separazione».

E se d’improvviso sparissi e ti limitassi a scrivere senza apparire mai?

«Non potrei mai scrivere semplicemente degli articoli. Porto avanti delle battaglie proprio perché scrivo quello che Annalisa pensa».

Carceri "Negli ultimi 50 anni incarcerati 4 milioni di innocenti". Decine di innocenti rinchiusi per anni. Errori giudiziari che segnano le vite di migliaia di persone e costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali, scrive Romina Rosolia il 29 settembre 2015 su "La Repubblica". False rivelazioni, indagini sbagliate, scambi di persona. E' così che decine di innocenti, dopo essere stati condannati al carcere, diventano vittime di ingiusta detenzione. Errori giudiziari che non solo segnano pesantemente e profondamente le loro vite, trascorse - ingiustamente - dietro le sbarre, ma che costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali italiane. Quanto spende l'Italia per gli errori dei giudici? La legge prevede che vengano risarciti anche tutti quei cittadini che sono stati ingiustamente detenuti, anche solo nella fase di custodia cautelare, e poi assolti magari con formula piena. Solo nel 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, con un incremento del 41,3% dei pagamenti rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012, lo Stato ha dovuto spendere 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente detenuti negli ultimi 15 anni. In pole position nel 2014, tra le città con un maggior numero di risarcimenti, c'è Catanzaro (146 casi), seguita da Napoli (143 casi). Errori in buona fede che però non diminuiscono. Eurispes e Unione delle Camere penali italiane, analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che sarebbero 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Sui casi di mala giustizia c'è un osservatorio on line, che da conto degli errori giudiziari. Mentre sulla pagina del Ministero dell'Economia e delle Finanze si trovano tutte le procedure per la chiesta di indennizzo da ingiusta detenzione. Gli errori più eclatanti. Il caso Tortora è l'emblema degli errori giudiziari italiani. Fino ai condannati per la strage di via D'Amelio: sette uomini ritenuti tra gli autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta il 19 luglio 1992. Queste stesse persone sono state liberate dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi in regime di 41 bis. Il 13 febbraio scorso, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. Altri casi paradossali. Nel 2005, Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini, venne condannata con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Tra gli ultimi casi, la carcerazione e la successiva liberazione, nel caso Yara Gambirasio, del cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza. Sono fin troppo frequenti i casi in cui si accusa un innocente? Perché la verità viene fuori così tardi? Perché non viene creduto chi è innocente? A volte si ritiene valida - con ostinazione - un'unica pista, oppure la verità viene messa troppe volte in dubbio. Forse, ampliare lo spettro d'indagine potrebbe rilevare e far emergere molto altro.

ASSOLTI. PERO’…

Assolti? C’è sempre un però, scrive Michele Ainis su “Il Corriere della Sera” l’11 novembre 2015. E go te absolvo, sussurra il prete dietro la grata del confessionale. Ma se lo dice il giudice allora no, non vale. In Italia ogni assoluzione è un’opinione, per definizione opinabile o fallace; e d’altronde ogni processo è già una pena, talvolta più lunga d’un ergastolo. Ultimo caso: Calogero Mannino. L’ex ministro democristiano arrestato nel 1995 per concorso esterno in associazione mafiosa, prosciolto 25 anni più tardi dalla Cassazione, dopo una giostra d’appelli e contrappelli, dopo 22 mesi di detenzione, dopo la gogna e la vergogna. E adesso assolto di nuovo in primo grado nel processo sulla trattativa Stato-mafia. Reazioni: sì, però... C’è sempre un però, c’è sempre una virgola della sentenza d’assoluzione che si lascia interpretare come mezza condanna (in questo caso l’insufficienza delle prove), o magari c’è una dichiarazione troppo esultante del prosciolto, un suo tratto somatico tal quale la smorfia di Riina, una corrente d’antipatia che nessun verdetto giudiziario riuscirà mai a sedare. Mannino sarà anche innocente, però non esageri, ha detto l’ex pm Antonio Ingroia in un’intervista a Libero. Lui invece esagera, come fanno per mestiere i romanzieri; e infatti ci ha promesso in dono un romanzo col quale svelerà le intercettazioni di Napolitano. Peccato che pure stavolta ci sia di mezzo una sentenza, oltretutto firmata dal giudice più alto. Giacché nel 2013 la Corte costituzionale - per tutelare la riservatezza del capo dello Stato - impose l’immediata distruzione dei nastri registrati, e dunque i nastri sono stati inceneriti, anche se nessuno può incenerire la memoria di chi li ascoltò a suo tempo. Come Ingroia, per l’appunto. Risultato: la Consulta ha sancito l’innocenza «istituzionale» dell’ex presidente, l’ex magistrato ne dichiara la colpa. Risultato bis: anche in questo caso non conta il giudizio, conta il pregiudizio. Potremmo aggiungere molte altre figurine a quest’album processuale. Potremmo rievocare le maestre di Rignano: nel 2006 imputate di violenza sessuale sui bambini, assolte per due volte in tribunale, però sempre colpevoli secondo i genitori, tanto che hanno smesso d’insegnare. O altrimenti potremmo citare il caso di Raffaele Sollecito: assolto anche lui per il delitto di Perugia, dopo un ping pong giudiziario di 8 anni; qualche giorno fa vince un bando della Regione Puglia per creare una start up, e s’alzano in coro gli indignati. Insomma, alle nostre latitudini l’unica prova certa è quella che ti spedisce in galera, non la prova d’innocenza. E allora la domanda è una soltanto: perché? Quale virus intestinale ci brucia nello stomaco, trasformandoci in un popolo incredulo e inclemente? Chissà, forse siamo colpevolisti perché abbiamo perso l’innocenza: la nostra, non la loro. Perché siamo vecchi e sfiduciati, dunque non crediamo più nei giudici come nei partiti, come nei sindacati, come nelle chiese. Perché la giustizia ci ha deluso, e in effetti la storia è costellata d’errori giudiziari. Però sono più i dannati dei salvati: Dreyfus (Francia, 1894), Sacco e Vanzetti (Usa, 1927), Girolimoni (sempre nel 1927, ma in Italia), Valpreda (1969), Tortora (1983). Altrettante vittime innocenti d’uno strabismo processuale, nonostante il doppio grado di giudizio, nonostante il riesame in Cassazione. Domanda: ma se una sentenza può sbagliare, perché a un certo punto diventa inappellabile? Risposta: perché la verità assoluta non è di questo mondo, perché dobbiamo contentarci di verità parziali, convenzionali. E perché il diritto tende alla certezza, non alla comprensione filosofica. Quando ci rifiutiamo di prenderlo sul serio, quando respingiamo i suoi verdetti, la nostra insicurezza diventa ancora più acuta. 

Errori giudiziari: una nuova vergogna. Nella Legge di stabilità 2016 il governo ha dimezzato i risarcimenti della legge Pinto per i processi troppo lenti. Rendendoli ancora più difficili, scrive Maurizio Tortorella il 15 gennaio 2016 su "Panorama". I radicali, grazie alla testa e alla penna di Deborah Cianfanelli, avvocato spezzino da tempo impegnato nella difesa dei diritti civili, hanno appena pubblicato uno studio che (come troppo spesso accade ai radicali) è passato in assoluto silenzio. Ed è un peccato, perché lo studio descrive come processi lenti e errori giudiziari in Italia siano ormai divenuti parte della nostra bancarotta economica. Cianfanelli ha analizzato i risultati della cosiddetta legge Pinto, la n. 89 del 2001, varata dal governo del premier Giuliano Amato. La norma stabilisce una "corretta durata dei processi" individuandola in tre anni per il primo grado, in due anni per il secondo grado, in un anno per la Cassazione. Quando fu varata, 14 anni fa, la norma cercava di fare argine a migliaia di richieste di risarcimento per la lentezza dei processi penali e civili approdati presso la Corte europea dei diritti dell’uomo. I radicali stimano che il costo provocato dalla Legge Pinto sui conti pubblici sia di circa un miliardo di euro l’anno, quasi il doppio di quanto calcola oggi il governo. Alla cifra vanno poi aggiunti200 milioni circa per i risarcimenti da ingiusta detenzione, originati all’incirca da altri 2 mila procedimenti l’anno. Il numero di cause basate sulla legge Pinto è in continuo aumento: i ricorsi erano 3.580 nel 2003, saliti a 49.730 nel 2010, a 53.320 nel 2011, a 52.481 nel 2012, a 45.159 nel 2013, l’ultimo anno con dati ufficiali. Se si tiene conto che la media del rimborso liquidato è di ottomila euro, si arriva velocemente a cifre stellari. Bene. Che cosa ha deciso di fare, il governo, di fronte a questo disastro giudiziario ed economico? Forse intervenire per accelerare in qualche modo i tempi medi del processo? Macché. I radicali denunciano che anzi la Legge di stabilità 2016 (all’articolo 56 del titolo nono) ha introdotto silenziosamente alcuni importanti modifiche alla legge Pinto, al solo scopo di "renderne molto difficile se non meramente eccezionale la possibilità d’accesso". Il problema è stato brutalmente risolto alla fonte, insomma: se la legge Pinto costa troppo, rendiamo più difficili gli indennizzi. I trucchi adottati sono molto insidiosi: per avere diritto a presentare ricorso, l’imputato di un processo penale deve presentare l’istanza di accelerazione delle udienze "almeno sei mesi prima del decorso del termine ragionevole di durata". Quando il suo giudizio arriva in Cassazione, l’imputato deve fare istanza "due mesi prima dello spirare del termine di ragionevole durata". La legge stabilisce poi che è "insussistente" il pregiudizio da irragionevole durata del processo nel caso d’intervenuta prescrizione del reato. "Ancora una volta" scrive Cianfanelli "anziché cercare di porre in essere rimedi strutturali in grado di riportare il sistema giustizia sui binari della legalità, si cerca di aggirare l’ostacolo rendendo inaccessibile la strada al risarcimento del danno". Parole sante. Anche perché, non contento, il legislatore ha praticamente dimezzato i valori dei risarcimenti. L’ultima Legge di stabilità stabilisce infatti che il giudice dovrà liquidare "una somma non inferiore a euro 400 euro e non superiore a euro 800 per ciascun anno, o frazione di anno superiore a sei mesi, che eccede il termine ragionevole di durata del processo". Per fare un confronto, la Corte europea dei diritti dell’uomo, che non è certo il giudice di prima istanza in materia, individua oggi il parametro dell’indennizzo in mille-millecinquecento euro per ogni anno di processo Giustizia italiana, mala e pidocchiosa.

Incubo carcere preventivo: quattro milioni di innocenti. In 50 anni troppe vittime hanno subìto l'abuso della detenzione. E i pm insistono nonostante le nuove regole. Il caso di Mantovani, scrive Andrea Camaiora Mercoledì 11/11/2015 su “Il Giornale”. La carcerazione preventiva recentemente inflitta all'ormai ex vicepresidente di Regione Lombardia Mario Mantovani offre tristemente un nuovo spunto per affrontare l'annosa questione della carcerazione preventiva. Qual è la situazione nel nostro Paese? Nel 2009, il numero dei detenuti in custodia cautelare era di 29.809, pari al 46% del totale della popolazione carceraria; il dato di oggi è di 18.622, il 34,5%. Questi dati rivelano come troppe volte l'applicazione della custodia cautelare non costituisca l'extrema ratio, così come previsto dalla nuova disciplina in merito voluta dal Guardasigilli, Andrea Orlando, ma assuma connotati diversi, come quelli di un'anticipazione della pena. In molte occasioni i destinatari di misure cautelari personali vengono, dopo anni, assolti: i numeri parlano chiaro, dal 1991, lo Stato ha pagato quasi 600 milioni di euro a più di 20 mila persone per riparazione per ingiusta detenzione, anche per effetto di sentenze definitive che hanno assolto persone che erano state arrestate. Negli ultimi 50 anni, 4 milioni, ebbene sì, 4 milioni di cittadini sono stati prima dichiarati colpevoli, quindi arrestati e infine rilasciati perché innocenti. Dal 1991 al 2012 lo Stato ha dovuto spendere 600 milioni di euro per risarcire chi è stato indebitamente arrestato. E il dato ulteriormente negativo è che questa dinamica non accenna a diminuire, anzi aumenta. Nel 2014 le somme spese dallo Stato per le riparazioni per ingiusta detenzione sono aumentate del 41% rispetto al 2013. La nuova normativa è più che limpida sull'imposizione o meno della detenzione carceraria. Per giustificare il carcere, il pericolo di fuga o di reiterazione del reato non deve essere soltanto concreto ma anche «attuale». Il giudice non può più desumere il pericolo solo dalla semplice gravità e modalità del delitto. Per privare della libertà una persona l'accertamento dovrà coinvolgere elementi ulteriori, quali i precedenti, i comportamenti, la personalità dell'imputato. Anche gli obblighi di motivazione si sono intensificati. Il giudice che decide per il carcere non potrà infatti più limitarsi a richiamare gli atti del pm, ma dovrà dare conto con autonoma motivazione delle ragioni per cui anche gli argomenti della difesa sono stati disattesi. Sono aumentati da 2 a 12 mesi i termini di durata delle misure interdittive (sospensione dell'esercizio della potestà dei genitori, sospensione dell'esercizio di pubblico ufficio o servizio, divieto di esercitare attività professionali o imprenditoriali) per consentirne un effettivo utilizzo quale alternativa alla custodia cautelare in carcere. È cambiata anche la disciplina del Riesame. Il tribunale della Libertà ha tempi perentori per decidere e depositare le motivazioni, pena la perdita di efficacia della misura cautelare. Che, salvo eccezionali esigenze, non può più essere rinnovata. Il collegio del Riesame deve inoltre annullare l'ordinanza liberando l'accusato quando il giudice non abbia motivato il provvedimento cautelare o non abbia valutato autonomamente tutti gli elementi. Tempi più certi anche in sede di appello cautelare e in caso di annullamento con rinvio da parte della Cassazione. Con questo quadro di riferimento, colpisce assai non una voce critica rispetto al provvedimento subito da Mantovani: molte e autorevoli sono state infatti le prese di posizione. Semmai ciò che si sente sempre più forte è il silenzio, l'assenza di autocritica dei cantori della manetta facile, della condanna in piazza e anche di coloro che, siamo in tanti, credono nel rigore e nella serietà della magistratura. Il tutto perché c'è chi sta leggendo questo articolo e chi - come Mantovani, ma non solo lui - si trova sottoposto a carcere preventivo da circa un mese.

Giustizia: le mille balle sulla prescrizione. Cresce in modo inarrestabile. Per colpa della ex Cirielli, varata da Berlusconi nel 2005. E della melina degli avvocati. Tutto falso: ecco perché, scrive il 15 febbraio 2016 Maurizio Tortorella su "Panorama". A partire dalle litanie dell'ultima inaugurazione dell'anno giudiziario, e cioè dalla fine di gennaio, siamo inondati di continui, alti lamenti sulla prescrizione, l'istituto che brucia "inutilmente e vergognosamente" troppi processi penali. Sui giornali si legge che le prescrizioni sono in continuo aumento: formano ormai un'ondata inarrestabile, che anno dopo anno uccide un numero crescente di procedimenti, sottraendo gli autori di reati alla giustizia. Per questo, si legge nei commenti e nelle interviste, il Parlamento dovrebbe approvare al più presto una proposta di legge che riduce grandemente la prescrizione. La riforma prevede allungamenti, sospensive dopo la condanna in 1° e 2° grado. Il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, si è perfino detto d’accordo con il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato, per raddoppiare la prescrizione nei reati corruttivi. Secondo la propaganda che picchia sui tamburi in questo febbraio, la colpa di questa situazione disastrosa è tutta da attribuire (e come dubitarne?) alla famosa, malfamata legge Cirielli, varata nel dicembre 2005 sotto il governo Berlusconi: una norma così vergognosa che perfino il suo autore, il deputato Edmondo Cirielli, la rinnegò (e infatti viene rubricata come "ex Cirielli"). Ovviamente, la responsabilità dell'ondata di prescrizioni ricade anche sugli avvocati penalisti e sulle tattiche dilatorie che usano in tribunale. Secondo i cantori del populismo giudiziario, i difensori, complici di chi non vuole giustizia, usano la prescrizione come primo strumento in loro possesso per “salvare" i clienti, ovviamente sempre colpevoli, e per arrivare così al risultato di eludere la giustizia. Tutto vero? Al contrario, è tutto falso (tranne qualche caso, che innegabilmente e probabilmente magari esisterà). E a dimostrarlo sono i dati ufficiali del ministero della Giustizia. Basta andare a cercarli e metterli in fila. Partiamo dalla legge ex Cirielli. Non ha alcuna colpa. In realtà, i procedimenti finiti in prescrizione dal 2005 al 2012 sono andati diminuendo. La legge è andata in vigore alla fine del 2005, e quell'anno si è chiuso con 183.224 reati prescritti. Nel 2012 la cifra era calata a 123.078. È vero che poi nel 2013 e 2014 il dato è tornato ad aumentare (per l'esattezza a 123.078 e a 132.296). Però è clamorosamente falso che da dieci anni a questa parte ci sia un costante aumento delle prescrizioni. Perché rispetto al 2005 siamo ancora sotto di oltre 50 mila reati. Passiamo allora agli avvocati: sono loro i colpevoli? Nemmeno per idea. Sommando tutte le prescrizioni intervenute dal 2005 al 2014, il totale è di 1.454.926 reati e procedimenti prescritti. Sapete in quale fase processuale è andato in prescrizione il reato? Nel 70,7% dei casi, durante le indagini preliminari: per l'esattezza, in1.028.685 casi. Insomma, è accaduto quando gli avvocati non possono praticamente agire, quando tutto o quasi è nelle mani del pubblico ministero. Questa percentuale, semmai, dovrebbe far pensare quanti difendono come intoccabile il principio costituzionale dell'obbligatorietà dell'azione penale. Se oltre 1 milione di processi è abortito in dieci anni già prima del rinvio a giudizio dell'imputato, un motivo ci sarà. I motivi sono fondamentalmente due. O sono i pubblici ministeri che si accorgono troppo tardi dei reati. O sono i pubblici ministeri che lavorano male, lasciando nei cassetti i processi che importano poco loro. 

L'eredità di Ermes ai rom che lo avevano derubato. Il suo "patrimonio" consiste unicamente in una casupola e un magazzino sgarrupato del valore di poche migliaia di euro, scrivono Nino Materi e Giuseppe De Lorenzo, Sabato 07/11/2015, su “Il Giornale”. Assegnata ai due rom-ladri l'eredità di Ermes Mattielli. Cioè l'uomo che era stato derubato (da quegli stessi due rom-ladri) per ben 20 volte. Diventa ancora più tragicamente paradossale la storia del 63enne robivecchi vicentino, morto due sere fa di infarto. Un malore provocato anche dallo stress per una vicenda giudiziaria assurda. Lui condannato a 5 anni per essersi difeso da una coppia di nomadi entrata in casa la sera del 13 giugno 2006 nella sua abitazione nel paese di Arsiero (Vicenza). Mattielli spara, li ferisce. Viene incriminato per tentato omicidio, mentre i due zingari se la cavano con una condanna a 4 mesi. Entrambi restano liberi. Liberi di continuare a rubare. Ma ora, forse - e questa sarebbe l'ennesima beffa - liberi addirittura di andare ad abitare nella catapecchia di Ermes: la stessa baracca che loro - i rom manolesta - andavano periodicamente a «ripulire» dei miseri averi di Mattielli. Ermes, oltre ai 5 anni di galera, si è beccato infatti pure una condanna pecuniaria non indifferente: 135 mila euro di risarcimento. Risarcimento a beneficio di chi? Ma dei nomadi che lo andavano sempre a derubare, ovviamente. Ora Ermes è - speriamo per lui - passato a miglior vita. Il suo «patrimonio» consiste unicamente in una casupola e un magazzino sgarrupato del valore di poche migliaia di euro. I familiari di Ermes hanno deciso di rinunciare a cotanti «beni». E così, come prevede la legge, gli immobili passeranno allo Stato che poi provvederà a «girarli» ai nomadi «danneggiati» da Mattielli, i quali potranno usarli come meglio credono: venderli o andarci ad abitare. E giudicate voi se questo non è scandaloso. «Non ci sono genitori, moglie, figli né fratelli o sorelle - spiega l'avvocato di fiducia di Mattielli, Maurizio Zuccollo - credo abbia solo qualche cugino. Ma questi potranno rifiutarsi di ricevere l'eredità, viste le modeste proprietà del rigattiere e quel risarcimento da 135mila euro. Così, in assenza di eredi, lo Stato diventerà proprietario dei beni di Ermes, adoperandosi per il pagamento del dovuto ai rom». «L'art. 596 del codice civile - spiega al Giornale l'avvocato Marco Tomassoni - enuncia che, in mancanza di altri successibili, l'eredità è devoluta allo Stato italiano: l'acquisto avviene di diritto senza bisogno di accettazione e non può farsi luogo a rinunzia». Il secondo comma dell'art. 586 prevede inoltre che lo Stato risponda dei debiti del defunto intra vires (ovvero nei limiti di ciò che ha ricevuto dal defunto stesso) e che «provveda alla liquidazione dell'eredità nell'interesse di tutti i creditori e legatari» che abbiano presentato dichiarazione di credito. Ovvero i due rom, che potranno quindi andare dal notaio per togliere da morto quello che non erano riusciti a rubare a Mattielli in vita. E spostando sullo Stato l'onere del risarcimento. Alla luce di tutto questo bene ha fatto due sere fa Nicola Porro ad aprire la sua trasmissione (Virus, Rai2) con la gigantografia di Ermes Mattielli. Un uomo che in vita ha vissuto da «invisibile», ma la cui «presenza», ora, da morto, pesa sulla coscienza di tutti. L'ultima intervista Ermes l'aveva rilasciata ad Alessandro Mognon del Giornale di Vicenza, diretto da Ario Gervasutti. Parole che, lette oggi, alla luce di questi ultimi sviluppi, appaiono ancora più amare: «Ho una gamba di legno, ma neppure l'invalidità minima. Vivo con l'orto, le galline. Mi hanno messo alla carità. Andavo in giro con l'Ape a raccogliere rottami, sbarcavo il lunario. Adesso devo pagare 135 mila euro. Ma chi li ha mai visti 135 mila euro? Io soldi non ne ho, l'ho detto anche all'avvocato che non posso pagarlo. Vivo con poco più di 100 euro, me li faccio bastare. Oggi ho mangiato quattro patate e du ovi». Racconta Mattielli che per mesi aveva trovato davanti al cancello del magazzino lavatrici e frigoriferi abbandonati: «Pensavo: “guarda 'sti cretini, mi tocca portare tutto all'ecocentro”. Solo dopo ho capito che li mettevano i ladri per salirci sopra e saltare la rete...». Fa vedere dove è successo tutto: «Ecco, li ho trovati qui». Perché non ha sparato un colpo in aria per farli scappare? «Ho visto una luce, ho sparato contro quella. Poi sono sbucati dal buio, erano a due metri da me, ho preso paura. In dieci anni sono venuti 20 volte a rubare. Vengono qui a rubare, da me che ho una gamba di legno. Cosa dovevo fare? Datemi uno stipendio e io lascio spalancate porte e finestre. Dovevano stare a casa loro, quei due. E non sarebbe successo nulla. Ma erano padroni loro, i ladri. A me giudici e avvocati hanno chiesto di patteggiare, ho detto: “neanche morto”. Lo Stato ha pagato il legale ai nomadi che mi hanno derubato, ai ladri». Ladri che ora, forse, vivranno anche nella sua casa. Dopo averla derubata. Per anni. Benvenuti in Italia.

Dopo la morte di Ermes sarà lo Stato a risarcire i due ladri rom. Secondo la legge i rom si approprieranno della casa di Ermes. Intanto l'avvocato di Ermes attacca: "Era preoccupato dal pignoramento", continua Giuseppe De Lorenzo.  Ermes Mattielli è morto d'infarto dopo il calvario giudiziario che lo aveva condannato a 5 anni e 4 mesi di galera. Gli unici ad uscire indenni (e più ricchi) da questa vicenda sono i due ladri rom, che proprio dall'ex rigattiere attendevano i 135mila euro di risarcimento che il giudice ha disposto. Li riceveranno dallo Stato. Sul futuro dell’eredità, quello che è certo è che Ermes non aveva parenti stretti: “Non ci sono genitori, moglie, figli né fratelli o sorelle - spiga l’avvocato di fiducia di Mattielli, Maurizio Zuccollo - credo abbia solo qualche cugino”. Ma questi potranno rifiutarsi di ricevere l’eredità, viste le modeste proprietà del rigattiere e quel risarcimento da 135mila euro. Così, in assenza di eredi, lo Stato diventerà proprietario dei beni di Ermes, adoperandosi per il pagamento del dovuto ai rom. “L’art. 596 del codice civile - spiega a il Giornale l’avvocato Marco Tomassoni - enuncia che, in mancanza di altri successibili, l’eredità è devoluta allo Stato italiano: l’acquisto avviene di diritto senza bisogno di accettazione e non può farsi luogo a rinunzia”. Il secondo comma dell’art. 586 prevede inoltre che lo Stato risponda dei debiti del defunto intra vires (ovvero nei limiti di ciò che ha ricevuto dal defunto stesso) e che “provveda alla liquidazione dell'eredità nell'interesse di tutti i creditori e legatari” che abbiano presentato dichiarazione di credito. Ovvero i due rom, che potranno andare dal notaio per togliere da morto quello che non erano riusciti a rubare a Mattielli in vita. E spostando sullo Stato l’onere del risarcimento. Secondo l'avvocato del pensionato di Arsiero, Maurizio Zuccolo, l'infarto di Ermes si inserisce in un momento di grossa preoccupazione per il rischio che la sua casa - l'unica cosa di cui disponeva - gli venisse tolta per risarcire i rom. "Era preoccupato per il futuro, aveva paura gli pignorassero la casa per pagare i 135mila euro: era preoccupato come può esserlo chiunque si trovi in quella situazione". Si può comprendere. Resta l'amarezza di una vicenda nata nel segno di due rom delinquenti (ed ora più ricchi) e finita con la morte di un onesto cittadino. Non può non indignare.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del CSM sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

Gli errori fatti dai giudici? Ecco quanto ci sono già costati, scrive Franco Bechis, su “Libero Quotidiano”. È una piccola città, composta da 22.689 cittadini italiani censiti al 24 settembre 2014. E in questo momento assai vicina alle 24 mila persone. Sono i perseguitati dalla giustizia italiana, cittadini mandati dietro alle sbarre senza motivo dal 1992 ad oggi. Errori dei pubblici ministeri, che hanno fatto scattare le manette ai loro polsi prendendo un abbaglio. Non un errore casuale: una città. Probabilmente le vittime della giustizia sono ancora di più, perché il tristissimo elenco numerico è compilato dal ministero dell’Economia: i ventiquattromila sono quelli che dopo avere subito l’ingiusta detenzione non si sono limitati ad accettare le scuse, ma hanno avuto la possibilità di pagarsi un avvocato, fare ricorso e ottenere un risarcimento. Per questo il loro elenco è conservato da Pier Carlo Padoan e non dal ministro della Giustizia, Andrea Orlando: le casse dello Stato hanno dovuto pagare loro, per l’errore e spesso la sciatteria dei magistrati, la bellezza di 567 milioni di euro dal 1992 ad oggi. Ogni anno c’è un migliaio di casi così, qualche volta anche il doppio. E il Tesoro è costretto a sborsare 20, 30, 40 perfino 55 milioni di euro l’anno per mettere una toppa ai guai combinati da magistrati faciloni: è diventato un problema di finanza pubblica. Questo conto è assai salato perché lo è il risarcimento a chi è stato in carcere ingiustamente anche solo in custodia cautelare. Ma sale per le casse dello Stato accompagnato dai risarcimenti per la legge Pinto sulla ingiusta durata dei processi, dalle condanne continuamente ricevute dall’Unione europea per lo stesso motivo e per l’incredibile ritardo con cui vengono pagati anche quei risarcimenti alle vittime della mala giustizia. Oltre a quella piccola città - evidenziata nella tabella qui in pagina - c’è anche un’altra cifra che fa tremare le vene ai polsi: 30,6 milioni di euro che lo Stato ha dovuto pagare negli stessi anni a 100 vittime di errori giudiziari: casi in cui non solo hanno sbagliato pm, gip, tribunali del riesame, ma anche le corti di primo e secondo grado e perfino la Cassazione. Sentenze divenute definitive, e poi un nuovo evento, magari una confessione improvvisa, svelano che il colpevole era invece innocente. I risarcimenti dipendono dai mesi o anni di carcere ingiusto patito, ma queste come le altre cifre sono la vera vergogna della giustizia italiana. Casi che sembravano negli anni scorsi per lo meno ridursi, e che invece nell’ultimo biennio sono tornati a lievitare. In tutto il 2013 erano 24,9 milioni i risarcimenti pagati per ingiusta detenzione. In otto mesi e mezzo dell’anno successivo si era già a 22,2 milioni di euro, e probabilmente l’anno si è chiuso sopra i 29 milioni di euro. Da fonti ufficiose abbiamo appreso che la stessa voce al 30 luglio 2015 era già arrivata a 20,9 milioni di euro di risarcimenti pagati. Con quel trend quest’anno si chiuderà intorno ai 35 milioni di euro. Al ministero custodiscono gelosamente la divisione per uffici giudiziari di questi casi. Ma da fonti attendibili abbiamo saputo che ai vertici della classifica si trovavano procure ben note alle cronache giudiziarie. I risarcimenti avvengono normalmente 4-5 anni dopo gli errori, e fino al 2013 ai primi posti di questa classifica del disonore c’erano gli uffici giudiziari di Potenza, poi soppiantati nel 2014 e soprattutto nel 2015 dagli uffici giudiziari di Napoli. Chissà se è l’effetto del passaggio da una procura all’altra di un pm protagonista di indagini che hanno fatto molto discutere (e portato a scarsi risultati processuali) come John Henry Woodcock. Ma il dato numerico è proprio quello. Nella tabella del ministero esiste una voce in uscita, ma non una in entrata. Chi ha compiuto quegli errori giudiziari non paga un centesimo di quello che lo Stato deve versare. Spesso non paga nemmeno sotto il profilo disciplinare, nonostante la legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Il fatto è che quasi sempre questi incredibili casi vengono trattati nascondendo la polvere sotto classico tappeto di casa. I magistrati sbagliano, ma non pagano. A settembre proprio questo sarà uno dei temi principali da affrontare sulla giustizia. Il Nuovo Centrodestra ha depositato alcuni emendamenti a un disegno di legge governativo che rendono obbligatoria l’azione disciplinare nei confronti di qualsiasi magistrato abbia causato un risarcimento per ingiusta detenzione o un errore giudiziario. Il Pd sta facendo resistenza, a difesa della corporazione dei magistrati e fregandosene di quella città di vittime della giustizia. Ma la battaglia è all’inizio.

Fbi, il grande inganno degli esami truccati per incastrare gli imputati. Bufera sugli investigatori americani. I controlli sospetti hanno ingiustamente mandato a morte 32 persone, scrive Vittorio Zucconi su “La Repubblica”. Morire per un capello, nell'illusione della pseudoscienza investigativa piegata agli imperativi della politica e di indagini che devono produrre un colpevole a tutti i costi e persino ucciderlo: è la morale raggelante della scoperta che l'Fbi ha sopravvalutato, male interpretato o addirittura truccato per anni migliaia di "prove" costruite sull'esame dei capelli. Prima che la genetica smentisse, con gli esami del Dna, decine di sentenze rivelando l'innocenza dei condannati, il Federal Bureau of Investigation aveva individuato nei capelli trovati sui luoghi del delitto, più attendibili delle controverse impronte digitali, una della direttissime per identificare i responsabili. Ma dopo un riesame minuzioso condotto dalla Associazione Nazionale degli Avvocati Difensori, la Nacdl, e dal "Progetto Innocenza", emerge che l'Fbi ha barato quasi sempre a favore dell'accusa utilizzando l'esame microscopico dei capelli. Trentadue imputati furono condannati a morte e quattordici di loro giustiziati, sulla base di queste presunte prove truccate. L'espressione che l'inchiesta condotta sui processi prima del 2000 e pubblicata ieri dai media americani come il Washington Post è volutamente cauta, per non creare l'impressione che la massima agenzia investigativa del governo federale e la sola nazionale bari al gioco terribile della verità giudiziaria: l'Fbi ha overstated, si dice, ha esagerato, ha sopravvalutato le evidenze probatorie cercate con il microscopio nei capelli e nei peli sui luoghi del delitto, offrendo agli investigatori, all'accusa, alle giurie popolari certezze che certezze non erano. Ma le parole non possono cambiare i numeri che sono raggelanti. Nei 268 casi nei quali i capelli sono stati usati contro l'imputato l'Fbi ha portato in dibattimento prove che non erano prove, elementi fasulli. Nel 95 per cento dei casi studiati, l'errore è andato a favore dell'accusa, contribuendo alla sentenza di colpevolezza. Soltanto raramente l'errore, che sempre e comunque è possibile, ha portato all'assoluzione. Sono dati, comunque parziali perché ancora le polizie e le procure della repubblica rifiutano di aprire gli archivi su 1200 processi, che tendono a confermare il classico sospetto di ogni avvocato difensore e di ogni imputato, che la macchina investigativa, l'apparato della Giustizia siano costruiti intenzionalmente non per portare alla determinazione della colpevolezza o della non colpevolezza, ma per raggiungere a ogni costo una sentenza di condanna. L'Fbi, che dopo i decenni della implicita, autocratica certezza di infallibilità che il suo creatore e zar, J. Edgar Hoover aveva creato con instancabile propaganda, ha risposto, insieme con il Ministero della Giustizia, che il Bureau, come tutti i magistrati inquirenti e i tribunali "sono fortemente impegnati a perfezionare e rendere ancora più accurate le analisi dei capelli, così come l'applicazione di tutte le scienze forensi ". Mentre tutti i condannati in processi basati sull'esame dei capelli saranno informati dei possibili errori giudiziari. Un impegno che sarà di poco conforto per i quattordici uomini già passati attraverso le camere della morte nei penitenziari. La rivelazione, che si aggiunge alle vicende di detenuti, alcuni addirittura da anni nei bracci della morte, scagionati completamente dai nuovi test sul Dna, non certifica la fallibilità dei test sui capelli, ma fa di peggio: insinua il dubbio che l'Fbi, come le Procure, le polizie, la pubblica accusa giochino a carte truccate pur di ottenere prima l'incriminazione e poi la condanna dell'accusato. E così giustificare davanti a elettori che chiedono "giustizia" indagini e celebrazioni di processi, valutate positivamente soltanto se portano a una condanna. I prosecutor, i magistrati dell'accusa, sono misurati in funzione delle sentenze di colpevolezza che riescono a ottenere. Il principio del dubbio pro reo, che deve valere nelle aule di giustizia quando il procedimento è pubblico, non vige nei laboratori delle analisi scientifiche dove, se questi dati sono concreti, sembra funzionare l'esatto opposto: nel dubbio, si va contro il presunto reo. Un dubbio che apre un altro, amarissimo capitolo nell'amministrazione della Giustizia anche nelle nazioni apparentemente più garantiste e rispettose dei diritti dell'accusato e dell'imputato. Che siano i soldi e non la scienza ha determinare l'esito di un procedimento. Nel sospetto che anche le prove e gli indizi qualificati con la solennità della scienza siano piegati alla soggettività di chi investiga e conduce l'accusa "nel nome del popolo", la difesa deve ricorrere a controanalisi e controperizie capaci di confutare, o almeno di mettere in discussione le conclusioni degli accusatori. Un diritto che ha un enorme e ovvio limite nei costi: non tutti gli imputati possono permettersi le batterie di contro analisi forensi e quelli che non possono si devono affidare al lavoro di agenzie governativa teoricamente al di sopra delle parti. Una semplice, quanto evidente spiegazione del perché sia molto più facile mandare in carcere o al patibolo i poveri e sia più facile scampare, per i ricchi. Eppure anche i meno ricchi pagano le tasse che finanziano il lavoro dei funzionari governativi che li trascinano in carcere tirandoli per i capelli.

Ed in Italia?

C'è l'Italia a 5 stelle. Casaleggio vuole processi infiniti per tutti. Casaleggio: le prime tre cose che faremo al governo. «Via prescrizione» Grillo: «Come? Ho 40 processi aperti». Botta e risposta (a distanza) tra il guru e il comico. Tra i primi punti: “Per la pubblica amministrazione sceglieremo sulla base della fedina penale", scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 18 ottobre 2015. Inizia con Casaleggio che fa un giro per gli stand della piazza grillina di Imola. Pochissime parole, circondato da un servizio d’ordine severissimo, il guru del Movimento ha aggiunto qualche elemento in più rispetto a quanto detto dal palco di sabato sera, quando ha spiegato che la squadra di governo dei 5 stelle sarà scelta dagli iscritti. «Tra i primi punti del nostro programma (che sarà anch’esso votato dalla base come annunciato sabato sera, ndr), c’è eliminare la corruzione con gli onesti». Un refrain del Movimento dunque. Ma poi Casaleggio, dopo aver dribblato le domande sull’abolizione del nome di Grillo dal logo, va oltre con un annuncio più sostanzioso «Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione», dice a voce bassissima. Una notizia che però non piace troppo a Grillo. Ai microfoni di CorriereTv, il comico (anzi, l’Elevato come ha chiesto di essere chiamato ieri) sbotta: «Come abolire la prescrizione? Io c’ho 40 processi». Poi scherza e, a un cronista che gli chiede delle unioni civili, dice: «1,2,3 al mio tre ti dimenticherai le domanda». Il tutto mentre una signora tenta di baciarlo e la sicurezza la respinge in malo modo. È ancora Casaleggio a dare le risposte più politiche, ossia «mettere persone oneste nelle amministrazioni». E Il primo criterio sarà «la fedina penale», i sospettabili non sarà possibile sceglierli. A scegliere persone e proposte, ancora una volta saranno gli attivisti, attraverso la piattaforma «che è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi». Il problema sarà piuttosto fare una sintesi, è l’ammissione del guru che annuncia anche dei miglioramenti sulla piattaforma. Sui tempi Casaleggio non si sbottona. Ma assicura che lo stesso sistema sarà applicato anche per scegliere i candidati sindaco. Insomma, si preannuncia vivace la seconda e ultima giornata della kermesse grillina. E c’è anche una piccola contestazione, «chiedetegli ai grillini quanto hanno pagato per l’affitto dell’autodromo!», dice un ragazzo in rollerblade e poi scappa via. Mentre la piazza aspetta il gran finale di stasera con Alessandro Di Battista. All’ora di pranzo, Grillo torna sul palco e grida: «Non siamo un movimento siamo una finanziaria della Madonna». E poi ripete: «Siamo l’arca di Noè, siamo la salvezza. E pensate quando la moglie di Noè gli diceva che cazzo stai facendo?», scherza. Poi cita Bob Kennedy (il Pil non è indicatore di benessere). Ma anche Willy il Coyote (“che corre anche quando non c’ha il terreno sotto i piedi”) ma anche le amebe osservate da uno studioso giapponese che ad un certo punto hanno iniziato a muoversi («Sono come me e Casaleggio»). E il filo rosso della kermesse di Imola rimane l’utopia: «Non abbiamo bisogno di leader e di guru. E nemmeno di Elevati. Abbiamo bisogno di un paese in cui i nostri figli vogliano rimanere».

 M5S, Casaleggio: "Se andiamo al governo eliminiamo la prescrizione", scrive “Libero Quotidiano”. "La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l'onestà, mettere mano alla giustizia ed eliminare la prescrizione". Lo ha detto Gianroberto Casaleggio rispondendo dalla festa dei 5 Stelle a Imola ai giornalisti che gli chiedevano le prime tre cose da fare se il Movimento 5 Stelle andasse al governo. Poi, ha proseguito Casaleggio, "bisogna mettere persone oneste nelle amministrazioni scelte in base alla fedina penale. I sospettabili - ha sottolineato - non sarà possibile sceglierli". "Casaleggio? Pura follia" - "La proposta di Casaleggio è pura follia. Con la lentezza dei processi in Italia e con l'uso politico che si fa della giustizia nel nostro Paese, eliminare la prescrizione vorrebbe dire tenere ogni singolo cittadino in ostaggio per tutta la vita", è il commento di Elvira Savino, deputata di Forza Italia. "Le parole dello stratega della comunicazione di Grillo - aggiunge Savino - dimostrano tutta la pericolosità del Movimento 5 stelle, profondamente illiberale e fondato sul giustizialismo. Il grillismo è un riadattamento ai tempi moderni di quel dipietrismo che è già fallito e che tanti danni ha prodotto al nostro Paese". «I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo» aggiunge la collega di partito Gabriella Giammanco.

Il fatto che qualcuno additi qualcun altro di essere ladro è storia vecchia.

COLPA DEI PROCESSI INDIZIARI...

Colpa dei processi indiziari. Colpa dei processi indiziari (se c'è chi sbaglia a indagare, a periziare, a sentenziare... e troppi innocenti vengono spediti in carcere e uccisi psicologicamente sui media). Gli sbagli della giustizia moderna denunciati dal dottor Imposimato già sei anni fa...Colpa dei processi indiziari. Di Ferdinando Imposimato su “Albatros Volando Controvento” del 28 dicembre 2015. Bisogna anzitutto partire da un dato. Nella realtà processuale, nell’esame dei diversi casi giudiziari, esistono due verità antitetiche: una verità reale e una processuale. Queste due verità non coincidono quasi mai. L’obiettivo fondamentale del giudice consiste nel fare emergere la verità storica, affinché tra questa e il giudizio finale vi sia una perfetta coincidenza. Questo risultato, tuttavia, difficilmente viene raggiunto per una serie di ragioni sia di ordine processuale che professionale. L’aspetto drammatico del processo è che il giudice, nel conflitto tra le due verità, è tenuto a seguire soltanto e semplicemente quella processuale. Questa contraddizione può manifestarsi in due modi: il giudice può avere la convinzione morale della colpevolezza della persona imputata nei confronti della quale però manchino le prove o queste non siano sufficienti. In questo caso il giudizio non può che essere di assoluzione. Nel secondo caso, il giudice può avere l’intima convinzione dell’innocenza di una persona, ma le prove processuali – testimonianze, riconoscimenti, perizie – depongono contro l’imputato. La conseguenza è drammatica: la condanna di un imputato è “giusta” sul piano processuale ma ingiusta su quello sostanziale. E’ la tragedia dell’Enrico VIII di Shakespeare, nella quale il duca di Buckingham, condannato a morte per le accuse calunniose dei suoi servi, non impreca contro i giudici ma ne accetta il verdetto: “Non nutro rancore contro la legge per la mia morte: alla stregua del processo essa doveveva infliggermela, ma desidero che coloro che mi hanno accusato divengano più cristiani…”. Il giudice deve decidere solo in base alle emergenze processuali. Anche se intuisce la verità reale, egli ha l’obbligo di applicare la legge, quindi di tener conto delle risultanze processuali che molto spesso, portano lontano dalla verità reale. Rispetto a quest’ultima, le deviazioni sono dipendenti da diversi fattori: da errori dei testimoni nella percezione della verità (si confonde una persona con un’altra), degli investigatori nella ricerca delle prove, dei periti nella ricostruzione di un fatto storico, del giudice nell’esercizio del metodo deduttivo con il quale si risale da un fatto certo ad un altro fatto. Una deviazione assai frequente della verità storica è quella che nasce da perizie medico legali e psichiatriche errate. Nel caso di un delitto con autore ignoto e con molti sospettati, l’affermazione da parte del perito medico legale che si tratta dell’opera di un sadico, di un maniaco sessuale che ha certe caratteristiche fisiche e psichiche (si presume in alcuni casi di definire l’altezza e la corporatura dell’ignoto autore!!), unita alla conclusione del perito psichiatrico che la persona soprattutto è un soggetto che ha quelle caratteristiche descritte dal medico legale, producono come conseguenza pericolosa l’errore del giudice. Nella mia non breve esperienza, non è stato infrequente l’errore dei periti psichiatrici d’ufficio (cioè nominati dal giudice) nell’accertamento della “capacità di intendere e/o di volere di un soggetto”. Sovente essi hanno affermato che il soggetto rientrava in una certa categoria che era proprio quella nella quale il pubblico ministero aveva collocato l’autore del delitto. Ma non è stato raro il caso del privato che ha assecondato l’orientamento sbagliato della pubblica opinione. I periti, insomma, compiono spesso il loro lavoro sotto la spinta di fattori emotivi, di elementi extrascientifici che li conducono a conclusioni lontane dalla verità. E questa è una delle cause più frequenti dell’errore giudiziario. Non mi riferisco soltanto ai periti psichiatrici, ma anche a quelli balistici, grafici, ai medici legali in genere. Le perizie, specialmente nei grandi processi, sono un dato costante della ricerca della verità. Molto spesso allontanano dalla verità perché compiute da persone che non sono in grado di far bene il proprio lavoro – anche se solo raramente si tratta di persone in malafede. Esempio classico: nell’esame ordinato per l’omicidio del giudice Emilio Alessandrini ci fu un perito che affermò, con certezza assoluta, che l’arma che aveva sparato il proiettile mortale contro il giudice era una certa pistola. Siccome questa pistola proveniva da un certo terrorista, che era un uomo che aveva commesso un altro omicidio, il giudice disse: “Questo è l’uomo che ha ucciso Alessandrini”. Senonché, a distanza di quattro o cinque anni, venne fuori il vero assassino che confessò, aggiungendo di aver sparato con un’altra pistola. Altri periti, in seguito, confermarono che il primo aveva sbagliato. Da allora mi resi conto che quell’uomo avrebbe potuto subire un ergastolo per via di una perizia sbagliata, e che se non fosse venuto fuori il vero autore dell’omicidio, quell’errore non sarebbe mai stato scoperto. Ma il problema è che non sempre vengono fuori i veri autori di un crimine. Molto spesso, poi, il giudice non è in grado – un po’ per incapacità, un po’ per superbia, un po’ per gli errori altrui – di cogliere l’errore. Di qui le tragedie che si verificano: il numero degli errori giudiziari è molto superiore a quello che viene normalmente percepito nella realtà. Un’altra causa molto frequente di errore è costituita dai riconoscimenti personali: è molto facile che siano sbagliati. Nell’istruire il caso Moro, ricordo di aver ascoltato personalmente cinque o sei testimoni che affermavano con assoluta certezza di aver visto in via Fani un terrorista la cui descrizione corrispondeva a Corrado Alunni. Quest’ultimo, inevitabilmente, ricevette un mandato di cattura per concorso nel sequestro e nell’omicidio di Aldo Moro. Senonché, per sua fortuna, presto vennero fuori i veri autori della strage di via Fani, che esclusero categoricamente che Alunni fosse presente; in secondo luogo, non fu difficile appurare che egli, il giorno del sequestro, era detenuto. Ecco, questa vicenda rappresenta il classico esempio di errore compiuto dal giudice, ma provocato dall’errore altrui: il giudice è infatti obbligato a tener conto delle testimonianze di persone della società civile, disinteressate e che non conoscendosi tra loro facciano il medesimo riconoscimento personale nel rispetto delle garanzie stabilite dalla legge, quando per giunta affermano qualcosa “con assoluta certezza”. Un altro caso, legato all’omicidio di Girolamo Tartaglione: una ragazza confessò di essere responsabile dell’assassinio, chiamando in correità altre due persone. Nel leggere il testo della confessione di questa ragazza – molto precisa e dettagliata – mi resi conto che si trattava di un falso, per un paio di particolari rivelatori. Non volli accettare quella “verità” processuale, condivisa invece dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e dal pubblico ministero. Non volli assecondare la tesi della stampa che parlava di brillante soluzione del caso Tartaglione. Ero convinto, sulla base di due dati oggettivi, che la verità processuale emersa fino a quel momento non fosse corretta. Riuscii, col tempo, a convincere la donna a ritrattare e ad affermare che aveva confessato il falso. Per fortuna, perché poco tempo dopo vennero fuori i veri autori dell’omicidio (Valerio Morucci e Adriana Faranda). Ebbene, questo esempio serve a dimostrare ciò che vado da sempre ripetendo: la confessione non è “la madre di tutte le prove”, perché può accadere che anch’essa sia fonte di errore. Che cosa può consentire di capire quando qualcuno dica il vero e quando il falso? La professionalità di un giudice o di un investigatore, indipendentemente dall’esistenza di altri elementi che possano smentirlo. Uno dei più gravi fattori capaci di provocare l’errore giudiziario è poi la presenza, nel nostro ordinamento, del principio del libero convincimento del giudice (sancito dall’art.192 del codice di procedura penale). L’esistenza di un fatto può essere desunta non soltanto dalla prova, ma anche dagli indizi, purché siano gravi, precisi e concordanti. In realtà, l’art.192 afferma una regola – il fatto non può essere provato se non attraverso la prova legale – che prevede una sola eccezione: la presenza di indizi che abbiano le tre caratteristiche sopra accennate. Ma la realtà del nostro ordinamento è purtroppo diversa: l’eccezione è diventata una regola. I procedimenti sono ormai quasi tutti indiziari. Che cos’è un indizio? Un fatto desunto dall’esistenza di un altro fatto. In pratica, il risultato di una deduzione logica. E qui veniamo all’errore, perché troppo spesso l’indizio non è altro che un sospetto che si è trasformato in un indizio, prima di trasformarsi ulteriormente in prova. Questo è un grave vizio dell’ordinamento giudiziario del nostro paese, capace di portare alle situazioni processuali assurde e inaccettabili così frequenti nei tribunali italiani. Per molti casi clamorosi – piazza Fontana, strage di Bologna, omicidio Chinnici, comunque per il 60-70 per cento di fatti di straordinaria gravità – si sono avute decisioni contraddittorie a livello di giudici di merito: non dunque in Cassazione, ma tra il primo e il secondo grado di giudizio. Sentenze di condanna rovesciate in pronunciamenti assolutori, sulla base degli stessi elementi in punto di fatto. Molto spesso, un medesimo quadro probatorio è giudicato in maniera differente: sugli stessi elementi si pronunciano in maniera opposta i giudici di primo e quelli del secondo grado. Ma questo non può essere, perché gli elementi di prova devono essere valutati in modo uniforme da tutti i giudici. In caso contrario, si potrebbe parlare di un fatto arbitrario. Certo, in presenza di ulteriori elementi che completino, migliorino, rettifichino un certo quadro, d’accordo; ma quando questo quadro è esattamente lo stesso, allora vuol dire che c’è qualcosa che non va. Un qualcosa rappresentato proprio dal principio del libero convincimento del giudice, in virtù del quale alcuni giudici considerano certi indizi né gravi, né precisi, né concordanti; altri giudici, invece, si pronunciano in senso opposto. A questo punto, una serie spaventosa di errori giudiziari diventa inevitabile. Per quel che mi riguarda, credo purtroppo di aver quanto meno contribuito a commettere errori giudiziari, nella mia veste di giudice istruttore, organo monocratico che – secondo il vecchio rito penale – doveva ricostruire la verità nel corso della fase più difficile, quella della verifica delle prove raccolte dalla polizia o offerte dal pubblico ministero. Ma, potendo contare su una fortissima personalità, non mi è mai capitato di venire influenzato dalla polizia o dal pm. Molto spesso, anzi, mi è capitato di ricostruire un fatto in maniera decisamente diversa da quella seguita dal pubblico ministero. Perché sono convinto che anche quelle che sembrano verità elementari e pacifiche debbano sempre essere verificate. Esistono rimedi concreti al problema dell’errore giudiziario? A mio avviso, il vizio è ineliminabile. Al massimo lo si potrà ridurre, puntando verso due distinte direzioni. Da un lato, la professionalità del giudice, vale a dire la formazione del magistrato, la valutazione delle sue capacità, che non consistono soltanto nella conoscenza tecnica del diritto, ma anche nel saper ricostruire la verità attraverso la valutazione critica di tutte le prove. Una maggiore professionalità che va però richiesta anche ai periti, per evitare valutazioni errate capaci di pregiudicare il corretto andamento processuale e di generare errori giudiziari. Dall’altro lato, il libero convincimento del giudice: un principio da rivedere, prendendo spunto da altri sistemi (per esempio, quello anglosassone) nei quali la deduzione logica non ha valore probatorio, che è riservato invece esclusivamente a un elenco tassativo, sancito dalla legge. Senza essere esterofili – perché anche gli ordinamenti degli altri paesi sono caratterizzati da vizi di diverso tipo – ritengo che la possibilità di trasformare in prova un semplice indizio – il più delle volte privo di qualsiasi rilevanza probatoria – rappresenti un nodo che deve essere risolto prima possibile. Il rischio che una persona possa essere arrestata sulla base di elementi labili, che poi possono essere valutati o svalutati secondo l’umore del giudice di turno, è una delle circostanze maggiormente deprecabili del nostro sistema. Un dato che contribuisce ad affievolire la certezza del diritto. Ma l’errore ha anche altre radici, delle quali si discute molto negli ultimi anni. La più importante è l’interpretazione della legge contro l’intenzione del legislatore, come conseguenza della violazione stessa del principio dell’imparzialità del giudice. L’attività politica del giudice all’inevitabile scontrarsi delle ideologie a scapito della verità e dell’uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge. L’opinione di Cesare Beccaria circa l’arbitrio lasciato ai giudici, dal principio del libero convincimento, di orientarsi nell’interpretazione delle leggi recando le loro filosofie sociali e politiche illuminate: “Il sovrano sarà il legittimo interprete delle leggi, perché è il depositario delle libertà di tutti, non il giudice il cui ufficio è solo l’esaminare se il tal uomo abbia fatto, o non, un’azione contraria alle leggi. Non v’è cosa più pericolosa di quell’assioma che bisogna consultare lo spirito della legge. Questo è un argine rotto al torrente delle opinioni. Questa verità, che sembra un paradosso alle menti volgari più percosse da un picciol disordine presente che dalla funeste ma remote conseguenze che nascono da un falso principio radicato in una nazione, mi sembra dimostrata”. E poi Beccaria traccia il quadro delle storture che derivano da un’interpretazione legata alle opinioni soggettive dei giudici: Le nostre congnizioni e le nostre idee hanno una reciproca connessione: quanto più sono complicate, tanto più numerose sono le strade che ad esse arrivano e partono. Ciascun uomo ha il suo punto di vista, ciascun uomo in differenti tempi ne ha uno diverso. Lo spirito della legge sarebbe dunque il risultato di una buona o di una cattiva logica del giudice, di una facile o malsana digestione, dipenderebbe dalla violenza delle sue passioni, dalla debolezza di chi soffre, dalle relazioni del giudice con l’offeso, e da tutte quelle minute forse che cangiano le apparenze di ogni oggetto nell’animo fluttuante dell’uomo. Quindi veggiamo la sorte di un cittadino (colpevole o innocente, nda) cangiarsi spesse volte nel passaggio che fa a diversi tribunali, e le vite dei miserabili essere vittime dei falsi raziocinii, o dell’attuale fermento degli umori di un giudice, che prende per legittima interpretazione il vago risultato di tutta quella confusa serie di nozioni che gli muove la mente. Quindi veggiamo gli stessi delitti dallo stesso tribunale puniti diversamente in diversi tempi per aver consultato non la costante e fissa voce della legge, ma l’errante instabilità delle interpretazioni”. (C. Beccaria: “Dei delitti e delle pene”). Ludovico Antonio Muratori espresse un giudizio analogo e ancora più pessimistico sulla giustizia affermando che “misera è la condizione di chi deve litigare, egli si crede di andare a picchiare alle porte della giustizia, né si accorge che va a mettere il suo alla ventura di un lotto”. E questa condizione si ripete in tutti i luoghi e in tutti i tempi. Il nostro compito è quello di combatterle essendo sempre pronti a riconoscere l’errore. Prima di concludere mi viene alla mente l’immagine del giovane arrestato dalla magistratura come “mostro di Merano”. Il suo volto muto e disperato deve indurre alla riflessione. Luca Nobile era stritolato nella macchina della giustizia e non aveva voce per gridare la sua innocenza. Solo la ripetizione degli omicidi da parte del vero assassino ha salvato l’innocente da una probabile condanna all’ergastolo. La sua unica colpa fu quella di essere somigliante all’autore dei delitti.

I limiti strutturali del processo indiziario, scrive Luca Cheli. La natura del processo indiziario nel diritto penale italiano ha origine nella distinzione tra “prova diretta o storica” e “indizio” in quanto elementi di prova. Cercando di non complicare troppo le definizioni, a cui sono stati dedicati interi libri, la prova diretta o storica è la rappresentazione diretta del fatto da provare (tramite fotografia o testimonianza, per esempio), mentre l’indizio e un fatto (certo nella sua esistenza, almeno in teoria) dal quale può essere inferenzialmente dedotto il fatto da provare. Anche la prova diretta non è automaticamente “verità sicura”, perché le testimonianze devono essere valutate nella loro credibilità e le fotografie (per esempio) nella loro autenticità. Tuttavia, se tre persone vedono da pochi metri di distanza Tizio sparare a Caio e una delle tre persone riprende pure l’atto con il proprio smartphone, si può dire, una volta verificato che i testimoni non hanno motivo di mentire o di coalizzarsi contro Tizio e che il filmato ripreso non è stato alterato in qualche modo, che la colpevolezza di Tizio è provata oltre ogni ragionevole dubbio. Se invece il teste Uno riferisce di dissapori tra Tizio e Caio, il teste Due di aver visto, poco prima del fatto, Tizio vicino alla zona dove Caio è stato ucciso ed il teste Tre di aver sentito una volta Tizio parlare di una vecchia pistola che suo nonno aveva sottratto ai tedeschi in ritirata durante la Seconda Guerra Mondiale, allora siamo in presenza di indizi. Questo perché nessuna delle tre testimonianze è diretta rappresentazione del fatto da provare (che Tizio abbia sparato a Caio), ma ognuna riporta un fatto noto e certo (ma su questo torneremo), dal quale si potrebbe dedurre che Tizio abbia effettivamente sparato a Caio: perché ne aveva il movente (dissapori), il mezzo (pistola del nonno) e l’opportunità (è stato visto nelle vicinanze della zona del delitto poco prima che questo avvenisse). In questo secondo caso il processo a Tizio per l’omicidio di Caio sarebbe un processo indiziario. Ho volutamente presentato un caso di processo indiziario molto “semplice” che probabilmente farà propendere la maggioranza dei lettori per la “probabile” colpevolezza di Tizio. Ma persino così le cose non sono affatto “semplici”. In effetti, cosa lega i tre fatti noti (forniti dai tre testimoni) al fatto ignoto da provare (Tizio ha o non ha sparato a Caio)? Essenzialmente la nostra (del lettore o del giudice fa poca differenza) logica, ovvero il modo in cui la nostra mente ritiene che da certi fatti ne debbano, con maggior o minore probabilità, derivare degli altri. Insomma molti di noi penseranno che se Tizio ce l’aveva con Caio, se aveva una pistola ed era pure stato visto vicino alla scena del crimine poco prima che lo stesso avvenisse... deve essere con ogni probabilità colpevole. Il ragionamento costitutivo alla base del processo indiziario presenta una certa analogia con la formula che permette, nella geometria euclidea, di ottenere il valore di uno dei tre angoli interni di un triangolo conoscendo l’ampiezza degli altri due. In questa analogia si potrebbe dire che la prova diretta è costituita dalla misurazione diretta dell’angolo di cui vogliamo conoscere l’ampiezza, mentre gli indizi sono costituiti dal valore dell’ampiezza degli altri due angoli interni del triangolo. Ora, nella geometria euclidea i due modi di ottenere il valore di uno degli angoli interni sono equivalenti perché la somma dei tre vale sempre 180 gradi. Abbiamo cioè una regola certa, sicura ed invariante. Ma la realtà delle cose, degli eventi, della vita non fornisce mai la rassicurante certezza delle formule di Euclide. E allora cosa succede? Parlando con un linguaggio diverso e meno aulico rispetto a quello dei tomi di giurisprudenza, dirò che alla fine dei conti si va per “probabilità”, ma una probabilità non quantificata e ben difficilmente quantificabile: un “mi pare”, “mi sembra”, “credo”. Ovviamente nelle motivazioni i giudici togati usano altre espressioni, ma chi ha letto qualche sentenza si ricorderà di espressioni quali “è ragionevole ritenere”, “risulta credibile”, “questo Giudice ritiene” e così via, che sostanzialmente sono la rappresentazione in termini “giuridicamente corretti” (e presentabili) delle valutazioni a spanna di cui sopra. Perché, sia chiaro, i giudici professionisti conoscono senz’altro la procedura e gli aspetti tecnici del diritto meglio di un dilettante, quale l’autore del presente articolo, tuttavia, quando si tratta di applicare la “logica” in un processo indiziario alla fondamentale domanda “colpevole o innocente”, essi non hanno più strumenti del cittadino medio. E d’altronde di cittadini medi è formata la maggioranza (6 su 8) dei membri delle Corti di Assise e di quelle di Appello del nostro Paese. Non per caso, infatti, di “libero convincimento” del giudice parla il nostro ordinamento: per quanto possano essere nobili le origini storiche di quell’espressione, di fatto si parla sempre, in ultima analisi, di una convinzione soggettiva e individuale. Infatti, cosa lega la pistola del nonno di Tizio, la presenza del medesimo nelle vicinanze della zona del crimine e i suoi dissidi con Caio all’omicidio di quest’ultimo? Non c’è nessuna regola dei centottanta gradi, nessuna formula matematica: ci sono solo le nostre considerazioni su cosa riteniamo più o meno probabile o ragionevole. La pistola del nonno potrebbe essere un ferrovecchio arrugginito ed inutilizzabile che Tizio non sa nemmeno più dove sia o che può aver buttato per inutilità dopo averne parlato al teste Tre svariati mesi (o anni) prima del delitto, la presenza di Tizio in prossimità del luogo del crimine una mera coincidenza e i dissapori con Caio la rappresentazione amplificata post omicidio di piccole beghe che ognuno di noi può avere. Una certa linea di pensiero, molto sfortunatamente spesso in Italia fatta propria anche dalla Cassazione, sostiene che gli indizi vanno considerati globalmente, con l’implicito corollario che se anche ognuno di essi può essere spiegato diversamente, quando vengono considerati collettivamente allora assumono un valore probatorio non solo superiore ma addirittura determinante (in una delle peggiori sentenze recenti della Cassazione, questo processo è stato definito “valutazione osmotica”). Con buona pace dei Soloni più o meno variamente togati ed imparruccati di questo mondo, per quanto la presenza di più indizi certamente rafforzi un possibile quadro accusatorio rispetto ad un numero inferiore dei medesimi, ciò che essi vanno a formare è una possibile rappresentazione degli eventi, mai l’unica e spesso neppure la più probabile. Sì, certo, se a casa di Tizio dovesse essere trovata una Luger P08 la cui rigatura della canna coincide con i segni sulle pallottole estratte dal corpo di Caio, e magari pure un diario scritto di proprio pugno da Tizio in cui questi esprime il proprio odio per Caio e lo minaccia ripetutamente di morte, allora direi che la probabilità che Tizio sia colpevole è alta. Ma quanto, in percentuale? Ottanta, ottantacinque, novanta, novantacinque, novantanove per cento? Come potrei quantificarla? E se anche potessi quantificarla, quale sarebbe la “soglia” probabilistica oltre la quale sarebbe giusto condannare? E se, come spesso succede con le perizie, quelle rigature sono solo compatibili con quelle sui proiettili? E se Tizio avesse scritto frasi simili sul suo diario anni prima nei confronti di Sempronio e Calpurnia, senza mai aver poi fatto loro alcun male? Quanto cambierebbero le mie probabilità? Il punto fondamentale, alla fine di tutto, è che non abbiamo alcuna regola certa e matematica; pensiamo di avere una logica, ma anche questa, in ultima analisi, quanto si distingue dalle nostre sensazioni ed impressioni? Un’ultima parola la riservo alle famigerate prove scientifiche, che dovrebbero quantomeno portare qualche saldo elemento numerico-quantitativo nella nebbia probabilistica (ma sarebbe meglio dire “possibilistica”, visto che si parla di probabilità non propriamente quantificabili). Purtroppo, nella realtà delle perizie e consulenze tecniche come esse oggi sono in Italia, la prevalenza di espressioni qualitative quali “compatibilità”, “non incompatibilità”, nonché spesso “opinioni d’esperto” non suffragate da studi quantitativi, non fa che aggiungere altra foschia al già indistinguibile paesaggio della verità fattuale. Gianrico Carofiglio, nella sua opera “L’arte del dubbio” definisce il risultato di un processo come “individuazione di verità accettabili nella prospettiva dell’adozione di decisioni preferibili”. Verità accettabili, decisioni preferibili. E’ un linguaggio che mi suona tremendamente “politico”. Se dovessi decidere di condannare qualcuno a pene detentive, io vorrei avere verità certe e decisioni giuste, altrimenti non me la sentirei mai. Ma certo capisco che se uno ragiona in termini di mantenimento dell’ordine nella società (e questo è un ragionamento politico), allora si può ambire a verità credibili per la società stessa e a decisioni preferibili per l’effetto che esse hanno sulla stabilità della società medesima. Però sia chiaro che stiamo parlando di stabilità e controllo della società, non di giustizia per la vittima, per i famigliari, eccetera, eccetera. Abbandoniamo quindi una certa retorica facile a sentirsi sui giornali e in TV e chiediamoci semplicemente se in realtà non abbiamo bisogno del processo indiziario per scopi di ordine sociale e quindi, in ultima analisi, di stabilità dello Stato. Possiamo anche rispondere positivamente, ma a quel punto non stiamo più facendo giustizia, ma solo politica.

L'INGIUSTIZIA NON E' UNA UTOPIA: E' REALTA'.

GIUSTIZIA INGIUSTA. Boom di innocenti in cella anche nel 2015. La top ten degli errori giudiziari dell’anno. Quattro milioni arrestati ingiustamente In compenso dal ’98 al 2014 gli inquirenti riconosciuti colpevoli sono solo quattro, scrive Luca Rocca il 30 dicembre 2015 su “Il Tempo”. Milioni di persone incarcerate ingiustamente, migliaia le vittime di errori giudiziari, centinaia di milioni di euro per risarcire chi, da innocente, ha subìto i soprusi di una giustizia letteralmente allo sfascio. I numeri che descrivono il penoso stato del nostro sistema giudiziario non lasciano scampo e immortalano uno scenario disastroso a cui nessun governo è riuscito, finora, a porre rimedio. Il sito errorigiudiziari.com, curato da Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi, ha messo in rete i 25 casi più eclatanti del 2015 di cittadini innocenti precipitati nella inestricabile ragnatela della malagiustizia italiana. Casi che contribuiscono a rendere il panorama del nostro impianto giudiziario, come certificano più fonti (Unione Camere Penali, Eurispes, Ristretti Orizzonti, ministero della Giustizia), più fosco di quanto si pensi.

INNOCENTI IN CARCERE. Se dall’inizio degli anni ’90 gli italiani finiti ingiustamente dietro le sbarre sono stati circa 50mila, negli ultimi 50 anni nelle nostre carceri sono passati 4 milioni di innocenti. E se nell’arco di tempo che va dal 1992 al 2014 ben 23.226 cittadini hanno subìto lo stesso destino, per un ammontare complessivo delle riparazioni che raggiunge i 580 milioni 715mila 939 euro, i dati più recenti attestano che la situazione non accenna a migliorare. Come comunicato dal viceministro della Giustizia Enrico Costa, infatti, dal 1992, anno delle prime liquidazioni, al luglio del 2015 «è stata sfondata la soglia dei 600 milioni di euro» di pagamenti. Per la precisione: 601.607.542,51. Nello stesso arco di tempo, i cittadini indennizzati per ingiusta privazione della libertà sono stati 23.998. Nei primi sette mesi del 2015, inoltre, le riparazioni effettuate sono state 772, per un totale di 20 milioni 891mila 603 euro. Nei 12 mesi del 2014, invece, erano state accolte 995 domande di risarcimento, per una spesa di 35,2 milioni di euro. Numeri che avevano fatto registrare un incremento dei pagamenti del 41,3 per cento rispetto al 2013, anno in cui le domande accettate furono 757, per un totale di 24 milioni 949mila euro. In media lo Stato versa circa 30 milioni di euro all’anno per indennizzi. I numeri a livello distrettuale riferiti ai risarcimenti per ingiusta detenzione collocano al primo posto Catanzaro con 6 milioni 260mila euro andati a 146 persone. Seguono Napoli (143 domande liquidate pari a 4 milioni 249mila euro), Palermo (4 milioni 477mila euro per 66 casi), e Roma (90 procedimenti per 3 milioni 201mila euro).

ERRORI GIUDIZIARI. Nel 2014 è stato registrato un boom di pagamenti anche per quanto riguarda gli errori giudiziari per ingiusta condanna. Dai 4.640 euro del 2013, che fanno riferimento a quattro casi, si è passati a 1 milione 658mila euro dell’anno appena trascorso, con 17 casi registrati. La liquidazione, infatti, è stata disposta per più di 1 milione di euro per un singolo procedimento verificatosi a Catania, e poi per altre 12 persone a Brescia, due a Perugia, una a Milano e l’ultima a Catanzaro. Dal 1992 al 2014 gli errori giudiziari sono costati allo Stato, dunque al contribuente italiano, 31 milioni 895mila 353 euro. Ma il ministero della Giustizia, aggiornando i dati, ha certificato che fino al luglio del 2015 il contribuente ha sborsato 32 milioni 611mila e 202 euro.

MAGISTRATI «IRRESPONSABILI». La legge sulla responsabilità civile dei magistrati è stata varata la prima volta nel 1988 e modificata, per manifesta inefficacia, solo nel febbraio di quest’anno. I dati ufficiali accertano che dal 1988 al 2014 i magistrati riconosciuti civilmente responsabili dei loro sbagli, con sentenza definitiva, sono stati solo quattro. Secondo l’Associazione nazionale vittime errori giudiziari, ogni anno vengono riconosciute dai tribunali 2.500 ingiuste detenzioni, ma solo un terzo vengono risarcite. Stefano Livadiotti, nel libro «Magistrati, l’ultracasta», scrive che le toghe «hanno solo 2,1 probabilità su 100 di incappare in una sanzione» e che «nell’arco di otto anni quelli che hanno perso la poltrona sono stati lo 0,065 per cento».

Piangono e strillano. Così i magistrati hanno ottenuto il massimo. Hanno ottenuto il massimo che potevano dopo 28 anni di tradimento del voto popolare espresso a grandissima maggioranza nel referendum promosso dai radicali e dopo che, nel 2011, scrive Rita Bernardini su “Il Tempo” il 27 febbraio 2015. "Il pianto frutta": nessuno meglio dei magistrati italiani sa mettere in pratica questo antico modo di dire della saggezza popolare. Frignano per poi piangere fino a singhiozzare perché con la legge appena approvata sulla responsabilità civile, le toghe nostrane ritengono di non essere più indipendenti, di essere sottoposte a continui ricatti e costrette ad autocontenersi per il timore di essere chiamate in causa. La verità è che hanno ottenuto il massimo che potevano dopo 28 anni di tradimento del voto popolare espresso a grandissima maggioranza nel referendum promosso dai radicali e dopo che, nel 2011, la Corte di Giustizia Europea aveva condannato l’Italia per i limiti posti alla responsabilità civile dei giudici nell'applicazione del diritto europeo. Oggi al Governo e in Parlamento sono tutti protesi a rassicurare i magistrati che strillano e battono i piedi minacciando sfracelli. Da una parte il Parlamento è arrivato ad appiccicare alla legge una relazione d’accompagnamento in cui si spiega che per "negligenza inescusabile" si intende un travisamento "macroscopico ed evidente" dei fatti; dall’altra il Governo che, con il ministro della Giustizia, s’inventa il "tagliando", affermando di essere pronto a cambiare la legge entro sei mesi se ci saranno abusi. Ma quali abusi si possono temere se saranno giudici a giudicare altri giudici? In realtà, già quando fu promosso quel referendum, insieme al compianto Enzo Tortora, i radicali avevano ammonito che occorreva urgentemente affrontare le questioni della separazione delle carriere, degli incarichi extragiudiziari, dei distacchi dei magistrati nell’amministrazione pubblica, dell’automaticità delle carriere, del principio (falso perché impossibile da attuare) dell’obbligatorietà dell’azione penale, della correntocrazia nel Csm, insomma, una riforma organica della Giustizia che affermasse concretamente la separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Oggi, con oltre cento magistrati distaccati presso gli uffici legislativi dei ministeri, c’è poco da stare tranquilli: c’è sempre una manina pronta a pinzare alle leggi l’interpretazione autentica, oppure un’intimidazione per la quale l’esecutivo si ritiene costretto a promettere revisioni nel caso in cui gli effetti delle leggi non assicurino, come è stato fino ad oggi, l’impunità delle toghe, i loro privilegi, le loro carriere. Grande assente da questo film – e ho motivo di dubitare che entrerà in scena – è l’illegalità palese dell’amministrazione della Giustizia che colpisce, come denunciava il Commissario per i diritti umani Alvaro Gil-Robles 10 anni fa, il 30 per cento della popolazione italiana per tempi irragionevoli trascorsi in attesa di una decisione giudiziaria, in violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; Convenzione che, secondo il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa viene sistematicamente violata dall’Italia fin dal 1980. Noi che la lotta per la responsabilità civile dei magistrati l’abbiamo per anni fatta-vissuta-vinta assieme ad Enzo Tortora con il calvario che quest’uomo perbene ha dovuto subire, siamo raggiunti da un’infinita tristezza quando vediamo che Renzi twitta esultante la foto di Tortora e tutti i media lo ritwittano raggianti. Quando nell’83 abbiamo sposato la causa di Tortora l’abbiamo fatto contro tutto e tutti perché era unanime il coro che definiva Enzo un camorrista, "cinico mercante di morte£. Non c’è da meravigliarsi, dunque, se oggi – pressoché isolati – Marco Pannella e i radicali fanno proprio, nell’impegno politico quotidiano, il messaggio che il Presidente Emerito Napolitano ha inviato al Parlamento nell’ottobre del 2013 sulle infami carceri e sulla débâcle della giustizia italiana: non siamo bizzarri oggi, così come non lo eravamo più trent’anni fa al fianco di Enzo Tortora. Mi auguro che questa volta ci si aiuti ad aiutare il Paese e coloro che abitano il nostro territorio a non subire per troppo tempo ancora le conseguenze di una democrazia perennemente tradita nei suoi connotati costituzionali.

Da Enzo Tortora alla hostess ecco tutti gli sbagli delle toghe. C’è Manolo Zioni, rimasto un anno in cella per colpa di un tatuaggio. Il vero rapinatore confessò ma non venne creduto. Ignazio Manca in carcere oltre un anno per non aver fatto niente, scrive Mau. Gal. su “Il Tempo il 26 febbraio 2015. I "padre" di tutti gli errori giudiziari fu il processo a Enzo Tortora. Un errore che segnerà per sempre la vita del presentatore televisivo e, per alcuni, ne decretò anche la prematura scomparsa. L’elenco dei volti noti finiti nelle maglie dell’ingiustizia all’italiana è lungo. Si va da Gigi Sabbani a Serena Grandi. Se Tortora venne arrestato nell’83, in favore di telecamere nel giugno del ’70 fu la volta di Lelio Luttazzi, ammanettato con Walter Chiari per droga. E l’8 aprile 1994 toccò a Leonardo Vecchiet, medico della Nazionale. Ma ci sono anche tanti sconosciuti, nomi anonimi, che hanno subito il danno nell’indifferenza generale. Il record spetta a Giuseppe Gulotta, che ha scontato 22 anni per un duplice omicidio mai commesso. Anche i casi e le storie più recenti (tutti sono denunciati quotidianamente dal sito specializzato "Errorigiudiziari.com") sono numerosi. E, spesso, fanno venire i brividi. C’è Manolo Zioni, rimasto un anno in cella per colpa di un tatuaggio. Il vero rapinatore confessò quasi subito, ma non venne creduto. Il giovane romano venne, per sua fortuna, scagionato da una perizia su una macchia sulla pelle. Assolto, otterrà un risarcimento di circa 80 mila euro per i suoi 351 giorni dietro le sbarre. Marin H., invece, aveva già scontato un anno per il reato di sfruttamento della prostituzione. Ma questa volta non era recidivo. Lui non c’entrava, anche se le "ragazze" lo accusavano. Alla fine, ha ottenuto 51 mila euro. E che dire dell’ex vicesindaco di Montesilvano Marco Savini, che ha impiegato ben otto anni per vedere riconosciuta la sua estraneità ai fatti. Travolto (è proprio il caso di dirlo) dall’inchiesta "Ciclone" nel 2007, con le pesanti accuse di associazione per delinquere, truffa e corruzione, ha fatto 98 giorni in cella e ora attende un rimborso. La vita di Luigi Vittorio Colitti è stata distrutta quando aveva solo diciotto anni. Fu accusato di aver aiutato il nonno ad uccidere il vicino di casa, un consigliere comunale e provinciale dell’Italia dei Valori. Ci sono voluti due processi e quattordici mesi di prigione prima che venisse giudicato innocente. Ora chiede mezzo milione di euro. Ignazio Manca ha trascorso in carcere oltre un anno. E non aveva fatto niente. Era accusato di riciclaggio e ricettazione e venne condannato in primo grado a quattro anni di reclusione. Il fatto che il fratello si fosse assunto ogni responsabilità, così scagionandolo, non ha sfiorato la mente di chi lo stava giudicando, facendogli sorgere un "ragionevole dubbio". All’epoca dei fatti si trovava in ospedale e solo per questo fu assolto in appello: avrà 150 mila euro. Uno dei casi più eclatanti e strazianti fu quello della hostess Elena Romani, ritenuta l’assassina della figlia Matilda. Una bambina. Mentre la piccola moriva, però, lei non era neanche in casa. Ciò non ha impedito che dovesse affrontare tre gradi di giudizio prima di dimostrare la sua innocenza. Adesso vuole 80 mila euro. Ma il procuratore generale della Corte d’appello non è d’accordo: sostiene che con il suo comportamento abbia giustificato i sospetti su di lei. Pasquale Capriati, accusato di tentata rapina e tentato omicidio, ha dovuto attendere quasi un quarto di secolo: solo dopo 23 anni (6 mesi in cella e due ai domiciliari) si è capito che si trattava di uno sbaglio. Prosciolto, ha chiesto allo Stato 516 mila euro per ingiusta detenzione. E l’avvocato barese Sergio Mannerucci ha dovuto subire una settimana in prigione e due anni di odissea giudiziaria per far capure che non c’entrava niente con la truffa all’Inps di cui era stato accusato. Errori pagati con la privazione della libertà dagli indagati. E con i soldi da noi contribuenti.

Dodici casi di ordinaria ingiustizia. Accuse senza prove, perizie sbagliate, rapine mai fatte, così si può finire in carcere da innocenti, scrive Andrea Ossino su “Il Tempo” il 30 dicembre 2015.

Cinque anni per droga Ma il colpevole non era lui. Per 5 anni hanno creduto fosse un narcotrafficante internazionale. W.U., quarantenne residente a Frosinone, ha visto crescere le sue due gemelline da dietro le sbarre. Non è riuscito a stare vicino alla sua famiglia nei momenti di difficoltà. Tutto questo perché si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Era stato arrestato nel 2010, mentre era all'aeroporto di Capodichino, a Napoli. La Dda partenopea lo aveva fermato insieme ad altre 30 persone perché risultava aver avuto contatti con la fidanzata di un uomo che faceva parte di un'organizzazione criminale dedita al narcotraffico. Il legale dell'uomo, Francesco Galella, è riuscito però a dimostrare che quelle telefonate che provavano come tale «Biggy» cedesse e ricevesse stupefacenti, non erano riconducibili al suo assistito. W.U. è quindi stato assolto e adesso chiede allo stato 500 mila euro. Una cifra che non gli potrà mai risarcire gli anni persi, ma almeno gli consentirà di rifarsi una vita dignitosa.

Accusati senza prove di una truffa milionaria. Accusati di associazione a delinquere finalizzata alla truffa, Pio Maria Deiana, Carlos Luis Delanoe e Carmelo Conte, sono stati assolti dal tribunale di Terni perché il fatto non sussiste. Era il 2005 quando i tre indagati cercarono di acquistare una squadra di calcio, la Ternana, e Villa Palma, un luogo dove poter avviare una fondazione. L'affare non andò in porto perché vennero arrestati prima che la filiale di una banca concedesse loro un prestito di 100 milioni di euro sulla base di una fidejussione di 400 milioni di dollari di una banca brasiliana. Proprio la fidejussione li fece finire sul banco degli imputati, dal quale dovettero assistere alla sfilata dei testimoni eccellenti: dall’ex presidente del Coni di Terni, Massimo Carignani fino all'ex sindaco di Terni, Paolo Raffaelli. Grazie ai teste e alle perizie capaci di dimostrare la veridicità della fidejussione e la limpidezza dell'operazione finanziaria, la corte di Terni li assolse sottolineando che i 3 erano stati reclusi ingiustamente per 6 mesi. Adesso chiedono di essere risarciti.

In cella a 16 anni per una perizia sbagliata. Una perizia sbagliata lo aveva condotto in cella quando aveva 16 anni. Sulla sua testa una pesante accusa: aver ucciso il padre. Per questo motivo Luca Agostino aveva trascorso 113 giorni in carcere. Il padre, Cosimo, era stato ucciso con tre colpi di arma da fuoco il 24 febbraio del 2010. Luca era stato arrestato insieme al fratello maggiore, Vincenzo. La perizia non lasciava spazio a dubbi: sulle mani del ragazzo era presente polvere da sparo. Neanche la testimonianza del fratello reoconfesso, grazie al quale era stata trovata anche l'arma del delitto, aveva convinto gli inquirenti milanesi. Poi i consulenti del giudice e quelli della procura arrivano a una conclusione unanime: «i risultati delle operazioni peritali appaiono compatibili con le dichiarazioni rese dai tre soggetti presenti al momento dell’omicidio». A scagionarlo definitivamente una conversazione in carcere con il fratello: «Vincenzo esprime sorpresa e rabbia verso il fratello quando apprende che Luca potrebbe aver toccato la pistola e risultare perciò positivo alla prova dello Stub». Adesso Luca è stato risarcito: 24mila e 300 euro.

Medico condannato Ma salvò un detenuto. Ha chiesto un milione di euro per ingiusta detenzione. Una cifra a sei zeri che comunque non potrà mai ripagarlo del torto subito. Alfonso Sestito, cardiologo del Policlinico Agostino Gemelli di Roma è stato assolto con formula piena. Secondo gli inquirenti avrebbe scritto una falsa perizia. Un documento che avrebbe consentito la liberazione di un detenuto e che sarebbe stato «richiesto» dall'avvocato Marco Cavaliere, condannato a tre anni di carcere. Così il medico aveva dovuto trascorrere quindici giorni agli arresti domiciliari e, dal febbraio del 2013, era stato costretto a non allontanarsi dalla Capitale. Nel corso del processo, il legale del dottore è riuscito a dimostrare che grazie a quella perizia, l'imputato avrebbe salvato la vita al paziente, il detenuto Carmine Buongiorno. Così l'uomo è stato assolto dall'accusa di falso. Adesso Alfonso Sestito, dopo aver chiesto di essere risarcito, è in attesa del pronunciamento del giudice.

Sei mesi in cella per una rapina mai fatta. Per un anno è stato detenuto ingiustamente, trascorrendo anche 6 mesi all'interno di un penitenziario. Claudio Ribelli, secondo l'accusa, avrebbe rapinato una donna puntando un coltello alla gola del figlio. Magro il bottino ottenuto: 100 euro e una piccola collana d'oro. Il ventottenne sardo era finito nel carcere di Buoncammino, a Cagliari, perché la vittima affermava di averlo riconosciuto. Erano in due i complici che nel 2010 avevano rapinato la donna. Il primo, Pierpaolo Atzeni, è stato condannato a scontare 5 anni e 4 mesi di reclusione. Il presunto complice, Claudio Ribelli, è invece stato assolto e la Corte d'appello di Cagliari ha stabilito che lo Stato gli corrisponda 91.082 euro come riparazione per ingiusta detenzione. Del resto le telecamere di una stazione di servizio che avevano immortalato la scena del crimine avevano ripreso il complice scagionando Ribelli. Adesso l'operaio sardo cerca di rifarsi una vita nonostante abbia trascorso 6 mesi in una cella di 4 metri per 4 priva di acqua calda, riscaldamento e pavimento, insieme ad altri 5 detenuti.

Tentato omicidio. Ma il marito aveva mentito. Anche in Sicilia, nel 2015, è stato riconosciuta una riparazione per ingiusta detenzione. Ad Elena Khalzanova infatti sono stati dati 38mila euro. Era stata assolta due anni fa, nel luglio del 2013, dopo essere stata accusata di aver tentato di uccidere il marito. Ma secondo la corte di Catania, i 18 giorni di galera e i 286 giorni di arresti domiciliari affrontati da Elena, ingegnere russo di 59 anni ed ex direttore di una fabbrica della marina militare sovietica, non valgono neanche 40 mila euro. Elena era stata accusata di voler uccidere il marito – avrebbe tentato di soffocarlo con un cuscino – per impossessarsi dell'eredità. Ma l'unico testimone che la accusava era proprio la vittima. Durante il processo le sue testimonianze sono però state ritenute «incoerenti e contraddittorie e come tali non meritevoli di credito». A causa di presunte violazioni anche il Consolato generale della Federazione russa a Palermo aveva seguito il caso.

Accusato di corruzione Prosciolto dopo 6 anni. Dante Galli al momento del suo arresto lavorava come dirigente dell'ufficio urbanistica di Pietrasanta, in provincia di Lucca. Il 31 gennaio del 2006 però aveva perso tutto. Era stato arrestato insieme al sindaco Massimo Mallegni e a numerosi politici, funzionari e imprenditori. Sulla sua testa pesava un'accusa importante: corruzione. Dopo aver ottenuto gli arresti domiciliari ha dovuto affrontare un maxi processo nel corso del quale fortunatamente era tornato a piede libero. Il suo incubo è terminato dopo sei anni. Il 2 aprile del 2012. Il tribunale di Firenze non ha avuto dubbi: Galli è stato prosciolto da ogni accusa e deve essere risarcito per tutte quelle settimane trascorse tra il carcere e gli arresti domiciliari. Adesso pronuncia parole felici, si dichiara sereno, ma nessuno potrà mai cancellare l'esperienza vissuta, la perdita della libertà e della dignità professionale. Adesso all'uomo è stato riconosciuta l'ingiusta detenzione. Il politico però non ha fatto sapere a quanto ammonta.

Per i pm era un boss. Scagionato a 70 anni. Il suo nome gli è costato 3 anni e 11 mesi da scontare agli arresti domiciliari. Ma Beniamino Zappia non era il boss della mafia italo-canadese e adesso deve essere risarcito. Una vicenda che inizia il 22 ottobre del 2007, quando la Dia di Roma arresta l'uomo accusandolo di associazione a delinquere di stampo mafioso. Gli inquirenti pensano infatti sia il tramite tra le cosche agrigentine e quelle canadesi legate ai fratelli Rizzuto di Montreal, credano che i boss si siano serviti di lui per infiltrarsi negli affari d'oro relativi alla costruzione del ponte sullo stretto di Messina. Così lo arrestano insieme ad altre 18 persone. Complice il suo nome e la sua fedina penale non proprio immacolata, Zappia viene recluso a San Vittore, poi a Roma e ancora a Benevento e Secondigliano. Nel 2008, ormai 70enne, viene trasferito in regime di carcere duro. Poi i dubbi, la concessione degli arresti domiciliari nel maggio del 2010 e infine la sentenza. Il 23 novembre del 2012 viene assolto perché il fatto non sussiste.

Un anno di detenzione. Ma i testimoni lo salvano. Una detenzione durata ben 351 giorni e un indennizzo di 100 mila euro, pari a 235 euro al giorno. Manolo Zioni, romano, quando aveva 22 anni era stato accusato di aver messo a segno 3 rapine, tutte compiute tra l'agosto e il settembre del 2010, in zona Pineta Sacchetti, nella Capitale. Nonostante Alessandro Rossi, un rapinatore già in stato di detenzione, avesse ammesso di aver compiuto anche i colpi contestati a Zioni, i giudici non gli credono. Nessun testimone lo riconosce e allora viene disposta una perizia sulle immagini riprese dalle telecamere. Il rapinatore, quello vero, aveva un diamante tatuato sul collo. Manolo Zioni invece solo una macchia sulla pelle. Così il ragazzo viene rimesso in libertà e dopo 20 giorni viene assolto per non aver commesso il fatto. L'imputato viene risarcito, ma non è di certo un santo. Così lo scorso giugno è stato fermato nuovamente. In zona Primavalle avrebbe gambizzato un uomo, un personal trainer di 35 anni con cui aveva un debito in sospeso.

58 euro per ogni giorno incolpato ingiustamente. Lo stato gli ha dato 23 mila euro. Ogni giorno che ha trascorso in carcere vale appena 58 euro. E in cella Alberto Vitulo ha trascorso ben 13 mesi. Spaccio di sostanze stupefacenti. Questa l'accusa sostenuta dagli inquirenti di Cavarzere, in provincia di Venezia. L'uomo, 53 anni, era stato arrestato il 28 ottobre del 2008. L'operazione dei carabinieri aveva sgominato una banda di neofascisti accusati di trafficare stupefacenti. In pratica l'associazione avrebbe portato la cocaina dal Sudamerica per poi rivenderla nelle piazze di spaccio del Veneto. Alberto Vitulo, secondo l'accusa, avrebbe gestito il traffico nell’area del rodigino. Alla fine l'uomo è stato assolto. Misero il risarcimento ottenuto e sentenziato dalla Corte d'appello di Venezia. Ma i giudici hanno motivato l'ingiusta detenzione in carcere spiegando anche che Vitulo, originario di Cavarzere, avrebbe contribuito colposamente all’emissione e al prolungamento della misura cautelare a suo carico, omettendo di fornire agli inquirenti alcun chiarimento in merito al comportamento che gli veniva contestato.

Vicesindaco «truffatore». Ma era una menzogna. Un calvario giudiziario durato ben 8 anni. L'avvocato Marco Salvini, quando aveva solo 32 anni, aveva dovuto trascorrere anche 98 giorni in regime di arresti domiciliari. La vicenda che risale al 2007 lo ha visto accusato di associazione per delinquere, truffa e corruzione. Adesso chiede un risarcimento per il torto subito, per la libertà privata, per la reputazione persa in un paese, Montesilvano (provincia di Pescara), dove le voci corrono velocemente, specialmente se un processo dura più di 8 anni, soprattutto se l'avvocato Marco Salvini, al momento dell'arresto, era anche il vicesindaco di Montesilvano. La sua vita è cambiata radicalmente prima di essere assolto, prima di uscire a testa alta dall'inchiesta Ciclone, quella che nel 2007 lo ha condotto in braccio alla giustizia. Ora crede ancora nel sistema giudiziario. Un sistema capace anche di assolvere e di risarcire per il danno subito. Adesso l'uomo attende le motivazioni della sentenza e si appresta a chiedere un corposo risarcimento.

In galera 156 giorni per un errore di calcolo. Quella lunga fedina penale non gli è stata certo d'aiuto. Luigi Aiello in ogni caso è stato detenuto 156 giorni di troppo, per un errore di calcolo. Adesso è stato risarcito. Dall'errore commesso dai giudici ne era scaturito anche un secondo, questa volta commesso da Aiello. L'uomo infatti aveva una complessa vicenda giudiziaria che grazie alle leggi, e ai numerosi soggiorni in carcere, lo aveva costretto a scontare gli ultimi 5 anni e 8 mesi agli arresti domiciliari. Lui però, durante l'ultimo periodo, era andato in Spagna. Quando era tornato, dopo alcuni mesi, era dunque stato arrestato e condannato a un ulteriore anno di reclusione. Mentre stava scontando i suoi giorni in galera i suoi legali si erano accorti dell'errore. Conti alla mano, la Corte d'appello di Trento aveva accolto la sua richiesta di ingiusta detenzione: 40mila euro. Adesso l'uomo sta affrontando gli altri processi a suo carico e presto saprà se gli verrà riconosciuta una seconda ingiusta detenzione.   

Dal 2000 l'Associazione Culturale "ARTICOLO 643" tutela le vittime di "errori giudiziari, ingiusta detenzione e lungaggini processuali". Sono un gruppo di professionisti (avvocati, docenti universitari, etc.) che si dedicano assiduamente alle delicate tematiche della Giustizia. Da anni mettiamo a disposizione dei cittadini competenze specifiche nei delicati istituti della revisione processuale e della riparazione per ingiusta detenzione. Il loro portale è divenuto un efficace veicolo di informazione per gli addetti ai lavori e un punto di riferimento per le centinaia di persone che ogni anno sono vittime di errore giudiziario o di ingiusta detenzione.

Altro esempio di spendita di passione a favore delle vittime dell’ingiustizia terrena è il lavoro di due giornalisti validi e coraggiosi che gestiscono il sito web ErroriGiudiziari.com che al 26 ottobre 2015 contava su 658 casi presenti nel loro archivio. Questo sito nasce dall’idea di due giornalisti che da anni si occupano di errori giudiziari e ingiusta detenzione. Nel 1996, dopo aver realizzato il capitolo “Giustizia-Ingiustizia” per il Rapporto Italia Eurispes, pubblicano il libro “Cento volte ingiustizia – Innocenti in manette”, una raccolta di errori giudiziari dal Dopoguerra ai giorni nostri. Da allora hanno continuato a raccogliere e archiviare casi e storie di vittime di errori della giustizia, che ora danno vita a Errorigiudiziari.com, il primo archivio italiano sugli errori giudiziari e le ingiuste detenzioni.

Benedetto Lattanzi (Roma, 1966), giornalista, lavora per un’agenzia di stampa nazionale.

Valentino Maimone (Roma, 1966), giornalista, scrive di attualità e salute per diversi periodici nazionali e per il web.

Legge Pinto, stretta sui risarcimenti. Rischiano anche quelli per ingiusta detenzione? Scrivono il 16 settembre 2015: Giudici, la carriera prima di tutto. Il direttore del quotidiano romano “Il Tempo”, Gian Marco Chiocci, interviene con un editoriale sul tema della riforma della giustizia, degli errori giudiziari, dell’ingiusta detenzione e della responsabilità dei magistrati. A poca distanza dalla pubblicazione di dati aggiornati sugli innocenti in carcere nel nostro Paese, le sue parole non sono affatto tenere: il sottosegretario alla Giustizia, Enrico Costa, sta facendo un’opera meritoria di trasparenza nel tentativo di cambiare le cose. Ma le prospettive, stando al ragionamento di Chiocci, non sono affatto rosee: le riforme possibili, viste le resistenze della categoria dei magistrati, sono in realtà decisamente improbabili. Esattamente due anni fa “Il Tempo” mandò in stampa un’inchiesta devastante sulle ingiuste detenzioni, argomento tornato oggi di moda per il tentativo del governo di farla pagare a chi sbaglia, cioè ai magistrati eventualmente colpevoli d’aver mandato in galera un innocente. A scanso di equivoci e pie illusioni diciamo subito che nonostante Enzo Tortora, il referendum dei radicali, i mille tentativi di provare a regolamentare un’anomalia solo italiana, quest’ultimo esperimento, lodevole nelle intenzioni e rivoluzionario sulla carta, certamente non vedrà la luce. Il sottosegretario alla giustizia Costa, nel rendere noti i dati della vergogna (tra errori giudiziari e ingiuste detenzioni in 22mila sono stati risarciti, oltre 600 i milioni di euro che lo Stato ha tirato fuori come indennizzo) ha sollecitato l’applicazione della «responsabilità dei magistrati» attraverso l’avvio, in automatico, ai titolari dell’azione disciplinare, dell’ordinanza che accoglie l’istanza di riparazione per il carcere ingiusto. In altre parole, nelle intenzioni del sottosegretario, a differenza del passato ove non vi era alcun obbligo di trasmissione, una volta ottenuto l’indennizzo, il fascicolo verrà preso, impacchettato e girato ai titolari dell’azione disciplinare che valuteranno se e come comportarsi con il magistrato che ha trattato il caso in questione. Fino ad oggi su 22 mila errori giudiziari accertati, hanno pagato solo 8 giudici. Con questo sistema in tanti potrebbero rischiare inciampi di carriera. Ecco perché la rivoluzione sognata da Costa non si farà mai.

MORIRE DI CARCERE.

Roma. La vita tra parentesi. In carcere, scrive il 4 maggio Gian Carlo Capozzoli su “L’Espresso”. Quando supero il cancello della terza casa di Rebibbia, a Roma, ho come la sensazione di essere tornato a casa. Come quando trovi vecchi amici, voglio dire, che non vedi da un po’ e hai piacere a rivederli, ritrovarli, e loro a rivedere te. Non mi piace ritrovare qui, quelli che sono diventati i miei amici, nel corso del tempo. Ovviamente. Quando mi capita di pensarci, li immagino (indistintamente) fuori, a riprendere in mano, lentamente, la loro vita. Le loro abitudini, fuori. O che meglio ancora, cambiamo, hanno cambiato invece radicalmente la loro vita precedente, ricominciando da capo, da zero. Il personale della polizia penitenziaria è però quasi tutto lo stesso, e ci riconosciamo dopo tanto tempo passato a sopportarmi benevolmente, quando, in accordo con il Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, con la Direttrice Passannante, e con il personale dell’area educativa la dottoressa Azara e la dottoressa De Cristofaro, avevo realizzato un laboratorio culturale. L’idea di fondo del progetto era partire dal teatro e dalle questioni poste in essere dalla cultura stessa, per riproporre quel principio di rieducazione della pena, sancito dalla Costituzione. La terza casa è un istituto a custodia attenuata che rende completamente diversa questa esperienza progettuale rispetto a quella realizzata in altri istituti, semplicemente perché è diversa la vita all’interno. Semplicemente nel senso di una maggiore libertà di movimento e di spostamento e di incontro. Non è per nulla semplice, mi rendo conto. Ma è una differenza sostanziale, che si avverte, si nota, fin da subito, a partire dal rapporto professionale, ma in qualche modo di vicinanza, stabilito all’interno dell’istituto tra detenuti e personale. Le direttive ministeriali, le condanne quasi alla fine, la vita stessa all’ interno, rendono l’atmosfera meno pesante. Anche i cancelli da superare per entrare, sono minori rispetto a quelli di altri istituti. Il numero dei detenuti ospitati non è eccessivo, e un numero adeguato di assistenti, permette di controllare il tutto, con estrema vigilanza, ma con discrezione. La disciplina è rigida, come i controlli, naturalmente. Ma è discreta. Quando entro, sta piovendo nel grande cortile all’ interno. Incontro la direttrice per le disposizioni da seguire, e mi licenzia in breve, presa da carte da firmare e ordini da dare. Ho avuto modo di conoscerla profondamente questa piccola donna con un carattere forte. Ho avuto modo di apprezzarne la gentilezza e la disciplina. Ho avuto modo anche di incontrare questa maggiore libertà di cui godono i detenuti qui. Libertà di muoversi tra i lunghi corridoi. Di godere di qualche ora d’aria in più. Di svolgere qualche ora in più con le proprie famiglie. E non è poco. Sembra una cosa normale, e invece non lo è. È proprio straordinario che si dia una reale possibilità di recupero, quindi di libertà, attraverso il lavoro. Il lavoro, qui, è pensare ad un futuro prossimo fuori, è immaginare altre prospettive, altre possibilità di vita. È potersi pensare liberi. Liberi anche da quel passato che li ha condotti sulla loro via criminale. Prima di licenziarmi, la direttrice mi mostra un foglio pieno delle attività che i detenuti possono svolgere durante il periodo della loro detenzione. Il teatro ha ripreso la sua attività, ed ora una nuova compagnia di volontari, professionisti, viene per le prove della prossima messa in scena. Quando li incontro, stanno costruendo delle maschere, oggetti scenici dello spettacolo. Ben oltre la retorica di avere una maschera, togliersi la maschera, mettersi una maschera, vedo uomini attenti a questo incontro con qualcosa che ha a che fare con l’arte. Si può vedere il gioco con i colori delle maschere. O l’attenzione nella costruzione artigianale di una figura. Il tempo è un tempo che scorre lento, impiegato con attenzione e intenzione. E gioco. Li lascio lavorare, mentre seguo un gruppo di ragazzi attorno ad una insegnante. Lei è una signora magra, piccola, adulta. Sorride e comprende, già con lo sguardo. Li segue, lei e alcuni suoi colleghi, nel loro percorso scolastico e educativo. Nella sala teatro, mi affaccio a guardare alcuni degli strumenti di una piccola band composta da detenuti e agenti e volontari, e pensata dall’Ispettore Colleferro e un suo amico musicista, Paolo. Hanno suonato assieme oltre divise e ruoli. La sala dove ho incontrato spesso le suore, oggi è chiusa. Ma non fatico a credere che le suore non facciano mancare, come sempre, il loro supporto umano e religioso a questi uomini. Al piano terra, da qualche anno ormai, è stato aperto un forno in cui sono impiegati alcuni detenuti alla produzione e alla fabbricazione di pane e altri prodotti che vengono poi distribuiti in tutto il quartiere. S. aveva questa faccia da bonaccione già quando lo avevo conosciuto. In realtà è fiero e astuto. Quando ci incontriamo è un misto di imbarazzo e piacere. Lavora lì, ora. Ha il viso provato e spento dagli anni della carcerazione, ma parla orgoglioso del suo nuovo impiego e della fiducia che gli è stata accordata. Controlla l’orologio mentre parliamo per sfornare e infornare il prossimo giro di impasti o pane caldo. Lo lascio sicuro tra i suoi nuovi strumenti di lavoro. Fuori, nel cortile, vedo avvicinarsi una figura familiare. Mi sembra ingrassato rispetto a qualche anno fa, ma il suo modo di camminare è rimasto lo stesso.  Cammina con le mani penzolanti di lato e i piedi che, mentre cammina, sembra che lo conducano da qualche altra parte, in giro. Così senza una meta. Ha la testa sempre un po’ reclinata di lato come se fosse pesante tenerla dritta. Fissa. Quando mi è vicino vedo che ha i capelli un po’ più brizzolati e le rughe del viso accentuate. Ci salutiamo. Mi chiede come sto e mi dice che sta meglio. Mi dice che vorrebbe uscire o che vorrebbe essere quantomeno trasferito. Mi dice della sua città, che è un po’ anche la mia. Mi descrive vicoli e piazze, precisamente, come se fossero esattamente davanti a lui, ora. Mi parla dei suoi amici. Mentre parla, ha questo modo di accarezzarsi il viso, come per togliersi le rughe profonde. Quando lo avevo conosciuto mi era sembrato un tic. Ora continua, ma con meno forza. Con meno rabbia. Mentre passeggiamo nel cortile interno, mi accorgo che questo luogo è pieno di questa esperienza di questo incontro. Lui era stato Ariel su questo campo di pallone, e se ne ricorda. E mi ricordo anche io. Mi era sembrato subito Ariel, nella Tempesta di Shakespeare, proprio per quest’aria spaesata e confusa. Qui tutti sono spaesati e confusi. Lui lo sembra un po’ più degli altri, anche se a differenza degli altri, ha anche una cultura. Mi dice di alcuni suoi amici che fanno teatro e dell’ultimo film che ha visto. Gli occhi stretti in una piccola fessura non nascondono una certa sofferenza. Le labbra sono secche. Ma non è trascurato. Piuttosto sembra stanco. Mi sembra stanco anche in questo suo camminare. Sorride quando ripensiamo al tempo passato anche con i ragazzi dell’Università, a giocare e a impegnarci nella cura del testo di Shakespeare. Sono passati tre anni. Tre anni di cambiamenti, di progetti, di aspettative. Lui mi parla di cose avvenute tre anni fa come se fossero accadute ieri, la settimana scorsa. Un mese fa, al massimo. Parliamo come due vecchi amici quando si accorge che è tardi per andare a scuola. Almeno vuole finire quel percorso che fuori ha lasciato a metà. Nonostante questo istituto sia una sorta di modello da seguire in fatto di efficienza e limitatezza della custodia, quando sono finalmente fuori mi resta la domanda su quale necessità abbiamo, come società dico, di pensare ad un luogo, il carcere, che serve solo a mettere la vita tra parentesi.

Edoardo Albinati: «C’è un modo legale per evadere dal carcere: diventare scrittore». Edoardo Albinati fa parte della giuria del Premio Goliarda Sapienza e insegna lettere in carcere, a Rebibbia, scrive Eugenio Murrali il 4 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Il Premio Goliarda Sapienza “Racconti dal carcere” amplia le sue prospettive. La fondatrice e curatrice Antonella Bolelli Ferrera ha voluto che alla gara vera e propria fosse affiancato un laboratorio di scrittura. Sessanta i partecipanti che hanno interagito con la scrittrice- editor Cinzia Tani e diversi scrittori- tutor tra cui Maria Pia Ammirati, Gianrico Carofiglio, Erri De Luca, Paolo Di Paolo, Nicola Lagioia, Dacia Maraini. Al Salone del Libro di Torino, il 10 maggio, sarà proclamato il vincitore. Edoardo Albinati fa parte della giuria del Premio Goliarda Sapienza e insegna lettere in carcere, a Rebibbia.

Che cosa può significare per le persone detenute la scrittura?

«Da una parte c’è un’attività che sia le persone detenute sia quelle libere svolgono: scrivere. Cosa diversa è la scuola che nel carcere è strutturata come nel mondo esterno. Nell’istituto tecnico- informatico in cui insegno faccio, appunto, il professore di lettere: spiego la grammatica, la Divina Commedia, e così via. Come professore di lettere sono chiaramente più vicino al tema della scrittura rispetto agli altri colleghi, per cui mi è successo di avere studenti che se la cavavano a scrivere ed erano buoni lettori».

E al di là della scuola?

«L’attività dello scrivere narrativa o poesia è molto individuale. Avendo partecipato a molti di questi premi di prosa o di poesia, penso che se si riesce a “evadere” almeno un poco dallo stretto tema carcerario – che può diventare soffocante, ripetitivo, anche perché la vita carceraria è il contrario della varietà, è la monotonia – allora capita di leggere testi interessanti. In generale la scrittura è una delle pochissime attività disponibili, perché chiunque può praticarla, anche se all’interno di una cella dove si sta in quattro o sei, nei ritagli di tempo.

Ritagli?

«In realtà la vita del detenuto è molto povera di tempo. È una routine molto impegnativa che fa sì che uno divida la propria giornata tra la cella, la socialità, l’aria, gli avvocati. Nella cella gli spazi spirituali e individuali sono molto ristretti. Se uno ha le forze di ricavare in tutto questo bailamme di rumori, odori e faccende, uno spazio per scrivere, anche solo un diario o una lettera, non c’è dubbio che svolga una delle poche attività umane possibili in carcere. È un’attività che io consiglio di svolgere comunque ai miei studenti, anche se non ci sono scopi letterari».

Questo rientra in quello scopo rieducativo di cui parla l’articolo 27 della Costituzione?

«No, non rieducativo, semplicemente riflessivo. Scrivere una lettera non è rieducativo, ma ti costringe a un poco di concentrazione, a esprimere te stesso. La realtà carceraria non ha nulla né di educativo né di rieducativo. La scuola potrebbe avere in parte questo ruolo ma preferisco sempre parlare di “istruzione”. L’educazione la danno i genitori, quando la danno».

Alcuni dei racconti che saranno pubblicati non parlano della vita carceraria. La scrittura aiuta a uscire dalle sbarre?

«È interessante anche la scrittura esperienziale, ma rischia di essere ripetitiva. Mentre è differente, quando si lascia spazio all’immaginazione, alla fantasia, o quando si raccontano episodi della vita libera. Spesso i detenuti, prima di essere carcerati, hanno vissuto una vita spericolata, se riescono a raccontarla può essere coinvolgente. Per loro, però, capita sia difficile, perché narrarla a volte significa rivelarsi, in un certo senso anche autoaccusarsi, se si tratta di una vita delinquenziale. C’è una certa cautela se si è fatta una vita fuori dalla legge, è una difficoltà oggettiva».

Lei ha insegnato anche nelle scuole ordinarie. Quali sono le risorse particolari della scuola in carcere, in cosa si differenzia dalle altre?

«La differenza fondamentale, anche se può sembrare strano che sia solo questa, consiste nell’insegnare a persone adulte, come in una scuola serale. Sono adulti che spesso hanno alle spalle una vita intensa, difficile, avventurosa, hanno fatto tutto e il contrario di tutto. Gli svantaggi sono logistici: ci si trova in celle e non in aule scolastiche, fa molto freddo, i detenuti sono legati anche agli impegni giudiziari, per esempio, quindi possono doversi assentare per dei processi. È stimolante avere nella stessa classe persone di provenienza, istruzione di lingua molto diverse. Bisogna tentare un discorso che possa coinvolgere tutti. Un lato positivo è che non ci sono le famiglie, che guastano la vita dell’insegnante nel mondo esterno. Inoltre non ci sono telefonini né altre interferenze esterne. È chiaro, poi, che parlare di Machiavelli a un uomo che ha vissuto, ha conosciuto e ha praticato la violenza è più significativo che parlarne a un ragazzino di 15 anni. I grandi temi della vita sono stati vissuti».

In questo periodo quanti ne segue?

«Essendo quasi la fine dell’ano scolastico sono rimasti in pochi. Si parte con classi molto affollate, anche di 20 o 30 persone, che poi si rimpolpano e si riducono a secondo delle vicende di ciascuno».

Lei tende ad affezionarsi o a mantenere un distacco?

«C’è una giusta misura. Non si può familiarizzare troppo, altrimenti si finisce per diventare come degli assistenti sociali, dei confessori, o delle mamme surrogate. È inevitabile però che ci sia una vicinanza con persone con cui passi magari due o tre anni. Il fatto che siano adulti rende più simile, pur nella diversità, la tua esperienza alla loro. Ci sono dei temi comuni: delusioni, speranze, frustrazioni, il tempo che passa. Non credo però nell’empatia totale, perché sarebbe rischiosa per tutti. Spesso si è di fronte a persone dai caratteri o molto forti o molto deboli».

Ci sono tante iniziative legate alle attività artistiche in carcere. Non si rischia di andare alla ricerca della “verità” sostituendo la vita all’arte?

«No, non è questo il rischio. Ce n’è un altro: quello di far pensare all’esterno che il carcere sia un posto piacevole, dove si fanno il teatro, il cineforum. Le iniziative, benvenute e sacrosante, sono sporadiche. Non devono far dimenticare la vita della cella, l’imbarbarimento quasi inevitabile della reclusione. Per qualche singolo individuo queste attività possono rappresentare una strada, come è stato per alcuni attori degli spettacoli di Fabio Cavalli. Ci sono esperienze positive, ad esempio un mio studente che si sta per laureare in ingegneria. Però si tratta di eccezioni in un panorama che resta desolante».

Il suo giudizio finale sul carcere non è positivo?

«Come potrebbe esserlo? È una punizione».

E non può essere un percorso di rinascita?

«No, non è un percorso di niente. Magari non si trova nulla di meglio, ma è un modo per mettere fuorigioco persone che hanno fatto del male alla società. Che crei un effettivo miglioramento delle condizioni che ci finiscono dentro è fuori di discussione che accada. Sia detto una volta per tutte. E io non sono un abolizionista del carcere, perché non ho idea di cosa si potrebbe creare di diverso dalla detenzione, ma so che così come è nel nostro Paese è del tutto non educativa, non rieducativa. Chi entra ha buone probabilità di uscire peggiore».

Detenuti e scrittori, una finestra sulla prigione. Il 10 maggio cerimonia finale della settima edizione del premio “Goliarda Sapienza”, scrive Eugenio Murrali il 4 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Una finestra nella prigione, una finestra sulla prigione. Al settimo anno di attività, il Premio Goliarda Sapienza “Racconti dal carcere” si trasforma e amplia le sue prospettive. La fondatrice e curatrice Antonella Bolelli Ferrera ha voluto che alla gara vera e propria fosse affiancato un laboratorio di scrittura articolato in quindici incontri condotti con il metodo dell’e-learning – ovvero la teledidattica – per un totale di trenta ore di lezione tenute da noti autori della letteratura italiana. Questa sperimentazione è stata approvata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ha previsto l’allestimento di aule dotate di tecnologia adeguata negli istituti che hanno partecipato: Casa di reclusione di Saluzzo, Casa Circondariale di Santa Maria Capua Vetere, Casa di reclusione di Rebibbia e Casa circondariale femminile di Rebibbia. Sessanta i partecipanti che hanno interagito con la scrittrice- editor Cinzia Tani e gli scrittori- tutor Maria Pia Ammirati, Gianrico Carofiglio, Pino Corrias, Serena Dandini, Erri De Luca, Paolo Di Paolo, Nicola Lagioia, Dacia Maraini, Massimo Lugli, Antonio Pascale, Romana Petri, Federico Moccia, Giulio Perrone, Andrea Purgatori, Marcello Simoni. Gli scrittori hanno tenuto il loro dialogo dall’Università telematica eCampus. Spiega Antonella Bolelli Ferrera: «Per le persone detenute partecipanti è stato anche un momento di socialità, perché potevano avere uno scambio tra di loro e con i partecipanti degli altri istituti e gli scrittori all’esterno. Erano entusiasti, interessati. Molti di loro ci hanno chiesto libri da leggere, hanno discusso con noi di letteratura». Tra i tutor, Erri De Luca e Nicola Lagioia hanno preferito tenere l’incontro all’interno di un istituto, collegandosi da lì con gli altri, per avere un contatto più concreto con i partecipanti. «A Saluzzo – racconta Ferrera – ci aspettavano con trepidazione e i detenuti che facevano i corsi di cucina hanno preparato un rinfresco, emozionatissimi all’idea di conoscere Nicola Lagioia. La partecipazione era volontaria, non tutti hanno un grande retroterra culturale, eppure tutti erano preparatissimi». Al Salone del Libro di Torino, il 10 maggio, sarà proclamato il vincitore alla presenza della madrina del premio, Dacia Maraini, degli scrittori e giornalisti Pino Corrias, Erri De Luca, Paolo di Paolo, Andrea Purgatori, Nicola Lagioia e del presidente della giuria, Elio Pecora. I sessanta racconti nati dalla penna dei detenuti sono quasi tutti di carattere strettamente autobiografico, “storie incredibili”, commenta la curatrice. I quindici migliori sono diventati finalisti del Premio Goliarda Sapienza. Un’altra novità è che quest’anno la giuria non è composta soltanto da note personalità del giornalismo e della letteratura, ma anche da un nutrito numero di studenti delle scuole superiori, da alcuni gruppi di grandi lettori indicati dalle librerie. Inoltre è stato stipulato un accordo con Vatican News, media partner del premio: gli ascoltatori hanno potuto votare sulla piattaforma della testata e sono stati così numerosi che si è ritenuto necessario creare un premio ad hoc, il Premio Vatican News. A Torino sarà presentata l’antologia Avrei voluto un’altra vita. Racconti dal carcere pubblicata da Giulio Perrone Editore. Il volume curato da Antonella Bolelli Ferrera raccoglierà i quindici racconti finalisti. A proposito del contributo che il concorso può dare alla rieducazione dei detenuti di cui parla l’articolo 27 della Costituzione spiega la curatrice: «Molti dei partecipanti delle scorse edizioni continuano a scrivermi o a farmi chiamare da parenti, segno che l’esperienza è stata positiva. In alcuni casi ho saputo che alcune persone, una volta uscite dal carcere, hanno ricombinato qualche guaio e sono tornate dentro. Ci sono però esempi virtuosi che porto nel cuore. Si tratta di persone, certamente predisposte, che il concorso ha aiutato, perché poi, continuando a scrivere, a leggere, hanno intrapreso un percorso di consapevolezza e autocritica».

Carceri, cresce il rischio "suicidio" tra gli agenti. Un terzo degli uomini della Penitenziaria soffre di depressione e stati d'ansia gravi. In tre anni si sono tolti la vita 17 agenti, scrive Nadia Francalacci il 6 aprile 2018 su "Panorama". Il 35,45% degli agenti della Polizia penitenziaria si troverebbe in una condizione di elevato rischio “suicidio” per la presenza di un forte stato depressivo, ansia, alterazione della capacità sociale e forti sintomi somatici. Il dato che emerge da un questionario sullo stress correlato al lavoro, compilato nelle scorse settimane da 600 agenti che prestano servizio all’interno delle carceri italiane, è davvero sconvolgente. Solo nel 2017, gli uomini della polizia penitenziaria che si sono tolti la vita in servizio, prima di recarsi sul luogo di lavoro o appena terminato il turno, sono stati sei. Altrettanti hanno compiuto lo stesso drammatico ed estremo gesto l’anno precedente e 5 nel 2015. In tre anni, diciassette uomini, si sono uccisi perché si sono sentiti abbandonati e sopraffatti dal disagio lavorativo.

Il problema dei detenuti psichiatrici. Molto dello stress lamentato dagli agenti, nel questionario, dipenderebbe dalla chiusura degli ospedali psichiatrici. Con la chiusura degli OPG, infatti, è aumentata la presenza di questi detenuti negli istituti penitenziari causando nuove criticità e problematiche di gestione sia del detenuto con problemi psichici che del ristretto esasperato dalla coesistenza con il soggetto malato. Tra le cause anche, carenza di personale, formazione scadente e dirigenti poco attenti e preparati. Ma, se quasi un terzo degli agenti della penitenziaria dichiara un disagio al limite della sopportazione, il 65% lamenta una situazione di forte malessere.  

Pochi agenti, troppi detenuti. Un primo aspetto, all’origine dei disagi, dell'esasperazione e del malessere degli agenti, risulta essere il carico di lavoro da tutti percepito come eccessivo, difficile da sostenere. Un punto sicuramente di facile comprensione, considerando il sovraffollamento carcerario e l’organico degli operatori di polizia, inadeguato sia sotto il profilo numerico che di età: agenti sempre più anziani a dover contrastare un numero sempre crescente di detenuti. Dall’indagine è emerso che a creare stress e ansia anche le pause dell’orario di lavoro che risultano non sono sufficienti e gli straordinari che, negli ultimi anni, hanno la tendenza a diventare ordinari. “In generale i lavoratori hanno un controllo molto scarso sulla gestione del proprio lavoro - spiega a Panorama.it, Angelo Urso, Segretario Generale della Uilpa Penitenziari - questa scarsa autonomia non riguarda solo le modalità operative, ma anche tempi e ritmi che delineano un contesto rigido e privo di margini di flessibilità”. Altrettanto critica sarebbe la mancanza di chiarezza del ruolo che l’agente è chiamato a svolgere.

Gli incarichi "abusivi" degli agenti. “Una percentuale piuttosto importante degli agenti ha dichiarato di non sapere come svolgere il proprio lavoro, di non avere chiari compiti e responsabilità - prosegue Urso - un problema che è consequenziale alla carenza di personale e che li costringe, ogni giorno, a dover ricoprire più ruoli ed incarichi in più settori, talvolta anche di responsabilità maggiori rispetto al grado di servizio dell’agente”. Infatti, sarebbero 9 lavoratori su 10 a lamentarsi di una condizione di scarsità di personale. Questo genererebbe stanchezza che porterebbe, la maggior parte degli agenti, al timore di sbagliare, con possibili conseguenze sia per la sicurezza del carcere, sia per gli operatori che hanno rilevanti responsabilità anche di carattere penale. Ansia e forti stati depressivi sarebbero generati anche dalla gestione dei detenuti stranieri oltre che dai soggetti con problemi di carattere psicologico.

Una formazione inadeguata. “Con la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari è aumentata la presenza dei detenuti con problemi psichiatrici nei normali istituti penitenziari – puntualizza Angelo Urso – anche in questo caso la formazione ricevuta dagli agenti per fronteggiare queste situazioni, è ritenuta dagli stessi insufficiente”. Il 94,5% degli intervistati considera questo uno dei fattori più critici, per la difficoltà di far fronte alle crisi anche violente che hanno frequentemente questi detenuti. “La durata della vita lavorativa si allunga. Si va in pensione più tardi e sono pochi i giovani che subentrano- prosegue il segretario generale Uilpa- uno degli aspetti più delicati è, infatti, il turno di notte. Circa l’85% degli agenti dichiarano una maggiore e sempre crescente difficoltà di adattamento ai turni avvicendati, comprensivi di quello notturno, soprattutto per gli operatori più anziani”. A generare il malessere che nel 35% dei casi, ha portato ad un disagio pesante e dai risvolti allarmanti tra gli agenti, c’è anche la poca esperienza e capacità di gestione degli eventi critici da parte dei dirigenti e commissari. 

I dirigenti sono "distratti" e poco preparati. Gli agenti dichiarano che di fronte alle difficoltà che si trovano ad affrontare quotidianamente nei settori carcerari, il supporto di dirigenti e, talvolta, dei colleghi è scarso. In effetti, i dati, fanno emergere rapporti critici con addirittura segnalazioni di molestie, prepotenze e vessazioni. “In generale viene lamentato un approccio distante e poco comprensivo delle problematiche di chi lavora in prima linea - continua Urso-  e i momenti di comunicazione sono scarsi o del tutto assenti. Sono carenti anche le risposte della direzione alle problematiche dei detenuti. Non a caso quasi la metà degli agenti afferma che “le richieste vengono regolarmente ignorate”, mettendo così il personale nella stressante condizione di non avere delle risposte da dare”.

Ma dall’indagine effettuata tra gli agenti, c’è un aspetto inquietante: il 73% del personale di polizia penitenziaria denuncia di non sentirsi tutelato dalla direzione e teme che “le responsabilità non sarebbero adeguatamente identificate se qualcosa dovesse andare male”. In sostanza, temono atteggiamenti “pilateschi” da parte dei vertici del carcere.

Strutture fatiscenti e divise poco dignitose. Non poteva non emergere dal sondaggio anche le condizioni fatiscenti nelle quali gli uomini e le donne della Penitenziaria, sono costretti a lavorare. Quindi, carceri prive dei requisiti igienico-sanitari minimi e strutture non sicure sotto il profilo costruttivo. Persino le divise, secondo il 72% dei lavoratori, non permetterebbero di presentarsi in maniera dignitosa ed autorevole. “E’ necessario un potenziamento del personale e l’ottimizzazione delle procedure operative per ridurre i carichi di lavoro e quindi stati di stress critici tra gli agenti- conclude Angelo Urso- occorre porre attenzione alla formazione in quanto è uno strumento indispensabile per mettere gli operatori in grado di affrontare le situazioni critiche che sono inevitabili nel lavoro carcerario. Analogamente, però, è indispensabile anche quella per i commissari finalizzata a superare le gravi e fondamentali carenze del management che gli agenti hanno denunciato nel sondaggio”.

Quindici anni di morti e suicidi nelle nostre carceri, scrive Barbara Alessandrini su “L’Opinione” del 21 ottobre 2015. Mancano solo due mesi al termine degli Stati Generali dell’esecuzione penale, il semestre di lavoro e confronto tra operatori penitenziari, magistrati, avvocati, docenti, esperti, rappresentanti della cultura e dell’associazionismo civile inaugurato a maggio per volontà del ministro della Giustizia, Andrea Orlando. È ovviamente presto per verificare se i 18 tavoli tematici impegnati in un’imponente mole di lavoro approderanno alla definizione di un nuovo e organico modello di esecuzione della pena individuando soluzioni materialmente utili al reinserimento, della tutela della dignità e del recupero dei detenuti e ad abbattere il muro culturale e politico contro cui regolarmente si schianta il disegno ed il senso che la Costituzione ha assegnato alla detenzione. Intanto, però, gli istituti di pena italiani seguitano ad inghiottirsi vite umane: 2459 decessi di cui 877 suicidi dal 2000 al 5 ottobre 2015. Sono i dati aggiornati contenuti nel dossier “Morire di carcere, dossier 2000-2015. Suicidi, assistenza sanitaria disastrata, morti per cause non chiare, overdose” curato dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere, di cui pubblichiamo i dati, indegni per un paese civile. Numeri che dovrebbe dare la misura della prova cui sono chiamati gli Stati Generali delle carceri e delle ciclopiche dimensioni della sfida cui sono chiamati: riuscire a dare un decisiva spinta a capovolgere le tendenze attuali della politica nei confronti della pena detentiva e ricondurre l’esecuzione penale entro l’alveo dei principi sanciti dal dettato costituzionale e della giurisprudenza europea, di restituirle quel fine rieducativo e quella funzione risocializzante e di ricostruzione e proiezione del detenuto verso il reinserimento, insomma quel rispetto della dignità umana che i passati decenni pervasi di giustizialismo e di pulsioni punitive nei confronti di indagati e detenuti tanto hanno contribuito ad erodere. Non ci si deve stancare di ripetere che si tratta di un traguardo operativo e culturale insieme, che sarà raggiunto soltanto quando l’opinione pubblica si avvicinerà al mondo della detenzione e comprenderà che la certezza della pena significa innanzitutto riconoscerle le finalità rieducative ed eliminare dalla sua dimensione quello che già Platone nel “Protagora” definiva con efficacia il “desiderio di vendicarsi come una belva”. Tanto più alla luce delle ‘utilitaristiche’ ricadute virtuose che una pena volta al rispetto della dignità ed al reinserimento comporta in termini di sicurezza collettiva e calo delle recidive (il 68 per cento dei ristretti in condizioni meramente afflittive commette nuovi reati una volta fuori dal carcere mentre solo il 19% di chi ha avuto accesso a percorsi riabilitativi e formativi torna a delinquere). Solo quando gli elementari principi costituzionali e della civiltà giuridica, quindi della civiltà, faranno parte del bagaglio comune e verrà ritrovato e riconosciuto il senso reale dell’esecuzione penale la prospettiva dell’appuntamento elettorale cesserà progressivamente di premiare politiche intrise di quel populismo penale responsabile di irrigidimenti sanzionatori e di una visione della pena tiranneggiata dal carattere meramente afflittivo, punitivo e retributivo. Gli Stati Generali rappresentano dunque il primo faro acceso da decenni sulle storture del nostro sistema penitenziario per portare all’attenzione del dibattito pubblico e politico in modo maturo lo stato di illegalità in cui versa il nostro sistema carcerario e le condizioni disumane e degradanti a cui sono costretti i detenuti. “Sei mesi di ampio e approfondito confronto - spiega da mesi Orlando - che dovrà portare certamente a definire un nuovo modello di esecuzione penale e una migliore fisionomia del carcere, più dignitosa per chi vi lavora e per chi vi è ristretto”. Che riescano ad aprire una breccia nell’imperante cultura e non si risolvano in una sfilata ad effetto che ha tenuto impegnati molti addetti ai lavori per una manciata di mesi, grossomodo gli stessi che è durato quell’Expò situato proprio accanto al carcere di Opera dove gli Stati Generali sono stati inaugurati, questo rimane, per adesso, soltanto un auspicio. L’immagine e la realtà del nostro sistema carcerario rimane, nel frattempo, spettrale e sebbene la minaccia delle sanzioni della Cedu abbia agito da propulsore per la presa in carico di un’emergenza che non era più differibile, i metodi con cui la si è fronteggiata hanno molto il segno dell’improvvisazione e della disumanità. Alcune misure come l’aver dato attuazione alla legge 67/2014 che regola la depenalizzazione e le pene detentive non carcerarie favoriscono senz’altro lo sfollamento degli istituti di pena. Ma ricordiamo che il contributo decisivo alla deflazione del sovraffollamento carcerario è stato dato dalla sentenza di incostituzionalità da parte della Consulta sulla Legge Fini- Giovanardi che ha decriminalizzato le droghe leggere e di conseguenza dato il via allo sfoltimento progressivo (le pene non superano i sei anni di detenzione) delle carceri di una buona parte di quel 40% di detenuti accalcati per anni per detenzione di sostanze stupefacenti leggere. Quel che si è invece fatto per affrontare l’emergenza illegalità/sovraffollamento delle nostre carceri, sempre sotto i riflettori della Cedu, è stato ricorrere ad inumani trasferimenti forzati, con la “deterritorializzazione” di molti detenuti dal loro istituto carcerario al fine di ottenere per ciascun ristretto lo spazio individuale minimo (3mq al netto degli arredi) stabilito dagli standard della Cedu: Una mera redistribuzione contabile lungo le carceri dello stivale realizzata a costo di amputare dignità, relazioni affettive e percorsi riabilitativi avviati nell’istituto di pena di origine. Sono solo alcune delle criticità che investono ancora il nostro sistema detentivo ed è di tutta evidenza che l’emergenza, che pone sul tavolo la razionalizzazione degli spazi detentivi, l’accesso ad attività lavorative, l’effettivo diritto alla salute, il disagio psichico, il miglioramento delle condizioni degli operatori penitenziari, le donne ed i minori con le loro esigenze di psicologiche e pedagogiche, il processo di reinserimento del condannato, è tutt’altro che superata. La pena rimarrà sempre, come è giusto che sia, l’aspetto più rigido e duro della giustizia, ma non le si deve permettere di uscire dal dettato costituzionale mortificando i diritti del singolo fino a spingerlo al suicidio o portandolo a morire in carcere nell’indifferenza politica, come accade invece nel nostro sistema penitenziario. I dati sullo stillicidio di morti e di suicidi all’interno degli istituti di pena dal 2000 ad oggi sono l’eloquente prova che al momento lo Stato merita soltanto un’inappellabile condanna.

Anno 2000, Suicidi 61, Totale morti 165;

Anno 2001, Suicidi 69, Totale morti 177;

Anno 2002, Suicidi 52, Totale morti 160;

Anno 2003, Suicidi 56, Totale morti 157;

Anno 2004, Suicidi 52, Totale morti 156;

Anno 2005, Suicidi 57, Totale morti 172;

Anno 2006, Suicidi 50, Totale morti 134;

Anno 2007, Suicidi 45, Totale morti 123;

Anno 2008, Suicidi 46, Totale morti 142;

Anno 2009, Suicidi 72, Totale morti 177;

Anno 2010, Suicidi 66, Totale morti 184;

Anno 2011, Suicidi 66, Totale morti 186;

Anno 2012, Suicidi 60, Totale morti 154;

Anno 2013, Suicidi 49, Totale morti 153;

Anno 2014, Suicidi 44, Totale morti 132;

Anno 2015 (*), Suicidi 34, Totale morti 88; Per un totale di 877 suicidi e 2.459 morti

(*) Aggiornamento al 5 ottobre 2015

Dossier “Morire di Carcere” 2015 (Aggiornamento al 5 ottobre 2015) 

Non li uccise la morte ma due guardie bigotte. Aldrovandi, Bianzino, Sandri, Uva, Cucchi...scrive di Davide Falcioni venerdì 22 giugno 2012. "Non mi uccise la morte ma due guardie bigotte mi cercarono l'anima a forza di botte". Fabrizio De André - Un Blasfemo (dietro ogni blasfemo c'è un giardino incantato) Non al denaro, non all'amore né al cielo (1971). Per cercare l'anima a Federico Aldrovandi ci si misero in 4. Luca Pollastri, Enzo Pontani, Paolo Forlani e Monica Segatto. Quattro poliziotti. C'era chi teneva e chi picchiava. Chi picchiava lo fece talmente forte che due manganelli si spezzarono sul corpo di Federico, che ostinatamente resisteva a quelle sferzate e tentava di ribellarsi, finché non venne immobilizzato. Morì verso l'alba per asfissia da posizione, con il torace schiacciato sull'asfalto dalle ginocchia dei poliziotti. Successivamente i quattro poliziotti descrissero Federico come un "invasato violento in evidente stato di agitazione". Da ieri quello che per anni è stato chiamato "Caso Aldrovandi" potrà essere chiamato "omicidio Aldrovandi". La Corte di Cassazione di Roma ha confermato le condanne a 3 anni e 6 mesi di reclusione a Pollastri, Pontani, Forlani e Segatto, responsabili di omicidio colposo per aver ecceduto nell'uso della forza. La vita di un ragazzo di 18 anni vale 3 anni e 6 mesi di reclusione. Comprensibilmente in molti hanno giudicato la pena troppo tenera, ma va considerata anche la verità storica che finalmente è stata definita. Una sentenza stabilisce che un ragazzo è stato ammazzato da alcuni poliziotti. Per un paese come l'Italia, dove queste cose vengono spesso occultate, è un fatto importante. Ma il caso di Federico Aldrovandi non è isolato. Come documentato dall'Osservatorio Repressione dal 1945 sono decine i cittadini uccisi per mano delle forze dell'ordine, che spesso hanno represso nel sangue manifestazioni di protesta. Senza considerare la repressione giudiziaria: oltre 15mila sono i denunciati dai fatti del G8 di Genova ad oggi: un tentativo, evidentemente, di trasformare lotte politiche in fatti di comune delinquenza. Per ragioni di spazio ci concentreremo sugli uomini morti a seguito di un fermo di polizia. Se siano stati uccisi, o se la morte sia sopraggiunta per altre ragioni, a noi non è dato saperlo con certezza. Nel caso di Aldrovandi possiamo, sentenza alla mano, parlare di omicidio: la stessa cosa non si può dire (almeno, non con rigore giornalistico) per altre situazioni che però destano preoccupazione, tra tentativi di depistaggio e insabbiamenti. Sempre per ragioni di sintesi, partiremo da Genova 2001, dai giorni torridi del luglio di 11 anni fa che videro la morte del giovane Carlo Giuliani. Carlo aveva 23 anni. Manifestava, insieme a migliaia di compagni, all'assemblea del G8 di Genova, in una città blindata e ferita da disordini e scontri continui. Carlo morì a Piazza Alimonda, ucciso da un colpo sparato dal carabiniere Mario Placanica, che si trovava all'interno di un Land Rover di servizio. Carlo venne colpito subito dopo aver afferrato da terra un estintore. Una ricostruzione affidabile della vicenda, con immagini da punti di vista differenti, è stata effettuata da Lucarelli nella trasmissione Blu Notte. Dopo aver esploso il colpo, diretto allo zigomi di Giuliani, il mezzo dei Carabinieri passò ben due volte sul corpo del ragazzo. Il carabiniere Placanica è stato prosciolto dall'accusa di omicidio colposo: avrebbe sparato, secondo i giudici, per legittima difesa. L'11 luglio del 2003 all'interno del carcere Le Sugheri di Livorno venne ritrovato il corpo di Marcello Lonzi, 29 anni, in un lago di sangue. Secondo la giustizia italiana il ragazzo sarebbe morto per cause naturali (il caso è stato archiviato) ma le foto del carcere e all'obitorio mostrerebbero chiarissimi segni di pestaggio. La madre di Marcello, Maria Ciuffi, ha condotto per anni una battaglia per la verità sulla morte del figlio. Riccardo Rasman morì il 27 ottobre del 2006 a Trieste. Nella sua casa di via Grego fecero irruzione le forze dell'ordine. Il ragazzo, affetto da sindrome schizofrenica paranoide, dovuta a episodi di nonnismo subìti durante il servizio militare, era in uno stato di particolare felicità: il giorno dopo avrebbe iniziato a lavorare come operatore ecologico. Ascoltava musica ad alto volume, lanciando un paio di petardi dal balcone. Qualcuno chiamò il 113 denunciando il baccano, arrivarono due volanti, gli agenti entrarono a casa dell'uomo, lo immobilizzarono e ammanettarono a seguito di una colluttazione. Come per Aldrovandi, Riccardo Rasman sarebbe morto per asfissia: benché fosse ancora ammanettato i poliziotti continuarono a schiacchiargli la schiena impedendogli la respirazione. Il 14 ottobre del 2007 fu la volta di Aldo Bianzino, falegname, in una cella del carcere di Perugia. Venne arrestato due giorni prima insieme alla compagna per coltivazione e detenzione di piantine di canapa indiana. Aldo era in buona salute: morì, ufficialmente, per cause naturali (a seguito di una malattia cardiaca). Una perizia medico legale effettuata dal dottor Lalli e richiesta dalla famiglia rivelerà, invece, la presenza di 4 ematomi cerebrali, fegato e milza rotte, 2 costole fratturate. Ne seguì un processo conclusosi con l'archiviazione ma, grazie all'insistenza di amici e familiari e all'apertura di un blog, negli ultimi mesi si sta tentando di riaprire le indagini. Neanche un mese dopo, l'11 ottobre 2007, nell'autogrill di Badia al Pino verrà ucciso Gabriele Sandri, tifoso della Lazio. Ad ammazzarlo un colpo di pistola esploso dall'agente di polizia Luigi Spaccarotella, che in quel momento si trovava dall'altra parte della carreggiata. Il poliziotto verrà condannato in tutti e tre i gradi di giudizio per omicidio volontario. Giuseppe Uva morirà il 15 giugno del 2008. Venne fermato dai Carabinieri insieme ad un amico, che raccontò: “Avevamo bevuto. Mettemmo le transenne in mezzo alla strada. Una bravata”. Li portarono via, li misero in due stanze diverse. L'amico sente le grida di Giuseppe nell’altra stanza. Chiama il 118. Chiede aiuto. Poi sono gli stessi carabinieri a chiamare i sanitari e richiedono il trattamento sanitario obbligatorio per Uva. Giuseppe muore in ospedale dopo essere rimasto oltre tre ore in caserma. Sotto processo è un medico accusato di avergli somministrato un farmaco che avrebbe fatto reazione con l’alcool che aveva in corpo. La sorella Lucia disse: "Era pieno di lividi. Aveva bruciature di sigaretta dietro il collo e i testicoli tumefatti”. “Mi hanno spiegato che Pino ha dato in escandescenze, che è andato a sbattere contro i muri, ma quelle ferite non si spiegano così”. “Giuseppe – rivela la sorella – aveva anche sangue nell’ano”. Venne violentato? Il 24 giugno del 2008 Niki Aprile Gatti, 26 anni, muore nel carcere di massima sicurezza di Sollicciano (Firenze). Era stato arrestato a seguito di un'indagine su una società di San Marino responsabile di una truffa informatica. Venne trovato impiccato a un laccio nel bagno del carcere. Tutto avrebbe fatto pensare a un suicidio, ma la mamma di Niki non ci sta e, ancora una volta, scrive su un blog: "L’utilizzo di un solo laccio è di per sé idoneo a causare la morte per strangolamento di una persona. Ma certamente non idoneo a sorreggere il corpo di Niki, del peso di 92 chili. Inoltre non si comprende come possa essere stata consumata l’impiccagione quando nel bagno non vi era sufficiente altezza tra i jeans e il piano di calpestio del pavimento". Il 25 luglio del 2008 muore nel carcere Marassi di Genova Manuel Eliantonio, 22 anni. Era stato in discoteca e, a seguito di un controllo di Polizia, gli rilevarono tracce di alcol e stupefacenti. Per questo venne fermano, tentò la fuga ma venne acciuffato e incarcerato. Dopo sette mesi de detenzione per resistenza a pubblico ufficiale e a meno di un mese dal rilascio muore. L'autopsia parla di intossicazione da butano ma non spiega i lividi sul suo corpo. Carmelo Castro è morto in carcere il 28 marzo del 2009, a soli 19 anni. Era stato arrestato per aver fatto il palo in una rapina. Tre giorni dopo aver varcato il portone del carcere di Piazza Lanza si è suicidato legando un lenzuolo allo spigolo della sua branda. Così è stato scritto nella relazione di servizio e questo ha confermato anche il gip Alfredo Gari che ha già respinto una prima richiesta di riapertura delle indagini presentata dalla famiglia del ragazzo. Ma la madre Grazia La Venia non ci sta: "Mio figlio non può essersi suicidato, non era in grado nemmeno di allacciarsi le scarpe da solo, figuriamoci attaccare un lenzuolo alla branda e impiccarsi". Al suo fianco ora si schiera l’associazione Antigone, che ha denunciato: "Nel corso delle indagini preliminari non è stato disposto il sequestro della cella, né del lenzuolo con il quale Castro si sarebbe impiccato a questo, si aggiunga che non è stato sentito nessuno del personale di polizia penitenziaria intervenuto, né il detenuto che avrebbe portato il pranzo a Castro e che sarebbe l’ultima persona ad averlo visto ancora da vivo". Il 21 luglio del 2009, Stefano Frapporti, operaio di 48 anni, sta tornando da lavoro in sella alla sua bicicletta quando viene fermato da due carabinieri in borghese per un'infrazione stradale. Portato in carcere perché sospettato di spaccio non uscirà mai vivo dalla cella. Ufficialmente morirà suicida, ma tra gli amici da anni è in vigore una battaglia per chiedere chiarezza. Il 58enne Franco Mastrogiovanni morirà il 4 agosto del 2009 dopo 4 giorni di trattamento sanitario obbligatorio e dopo essere rimasto legato più di 80 ore a un lettino, alimentato solo di flebo e sedato con farmaci antipsicotici. Il video della sua agonia fece il giro del mondo. Tutti conoscono la storia di Stefano Cucchi, geometra di 31 anni morto nel reparto carcerario dell'Ospedale Pertini di Roma il 22 ottobre 2009. Stefano era accusato di detenzione di stupefacenti. Morì di edema polmonare dopo 8 giorni di agonia, nei quali perse 7 chili. Sul suo corpo, le cui foto sconvolsero l'Italia, venne rilevata una vertebra fratturata, la rottura del coccige, sangue nello stomaco e altri traumi sparsi ovunque. Gli agenti di polizia penitenziaria che lo ebbero in custodia sono tuttora indagati per lesioni e percosse (è caduta l'accusa di omicidio colposo), mentre i medici sono indagati per abbandono di incapace. E la lista potrebbe essere ancora lunga, se contenesse anche i nomi dei detenuti che si sono tolti la vita negli ultimi anni, spesso a causa delle condizioni disumane in cui versano le carceri. La soluzione del caso Aldrovandi dovrebbe indurre a far chiarezza anche su tutti gli altri. Verso i quali, come abbiamo visto, troppo spesso è prevalsa la superficialità di giudizio quando non un assurdo spirito cameratesco. Si ringrazia l'Osservatorio sulla Repressione.

Botte dietro le sbarre, i troppi casi Uva nelle carceri italiane. Da Lucera a Siracusa, da Pordenone a Ivrea. Molti i casi controversi di morte o lesioni in carcere. Un detenuto: «La mia faccia era trasformata, gonfia come un pallone, era un viso irriconoscibile», scrive Carmine Gazzanni il 20 Aprile 2016 su “L’Inchiesta”. Due assoluzioni per una brutta faccenda che ancora non risulta affatto chiara. Lucia Uva, sorella di Giuseppe, assolta dall'accusa di aver diffamato poliziotti e carabinieri che lo avevano in custodia. Questi ultimi a loro volta assolti venerdì 15 aprile dall'accusa di aver seviziato l'operaio 40 enne. Rimane un enorme cono d’ombra: gli ematomi e le tumefazioni sul corpo di Giuseppe Uva rimangono, almeno per ora, senza una concreta spiegazione. «Non si può che pensare tutto il male del mondo sulla vicenda Uva. Non siamo ciechi: è evidente che la verità sia un’altra. Ne vanno di mezzo anche le istituzioni, che perdono la credibilità» dice a Linkiesta Giuseppe Rotundo, uno che ha rischiato di finire esattamente come Uva, Stefano Cucchi e tanti altri che sono morti dietro le sbarre. «Sono un miracolato. Io quella notte dovevo morire», ricorda ancora. È il 2011 e Giuseppe è detenuto al carcere di Lucera, in provincia di Foggia. Quel giorno ha un diverbio con alcuni agenti della polizia penitenziaria. «Sapevo – racconta a Linkiesta – che sarei andato incontro ad un rapporto disciplinare. Mai però avrei immaginato che mi avrebbero pestato». Il giorno dopo due dottoresse con le quali aveva fissato da tempo una visita medica, addirittura non lo riconosceranno. «La faccia era trasformata, gonfia come un pallone, era un viso irriconoscibile» dirà una delle due dottoresse al pm che ha indagato e ottenuto il rinvio a giudizio degli agenti, grazie alla sua tempestività di inviare subito in carcere qualcuno che fotografasse Rotundo. Foto inequivocabili: lividi su braccia, gambe e schiena, tagli sulla faccia, piede gonfio, occhio sanguinante. Ora il processo è in fase dibattimentale e tutti, sia guardie che detenuto, sono imputati e persone offese. Ma gli agenti non sono a giudizio per tortura. Impossibile, dato che in Italia non esiste una legge che punisca questa tipologia di reato. Meno “fortunato” è stato Alfredo Liotta, sulla cui storia pure aleggiano pesanti ombre che purtroppo, visti i tempi giudiziari e la prescrizione che si avvicina per gli imputati, rischiano di non essere mai più diradate. È il 26 luglio 2012 quando il suo corpo viene ritrovato ormai senza vita in una cella del carcere di Siracusa. All’inizio si dirà che Alfredo è morto per un presunto sciopero della fame. Peccato però che di tale sciopero non ci sia alcuna traccia nel diario clinico. Tanto che il legale di Antigone, l’associazione che si occupa della tutela dei diritti umani in carcere, presenta un esposto. Più di qualcosa infatti non torna. Perché, ad esempio, di fronte al grave dimagrimento di Alfredo, che già da un mese prima «non riusciva più a stare in posizione eretta», non sono stati disposti neanche quei minimi accertamenti come la misurazione del peso o il monitoraggio dei parametri vitali? Arriviamo così a novembre 2013: la Procura di Siracusa iscrive ben dieci persone nel registro degli indagati tra direttrice del carcere, medici, infermieri e perito nominato dallo stesso tribunale. Sono passati quasi quattro anni dalla morte di Liotta, ma la Procura non ha ancora provveduto alla chiusura delle indagini. Indagini che, invece, forse verranno presto archiviate per Stefano Borriello, un caso di cui Linkiesta si è già occupata. Una morte improvvisa, senza alcuna ragione. Tanto che, anche qui, la Procura di Pordenone ha deciso di aprire un fascicolo contro ignoti per omicidio colposo. Aveva dunque nominato un perito medico per accertare le «cause della morte» e «eventuali lesioni interne o esterne» riportate dal giovane. Dopo un silenzio durato ben otto mesi, il consulente del pm ha reso noto che Stefano sarebbe morto per una banale polmonite batterica e che, a fronte di questa patologia, in modo inspiegabile, nessuna cura poteva essere apprestata. Ma è possibile – si chiedono da Antigone – che un ragazzo muoia in carcere per una semplice polmonite batterica e che dinanzi a questo evento non si decida di individuarne i responsabili? Anche perché, ovviamente, la polmonite non nasce dal nulla: ha sintomi ben precisi, ha un decorso di diversi giorni e, soprattutto, se correttamente diagnosticata ci sono terapie risolutive. Non è un caso allora che per un fatto analogo, ci dicono ancora da Antigone, lo scorso mese di marzo a Roma è stata chiesta la condanna per omicidio colposo per il medico del carcere ritenuto responsabile della morte di un giovane, avvenuta nel carcere romano di Rebibbia proprio per polmonite: «una diagnosi tempestiva gli avrebbe salvato la vita». Ma non è finita qui. Perché accanto a episodi più noti saliti alla ribalta delle cronache, ci sono casi di violenza dietro le sbarre di cui spesso poco o nulla si sa. È gennaio quando alla sede del Difensore civico del Piemonte arriva una lettera a firma «R.A.» in cui viene denunciato un episodio di violenza che si sarebbe verificato presso la Casa circondariale di Ivrea e di cui l’autore della missiva sarebbe stato teste oculare. «Il giorno sabato 7 novembre scorso – si legge nella lettera – ho assistito al maltrattamento di un giovane detenuto, probabilmente nordafricano di cui non conosco il nome. Verso le ore 20.15 sono stato attratto da urla di dolore e di richieste di aiuto e sono uscito dalla mia cella nel corridoio che consente di vedere la “rotonda” del piano terra. Ho visto tre agenti picchiare con schiaffi e pugni il giovane che continuava a gridare chiedendo aiuto e cercava di proteggersi senza reagire. Alla scena assistevano altri agenti e un operatore sanitario che restavano passivi ad osservare. Il giovane veniva trascinato verso i locali dell’infermeria mentre continuava a gridare». R.A., a questo punto, segnala il fatto al magistrato di sorveglianza di Vercelli e alla direttrice della Casa circondariale. Una denuncia importante, quella di R.A., cui è seguito un esposto presentato dallo stesso Difensore civico, e un procedimento aperto alla Procura di Ivrea. Per ora contro ignoti. Ignoti che, si spera, un giorno abbiano un volto, un nome e un cognome.

LA STORIA DELL’AMNISTIA.

Storia dell’amnistia da Togliatti ai giorni di Tangentopoli, scrive Massimo Lensi il 14 Aprile 2017 su "Il Dubbio". La chiedevano i Papi, ci aiutò a uscire dal fascismo, Marco Pannella ne ha fatto per anni il suo campo di battaglia, ma dopo Mani Pulite è scomparsa dall’orizzonte politico e culturale italiano. A Pasqua si terrà a Roma la Quinta marcia per l’Amnistia, organizzata dal Partito Radicale. Marco Pannella coniò un’efficace espressione per spiegare l’importanza della clemenza. Egli la invocava per la Repubblica, per rientrare nella legalità e porre fine alle violazioni della Costituzione nella gestione del sistema penitenziario, nella durata dei processi, nell’utilizzo della prescrizione nascosta conseguente all’applicazione discrezionale dell’obbligatorietà dell’azione penale da parte dei magistrati. “Amnistia per la Repubblica” era lo slogan di Pannella. La storia dei provvedimenti di clemenza di un Paese racconta, infatti, più cose di quanto si possa immaginare. L’amnistia e l’indulto – a volte anche il provvedimento di grazia – sono atti politici a tutto tondo. La clemenza porta sempre con sé un’attenzione particolare ai rapporti tra Stato e magistratura, tra esecuzione della pena e reinserimento sociale, tra eventi di particolare rilievo e opinione pubblica, ed è accompagnata sempre da una tendenza a un particolare intento di riscrittura della storia, riscontrabile nei dispositivi legislativi: accertare la verità, farla dimenticare o renderla del tutto illeggibile. Stéphane Gacon nel suo libro “L’Amnistie” (2002) classificava la clemenza di Stato in tre tipologie differenti: l’amnistia perdono, atto di generosità tipico dei regimi totalitari; l’amnistia- rifondazione, che interviene per riunificare un Paese diviso; l’amnistia- riconciliazione che segue la fine dei regimi dittatoriali. L’Italia repubblicana ha concesso una trentina di provvedimenti di clemenza, tra amnistie e indulti. L’ultima amnistia è del 1990, mentre nel 2006 fu approvato l’ultimo indulto. Terminate le drammatiche vicende politiche e militari che portarono alla caduta del regime fascista, lo strumento dell’amnistia fu utilizzato tra il 1944 e il 1948 per vanificare la vigenza della normativa penale del regime, il codice Rocco, nei confronti dei delitti politici commessi durante la Resistenza, o nel periodo successivo. E’ interessante notare come, all’epoca, il tentativo del legislatore fu di chiudere con il periodo dittatoriale e la sua legislazione penale, al fine di far nascere lo stato “nuovo” e far sì che questo trovasse in sé la propria legittimità giuridica e non nelle leggi dello Stato precedente. Un tentativo che, però, rimase tale. Per Piero Calamandrei, infatti, mancò sul terreno giuridico della forma “lo stabile riconoscimento della nuova legalità uscita dalla Rivoluzione”. Ed è altrettanto vero che i provvedimenti di amnistia di quel periodo ebbero in comune una natura delegittimante nei confronti della Resistenza, in quanto le azioni commesse durante la lotta antifascista vennero considerate alla stregua di reati comuni, anche se motivati da eccezionali contingenze. Si restava a tutti gli effetti all’interno del recinto dell’art. 8 del codice penale, che definisce come delitto politico: “ogni delitto, che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. È altresì considerato politico il delitto comune determinato in tutto o in parte da motivi politici”.

Il decreto presidenziale n. 4/1946, conosciuto con il nome di “amnistia Togliatti”, all’epoca guardasigilli della Repubblica, tentò di consegnare all’oblio non solo i reati connessi all’attività partigiana, ma anche i reati legati alla collaborazione con l’esercito tedesco di occupazione, pur con numerose eccezioni e sollevando numerose polemiche. L’uomo dalla stilografica con l’inchiostro verde (cioè Togliatti) scommise sul futuro per mettere fine a un possibile ciclo di rese dei conti, ma fu accusato, in nome della sua proverbiale “doppiezza”, di aver aperto le porte del carcere ai fascisti e ai repubblichini imprigionati subito dopo la Liberazione. Sta di fatto che, forse anche a causa di un’interpretazione distorta del testo del decreto (scritto, invero, con un linguaggio giuridico assai poco limpido), tra i 7061 amnistiati, 153 erano partigiani, e 6.908 fascisti.

Negli anni ’ 50 e ’ 60 i provvedimenti di clemenza furono nove, di cui cinque strettamente connessi sia a fatti politici legati alla scia lunga del dopo- guerra, sia ai movimenti della fine degli anni ’ 60, con l’attribuzione di reati commessi in occasione di agitazioni e manifestazioni studentesche e sindacali (amnistia del ’ 68). Tutti e cinque questi provvedimenti comportarono la concessione sia di amnistia, sia di indulto. Il primo fu nel 1953 (7.833 amnistiati) e l’ultimo nel 1970 (11.961 amnistiati); gli altri furono concessi nel 1959 (7.084 amnistiati), nel 1966 (11.982 amnistiati) e nel 1968 (315 amnistiati). Dopo il 1970 non ci furono più amnistie per fatti politici.

L’amnistia del ’ 68 fu particolarmente importante perché ebbe come oggetto esclusivamente reati politici e sociali. Il senatore Tristano Codignola del Partito Socialista nel presentare il provvedimento al Senato disse: “Appare quindi evidente che, nell’interesse stesso della democrazia, nell’accezione aperta e progressiva voluta dalla nostra Costituzione, occorre procedere di pari passo alla realizzazione di profonde riforme strutturali e alla creazione di un clima maggiormente democratico ed antiautoritario nel Paese”. Con l’amnistia del ’ 68, si chiuse finalmente il ciclo legato alla guerra di Liberazione, si aprì però il capitolo che precedette gli anni di piombo. E per la prima volta nel 1970 fecero capolino nell’amnistia il riferimento ai reati in materia tributaria e nell’indulto il riferimento a reati in materia di dogane, di imposta di fabbricazione e di monopolio. La giovane Italia del primo dopo- guerra diventava maggiorenne e i reati comuni, al posto di quelli politici, iniziarono a catturare sempre più l’attenzione del legislatore: un’attenzione che, come vedremo, costerà cara.

Nel 1982 e 1983 furono approvati due provvedimenti di sola amnistia ed esclusivamente per reati finanziari. Il clima iniziò a farsi pesante e il parlamento venne accusato di difendere corrotti e concussi tanto che, dopo qualche anno, il 6 marzo del 1992, il Parlamento operò una revisione costituzionale modificando profondamente la ratio dell’articolo 79 della Costituzione in materia di concessione di amnistia e indulto. Nel testo voluto dai Padri Costituenti amnistia e indulto erano concessi dal Presidente della Repubblica, previa legge di delegazione da parte delle Camere, approvata a maggioranza semplice. La modifica introdotta nel 1992 fece sì che questi provvedimenti di clemenza potessero essere concessi solo con una legge deliberata in ogni articolo e nella votazione finale dalla maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. L’innalzamento del quorum necessario all’approvazione del provvedimento fu deciso sull’onda dell’emotività suscitata nella piazza dallo scandalo di “Mani Pulite” per evitare il ripetersi di amnistie “concesse a cuor leggero”. Erano i tempi del lancio delle monetine davanti all’Hotel Raphael e la piazza esigeva una svolta nel rispetto della penalità. Fu in quel periodo che prese il via una prima trasformazione dei modelli istituzionali che lentamente portò al trasferimento dei sistemi di controllo sociale dalle forme di protezione a quelle della punizione. La grande crisi economica degli anni successivi portò a compimento questa operazione di trasformazione. L’insicurezza sociale che ne è scaturita si è, infatti, rivolta al sistema penale, nella forma dell’esercizio delle funzioni repressive. Il numero dei reati inseriti del codice penale ha continuato a crescere insieme alla domanda di penalità, portando in pochi anni a raddoppiare il numero di detenuti delle carceri italiane: dai 30mila degli anni Novanta ai quasi 60mila dei nostri giorni. Il mutamento delle relazioni sociali e di potere e il tramonto di un certo tipo di welfare hanno condannato qualsiasi progetto di amnistia in fondo al cassetto delle priorità. Le carceri italiane hanno così cominciato a conoscere il sistematico sovraffollamento e i trattamenti inumani e degradanti riservati alla popolazione detenuta.

A ben vedere, quindi, la richiesta di amnistia (e indulto) sostenuta con forza dal Partito Radicale non è per un provvedimento clemenza. Quella che si chiede non è la amnistia- amnesia; è, invece, la richiesta di una amnistia politica per porre fine al sovraffollamento cronico e inumano delle nostre carceri e alla intollerabile lentezza dei processi, che hanno fatto meritare allo stato italiano plurime condanne dalle Corti europee. In altre parole, un’amnistia per porre le radici di una Giustizia (più) Giusta.

ESEMPI SCOLASTICI. SONO ASSOLUTAMENTE INNOCENTI. NICOLA SACCO E BARTOLOMEO VANZETTI.

Sacco e Vanzetti. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. «Io dichiaro che ogni stigma ed ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti.» (Il proclama del 23 agosto 1977, con il quale l'allora governatore del Massachusetts Michael Dukakis assolveva i due anarchici italiani dal crimine a loro attribuito, esattamente 50 anni dopo la loro esecuzione sulla sedia elettrica).

Ferdinando Nicola Sacco (Torremaggiore, 22 aprile 1891 – Charlestown, 23 agosto 1927) e Bartolomeo Vanzetti (Villafalletto, 11 giugno 1888 – Charlestown, 23 agosto 1927) sono stati due attivisti e anarchici italiani. Sacco di professione faceva l'operaio in una fabbrica di scarpe. Vanzetti, invece, che gli amici chiamavano Tumlin, dopo aver a lungo girovagato negli Stati Uniti d'America facendo molti lavori diversi, rilevò da un italiano un carretto per la vendita del pesce; ma fece questo lavoro per pochi mesi. I due furono arrestati, processati e condannati a morte con l'accusa di omicidio di un contabile e di una guardia del calzaturificio «Slater and Morrill» di South Braintree. Sulla loro colpevolezza vi furono molti dubbi già all'epoca del loro processo; a nulla valse la confessione del detenuto portoghese Celestino Madeiros, che scagionava i due. I due furono giustiziati sulla sedia elettrica il 23 agosto 1927 nel penitenziario di Charlestown, presso Dedham. A cinquant'anni esatti dalla loro morte, il 23 agosto 1977 Michael Dukakis, governatore dello Stato del Massachusetts, riconobbe ufficialmente gli errori commessi nel processo e riabilitò completamente la memoria di Sacco e Vanzetti.

L'incontro. Nicola Sacco viaggia sulla motonave «Romanic» verso gli Stati Uniti d'America e giunge a Boston il 12 aprile del 1909; Bartolomeo Vanzetti, invece, raggiunge New York su «La Provence» il 19 giugno 1908, quando ha vent'anni; i due non si conoscono. Vanzetti, al processo, descriverà così l'esperienza dell'immigrazione: "Al centro immigrazione ebbi la prima sorpresa. Gli emigranti venivano smistati come tanti animali. Non una parola di gentilezza, di incoraggiamento, per alleggerire il fardello di dolori che pesa così tanto su chi è appena arrivato in America". Poi, in seguito scriverà: "Dove potevo andare? Cosa potevo fare? Quella era per me come la Terra Promessa. Il treno della sopraelevata passava sferragliando e non rispondeva niente. Le automobili e i tram passavano oltre senza badare a me".

Sacco nacque a Torremaggiore, in provincia di Foggia, il 22 aprile del 1891 da una famiglia di produttori agricoli e commercianti di olio e vino. Trovò lavoro in una fabbrica di calzature a Milford dove, nel 1912, sposò Rosina Zambelli, con la quale andò ad abitare in una casa con giardino ed ebbe un figlio, Dante, e una figlia, Ines. Lavorava sei giorni la settimana, dieci ore al giorno. Nonostante ciò, partecipava attivamente alle manifestazioni operaie dell'epoca, attraverso le quali i lavoratori chiedevano salari più alti e migliori condizioni di lavoro. In tali occasioni teneva spesso dei discorsi. A causa di queste attività fu arrestato nel 1916.

Vanzetti nacque a Villafalletto, in provincia di Cuneo, l'11 giugno del 1888, primogenito dei quattro figli di Giovanna Nivello (1862-1907) e Giovanni Battista Vanzetti (1849-1931), modesto proprietario terriero e gestore di una piccola caffetteria. Pur non vivendo in ristrettezze economiche, a spingerlo a emigrare negli Stati Uniti furono soprattutto l'improvvisa e tragica morte dell'amata madre, che lo portò quasi alla follia, e probabilmente una consuetudine familiare (anche il padre era stato emigrante per un breve periodo, dal 1881 al 1883 in California). Fece molti lavori, accettando tutto ciò che gli capitava. Lavorò in varie trattorie, in una cava, in un'acciaieria e in una fabbrica di cordami, la Plymouth Cordage Company. Spirito libero e indipendente, era un avido lettore soprattutto delle opere di Marx, Darwin, Hugo, Gorkij, Tolstoj, Zola e Dante. Nel 1916 guidò uno sciopero contro la Plymouth e per questo motivo nessuno volle più dargli un lavoro. Più tardi, nel 1919, si mise in proprio facendo il pescivendolo fino al momento dell'arresto.

Fu in quell'anno, il 1916, che Sacco e Vanzetti si conobbero ed entrarono entrambi a far parte di un gruppo anarchico italo-americano. Allo scoppio della Grande Guerra, tutto il collettivo fuggì in Messico per evitare la chiamata alle armi, poiché per un anarchico non c'era niente di peggio che uccidere o morire per uno Stato. Nicola e Bartolomeo fecero ritorno nel Massachusetts al termine del conflitto, non sapendo però di essere stati inclusi in una lista di sovversivi compilata dal Ministero di Giustizia, così come di essere pedinati dagli agenti segreti statunitensi. Nella stessa lista era incluso anche un amico di Vanzetti, il tipografo Andrea Salsedo, originario dell'isola di Pantelleria. Questi, il 3 maggio del 1920, fu trovato sfracellato al suolo alla base del grattacielo di New York dove al quattordicesimo piano aveva sede il Boi (Bureau of Investigation), dove Salsedo era tenuto illegalmente prigioniero ormai da lungo tempo, insieme a Roberto Elia. Vanzetti organizzò un comizio, su invito di Carlo Tresca, per protestare contro la vicenda, comizio che avrebbe dovuto avere luogo a Brockton il 9 maggio, ma insieme a Sacco fu arrestato prima, perché trovati in possesso entrambi di una rivoltella e Vanzetti di alcuni appunti da destinarsi alla tipografia per l'annuncio del comizio di Brockton. Pochi giorni dopo furono accusati anche di una rapina avvenuta a South Braintree, un sobborgo di Boston, poche settimane prima del loro arresto; in tale occasione erano stati uccisi a colpi di pistola il cassiere della ditta (il calzaturificio «Slater and Morrill») e una guardia giurata.

Verdetto condizionato. A parere di molti, alla base del verdetto di condanna, da parte di polizia, procuratori distrettuali, giudice e giuria vi furono pregiudizi e una forte volontà di perseguire una politica del terrore suggerita dal ministro della giustizia Palmer e culminata nella vicenda delle espulsioni. Sotto questo aspetto, Sacco e Vanzetti erano considerati due agnelli sacrificali, utili per testare la nuova linea di condotta contro gli avversari del governo. Erano infatti immigrati italiani con una comprensione imperfetta della lingua inglese; erano inoltre note le loro idee politiche radicali. Il giudice Webster Thayer li definì senza mezze parole due bastardi anarchici. Il Governatore del Massachusetts Alvan T. Fuller, che avrebbe potuto impedire l'esecuzione, rifiutò infine di farlo, dopo che un'apposita commissione da lui istituita per riesaminare il caso riaffermò le motivazioni della sentenza di condanna.

Si trattava di un periodo della storia statunitense caratterizzato da un'intensa paura dei comunisti, la paura rossa del 1917-1920. Né Sacco né Vanzetti si consideravano comunisti e Vanzetti non aveva nemmeno precedenti con la giustizia, ma i due erano conosciuti dalle autorità locali come militanti radicali coinvolti in scioperi, agitazioni politiche e propaganda contro la guerra.

Dall'ultimo discorso di Vanzetti alla corte prima della pronuncia della sentenza. Sacco e Vanzetti si ritenevano vittime del pregiudizio sociale e politico. Vanzetti, in particolare, ebbe a dire rivolgendosi per l'ultima volta al giudice Thayer: «Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra — non augurerei a nessuna di queste creature ciò che ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole. Ma la mia convinzione è che ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un anarchico, e davvero io sono un anarchico; ho sofferto perché ero un Italiano, e davvero io sono un Italiano [...] se voi poteste giustiziarmi due volte, e se potessi rinascere altre due volte, vivrei di nuovo per fare quello che ho fatto già.» (dal discorso di Vanzetti del 9 aprile 1927, a Dedham, Massachusetts)

La protesta. Quando il verdetto di morte fu reso noto, si tenne una manifestazione davanti al palazzo del governo, a Boston. La manifestazione durò ben dieci giorni, fino alla data dell'esecuzione. Il corteo attraversò il fiume e le strade sterrate fino alla prigione di Charlestown. La polizia e la guardia nazionale li attendevano dinanzi al carcere e sopra le sue mura vi erano mitragliatrici puntate verso i manifestanti.

L'intervento del governo italiano. Il caso di Sacco e Vanzetti scosse molto l'opinione pubblica italiana di allora e anche il governo fascista prese posizione e si mosse attivamente a sostegno dei due connazionali, nonostante le loro idee politiche. Anche Benito Mussolini riteneva il tribunale statunitense «pregiudizialmente prevenuto» nel giudicare Sacco e Vanzetti e, a partire dal 1923 fino all'esecuzione della condanna a morte nel 1927, i funzionari del Ministero degli Esteri, l'ambasciatore italiano a Washington e il Console italiano a Boston operarono presso le autorità degli Stati Uniti per ottenere prima una revisione del processo e poi la grazia per i due italiani. Lo stesso Mussolini un mese prima dell'esecuzione scrisse direttamente una lettera in cui chiedeva all'ambasciatore statunitense a Roma Henry Fletcher di intervenire presso il Governatore del Massachusetts per salvare la vita dei due condannati a morte.

Intellettuali pro Nick e Bart ed epilogo. Molti famosi intellettuali, compresi George Bernard Shaw, Bertrand Russell, Albert Einstein, Dorothy Parker, Edna St. Vincent Millay, John Dewey, John Dos Passos, Upton Sinclair, H. G. Wells e Arturo Giovannitti (il quale fu protagonista di un caso simile) sostennero a favore di Nick e Bart (come venivano chiamati) una campagna per giungere a un nuovo processo. Perfino il premio Nobel francese Anatole France invocò la loro liberazione sulle pagine del periodico "Nation", paragonando l'ingiustizia da loro subita a quella di Alfred Dreyfus. Purtroppo tutte queste iniziative non produssero alcun risultato rilevante per la grazia dei due condannati. Il 23 agosto 1927 alle ore 00:19, dopo sette anni di udienze, i due uomini vennero uccisi sulla sedia elettrica a distanza di sette minuti l'uno dall'altro (prima toccò a Sacco, poi a Vanzetti). La loro esecuzione innescò rivolte popolari a Londra, Parigi e in diverse città della Germania. Una bomba di probabile matrice anarchica, nel 1928 devastò l'abitazione del giudice Webster Thayer, il responsabile della condanna di Sacco e Vanzetti; il giudice era assente e la bomba non colpì l'obiettivo, ferendo però la moglie e una domestica. I corpi dei due anarchici furono cremati e le due urne contenenti le ceneri furono trasportate da Luigina Vanzetti in Italia, dove sono custodite nei cimiteri dei loro comuni d'origine: Torremaggiore per Sacco e Villafalletto per Vanzetti; le ceneri di quest'ultimo sono conservate nella tomba dove riposano i genitori, le sorelle e il fratello. I due comuni hanno dedicato ciascuno una via ai due anarchici. e una scuola a Bartolomeo Vanzetti. Nel 2016 Amnesty International ha lanciato una campagna per i diritti umani nel mondo, in memoria di Sacco e Vanzetti e caratterizzata dalla canzone Here's to You dedicata da Joan Baez ai due anarchici nel 1971.

Il proclama di Dukakis. Il 23 agosto 1977, esattamente 50 anni dopo l'esecuzione, il governatore del Massachusetts Michael Dukakis emanò un proclama che assolveva i due uomini dal crimine, affermando: «Io dichiaro che ogni stigma e ogni onta vengano per sempre cancellati dai nomi di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti». Questa dichiarazione non significò però il riconoscimento dell'innocenza dei due italiani (negli ultimi cento anni, nessun condannato a morte statunitense è stato riabilitato dopo l'esecuzione).

PRESUNTO COLPEVOLE.

03/05/12. Si conclude “Presunto colpevole”, il programma di Rai 2 che ha come tema portante la malagiustizia e quegli errori giudiziari. Nell’ultimo appuntamento, in onda giovedì 3 maggio, alle ore 23.10, vengono raccontate altre storie. La prima, dal titolo “Morire d’ingiustizia”, riguarda più personaggi dell’amministrazione comunale dell’Isola d’Elba (Livorno). Si tratta del giudiziario che prese il nome di “Elbopoli”. Una vicenda durata anni e che alcuni dei protagonisti non sono riusciti a vedere conclusa. La seconda storia vede protagonista un maresciallo dei Carabinieri di Genova, un vero eroe che combatteva i narcotrafficanti. Ma la sua vita è stata distrutta da un pentito e da chi non ha letto attentamente le carte in cui il suo nome neanche compariva. Ci ha messo 14 anni per dimostrare la sua innocenza. Un altro maresciallo è protagonista della terza ed ultima storia del programma. Questa volta siamo nel nord est. Al centro della storia storie di droga e di tossici e piccoli spacciatori usati per prendere i pesci più grandi. Il maresciallo però non c’entra nulla. Ma non ci crede nessuno.

18/04/12. Quinta puntata di “Presunto colpevole”, che racconta tre nuove storie di errori giudiziari. La prima riguarda Angelo Cirri. Aveva sulle spalle qualche furto d’auto, per cui aveva già pagato il conto, ma ciò è bastato per accusarlo di ben quattro rapine. D’altronde Angelo era il colpevole ideale. Ma non era così. E in carcere ci resta quattro anni da innocente. Anche Filippo di Benedetto, protagonista della seconda storia non era un incensurato. Per questo viene accusato di una rapina mai commessa. E si fa 18 mesi in galera pur non avendo commesso il fatto. Giulio Petrilli infine non ha nulla a che fare con le rapine. Lui si è ritrovato addosso l’accusa di terrorismo e partecipazione a banda armata.

04/04/12. Quarta puntata per “Presunto colpevole”, che denuncia altri casi di malagiustizia. La prima storia, dal titolo “Muro di gomma”, vede protagoniste Anna Maria Manna e Anastasia Montariello, incensurate, incarcerate con un’accusa infamante: pedofilia. Distrutta una reputazione per il nulla. Perché le due donne, quei bambini, non li conoscevano nemmeno. La seconda storia, dal titolo emblematico “Mi hanno rubato i figli”, racconta di Joy Idugboe: il suo calvario dura oltre due anni. L’accusano di sfruttamento della prostituzione. Prima cosa, le portano via i figli. Ma lei non c’entra niente e rischia di morire di dolore. “Identità rubata” è la terza storia. Fabrizio Bottaro è vittima di un errore, un errore che lo porterà in carcere come rapinatore. Ma Fabrizio era innocente.

28/03/12. Antonio Francesco Di Nicola è il protagonista della prima storia dal titolo “Maledetto soprannome”. Antonio Francesco fa il camionista e ha la "sfortuna" di aver ereditato il soprannome da suo padre e da suo nonno. Ne nasce un malinteso che lo porterà a viaggiare verso l’inferno. Resta coinvolto in traffici di droga. Ma lui non c’entrava nulla. La seconda storia parla della vicenda di Francesco Spanò accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Spanò va in galera. Peccato che di vero non ci sia niente. “L’infamia peggiore” è il titolo della terza incredibile vicenda: Marco Matteucci viene accusato d’aver abusato della sua bambina. E diventa “il mostro”. Matteucci non potrà vedere la sua piccola per sette lunghissimi anni. Chi mai glieli potrà ridare? In studio Fabio Massimo Bonini.

20/03/12. Antonio Francesco Di Nicola è il protagonista della prima storia dal titolo “Maledetto soprannome”. Antonio Francesco fa il camionista e ha la "sfortuna" di aver ereditato il soprannome da suo padre e da suo nonno. Ne nasce un malinteso che lo porterà a viaggiare verso l’inferno. Resta coinvolto in traffici di droga. Ma lui non c’entrava nulla. La seconda storia parla della vicenda di Francesco Spanò accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Spanò va in galera. Peccato che di vero non ci sia niente. “L’infamia peggiore” è il titolo della terza incredibile vicenda: Marco Matteucci viene accusato d’aver abusato della sua bambina. E diventa “il mostro”. Matteucci non potrà vedere la sua piccola per sette lunghissimi anni. Chi mai glieli potrà ridare? In studio Fabio Massimo Bonini.

14/03/12. La drammatica storia di Giuseppe Gulotta. Il suo calvario è durato ben 36 anni, di cui 21 trascorsi tra le mura di una cella. Arrestato all’età di soli 18 anni e accusato di avere partecipato alla strage di due carabinieri, massacrati a colpi di pistola, è stato assolto per non aver commesso il fatto. Oggi, di anni, ne ha 54 ma chi potrà restituirgli la sua vita? Nella seconda storia il caso di Roberto Giannoni, impiegato di banca portato via all’alba, in manette, dalla sua casa. Non ci tornerà più per sei anni. L’accusa, associazione a delinquere di stampo mafioso. Non era vero nulla. Nella terza storia, invece, è la volta di Maurizio Lauricella, un’esistenza finita il giorno in cui è stato messo prima agli arresti domiciliari, poi in carcere, quello duro, all’Ucciardone di Palermo. Che aveva mai fatto? Niente, assolutamente niente. Ma suo fratello, ogni volta che veniva arrestato, dava false generalità. Nessuno s’è mai preso la briga di controllare.

PRESUNTO COLPEVOLE: LA MALAGIUSTIZIA RACCONTATA SU RAI2, scrive martedì 17 settembre 2013 Marco Leardi su Davide Maggio. Presunto Colpevole. Di “malagiustizia” si parla (anche) in tv. Parte stasera, alle 23.45, la seconda edizione di “Presunto colpevole”, il programma di Rai 2 che racconta le vergogne del nostro sistema giudiziario. Processi infiniti, facili archiviazioni e casi in cui la certezza della pena ha trovato una dubbia applicazione: il format, condotto in studio da Fabio Massimo Bonini, si soffermerà su alcune storie diventate tragicamente emblematiche. Un’occasione per riflettere su un tema quantomai attuale.

Presunto Colpevole – Il caso di Anna Paglialonga. Nella prima puntata, in particolare, verrà affrontata la vicenda di Anna Paglialonga, una donna di 48 anni, che vive a Capua e che lavora al Sert. Il 21 aprile del 2008 Anna è stata arrestata con un’accusa infamante: aver aiutato un camorrista a uscire di galera. Gli uomini della procura di Caserta hanno eseguito 23 ordinanze di custodia cautelare verso alcuni componenti del clan Belforte. Ma perché viene accusata proprio Anna? Un collaboratore di giustizia afferma: “il documento l’ha fatto firmare una certa Annarella” un nomignolo. Al Sert di Capua, però, ci sono almeno altre quattro persone che si chiamano Anna, ma la giustizia prende Anna Paglialonga, la quale quel giorno Anna non era neppure in Italia. In carcere la donna trova solidarietà e amicizia. Il suo compagno Enzo De Camillis, ha deciso di raccontare la storia in un documentario per dimostrare che Anna è estranea ai fatti. Il 9 maggio 2008, Anna finalmente può abbracciare di nuovo Enzo e sua figlia, ma prima di avere la sentenza di assoluzione definiva devono passare quattro anni.

PRESUNTA COLPEVOLE. ANNA PAGLIALONGA.

“Scambiata per camorrista, la mia vita distrutta”, la storia di Anna diventa una fiction. La storia assurda di Anna Paglialonga, irreprensibile dipendente dell’Asl, scambiata per una collusa con il mondo della camorra. Un calvario durato cinque anni e che adesso è pronto a diventare una fiction con Luisa Ranieri protagonista, scrive il 17 settembre 2013 Gennaro Marco Duello su Fanpage. Questa è la storia assurda di Anna Paglialonga, dipendente amministrativa di 51 anni scambiata per una camorrista del clan Belforte. Una storia che è culminata con l'arresto, nell'ambito di una maxi operazione della Polizia di Stato, coordinata dalla Dda di Napoli, di 23 persone, tutte accusate a vario titolo di associazione per delinquere di stampo mafioso. Anna lavorava al Sert, il Servizio per le tossicodipendenze dell'Asl, e fu accusata di aver favorito elementi di spicco del clan Belforte, tramite permessi falsi e certificazioni che avrebbero fatto godere loro di permessi speciali, evadendo dal regime detentivo. Un calvario giudiziario durato diciannove giorni di reclusione, con un processo terminato con l'assoluzione definitiva soltanto dopo cinque anni. Tutto cominciò il 21 aprile del 2009, quando la donna fu arrestata e condotta presso il carcere femminile di Pozzuoli. In un solo istante mi è crollato il mondo addosso. Non riuscivo a realizzare cosa stesse accadendo. Mi sono ritrovata in una cella, in compagnia di sette detenute, che mi chiedevano, incuriosite, il motivo del mio arresto. Ero spaventatissima. Le mie compagne di cella hanno subito cercato di rincuorarmi e, comprendendo il mio disagio, mi hanno invogliato a reagire. Non volevo né bere né mangiare, ero distrutta. La storia di Anna Paglialunga diventerà una fiction, "Diciannove giorni di massima sicurezza", dove il ruolo da protagonista sarà interpretato da Luisa Ranieri, mentre questa sera su Rai 2, a partire dalle 23.45, si parlerà proprio del suo caso nella trasmissione "Presunto Colpevole". Da questa storia è in fase di pre-produzione, "Colpevole d'innocenza", un film che sarà firmato da Enzo de Camillis e che prevede la partecipazione di Giancarlo Giannini.

PRESUNTO COLPEVOLE. OSCAR SANCHEZ.

Presunto Colpevole – il caso di Oscar Sanchez. La seconda storia, invece, riguarda lo spagnolo Oscar Sanchez, che per un atto di gentilezza è finito nei guai. A causa di una perizia sbagliata e di indagini fatte in fretta, l’uomo è stato portato in Italia. Attraverso immagini, testimonianze e ricostruzioni, Presunto colpevole ricostruirà le vicende di malagiustizia, provando a restituire – per quanto possibile – la dignità a chi è stata negata. L’appuntamento è alle 23.45 su Rai2.

L'inferno di uno spagnolo innocente liberato dopo 2 anni a Poggioreale. La stampa iberica dà risalto alla vicenda e sottolinea come il cittadino iberico sia stato accusato per errore di essere il capo di un giro di narcotrafficanti. Determinante, per ribaltare il caso, una ostinata inchiesta giornalistica di El Periodico, scrive Giovanni Marino su La Repubblica il 22 marzo 2012.  Oscar Sanchez è piccolo e decisamente poco avvenente. Fa il "lavacoches", il lavamacchine, insomma. E da qualche ora è felicissimo di poter riprendere il suo modesto lavoro, la sua vita senza sfarzi, con qualche normalissimo stento, ordinaria e in bianco e nero. 

IL MOMENTO DELLA SCARCERAZIONE. Felice come può esserlo un uomo che ha attraversato l'inferno rischiando di non uscirne più. Oscar è stato rinchiuso dentro una affollata cella del carcere napoletano di Poggioreale per circa due interminabili anni. Detenuto ma innocente. Considerato dalla giustizia spagnola prima e da quella italiana poi, un narcotrafficante. Un errore giudiziario. Non era lui. Ma un boss sudamericano che gli aveva rubato l'identità e, di fatto, anche la vita. 

LA CAMPAGNA A FAVORE DI OSCAR. Estradato dalla Spagna all'Italia, Oscar ha visto chiudersi alle sua spalle la porta della libertà il 18 maggio del 2010. Condannato a 14 anni. Roba da narcos. Lui, catalano di Montgat, lontano anni luce da qualsiasi trama mafiosa. E sarebbe finita lì perché Oscar non sa nulla di avvocati e carte bollate. E di soldi per pagarsi un principe del foro non ne ha. Ma in suo soccorso è arrivato il buon giornalismo, quello fatto di pignoleria, costanza, voglia di andare sino in fondo e di alzarsi spesso e volentieri dalla sedia dell'ufficio e dal monitor di un computer. E' ciò che hanno fatto i colleghi di El Periodico, riuscendo a ribaltare una finta verità sino alla scarcerazione, alla libertà e alla riconosciuta innocenza di questo cittadino spagnolo di 46 anni. Senza la pervicacia e la capacità dei giornalisti di El Periodico Sanchez, che pure si era sempre inutilmente dichiarato innocente, sarebbe marcito in cella. A poco erano valse anche le dichiarazioni dei suoi datori di lavoro di Montgat, non distante da Barcellona, che avevano spiegato come Oscar non si fosse mosso da lì quando, secondo gli inquirenti, si sarebbe invece spostato a Roma per coordinare i traffici del gruppo tra Spagna e Italia, un nucleo collegato alla camorra. Finalmente, adesso, prevale la verità: l'identità di Sanchez era stata usurpata da un capoclan uruguayano, Marcelo Roberto Marin, 42 anni, che aveva usato una carta di identità rubata a Oscar per registrarsi in un albergo romano. E che, beffa del destino, proprio come il catalano, in una prima perizia è risultato soffrire di disfemia, che poi sarebbe balbuzie. Cosa che ha inizialmente tratto in inganno e contribuito allo scambio di persona. In realtà non era e non è così: Oscar non capisce un accidenti di italiano e quindi in quei frangenti sembrava avere disturbi nel linguaggio. Una nuova perizia fonica ordinata dalla magistratura italiana ha infine confermato l'errore di persona e ora Sanchez è stato prosciolto con formula piena e messo in libertà. Ma dietro quest'ultimo esame tecnico fondamentale ci sono ancora i colleghi di El Periodico che sono andati a scovare il padrino uruguayano recluso in un carcere delle Canarie e hanno messo a confronto la sua voce con quella del povero Oscar. Timbri, tonalità, inflessioni, totalmente differenti. Il lavacoches di Montgat è libero. E al giornale catalano ha affidato il suo sofferto racconto della detenzione. Pestato dai colleghi di cella. Sfregiato con una "N" di Napoli su una spalla per punirlo delle sue simpatie calcistiche interiste e juventine. Sbeffeggiato perchè non conosce la nostra lingua. Umiliato. Un inferno. Da dimenticare in fretta pensando che, nonostante tutto, alla fine la verità vince sempre. Anche due anni dopo.

Scoprì un caso di malagiustizia a Napoli premio internazionale per giornale spagnolo. Con un gruppo di cronisti (tra cui un italiano) svelarono un errore che ha tenuto ingiustamente in carcere un lavavetri. Uscito dopo due anni da Poggioreale grazie alla loro inchiesta, scrive Giovanni Marino il 24 gennaio 2013 su "La Repubblica". E' andato al Periodico de Catalunya, con la sua squadra di reporter formata da Antonio Baquero, l'italiano Michele Catanzaro e Angela Biesot, il prestigioso "Premio internazionale di giornalismo Re di Spagna". 

LA STORIA/L'inferno di uno spagnolo innocente. Il riconoscimento si deve alla pervicace, approndita e lunga indagine giornalistica che ha letteralmente tirato fuori dal carcere un innocente lavavetri: Oscar Sanchez. Dopo due anni di cella, tutti trascorsi a Poggioreale. Il cittadino ibeico era stato accusato per errore di essere il capo di un gruppo di pericolosi narcotrafficanti. Ma i reporter hanno messo in luce quanto tutto ciò fosse assolutamente destituito di ogni fondamento. E Oscar il lavavetri è tornato in libertà. Nella motivazione del premio attribuito al giornale si legge tra l'altro: "L'ostinato lavoro di questi cronisti ha dimostrato che la ricerca della verità e per le indagini condotte in prima persona con rigore e tempo da dedicarvi sono l'essenza del buon giornalismo". Come non essere d'accordo? Complimenti a giornale e giornalisti premiati.  

PRESUNTO COLPEVOLE. FABRIZIO BOTTARO.

Assolto lo stilista in carcere per errore. L'avvocato: "Classico furto d'identità". Dopo dieci mesi è finito il calvario di Fabrizio Bottaro, designer di moda romano, arrestato per una rapina mai commessa. La persona offesa, titolare di una società di recupero di automobili, si sarebbe inventato tutto, scrive La Repubblica il 15 luglio 2011. E' durato dieci mesi il calvario di Fabrizo Bottaro, 40 anni, designer di moda romano, detenuto in carcere per una rapina che non ha mai commesso. "Un classico caso di furto d'identità", sostiene il suo avvocato, Fabrizio Merluzzi. I giudici della VI sezione penale hanno fatto decadere le accuse nei suoi confronti e trasmesso gli atti alla Procura affinché proceda nei confronti del soggetto che lo aveva denunciato. Al collegio del tribunale sono bastate poche udienze per capire che che L. N. (titolare di una società di recupero di autovetture), presente nel processo come persona offesa, ha riferito agli agenti del commissariato Viminale una versione completamente falsa dei fatti e assolutamente priva di riscontro. Secondo il decreto di giudizio immediato, Bottaro il 22 luglio dello scorso anno, insieme con un'altra persona, si era fatto consegnare da un terzo un'auto minacciandolo con la frase: "scendi dalla macchina o ti faccio saltare la testa". La vicenda è legata, probabilmente, a un tentativo di frode ai danni della società assicurativa in relazione alla sparizione del veicolo. "Alla luce di quanto emerso si ipotizza -  scrivono i giudici -  che lo stesso L. N. possa aver ideato una falsa rapina". Inoltre la Polstrada di Trieste, impegnata in indagini sul riciclaggio di autovetture all'estero, ha accertato che l'auto in questione, una Bentley, era stata a suo tempo sottoposta a fermo amministrativo ed era a rischio di confisca. Secondo gli agenti, probabilmente, il 22 luglio del 2010 quella berlina extralusso era da tempo sparita oltrefrontiera. Dal canto suo, Bottaro è stato completamente scagionato perché il fatto non sussiste, ma la vicenda non finisce sicuramente qui. "Per un anno -  spiega il difensore dello stilista -  il mio assistito è stato messo fuori dal mondo. In più, quando è finito a Regina Coeli, gli è stato impedito di incontrare il suo difensore. Le carte dicono che tra Bottaro e L. N. non c'è stata neppure una telefonata. Non solo, ma non c'era nemmeno un solo elemento che potesse giustificare la celebrazione di un processo. Chi avrebbe dovuto valutare con attenzione questa situazione, non lo ha fatto per niente".

PRESUNTO COLPEVOLE. ANGELO CIRRI.

Tre anni e quattro mesi in carcere: era innocente. La toccante storia di Angelo Cirri, condannato a otto anni e liberato solo dopo il casuale ritrovamento della refurtiva a casa del vero rapinatore. Lo Stato gli pagherà quasi 400 mila euro: "Rivoglio la mia vita, non i soldi", scrive Annalisa Chirico il 13 gennaio 2014 su "Panorama". "Rivorrei la mia vita, non il risarcimento". Invece riavrà, con i tempi lenti dello Stato italiano, soltanto il secondo. Nessuno potrà restituirgli i tre anni, quattro mesi e ventinove giorni trascorsi dietro le sbarre di Regina Coeli e di Rebibbia. Il protagonista di una storia che rievoca, senza la finzione cinematografica ma con la disperante crudezza della realtà, l’Alberto Sordi nei panni del ‘Detenuto in attesa di giudizio’, si chiama Angelo Cirri. Oggi ha quarantasei anni, cinque figli e una moglie che lo ha aspettato senza mai dubitare della sua innocenza. "Quella sera io ero con lei a casa come tutte le sere. Ma la sua testimonianza valeva zero". Tutto comincia il 9 aprile 2004, quando Cirri, poco prima di mezzanotte, viene raggiunto nel suo casale romano. Sente il cane che abbaia, esce fuori e trova i carabinieri armati: "Mi hanno messo in macchina e mi hanno portato via". Arriva a stretto giro il primo riconoscimento: una donna, che è stata rapinata quella stessa sera davanti alla sua porta di casa, identifica in lui il responsabile del furto. Cirri, che è ancora incensurato, viene arrestato. Nell’ordinanza di custodia cautelare il gip rinviene il pericolo di reiterazione del reato. Nei mesi successivi a quella denunciante si aggiungono altre dodici persone offese per un totale di otto rapine. "Ancora oggi mi chiedo come si possa puntare il dito contro una persona, accusarla di un reato così grave senza esserne davvero sicuri", commenta l’uomo che, da innocente, si ritrova ad essere il colpevole per forza. Il 25 giugno 2004 arriva l’incidente probatorio, e di quelle otto rapine gliene vengono addebitate quattro. L’avvocato Marco Cinquegranagli prospetta la possibilità di chiedere un patteggiamento o un rito abbreviato. Cirri rifiuta: "Io sapevo di non aver commesso alcun reato. Volevo il processo". Il processo viene celebrato, tre udienze in tutto. Il tempo di sentire le persone rapinate, tutte colpite in modo particolarmente violento, con insulti, calci e percosse. Il difensore chiede di acquisire i tabulati telefonici dei cellulari rubati in modo da verificare se fossero eventualmente riconducibili alla disponibilità di Cirri. Il pm è d’accordo, il giudice respinge. Il 20 ottobre 2005 la quinta sezione collegiale del tribunale di Roma, presieduta da Mario Bresciano, lo condanna, al di là di ogni ragionevole dubbio, a tredici anni di carcere. Per Cirri è un colpo durissimo e inatteso. Tenta il suicidio: prima con i lacci di scarpa, poi con il taglierino dei barattoli di pelati. Se lo ficca nello stomaco. Lo ossessiona l’idea che non potrà più rivedere più la sua famiglia. Ha lasciato la moglie che era incinta, ormai ha partorito. Ma lui è in cella. Il 6 novembre 2006 arriva la sentenza d’appello, gli anni di carcere si riducono a otto. "Le risultanze processuali – si legge nel dispositivo emesso dalla Corte d’appello di Roma – confortano il giudizio di responsabilità cui è pervenuto il tribunale. I riconoscimenti dell’imputato da parte delle persone offese paiono intrinsecamente attendibili e risultano peraltro avvalorati da numerosi ulteriori elementi indiziari". Eppure alcune vittime dicono di aver notato un accento dialettale campano, Cirri parla romanesco doc. Sul luogo del primo furto viene rinvenuto un mozzicone Sax; nella casa di Cirri, dove non vengono trovate né l’arma né la refurtiva, c’è un pacchetto di sigarette dello stesso marchio. Dall’esame del dna si evince che non si tratta della stessa persona. Intanto sono decorsi i termini di custodia cautelare, Cirri viene liberato ma dopo la condanna in appello, su consiglio dell’avvocato, si costituisce nuovamente. E’ il 16 gennaio 2008, rimarrà in carcere fino al 28 ottobre di quell’anno. La svolta avviene agli inizi di ottobre quando un compagno galeotto gli urla: "Angelo, accendi la tv su RaiTre". Il telegiornale riporta l’arresto di Antonio de Pasquale, nel cui appartamento hanno ritrovato un’arma e la refurtiva degli stessi delitti addebitati, da oltre quattro anni, a Cirri. De Pasquale, che attualmente sconta un ergastolo per omicidio, confesserà di essere stato lui l’autore dei furti. "La cosa bella è che da quel giorno ne sono passati non so quanti altri, interminabilmente. Leggevo sui giornali che quell’uomo era il responsabile e che l’accusato era stato scarcerato. Invece mi hanno liberato soltanto il 28 ottobre". Quando esce dalla prigione, Cirri cade per terra. "Ho sentito l’aria. Mi si sono piegate le gambe. Non mi sembrava vero". Invece era vero. Ora lo Stato gli deve 399mila euro a titolo di riparazione per errore giudizio, secondo quanto stabilito dalla Corte d’appello di Perugia nell’ottobre 2013. "Rivorrei la mia vita, non il risarcimento".

PRESUNTA COLPEVOLE. ANASTASIA MONTANARIELLO.

Malagiustizia a Taranto: «La mia vita valutata 20mila euro». Anastasia Montanariello, 39 anni, di Palagiano, è una vittima: accusata dagli zii per vecchi rancori, arrestata per pedofilia è stata assolta e risarcita. «Riaffiorano i ricordi di quei mesi nell'inferno e le discriminazioni sul lavoro. Ci sono voluti cinque anni perchè la verità venisse fuori», scrive il 9 Febbraio 2009 Giacomo Rizzo su La Gazzetta del Mezzogiorno. «La mia vita è stata valutata 20.000 euro». Arrestata, condotta in carcere, denigrata, offesa e guardata con sospetto. L’at ro c e sospetto: quella donna è pedofila. Ma era tutto falso. Falso, come le dichiarazioni di alcuni zii, che la accusavano solo per sfogare vecchi rancori. Falso, come il moralismo della gente, che giudica senza sapere. Assurdo, come lo Stato ripaghi un errore che ti rovina l’esistenza. Un errore che diventa una pistola puntata alla tempia. Un incubo che ti toglie il fiato. E, ogni giorno, cerchi di lavare la vergogna per un orrore che non hai commesso. Anastasia Montanariello, 39 anni, di Palagiano, è una delle vittime della malagiustizia. Il suo calvario è durato sette anni. Fu arrestata il 25 maggio del 2000 nell’ambito del blitz denominato “Giglio” con accuse terribili: atti sessuali con minori e corruzione di minori. Prima il carcere, la foto sui giornali, l’umiliazione, una famiglia che fa scudo ma teme lo sguardo da santa inquisizione di un paese sbigottito. Poi gli arresti domiciliari, la libertà per l’assenza di esigenze cautelari, il processo, i testimoni, l’assoluzione piena. La sentenza è passa in giudicato ed è arrivata la causa per l’ingiusta detenzione. Lo Stato ha monetizzato anche la sofferenza: 20.000 euro. Tanto vale la privazione della libertà personale. Ma, a distanza di due anni, Anastasia Montanariello - assistita nel procedimento giudiziario dall’ avv. Rosario Orlando - non ha ancora incassato nemmeno un centesimo. «Prima ti distruggono, poi ti danno l’obolo - dichiara alla “Gazzetta” -. E io non riesco ad avere neanche quello. E’ saltata fuori una sorta di imposta che non è stata pagata, nel senso che il 50% spetterebbe alla cancelleria, e il restante 50%, non è uno scherzo, nessuno sa veramente a carico di chi sia. Così il risarcimento è ancora bloccato. Ho solo una strada, pagare io la tassa: 400 euro». Chi l’ha accusata? «Fu solo la falsa testimonianza dei miei zii a dare inizio all'incubo, spinti da un rancore familiare che ha radici profonde». Era stata riconosciuta anche da uno dei bambini che avrebbero subito le violenze? «I bambini hanno visionato decine di foto. Era logico che potessero sbagliare. Le riporto uno stralcio della sentenza: “esiste il ragionevole dubbio che alle feste a luci rosse partecipasse una ragazza somigliante all'imputata, e tale dubbio non è stato rimosso a causa della mancanza di riscontri esterni». Riesce a non pensare a quello che le è accaduto? «Quando si parla di errori giudiziari o di episodi di violenza ai danni di bambini la ferita si riapre, inevitabilmente. Riaffiorano i ricordi di quei mesi nell'inferno degli arresti, le discriminazioni sul lavoro. Ci sono voluti cinque anni perchè la verità venisse fuori, una verità parziale però, perchè nonostante si sappiano i nomi delle persone che mi hanno coinvolta in questa mostruosità, non so ancora oggi se arriverà il processo anche per loro».

PRESUNTO COLPEVOLE. ANTONIO FRANCESCO DI NICOLA.

In carcere da innocente, risarcito. Camionista fermato per un soprannome sbagliato nelle intercettazioni, scrive Pietro Guida su Il Centro il 24 luglio 2011. Sette mesi di galera da innocente. Lo Stato lo risarcisce con cinquantamila euro, ma il segno della sofferenza del carcere rimane come un marchio a fuoco. «Solo la fede, la devozione per Santa Maria Goretti e il sostegno di mia figlia mi hanno permesso di andare avanti. Non porto rancore per la giustizia, ma per i modi della giustizia». A parlare è Antonio Francesco Di Nicola, autotrasportatore di San Benedetto dei Marsi, finito in cella a causa delle intercettazioni tra altre persone che lo chiamavano in causa, ma con un soprannome che non era il suo, bensì di un altro. Nelle telefonate si parlava di un certo Francesco detto Broccolone e si sosteneva che aveva trasportato dalla Spagna 22 chili di droga nel periodo dal 30 maggio al 3 giugno 2005. Ma il soprannome di Di Nicola è Cozzolino e in quel periodo si trovava da tutt'altra parte. Lui è stato arrestato per traffico internazionale di droga. L'ultimo capitolo della drammatica storia del camionista marsicano, difeso dagli avvocati Roberto Verdecchia e Sara Capoccetti, è stata scritto dalla Corte d'Appello di Roma. All'uomo è stata riconosciuta una somma di 50mila euro di risarcimento per ingiusta detenzione. «Quella mattina stavo rientrando da un viaggio nello stabilimento dove lavoro», racconta Di Nicola, «avevo appena salutato i cani da guardia quando entrò un'Alfa 156 con due persone a bordo. La dobbiamo arrestare, faccia allontanare i cani: mi hanno detto. Sono andato a casa e dissero a mia moglie che dovevano portarmi all'Aquila. Un dramma. Inizialmente ho ottenuto i domiciliari. Ma pochi giorni dopo, il 12 dicembre 2007, mi hanno prelevato intorno alle 9.30 sostenendo che dovevo essere ancora interrogato. Da allora a casa non sono più tornato». Nel carcere dell'Aquila è cominciata la sua odissea. «Ho perso 25 chili» racconta Di Nicola. «Un giorno», ricorda, «mi hanno messo in cella con un ragazzo di Celano. Dopo quattro mesi ho iniziato a fare il cuoco del carcere. Una volta mi sono imbattuto anche in Sandokan, Francesco Schiavone, uno dei capi del clan dei Casalesi. La mia famiglia mi ha sempre difeso». «Ma in molti ci hanno voltato le spalle», interviene la figlia Domenica, che si è occupata di tutte le questioni burocratiche riguardanti la vicenda, «e non è stato facile». Lei porta sul braccio un tatuaggio con una frase di Jovanotti: «A te che sei la sostanza dei giorni miei». La stessa scritta se l'è fatta tatuare anche il padre. Il 5 luglio la svolta. «Ero sulla brandina della cella e davanti agli occhi ho immaginato la figura di Santa Maria Goretti che avevo tanto supplicato. Ho sempre avuto fede. Dopo due giorni sono arrivati quattro agenti penitenziari e mi hanno detto che ero libero, non ai domiciliari, proprio libero. Mi sono sentito male». Poi la parola fine al caso giudiziario. «Quando abbiamo vinto il processo per ingiusta detenzione mi sono tornati in mente i giorni di sofferenza in carcere», afferma Di Nicola, «oggi sento solo la necessità di dire grazie al mio avvocato e a mia figlia. Anche lei e l'altro mio figlio possono tornare a camminare a testa alta e dimenticare tutta questa storia. Nessuno mi ridarà sette mesi di libertà».

PRESUNTO COLPEVOLE. CARMINE FORCELLA.

La storia: il carabiniere che non si lasciò fregare, scrive Marco Guggiari il 20 novembre 2012 su "Il Corriere di Como". Carmine Forcella era troppo scomodo per i criminali. Mafia e ’ndrangheta tentarono di incastrarlo. Carmine Forcella è un gigante buono. Oggi si fatica a immaginarlo con la divisa dell’Arma che ha vestito per oltre trent’anni. L’ha onorata con straordinaria operatività e con grande fiuto investigativo. Un giorno i pentiti di ’ndrangheta e di mafia hanno deciso che doveva pagarla. Hanno tentato di incastrarlo e per lui è iniziata la battaglia più dura. Vinta. Ma il prezzo è stato alto. Ne parliamo in lungo e in largo. Sul tavolo c’è il libro che ha scritto: “Io non ho paura”, nel quale racconta tutta intera la sua vicenda. Ma su date e fatti, questo è impressionante, non ha bisogno di aprire una sola pagina. Sono tutti impressi a fuoco nella mente. Una qualità che ha contribuito a salvarlo. Quando il piccolo Carmine nacque, ultimo di undici figli, a Collotti, minuscola frazione di Atri, in provincia di Teramo, la levatrice arrivò sulla biga trainata da un cavallo. Era il 1946 e i tedeschi se n’erano appena andati. Quel bambino giocava con il coperchio di una gavetta militare abbandonata e faceva il contadino. A diciassette anni la svolta, il viaggio a Roma con una valigia di cartone per diventare carabiniere. Dopo il corso fu assegnato a Piadena, nel Cremonese. «Arrivai la sera del 29 settembre 1965 con il treno mosso ancora da una locomotiva a vapore. La nebbia si tagliava a fette». Il resto erano nugoli di zanzare. La stazione dell’Arma era composta da due carabinieri, uno dei quali era lui, più il comandante. Lì Forcella conobbe la futura moglie, Aurora, un’insegnante. «Mi aiutò molto nella preparazione al corso sottufficiali. La mia base culturale era scarsa. Il primo tema che Aurora mi diede da fare era un commento al film “Il posto delle fragole”. Quando lo lesse, riempì il foglio di segnacci rossi e blu… Ciononostante mi impegnai per classificarmi tra i primi cinquanta e arrivai 15°». Un traguardo importante era tagliato. Dopo un breve periodo come istruttore a Firenze, arrivò la destinazione di Milano. Il 20 maggio 1972 Carmine capitò per la prima volta a Como: «Era una giornata splendida. Dissi in cuor mio: “Da qui non mi muovo più”». Una settimana più tardi prendeva servizio nel nucleo radiomobile del capoluogo lariano. Una rapina all’ufficio postale di Bregnano seguita dall’intuizione di Forcella che un informatore avesse la pista giusta per l’ottimo maresciallo Luciano Arrigucci gli valse ben presto il passaggio al nucleo investigativo. Tante le azioni sul campo, assieme ad altri colleghi bravi come Severino Traglia e Mario De Luca. Tra queste, in occasione di un’altra rapina, la cattura di un bandito armato di pistola con un gran cazzotto che gli costò anche la frattura di una mano. «Erano gli anni della crisi energetica petrolifera. Finiva il contrabbando classico con le bricolle – rievoca oggi – Gli spalloni si riciclavano nel traffico di stupefacenti». Era anche l’epoca dei sequestri di persona: Erika Ratti, Diego Bruga, Giovanni Stucchi, Cristina Mazzotti? «Andai nel carcere di Parma a parlare con uno dei rapitori di Stucchi nella speranza che dicesse dov’era il corpo dello sfortunato industriale. Non lo rivelò perché un “fine pena mai” garantisce comunque la vita. Non così per chi “canta”». Intanto Carmine Forcella approdò alla polizia giudiziaria della Procura, dove operò dal 1976 al 1985. Fece il concorso e divenne maresciallo. La vita stava per riservargli una prima grande prova: la morte della moglie dopo settanta giorni di malattia. La figlioletta della coppia, Simona, aveva soltanto quattro anni. Al papà chiese: «Se troveranno la medicina per la mamma, potrà tornare con noi??». Poi verrà il trasferimento a Cantù e, in breve, il comando del nucleo operativo radiomobile: «In otto anni e mezzo il bilancio fu di 750 arresti». Era forte la squadra, era ottimo il metodo, era bravo Forcella, che diventerà maresciallo maggiore aiutante, con i gradi rossi. Troppo bravo, alla luce di quanto poi accadde. Scovò arsenali di armi, arrestò giovani bombaroli, pescò falsari e rapinatori, smascherò una moglie assassina che parlava al passato del marito che, in teoria, non doveva sapere morto. Stroncò trafficanti di droga, risolse casi di morti ammazzati. Fino alla grande mazzata. «Un pentito dei Fiori di San Vito (la grande operazione anti-’ndrangheta, ndr) – racconta – decise che mi doveva gambizzare perché a causa mia lui e i suoi non lavoravano più. Cercò il mio indirizzo di casa e quello della scuola di mia figlia. Arrestato, decise di gambizzarmi con le parole». Risultato: il 15 giugno 1994, al mattino presto, Carmine Forcella subì una perquisizione domiciliare e personale. L’accusa era pesante come un macigno: associazione mafiosa. Si aprì così il precipizio di un girone infernale. Venne meno la stima di molti. Anche i superiori scaricarono quel maresciallo prima tanto osannato e delle cui brillanti operazioni contro la criminalità organizzata si erano avvantaggiati. Più pentiti ora lo accusavano. Lui ingaggiò la lotta più difficile, durata sei anni, dal 1994 al 2000, quando venne prosciolto da ogni accusa e l’incubo finì: «Andai in pensione fin dal 1994. Contrastai tutto e tutti. Io non ci stavo a essere sacrificato sull’altare del pentitismo. Non dubitai quasi mai del risultato finale. Ebbi pace solo quando trovai giustificazione alle prime dichiarazioni di chi mi accusava: eliminare chi gli dava fastidio». Oggi Carmine Forcella può andare a testa alta e si è tolto anche lo sfizio di querelare chi lo aveva calunniato e di scrivere qualche letterina a chi si era subito liberato di lui, o peggio aveva contribuito ad accreditarne malefatte inesistenti. «Ho dovuto riconoscere il diritto di dubitare a chi mi stava di fronte – dice oggi onestamente – Ma ho anche avuto manifestazioni di solidarietà. Ne cito due. Il pretore Luigi Volpez, quando ero fresco accusato, mi disse: “Adesso andiamo in piazza a prendere l’aperitivo”. Non è cosa da tutti. E il maggiore dei carabinieri, Pietro Di Censo, comandante della compagnia di Cantù, venne a Milano, mi abbracciò e mi baciò davanti a tutti. Come a dire: “Questa è una persona seria”».

PRESUNTO COLPEVOLE. DINO TRAPPETTI.

Uccise due figli neonati: esce dal carcere dopo 11 anni. Pontedera: il primo corpicino venne trovato in una discarica, del secondo non si è mai trovata traccia. Verusca Montorzi era stata condannata prima all'ergastolo e poi a 16 anni di carcere ma per l'indulto e la buona condotta ora è fuori e si è stabilita a Pisa, scrive Sabrina Chiellini il 3 luglio 2014 su Il Tirreno. I vicini la vedono entrare e uscire di casa, un appartamento a Pisa. Non sanno che dietro quel volto, dentro quelle mura, c’è un segreto terribile. È una donna molto riservata, non parla volentieri della sua vita. I capelli lunghi, magra e curata nell’abbigliamento. Verusca Montorzi, 43 anni, di Pontedera, è tornata libera dopo undici anni di carcere. Era stata condannata in secondo grado, nel novembre 2006, a sedici anni di reclusione per avere ucciso due bambini appena partoriti. Il primo di quei due cuccioli d’uomo, almeno, ha un nome e una tomba. Si chiama Angelo Faustino, venne trovato il 15 febbraio 2001 su un nastro per la separazione dei rifiuti nella discarica di Pontedera. Quel nome glielo dette la città, ufficialmente, quando si fermò, commossa, sconvolta, per celebrare il funerale. Il secondo corpicino non è mai stato trovato: nel 2002, a gennaio, Verusca andò insieme al compagno Dino Trappetti, geometra oggi cinquantenne, all’ospedale di Terni. L’operaia aveva i classici sintomi di un’emorragia post partum ma lei negò l’evidenza. Dall’ospedale i medici, prelevando parti di placenta, segnalarono il caso alla Procura della Repubblica e le successive indagini dei carabinieri del comando provinciale di Pisa si conclusero con l’arresto della madre pontederese, nell’aprile 2003. Attraverso l’esame del Dna si riuscì a mettere in relazione i due episodi. Prima l’indulto, poi i benefici previsti dal riconoscimento della buona condotta: i sedici anni della condanna in appello sono diventati dieci. Verusca, che ha un’altra figlia di 16 anni avuta in precedenza da Dino, è fuori. Può pensare a ricostruirsi una vita lontano dal carcere. Ha deciso di non tornare a vivere a Pontedera, dove abita la figlia data in affidamento a una zia e che può frequentare la madre solo in presenza degli assistenti sociali, così come stabilito dal tribunale. «Verusca non è a Pontedera – dice la sorella che ha avuto in affidamento la nipote – abita a Pisa e di più non posso dire». La casa popolare in cui la coppia Montorzi-Trappetti viveva, in via Amendola, nel quartiere di Oltrera, è stata assegnata a un’altra famiglia. E Verusca, che ha lasciato il carcere da poco tempo, si è stabilita in un’abitazione nella disponibilità di un’altra sorella, infermiera, a Pisa. Con loro vive una parente, da anni legata alla famiglia Montorzi. È con quest’ultima quando la raggiungiamo per telefono e la sua reazione è nervosa. «Sono uscita dal carcere ma non voglio parlare. Fate il vostro lavoro ma state attenti. Non mi cercate ancora o vi denuncio». In primo grado di giudizio, in tribunale a Pisa, era stata condannata il 9 maggio 2005 all’ergastolo insieme al convivente, poi assolto al processo in Corte d’Assise d’Appello a Firenze. Non vuole parlare del suo passato, né dell’esperienza in carcere. La morte dei due neonati aveva sconvolto Pontedera e travolto due famiglie, quella della donna e quella del geometra. Secondo la Procura della Repubblica di Pisa la donna si sbarazzava dei bambini praticando una aberrante forma di controllo delle nascite. Non ricorreva all’aborto, negava anche a se stessa le gravidanze, per poi togliere la vita alle creature inermi. Dopo l’arresto di Verusca e quello del convivente l’altra figlia minorenne è stata seguita da uno psicologo e dai servizi sociali. Non è stato semplice raccontarle la verità. Il padre era rimasto in carcere per due anni, nove mese e sette giorni accusato, messo sotto accusa per un reato gravissimo. Il più terribile per un genitore. Ma si è sempre dichiarato innocente e ha sempre sostenuto di non essersi accorto delle gravidanze: cosa che era accaduta anche al datore di lavoro di Verusca. Quando Dino Trappetti, una volta assolto, ha potuto lasciare il carcere di Sollicciano il rapporto con la figlia nata dalla relazione con l’operaia pontederese era ormai compromesso. Ancora oggi i due non si frequentano. Forse quando diventerà maggiorenne la giovane sceglierà se cercare di nuovo il padre o se rimuovere tutto. Fatta eccezione per la sua partecipazione a una sfilata di moda dopo un corso di formazione che aveva seguito in carcere, Verusca, aiutata dalla famiglia, ha alzato un muro intorno a sé. Molti non sanno. Altri hanno rimosso. L’operaia nel corso degli anni ha interrotto anche i rapporti con i due avvocati che l’avevano difesa ai processi. Tanto che era lei stessa, come altri detenuti, a inoltrare al giudice di sorveglianza le richieste per essere ammessa ai benefici previsti per ogni sei mesi di pena trascorsi in cella sulla detenzione rimanente. Uscita dal carcere, ha subito cercato un contatto sia con l’ex convivente che con la prima figlia che l’uomo aveva avuto da un’altra relazione, Sara. A quest’ultima si è presentata con un nome di fantasia e poi le ha svelato la sua vera identità ottenendo però una risposta fredda. «Non so se ci sia stata una vera rieducazione – si sfoga Sara – e se Verusca abbia scontato la pena con se stessa. Ii toni usati con me e le modalità con cui mi ha contattato mi portano ad avere qualche dubbio. Come ho detto anche a lei, non porto rancore e credo che tutti meritino una seconda possibilità. Ma credo anche che lei debba stare lontano da noi».

LE TAPPE DELLA VICENDA. Un delitto atroce. Il 15 febbraio 2001 il cadavere di un neonato viene trovato tra i rifiuti nell'impianto Geofor a Gello di Pontedera, lungo il nastro trasportatore. È morto da ore, stritolato dalla macchina che compatta l'immondizia. Per Pontedera il lutto è immenso, il 21 febbraio al funerale del “bambino solo” partecipa tutta la città; gli viene imposto il nome postumo di Angelo Faustino (san Faustino è il patrono, e si festeggia proprio il 15 febbraio). La salma viene sepolta nel cimitero comunale dove da allora è curata con grande affetto da molte donne. Il secondo bambino. Un secondo corpicino, nato e ucciso pochi mesi dopo, non è mai stato ritrovato; ma, in qualche modo, la sua morte ha permesso una svolta nelle indagini. L’indagine. A portare gli inquirenti sulla strada della madre killer è proprio il secondo episodio avvenuto, alla fine del dicembre 2001, all'ospedale di Terni. Qui una donna arriva con una emorragia post partum. Il bambino però non c'è; e dall'ospedale parte una denuncia per abbandono di minore nei confronti della donna. Anche questo neonato, il cadavere del quale non è mai stato trovato, potrebbe essere morto a Pontedera. Dell'uccisione dei due bambini venne accusata in un primo momento soltanto la madre, Verusca Montorzi, operaia, che oggi ha 42 anni. Viene arrestata nella sua casa di Pontedera, il mattino del 14 aprile 2003. Poi l'attenzione degli inquirenti si sposta sul compagno della donna, padre dei bambini, Dino Trappetti, geometra di Terni. Si è sempre proclamato innocente e all’oscuro di tutto; anche delle gravidanze. I round giudiziari. Entrambi gli imputati vengono condannati in primo grado - in tribunale a Pisa - alla pena dell'ergastolo. L'uomo è poi assolto in secondo grado. Per la donna la pena è stata ridotta a sedici anni di reclusione.

PRESUNTO COLPEVOLE. SANDRO VECCHIARELLI.

Altri casi di malagiustizia al centro del programma di Rai 2, scrive il 20/03/2012 Famiglia Cristiana. Nuovi casi di malagiustizia sotto i riflettori di “Presunto colpevole”, in onda stasera alle 23.40 su Rai 2.  La prima storia ha come protagonista Dino Trappetti, geometra di Terni, in un attimo diventato “il mostro di Firenze”.  Due anni, nove mesi e sette giorni. Tanto è rimasto in carcere Trappetti dopo essere stato condannato all’ergastolo, accusato di avere ucciso, insieme alla convivente, operaia di Pontedera, i due neonati. Ma, come poi verrà stabilito dopo indagini accurate, i bambini erano stati uccisi solo dalla loro madre dopo il parto. Trappetti era all’oscuro di tutto, perfino delle gravidanze.  “La ragazza del lago” è il titolo del secondo caso. Sandro Vecchiarelli fu accusato della morte di Chiara Bariffi, la 32enne di Bellano trovata in fondo al lago di Como, tre anni dopo la sua scomparsa avvenuta all’alba del primo dicembre 2002. A indicare il punto esatto dove cercare Chiara, fu una sensitiva. 583 giorni durerà il calvario giudiziario di Vecchiarelli che risulterà innocente. La vicenda di Gennaro Scarciello chiude la seconda puntata del programma. Accusato ingiustamente di associazione a delinquere di stampo mafioso e riciclaggio di denaro sporco, dopo sei anni di odissea, è stato assolto.  “Mi sono separato da mia moglie, ho perso la stima e l’affetto dei miei figli e, dopo tre anni di cure psichiatriche, disperato, ho tentato anche il suicidio”.

Omicidio Bariffi: ecco la verità. Nuovi elementi e intercettazioni. La sensitiva era stata minacciata, scrive il 22 aprile 2008 Stefano Cassinelli su Il Giorno. Arresti inattesi quelli di Sandro Vecchiarelli e Massimo Barili accusati da anni dell’omicidio volontario di Chiara Bariffi scomparsa nel 2002. Oggi pomeriggio i due saranno sottoposti a interrogatorio di convalida nel carcere di Monza dove sono stati condotti dopo l’arresto avvenuto sabato mattina all’alba. I carabinieri hanno spiegato che all’arresto si è giunti attraverso le indagini, gli esiti delle perizie tecniche e quelli dell’autopsia. Resta il fatto che gli inquirenti erano in possesso di questi riscontri, unitamente ad alcune testimonianze, già da tempo. Allora come si spiegano questi arresti, quali elementi nuovi possono essere giunti nelle mani del pm Luca Masini per chiedere e ottenere l’arresto? 

UNA CIRCOSTANZA temporale è importantissima in questo frangente: la morte di Francesco Bariffi padre di Chiara che lottava per arrivare alla verità da anni. Francesco Bariffi è deceduto, dopo essere stato investito da un’auto, nel febbraio scorso. Dopo circa due mesi da quella morte scattano gli arresti. Una delle possibili novità nell’inchiesta potrebbero essere arrivate proprio da intercettazioni telefoniche recenti in cui i due indagati si sarebbero lasciati andare dopo anni di estrema prudenza. Ma già quando Francesco Bariffi era ricoverato in ospedale a Lecco l’avvocato Mario Bonati aveva incontrato il pubblico ministero Luca Masini come spiega Luciana Bariffi, madre di Chiara: «Il pm aveva detto al nostro avvocato che presto ci sarebbero state delle importanti novità che avevano nuovi elementi. Purtroppo però mio marito non ha potuto vedere quello che è accaduto». Restano tanti punti oscuri in questa drammatica vicenda, tra questi il ruolo svolto dalla sensitiva bresciana Maria Rosa Busi. I carabinieri voglio capire come la sensitiva è stata in grado di individuare il luogo in cui si trovava la macchina con il cadavere di Chiara.

«NON C’È MOLTO da dire - afferma Maria Rosa Busi - ho spiegato da subito come facevo a saperlo: sono una sensitiva. Adesso si vuole infangare il mio nome dicendo che sapevo qualcosa, ho dimostrato il mio valore non ho problemi. Sono stata messa in contatto con la famiglia da una giornalista Rai che avevo conosciuto in occasione di un altro ritrovamento effettuato grazie a me. Non ero mai stata sul lago di Como e non conoscevo nessuno in zona. I carabinieri non mi hanno mai creduto e non hanno voluto cercare dove avevo indicato da me. La famiglia di Chiara ha trovato dei sub volontari che hanno voluto fare le ricerche nella zona che avevo indicato e hanno trovato l’auto e il corpo. Questa è la storia semplice. Ci sono i giornalisti, i sub e la mamma di Chiara che possono testimoniare com’è andata». Maria Rosa Busi è legittimamente indispettita e afferma: «Ho ricevuto anche delle minacce, i carabinieri lo sanno perchè gli ho dato il numero di telefono da cui era arrivata la telefonata intimidatoria. Mi hanno chiamato anche per un riconoscimento. Quindi sono tranquilla. Avevo promesso ai genitori di Chiara che gli avrei fatto avere una tomba su cui piangere e ho mantenuto la parola data. Per tutto questo non ho mai chiesto una lira».

UN CASO DELICATO e oggi in carcere a Monza i due arrestati saranno messi sotto torchio e la procura metterà sul tavolo tutti gli elementi che hanno portato all’arresto di Vecchiarelli e Barili. Proprio Vecchiarelli si è sempre professato innocente e in più occasioni ha avuto modo di ribadire che era legato a Chiara Bariffi da una sincera amicizia. Vecchiarelli era al funerale di Chiara Bariffi vicino ai genitori che fino all’arresto faticavano a credere nella colpevolezza dell’uomo e mamma Luciana afferma: «Sapere che due persone che Chiara considerava amiche l’hanno uccisa mi fa doppiamente male».

Ecco perché Vecchiarelli è stato assolto dalle accuse. Le motivazioni della Corte d’Appello di Como, scrive Andrea Morleo il 13 febbraio 2010 su Il Giorno. NON É STATO LUI ad uccidere Chiara Bariffi la notte tra il 30 novembre e il 1° dicembre 2002. Questa la sentenza emessa il 27 novembre scorso dalla Corte d’Appello di Como nei confronti di Sandro Vecchiarelli (difeso dall’avvocato Marcello Perillo del Foro di Lecco), che era stato arrestato il 19 aprile del 2008 con l’accusa di omicidio. A distanza di poco meno di due mesi, si conoscono le motivazioni di quella sentenza. «La lunga e articolata istruttoria dibattimentale - si legge nel documento a firma del presidente Alessandro Bianchi - non ha consentito di raccogliere a carico di Vecchiarelli prove sufficienti di colpevolezza in ordine al delitto di omicidio contestatogli, ma anzi ha privato di consistenza e di significato molti degli elementi indiziari». Troppe zona d’ombra, insomma, continuano ad avvolgere la ricostruzione dei fatti. A cominciare dal fatto che «manca l’assoluta certezza che, quando finì nel lago, Chiara fosse viva: anche sotto l’aspetto scientifico questa eventualità raggiunge almeno la percentuale del 70%». L’assunto accusatorio che Chiara quella sera si sentì male a causa di un mix tra alcool, hascisc e gli psicofarmaci che assumeva «resta invece sfornito di qualsiasi prova». I giudici della Corte confermano anche «l’estrema debolezza del movente» perché «nessuna voce nel processo ha riferito di una relazione sentimentale tra i due». 

NESSUNA CERTEZZA nemmeno sulle modalità con le quali l’auto si inabissò nel lago e sull’individuazione del punto esatto in cui ciò avvenne. Per i giudici le lacune non sembrano essere colmate dalla deposizione di Mirko Cola. Come non sono state decisive per i giudici le deposizioni dei teste Micaela Melesi, Alberto Facchinetti e Maurizio Venini per verificare se effettivamente nelle prime ore del 1° dicembre 2002 Chiara e Sandro avessero fatto colazione insieme. Così conclude la Corte «l’intero quadro indiziario nel suo complesso si è rivelato inconsistente». Il mistero sulla morte di Chiara Bariffi rimane pertanto tuttora avvolto da tanti, troppi interrogativi insoluti.

Otto anni per smontare il castello di accuse nel caso del corpo sparito, scrive Venerdì 15/04/2011 "Il Giornale". Il processo è stato il processo delle suggestioni. Ma l’imputato è stato un imputato vero. Almeno dal 2002 al 2010. Tanto è durato l’incubo in cui, tra sospetti, carcerazioni e accuse mediatiche, è piombato Sandro Vecchiarelli di Dervio, un paesino nel Lecchese. Indicato, a torto, come responsabile di un omicidio volontario, quello di Chiara Bariffi, una ragazza di Bellano, e dell’occultamento del suo cadavere. «Non posso nascondere che Chiara mi piacesse ma siamo sempre stati solo amici». E, in verità, non si dovrebbe venire accusati di omicidio solo per avere avuto una buona amicizia con una ragazza tragicamente e morta in modo rocambolesco quanto misterioso e ritrovata cadavere nell’auto in fondo al Lago di Como. No, non si dovrebbe. Ma se nell’ordinanza di custodia cautelare che porta Sandro Vecchiarelli nel carcere di massima sicurezza di Monza ci sono un sfilza di magari e di probabilmente, allora tutto può cambiare. Anche la vita di un uomo innocente può cambiare. Tanto da diventare per 584 giorni la vita di un uomo dietro le sbarre che, in 560 fogli, già, quasi uno per ogni giorno di detenzione annota, in un vero e proprio memoriale, ricordi e dettagli, anche minimi che possano aiutare a dimostrare la sua innocenza. Un memoriale che il suo legale, Marcello Perillo, ha voluto rendere noto solo dopo che tutte le testimonianze hanno rivelato la loro inconsistenza davanti ad una Corte.

PRESUNTO COLPEVOLE. TITO RODRIGUEZ.

Scrive Rai.it il 27 settembre 2013. Le storie di Pio Ragni, Tito Rodriguez e Fulvio Passananti sono al centro della settima puntata di “Presunto colpevole”, il programma che racconta storie di “malagiustizia”. La seconda storia è quella di Tito Rodriguez. Tito aveva lasciato la sua patria, l’Ecuador, per costruirsi una vita in Italia. E ci era riuscito. Lavora nell’edilizia, aveva costruito una sua piccola impresa a Genova. Dopo circa vent’anni nel nostro Paese si sentiva a casa. Poi, tutto è crollato. Tito aveva una moglie e due figlie, ma si è innamorato di una ragazza molto più giovane di lui, come succede a tanti. Ha avuto altri due bambini, sembrava che tutto andasse per il meglio. Poi tutto è cambiato. Le cose, con la sua nuova compagna, non funzionavano più come prima. Sono arrivate le accuse: violenze, percosse sulla donna e sui figli. Non c’erano prove, non c’erano referti medici. Solo voci. Eppure Tito è stato arrestato e sbattuto in cella. In una mattina, è diventato un presunto colpevole e ha passato cinque mesi in galera e un mese e mezzo agli arresti domiciliari.

PRESUNTO COLPEVOLE. EMANUELE NASSISI.

IN CARCERE MA DA INNOCENTE LA STORIA DI EMANUELE NASSISI, scrive il Luglio 2011 Piazza Salento. Parabita. Per i carabinieri, la parola “auto” significava “droga”; “sutta la porta”, così chiamato il punto di ritrovo di tutti i parabitani, era invece la porta di casa dello spacciatore. Errori di interpretazione delle intercettazioni e Emanuele Nassisi, è finito in cella senza sapere perchè. I capi d’imputazione li ha conosciuti solo dal giornale. Notti insonni, sul letto a castello, a pochi centimetri dal soffitto, in attesa di sapere qualcosa in più. Di poter finalmente venir fuori da quell’incubo. Emanuele Nassisi, un ragazzo di Parabita, viveva la sua vita come tanti trentenni coetanei del suo paese, quando, per uno sbaglio nell’interpretazione di alcune intercettazioni, all’improvviso si è visto stravolgere la vita. I carabinieri hanno fatto irruzione nella sua abitazione all’alba. Poi, dopo una perquisizione, senza nessuna spiegazione, lo hanno spedito in prigione, in custodia cautelare. «Sono stato portato in carcere il sabato e fino al martedì successivo nessuno mi ha detto niente. All’inizio pensavo fosse uno scherzo – racconta Emanuele – poi, ho iniziato a pensare che tutto si sarebbe risolto nel più breve tempo possibile, alla fine non ci volevo credere. Leggendo il giornale ho capito di cosa mi stavano accusando: associazione a delinquere, spaccio internazionale di droga e di armi. Ho provato tanta rabbia nel constatare che era tutto falso». Nassisi è molto conosciuto in paese, artista della pietra leccese, le sue opere le esporta in tutto il mondo, è socio in tante associazioni (pure quella dei carabinieri), è stato impegnato anche in politica. «Tutti sanno bene chi sono – continua – non ho mai avuto problemi con nessuno. A mettermi nei guai sono state le intercettazioni delle telefonate avute con Massimo Donadei, per la compravendita dell’auto. Ed hanno legato la mia attività lavorativa in tutto il mondo con chissà quale giro internazionale di droga. Solo dopo tanto tempo il giudice ha ammesso l’errore». Due mesi hanno lasciato il segno. «I compagni mi hanno trattato bene – si sfoga Nassisi – ho conosciuto altre persone che come me stavano dentro da innocenti, vittime dello stesso errore. Stare lì non è bello, vedersi chiuso dietro le sbarre mi ha segnato. Ora, di notte, anche il rumore e i lampeggianti del camion dei netturbini mi fanno rivivere la stessa paura. Ed anche la vista dei Carabinieri ora mi turba». Per questa triste vicenda è stato costretto a rimandare il matrimonio, si sarebbe dovuto sposare il 25 giugno. «Potete immaginare cosa significa spostare data per la chiesa e il ristorante. La mia famiglia mi è stata vicina, anche se i miei permessi per incontrarli erano ridotti, perchè ritenuto pericoloso – dice Nassisi -, inoltre ho perso tanti clienti, avevo dei lavori da consegnare urgentemente, e hanno provveduto in altro modo, sarei dovuto partire anche in Brasile ed è saltato anche quel lavoro. Ho subito un danno all’immagine ed ora devo recuperare». L’avvocato Luigi Suez sta già provvedendo a chiedere un risarcimento.

PRESUNTO COLPEVOLE. FILIPPO DI BENEDETTO.

Seregno: è accusato di rapina. Innocente, passa in cella 18 mesi, scrive Il Cittadino MB, Venerdì 20 Aprile 2012. Seregno - Finisce dietro le sbarre per un errore giudiziario: è stato scambiato per un bandito. Ma prima di essere liberato passa diciotto mesi in carcere. Filippo Di Benedetto, 26 anni, seregnese, la sua amarezza l'ha sfogata in settimana davanti alle telecamere di "Presunto colpevole", trasmissione in onda su Rai Due dedicata proprio agli sbagli della giustizia. Il 27 gennaio del 2010 viene commessa una rapina a un supermercato di Arosio (Como). Il delinquente è particolarmente violento: minaccia due cassiere con un coltello e scappa con 700 euro in contanti. A marzo Di Benedetto si trova circondato dai carabinieri: «Sono le 6.30 del mattino - racconta davanti alle telecamere di Rai Due - quando mi hanno detto che dovevo andare con loro per la rapina di Arosio. Ma io non c'entravo nulla». Di Benedetto all'inizio è tranquillo, convinto che si tratti di un errore. Eppure nella sua foto segnaletica le cassiere riconoscono il bandito, lui finisce in cella. Qui conosce qualcuno che sa il nome del vero colpevole: si tratta di Biagio Carlomagno residente a Mariano Comense. Questi ammette la propria colpa e scagiona il ventisettenne, ma il seregnese viene comunque condannato a 7 anni e 9 mesi di reclusione. Alla fine sconterà solo, si fa per dire, un anno e mezzo di carcere. Solo una perizia antropometrica, ovvero la misurazione delle ossa di Di Benedetto e di Carlomagno e una comparazione con le immagini delle telecamere del supermercato, lo scagioneranno del tutto. Finalmente il ventisettenne viene dichiarato innocente e può tornare libero nella sua Seregno.

PRESUNTO COLPEVOLE. FRANCESCO SPANO'.

ALL’INFERNO E RITORNO. STORIA DI UN BANALE, DRAMMATICO ERRORE GIUDIZIARIO, scrive il 17 gennaio 2010 Claudio Cordova su Strill. C’è un uomo. Si chiama Francesco Spanò e ha 39 anni. Francesco Spanò è nato a Taurianova, ma vive a San Ferdinando, un paese di 4500 anime che si affaccia sul golfo di Gioia Tauro. Lo arrestano nell’ambito dell’operazione “Maestro”. L’operazione Maestro è di quelle che, solitamente, vengono definite “brillanti”. Il blitz del Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri scatta all’alba del 22 dicembre 2009. In manette finiscono 27 indagati. L’indagine, condotta dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria, ricostruisce gli equilibri mafiosi della Piana di Gioia Tauro. Quella di Gioia Tauro è una zona calda, dove gli affari portano, assai spesso, a fatti di sangue, dove, sempre in nome degli affari, le alleanze cambiano facilmente. I legami, anche quelli che sembravano indissolubili, si spezzano in pochi istanti: come accade il 1° febbraio del 2008, quasi due anni fa, quando viene assassinato Rocco Molè, il reggente dell’omonimo clan da sempre alleato all’altra cosca storica di Gioia Tauro, la famiglia Piromalli. Alla base dell’assassinio di Rocco Molè, infatti, vi sarebbero proprio gli intrighi riguardanti le spartizioni degli affari e del denaro. Soprattutto degli affari e del denaro del porto di Gioia Tauro: e gli inquirenti ipotizzano che dietro tale, clamoroso, omicidio vi sia proprio la famiglia Piromalli. Ma torniamo all’operazione “Maestro”. Oltre al reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, gli inquirenti ipotizzano anche l’associazione per delinquere finalizzata all’introduzione in Europa di ingenti quantitativi di merce contraffatta, con l’aggravante della transnazionalità, ed altri reati doganali. I Carabinieri sequestrano beni per cinquanta milioni di euro. L’indagine colpisce, in particolare, i presunti affiliati alla cosca Molè. Tra gli arrestati c’è anche Francesco Spanò, 39 anni, originario di San Ferdinando. Spanò finisce in carcere, come gli altri indagati, il 22 dicembre: trascorre in carcere il Natale, il Capodanno e l’Epifania. Trascorre in carcere gran parte delle festività natalizie. Ma c’è un particolare. Francesco Spanò con l’indagine “Maestro”, con la cosca Molè, con la ‘ndrangheta, non c’entra nulla. Cosa che, peraltro, Francesco Spanò afferma fin da subito. Nel corso dell’interrogatorio di garanzia, Spanò, infatti, nega di aver mai intrattenuto alcun tipo di rapporto con individui ritenuti affiliati alla cosca Molè. Gli avvocati di Spanò, Giuseppe Bellocco e Mario Virgillito, il 5 gennaio depositano un’istanza di revoca della misura cautelare. Sulla scorta di una nota del ROS dei Carabinieri, anche il pubblico ministero che cura l’indagine dà parere favorevole: il Gip Domenico Santoro ordina l’immediata scarcerazione di Spanò. C’è stato un errore. Il 30 novembre del 2007 gli investigatori ascoltano un’intercettazione telefonica. Da un capo del filo c’è Antonino Molè, classe 1989. Dall’altra parte, invece, c’è un soggetto identificato come “Ciccio”. Nella conversazione Molè indica al proprio interlocutore di aver suonato per errore a Domenico, “soggetto – come si legge nel dell’ordinanza di revoca della misura cautelare – presente nello stabile ed evidentemente conosciuto da entrambi gli interlocutori”. Il “Domenico” altri non è che Domenico Stanganelli, cugino di Antonino Molè, che dimorava proprio insieme con “Ciccio”. Ma quel “Ciccio” non è Francesco Spanò. E’ scritto nel decreto di revoca della misura cautelare: “…i successivi accertamenti in proposito delegati dal PM hanno evidenziato come utilizzatore dell’utenza … coinvolta nelle conversazioni poste a fondamento della richiesta, intercorse tra Antonino Molè, classe 1989, e il soggetto denominato Ciccio, debba ritenersi altro soggetto, diverso da Francesco Spanò”. Uno scambio di persona. No, Francesco Spanò non doveva finire in carcere. C’è stato un errore. Un errore che verrà risarcito economicamente in virtù delle leggi che regolamentano l’ingiusta detenzione in carcere, ma che, sicuramente, segnerà per molto tempo la vita di Francesco Spanò, sbattuto in prima pagina da tutti i media, e dei suoi familiari, costretti a trascorrere, come dice il fratello della vittima, “un Natale buio”. Quella di Spanò è una storia calabrese. Una storia brutta. Una storia che non deve intaccare la fiducia nelle Istituzioni, nella Magistratura e nell’Arma dei Carabinieri che, giorno dopo giorno, lottano, con coraggio e dedizione, soprattutto in territori come quelli della Piana di Gioia Tauro, contro la criminalità organizzata. Sangue e manette fanno vendere più copie. Ma quella di Francesco Spanò è una storia che l’onestà impone di raccontare. Per fornire una voce a chi non ce l’ha. Per restituire la dignità rubata a un essere umano, trattato come un criminale. Come qualcosa che non è.

PRESUNTO COLPEVOLE. JOSE' VINCENT PIERA RIPOLL.

Scambiato per narco, in cella 8 mesi. Disavventura di un medico: furto del passaporto e arresto, scrive Luigi Ferrarella il 5 luglio 2011 su "Il Corriere della Sera". Svegliarsi un giorno, nella propria casa di professionista e marito e padre spagnolo, e trovare la polizia che viene a prenderti per farti scontare in Italia 15 anni di carcere per traffico di droga, in forza della sentenza definitiva di un processo al quale nemmeno avevi mai saputo d'essere stato sottoposto in tre gradi di giudizio. Tu che urli «ma ci deve essere un errore, sarà uno scambio di persona»; e loro che, con in mano il mandato di cattura europeo e lo sguardo da «dicono tutti così», ti estradano dalla Spagna in Italia. Nel carcere di Opera. Condannato definitivo. Ad impazzire in cella con la prospettiva di doverci restare 15 anni come narcotrafficante colombiano (anche se tu sei spagnolo), operante in Italia (anche se non ci sei mai stato), soprannominato nelle intercettazioni «el Gordo» (cioè «il Ciccione» e di carnagione olivastra, anche se tu sei magro e di pelle più chiara), con una figlia (anche se hai un figlio). Otto mesi in cella così: prima che l'errore - colossale nella sua genesi e assurdo nell'inerzia burocratica del suo imparabile rotolare - venga a galla e convinca ora la giustizia italiana a risarcirlo, si fa per dire, con 85.000 euro a ristoro di 248 giorni di detenzione dal 17 aprile al 21 dicembre 2009. L'allora 42enne osteopata spagnolo non lo sa, ma in Italia il 6 aprile 2005 si parla anche di lui: il gip Maurizio Grigo, su richiesta del pm Mario Venditti, in un'indagine sul narcotraffico internazionale emette ordini d'arresto per 134 persone, tra le quali appunto Josè Vincent Piera Ripoll, alias «Gordo», alias «Paulo George Da Silva Sousa». Non lo saprà mai perché nessuno glielo dirà mai: le notifiche, cruciali per il corretto instaurarsi di un giudizio, falliscono tutte, e così è da «contumace» e «latitante» che a sua insaputa va incontro al treno processuale che lo condanna a 15 anni in Tribunale il 17 gennaio 2007, in Appello il 4 dicembre 2007 e in Cassazione il 29 aprile 2008. L'8 agosto partono il mandato di cattura europeo e l'estradizione dalla Spagna. Nel carcere di Opera è vicino ad ammattire. Studia il processo che non ha conosciuto e legge che decisivo, per identificarlo nel «Gordo», fu l'incrocio tra le intercettazioni dei narcos e un controllo al casello di Carmagnola l'8 agosto 2000, quando i carabinieri di Monza identificarono, insieme a un italiano coinvolto nei traffici (M.B.), anche una persona che il passaporto indicava appunto «Piera Ripoll Vincent Josè, nato a Gandia (Spagna) il 31.10.1963», poi riconosciuto al Motel Ritz di Varedo il 26 settembre in un altro momento topico dell'indagine antidroga. Solo che non è lui. Ed è proprio a Opera, per un caso che ha il sapore del miracolo, che lo spagnolo scopre la ragione. Proprio lì c'è anche M.B., in detenzione domiciliare essendo diventato collaboratore di giustizia. E quando lo incontra, avvisa subito i carabinieri che lo spagnolo è lì per sbaglio: era l'osteopata dal quale si era recata la moglie di M.B. e al quale costui aveva rubato il passaporto, per poi consegnarlo al narcotrafficante «el Gordo» col quale era in affari. Ma per gli avvocati Simone Briatore, Stefano Fratus e Antonino Gugliotta resta un'impresa perfino procurarsi quel passaporto per confrontare le foto: dal carcere non riescono ad averlo, e solo grazie a un carabiniere di Monza, S.M., finalmente diventa possibile il paragone che parla da solo, per quanto diversa è la faccia del magro spagnolo da quella del corpulento e olivastro «el Gordo» che girava col suo passaporto. Non basta ancora: il 17 dicembre 2009 la Corte di Appello gli nega la scarcerazione, ma per fortuna il Tribunale del Riesame il 21 dicembre 2009 accoglie il ricorso e libera lo spagnolo, che il 25 marzo 2010 vede la Cassazione finalmente annullare la condanna a 15 anni e aprire all'assoluzione in Appello il 27 ottobre «per non aver commesso il fatto», definitiva in Cassazione l'11 gennaio 2011. E ieri anche i giudici milanesi Carfagna-Maiello-Nova, competenti sulla richiesta di ingiusta detenzione, appaiono basiti dalla storia, a giudicare da come decidono di alzare a 85.000 euro l'indennizzo che le tabelle di legge fermerebbero a 58.000. Neanche i soldi che lo spagnolo ha dovuto spendere in avvocati (47.000) e ha perso in reddito (16.000 nel 2008) nel 2009 e 2010.

PRESUNTO COLPEVOLE. BRUNO DEL MORO.

I miei 14 anni da incubo: condannato pur essendo innocente, scrive il 13 gennaio 2011 Il Tirreno. Cosa vuol dire vivere quattordici anni con la spada di Damocle di una condanna per un reato mai commesso? Lo racconta in un'intervista Bruno Del Moro, l'autista Atl che è stato assolto in appello dopo essere stato condannato a 4 anni e mezzo per un colpo alle poste di Roma del 1996. Del Moro parla di un incubo attraversato in tutto questo tempo, i problemi della famiglia, le difficoltà economiche e la solidarietà dei colleghi che non hanno mai smesso di credere nella sua innocenza. L'intervista completa nell'edizione di domani. Un'intercettazione e un riconoscimento errato: ecco come si finisce nei guai. Del caso Del Moro si occuperò martedì prossimo anche la rubrica "I Soliti ignoti" de "La vita in diretta", la trasmissione di Rai 1. Ma come può succedere che un innocente finisca invischiato in una vicenda giudiziaria come questa. Lo spiega il legale di Bruno Del Moro, l'avvocato Mario Maggiolo: «Quando vennero commesse le rapine alle poste di Roma, nel 1996, si cercò un basista, e furono messi sotto sorveglianza i telefoni di molti dipendenti - sottolinea il legale - e da uno di questi risultarono molte telefonate ad un pregiudicato, la cui convivente abitava a Livorno. Da questa utenza risultò una chiamata al telefono di Del Moro. Era - spiega Maggiolo - la figlioletta della donna che conosceva la figlia dell'autista».  A quel punto Del Moro si ritrovò comunque in mezzo all'indagine e la polizia di Roma chiese una sua foto all'anagrafe: arrivò un'immagine in bianco e nero di un uomo con i baffi: un teste lo riconobbe come uno dei banditi. Ma il bandito aveva capelli e baffi neri, mentre Del Moro li aveva rossi: «E così - conclude Maggiolo - alla fine siamo riusciti a dimostrare la sua innocenza».

«Senza la famiglia e i colleghi dell'Atl non avrei superato questa prova terribile», scrive Roberto Cestari il 14 gennaio 2011 su Il Tirreno. Bruno Del Moro l’autista Atl assolto in appello dopo un’odissea giudiziaria durata 14 anni LIVORNO. Il primo giorno di libertà ha una sapore speciale, per chi è stato 14 anni sotto la spada di Damocle di un'accusa gravissima, una rapina, e una condanna per un fatto non commesso. Ieri Bruno Del Moro, l'autista Atl assolto dalla corte di appello di Roma per il colpo alle poste della capitale del 1996, ha accettato di parlare di questi anni difficili. E lo ha fatto proprio al circolo Atl di via delle Galere, tra i compagni di lavoro che lo festeggiavano. E la settimana prossima, martedì alle 18, Del Moro e il suo avvocato, Mario Maggiolo, parleranno di questa vicenda a "La vita in diretta", la trasmissione pomeridiana di Rai 1.  Qual è il primo pensiero dopo l'assoluzione?  «La fine di un incubo, ma anche che non sono il solo cui sono capitate cose simili».  Come è iniziata la storia, che cosa ha provato quando la polizia è venuta a cercarla?  «All'inizio, era il 1997, ci risi sopra, pensavo ad un errore: ma come io che andavo a fare le rapine a Roma dopo essere sceso dal bus. E anche alla polizia mi dissero di stare tranquillo, che c'era certo un errore. Poi, un giorno, scesi dal bus a fine turno e c'era la polizia in borghese che mi aspettava. "Lei è in arresto" mi dissero, e in quel momento mi crollò il mondo addosso».  E poi cosa successe?  «Mi accompagnarono a casa e trovai mia moglie Lisanna. Le dissi che erano due rappresentanti venuti per il negozio e che dovevamo parlare, e che quindi doveva portare da qualche parte nostra figlia Alessia, che allora aveva solo 9 anni. Quando la bambina fu in un'altra stanza, le dissi "Mi arrestano". E vidi che il mondo era crollato addosso anche a lei».  E per lei ci fu il carcere.  «Sì, mi portarono alle Sughere. Io avevo una paura tremenda: nei film quando mostravano le carceri si vedevano le cose più tremende e io, incensurato, non sapevo cosa mi aspettasse. Invece, le cose sono andate meglio del previsto».  In che senso?  «Nel senso che gli altri detenuti non mi hanno dato problemi, e gli agenti della Penitenziaria sono sempre stati umani».  Parlava di quello che era successo con gli altri detenuti, qualcuno le chiedeva della rapina?  «No, in carcere ognuno si fa i fatti suoi e non chiede agli altri perché è detenuto».  Poi ci fu la prima liberazione.  «Sì, dopo un mese tornai a casa, ma poi si presentò la polizia postale di Roma e mi arrestarono nuovamente. Feci altri 5 mesi alle Sughere e un mese a Rebibbia, a Roma».  E la famiglia come ha reagito?  «Mia moglie mi è stata sempre accanto, e ha cercato di mantenere tranquilla nostra figlia, che però qualche problema alla fine lo ha accusato. Alessia non parlava mai di quello che mi era successo, salvo una volta: "Non ti faranno niente, perchè non hai fatto niente di male"».  Poi ci sono stati i 13 mesi di arresti domiciliari. Come avete fatto per i soldi?  «Male, perché ero stato sospeso dal lavoro. Ma la famiglia e i colleghi ci sono rimasti accanto e ci hanno aiutato, anche dal punto di vista economico: gli autisti Atl, che voglio ringraziare per tutto quello che hanno fatto per me e la mia famiglia, hanno anche raccolto dei soldi per permetterci di tirare avanti. E devo ringraziare anche l'azienda, che appena ha potuto, mi ha fatto tornare al lavoro».  Arriviamo al 2004, al processo di Roma: cosa ha provato al momento della sentenza di condanna?  «Mi sembrava impossibile: come, io che sono innocente dovevo fare quattro anni di carcere? Perché non mi avevano assolto, in che mondo ero?».  E in attesa dell'appello?  «Andavo a lavorare per non pensare, perché pensavo cose davvero brutte».  Con che spirito è andato all'appello?  «Fiducia zero, a quel punto non sapevo proprio come sarebbe andata a finire».  Invece il giudice ha letto il suo nome e la parola assolto. Cosa è successo allora?  «Mi sono messo a piangere, non riuscivo a fare altro. E un altro imputato mi ha detto "Non devi piangere, devi ridere", ma...».  Ma cosa?  «Ero incredulo, non capivo se fosse vero o no: così ho chiamato un avvocato e gli ho chiesto: "Ma è vero che ci hanno assolti tutti?" e quando lui mi ha detto di sì ho cominciato a rendermi conto che era vero».  Cosa è stata la prima cosa che ha fatto da uomo libero?  «Ho dormito fino alle quattro del pomeriggio, per la prima volta senza incubi».  E adesso come si sente?  «Meglio, anche se non mi sento ancora del tutto tranquillo. La paura è restata, dovrò imparare a conviverci. Ma almeno sono pulito da quell'accusa infamante, e questo è l'importante. Ma aggiungo una cosa: è toccato a me dimostrare di essere innocente, non a loro che fossi colpevole. Questo ci deve insegnare che nessuno è al riparo da certe situazioni».  Adesso chiederà un risarcimento?  «Se ne occuperà l'avvocato Maggiolo, ma in questo momento non mi interessa più di tanto: l'importante è essere uscito da questa situazione».  Programmi a breve?  «Forse un viaggio, magari un last minute, e poi vorrei finalmente pensare alla pensione: sono 38 anni che lavoro, ho cominciato a 14 anni e da allora non ho mai smesso».

PRESUNTO COLPEVOLE. EMMANUEL ZEBAZE SOKENG.

Assolto dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata alla truffa.

PRESUNTA COLPEVOLE. JOY IDUGBOE.

Brescia, finisce il calvario di Joy: sei mesi in cella per un’omonimia, scrive il 13 gennaio 2012 Tempi. Joy Idugboe, nigeriana 42enne residente a Brescia, ha passato sei mesi in carcere per sfruttamento della prostituzione, reato che non ha mai commesso. Incarcerata nel 2007 per delle intercettazioni dove veniva accusata una persona con il suo stesso nome, le hanno tolto anche l’affidamento dei figli e solo in questi giorni è arrivato il risarcimento di 48 mila euro. Era solo un caso di omonimia, Joy Idugboe non era colpevole di sfruttamento della prostituzione e riduzione in schiavitù, ma la procura di Napoli ci ha messo più di due anni per assolverla, tre per ridarle l’affidamento dei figli e solo in questi giorni è arrivato il risarcimento pari a 48 mila euro. E intanto la nigeriana 42enne, allora residente in una casa popolare di Brescia, ha passato sei mesi in carcere, lontana dal compagno e dai due figli. Come scrive Avvenire, il calvario giudiziario della donna inizia circa cinque anni fa, quando una prostituta sporge denuncia per riduzione in schiavitù e sfruttamento. I magistrati autorizzano le intercettazioni telefoniche e attribuiscono la voce intercettata a Idugboe. Che per l’ordine di custodia cautelare finisce in carcere il 26 giugno 2007, prima a Brescia e poi a Pozzuoli. Subito l’avvocato della donna, Giuseppina Coppolino, si muove per farla uscire: «Già agli esordi della vicenda era emerso senz’ombra di dubbio che la mia assistita fosse vittima di un caso di omonimia». Ma il Gip del tribunale di Napoli non è convinto e rigetta l’istanza. E mentre i figli di Joy vengono affidati a una comunità, il 28 novembre 2007 l’imputata chiede per l’ennesima volta l’esame della voce. Dopo l’esame viene scagionata ma rilasciata solo il 13 dicembre 2007. L’assoluzione definitiva arriva il 3 luglio 2008 e la restituzione dei figli il 16 settembre 2009. L’avvocato di Joy commenta così: «Una vicenda incresciosa, per la quale ho scritto al presidente della Repubblica. Pronta la sua assicurazione: indagherà il Consiglio superiore della magistratura».

PRESUNTO COLPEVOLE. MASSIMO MALLEGNI.

L’eccezione di Mallegni: «Io, arrestato da innocente fermerò le manette facili».  Il candidato di Forza Italia incontra gli avvocati, scrive il 3 Marzo 2018 "Il Dubbio". «La carcerazione preventiva è un abominio. Forza Italia propone di rivederla in profondità, nel quadro di una riforma della giustizia che assicuri il diritto a un giusto processo». Sarà un caso, ma uno dei pochissimi candidati che affrontano con argomentazioni dettagliate il tema giustizia è uno che si è fatto, da innocente, un po’ di carcere: si tratta di Massimo Mallegni, ex sindaco di Pietrasanta, che ha dovuto affrontare qualcosa come 7 diversi procedimenti penali, per uscirne puntualmente prosciolto. Corre per il centrodestra in Toscana, al Senato, e due giorni fa ha incontrato gli avvocati della Versilia a Lucca per esporre il programma del suo schieramento in campo penale e civile. «Le imprese non investono in Italia perché sono terrorizzate dai tempi della nostra giustizia. Ma non si tratta solo della difficoltà nel veder soddisfatto un credito: fanno paura anche odissee giudiziarie come quella di cui sono stato vittima, che è durata 17 anni. E da ex imputato, innocente, comprendo la necessità di intervenire sulla carcerazione preventiva e sul processo in generale, così come la comprendono le oltre 20mila persone che dal 2001 ad oggi sono state incarcerate e poi risarcite per ingiusta detenzione. Un detenuto su 3 vive nel limbo della carcerazione preventiva». Mallegni ha assicurato agli avvocati che Forza Italia metterebbe in campo anche «la separazione delle carriere della magistratura inquirente da quella giudicante e una nuova disciplina delle intercettazioni».

Dieci anni dopo Massimo Mallegni torna a San Giorgio. Il sindaco di Pietrasanta fa visita con i vertici regionali di Forza Italia al carcere di Lucca dove, nel gennaio 2006, venne condotto dopo l'arresto, scrive il 31 gennaio 2016 Il Tirreno. Massimo Mallegni, sindaco di Pietrasanta, è tornato a far visita al carcere San Giorgio di Lucca. E non in una data scelta a casa: cadono, infatti, i dieci anni dall'operazione di polizia giudiziaria che portò Mallegni - anche allora primo cittadino della Piccola Atene - a essere arrestato, insieme ad altri amministratori, dirigenti comunali e imprenditori. Una vicende che ebbe eco nazionale e che, dal punto di vista processuale, si è conclusa con l'evaporare di quasi tutti capi di accusa. Mallegni rimase nel carcere San Giorgio per 39 giorni in carcerazione preventiva. Dopo, ne avrebbe trascorsi ai domiciliari altri 117, ancora nello stesso regime. Oggi, dieci anni dopo, Mallegni è vicecoordinatore regionale vicario di Forza Italia e ha riconquistato il suo posto di sindaco di Pietrasanta. Oggi, dieci anni dopo, Mallegni è tornato al San Giorgio da uomo libero e innocente – con tanto di sosta a quella che fu la sua cella – per il sopralluogo istituzionale con la delegazione di Forza Italia guidata dal Coordinatore regionale Stefano Mugnai e dalla responsabile nazionale comunicazione del partito onorevole Deborah Bergamini e di cui hanno fatto parte anche l’altro Vicecoordinatore regionale Jacopo Ferri, il Vicepresidente del Consiglio regionale della Toscana Marco Stella e il Coordinatore provinciale di Fi a Lucca nonché Sindaco di Altopascio Maurizio Marchetti. Perché? «Perché la storia di Mallegni, che lui oggi ci mette generosamente a disposizione, è paradigmatica del come non si fa, ovvero di come non va esercitata la giustizia secondo Forza Italia», spiega Mugnai. «E perché – concorda l’intera pattuglia azzurra – il recupero e la riabilitazione di chi ha commesso reati non può passare dalle bugie di un Renzi che, mentre si riempie la bocca condannando la pratica diffusa della carcerazione preventiva, poi nel suo governo premia chi di quell’istituto ha fatto presupposto per la propria carriera». Giustizia giusta, giustizia certa: questo chiede Forza Italia. E giustizia indipendente: «Dopo quindici anni di peripezie giudiziarie – ricordano in Forza Italia – Mallegni oggi è non solo libero, ma anche innocente. Il suo arresto, alla fine i fatti lo dimostrano, ha avuto come unico risultato quello di restituire Pietrasanta alla sinistra. Per un periodo, certo. Abbiamo ben recuperato», è la stoccata azzurra. Ma poi, affinché la pena detentiva abbia il senso previsto dalla costituzione e punti concretamente al reinserimento sociale, serve un ascolto maggiore – proprio come è accaduto oggi al San Giorgio – delle voci, esigenze, esistenze anche, della popolazione carceraria tutta intera: operatori, a cominciare dalla polizia penitenziaria, e detenuti. «Restituire dignità a chi vive in carcere per lavoro o per pena – affermano Mugnai e gli altri esponenti di Forza Italia – deve rappresentare una priorità nazionale, attraverso il recupero in uso di strutture capaci di alleggerire la pressione antropica nelle celle e di garantire dunque condizioni di vita decorose oltre che maggiore e miglior sicurezza, ma anche regionale, con un’attenzione speciale alla sanità carceraria e ai bisogni di assistenza e cura di operatori e detenuti. Perché la pena, di qualunque entità, non porti con sé la rinuncia alla dignità della persona umana».

Mallegni riabilitato dopo 10 anni di persecuzione. Archiviate anche le ultime accuse. Per il primo cittadino azzurro ora decade pure la Severino, scrive Mariateresa Conti, Giovedì 10/12/2015, su "Il Giornale". Un calvario giudiziario lungo oltre 10 anni. Una cinquantina di accuse che gli son costate anche carcere e arresti domiciliari. Accuse crollate, svanite come bolle di sapone attraverso ben cinque processi. E adesso, finalmente, la fine dell'incubo, con l'assoluzione dalle ultime lievi accuse rimaste in piedi pur essendo prescritte e che pure l'estate scorsa hanno rischiato, per una solerte applicazione della legge Severino poi sanata, di costargli la poltrona. È finito l'incubo del sindaco azzurro di Pietrasanta (Lucca) Massimo Mallegni. La corte d'Appello di Firenze lo ha prosciolto dall'ultima accusa rimasta in piedi (ma già abbondantemente prescritta). Una vicenda giudiziaria che ha dell'incredibile per come si è sviluppata ed emblematica dei tempi fiume della giustizia. Una storia a tratti kafkiana. Mallegni, primo sindaco forzista nel 2000 (poi rieletto nel 2005 con il 60% di consensi) di Pietrasanta, storica roccaforte rossa della Versilia in mano alla sinistra da trent'anni, viene arrestato nel 2006. Accuse pesanti di tutti i generi nei suoi confronti, dalla corruzione all'abuso. Tra i suoi accusatori Antonella Manzione, all'epoca capo dei vigili urbani, oggi a palazzo Chigi come responsabile dell'ufficio legislativo, voluta a tutti i costi da Renzi nonostante le perplessità della Corte dei conti. E pm di quell'inchiesta, Domenico Manzione, ora sottosegretario agli Interni, fratello della sua accusatrice.Resta in carcere 39 giorni, Mallegni, nel 2006. Poi gli vengono concessi i domiciliari, che poco cambiano. Ma poi, man mano, comincia la riscossa di Mallegni, visto che i processi assolvono, da tutto, lui e gli altri imputati. La riscossa culmina qualche mese fa, quando Mallegni viene rieletto sindaco di Pietrasanta. Ma la mazzata è dietro l'angolo. Il prefetto di Lucca, ad appena 28 ore dalla rielezione a sindaco di Mallegni col 55% di preferenze, gli notifica la sospensione dall'incarico in virtù della legge Severino. A Pietrasanta, e non solo, è rivolta. Mallegni protesta, ricorda di essere stato lui stesso a presentare appello per essere assolto completamente da quelle accuse ormai prescritte. Bisogna attendere il 16 luglio perché il tribunale di Firenze sani la situazione congelando la sospensione in attesa della sentenza d'appello. Sentenza d'appello che finalmente è arrivata annullando per prescrizione i tre reati superstiti: abuso d'ufficio, violenza privata (ai vigili urbani) e corruzione per atto dovuto. Mallegni esulta: «Finalmente oggi possiamo festeggiare. Dopo dieci lunghi anni di un processo-bufala che ha messo in ginocchio l'intera comunità di Pietrasanta per anni, me e la mia famiglia, sputtanando amministratori e dirigenti. La Severino è evaporata, i carichi pendenti definitivamente scomparsi». «È stata una vicenda pesantissima - dice il sindaco di Pietrasanta al Giornale - sotto ogni punto di vista. Trentanove giorni in carcere in isolamento, 120 ai domiciliari. Roba impressionante. Fortunatamente ho trovato dei magistrati giudicanti perbene che hanno avuto voglia di leggere le carte e di riconoscere la mia innocenza. La politica - aggiunge - ha responsabilità enormi, la giustizia va riformata urgentemente, e si deve intervenire subito».

Il caso Mallegni: storia di una persecuzione senza fine, scrive il 10 luglio 2015 Giampaolo Rossi su "Il Giornale". Del caso Mallegni parlammo in quest’articolo di un anno fa che v’invito a leggere, rileggere e rileggere ancora… anche più di tre volte. Perché la storia che lì è raccontata non è semplicemente un clamoroso errore giudiziario, definizione asettica con cui i media raccontano la distruzione di vite, famiglie e carriere professionali compiute da magistrati che non pagano mai. No, quello che successe a Massimo Mallegni fu qualcosa di più: fu il manifestarsi plateale e sfacciato di un’Italia feudale in cui il potere di pochi può stravolgere le regole della democrazia, della volontà popolare e dei diritti altrui. Un sindaco (ottimo amministratore eletto per ben due volte dai suoi cittadini) portato via in manette dal Consiglio comunale, costretto a farsi sei mesi tra galera e arresti domiciliari, per cinquantuno capi d’accusa (dall’associazione a delinquere, alla corruzione) per i quali risultò del tutto innocente; accuse partite da una denuncia per mobbing fatta dal suo Comandante dei Vigili Urbani, Antonella Manzione. Il suo arresto (ed è questa la cosa più sconvolgente) fu richiesto al GIP ed ottenuto, dal fratello di lei magistrato (Domenico Manzione) che aveva condotto le indagini; arresto risultato persino illegittimo, come decretò la Cassazione. Quindi, prendetevi tutto il tempo che volete ma leggetevi l’articolo che spiega anche altre chicche di questa Italia; solo così potrete capire l’assurdo di quello che sto ora per raccontarvi. Perché la storia non è finita qui… 

 PAUSA LETTURA. L’avete letto? Bene, ora ditemi, innanzitutto: come vi sentite? Che siate di destra o di sinistra, avete anche voi in bocca un retrogusto di indignazione e frustrazione? Avete anche voi l’idea di non vivere in un paese civile ma nella Corea del Nord di Kim Jong-un dove una casta autoritaria e i suoi famigli possono decidere la libertà (e quindi anche la vita) di uomini e donne? Vi ho detto che la storia non finiva qui. Tenetevi forte.

TO BE CONTINUED…Riabilitato dalla sua vicenda giudiziaria Massimo Mallegni è tornato a fare politica. Alle ultime ammnistrative, quelle del mese scorso, si è candidato nuovamente sindaco nella sua Pietrasanta e nuovamente ha vinto. La sera dei risultati, una folla di duemila cittadini l’ha accompagnato nella sede del Comune da dove quattro anni prima era stato portato via ingiustamente in manette e lì ha ricevuto la fascia tricolore dal sindaco uscente (di sinistra), un atto di riconoscimento che fa onore. Massimo Mallegni quella sera ha pianto di gioia. “Come ti senti Massimo?”, gli ho chiesto; “come uno che ritorna alla vita” mi ha risposto. Dal giorno dopo, col suo fare da imprenditore versiliese, ha cominciato a lavorare per comporre la Giunta, sbrigare pratiche e governare la “Piccola Atene” (com’è chiamata la perla d’arte e di artisti della Versilia). Una settimana fa un nuovo colpo di scena: il Prefetto di Lucca l’ha sospeso da sindaco per la Legge Severino. Com’è possibile? Presto detto: oltre ai cinquantuno reati da cui è stato assolto, ce n’era un cinquantaduesimo caduto in prescrizione; un abuso d’ufficio per “istigazione al rilascio di Passo Carrabile” (non ridete che è tutto tragicamente vero!). Chi conosce i riti giudiziari sa che funziona così: quando un castello di accuse è clamorosamente smontato in sede processuale, per non ammettere l’errore, ti appioppano un reato minore in prescrizione così che comunque il sospetto che qualcosa hai fatto possa rimanere. Ne parlammo in quest’altro articolo relativo ad un altro clamoroso caso di ingiustizia, quello di Mauro Rotelli. In teoria alla prescrizione si può ricorrere in appello ma tutti sanno che, chi esce da una persecuzione giudiziaria di anni, è distrutto psicologicamente ed economicamente e il livello di frustrazione è tale che difficilmente ricorrerà in appello pur di scappare da quel girone infernale.

UNO STRANO RINVIO. Invece Massimo Mallegni in appello c’è voluto andare. L’udienza era stata fissata al 30 giugno (quindici giorni dopo le elezioni) ma, Sim Sala Bim, la Procura generale di Firenze, l’ha spostata di dodici mesi (un anno!!!). È allora che entra in scena il Prefetto che, su questo rinvio, pensa bene di applicare la Legge Severino sospendendo Mallegni dall’incarico di sindaco. Si, avete capito bene: quella legge che non si applica a De Magistris e a De Luca (amministratori di sinistra condannati per reati gravi) si applica al sindaco di centrodestra di un piccolo comune toscano per un reato ridicolo prescritto. La decisione lascia allibiti perché comunque vada l’appello, Mallegni tornerebbe a fare il sindaco essendo il suo reato prescritto. Quindi perché continuare a perseguitare un uomo già ingiustamente perseguitato e calpestare la volontà dei cittadini che per la terza volta lo hanno scelto come sindaco? La cosa più stupefacente è che questo Stato che ha rimandato di un anno l’Appello, c’ha messo un giorno (28 ore) per leggersi le pratiche e sospendere il sindaco. Lo so cosa state pensando, voi maligni: che se Mallegni fosse stato di sinistra nella Toscana rossa, delle cooperative rosse, dei banchieri rossi e di qualche magistrato rosso, non sarebbe stato sospeso; e forse neppure mai perseguitato. Ma siete voi che pensate male. Rimane il problema fondamentale: c’è un pezzo di magistratura di questo Paese che sembra incompatibile con la democrazia.

L’ULTIMO COLPO DI SCENA. Infine, qualche giorno fa, di fronte all’imbarazzo per l’accaduto, l’udienza di appello di Mallegni è stata anticipata al 10 settembre prossimo (di ben nove mesi, incredibile vero?), appena si rientrerà dalle vacanze. In Italia la democrazia può aspettare, le ferie del magistrato, no.

«Perseguitato dai Pm, riparto dal carcere per andare in Parlamento». Intervista di Errico Novi del 2 Febbraio 2018 su "Il Dubbio".  Il caso di Massimo Mallegni. Sette procedimenti penali. L’ultimo è durato 12 anni, si è concluso a novembre con la definitiva assoluzione, come in tutti gli altri casi. «Alcuni mesi fa la Rai ha dedicato uno speciale alla mia vicenda e l’ha paragonata a quella di Tortora», dice Massimo Mallegni, ex sindaco di Pietrasanta, candidato al Senato da Forza Italia, nella circoscrizione Toscana, dopo un’incredibile odissea giudiziaria. La sua campagna elettorale è iniziata due giorni fa davanti al carcere di Lucca. «Ci ho passato 40 giorni dentro: sono ripartito proprio da lì dove tutto sembrava finito. Un innocente, in quei momenti, vive una condizione difficile da descrivere Cominci a capire dove sei quando leggi l’ordinanza cautelare e ricostruisci i confini della sciocchezza che ti hanno costruito addosso». Imprenditore anche lui. «E mi hanno indagato un minuto dopo l’inizio del mio impegno politico». Sette procedimenti, l’ultimo è durato 12 anni e si concluso pochi mesi fa in Cassazione: assolto come tutte le altre volte. Le analogie con Silvio Berlusconi ci sono: l’ex sindaco di Pietrasanta e capolista in Toscana per Forza Italia Massimo Mallegni scova altre due analogie. «Alcuni mesi fa la Rai ha dedicato uno speciale alla mia vicenda: il titolo era “dopo il caso Tortora, il caso Mallegni”». L’altro rimando è al calvario di Ottaviano Del Turco: «Avessi avuto l’età che aveva lui quando lo arrestarono, non starei ancora qui a ricominciare tutto».

E invece riparte dal carcere di San Giorgio, dove l’hanno tenuta dopo l’arresto nel 2006.

«Proprio dove tutto sembrava finito. E invece sono andato a iniziare la campagna elettorale proprio lì davanti. Ci ho passato 40 giorni dentro, poi altri 120 ai domiciliari».

Cosa passa per la testa a un innocente in 40 giorni di carcere?

«È una condizione difficile da descrivere. Potrei dire di sconcerto, ma è di più, all’inizio non riesci a capire nulla. Sei una persona perbene, hai ottenuto un mandato dalla tua comunità, improvvisamente ti sbattono in galera come un delinquente. Cominci a capire dove sei finito quando leggi le 163 pagine dell’ordinanza cautelare e ricostruisci i confini della sciocchezza che ti hanno costruito addosso».

C’è chi l’ha attaccata persino quando rifiutò la prescrizione.

«Al settimo procedimento, partito con 51 capi d’imputazione, dopo essere stato assolto per 48 di questi, mi sono rifiutato di lasciar finire prescritte le ultime 3 accuse. Si trattava di cose ridicole, come l’istigazione al rilascio di un’autorizzazione per un passo carrabile. A chi ebbe da dire sulla mia scelta risposi che avrebbero dovuto sciacquarsi la bocca. Alla fine sono stato assolto anche da quelle ultime 3 contestazioni».

In molti punti il programma del centrodestra sulla giustizia pare fatto apposta per evitare che ricapitino vicende come la sua.

«Noi vogliamo dare alla giustizia gli strumenti necessari per operare, a cominciare dagli organici: abbiamo la metà dei magistrati tedeschi nonostante le nostre sedi giudiziarie siano il doppio che in Germania. E soprattutto, non è possibile che la carcerazione preventiva sia utilizzata come avviene oggi, e come è capitato al sottoscritto. Fatti salvi i casi in cui c’è la flagranza di reato, si viene processati e si mette piede in un istituto di pena solo dopo una condanna definitiva. Lo diceva pure il centrosinistra, salvo poi arruolare Domenico e Antonella Manzione, fratello e sorella, i grandi accusatori a cui devo il mio calvario».

Cosa pensa del muro alzato dai pm di fronte alla proposta di Forza Italia sull’abolizione del ricorso della Procura in caso di assoluzione in primo grado?

«Premetto che una riforma della giustizia non può prescindere dall’opinione degli operatori del diritto: magistrati e avvocati. Ma se mi assolvono tu non puoi continuare a perseguirmi. Non è possibile che in Italia incomba su qualsiasi indagato l’onere dell’inversione della prova: per come è strutturato il nostro ordinamento, sei sempre tu che devi dimostrare l’infondatezza delle contestazioni mosse dallo Stato, che si tratti di un Tribunale penale o di una cartella di Equitalia. Non è possibile».

E invece il “principio” è stato consacrato anche dal nuovo Codice antimafia: sequestri preventivi agli indiziati di corruzione, che devono provare la liceità dei beni se non vogliono vederseli portare via.

«Un’assurdità che non è sfuggita al presidente della Repubblica: ha promulgato la legge ma ha raccomandato al Parlamento di monitorarne gli effetti. Se quella norma fosse stata in vigore quando venni arrestato nel 2006, con accuse di corruzione e concussione, mi avrebbero sequestrato tutto».

A proposito di operatori del diritto: gli avvocati sono ascoltati abbastanza quando di tratta di definire provvedimenti sulla giustizia?

«Se guardiamo agli scioperi che hanno indetto negli ultimi mesi si direbbe il contrario. Questo fine settimana sarò all’inaugurazione dell’anno giudiziario delle Camere penali, e dirò una cosa: se il governo perde settimane per confrontarsi con i sindacati dei lavoratori prima di un presentare un nuovo contratto collettivo, è giusto che stia a sentire coloro che come gli avvocati hanno la competenza in materia di giustizia. Poi non è detto che gli equilibri del Parlamento consentano di portare a casa tutte le proposte, ma almeno ci si è provato».

Lei finirà per occuparsi di giustizia, una volta eletto senatore di Forza Italia.

«Preferirei occuparmi di cultura: qui in Versilia, come in tutta Italia, c’è una ricchezza che può essere ancora più valorizzata. Vorrei dedicarmi a cose piacevoli, ecco».

Cosa può dire a chi come Ottaviano Del Turco ha vissuto un calvario simile al suo ma non ha potuto ricominciare con la politica, nonostante sia stato assolto praticamente da tutto?

«Io ho avuto un paio di colpi di fortuna. Sono stato colpito solo di striscio dalla legge Severino, che mi è costata una sospensione di quindici giorni. Ma soprattutto ho avuto la ventura di essere stato arrestato a 36 anni. Se fossi finito nella cella di un carcere all’età in cui ci è finito Ottaviano, e lo chiamo per nome perché sono socialista anch’io, lo conosco, ecco, se avessi avuto la sua età non avrei mai potuto riscattarmi e tornare in campo. Avrei avuto 72 anni. Ma dalle ingiustizie non sei esce mai del tutto illesi».

PRESUNTO COLPEVOLE. PIO RAGNI.

Capaccio, Pio Ragni è innocente: assolto dopo 8 anni di processi ed il carcere il geometra Ersac accusato di corruzione, scrive Alfonso Stile l'11 maggio 2012 su Stile TV. Assolto perché il fatto non sussiste. Pio Ragni è innocente. Il funzionario capaccese (ora in pensione) dell’Ersac fu accusato, nel 2004, di aver falsificato alcune certificazioni Aima dopo essere stato corrotto attraverso il regalo di un prezioso orologio d’oro. Un’inchiesta, iniziata nel giugno del 2004, che portò Ragni in carcere per 17 giorni ed agli arresti domiciliari per i successivi 6 mesi. Ma l’altro ieri, dopo 8 lunghi anni di processi, i giudici della V sezione penale del Tribunale di Napoli, presieduta dal magistrato Donzelli, lo hanno assolto da ogni accusa, appunto, con l’art. 530 del Codice di procedura penale “perché il fatto non sussiste”. All’epoca, i carabinieri del Nucleo Politiche Agricole di Roma fecero irruzione in casa Ragni alla ricerca del costoso orologio, prova schiacciante che avrebbe dovuto incastrarlo, ma non fu mai trovato. Ragni (nella foto), geometra di Capaccio Capoluogo e fratello di Nicola Ragni (noto politico capaccese), ha sempre proclamato la sua innocenza dal primo giorno, professandola in tutte le sedi, rinunciando finanche alla prescrizione del reato affinché i giudici accertassero i fatti e la verità. Ad accusarlo fu il collega d’ufficio, Barbato, poi sconfessato dai giudici perché, si è scoperto, essere avverso e poco ben disposto nei confronti di Ragni. Da allora, un calvario lungo 8 anni, l’onta della detenzione a Fuorni, dei domiciliari e l’accusa infamante di essere il regista del business delle “arance d’oro” mai prodotte ma certificate all’Unione Europea in cambio di Rolex e Baume&Mercier d’oro massiccio. Oggi, invece, Pio Ragni può finalmente staccarsi di dosso quell’etichetta di funzionario corrotto ingiustamente affibbiatagli: i giudici, infatti, hanno accertato che non ricevette mai regali né compilò mai certificati falsi, in quanto non erano di sua competenza, come confermato da diversi testimoni chiave chiamati in causa. Anzi, le prove raccolte dalla difesa, retta dall’avv. Michele Tedesco, hanno consentito di dimostrare l’assoluta correttezza di Ragni, che, al contrario, rilasciava documentazioni regolari ed inerenti i suoi incarichi. Pio Ragni ha rilasciato un'intervista esclusiva alla nostra emittente: un estratto (cliccare sull'icona della telecamera per vederlo) andrà in onda nel TgStile di oggi, mentre la versione integrale sarà trasmessa mercoledì prossimo 16 maggio, alle ore 21:15, nell'ambito del format "Prisma - Storie, fatti e misteri" condotto da Angela Sabetta. L’arresto, una famiglia distrutta, la carcerazione in regime di 41 bis, e poi l’assoluzione… ma chi ti ridà la tua vita di prima, i genitori morti, il lavoro perso?

PRESUNTO COLPEVOLE. MAURIZIO COMINO.

Il caso Maurizio Cimino - Il caso Mattino5. Accusato ingiustamente di appartenere ad una associazione per delinquere finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti: assolto!

PRESUNTA COLPEVOLE. MONICA BUSETTO.

Delitto Pamio, Monica Busetto condannata a 25 anni in appello. La Corte d'Assise d'Appello di Venezia si è espressa mercoledì sull'ex operatrice socio-sanitaria veneziana accusata di aver ucciso Lido Taffi Pamio nel 2012 a Mestre, scrive il 17 ottobre 2018 la Redazione di Venezia Today.  Venticinque anni di reclusione. E' la sentenza stabilita mercoledì mattina dalla Corte d'Assise d'Appello di Venezia nei confronti di Monica Musetto, l’ex operatrice socio-sanitaria accusata, in concorso con Susanna «Milly» Lazzarini, di aver ucciso la vicina di casa Lida Taffi Pamio. La vittima, colpita a coltellate e strangolata con il cavo del decoder, è morta il 20 dicembre del 2012 nel suo appartamento in viale Vespucci a Mestre. Busetto, che si è sempre dichiarata innocente, era accusata di omicidio volontario aggravato dall’efferatezza e crudeltà e dai futili motivi e in primo grado era stata condannata a 24 anni e sei mesi. La pena, con il primo appello, si era poi aggravata nell'ergastolo. La Cassazione successivamente aveva cancellato la sentenza limitatamente all’aggravante dei futili motivi e rinviato la decisione ai giudici della Corte d’Assise d’Appello che, adesso, hanno escluso l’aggravante. A Busetto, rappresentata dagli avvocati Alessandro Doglioni e Stefano Busetto, non sono state riconosciute le attenuanti generiche. La difesa annuncia un nuovo ricorso in Cassazione.

Colpo di scena: la Cassazione toglie l’ergastolo a Monica Busetto. Rinviato il procedimento in Corte d’Assise d’Appello contestando l’aggravante dei futili motivi di Rubina Bon, scrive il 28 aprile 2018 la Nuova Venezia. L’omicidio di Lida Taffi Pamio, uccisa nel dicembre 2012 nel suo appartamento in via Vespucci, ha riservato l’ennesimo colpo di scena, arrivato dopo la mezzanotte di ieri dalla Corte di Cassazione: per Monica Busetto, accusata di omicidio volontario aggravato dall’efferatezza e crudeltà e dai futili motivi, i giudici romani hanno annullato la sentenza di ergastolo della Corte d’Assise d’Appello limitatamente all’aggravante dei futili motivi. Il giudizio è stato rinviato alla Corte d’Assise d’Appello in diversa composizione che su ciò si dovrà pronunciare. In primo grado l’operatrice sociosanitaria, che si è sempre detta innocente, era stata condannata a 24 anni e 6 mesi. In virtù del riconoscimento dell’aggravante, in secondo grado era arrivato l’ergastolo. «I motivi del ricorso in Cassazione erano legati alle carenti, contraddittorie e insussistenti motivazioni della Corte d’Assise d’Appello», spiega l’avvocato Alessandro Doglioni che difende l’imputata assieme al collega Enrico Busetto, «Per questo a mio parere i giudici di secondo grado dovrebbero riprendere in mano tutta la sentenza e rivalutare il processo nella sua interezza». Tutto si gioca sul movente del delitto. Nelle motivazioni della sentenza di secondo grado si legge: «In primo grado era rimasto ignoto il movente. Ora, però, le indicazioni provenienti dalla Lazzarini consentono di colmare tale lacuna: la Busetto (...) ha aderito alla richiesta di aiutarla a finire Taffi Pamio utilizzando il “pretesto” per farla finita con quella donna che la “sputtanava” e non le stava simpatica». «Difficile limitare la questione ai futili motivi, va presa in considerazione la questione dell’attendibilità della Lazzarini», chiarisce l’avvocato Doglioni.

Susanna “Milly” Lazzarini, rea confessa dell’omicidio Taffi Pamio, dopo quattro interrogatori davanti alle pm Lucia D’Alessandro e Alessia Tavarnesi in cui si era addossata la colpa, aveva tirato in ballo Busetto, sostenendo che fosse stata lei a finire l’anziana con una coltellata al collo. Tra le altre prove a carico di Busetto, il dna della vittima trovato su una catenina rinvenuta a casa dell’operatrice sociosanitaria. «Una contaminazione» per la difesa. Entro 30 giorni saranno depositate le motivazioni della sentenza e gli avvocati imposteranno la strategia difensiva in vista del nuovo processo che verosimilmente non sarà celebrato prima dell’inverno. Nei prossimi giorni i difensori effettueranno i conteggi sulla pena già scontata. Non è escluso che tra alcuni mesi Monica Busetto possa uscire di cella. Ma l’ipotesi al momento sembra piuttosto lontana. Ieri intanto i suoi difensori sono andati a trovarla a Verona. Quando li ha visti, Monica ha pensato di essere libera. Capita la situazione, si è sfogata: «Non ce la faccio più».

PRESUNTO COLPEVOLE. GIUSEPPE LA MASTRA.

Il calvario del maresciallo assolto dall’accusa di mafia e di nuovo sotto processo, scrive Simona Musco il 25 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Per la procura generale che ha chiesto una nuova inchiesta, due indagini per concorso esterno, due archiviazioni e una assoluzione non sono ancora sufficienti. Due indagini per concorso esterno, due archiviazioni e un’assoluzione. Ma il «calvario» giudiziario di Giuseppe La Mastra, maresciallo dei carabinieri ora in servizio al nucleo radiomobile di Palagonia (Ct), è lontano dalla parola fine. A raccontarlo è lui stesso, in un esposto indirizzato al procuratore generale della Cassazione, al Csm e al Presidente della Repubblica e firmato anche dal suo avvocato, Giuseppe Lipera, col quale si chiede a chi di dovere di verificare il comportamento dei magistrati in quello che viene considerato un «inspiegabile accanimento giudiziario». La Mastra, nell’arma dal 1991, negli ultimi 10 anni è stato comandante della stazione di Catenanuova, Comune ad alta intensità delinquenziale. «Ho sempre svolto le mie delicatissime funzioni con il massimo della professionalità, sprezzo del pericolo, dedizione assoluta alla legge e alla magistratura», racconta il maresciallo. Che si sente stretto nella morsa di una giustizia ingiusta, fatta di accuse pesantissime. «L’onta dell’arresto, una lunga e inspiegabile indagine per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, poi sfociata in archiviazione, ed un processo dinanzi al Tribunale di Enna: ecco ciò che è stato riservato ad un servitore dello Stato come me», afferma La Mastra. È un collaboratore di giustizia a tirare in ballo La Mastra, accusandolo di essere vicino al clan Cappello. Una dichiarazione che, a maggio 2012, sfocia in un’indagine della Dda di Caltanissetta per concorso esterno e in una perquisizione al comando dei carabinieri da lui diretto. «Purtroppo la Dda di Caltanissetta non ha fatto chiarezza in tempi ragionevoli: non solo ho dovuto convivere per oltre due anni con questa terribile ed infondata accusa, ma, difficile a credersi, dopo una prima archiviazione, ha dovuto assistere ad una inspiegabile riapertura di indagini, basata su cosa non è stato dato sapere», racconta il maresciallo. Anche la seconda indagine si chiude con un’archiviazione, giungendo alla conclusione che La Mastra non ha mai favorito la mafia. Ma durante la perquisizione vengono trovate nell’armadio destinato ai reperti di reato alcune cartucce ed alcune munizioni. Il comandante viene così arrestato e sospeso dal servizio, finendo a processo davanti al Tribunale di Enna. L’accusa è di aver detenuto illegalmente quelle munizioni e di aver rifiutato atti del suo ufficio in relazione alle stesse. Il processo si è chiuso ad ottobre, con un coro unanime: La Mastra non ha commesso quel reato. Ne è convinto il pm Augusto Rio, che ha chiesto l’assoluzione, e ne sono convinti i giudici, che hanno ritenuto infondata l’accusa. Ma il calvario non è finito. Il sostituto procuratore generale della Corte d’Appello di Caltanissetta, Fabio D’Anna, ha infatti proposto appello, riaprendo «la mia personalissima quanto immeritata “via crucis” giudiziaria» . La Mastra parla di «stranezze» nell’atto di impugnazione proposto dalla Procura generale di Caltanissetta. «Non è un appello come tutti gli altri», dice il militare. Viene chiesta la rinnovazione dell’istruttoria, ritenendo insufficiente l’attività della Procura di Enna nel processo di primo grado. Dall’accusa di concorso esterno alla fine del processo sono passati intanto cinque anni. «Mi sento un vero e proprio perseguitato – spiega Questo è francamente troppo, specie per un maresciallo dei carabinieri che, per altro, in questi anni, ha dovuto convivere con l’atroce e prematura scomparsa della propria moglie, portata via da una lunga ed invincibile malattia». Nei motivi d’appello, la Procura generale accusa i giudici di primo grado di essersi appiattiti sulle dichiarazioni di La Mastra durante il processo. Il Tribunale ha evidenziato che le munizioni erano nell’armadio destinato ai reperti di reato, punto principale, secondo i giudici, per ritenere la non configurabilità del reato, che escluderebbe la detenzione delle munizioni a titolo personale. Quella stanza, inoltre, durante i giorni in cui La Mastra era assente, era a disposizione degli altri militari, per cui «se solo ci fosse stato un fine illecito non le avrei mai custodite in quell’armadietto ed in quella stanza», ha spiegato lo stesso maresciallo. Che lasciava la chiave in ufficio, allontanandosi spesso a causa della malattia della moglie. «La detenzione delle munizioni da parte del La Mastra non assume i caratteri dell’illegalità – si legge nella motivazione – tale detenzione, infatti, si inquadra nell’esercizio delle funzioni rimesse al La Mastra». Munizioni custodite non a titolo personale «ma per ragioni di ufficio», nella disponibilità di «chiunque avesse avuto titolo per richiederle, visionarle o prelevarle». Non sussiste, per i giudici, nemmeno l’accusa di mancata adozione di atti d’ufficio, dato che nessun accertamento è stato fatto per verificare l’effettiva mancanza di atti giustificativi della detenzione delle cartucce. Inoltre nel corso delle indagini furono man mano rinvenuti tutti gli atti pertinenti a ciascuna arma, con il conseguente dissequestro. Posizione non condivisa dalla procura generale, che invece escluderebbe l’accesso a terzi a quella stanza se non per consultare atti d’ufficio. Per La Mastra si tratta invece di una sorta di «persecuzione giudiziaria», di «fango» che ha portato l’uomo a dubitare delle «ragioni che stanno alla base di tale inspiegabile accanimento». Una vicenda che gli è costata due giorni nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, due mesi di arresti domiciliari a Castel di Iudica e, dopo la scarcerazione, anche il divieto di dimora in Catenanuova. «Questa storia non ci convince – commenta l’avvocato Lipera – probabilmente qualcuno sta tentando di riparare alla brutta figura fatta con le indagini a suo carico. Questa impugnazione non si comprende: non c’è parte civile, c’è un’assoluzione su conforme richiesta del pm. Hanno distrutto la sua vita: la sospensione dal servizio è durata diversi anni, con conseguenze economiche anche rilevanti e il blocco della carriera. Fosse capitato ad un magistrato il processo sarebbe stato molto più veloce. Invece è un carabiniere e deve passare le pene dell’inferno».

PRESUNTO COLPEVOLE. GIOVANNI CAMASSA.

Venne condannato il 48enne Giovanni Camassa. Oggi possibili nuove indagini, scrive Stefania Congedo su TGnorba il 18 novembre 2017. A distanza di 15 anni potrebbe riaprirsi il caso dell’omicidio di Angela Petrachi, la donna di 31 anni rinvenuta brutalmente seviziata in un boschetto in agro di Borgagne, frazione di Melendugno il 26 ottobre del 2012. Un delitto per il quale è stato condannato in via definitiva Giovanni Camassa, un agricoltore di 48 anni. I giudici della Corte d’Assise d’Appello di Lecce hanno infatti accolto, dopo averla rigettata una prima volta, l’istanza depositata dal nuovo avvocato difensore di Camassa, avvocato Ladislao Massari, per lo svolgimento di indagini genetiche autorizzate, necessarie per comprendere attraverso l’analisi dei reperti e le tracce biologiche rinvenute sul luogo del delitto, se ci siano profili genetici incompatibili con Camassa. Reperti che oggi alla luce delle nuove tecnologie potrebbero portare a ricavare il profilo biologico dell’assassino e, nel caso questo non combaciasse con quello dell’agricoltore melendugnese, ad una possibile revisione del processo. Camassa ha sempre negato di essere l’autore del delitto. Si tratta del primo caso di indagini difensive genetiche autorizzate finalizzate alla revisione di un processo.

Angela Petrachi. Il Delitto di Melendugno. La condanna di Giovanni Camassa è un errore giudiziario?

Il caso del delitto di Angela Petrachi, che ha sconvolto non solo Melendugno e la provincia di Lecce, ma anche tutta Italia. Di lei si è interessato il programma di Rai3: “Chi La Visto?

Se ne occupa Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, tra cui “Giustiziopoli, disfunzioni che colpiscono il singolo”, “Malagiustiziopoli, disfunzioni che colpiscono la collettività”, oltre che “Tutto su Lecce, quello che non si osa dire”. Libri che raccontano questa Italia alla rovescia. Giangrande per una scelta di libertà si pone al di fuori del circuito editoriale. Libri dettagliati che fanno la storia, non la cronaca, perché fanno parlare i testimoni del loro tempo.

«Sono orgoglioso di essere diverso. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Faccio mia l’aforisma di Bertolt Brecht. “Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili.” Rappresentare con verità storica, anche scomoda, ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Continua Antonio Giangrande «E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. Faccio ancora mia un altro aforisma di Bertolt Brecht “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

«Del delitto di Angela Petrachi – racconta Giangrande - ne dava conto il 9 novembre 2002 lo stesso Corriere della Sera a firma di Roberto Buonavoglia. “I genitori pensavano che fosse fuggita, forse con un uomo. L' hanno cercata per 5 giorni prima di dare l' allarme. Ieri mattina, invece, Angela Petrachi, 31 anni, separata e madre di due bambini, è stata trovata morta da un cercatore di funghi in un boschetto di querce alla periferia di Melendugno, 15 chilometri da Lecce. Aveva la gonna arrotolata sui fianchi. Nessuna traccia degli indumenti intimi. Gli abiti, invece, erano strappati ma erano gli stessi che la vittima indossava il giorno della scomparsa, il 26 ottobre, quando lasciò i figli di 7 e 11 anni nella casa materna dicendo: «Torno subito». Sul cadavere il medico legale che oggi compirà l'autopsia, Alberto Tortorella, ha riscontrato tante sevizie da far dire agli investigatori che «il killer si è accanito sul corpo della povera donna». Angela Petrachi sarebbe stata attirata in una trappola dall'assassino, che quasi certamente conosceva. Forse l'uomo ha tentato di violentarla e lei ha resistito. L'ha colpita al volto con un bastone o una pietra, ha messo il corpo faccia in giù e l'ha trascinato per alcuni metri fino a nasconderlo dietro un cespuglio. Poi, prima di fuggire, l'assassino ha infierito sul cadavere. Uno sfregio, secondo i militari, che farebbe pensare a un delitto a sfondo sessuale forse riconducibile al giro di frequentazioni della donna. Proprio su conoscenti e amici di Angela Petrachi indagano ora i carabinieri che stanno controllando i tabulati delle schede telefoniche della donna e stanno scavando nella sua vita privata. La vittima, che svolgeva lavori saltuari, era separata da due anni dal marito, un militare al quale la famiglia non aveva perdonato di aver sposato Angela. Dopo la rottura del matrimonio la donna aveva frequentato un altro uomo che, alla fine della relazione, l'aveva denunciata sostenendo che la 31enne teneva comportamenti diseducativi con i figli. Per questo i due bambini erano stati affidati per 5 mesi a un istituto di Oria (Brindisi), fino al ritiro della denuncia. E proprio per impedire che alla donna venissero sottratti di nuovo i bimbi i suoi genitori hanno aspettato 5 giorni prima di denunciarne la scomparsa. Una perdita di tempo forse fatale: un testimone ha detto ai carabinieri di aver visto la donna 24 ore dopo la scomparsa.”. Angela Petrachi viveva a Melendugno, con i figli di 5 e 7 anni. Alle 14.30 di sabato 26 ottobre 2002, dopo aver pranzato con i figli in casa dei propri genitori, si allontanò dicendo che sarebbe andata per un’ora a casa sua e poi sarebbe tornata in tempo per accompagnare il figlio maggiore al catechismo. Ma questa evoluzione dei fatti non si verificò mai. Giovedì 31 i genitori di Angela vennero avvisati che l’auto della figlia si trovava nello spiazzo adiacente il campo sportivo, con la ruota posteriore destra a terra per un chiodo conficcato nel copertone. All’interno i documenti dell’auto e il giubbino. Secondo alcune testimonianze sarebbe stata parcheggiata lì fin dal pomeriggio di sabato. I documenti di Angela vennero ritrovati un paio di giorni. Non si seppe più nulla fino alle 8,30 circa di venerdì 8 novembre, quando il corpo di Angela venne trovato da un cercatore di funghi. Era in un boschetto, nelle vicinanze della strada su cui erano stati rinvenuti i documenti e la borsa. Indossava ancora i vestiti che aveva quando era uscita dalla casa dei genitori. Le indagini dei carabinieri si concentrarono da subito sull’ex fidanzato della donna al quale Angela, quel sabato 26 ottobre, aveva inviato ben 14 messaggi, tra le 17 e le 23. Nonostante tutto questo, invece è stato condannato Giovanni Camassa. Secondo la ricostruzione degli inquirenti, i due si erano dati appuntamento per l’acquisto di un cane ma l’incontro ben presto degenerò. Come accertato dal medico legale, Angela fu vittima di uno stupro, poi soffocata con le sue stesse mutandine e infine accoltellata. Di quel delitto fu accusato e condannato in via definitiva il 26 febbraio 2014 Giovanni Camassa. La corte di Cassazione ha confermato la condanna alla pena dell'ergastolo per Giovanni Camassa, l'agricoltore 45enne ritenuto responsabile dell'omicidio di Angela Petrachi, la 31enne uccisa brutalmente nell'ottobre del 2002 nelle campagne di Melendugno (Lecce). I giudici di primo grado avevano assolto l'imputato per non aver commesso il fatto; in appello, invece, l'imputato fu condannato al carcere a vita. Angela Petrachi, madre di due figli, uscita dalla casa dei genitori nel primo pomeriggio del 26 ottobre 2002, scomparve nel nulla. Il suo corpo venne ritrovato solo la mattina dell'8 novembre da un cercatore di funghi. L'autopsia rivelò che la donna era stata violentata, strangolata con i suoi slip e seviziata con la lama di un coltello. Secondo l'accusa, l'imputato e la vittima si sarebbero incontrati nel pomeriggio del 26 ottobre per discutere dell'acquisto di un cane. Durante l'incontro, però, la situazione sarebbe degenerata e l'uomo, colto da un raptus forse perchè invaghito della donna, avrebbe aggredito Angela Petrachi uccidendola. Carcere a vita. E’ il verdetto emesso dai giudici della Suprema Corte dopo circa quattro ore di camera di consiglio. Ci sono voluti la sbobinatura di 400 file, la ripulitura di centinaia e centinaia di intercettazioni, un lavoro meticoloso da parte dell’ingegnere informatico Luigina Quarta e una nuova istruttoria dibattimentale per riscrivere una nuova inaspettata verità nel processo istruito per fare luce sull’omicidio di Angela Petrachi, avvenuto il 26 ottobre del 2002. I giudici di secondo grado, Presidente Roberto Tanisi, a latere Rodolfo Boselli, condannarono all’ergastolo il presunto assassino, Giovanni Camassa, 44enne di Melendugno, assolto in primo grado per non aver commesso il fatto dopo aver trascorso due anni e mezzo di carcere. Camassa si è sempre giustificato affermando che quel giorno si trovava in compagnia della propria compagna, ma gli accertamenti tecnici avrebbero ribaltato l’impianto difensivo costruito dall’avvocato difensore Francesca Conte che aveva evidenziato come non vi sarebbe mai stato un movente e fatto notare l’esistenza di rapporti burrascosi tra la donna e il suo ex marito, tanto che la Petrachi presentò anche una querela. I figli di Angela erano assistiti dall’avvocato Tiziana Petrachi. Dopo la pronuncia della colpevolezza ribadita, in via definitiva, dalla Cassazione i carabinieri della Stazione di Martano hanno arrestato Giovanni Camassa, 47enne, in ottemperanza all’ordine di esecuzione per la carcerazione emesso dalla Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Lecce, in seguito alla sentenza della Suprema Corte di Cassazione per l’omicidio di Angela Petrachi. Camassa, dopo le formalità di rito è stato tradotto alla Casa Circondariale di Lecce dove dovrà scontare la pena. Il ricorso alla Suprema Corte era stato presentato dall’avvocato difensore Francesca Conte, che ha sempre insistito sull’inesistenza di un movente che potesse spiegare il brutale assassinio. L’autopsia permise di stabilire che la giovane era stata violentata, strangolata e seviziata. A distanza di poco tempo i sospetti degli inquirenti si concentrarono su Giovanni Camassa, con il quale la Petrachi aveva un appuntamento il giorno della sua scomparsa per concordare l’acquisto di un cane. Al termine del processo di primo grado l’uomo fu assolto, mentre in Appello arrivò la condanna all’ergastolo da parte dei giudici a cui poco convincente risultò anche l’alibi fornito dal presunto assassino, che ha sempre sostenuto di avere trascorso il pomeriggio del 26 ottobre con la donna che in seguito diventò sua moglie. L’accusa ha analizzato e confutato l'alibi dell'imputato, dimostrando, attraverso riscontri di natura tecnica che, secondo il pubblico ministero hanno evidenziato come le “risultanze delle consulenze di parte siano prive di significato”, che l'imputato e la moglie non erano insieme in quel tragico pomeriggio macchiato di sangue. Camassa, infatti, ha sempre affermato che quel triste giorno di ottobre era proprio in compagnia di quella che sarebbe poi divenuta sua moglie, Moira Flamini. Un passaggio fondamentale questo. La difesa di Camassa, rappresentata dall’avvocato Francesca Conte, aveva presentato ricorso in Cassazione. La penalista leccese ha sempre evidenziato come non vi fosse un movente dell’omicidio. Non sarebbe mai stato concordato, infatti, alcun incontro per l’acquisto di un cane, come sostenuto dall’accusa. Nella denuncia di scomparsa non vi è alcun riferimento, né nella successiva integrazione. La vicenda relativa al cane emergerebbe sol alcuni mesi dopo. Quel pomeriggio Angela Petrachi avrebbe dovuto incontrare, con ogni probabilità, due amiche. Una testimone, ritenuta inspiegabilmente inattendibile ha spiegato la difesa, vede alle 14.50 la donna salire su una Lancia Thema blu. L’avvocato Conte ha poi evidenziato come i rapporti tra la 31enne e l’ex marito fossero a dir poco burrascosi, tanto che la stessa aveva in passato presentato una querela nei suoi confronti. Appare singolare, secondo la nota penalista leccese, come l’alibi dell’uomo sia stato verificato telefonicamente, contattando una donna che, secondo la sua versione, era con lui quel pomeriggio. Tesi e ipotesi che non hanno trovato riscontro nei giudici, che hanno deciso di scrivere le parole “fine pena mai” sul fascicolo di Giovanni Camassa. A sollevare l’interesse sul caso ci ha pensato il nipote di Camassa che ha chiesto il mio aiuto, certamente non per risolvere il caso, né per porvi giustizia, incarico delegato alle toghe, magistrati ed avvocati, ma per sollevare un velo pietoso sulla spinosa vicenda. Testimonianza che è già stata riportata dal tg di Telenorba  il 12 marzo 2014 e da un articolo sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 13 marzo 2014.  Egli mi scrive: “Sono Francesco Di Cianni, Vi scrivo da Martignano, piccolo Comune della Provincia di Lecce, per illustrarVi una situazione gravissima e che vede protagonista un uomo, mio zio, detenuto ingiustamente per quasi 4 anni, e cosa ancor più grave, condannato all’ergastolo in via definitiva, al termine di un Processo quanto mai strano e anomalo, che non ha tenuto in considerazione aspetti fondamentali e prove che,  "senza ogni ragionevole dubbio", se fossero state considerate, avrebbero dimostrato l'assoluta innocenza ed estraneità ai fatti di quella che invece appare essere solo un caprio espiatorio a protezione di chissà chi o quale persona, invece evidentemente più influente di un normalissimo cittadino onesto, che ad oggi è invece libero ingiustamente! I fatti, brevemente, e che avremo modo sicuramente di affrontare e spiegarVi più nel dettaglio attraverso tutte le carte processuali, riguardano l'omicidio di Angela Petrachi, avvenuto nel 2002 in un Comune della medesima provincia di Lecce, Melendugno, e per il quale è stato condannato per l'appunto mio zio, Giovanni Camassa, senza nessuna prova e anzi con molti punti interrogativi e sospetti. A parziale dimostrazione di ciò, era stato anche assolto con formula piena per non aver commesso il fatto in primo grado in Corte di Assise dal Giudice Giacomo Conte. Lo stesso Giudice infatti, al tempo dei fatti, dispose anche la scarcerazione immediata dell'imputato. L'amara sorpresa giunse però in Corte d'Appello, dove, come per magia, venne ribaltata la sentenza di primo grado (che venne commutata in ergastolo, il massimo della pena prevista dal Codice Penale Italiano, e che non viene comminata nemmeno ai Mafiosi, ma che evidentemente nel caso di mio zio doveva cancellare in fretta il reato dalle spalle del vero esecutore, molto più influente di un povero e comunissimo contadino leccese), e la definitiva doccia fredda in Cassazione, il 26/02/2014, con la riconferma dell'ergastolo in capo al mio congiunto. La cosa eclatante non sta nella condanna in sé (non sarebbe il primo caso di mala giustizia italiana, e forse neanche l'ultimo nostro malgrado), ma nel fatto che nei gradi successivi al primo non sono state prese in considerazione prove eclatanti (una su tutte la perizia del R.I.S. che scagionava l'imputato, e lo stesso Capitano del R.I.S. che scriveva testualmente nella relazione "…..escludiamo Giovanni Camassa dall'ipotesi che avesse potuto commettere il fatto."), o testimonianze di persone che confermavano l'alibi di mio zio. Al tempo stesso, non sono stati presi in considerazione fatti importanti e sicuramente decisivi al fine dell'esito processuale (se appunto considerate), quali le denunce per percosse alla povera vittima antecedenti il suo omicidio, o posizioni di persone quanto meno sospette che dalle 17.00 alle 23.00 ricevevano messaggi da parte della Petrachi anche dopo la presunta morte (che secondo l’accusa è avvenuta intorno alle 13.00) e la presenza del loro DNA sul corpo della vittima e le quali ad oggi sono libere e le cui posizioni non sono mai state affrontate processualmente!!!!!!!!!!!!!!!!!!! Da ultimo abbiamo la testimonianza di nuove persone che finalmente sembra abbiano trovato la forza di testimoniare a favore di mio zio, dopo anni di terrore e paura per la loro incolumità.”. Ben venuto nel club, direi a Francesco ed a tutti i disillusi da questa giustizia. Peccato che a contarli tutti vien l’orticaria. Ben 5 milioni di errori giudiziari ed ingiuste detenzioni negli ultimi 50 anni. Se sembran pochi per alimentare un dubbio su come funziona la giustizia in Italia, vuol dire che vale il detto già richiamato: “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”.»

PRESUNTO COLPEVOLE. VITTORIO EMANUELE DI SAVOIA.

Vittorio Emanuele di Savoia assolto: non riciclò denaro sporco con i videopoker, scrive Oggi il 23 settembre 2010. Vittorio Emanuele di Savoia era stato in carcere per una settimana nel 2006. Accusato di riciclare soldi sporchi con i videopoker. Oltre che di altri gravissimi capi d’imputazione. Oggi l’assoluzione piena da parte del gup di Roma «perché il fatto non sussiste». Vittorio Emanuele di Savoia è stato assolto «perché il fatto non sussiste». E con lui anche gli altri cinque imputati nel processo per la vicenda dei nulla osta legati ai videopoker, caso scoperto nel 2006 dalla magistratura di Potenza. Allora il principe finì in carcere per una settimana su iniziativa del pm Henry John Woodcock. La sentenza di proscioglimento è stata pronunciata dal gup di Roma Marina Finiti. Oltre a Vittorio Emanuele, il procedimento riguardava l’imprenditore messinese Rocco Migliardi (definito nel capo di imputazione «soggetto legato alla criminalità organizzata» nonchè gestore di aziende di distribuzione di videogiochi), Nunzio Laganà, suo stretto collaboratore, e poi Ugo Bonazza, Gian Nicolino Narducci e Achille De Luca, ritenuti gli organizzatori di quella che fu subito definita la «holding del malaffare». Secondo l’ipotesi accusatoria, l’associazione per delinquere era dedita anche a operazioni di riciclaggio di denaro proveniente da attività illecita tramite l’instaurazione di relazione con Casinò autorizzati, a cominciare da quello di Campione d’Italia. Per questa vicenda Vittorio Emanuele, che si è sempre dichiarato estraneo ai fatti contestati, fu arrestato il 16 giugno del 2006 e rimase in carcere per una settimana. «L’assoluzione di oggi», commenta uno degli avvocati difensori, «consente di ribadire con maggiore forza che gli arresti eseguiti quattro anni fa si fondavano su accuse inconsistenti».

PRESUNTO COLPEVOLE. CLAUDIO BURLANDO.

Il ministro dei Trasporti Claudio Burlando sarà risarcito con 60 milioni dal suo collega di governo Carlo Azeglio Ciampi, ministro del Tesoro, per l’ingiusta detenzione subita nel maggio del ’93 dall’ex sindaco pidiessino per l’affaire del Sottopasso di Caricamento, scrive La Stampa il 12 dicembre 1997. Lo hanno stabilito i giudici della seconda sezione penale della corte d’appello con un’ordinanza che è stata depositata ieri mattina e in cui è stato deciso anche un rimborso di un milione di lire a favore di Burlando per le spese legali. L’uomo politico pidiessino era stato arrestato il 19 maggio del ’93 con l’accusa di truffa aggravata e di abuso d’ufficio. Rimase in carcere per sei giorni e, poi, ottenne gli arresti domiciliari che finirono il 31 maggio. Dopo circa quattro anni ed esattamente il 27 gennaio scorso il giudice dell’udienza preliminare lo assolse con formula piena da tutti e due i reati. Quella sentenza è poi passata “in giudicato” e cioè resa definitiva e irrevocabile il 12 aprile di quest’anno. Dopodiché Burlando ha affidato all’avvocato Giuliano Gallanti attuale presidente dell’Autorità portuale genovese, il compito di richiedere il risarcimento del danno allo Stato e specificamente al ministero del Tesoro. Oltre a Gallanti era associato, nei primi tempi dell’inchiesta, un altro avvocato chiamato poi a importanti cariche istituzionali: Giovanni Maria Flick che quando è divenuto appunto ministro di Grazia e Giustizia ha abbandonato, com’è ovvio, la difesa. I giudici in sostanza dicono che la quantificazione dell’indennizzo per l’ingiusta detenzione deve tenere conto del fatto che Burlando quando fu arrestato era sindaco di Genova e dovette dimettersi. Non gli hanno, però, riconosciuto i 100 milioni previsti come massimo perché la “perdita d’immagine è stata prontamente recuperata” dall’ex sindaco diventato ministro, come ha osservato l’avvocato dello Stato Giuseppe Novaresi.

PRESUNTO COLPEVOLE. GIGI SABANI.

Arrestato, umiliato e messo al bando: l'infarto fu casuale? Scrive Franco Insardà il 10 ago 2016 su “Il Dubbio”. Le accuse per Gigi Sabani furono archiviate, ma lo scandalo distrusse la sua carriera. Tra la sua ex e il pm Chionna, che lo indagava, scoppiò il classico colpo di fulmine e lui commentò: "Beffa nella beffa. Sono proprio una bella coppia e Anita ha saputo scegliere bene: è passata dall'accusato all'accusatore". «Che mi hanno combinato! Così mi diceva Gigi da quella finestra, in quella casa dove era ai domiciliari, quando mi vedeva passare in strada. Io cercavo di rincuorarlo dicendogli di stare tranquillo, che presto sarebbe finito tutto. Tredici giorni in casa che, per uno come lui abituato a stare sempre in mezzo alla gente, sono stati una vera sofferenza». Edy, gestore dal 1990 con la moglie Francesca di un bar in largo Tassoni, ricorda bene quei giorni che hanno segnato per sempre la vita del suo amico Gigi Sabani, che viveva nell'appartamento a pochi passi dalla sua attività in via dei Banchi Nuovi. Alla cassa del bar fa bella mostra di sé una foto con Gigi sorridente come al solito, che lo abbraccia, più piccoli altri due scatti: uno sempre con Sabani e un altro che ritrae un arzillo vecchietto. «È Aristide, aveva un'osteria qui a fianco. Quando chiudeva veniva qui e cantava stornelli e canzoni romanesche e Gigi si divertiva tanto», ricorda Edy. Quando furono revocati gli arresti domiciliari per il quartiere fu una festa. «Tutti si riunirono qui in piazza Tassoni, ognuno portava una bottiglia per brindare, per Gigi fu un'iniezione di vita. Io cercavo di stemperare l'entusiasmo, anche nei giorni successivi, ma lui mi diceva: lasciali fare». Aveva bisogno dell'affetto del suo pubblico per riprendersi da quella brutta avventura. La sua era una carriera che fino a quel momento non aveva conosciuto stop: tanti spettacoli, programmi televisivi anche da conduttore, premi. Una vita sulla cresta dell'onda che viene bruscamente interrotta con un danno di immagine incalcolabile. In poche ore Sabani si ritrovò nella polvere, travolto da un'accusa falsa e infamante. La prima Vallettopoli - la seconda è legata al pm di Napoli, all'epoca a Potenza, Henry John Woodcock - era partita da Biella con l'inchiesta sulla scuola per modelle "Celebrità", che avrebbe ospitato incontri privati fra le ragazze e uomini di spettacolo con l'obiettivo di ottenere contratti al cinema o in tv. L'accusa per Gigi Sabani fu di truffa a fini sessuali e induzione alla prostituzione e per questo il 18 giugno del 1996 fu arrestato. A metterlo nei guai furono le dichiarazioni dell'allora minorenne Katia Duso, aspirante showgirl, che raccontò al pm Alessandro Chionna di approcci sessuali con Sabani, a Roma, nell'estate 1995, in cambio della promessa di un aiuto per lavorare nello spettacolo. Edy ricorda bene quel giorno: «Gigi stava sempre qui da noi. Mi disse di far mangiare una ragazza che avrebbe dovuto accompagnare a fare un provino. Era andata a prenderla alla stazione Beppe Pagano (ex factotum e autista di Sabani per anni, diventato uno degli accusatori) la portò al bar, poi arrivò Gigi e insieme andarono all'Hilton per i provini. In serata mi telefonò e mi disse che stava facendo fare un giro in macchina alla ragazza, prima di accompagnarla a prendere il treno. Tutto qui». In quella vicenda insieme a Sabani furono coinvolti anche Valerio Merola e Raffaella Zardo. Il primo diventato per tutti il "Merolone", perché la difesa dell'avvocato si basò anche sulle presunte "grandi dimensioni" del pene del suo assistito che non avrebbero potuto rendere possibile la violenza di cui era accusato (induzione alla prostituzione, atti di libidine violenta e violenza carnale) fu rinchiuso per dieci giorni nel carcere a Regina Coeli. La Zardo fu indagata e messa agli arresti domiciliari durante le indagini, con l'accusa di aver indotto tre ragazze alla prostituzione. L'indagine del pm Chionna si allargò anche a Gianni Boncompagni, al quale venne notificato un avviso di garanzia con la contestazione da parte del pm biellese dell'accusa di induzione alla prostituzione. Per tutta l'estate i pm Chionna e Serianni interrogarono decine di ragazze che in quegli anni avevano avuto un ruolo nella trasmissione Non è la Rai, poi chiesero l'archiviazione per l'inventore di Alto gradimento e di tante altre trasmissioni di successo. Gigi Sabani, difeso dall'avvocato Vincenzo Siniscalchi, venne scarcerato il 1 luglio e presentò una denuncia per abuso d'ufficio nei confronti di Chionna. L'inchiesta fu trasferita a Roma per "incompetenza territoriale" del foro di Biella e il 13 febbraio 1997 arrivò la richiesta di archiviazione del pm Pasquale Lapadura, accolta dal gip il 18 febbraio 1997. Per l'ingiusta detenzione Sabani ottenne il risarcimento di 24 milioni di lire. La quarta sezione della Corte di appello di Roma sentenziò: «Posto che la detenzione si riferisce al giugno sembra che il calo degli introiti netti del '97 (154 milioni di lire rispetto ai 400 dell'anno precedente) non sia ad essa correlata direttamente e che dipenda da altre ragioni: esistenza del procedimento penale a carico, che non è produttiva di diritti alla riparazione; e diffusione, tramite i mezzi di comunicazione, delle notizie circa la posizione di Sabani con riferimento a suoi interrogatori». «Il discredito sociale riparabile - hanno rilevato i giudici - è solo quello dipendente dalla detenzione e non dalla imputazione», e «la detenzione si svolse tutta agli arresti domiciliari, regime meno afflittivo di quello della custodia cautelare in carcere». Ma Sabani più volte commentò amaramente: «I giudici sono gli unici che non pagano mai anche se sbagliano». Vittorio Sgarbi, un personaggio che non le manda a dire, sulla figura di Sabani tombeur de femmes espresse all'epoca un'opinione molto precisa: «È un'accusa ridicola. Si tratta del tipico non trombatore. Sabani che molesta? Andiamo. Lo incontravo sempre al ristorante Matriciano, verso l'una di notte, circondato da un codazzo di semi gorilla e altri personaggi... ». Un ruolo confermato anche dall'amico del cuore di Gigi: «Dopo la separazione dalla moglie comprò l'appartamento di via dei Banchi Nuovi da Amy Stewart e, se non era in giro per fare spettacoli, stava sempre qui al bar. Eravamo la sua famiglia. Quando aveva qualche lieve malanno mia moglie gli preparava una semplice minestrina, ma per lui era una cosa eccezionale. Spesso veniva suo figlio Simone che è diventato amico di mio figlio: un rapporto che continua anche oggi». Quello di Gigi e le donne è un capitolo particolare perché dalle cronache e dai racconti emerge il ritratto di un uomo semplice, al quale piaceva stare in mezzo alla gente, farsi fotografare con i suoi fan, ma che è stato nella sua vita spesso solo. Dopo la separazione dalla moglie, Rita Imperi, dalla quale ha avuto il figlio Simone, Gigi ha avuto altre donne che, ognuna a suo modo, hanno segnato la sua vita. Anita Ceccariglia, sua fidanzata per quattro anni, ex di Non è la Rai, fu convocata alla procura di Biella come testimone dal pm Chionna, all'epoca 29enne. Quell'incontro fu galeotto. Tra la ragazza e il pm, appassionato anche di motori tanto da disputare gare del Campionato italiano velocità turismo, scoccò la scintilla. Il dottor Chionna lasciò l'inchiesta, ma Gigi Sabani chiosò: «Beffa nella beffa. Sono proprio una bella coppia e Anita ha saputo scegliere bene: è passata dall'accusato all'accusatore». E Valerio Merola aggiunse amaramente: «Se i primi incontri fra i due si fossero svolti mentre l'inchiesta era ancora nelle mani di Chionna, ci sarebbe da meditare». Alla fine della vicenda biellese Gigi si fidanzò con Fabiana Savi e decise di andare via dall'appartamento di via dei Banchi Nuovi. «Per me e per tutti noi che gli siamo stati vicini in questi anni - racconta oggi Edy - è stato quasi un tradimento. Gigi mi diede tutte le targhe e i Telegatto che aveva vinto nella sua carriera: "Tienili tu mi disse, so che ti fa piacere". E io li conservo come fossero reliquie del mio amico. Queste sono le chiavi dell'appartamento di via dei Banchi Nuovi e questi i doppioni di una delle sue macchine, una Mercedes decappottabile. Dopo il trasferimento è venuto sempre qui al bar, ma spesso era triste, soprattutto per quel marchio che si portava addosso, nonostante fosse tutto finito». Dopo sei anni anche quella storia giunse all'epilogo. Poi ci fu l'ultimo amore della sua vita, scoppiato un anno prima della morte. È Gabriella Ponzo, un'attrice che dopo un inizio nel cinema (Il corpo dell'anima e Quartetto di Salvatore Piscicelli, un piccolo ruolo in Gangs of New York di Martin Scorsese, protagonista con Tinto Brass in Fallo), ha continuato la sua carriera anche in teatro. Qualche giorno dopo la morte di Gigi, Gabriella Ponzo ha scoperto di aspettare un bambino: il 19 maggio 2008 nacque Gabriele Sabani. Gigi Sabani non amava ricordare quella vicenda che gli aveva sconvolto la vita e per la quale tanti che riteneva amici lo avevano tradito o gli avevano girato le spalle. Nel libro di Antonello Sarno Al cuor non si comanda - Vallettopoli 1 si sfogò: «Come morire a occhi aperti. Vedi quello che ti succede e non puoi farci niente. Anzi, una cosa la puoi fare: conti i buoni, pochissimi. La famiglia, poi Lino Banfi, Gianni Morandi, Arbore, Celentano, Cutugno e Maurizio, sì Costanzo, più degli altri. Poi i cattivi, cioè quasi tutti. Perché l'ambiente è una merda». Poi una sera, dopo dieci anni da quella brutta storia, Gigi è casa della sorella Isabella, nel quartiere Prenestino dove è cresciuto. Ha bisogno di stare un po' in famiglia, ha ritrovato l'amore di una donna, non ha mai perso l'affetto del suo pubblico, ma stenta a rientrare nel giro grosso della tv. Addirittura alcune trasmissioni ideate e nate per lui vengono affidate ad altri che neanche lo invitano. Quella sera, il 4 settembre 2007, verso le 20 non si sente bene, chiamano il medico di famiglia che lo visita ed esclude complicazioni. Ma dopo qualche ora di dura lotta, purtroppo, il suo cuore non ce la fa. Ai suoi funerali ci sono tante persone semplici che lo hanno conosciuto e gli amici e i colleghi più cari. Merola, l'amico coinvolto insieme a lui nell'inchiesta ha parole durissime: «Questa morte ha una firma. Le ingiustizie alla fine danno questi risultati». Maurizio Costanzo ribadisce: «Il mio ricordo va a quando, con il Maurizio Costanzo Show, cercai di ridargli forza perché fu travolto da uno scandalo finto, che non lo riguardava». Un altro che lo conosceva bene, Pippo Baudo, di Sabani disse: «Ha avuto un grande, meritato successo. Era un buono e ha sofferto tantissimo quando è stato accusato ingiustamente. Quella cosa lo ha ferito, non se lo era mai dimenticato». Un giudizio simile lo diede anche Giancarlo Magalli: «La vicenda lo aveva danneggiato umanamente e artisticamente. Aveva un forte senso dell'amicizia, vide molti sparire e ci rimase male, io gli restai vicino, ma chi fa questo lavoro vive anche dell'amore e della fiducia del pubblico. Chissà se quello che è successo non sia la conseguenza di tante angosce che si è tenuto dentro». 

Gigi Sabani. Dal successo alla crisi d’identità. Quel bisogno continuo di sdoppiarsi, scrive Aldo Grasso, Corriere della Sera, 6 settembre 2007. Accusato con Valerio Merola di provini a luci rosse, ma la storia finì in niente: prosciolti senza nemmeno arrivare al processo. Negli arrembanti anni 80 è stato uno dei protagonisti indiscussi della tv italiana: in Rai con «Domenica in» e «Fantastico», a Mediaset con «Premiatissima» e «Ok, il prezzo e giusto» e poi ancora in Rai con «Chi tiriamo in ballo?». Faceva l’imitatore, il suo umorismo era facile e popolare, una risata la strappava sempre. Gigi Sabani è stato uno di quei conduttori davanti a cui si aprivano tutte le porte, cui non mancavano le occasioni per inseguire un successo che pareva senza fine. Poi un bel giorno qualcosa si è rotto. Nell’estate del 1996 finisce in manette in compagnia di Valerio Marola. Ad accusarli è il sostituto procuratore di Biella Alessandro Chionna che, su dichiarazione di Raffaella Zardo, inaugura la prima grande inchiesta di Vallettopoli: si parla di provini a luci rosse, di favori sessuali. Un certa Katia sostiene di essersi intrattenuta sul sofà di Sabani in cambio di una foto con dedica («a spaghettino») e della vaga promessa di una comparsata. Stesse accuse a Merola, diventato subito «Merolone» perché l’interessato non esita a sbandierare le misure del suo corpo contundente. La storia finisce in niente, i due vengono prosciolti senza nemmeno arrivare al processo. Per giunta il pm Chionna si fidanza e poi si sposa con una certa Anita Ceccariglia, finita nell’inchiesta per aver frequentato i due imputati. Ancora recentemente, di fronte allo scandalo della seconda Vallettopoli, Sabani non riusciva a darsi pace: «Quando io e altri fummo sbattuti violentemente in prima pagina, senza certezze sulle eventuali responsabilità, nessuno, a parte pochi, si impegnò per difendere la nostra dignità. «Tagliato fuori dalla tv, sbalzato dal trono, Sabani subì anche la beffa del risarcimento. Tredici giorni di ingiusta detenzione patiti dal presentatore dal 18 giugno all’1 luglio del 1996 gli valsero 24 milioni di lire (più un milione e rotti per le spese processuali). In tribunale avevano fatto i conti della serva: gli arresti domiciliari sono meno «afflittivi» della gattabuia, il contratto con «Sotto a chi tocca» di Canale 5 non era ancora firmato, nel 1997 Sabani ci aveva rimesso «solo» 250 milioni rispetto all’anno precedente e così via.

Probabilmente, 24 milioni Sabani li guadagnava in una o due serate e la Corte d’appello di Roma non aveva tenuto conto che per un presentatore l’immagine è tutto e l’immagine di Sabani aveva subito un brutto colpo. Dal quale, con ogni probabilità, non si è mai più ripreso. Sabani rientra in tv nell’estate del 1998 con un modesto programma di spezzoni televisivi su Rete4, «Io, Napoli e tu» con Katia Noventa, allora fidanzata di Paolo Berlusconi. Sabani si ritrova così a fare gavetta. Tuttavia, e non solo per colpa di Vallettopoli, il conduttore stava vivendo da alcuni anni una crisi di identità tipica degli imitatori; non tutti hanno una personalità così forte da riuscire a superare la loro natura eteronima. Quando Sabani capiva che il pubblico si stava annoiando provava irrefrenabile il bisogno di calarsi nelle vesti di un personaggio più famoso, giusto per cavare un applauso. Ma intanto non era più lui, era continuamente costretto a sdoppiarsi. Sabani era un imitatore. Nato a Roma il 5 ottobre 1952, nel suo quartiere Luigi era già famoso all’età di cinque anni per la sua abilità nell’imitare il rumore inconfondibile della circolare rossa Prenestina, il tram che faceva il giro della capitale. Si fa conoscer dal pubblico a «La corrida», il programma radiofonico dei dilettanti allo sbaraglio presentato da Corrado, imitando Morandi, Reitano, Baglioni e altri. Notato da Gianni Ravera al Festival di Castrocaro, debutta in tv nel 1979 su Raiuno in occasione della manifestazione «La gondola d’oro» di Venezia. Ingaggiato da Pippo Baudo per l’edizione 1979 di «Domenica in», riscuote un grande successo di pubblico, confermato dalle edizioni 1981 e ’82 di «Fantastico» e dal varietà di Canale 5 «Premiatissima» (1983). Nel 1983 gli è affidata la conduzione su Italia 1 di «Ok, il prezzo è giusto». Altri suoi successi: «Stasera mi butto» (1990), «Domenica in», «Il grande gioco dell’oca» (1995), «Re per una notte» (1996), «7 x uno» (1999), «La sai l’ultima?», «I fatti vostri» (2002). A volte dava l’idea di non trovarsi più in questa tv, a volte era la stessa tv a non avere più occhi di riguardo per uno che sapeva, eccome, piacere al pubblico generalista.

Merola: c’è una firma su questa morte. Da quel momento Gigi fu discriminato, scrive P. Br. su "Il Corriere della Sera" il 6 settembre 2007. «Noi viviamo in un Paese dove un magistrato, di cui non voglio pronunciare mai più il nome, prima ti manda in carcere e poi, scoperto da un paparazzo di Novella Duemila, si fa sorprendere in dolce compagnia dell’ex fidanzata dell’uomo che ha appena fatto incarcerare grazie a un’inchiesta inventata e destinata a finire poi nel nulla più assoluto». È arrabbiato Valerio Merola (nella foto, degli anni ’90, con Raffaella Zardo). Gigi Sabani e Valerio Merola. Ad accomunarli quella drammatica inchiesta del pm Alessandro Chionna su una scuola per modelle di Biella. Uno «scandalo» che li aveva portati in carcere nel ’96 per truffa a fini sessuali e induzione alla prostituzione di alcuni giovani modelle in cambio di partecipazione a programmi tv. Poi, un anno dopo, l’archiviazione e il risarcimento economico per quei tredici giorni di ingiusta detenzione. Ieri Merola ha macinato chilometri in auto per precipitarsi dal nord a Roma e rendere omaggio all’amico, in quella casa al Prenestino in cui i due hanno rimuginato più volte sui loro passati guai. «Che vergogna — dice Merola —. Un inutile scandalo, archiviato in ogni sua forma. Non c’è mai stato il processo, siamo stati risarciti per questa ingiustizia. Ma vorrei che qualcuno si facesse un esame di coscienza, perché questa morte per me ha una firma, non credo che sia un evento naturale. Vorrei che stanotte qualcuno non trovasse sonno. C’è un uomo che ha sbagliato clamorosamente e che non ha mai pagato per i suoi errori, e che poi ha addirittura coronato il suo sogno d’amore con l’ex fidanzata di uno dei suoi inquisiti… ». È un fiume in piena Valerio Merola. Più volte usa un termine per ricordare la situazione di Gigi Sabani in questi ultimi dieci anni: isolamento. «Abbiamo continuato a patire la discriminazione — dice —. Anche dopo il risarcimento e l’archiviazione. In Rai e anche in Mediaset quando qualcuno si azzardava a proporre il nostro nome c’era subito chi obiettava: “Loro… meglio di no”. Gigi pativa molto per questi ostracismi e diceva che erano in troppi a scansarlo. Avvertiva questo senso di disagio che pochi amici riuscivano a superare». L’ultima sua sofferenza è fresca, risale a questa estate. Merola ne ha discusso con Sabani, a caldo. «Su Raiuno avevano deciso di replicare “Stasera mi butto”, uno spettacolo di imitatori che era stato anni addietro un successo di Gigi. Quando lui l’ha saputo era tutto contento. Finalmente, pensava. Poi la doccia fredda. Hanno deciso di programmare lo spettacolo sulla prima rete senza degnarsi di invitarlo. “Ma perché mai il direttore di Raiuno non mi ha invitato?” si chiedeva Gigi. “Che gli ho fatto a Fabrizio Del Noce?”. E aggiungeva: “Ci sarei andato anche gratis. E poi parlano del deficit della Rai. Quello era il mio programma. Gliel’avrei rifatto gratis…”. Parliamoci chiaro: pochissimi gli sono stati vicini in questi ultimi anni. E anche tra quei pochi, come Maurizio Costanzo, Gigi diceva che c’erano troppi umori altalenanti. Un invito, poi più niente per parecchio tempo. Un’altra polemica, recente, l’aveva avuta con Fiorello. Gigi ne aveva ridimensionato le capacità, in un’intervista. Capirai. Fiorello gli aveva risposto piuttosto male… ». «Questa è una società dove se vieni macchiato — conclude Merola — la macchia non viene più tolta. E si paga con la vita. E poi se ti risarciscono, non è che ti aiutano a riprendere. No, ti isolano ulteriormente. E se non basta ti rubano anche gli amori…».

13 giorni di carcere, 24 milioni di risarcimento, scrive Il Messaggero il 5 settembre 2007. Nel 1996 con grande clamore Gigi Sabani fu coinvolto, insieme a Valerio Merola e ad altre persone nell’inchiesta del pm Alessandro Chionna su una scuola per modelle, la Celebrità di Biella che nascondeva un intreccio di incontri privati tra le giovani aspiranti e alcuni uomini di spettacolo, con l’obiettivo di ottenere contratti in tivù o al cinema. Truffa a fini sessuali e induzione alla prostituzione di alcune giovani modelle in cambio di partecipazione a programmi televisivi: con queste motivazioni fu arrestato all’alba del 18 giugno 1996 il presentatore Gigi Sabani. A metterlo nei guai, le dichiarazioni dell’allora minorenne Katia Duso, aspirante show-girl, che raccontò al pubblico ministero di essere stata accompagnata nell’estate del ’95 da Ramella Paia a Roma dove avrebbe avuto approcci sessuali con il presentatore, che le avrebbe promesso in cambio di aiutarla nel mondo dello spettacolo. Sabani fu scarcerato il 1 luglio ’96 e presentò denuncia per abuso d’ufficio nei confronti di Chionna (che poi sposò a Roma il 10 maggio ’97 la sua ex-teste nell’inchiesta Anita Ceccariglia, per quattro anni compagna di Gigi Sabani). Il 13 febbraio 1997 la richiesta di archiviazione nei suoi confronti, «la prima notizia bella dopo tanta sofferenza inutile», commentò Sabani. Il gip di Roma, su richiesta del pm Pasquale Lapadura, il 18 febbraio 1997 archiviò il procedimento e Sabani fu risarcito (con 24 milioni di lire) per 13 giorni di ingiusta detenzione.

PRESUNTA COLPEVOLE. LAURA ANTONELLI.

Processo troppo lungo, Laura Antonelli risarcita, scrive "La Repubblica" il 20 maggio 2006. Nove anni di procedimento e poi l’assoluzione, nove anni che hanno minato la sua salute psichica e per i quali ora il ministero della Giustizia dovrà pagare. L’attrice Laura Antonelli ha vinto la sua causa contro la lentezza della giustizia e ora sarà risarcita con 108 mila euro, oltre agli interessi, per i danni di salute e di immagine patiti a causa della “irragionevole durata del procedimento” a suo carico. Nell’estate del 1991 nella villa dell’attrice, diventata uno dei sex symbol italiani negli anni ’70 per il film Malizia di Samperi, furono trovati 24 grammi di cocaina. Le fasi processuali sulla vicenda durarono nove anni, ma alla fine la Antonelli fu assolta. In questo periodo il crollo psichico dell’attrice fu repentino: da allora infatti vive in solitudine, il corpo irriconoscibile anche a causa di interventi estetici sbagliati. Ora la corte di appello civile di Perugia, presieduta da Sergio Matteini Chiari, ha deciso per il risarcimento. La pronuncia del collegio è arrivata dopo che la Corte di Cassazione, accogliendo un ricorso degli avvocati della Antonelli, Lorenzo Contrada e Dario Martella, aveva giudicato non adeguata la somma di diecimila euro precedentemente assegnata alla Antonelli. “Sono contenta, non me l’aspettavo”, ha commentato l’attrice parlando con i suoi legali. Questi ultimi hanno a loro volta espresso soddisfazione per un provvedimento “che riconosce uno dei risarcimenti più alti mai stabiliti per cause di questo genere” e che costituisce un importante precedente alla luce della cronica lunghezza dei procedimenti giudiziari italiani. Il dicastero della Giustizia, in base a quanto disposto dai giudici umbri, dovrà pagare anche le spese processuali sostenute dall’attrice e i costi di una consulenza tecnica svolta dal neurologo e psichiatra Francesco Bruno. Quest’ultimo fu interpellato nel 2003 per stabilire se lo stato dell’attrice, all’epoca alle prese con ideazioni deliranti a contenuto mistico e allucinazioni uditive, fosse dovuto all’assunzione di cocaina nel periodo culminato con il suo arresto o se fosse configurabile un nesso di causalità con la durata del processo penale. Lo psichiatra dichiarò che la lunghezza della vicenda giudiziaria aveva “senz’altro influito in modo determinante sulla destabilizzazione psichica dell’Antonelli”. “Il nesso di causalità tra i due eventi – concluse il perito – appare dunque ben confermato sia per i criteri temporali, sia per quelli modali, sia per quelli di efficienza lesiva”.

PRESUNTO COLPEVOLE. ROBERTO RUGGIERO.

Roberto Ruggiero. Risarcito l’avvocato per 27 giorni di carcere. E’ l’avvocato opinionista tv di cronaca nera. Scrive l'"Ansa" il 22 febbraio 1992)

Deve tenere conto anche delle sofferenze morali e psicologiche e delle “conseguenze personali e familiari” il giudice chiamato a stabilire la somma di risarcimento per ingiusta detenzione. Di conseguenza una custodia cautelare, pur se limitata nel tempo, può essere riparata con il massimo previsto, cioè cento milioni di lire. Lo stabilisce una sentenza della prima sezione penale della Corte di cassazione, presieduta da Corrado Carnevale, con la quale viene respinto il ricorso del ministero del Tesoro. La vicenda ebbe inizio nel 1983, quando Roberto Ruggiero fu arrestato con l’accusa di traffico internazionale di armi. L’uomo subì la custodia cautelare in carcere dal 16 giugno al 13 luglio 1983, per un totale di 27 giorni. In seguito il giudice istruttore di Venezia lo prosciolse e riconobbe il diritto di Ruggiero al risarcimento, che quantificò nella misura massima di cento milioni. Il ministero si è rivolto in Cassazione sostenendo, tra l’altro, che “ai fini della determinazione del quantum non si dovrebbe tener conto delle sofferenze morali e psicologiche”. Ma i giudici della Suprema corte sono stati di diverso avviso e hanno anche escluso che per stabilire la somma di di diverso avviso e hanno anche escluso che per stabilire la somma di riparazione si debba far riferimento ad un “valore al giorno” da far coincidere con una o due volte l’importo della pensione sociale. La Cassazione afferma che la Corte d’appello ha correttamente indicato le modalità di svolgimento della custodia cautelare (caratterizzata da una iniziale fase di isolamento), le conseguenze fisico-psichiche derivate dalla sottrazione della libertà, l’incensuratezza e l’elevata posizione sociale di Ruggiero.

PRESUNTO COLPEVOLE. CARLO PALERMO.

Il Csm condanna Palermo, scrive Franco Coppola su "La Repubblica" il 27 giugno 1985. La perdita di sei mesi di anzianità per Carlo Palermo, il giudice della maxi inchiesta sul traffico di armi e droga, il giudice che ha chiesto e ottenuto di essere trasferito a Trapani, nella sede cioè più calda d’ Italia. Una sanzione disciplinare, quella decisa a mezzanotte dopo una camera di consiglio insolitamente lunga (sette ore) dall’apposita sezione del Consiglio superiore della magistratura, ritenuta troppo severa per chi vede in Carlo Palermo una sorta di Robin Hood senza macchia e senza paura, troppo blanda per quanti lo dipingono come un giustiziere-panzer, privo di scrupoli e di regole. Una sanzione, a ben guardare, che potrebbe anche essere considerata equilibrata, se su tutta la vicenda non pesasse l’ombra di una discutibile iniziativa presa da Bettino Craxi non come privato cittadino ma nella veste di presidente del Consiglio, alla quale ha fatto seguito una inusitata solerzia da parte del procuratore generale Giuseppe Tamburrino, titolare dell’azione disciplinare. Per tutta la giornata di ieri c’è stata battaglia a palazzo dei Marescialli intorno alla posizione di Carlo Palermo, un magistrato tra i più coraggiosi, scampato il 2 aprile scorso a un attentato mafioso nella sua nuova sede di Trapani, da lui stesso richiesta per continuare, in una zona quanto mai calda e al posto di Antonio Costa, giudice finito in galera per collusioni con la mafia, quella battaglia intrapresa anni prima a Trento contro la mafia della droga e delle armi. Battaglia che ha avuto come protagonisti prima Guido Guasco e Giovanni Tranfo, sostituti procuratori generali della Cassazione che ieri fungevano rispettivamente da accusatore e da difensore di Palermo, poi i nove componenti la sezione disciplinare del Csm, tutt’altro che d’accordo sulla eventuale sanzione da infliggere all’incolpato. Guasco ha parlato in mattinata per due ore sostenendo la “responsabilità” di Palermo per cinque dei sei capi d’incolpazione e sollecitando la sanzione della perdita di sei mesi d’anzianità. Secondo il Pg, infatti, il magistrato andava prosciolto dalla seconda “accusa”, quella di aver bloccato un telegramma con cui l’avvocato Roberto Ruggiero raccomandava al suo cliente Vincenzo Giovannelli, imputato nel processo per il traffico di armi e droga, di presentare ricorso per Cassazione contro il provvedimento del tribunale della libertà di Trento. Il Csm, invece, lo ha “condannato” per cinque capi di accusa prosciogliendolo dalla “incolpazione” di aver interrogato degli imputati in assenza dei loro difensori. Più o meno tutte di questo calibro – Craxi a parte – sono le incolpazioni contestate a Palermo, fatti cioè che, secondo il Pg, integrerebbero l’accusa di “essere venuto meno ai propri doveri funzionali, così compromettendo il prestigio dell’ordine giudiziario”: accuse all’avvocato Ruggiero di avvalersi di “metodi disonesti” e di “modalità vergognose”, interrogazioni di imputati senza la presenza dei difensori; l’arresto di un testimone per reticenza a cui è seguito il proscioglimento da parte della corte d’appello; proseguimento delle indagini sul conto di imputati dichiarati dal Pm estranei al traffico di armi e droga. Poi c’era l’ “affare Craxi”, anzi l’”affare Craxi-Pillitteri”. Siamo nel 1983. Carlo Palermo, affondando il bisturi nel magma ribollente del mercato dell’eroina, arriva alla pista bulgara, al traffico internazionale delle armi, al “SuperEsse”, alla P2. Con gli avvocati di alcuni imputati i rapporti si fanno tesi; due di essi, Roberto Ruggiero e Bonifacio Giudiceandrea, finiscono in carcere per favoreggiamento. Palermo non c’entra. All’origine dell’accusa sono delle trascrizioni errate di intercettazioni telefoniche. Quando i due legali vengono scarcerati arriva puntuale la denuncia contro il magistrato. Si apre un’inchiesta, affidata alla magistratura veneziana che, nel febbraio scorso, rinvia a giudizio Palermo per interesse privato in atti d’ufficio. E’ questa anche la settima incolpazione di stampo disciplinare sulla quale, però, il Csm non si è pronunciato in attesa della definizione del procedimento penale. Alla fine di quell’anno, Palermo ordina la perquisizione di varie società finanziarie, alcune delle quali risultano legate al Psi o fanno capo al finanziere socialista Ferdinando Mach di Palmstein. Alcuni testimoni hanno fatto il nome di Craxi e del cognato Paolo Pillitteri. Nei decreti di perquisizione, allora, Palermo raccomanda a chi li eseguirà di fare attenzione se, nei documenti delle società in questione, compaiono quei nomi eccellenti. E’ in quel momento che Palermo si gioca l’inchiesta. Il 15 dicembre ’83, Craxi scrive al Pg Tamburrino per lamentare che il magistrato ha citato il suo nome in un mandato di perquisizione senza avvertirlo; nell’esposto, il capo del governo parla di “gravissime violazioni di legge”, di comportamento “di eccezionale gravità… inaudito”. E’ la fine dell’inchiesta sul traffico di armi e droga. Prende vigore l’indagine penale a Venezia per l’arresto degli avvocati, Tamburrino investe subito il Csm della procedura disciplinare, la Cassazione dirotta a Venezia tutte le inchieste di Palermo. Il giudice fa appena in tempo a firmare un’ordinanza di rinvio a giudizio, a spedire al Parlamento tutti gli atti relativi a Craxi e Pillitteri (e l’Inquirente archivia il “caso”, proseguendo però nell’indagine sulle società finanziarie del Psi) e a chiedere di essere trasferito ad altra sede. Infine, il procedimento disciplinare, fissato per il 12 aprile e rinviato d’autorità, senza neppure interpellare l’interessato, dopo l’attentato del 2 di quel mese.

PRESUNTO COLPEVOLE. SANDRO FRISULLO.

Sandro Frisullo, assolto dopo 4 mesi in carcere come tangentista, scrive Fiorenza Sarzanini su "Il Corriere della Sera" l'11 febbraio 2014. I giudici della Corte d’appello di Bari hanno scagionato definitivamente il politico del Partito democratico Sandro Frisullo. Dopo essere stato assolto dall’accusa di corruzione, l’ex vicepresidente della giunta regionale della Puglia viene infatti dichiarato innocente anche rispetto alle accuse di associazione per delinquere e abuso d’ufficio. Secondo le indagini della Procura barese, il politico aveva favorito l’imprenditore Gianpaolo Tarantini in cambio di utilità e di incontri con alcune delle escort che frequentavano anche le serate di Silvio Berlusconi. Contestazioni gravi che nel marzo 2010 – quasi un anno dopo le rivelazioni di Patrizia D’Addario sulle feste dell’allora Presidente del consiglio – ne determinarono l’arresto e lo convinsero a dimettersi dopo che una delle ragazze, Terry De Niccolò, aveva raccontato a verbale e pubblicamente gli incontri. L’esito del processo non basta comunque a placare la rabbia e l’amarezza di Frisullo. «Sono stato assolto da tutti i reati per i quali ho subito il carcere e ben quattro mesi di custodia cautelare. Avevo dichiarato fin da subito la mia disponibilità ad essere sentito dalla Procura, e quando ciò è avvenuto (e cioè quattro mesi più tardi, ndr ) ho riferito dei miei comportamenti dicendo sempre la verità ed escludendo in modo categorico qualsiasi dazione di denaro da parte di Tarantini. Ma ‘meritavo’ il carcere e questo a pochi giorni dalla data delle elezioni regionali del 2010. Quella che ho vissuto è stata la più terribile pagina della mia vita. Un vero e proprio calvario. La violenza di un così brutale provvedimento contro la mia persona ha aperto una ferita difficilmente rimarginabile. Il carcere ti spezza la vita. E soltanto l’affetto dei miei famigliari, il sostegno e la stima di tante persone, la costante azione a favore del bene comune e della legalità mi hanno consentito di affrontare una prova così devastante». Frisullo si rammarica per la sua storia personale e politica cancellata da questa vicenda e aggiunge: «Ho avuto subito l’angosciante percezione di essere finito dentro un meccanismo che mi stritolava e che non mi avrebbe lasciato scampo. Un infernale e potente circuito mediatico-giudiziario mi aveva già condannato come un pericoloso tangentista e corrotto, ispiratore di un sodalizio criminale ben collaudato. Si cancellava così la mia storia, quella vera, quando da giovane sindaco avevo denunciato e testimoniato contro una pericolosa cosca contribuendo a smantellarla».

PRESUNTO COLPEVOLE. CLELIO DARIDA.

Clelio Darida: “Io, ex ministro e sindaco di Roma, 50 giorni in carcere innocente”, scrive la Repubblica, 28 luglio 1994, 15 aprile 1997, 11 maggio 2017. Clelio Darida è stato uno dei protagonisti della Prima Repubblica. Figura di spicco della corrente della Democrazia Cristiana che faceva capo ad Amintore Fanfani, ha ricoperto tre volte la carica di ministro (delle Poste, della Funzione pubblica e della Giustizia). Ed è stato anche sindaco di Roma dal 1969 al 1976. Nel corso della sua vita di politico fu travolto dall’esperienza di un’ingiusta detenzione: oltre 4 mesi di custodia cautelare da innocente, tra carcere e arresti domiciliari. Il 7 giugno 1993, in piena Tangentopoli, Darida finisce nell’inchiesta sull’Intermetro: accusato dal Pool di Mani Pulite di aver incassato una tangente di 1 miliardo e 750 milioni di lire, da girare alla Dc per i lavori della metropolitana romana, finisce in carcere. In questo modo diventa l’unico ministro della Giustizia a conoscere l’onta di entrare in cella a San Vittore, a Milano, con l’accusa di corruzione aggravata. Vi rimarrà fino alla fine di luglio, 50 giorni in tutto, prima di vedersi concedere gli arresti domiciliari (che dureranno fino al 9 settembre del 1993). Clelio Darida verrà assolto alla fine di luglio 1994 dalla Gip di Roma Adele Rando, dopo che l’inchiesta era passata per competenza alla magistratura capitolina. Il pm, Francesco Misiani, non impugnerà l’ordinanza di assoluzione. “Ho subito una violenza infame ed infamante”, aveva protestato Darida tramite il suo avvocato, Ettore Boschi, a poche ore dall’ordinanza che lo aveva mandato assolto. “Sono rimasto 50 giorni in custodia cautelare in carcere senza che alcun atto istruttore fosse compiuto”, aveva denunciato in Tv su Canale 5. “Quei quasi due mesi di ingiusta detenzione sono stati come uno stupro, indimenticabile e irreparabile”, ripeteva spesso. L’esperienza in carcere fu traumatica. La prima notte Darida l’aveva passata in cella di sicurezza. In seguito, in cella aveva incrociato due detenuti politici degli Anni di Piombo: lo minacciarono di morte, visto che a cavallo degli anni Ottanta era stato proprio lui, da ministro della Giustizia, a varare quell’articolo 90 che aveva cancellato i diritti della riforma penitenziaria. Era quindi stato trasferito in un altro reparto, con i detenuti comuni. “Mai un magistrato è andato a trovarlo né mai abbiamo ricevuto notizia di qualche atto istruttorio” ricordava l’avvocato Boschi. “Solo il 24 giugno arrivò da Roma Francesco Misiani, il pm che nella capitale aveva cominciato a lavorare all’inchiesta Intermetro. Fu corretto e gentile”. Anche Misiani ricorda quell’incontro: “Darida mi disse molto gentilmente che non se la sentiva di rispondere alle domande. Restammo a chiacchierare una mezz’ora. Era molto provato. Mi disse che i primi giorni erano stati i più duri”. Per questioni di sicurezza l’ex potente Dc aveva dovuto rimanere da solo durante l’ora d’aria né aveva potuto frequentare – lui, cattolico fervente – la messa. Finché un giorno in cortile, si era fatto forza e si era presentato ai detenuti comuni: “Sono Darida, chiamatemi Clelio”. Da quel momento in avanti, tutto era filato senza problemi. Anzi, amava ripetere che in cella si erano creati legami di solidarietà molto forti e che la pasta più buona della sua vita gliel’avevano cucinata i suoi compagni di cella. Dopo quell’esperienza, promise a se stesso di battersi per difendere i diritti “di tanti poveri cristi che finiscono in carcere innocenti e di cui nessuno parla”. Per quei giorni in custodia cautelare da innocente (50 in carcere e 73 agli arresti domiciliari), Clelio Darida ottenne la riparazione per ingiusta detenzione dalla IV sezione penale della Corte d’Appello di Roma nell’aprile del 1997: 100 milioni di lire. I giudici riconobbero che quella terribile esperienza provocò a Darida un danno morale e materiale, oltre a gravi prostrazioni psicologiche. A 90 anni compiuti da pochi giorni, Clelio Darida è morto l’11 maggio 2017.

PRESUNTO COLPEVOLE. FERDINANDO PINTO.

Teatro Petruzzelli, il manager vuole i danni, scrive "La Gazzetta del Mezzogiorno" il 18 Settembre 2007. Dopo essere stato sottoposto per circa 16 anni alle indagini e a vari gradi di processo (uno di primo grado, due di secondo e due pronunce della Cassazione), e soprattutto dopo essere stato assolto in via definitiva dall’accusa di aver ordinato il rogo del teatro Petruzzelli di Bari, l’ex gestore Ferdinando Pinto ha chiesto la liquidazione dei danni subiti per la “non ragionevole durata del processo” cui è stato sottoposto. Una durata “ragionevole” del processo in Italia è fissata in sei anni. Il ricorso – nel quale non si quantifica l’ammontare dei danni “patrimoniali e non” subiti dall’impresario – è stato depositato dal legale di Pinto, avv. Michele Laforgia, alla Corte d’appello di Lecce, competente per territorio a trattare i procedimenti che riguardano la magistratura barese. Nel procedimento si lamentano non solo i danni subiti da Pinto per le lungaggini del procedimento penale, ma anche quelli legati all’accusa di associazione mafiosa che la Procura antimafia di Bari, nonostante il diverso orientamento cautelare della Cassazione emerso dopo l’arresto di Pinto, ha continuato a contestare all’ex gestore, costringendo – secondo la difesa – a subire nel corso degli anni ingenti danni patrimoniali, personali e professionali. Danni che l’impresario ritiene di aver subito anche per l’ingiusta detenzione a cui è stato sottoposto per essere stato arrestato il 7 luglio del ’93 e scarcerato per mancanza dei “gravi indizi di colpevolezza” dal tribunale del riesame di Bari il 23 luglio successivo. Anche per questa vicenda Pinto sta per chiedere un risarcimento dei danni. Il processo per il rogo doloso del Petruzzelli (i cui interni furono distrutti all’alba del 27 ottobre del ’91) è terminato il 15 gennaio 2007 (iniziò il 14 febbraio ’96) con la sentenza della Cassazione che ha spazzato via definitivamente la ricostruzione fatta dalla Procura di Bari: questa accusava Pinto di aver ordinato al clan mafioso dei Capriati (con il quale sarebbe stato indebitato per 600 milioni di lire presi ad usura, circostanza ritenuta non provata dalla Suprema Corte) di incendiare la sua “creatura” per poi lucrare sulla ricostruzione del teatro. Per questi motivi l’ex gestore (il 6 aprile 2001) venne condannato nel primo processo d’appello a 5 anni e 8 mesi di reclusione (due anni in meno della condanna inflitta in primo grado l’8 aprile ’98) per concorso in incendio doloso. Il processo approdò in Cassazione che (il 28 maggio 2002) annullò la sentenza con rinvio e mandò gli atti alla Corte d’appello di Bari che, al termine del processo d’appello bis (14 luglio 2005), mandò assolti tutti gli imputati tranne il presunto incendiario Giuseppe Mesto. Questi, assieme a Francesco Lepore, condannato con sentenza definitiva in un processo stralcio, è stato ritenuto colpevole di aver appiccato materialmente il rogo. Fu infatti proprio per l’intercettazione ambientale di un colloquio tra Mesto e Lepore che gli inquirenti diedero una svolta alle indagini sull’incendio del teatro. Una microspia captò la conversazione nella quale Mesto diceva a Lepore: “Se tu il Petruzzelli non lo facevi, vedi era così?”, e poi continuava: “Madò, non sia mai ci sta qualche microspia, adesso ci devono arrestare”.

PRESUNTO COLPEVOLE. MARIO SPEZI.

Mario Spezi. Giornalista ingiustamente in carcere, scrive l'"Ansa" il 20 novembre 2007. “Quanto vale la libertà personale di un giornalista? E quanto il diritto a svolgere quotidianamente il suo lavoro? Secondo l’Avvocatura di Stato, duecento euro al giorno”. Lo sottolinea il presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti Lorenzo Del Boca, commentando quanto avvenuto nel caso di Mario Spezi. “Non sembra proprio che lo Stato tenga in grande considerazione il nostro mestiere”, dice Del Boca. “Quando un magistrato cita un giornalista per diffamazione a mezzo stampa – aggiunge – i tribunali decretano risarcimenti per decine di migliaia di euro e, per di più, rendono la decisione immediatamente esecutiva. Se si tratta del contrario cioè di un giudice che sbaglia – e vistosamente, per considerazione della Suprema Corte – perché devono valere criteri così palesemente difformi e umilianti?” Questi i fatti ricordati da Del Boca. “Il 7 aprile 2006 il cronista della Nazione Mario Spezi, da anni impegnato a seguire per il suo giornale le terribili vicende del cosiddetto ‘mostro di Firenze’, viene arrestato con l’accusa di depistaggio delle indagini sull’omicidio di Francesco Narducci, un medico perugino coinvolto nell’inchiesta relativa ai presunti mandanti dei delitti del mostro. Spezi trascorre 23 giorni in carcere: una detenzione definita dalla Corte di Cassazione, nella sentenza di scarcerazione, ‘illegale ed ingiustificata’. Talmente ingiusta da provocare anche l’intervento del Committee to Protect Journalists, di New York, che scrive all’allora premier Berlusconi chiedendo ‘la liberazione di un giornalista incarcerato per aver fatto il suo mestiere meglio di altri, un giornalista coraggioso che non si è lasciato intimidire da accuse e denunce”. Uscito dal carcere, Mario Spezi così commenta la sua prigionia: “Sono stato vittima dell’inquisizione, nessuno mi restituirà questi 23 giorni trascorsi in galera”. E avvia la procedura per il risarcimento per ingiusta detenzione. “Nei giorni scorsi, il 14 novembre, la prima udienza. Ed anche la prima sorpresa. L’Avvocatura di Stato – spiega ancora una nota dell’Ordine – si costituisce contro Mario Spezi ed offre un risarcimento di danni di 4.500 euro. Pari, appunto, a circa 200 euro al giorno. Una decisione davvero singolare, anche perché é raro che l’Avvocato dello Stato si costituisca contro un privato cittadino, in questo caso giornalista. L’ultima parola spetta ovviamente al magistrato che si è riservato di decidere”.

Mario Spezi ha avuto ancora una volta ragione contro la procura di Perugia, scrive Franca Selvatici su "La Repubblica" il  27 ottobre 2006. Il giornalista e scrittore Mario Spezi ha avuto ancora una volta ragione contro la procura di Perugia. Ieri la Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del pubblico ministero Giuliano Mignini contro la decisione del tribunale del riesame che il 28 aprile scorso aveva rimesso in libertà il giornalista. Spezi era stato arrestato il 7 aprile per calunnia e depistaggio delle indagini sulla morte del medico perugino Francesco Narducci, che la procura di Perugia ritiene collegata con i delitti del mostro di Firenze e per la quale ha messo sotto inchiesta diverse persone fra cui lo stesso Spezi. Il giornalista era rimasto in carcere 23 giorni, poi il tribunale del riesame aveva annullato in radice la misura cautelare, ritenendo insussistenti gli elementi alla base delle accuse di calunnia e depistaggio. Secondo la procura di Perugia, Spezi sarebbe uno dei mandanti dei delitti del mostro e dell’omicidio di Francesco Narducci, e per tale motivo avrebbe ingaggiato una lotta senza quartiere contro le indagini del pm Mignini e del poliziotto-scrittore Michele Giuttari, fino al punto da seminare falsi indizi a favore della pista sarda. Ma il tribunale del riesame rilevò che Spezi credeva fermamente nella sua fonte, che non gli erano stati trovati oggetti collegabili al mostro, né erano stati acquisiti indizi tali da far supporre che volesse disseminare tracce di reato a carico di un operaio sardo da lui ritenuto responsabile dei delitti. In sostanza i giudici del riesame riconobbero che Spezi cercava prove a favore della sua tesi, e non cercava di costruirne di false. Contro la scarcerazione di Spezi, il pm Mignini si era appellato alla Cassazione. Ma ieri la Suprema Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso perché motivato in fatto e non in diritto, come hanno sostenuto gli avvocati di Spezi, Sandro Traversi e Nino Filastò, e anche il procuratore generale. Le conseguenze sono di due tipi. Da un lato il pm Mignini può mandare avanti l’indagine su Spezi. Dall’altro, però, l’ordinanza del riesame diventa definitiva, il che significa che i 23 giorni di detenzione subìti da Spezi sono illegittimi. E a questo punto il giornalista-scrittore ha la ferma intenzione di chiedere il risarcimento per l’ingiusta detenzione.

PRESUNTO COLPEVOLE. GIOVANNI TERZI.

Giovanni Terzi. Tangenti all’urbanistica, dopo otto anni finisce incubo per assessore Terzi, scrive "Il Corriere della sera" il 3 febbraio 2006. Ci sono voluti otto anni, ma per Giovanni Terzi l’angoscia è finita. La Cassazione ha respinto il ricorso presentato dalla Procura di Milano contro la sentenza di assoluzione del consigliere comunale azzurro. Terzi era stato arrestato insieme ad altre sei persone per una vicenda di presunte tangenti pagate in relazione a un intervento edilizio a Bresso. “Nel 1998 – racconta Terzi – la Cassazione aveva già stabilito che non dovevano esserci arresti in quanto non c’era né corruzione né falso. Aspettare otto anni per vedere conclusa una simile esperienza credo sia troppo”. Detto questo, il consigliere comunale dice di “avere avuto la fortuna di incontrare giudici coraggiosi che hanno saputo ascoltare la mia tesi difensiva senza pregiudizi”. Il rammarico resta: “In questi anni mio padre per il dolore si è ammalato ed è morto. Purtroppo, non è una mia interpretazione”. Terzi si dice anche “sconcertato” per la candidatura dell’ex procuratore Gerardo D’Ambrosio: “Mi pare una scelta inopportuna, e anche autolesionista: adesso proprio nessuno potrà più nutrire dubbi sulla politicizzazione di una certa parte della magistratura”. Per l’avvocato di Terzi, Jacopo Pensa, “ogni volta che la vicenda è stata esaminata con animo sgombro da pregiudizi, le sentenze sono state favorevoli. Come in questo caso”.

Arrestato 3 mesi nel 1998. Condannato in Tribunale a 2 anni e mezzo, scrive Luigi Ferrarella su "Il Corriere della Sera" l'1 giugno 2005). Ma ora assolto in Appello, nel merito dall’ accusa più grave e per prescrizione dal resto. Finisce così il processo a Giovanni Terzi, il consigliere comunale milanese di Forza Italia che da assessore all’ Urbanistica di Bresso era accusato di essersi fatto corrompere nel 1997 dagli imprenditori Angelo Igino e Valter Bottani per il progetto di riqualificazione del centro urbano di Bresso. Ieri la seconda Corte d’ Appello (due ex pm, Marcelli e Spina, presieduti da Marta Malacarne), ha rivoluzionato il primo verdetto. La corruzione, che l’accusa individuava in un’asserita «fittizia» consulenza tra i Bottani e l’architetto Michele Ugliola per far arrivare 100 milioni a Terzi, al pari del falso ideologico è liquidata da una secca assoluzione sia di Terzi (difeso da Daniela Mazzocchi) sia dei Bottani «perché il fatto non sussiste» (il paradosso è che Ugliola patteggiò). Assoluzione confermata per Roberto Almagioni (difeso da Francesco Isolabella). E la vettura Chrysler «prestata» dai Bottani a Terzi? Qui i difensori dei Bottani (2 anni in primo grado), Lorenzo Crippa, Alessandro Pistochini ed Ennio Amodio, hanno dimostrato che corretta fu la procedura urbanistica e dovuto l’atto d’ ufficio compiuto da Terzi. L’ auto è così diventata una corruzione impropria susseguente, cioè una sorta di «regalìa» al pubblico ufficiale ma a cose già fatte e regolari, per la quale la legge punisce non i privati (Bottani assolti) ma solo il pubblico ufficiale Terzi, soccorso però dalla prescrizione dopo 7,5 anni: «Credevo nella giustizia – commenta – ma, fosse arrivata prima, avrebbe evitato una morte eccellente: mio padre si è ammalato per questa storia». Pure arrestati nel ‘98, sono assolti anche il segretario comunale di Bresso, Ezio Lopes, e il costruttore Gabriele Sabatini: «non sussiste» l’ipotizzato prezzo di favore su una casa.

PRESUNTO COLPEVOLE. ANTONIO GAVA.

L’ultima beffa a Gava: risarcito per l’arresto appena dopo la morte, scrive Stefano Zurlo su Il Giornale 12 agosto 2008. Dicono che il tempo sia galantuomo. Con lui no, è arrivato troppo tardi. Antonio Gava, morto l’8 agosto, era fuori gioco dal marzo ’93 quando contro di lui fu scoccato un avviso di garanzia per camorra. «Un paio di giorni prima della fine – racconta il figlio Angelo – gli ho dato la notizia che i giudici avevano stabilito un risarcimento di circa 200mila euro per l’ingiusta detenzione subita. Ma ormai stava male, malissimo, non so cosa abbia percepito». Duecentomila euro per i sei mesi trascorsi agli arresti domiciliari, fra il settembre 94 e il marzo ’95, schiacciato dall’accusa di aver tramato in modo obliquo con il clan degli Alfieri. La corte d’assise dopo un processo trascinatosi per anni e anni l’aveva assolto; la corte d’assise d’appello a dicembre 2006 aveva confermato il verdetto e la Procura generale di Napoli non se l’era sentita nemmeno di tentare la strada della Cassazione. Morte per impaludamento di un’ipotesi accusatoria nata fra squilli di tromba. «Credo – prosegue il figlio – che quello sia stato il momento più alto per mio padre, dopo la lunga stagione delle umiliazioni e delle accuse più inverosimili». Tredici anni nelle aule di giustizia per ritrovare un posto nella società e un copione simile a quello srotolato per altri big della Dc, a cominciare da Giulio Andreotti: l’avviso di garanzia, modellato sulle tesi della Commissione antimafia di Luciano Violante, una manciata di pentiti pronti a descrivere collusioni e intrecci perversi, un processo evaporato lentamente. Ora, forse, la storia della Dc la scriveranno gli storici. Delle grandi indagini condotte a partire dal 92-93 dai pm più agguerriti d’Italia, resta ben poco. Così come non rimane molto dei chilometrici capi d’accusa costruiti contro Andreotti. «Siamo contenti – riprende Angelo Gava – unicamente del riconoscimento di un principio, anche se a distanza di tanto tempo niente ci può ripagare dell’amarezza che abbiamo dovuto sopportare. Pensi che i magistrati sono arrivati a chiedergli se era vero che fosse ammalato di tumore e lui non sapeva di avere questa malattia. Pensi che fu interrogato a forza dai magistrati, contro il parere dei medici, mentre era ricoverato dopo un infarto in un centro di riabilitazione». Frammenti di quell’Italia che ha combattuto con inusitata ferocia nella prima metà degli anni Novanta la battaglia, pure sacrosanta, per la legalità. «La verità cammina con passo normale, mentre le bugie volano», ha riassunto ai funerali Arnaldo Forlani, un altro big travolto da Mani pulite e finito sul ring di un Di Pietro con la bava alla bocca. Oggi, fra prescrizioni, assoluzioni e sentenze all’italiana da cui ciascuno estrae la sua verità, quel periodo sembra davvero finito. «Ma devo dire – spiega l’avocato Eugenio Cricrì – che le accuse erano davvero inconsistenti, generiche, vaghe. Si faceva riferimento a rapporti con persone che lui nemmeno conosceva. Gava è sparito dalla vita del Paese nel ’93 e non è mai più tornato. Non c’è stato il tempo e poi ormai l’Italia era cambiata». La giustizia ha restituito qualcosa. Prima centosessantamila euro per la lunghezza del procedimento, andato avanti per tredici anni; poi altri duecentomila euro per l’ingiusta detenzione. Ma la contabilità degli euro non basta per capire cosa è successo in Italia quindici anni fa e per descrivere il passaggio traumatico dalla Prima alla Seconda repubblica. La storia dei Gava – non solo l’ex ministro degli Interni Antonio, ma anche il padre Silvio, fra i fondatori del Partito popolare, morto quasi centenario nel ’99 – si chiude così. Antonio Di Pietro prova a congelare la cronaca: «Non era ancora morto – ha scritto sul suo blog – che in molti lo hanno già dichiarato santo, una vittima della stagione del giustizialismo». Quasi a sottolineare che invece, come ha scritto Marco Travaglio, il processo «era doveroso e le accuse concrete e documentate». Cricrì nota però altri sentimenti, anche dalle parti dell’opposizione: «C’è stata la corsa a riabilitarlo anche da parte degli avversari, come se volessero farsi perdonare la durezza, spropositata, del ’93 e del ’94. Le parole di molti esponenti della sinistra mi hanno colpito così come la decisione del sindaco di Castellammare di Stabia, un esponente del Pd, di inviare il gonfalone alle esequie per onorare il concittadino». Enzo Scotti, pure riemerso da una lunga eclissi e da un nugolo di processi, oggi sottosegretario nel governo Berlusconi, parla di Gava come di uno dei giganti della storia democristiana del dopoguerra: «Ha subito insieme ad Andreotti accuse devastanti e le ha sopportate con grande dignità. Mi ha toccato la sua sconvolgente serenità quando l’ho sentito al telefono, il giorno prima della morte. Lo chiamavano il viceré, ma la lotta alla mafia è cominciata quando lui era al Viminale. Sarà la storia a portare via le ombre e i sospetti».

PRESUNTA COLPEVOLE. DANIELA POGGIALI.

Ravenna, morti sospette in ospedale: assolta l'ex infermiera Daniela Poggiali. L'imputata in primo grado era stata condannata all'ergastolo per l'omicidio di una sua paziente 78enne. Decisiva una nuova perizia. La donna esulta alla lettura della sentenza. Uscita dal carcere ha detto: "Mi riprendo in mano la mia vita", scrive il 7 luglio 2017 "la Repubblica". Dopo quasi tre anni di carcere, è libera. La Corte di assise di appello di Bologna ha assolto, perché il fatto non sussiste, Daniela Poggiali, 45 anni, ex infermiera alla sbarra per l'omicidio di una sua paziente 78enne, Rosa Calderoni, all'ospedale di Lugo, nel ravennate. L'imputata in primo grado fu condannata all'ergastolo a Ravenna perché riconosciuta colpevole di avere iniettato una dose letale di potassio all'anziana. La donna ha accolto la sentenza in suo favore esultando, le sorelle e l'ex compagno sono scoppiati a piangere. I due figli della vittima si erano invece allontanati dall'aula mezz'ora prima della pronuncia per la tensione emotiva accumulata. Poco più tardi, all'uscita per l'ultima volta dal carcere bolognese della Dozza, la donna ha commentato: "Mi hanno dipinto per quello che non sono, e adesso mi riprendo in mano la mia vita". Il caso di Daniela Poggiali era scoppiato il 9 ottobre 2014, quando i carabinieri sono entrati nella sua casa di Giovecca di Lugo per portarla in carcere. Attorno alla donna, sospettata per il decesso di Rosa Calderoni avvenuto l'8 aprile di quello stesso anno, in breve tempo è cresciuta un'indagine giudiziaria che l'ha portata ad essere sospettata di decine di morti nei suoi anni di lavoro.

CONDANNA IN PRIMO GRADO. L'ex infermiera è poi stata condannata all'ergastolo in primo grado per la morte della paziente 78enne. Durante il processo, il magistrato aveva fatto riferimento anche a tutti i furti (70-80 all'anno) verificatisi nel reparto della Poggiali, quello di Medicina, quando lei era in servizio. E soprattutto alle numerose morti sospette sempre in sua presenza (che comunque non rientravano in questo processo). Senza contare, infine, le foto che la ritraggono mentre fa delle smorfie accanto a un'altra paziente appena morta. Quando il presidente della corte d'assise, Corrado Schiaretti, aveva letto il verdetto, la Poggiali aveva abbassato gli occhi e scosso la testa, prima di essere riportata nel carcere di Forlì. La procura aveva chiesto la massima pena più l'isolamento diurno per un anno e mezzo, che è stato invece escluso, come l'aggravante dei motivi abbietti. Alla base della condanna in primo grado invece c'erano sono la premeditazione e l'uso del mezzo venefici. Una donna "fredda, intelligente e spietata. Nemmeno lei sa quanti pazienti ha ucciso", aveva scritto il giudice di Ravenna. Successivamente la Procura di Ravenna le aveva notificato l'avviso di conclusione indagini per il decesso di Massimo Montanari, 95 anni, morto il 12 marzo 2014 nel reparto dove lavorava la donna in circostanze sospette.

ASSOLUZIONE IN APPELLO. A inizio di quest'anno è iniziato il processo di appello a Bologna, sospeso per una nuova perizia, riportata da L'Espresso, richiesta dai giudici per far luce su cosa sia veramente accaduto la mattina di quell'8 aprile di tre anni fa in ospedale. Perizia che è stata decisiva. Ora la procura potrà fare ricorso in Cassazione. Intanto Daniela Poggiali, in carcere da ottobre 2014, è libera e potrà tornare subito a casa. "Questi ribaltamenti processuali ripetuti sono espressione del fatto che in questa fase storica nella giurisprudenza italiana convivono espressioni culturali diverse", il commento dell'avvocato Luca Valgimigli, uno dei due difensori di Daniela Poggiali. Il legale cita, tra gli altri, i controversi casi degli omicidi di Meredith Kercher, uccisa a Perugia l'1 novembre 2007, e di Chiara Poggi, assassinata a Garlasco (Pavia) il 13 agosto 2007. L'altro difensore, Stefano Dalla Valle, ha parlato di "sentenza importante per il presupposto giuridico forte per il contesto scientifico nel quale è maturata la decisione dei giudici".

"EVITATO ERRORE CLAMOROSO". "Oggi si sono poste le condizioni per evitare un clamoroso errore giudiziario". L'avvocato Guido Magnisi, difensore dell'ex primario di Medicina Interna dell'ospedale di Lugo, Giuseppe Re, commenta così la sentenza di assoluzione per Daniela Poggiali. Il medico, infatti, è in udienza preliminare a Ravenna, imputato "per dolosamente non aver impedito un evento", cioè l'omicidio volontario addebitato a Poggiali, "che si aveva l'obbligo giuridico di impedire", ricorda il difensore. In questi casi, secondo una norma "di rarissima applicazione, non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire equivale a cagionarlo". Per l'avvocato Magnisi "già il dato era paradossale, perché non si vede come un soggetto possa impedire un evento omicidiario operato da un altro soggetto senza movente alcuno, non si vede come lo possa impedire, in base a quale obbligo giuridico, e come lo possa prevedere. Ma - prosegue - alla luce della sentenza odierna, l'insussistenza assoluta del fatto omicidio dimostra che la povera Calderoni è, come dimostrato in maniera incontrovertibile dalla perizia, deceduta per morte naturale. Sicché Re oggi sarebbe imputato di omicidio volontario per non aver impedito la morte naturale di una paziente... Credo - conclude - che forse solo a Dio demiurgo e all'Ente supremo si possa chiedere di impedire la morte naturale di una persona".

"Non uccise la paziente" Assolta l'infermiera (che urla di gioia in aula). Era accusata della morte di un'anziana I giudici: «Il fatto non sussiste, subito libera», scrive Andrea Acquarone, Sabato 8/07/2017, su "Il Giornale". Era entrata quasi di «diritto» nel novero dei mostri. Provocante, sfrontata, irriverente di certo antipatica. Altrettanto censurabile. Non fosse altro per i selfie in cui si ritraeva sghignazzante accanto a una sua anziana paziente appena morta. Un macabro luccichio negli occhi, un sorriso beffardo anche quel 9 ottobre 2014, giorno in cui l'arrestarono con accusa di essere un'assassina seriale. Secondo la Procura aveva ucciso decine di degenti terminali. Rubando persino soldi e preziosi a malati ormai inermi. Un malvagio «angelo» della morte, insomma. E una ladra. Lei è Daniela Poggiali, oggi 46 anni, all'epoca infermiera dell'ospedale «Umberto I» di Lugo, nel Ravennate. Nel marzo 2016 si vide appioppare l'ergastolo. Ma in aula non si erano riuscite a dimostrare altre morti se non quella di una settantottenne, Rosa Calderoni, secondo l'accusa, uccisa con un'iniezione di cloruro di potassio. Una sostanza utilizzata nelle flebo, in quantità ridottissime. Un poco di più e diventa letale. Poi nel giro di qualche giorno, nemmeno un esame autoptico, ne rinviene traccia. Gli investigatori ipotizzarono che la Poggiali, tra il 2012 e il '14, avesse fatto fuori in questo modo «silenzioso» addirittura una novantina di malati. Sospetti, evidentemente, senza prove. E ieri il colpo di scena: i giudici della corte d'appello di Bologna, l'hanno assolta. Ribaltando la sentenza di primo grado «perché il fatto non sussiste». Era presente in aula Daniela, meno altezzosa del solito. E alla fine quasi in lacrime. Stavolta di felicità. «Sì, sì», ha urlato. Si era sempre proclamata innocente, del resto. Solo un'ammissione aveva fatto, a proposito di quelle foto oscene: «Lì ho sbagliato, lo ammetto- disse a giudizio-. Però devo dire un paio di cose: l'iniziativa non è stata mia ma di una collega che le ha scattate. E poi mai avrei immaginato che girassero... Era un cosa privata tra me e lei. Comunque un errore». «Daniela è stata vittima di una serie di pregiudizi che riguardavano alcuni tratti della sua personalità complessi e obiettivamente controversi». Aspetti che però «non avrebbero dovuto legittimare questo contagio collettivo che ha indotto a rinvenire in lei un soggetto potenzialmente criminogeno», commenta adesso, quasi con tono di rimprovero, il suo avvocato Lorenzo Valgimigli. I togati, prosciogliendola, hanno disposto anche l'immediata liberazione della bionda infermiera. «Probabilmente - osserva ancora il legale - questi ribaltamenti processuali sono espressione di un fenomeno culturale all'interno della giurisprudenza italiana dove ci si confronta, appunto, su opzioni culturali diverse che riguardano i diversi standard probatori che occorre conseguire per poter condannare o prosciogliere». Un giorno di gioia per imputata e difesa. Che non è detto, però, duri a lungo. La possibilità che la Procura faccia ricorso contro la sentenza è più che probabile. Nel frattempo Daniela tenterà una nuova vita. Come e dove è difficile da prevedere. Accanto, ha un compagno, che davanti ai giudici l'ha sempre protetta: «È una donna che ama il suo lavoro, sempre flessibile nell'accettare turni disagiati, come per esempio quelli notturni, una che andò a lavorare anche quando fu colpita da una brutta malattia. Quando sarà finita questa storia ci sposeremo», aveva ripetuto alla Corte Luigi Conficconi. Parole proferite un anno fa, prima della condanna. Ora si vedrà. Ben diverso l'umore della famiglia della «non più vittima», Rosa Calderoni. «Il fatto di avere avuto due verdetti diametralmente opposti - spiega l'avvocato di parte civile - lascia un profondo senso di amarezza, incertezza su cosa sia successo. Un malessere molto difficile da metabolizzare».

Infermiera di Lugo, assolta in appello dopo la perizia shock. In primo grado era stata condannata all'ergastolo. Oggi, dopo i dubbi emersi dalla perizia disposta dai giudici d’appello di Bologna sull'unica morte sospetta, è arrivata la sentenza, scrive Alessandro Cicognani il 4 luglio 2017 con Aggiornamento del 7 luglio 2017 su "L'Espresso". La Corte di assise di appello di Bologna ha assolto perché il fatto non sussiste Daniela Poggiali, 45 anni, ex infermiera alla sbarra per l'omicidio di una sua paziente 78enne all'ospedale di Lugo, nel ravennate. Da quasi tre anni l’ex infermiera di Lugo Daniela Poggiali guarda la vita scorrerle davanti attraverso le sbarre di una prigione, contando i giorni di una pena senza fine. Da venerdì scorso le cose attorno a un caso giudiziario che ha sconvolto l’Italia sono però mutate drasticamente. La perizia disposta dai giudici d’appello di Bologna sull'unica morte sospetta per cui la Poggiali è stata finora condannata (in primo grado) all’ergastolo ha posto per la prima volta un dubbio importantissimo: quella paziente potrebbe essere morta anche per cause naturali. Il caso di Daniela Poggiali scoppia il 9 ottobre del 2014. Sono le sette di sera e fuori il sole sta per tramontare, quando i carabinieri entrano nella sua casa di Giovecca di Lugo, mettendole le manette ai polsi e portandola in carcere. Attorno alla donna, sospettata per il decesso della paziente Rosa Calderoni avvenuto l’8 aprile di quello stesso anno, in breve tempo cresce un’indagine giudiziaria che la porta ad essere sospettata di decine di morti nei suoi anni di lavoro. La vita di Daniela Poggiali si sgretola poco a poco, anche per via di quelle note fotografie nelle quali l’infermiera era ritratta in gesti irrisori al fiano di una donna deceduta. Prima perde il lavoro e poi nel marzo dell’anno scorso, dopo mesi di processo, arriva per lei la sentenza più dura: il carcere a vita per aver ucciso Rosa Calderoni con una dose letale di potassio. Fine pena mai. Il giudice di Ravenna Corrado Schiaretti nelle motivazioni arriverà a descriverla come una donna “fredda, intelligente e spietata. Nemmeno lei sa quanti pazienti ha ucciso”. A inizio di quest’anno è iniziato il processo di appello a Bologna, sospeso per via di una nuova perizia richiesta direttamente dai giudici per far luce su cosa sia veramente accaduto la mattina di quell’otto aprile di tre anni fa in ospedale. Oggi, a oltre un anno da quella condanna e con un nuovo processo ancora tutto da giocare, i tre periti nominati dai giudici hanno detto la loro, mettendo per la prima volta in dubbio l’omicidio. In oltre settanta pagine gli esperti Gilda Caruso, docente di patologia cardiovascolare dell’università di Bari, Mauro Rinaldi e Giancarlo Di Vella, rispettivamente docenti di cardiochirurgia e di medicina legale dell’università di Torino, danno conto dei due mesi di analisi svolte sul caso Poggiali-Calderoni. Ma andiamo per gradi tra le pieghe di un documento che, giovedì e venerdì, sarà sicuramente alla base di una lunga battaglia in aula tra il procuratore generale Luciana Cicerchia e gli avvocati dell’ex infermiera Lorenzo Valgimigli e Stefano Dalla Valle. 

La causa del decesso della paziente. Rosa Calderoni morì per cause naturali? Questa è la prima domanda su cui hanno dovuto dare risposta i periti, secondo cui «in definitiva tutti i riscontri, clinici e laboratoristici, non hanno consentito di identificare una singola causa patologica naturale, a insorgenza acuta, idonea a cagionare, con certezza e alta probabilità, la morte della paziente. Deve osservarsi – aggiungono – che Rosa Calderoni fosse portatrice di un insieme di patologie croniche e che qualunque fattore endogeno o esogeno avrebbe potuto determinarne lo scompenso». Una risposta aperta a più soluzioni dunque, ma che per la prima volta apre le porte anche a una probabile causa naturale per la morte di quella paziente di 78 anni. 

Il potassio come strumento per uccidere. Vi è stata una indebita somministrazione di potassio alla paziente? Una seconda domanda, su cui gli esperti hanno risposto ponendo ancora una volta un dubbio. Stando ai professori il quadro clinico della Calderoni era «solo in parte compatibile con l’iperkaliemia (eccesso di potassio nel sangue ndr) a concentrazioni letali». In primo grado, su questo punto, fu fondamentale la testimonianza della figlia di Rosa Calderoni, che ricordò come la mattina di quell’8 aprile del 2014 l’ultima infermiera a entrare nella stanza di sua madre per somministrarle le cure fu proprio Daniela Poggiali. L’ex infermiera stette all’interno della stanza per 5-10 minuti, ma proprio su questo punto emergono nuovi elementi sottolineati dai periti. La paziente quella mattina aveva infatti due accessi venosi, uno al piede e l’altro alla giugulare. Secondo Carusi, Rinaldi e Di Vella «la somministrazione rapida e letale di potassio sarebbe stata possibile solo dalla giugulare», ma questa «avrebbe dovuto causare l’arresto cardio-respiratorio nelle immediatezze dell’infusione». La Calderoni morì invece 60 minuti dopo. La somministrazione nel piede, ritenuta però impraticabile, al contrario avrebbe causato forti dolori, mai accusati dalla paziente. 

Il dibattito sul metodo Tagliaro. Il potassio è sempre stato, fin dal primo giorno, l’elemento cardine del processo a Daniela Poggiali. Secondo gli inquirenti fu proprio usando l’effetto potenzialmente killer della sostanza che l’infermiera tolse la vita a quella paziente di 78 anni. La conferma, allora, arrivò dall’analisi dell’umor vitreo della donna, nel quale il consulente dell’accusa professor Franco Tagliaro trovò valori «sballati» di potassio a 56 ore dal decesso. Anche i periti dei giudici hanno potuto analizzare il reperto, giungendo però a conclusioni che, ancora una volta, pongono diversi dubbi su tutto il caso. Dopo aver ricordato che sulla concentrazione di potassio influiscono decine di fattori, tra cui età, stato di salute (il diabete mellito, come tra l’altro aveva Rosa Calderoni, può alterare i valori di base), temperatura del corpo e che in letteratura non c’è consenso unanime su quale sia l’equazione più affidabile per il calcolo della presenza di potassio nell’organismo umano, anche per via dell’alto margine di errore, i professori hanno preso atto che «il potassio rinvenuto risulta superiore al valore atteso, ma limitatamente al campione di riferimento e alla metodologia di indagine usata». Ossia il noto metodo Tagliaro più volte contestato dalla difesa.

Il depistaggio sul prelievo di sangue. Un altro punto fondamentale dell’inchiesta, riguardava la nota emogasanalisi delle 9 del mattino di quel tragico 8 aprile eseguita su Rosa Calderoni. Secondo l’accusa quell’esame, che mostrava valori della paziente nella norma, non era veritiero in quanto la Poggiali avrebbe sostituito le sacche di sangue per evitare di essere scoperta. Secondo i periti quel sangue è invece «compatibile con il quadro clinico della paziente». Tradotto: nessun depistaggio.

Le cartelle cliniche. L’ultimo interrogativo posto dai giudici d’appello riguardava invece la presenza in reparto di una paziente sottoposta a cure a base di potassio. Dall’esame delle cartelle cliniche, stando ai tre esperti, in quei giorni una donna era «sottoposta a terapia endovenosa con potassio in pronto soccorso» per una grave ipokaliemia.  Sei quesiti precisi e dettagliati, a cui sono seguiti risposte che, aprendo di fatto le porte a una possibile morte naturale di Rosa Calderoni, hanno portato un dubbio pesantissimo all’interno del processo. E venerdì, giorno decretato per la sentenza di appello, Daniela Poggiali avrà la risposta che attende: conferma della colpevolezza oppure no?

PRESUNTO COLPEVOLE. PIER PAOLO BREGA MASSONE.

Biografia di Pier Paolo Brega Massone.

• Stradella (Pavia) 18 luglio 1964. Medico. Capo dell’équipe chirurgo-toracica della clinica Santa Rita di Milano, la “clinica degli orrori”. Arrestato il 9 giugno 2008 con l’accusa di omicidio aggravato dalla crudeltà. L’ordinanza del giudice Micaela Curami «lo dipinge più che come un dottore come un procacciatore d’affari. Un business man col camice bianco alla caccia di soldi per il proprio reparto, pronto ad usare il bisturi anche quando non ce n’era bisogno, pur di incrementare i rimborsi da chiedere al sistema sanitario nazionale» (Walter Galbiati ed Emilio Randacio). Scarcerato nel novembre del 2009, tornò in cella nell’aprile 2010, quando la Cassazione rigettò il ricorso del difensore. Condannato a 15 anni e mezzo di carcere dai giudici della Corte d’appello di Milano nel marzo 2012. Nel giugno 2013 la Cassazione annullò la sentenza di secondo grado chiedendo a una nuova sezione della Corte d’appello di Milano di ricalcolare la pena inflitta all’ex chirurgo in quanto alcuni reati contestati erano caduti in prescrizione. Il 6 novembre 2013, nell’appello bis, arrivò la conferma della condanna già inflitta in secondo grado a 15 anni e mezzo di carcere per lesioni ai danni di un’ottantina di pazienti, falso e truffa al servizio sanitario nazionale. «Per l’accusa, l’ex primario avrebbe eseguito interventi inutili e “ritoccato” le cartelle cliniche dei malati allo scopo di gonfiare i rimborsi per le prestazioni da parte della Regione. Ma, in seguito alla decisione della Suprema Corte, e prima dell’appello bis, la procura generale di Milano, ritenendo la sentenza definitiva per la parte in cui non era stata annullata, ha emesso un ordine di carcerazione». Proprio quest’ordine di carcerazione fu contestato dalla difesa in quanto il verdetto non era ancora passato in giudicato. I legali chiesero la revoca del provvedimento restrittivo tramite un «incidente di esecuzione» dichiarato però infondato dalla sezione feriale della Corte d’appello milanese. Quest’ultima decisione fu di nuovo impugnata davanti alla Cassazione che diede ragione ai legali di Brega Massone, bocciando sia l’ordinanza della sezione feriale sia l’ordine di carcerazione (Corriere della Sera 15/1/2014). Così il 14 gennaio 2014 è uscito dal carcere, in attesa che la Cassazione pronunci l’ultima parola dopo il ricorso dei suoi legali all’appello bis.

• È imputato anche in un secondo processo in cui deve rispondere di quattro omicidi e altri casi di lesione.

• «È figlio d’arte. La passione per il bisturi l’ha ereditata dal padre adottivo, uno stimato chirurgo dell’Oltrepò Pavese, molto noto a Stradella e a Broni dove aveva pazienti che gli erano affezionati. Morto il padre, Pier Paolo Brega Massone è diventato il loro punto di riferimento. Se serviva un ricovero, di qualsiasi tipo, il chirurgo era sempre pronto a trovare un letto a Milano. Alla Santa Rita, naturalmente. E sono proprio loro, i pazienti dell’Oltrepò pavese, a difenderlo a spada tratta. “Ci deve essere un errore – dicono in molti – per noi è un bravo medico, la verità verrà a galla”. Pier Paolo Brega Massone, laureato a Pavia, dove ha fatto la specialità in Chirurgia al Policlinico San Matteo, si è costruito una carriera tutta basata su una robusta mole di lavoro. All’Istituto dei tumori di Milano, dove ha lavorato tra il 2000 e il 2003, con contratti da borsista e da collaboratore, e dunque da precario, i colleghi del reparto di chirurgia toracica, parlano di lui come il medico armato di “turbo-bisturi”» (Laura Asnaghi). GIORGIO DELL’ARTI su "Il Corriere della Sera", scheda aggiornata al 22 gennaio 2014

Clinica Santa Rita, 15 anni per Brega Massone nel processo bis. Ergastolo annullato: “Omicidi preterintenzionali”. Il chirurgo della cosiddetta "clinica degli orrori" era stato condannato al carcere a vita nel primo processo poi annullato dalla Cassazione. La Procura generale aveva chiesto comunque il "fine pena mai" ma la richiesta non è stata accolta dalla Corte d'appello di Milano. La moglie del medico scoppia in lacrime: "Ora vediamo la luce, mio marito non è un mostro", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 19 ottobre 2018. E’ stato condannato a 15 anni di carcere Pier Paolo Brega Massone, l’ex chirurgo toracico della Clinica Santa Rita, nel processo bis davanti alla Corte d’Assise d’Appello di Milano, con al centro la morte di 4 pazienti, avvenuta in quella che i giornali chiamarono la “clinica degli orrori”. L’ex braccio destro di Brega Massone, Fabio Presicci, imputato per due dei decessi, è stato condannato a 7 anni e 8 mesi. I giudici hanno riformulato l’accusa per i due in omicidio preterintenzionale, riducendo dunque la pena. A Brega Massone erano già stati inflitti in via definitiva 15 anni e mezzo di carcere per truffa. “Ora vediamo la luce” ha detto la moglie del chirurgo, Barbara Magnani che è scoppiata a piangere dopo la lettura del dispositivo. La Magnani ha aggiunto di non avere creduto che il marito fosse “un mostro” e di non avere mai perso la “speranza nella giustizia” anche se “la paura era fortissima”. “Credo che negli altri Stati europei non esistano pene così severe per i medici – ha aggiunto -, sarebbe il caso che qualcuno ci riflettesse”. Rendendo dichiarazioni spontanee la scorsa udienza, Brega Massone aveva detto: “Mi dispiace per tutto quello che è avvenuto e chiedo scusa a tutte le persone che hanno molto sofferto, non era mia volontà. Ora posso solo chiedere di rivedere la luce, poter essere utile e stare con la mia famiglia”. Oltre ad avere riformulato l’accusa da omicidio volontario a omicidio preterintenzionale, i giudici hanno escluso l’aggravante del “fine di lucro” e hanno riconosciuto le attenuanti generiche. Il sostituto pg Massimo Gaballo aveva chiesto la conferma dell’ergastolo per Brega Massone e 21 anni di carcere per Presicci per omicidio volontario. Riteneva che le morti contestate erano frutto di “un modus operandi seriale” dell’ex chirurgo e che i “decessi erano altamente probabili” in quanto conseguenza di operazioni “ad alto rischio morte” dei pazienti. A perdere la vita per via delle operazioni condotte da Brega furono Giuseppina Vailati, 82 anni, Maria Luisa Scocchetti, 65 anni, Gustavo Dalto, 89 anni, e Antonio Schiavo, 85 anni. Tutti anziani portati, secondo l’accusa, in sala operatoria senza alcuna giustificazione clinica per interventi “inutili” effettuati al solo fine di “monetizzare” i rimborsi del sistema sanitario nazionale per la clinica convenzionata. Una prima sentenza era stata annullata con rinvio dalla Corte di Cassazione. Nel processo principale, infatti, fino all’appello del dicembre 2015, Brega Massone era stato condannato all’ergastolo per l’accusa di omicidio volontario plurimo (e per questo Presicci aveva avuto una pena di 24 anni e 4 mesi). Per i supremi giudici però non erano stati “omicidi dolosi” o comunque che non era motivata in modo sufficiente la volontarietà.

Brega Massone non è più il mostro, annullato l’ergastolo. Brega Massone è stato condannato a 15 anni, mentre Fabio Presicci si è visto ridurre la pena da 24 anni e 4 mesi a 7 anni e 8 mesi, scrive Simona Musco il 20 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Pierpaolo Brega Massone e Fabio Presicci non entravano in sala operatoria accettando l’eventualità di uccidere i propri pazienti. Lo hanno stabilito ieri i giudici della Corte d’Assise d’appello di Milano, riqualificando il reato a carico dell’ex chirurgo toracico della Clinica Santa Rita e del suo vice da omicidio volontario a omicidio preterintenzionale. I due erano accusati di omicidio volontario in relazione alla morte, rispettivamente, di quattro e due pazienti in sala operatoria. Brega Massone è stato condannato a 15 anni, mentre Presicci si è visto ridurre la pena da 24 anni e 4 mesi a 7 anni e 8 mesi. A giugno dello scorso anno la Cassazione aveva messo tutto in dubbio, annullando con rinvio la condanna all’ergastolo pronunciata nel primo processo d’appello il 21 dicembre 2015: per i giudici non si può parlare di dolo per le vittime, uccise, secondo i pm, da “interventi inutili”, effettuati solo per “monetizzare” i rimborsi del sistema sanitario nazionale. Un concetto che il procuratore generale Massimo Gaballo ha ribadito anche nella requisitoria dell’appello bis, chiedendo la conferma dell’ergastolo per Brega Massone e la riduzione da 25 a 21 anni per Presicci, al quale aveva riconosciuto le attenuanti generiche. Secondo Gaballo, c’era una “assoluta carenza di finalità terapeutica degli interventi” finiti al centro dell’inchiesta e gli imputati erano “perfettamente consapevoli di non poter dominare il rischio post operatorio. La morte era una conseguenza prevedibile”. Un’immagine terribile, che è valsa negli anni a Brega Massone la qualifica di “chirurgo killer”. Un ruolo, secondo il suo avvocato, Nicola Madia, che i media «hanno costruito accuratamente», come «un abito su misura, l’abito di un mostro e per questo ha subito un trattamento così severo». L’ex chirurgo toracico, che al momento della lettura della sentenza non era in aula, sarebbe invece soltanto un «fanatico della chirurgia» che avrebbe pagato la sua “ambizione”. Brega Massone sta scontando un’altra condanna definitiva a 15 anni e mezzo per truffa e lesioni nei confronti di un’altra ottantina di pazienti. Accusa, quest’ultima, dalla quale continua a professarsi innocente. La sentenza di ieri ha escluso anche l’aggravante del nesso teleologico, ovvero «la finalità di lucro» degli interventi eseguiti dai medici imputati, condannati a risarcire le parti civili. «Sono felicissimo», ha confidato al telefono alle persone a lui vicine l’ex chirurgo. «È una sentenza che mi emoziona, ora vediamo la luce», ha aggiunto la moglie Barbara Magnani, che ha assistito a tutte le udienze. «Non l’ho mai abbandonato – ha aggiunto, è difficile per me parlare oggi. Non ho mai creduto che fosse un mostro e non ho mai perso la speranza nella giustizia, anche se la paura era fortissima». Assente alla lettura del dispositivo anche Presicci, che è stato radiato dall’albo dei medici e ha già pagato il suo conto con la giustizia. L’ex medico era già stato condannato definitivamente a 8 anni e sei mesi di carcere per un’ottantina di lesioni dolose, pena che ha finito di scontare a settembre. «Mi di- spiace aver fatto soffrire involontariamente delle persone commettendo errori – ha commentato all’Agi -. Non ho mai detto di avere sempre fatto tutto bene, ma non ho mai voluto fare del male ai miei pazienti per carpire la loro fiducia e fargli spendere soldi». Dopo due sentenze che ritenevano dimostrato il dolo, la svolta è arrivata con la decisione dei giudici della Cassazione, secondo cui non c’era nessuna prova che Brega Massone abbia accettato l’eventualità della morte di quei pazienti. L’ex chirurgo era dunque stato condannato al carcere a vita nonostante non fosse stata dimostrata la sua volontà di correre il rischio di uccidere i propri pazienti pur di eseguire quegli interventi inutili e dannosi, solo per ottenere i rimborsi garantiti dal sistema sanitario. Una sentenza con la quale la Cassazione aveva chiesto ad una nuova sezione della Corte d’Assise d’appello di Milano di valutare “la qualificazione giuridica dei reati, in termini di omicidio volontario, anziché di omicidio preterintenzionale”, escludendo a priori l’ipotesi dell’omicidio colposo. Parole, quelle degli ermellini, che obbligavano i giudici di merito a dimostrare «” a sussistenza dell’ulteriore elemento psicologico rappresentato dal dolo omicidiario” in relazione ai quattro decessi avvenuti dopo interventi privi “di giustificazione e legittimazione medico– chirurgica”. I giudici del primo appello si erano quindi limitati a elencare una serie di possibili indicatori del dolo eventuale, eludendo “il nucleo fondamentale del ragionamento probatorio– argomentativo”, ovvero la prova della volontà degli imputati di agire comunque di fronte alla probabilità che i pazienti perdessero la vita a causa di quegli interventi. Tanto da parlare di “inadeguatezza del percorso motivazionale” dei giudici d’appello in relazione a questo punto, dovuta al fatto di aver attribuito “una dirimente capacità dimostrativa” agli elementi indiziari correttamente utilizzati per dimostrare la natura dolosa delle lesioni provocate nel corso dell’attività medico– chirurgica, ma che non possono invece “valere di per sé a integrare la prova (anche) della sussistenza dell’elemento psicologico”. Assente, secondo i giudici dell’appello bis.

Santa Rita, Brega Massone. L’orrore che non c’era. Scrive Emanuele Boffi il 18 luglio 2017 su Tempi. Controinchiesta su un caso che fu dipinto con tinte horror dalla nostra stampa e tv. Alcuni ragionevoli dubbi su carte, perizie e soldi che ci portarono a dipingere il chirurgo Brega Massone come un sadico killer in camice bianco. «Clinica degli orrori. Bisturi assassini. I pirati della sanità. Una strage. Decine di morti. Pazienti torturati. Macelleria. Vivisezione. Horror movie. Sala operatoria a cottimo. Mutilava le donne. Tagliare via seni con noncuranza, come si tira un pezzo di polmone a un gatto». E ancora: «Dottor Morte. Mai più chirurghi come lui. Il primario degli orrori. L’odore dell’odio». Queste sono solo alcune delle espressioni virgolettate o dei titoli apparsi sui giornali per raccontare la vicenda della clinica Santa Rita di Milano e del suo primario di chirurgia toracica Pier Paolo Brega Massone, primo medico in Italia, e probabilmente al mondo, ad essere condannato all’ergastolo nell’esercizio delle sue funzioni. Eppure il 22 giugno la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza sancendo che il chirurgo dovrà essere giudicato da un nuovo collegio di Corte d’Assise d’Appello a Milano, non più con l’accusa di omicidio volontario. Una decisione strabiliante, sia perché la Suprema Corte ha ribaltato la condanna all’ergastolo per omicidio volontario aggravato dalla crudeltà per la morte di quattro pazienti dell’aprile 2014 e la sua conferma in appello nel dicembre 2015, sia perché, per la prima volta, la figura di Brega Massone non è stata associata a quella del sadico killer. “Il Dottor Morte della clinica degli orrori”, insomma, non lo era. In attesa di conoscere le motivazioni, qualche considerazione può essere avanzata, non fosse altro per la mastodontica sproporzione con cui il pronunciamento della Cassazione è stato accolto sui nostri giornali – rapidamente relegato nelle notizie di cronaca – a fronte invece della lunga e martellante campagna mediatica con cui il caso fu trattato anni fa, quando faceva da titolo d’apertura a quotidiani, settimanali e tg serali. Fino ad oggi, infatti, a proposito della “clinica degli orrori” ci è stata raccontata una storia senza sfumature, graniticamente monolitica nella sua narrazione, senza alcuna sbavatura non diremo innocentista, ma nemmeno garantista. Se si escludono alcuni articoli apparsi su La provincia pavese e un editoriale pubblicato il 24 giugno 2008 sul Corriere della Sera a firma di Pierluigi Battista (“L’istinto di colpevolezza”) non esiste all’interno del panorama mediatico italiano alcuna voce che abbia osato discostarsi dal grandguignolesco canovaccio dell’horror movie. O meglio, una voce c’è e c’è stata, e qui le si vuole rendere tributo se non altro come esempio di giornalismo d’inchiesta fattuale e non teorematico, basato su prove e carte e non su opinioni, preoccupato di documentare ogni propria affermazione prima di sottoporla al pubblico giudizio. Certo, con una chiave interpretativa precisa che può essere sempre discussa, ma che certamente ha il merito di motivare ogni propria asserzione senza ricorrere all’ipse dixit o all’emotività. Si tratta di E se il mostro fosse innocente? di Giovanna Baer e Giovanna Cracco (edizioni Paginauno), controinchiesta pubblicata nel febbraio 2012 che – come è intuibile dal titolo – cercava di smontare le accuse rivolte a Brega e alla sue équipe. Dopo la pubblicazione del volume, Giovanna Cracco ha proseguito nella sua indagine pubblicando sul sito della rivista Paginauno quelle che lei definisce le sue “controcronache”, dettagliati resoconti delle udienze svolte in tribunale. Cracco, come forse solo gli avvocati e i magistrati del procedimento, può vantare di aver letto tutte le carte dell’accusa e della difesa, le 1.862 pagine di intercettazioni, tutti gli articoli dedicati alla vicenda. «Un lavoro enorme – spiega a Tempi – che ha richiesto tempo e studio. Un lavoro fortemente osteggiato, tanto che qui a Milano siamo riusciti ad organizzare una sola presentazione e solo grazie all’interessamento di Marco Cappato dei Radicali, e fuori città solo grazie all’appoggio dell’Ordine dei medici di Pavia, da sempre assai critico sulle sentenze del tribunale. Non abbiamo mai ricevuto richieste di smentite né querele, tutto ciò che scriviamo è motivato con documenti che sono riportati nel volume o online. È tutto alla luce del sole. Non ci sono gole profonde, non ci sono fonti riservate, è tutto e solo negli atti pubblici. Se non vi fidate di noi, leggeteli e fatevi un’opinione». Il punto attorno cui ruota tutto il ragionamento di Baer e Cracco è che vi sia un ragionevole dubbio a proposito della colpevolezza del chirurgo e degli altri condannati. Per questo è necessario raccontare la vicenda pur per sommi capi, ma a partire da un aspetto su cui la stampa non si è mai per nulla concentrata, eppure fondamentale: un’indagine della commissione Asl su tredici episodi di tubercolosi segnalati in 18 mesi, a partire dal gennaio 2006, alla clinica Santa Rita. A partire da questa indagine e da una segnalazione anonima giunta in procura su un’ipotetica truffa alla Santa Rita ai danni del Sistema sanitario nazionale a proposito dei rimborsi regionali, furono predisposti il sequestro delle cartelle cliniche (inizialmente, non quelle dell’unità toracica dove operava Brega) e le intercettazioni. In base a questo materiale è stato dato il via al processo che poi si è ramificato in due filoni. Nel primo, si è arrivati a sentenza definitiva e Brega è stato condannato a 15 anni e mezzo di carcere per truffa, falso e per una ottantina di casi di lesioni dolose. Il secondo, quello che ha portato all’ergastolo con l’accusa di omicidio volontario aggravato dalla crudeltà per la morte di quattro pazienti e di lesioni dolose per una quarantina di persone, è quello su cui la Cassazione s’è pronunciata di recente.

Eterna carcerazione preventiva. Nel mezzo della vicenda, Brega è stato licenziato dalla Santa Rita e il suo ricorso al Tar per dimostrare la propria estraneità al “contagio da Tbc” non è mai stato discusso nell’udienza fissata per il 19 giugno 2008. Dieci giorni prima, il 9 giugno 2008, fu arrestato con altre quattordici persone: dodici finirono ai domiciliari, Brega e il suo primo aiuto, Fabio Presicci, al carcere di San Vittore. Il Riesame fece cadere l’accusa di omicidio – che poi è tornata in piedi – ma confermò le ipotesi di lesioni dolose e Brega rimase in custodia cautelare – a parte una parentesi di sei mesi – per cinque anni, un’eternità. Comunque la si pensi, risulta difficile non condividere l’osservazione di Cracco e Baer nel denunciare il ricorso alla carcerazione preventiva come fortemente limitante la libertà dell’imputato che, dalla piccola cella di San Vittore, faticava enormemente a organizzare la propria difesa. Oltretutto, le tre condizioni che per legge ne avrebbero motivato la custodia non parevano sottostare. Quando essa fu predisposta, Brega non poteva inquinare le prove perché già ampiamente acquisite; non poteva reiterare il reato perché, non possedendo una sala operatoria, non poteva effettuare operazioni; aveva dimostrato di non volere fuggire, non avendo mai approfittato, nemmeno nei mesi di libertà, di una tale possibilità.

A Brega non furono mai concessi gli arresti domiciliari. Pier Paolo Brega Massone si è sempre dichiarato innocente. Lo ha fatto dal primo giorno in cui gli sono state mosse le accuse, lo ha ripetuto il giorno in cui è stato condannato all’ergastolo, lo dice oggi: «Non ero un serial killer. La mia priorità è sempre stata quella di dare ai pazienti la sicurezza. Ho sempre agito in scienza e coscienza». A scanso di equivoci, è bene sottolineare che il lavoro di Baer e Cracco arriva a imputare al medico una truffa – ma non delle proporzioni per le quali è stato condannato –, ma a criticare fortemente l’impianto accusatorio relativo all’accusa di lesioni dolose e di omicidio volontario. In particolare, secondo le due autrici, è provato che vi sia stato un raggiro in merito ai passaggi di reparto tra acuti e riabilitazione (una truffa amministrativa, che non riguardava la cura dei pazienti) e in merito alla codifica di alcune cartelle relative ai casi di senologia, ma anche in questo caso, si tratta di falso in cartella e non dell’intervento effettuato sulle pazienti.

Il linguaggio sconveniente. Quando la vicenda lo travolge, Brega è uno stimato chirurgo originario del Pavese che ha al suo attivo circa 1.400 interventi come primo operatore, ossia responsabile in sala operatoria, e 371 pubblicazioni scientifiche di cui 169 con primo nome. L’attenzione della procura si concentra su di lui a partire dalle intercettazioni, in cui, secondo l’accusa, si rintraccia il movente: il denaro. Oggi il sistema è cambiato, ma al tempo molte retribuzioni dei medici erano legate in percentuale (tra il 9 e l’11 per cento) al rimborsi dei drg (il sistema di calcolo della spesa attribuito a ogni diverso tipo di operazione) percepito dalla clinica. Poiché nessuno è mai riuscito a dimostrare che Brega fosse un sadico, l’aspetto economico è importante perché spiega, secondo le sentenze, il motivo per cui Brega era spinto a intervenire il più possibile, aumentando i propri guadagni. In effetti, i medici della Santa Rita, compreso Brega, al telefono discutevano animatamente di soldi in relazione agli interventi, ma, contestano Baer e Cracco, parlarne non significava ammettere che si operava “solo e soltanto” con questo fine, negando quello medico. Il linguaggio utilizzato – e che ovviamente in quei mesi finì su tutti i giornali sapientemente enfatizzato – poteva essere considerato riprovevole moralmente, persino scandaloso, ma non costituiva reato. Poteva indurci a pensare che Brega fosse uno sbruffone pieno di sé, ma questo, se non suffragato da prove, non faceva di lui un criminale seriale.

Mille euro in più al mese. Si tratta poi di dettagliare a quanto effettivamente ammontasse la truffa. In quel periodo sui quotidiani si potevano leggere cifre da capogiro («2,5 milioni») che, però, per quanto riguarda Brega e la sua équipe, erano molto più contenute. A quel tempo, alla Santa Rita così come in molti altri enti lombardi il rapporto tra chirurgo e clinica era strutturato in due parti: sui ricoveri, come detto, al medico spettava il 9 per cento dell’importo dei drg rimborsati dalla Regione; per le degenze in riabilitazione il medico percepiva 10,33 euro per ogni giorno di ricovero del paziente. Fatto salvo quanto già scritto, e cioè che una truffa ci fu nei passaggi da un reparto all’altro, occorre anche andare a fare i conti in tasca a Brega. Secondo quanto calcolato da Baer e Cracco, sulla base di una consulenza tecnica depositata al primo processo, l’équipe dei tre medici – era infatti Brega, con il 9 per cento percepito, a pagare i due aiuti – avrebbe intascato 25.000 euro al lordo delle imposte nel 2005, 39.000 euro nel 2006, 25.000 euro nel 2007. Nella sostanza, le loro cifre non si discostano da quelle che lo stesso Brega ha rivelato ad Annalisa Chirico che lo intervistò per Panorama il 17 luglio 2014 mentre si trovava in carcere, e che si riferivano ai casi contestati in entrambi i processi: «Il pm – disse il dottore – sostiene che, “checché ne dica il mio commercialista”, io avrei incassato 300 mila euro sulla base del fatto che la clinica aveva avuto 3 milioni. Il 9 per cento è pari a 270 mila lordi, da dividere fra i tre componenti dell’équipe. Al netto delle tasse, l’importo percepito da noi tre era di 151 mila euro. Poniamo pure che io in qualità di primario ne prendessi il 65 per cento: la mia retribuzione sarebbe stata di 98 mila euro. Quindi, secondo l’accusa, per guadagnare 1.000 euro in più al mese io avrei deliberatamente rischiato quanto mi è successo. Non è un caso che nelle fasi finali del processo lo stesso pm abbia precisato di non aver quantificato il lucro sostenendo che io avrei effettuato gli interventi più “per megalomania” che per trarne profitto». Il tasto su cui Baer e Cracco battono maggiormente riguarda le perizie dei consulenti dell’accusa e della difesa così come furono presentate nel corso del primo processo. La materia è complessa: stiamo parlando di chirurgia toracica, un campo della medicina ad alta specializzazione ed, inevitabilmente, le parole degli esperti sono fondamentali per formare nei giudici una corretta interpretazione dei fatti. Baer e Cracco insistono sul fatto che il profilo professionale del «grande accusatore» di Brega fosse inadeguato. Si trattava di un dottore con un passato in chirurgia generale, che da dieci anni non entrava in sala operatoria e che, al momento della perizia, svolgeva l’attività di medico di base. Nel suo curriculum non figuravano competenze nel campo della chirurgia toracica né in quello della medicina legale. Fu l’unico dei periti dell’accusa a visionare tutte le 575 cartelle sequestrate e a segnalare ai pm i casi clinici da contestare. Gli altri periti dell’accusa – tutti medici dal curriculum adeguato al compito – basarono i propri pareri a partire dalla sua scrematura delle cartelle cliniche. Il punto, fanno notare Baer e Cracco, è che nessuno di loro visionò le lastre (tac, rx, etc) e la documentazione medica completa, ma solo i referti del radiologo. Inoltre, le valutazioni dei periti dell’accusa furono generalmente molto stringate e poco, a parte un caso, attente a motivare le proprie affermazioni basandosi sulla letteratura scientifica. Nel caso del primo e più importante perito, poi, per i casi relativi alle patologie toraciche non vi sono indicazioni in letteratura, protocolli ospedalieri o linee guida atte a motivare le proprie opinioni.

Chi ha ragione? Al contrario, i periti della difesa, oltre a poter vantare curriculum adeguati e di fama internazionale, forti del fatto di aver visionato tutto il materiale, immagini comprese, giunsero a conclusioni diametralmente opposte. Tuttavia non fu loro sempre consentito proiettare le lastre in udienza, fatto che avrebbe aiutato a comprendere meglio le decisioni prese da Brega e dalla sua équipe in determinate situazioni – anche perché, davanti ad alcune immagini, si è riscontrato in aula l’inesattezza di quanto scritto nel referto. Le consulenze degli specialisti della difesa, inoltre, risultarono molto lunghe e articolate (una supera le 500 pagine), riportando in calce riferimenti a una letteratura scientifica ricca e dettagliata a sostegno delle proprie valutazioni. L’osservatore distaccato potrebbe, a questo punto, conservare ancora qualche perplessità. Chi aveva ragione? Fu anche per questo che gli avvocati di Brega chiesero più volte che fosse disposta una perizia super partes. Il tribunale rifiutò sempre, arrivando a definire, nella sentenza di primo grado, il lavoro dei consulenti della difesa come «infarcito di imprecisioni, omissioni e contraddizioni». Fu in base alla prima sentenza di condanna che una delle vittime, la signora D.P., cinquant’anni, sovrappeso, forte fumatrice, intentò una causa in sede civile contro Brega. Il giudice del nuovo procedimento decise di nominare periti super partes che analizzarono tutta la documentazione medica, le lastre, lo stato di salute della signora dopo l’intervento di Brega. Le conclusioni cui giunsero tali specialisti, in aperto contrasto con quelle del primo processo in cui la donna era risultata vittima, furono che le terapie che le erano state prestate erano «perfettamente appropriate» e che l’intervento cui era stata sottoposta era stato «eseguito a regola d’arte». Oltre al caso D.P., nella vicenda Brega Massone-Santa Rita esiste un altro caso in cui altri specialisti super partes sono stati chiamati ad esprimersi e, anche in questo secondo, le conclusioni sono favorevoli al chirurgo. La domanda di Baer e Cracco è inevitabile: quanti altri casi D.P. esistono? Perché il tribunale non ha voluto disporre una perizia super partes? E perché, anche di fronte a tali pareri, ha comunque condannato Brega? Il dubbio che altri expertise avrebbero dimostrato il buon operato di Brega è lecito e ragionevole.

Legge bavaglio. In tutta questa vicenda un ruolo essenziale lo hanno giocato stampa e tv. L’11 giugno 2008, due giorni dopo i primi arresti, la Santa Rita era già diventata sui quotidiani la «clinica degli orrori» e Brega «il mostro». È la solita storia: sono note solo le ipotesi investigative, ma raramente parole come «presunto» o «sospettato» appaiono accanto ai nomi degli accusati. I termini complessi della chirurgia toracica furono espunti dalle cronache e dai servizi dei tg, dando rilievo solo alle posizioni della procura. Tra l’altro, in quel periodo, in Italia si stava discutendo il ddl Alfano che avrebbe voluto limitare l’abuso e la diffusione delle intercettazioni.

Il caso Santa Rita divenne uno dei cavalli di battaglia dei detrattori della “legge bavaglio”. L’11 giugno 2008 una puntata di Matrix condotta da Enrico Mentana e intitolata “La clinica degli orrori” mandò in onda l’audio di alcune intercettazioni dando adito all’ospite Marco Travaglio di affermare che, senza quelle, «non si sarebbe potuto scoprire che questi [medici] non solo facevano i falsi delle cartelle cliniche ma ammazzavano la gente». Oggi, dopo la sentenza della Cassazione, un finale molto diverso di questa vicenda potrebbe essere scritto (il condizionale è d’obbligo), ma nessun quotidiano o tv sembra più interessato a occuparsi del “mostro” della “clinica degli orrori”. La storia non fa vendere più. E questa è una mesta certezza oltre ogni ragionevole dubbio.

Quindi il dottore Brega Massone non era un mostro…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 24 giugno 2017 su "Il Dubbio". C’è una donna, sfinita ma tenace, che aspetta una telefonata. Alla fine l’avvocato Titta Madia chiama e comunica: «Niente ergastolo, niente omicidio volontario, tuo marito non passerà in carcere il resto dei giorni, una nuova Corte d’appello dovrà rideterminare la pena». Lei, Barbara, scoppia a piangere, perché si affaccia ancora una volta sulla vertigine in cui è sospesa da 9 lunghi anni: mio marito non è un mostro eppure nessuno ci crede. Lui, Pier Paolo Brega Massone, il dottor Frankestein della cosiddetta clinica degli orrori, è a sua volta sospeso tra due ipotesi, nascoste nelle motivazioni che la Suprema corte depositerà: omicidio colposo o omicidio preterintenzionale. Barbara Magnani è la moglie del mostro. Sarà anche una donna gentile ma quando nelle cronache viene riportata una sua dichiarazione, la si precede sempre con espressioni del tipo “… ebbe il coraggio di dire… ”. Perché la coniuge di un chirurgo toracico che – dicevano fino all’altro ieri le sentenze – opera solo per incassare i rimborsi del sistema sanitario, non merita neppure di piangere l’assenza del marito. Adesso un velo di fiducia nella giustizia si è acceso negli occhi di questa signora. Secondo i familiari delle quattro vittime, Brega Massone «deve pagare tutto». Ma per la sua famiglia, il medico oggi 51enne ha sempre fatto il suo dovere. Ha praticato spesso una tecnica di chirurgia toracica che ha in realtà una funzione diagnostica. Quattro dei pazienti sottoposti a quel tipo di intervento sono deceduti: Giuseppina Vailati, 82 anni, Maria Luisa Scocchetti, 65 anni, Gustavo Dalto, 89 anni e Antonio Schiavo, 85 anni. Secondo la difesa, non furono i ferri del chirurgo ha causare le morti, ma un quadro già in gran parte compromesso, rispetto a cui Brega Massone provò, con gli interventi, a verificare se esisteva una estrema possibilità di recupero. Secondo l’accusa, si trattò di «cose inspiegabili, con «asportazioni di pezzi più o meno grossi di polmone». Stabilire la verità era doveroso. Ma se a dodici anni dai fatti contestati, dopo due distinti procedimenti penali, una condanna della Corte dei conti e due cause di risarcimento civile, se in capo a questo lungo iter, la Cassazione stabilisce che hanno sbagliato sia in primo che in secondo grado, potrà essere legittimo dubitare che la verità stia davvero in quell’appellativo, “mostro”? E questa la vertigine da incubo. Il labirinto in cui sono intrappolati i familiari del medico. Loro, e i loro avvocati, hanno sempre protestato per il fatto che in entrambi i processi penali i collegi giudicanti si siano rifiutati di commissionare perizie d’ufficio. Sono stati ascoltati solo i pareri dei consulenti di parte, accusa e difesa. Mai un tecnico che dovesse rispondere solo al giudice terzo. Un’anomalia. Che potrebbe essere tra le architravi della pronuncia arrivata due giorni fa dalla Suprema corte.

La clinica Santa Rita è un fiore all’occhiello della sanità lombarda. Brega Massone vi lavora come primario del reparto di chirurgia toracica. Il sistema delle strutture private accreditate presso la Regione funziona perfettamente. Ma è anche oggetto di insinuazioni. A metà degli anni 2000, all’epoca dei fatti contestati a Brega Massone, l’amministrazione è presieduta da Roberto Formigoni e il sistema sanitario è considerato sotto il pieno e capillare controllo della componente politica a cui fa capo il governatore, Comunione e liberazione. In un clima segnato da veleni impercettibili, si verificano le drammatiche vicende che costeranno le condanne a Brega Massone. I quattro decessi e gli oltre 100 casi complessivi di operazioni non necessarie, in parte delle quali sarebbe stato rilevato il reato di lesioni, anche gravi. Il 9 giugno 2008 il chirurgo viene arrestato insieme ad altre 13 persone, tra amministratori e medici della Santa Rita. Lui e Fabio Presicci, il suo “braccio destro” (condannato a 25 anni in Appello e anche lui destinatario della sentenza di annullamento della Cassazione), sono gli unici a finire in carcere, gli altri vanno ai domiciliari. I particolari sono immediatamente riportati dai media: mammelle asportate a donne anche giovani nonostante bastasse togliere i noduli, e soprattutto quei numerosi interventi al torace, fatali in cinque casi. Le indagini vanno avanti per 3 anni. Ne verranno fuori due distinti procedimenti a carico del chirurgo originario di Pavia: uno va più spedito, riguarda 83 operazioni «non necessarie», vede il chirurgo imputato per lesioni anche gravi e truffa e arriverà a sentenza definitiva il 26 febbraio 2015. Nell’altro si procede con più lentezza: dopo l’arresto il Tribunale del Riesame fa cadere l’ipotesi di omicidio volontario e i pm Grazia Pradella e Tiziana Siciliano cercano nuove prove, sia per la responsabilità di quelle 4 morti che per altri 45 casi di lesioni. Otterranno il rinvio a giudizio, con l’accusa caduta due giorni fa in Cassazione, nel giugno 2012.

In entrambi i processi si assiste a un’ostinata impuntatura dei collegi giudicanti: no a perizie d’ufficio, basta il contraddittorio tra quelle di parte, che vede fatalmente soccombere i consulenti della difesa. Uno di questi è Massimo Martelli, valentissimo e famoso chirurgo toracico del Forlanini di Roma. Attesta in aula il che il collega si rifà a tecniche diagnostiche d’avanguardia, sperimentate da diversi medici tedeschi. Il riferimento alla Germania, come si vedrà, sarà però fatale. Intanto non basterà a convincere i giudici della correttezza di Brega Massone. In uno dei dibattimenti il presidente del collegio dice con chiarezza che, delle argomentazioni scientifiche proposte, «non si riesce a capire granché». E allora per quale motivo, nonostante la complessità della materia, i magistrati decidono di non farsi assistere da consulenti d’ufficio? È l’effetto del clamore mediatico, che nel frattempo è diventato inevitabilmente assordante. Brega è per tutti il mostro, la Santa Rita, clinica degli orrori, deve cambiare nome in “Istituto clinico Città studi”, come si chiama ancora oggi. I giudici non se la sentono di ostinarsi a verificare in modo eccessivamente puntiglioso una verità già affermata sui giornali. Al punto che in una delle udienze del processo per omicidio, la presidente apostrofa così l’avvocato del chirurgo: «Stiamo facendo un lavoro inutile e mi domando come mai i difensori continuino a sollevare delle eccezioni quando basta andare con un iPad normale e queste telefonate le ascoltiamo. Le hanno riportate tutti i media, ci stiamo prendendo in giro, vogliamo smetterla? La Corte è veramente più che nervosa! Sono tutte opposizioni inutili, non portano da nessuna parte. La Stampa, il Corriere… la Repubblica ha riportato in grassetto le telefonate, in rete c’è l’audio e tutti noi usiamo questi sistemi. Quindi è una presa in giro quella che sta succedendo in quest’aula». Da verbale d’udienza, alla pagina 51. Come dire appunto che la verità era scritta sui giornali e riprodurre le prove in dibattimento era superfluo. Il 15 gennaio 2014, dopo 6 anni, Brega Massone mette piede fuori del penitenziario di Opera: è scarcerato per decorrenza termini, in virtù del protrarsi del giudizio sulle 83 operazioni, dopo che la Cassazione ha chiesto di ricalcolare la pena inflitta in Appello, visto che nel frattempo il reato di truffa è andato in prescrizione. Saranno gli ultimi tre mesi, almeno fino ad oggi, trascorsi a piede libero dal chirurgo: il 9 aprile dello stesso anno Pier Paolo Brega Massone è condannato all’ergastolo nel processo di primo grado per i 4 omicidi ed è arrestato in aula. «C’è pericolo di fuga», secondo il dispositivo della Corte. Si scoprirà poco dopo, nelle motivazioni, che i contatti con i luminari tedeschi erano stati decisivi: alcuni di loro erano stati presentati dalla difesa come periti di parte, e i giudici danno per scontato che potrebbero assicurare ospitalità in Germania al collega italiano fuggiasco. D’altra parte, gli avvocati di Brega Massone hanno inutilmente insistito affinché il collegio nominasse periti d’ufficio.

È la probabile sliding door di tutta la storia. Lo dimostra un fatto riferito con modesta risonanza da gran parte dei media. Oltre ai due procedimenti principali, vengono attivate anche due cause civili per risarcimento danni, da altrettante pazienti che preferiscono non attendere l’esito dei giudizi penali. In questi casi i magistrati si affidano a perizie d’ufficio, a consulenti tecnici da loro stessi nominati, E accertano la correttezza del chirurgo. L’avessero fatto anche i colleghi delle sezioni penali, cosa sarebbe successo? Come sarebbe andata? Chi può escludere con certezza che il chirurgo di Pavia fosse sì uno sbruffone, capace di esprimersi con parole spicce sui pazienti, sulle operazioni e sui relativi rimborsi da mettere a bilancio, ma non per questo si trattasse di un disonesto pronto a usare tecniche d’intervento «inutili»? Non si è avuto il coraggio di sciogliere l’incognita. Che Brega massone fosse un assassino era verità così indubitabile che la psichiatra Chantal Podio, a fine 2014, riferì sconcertata di un suo colloquio in carcere col chirurgo, a suo dire «incapace di ammettere le proprie responsabilità, dunque impermeabile, un muro di gomma». La verità era così indiscutibile che lo scienziata della psiche neppure provava a chiedersi se dietro quella professione d’innocenza ci fosse almeno una parziale verità. I giornali, prima delle sentenze, l’avevano già scritta. E ora, a 9 anni dall’arresto, la Cassazione ci dice che quella verità, almeno in parte, era solo un dogma.

Madia: «La Cassazione deve aver trovato illogico definire Brega Massone un assassino», scrive Valentina Stella il 24 giugno 2017, su "Il Dubbio". Intervista all’avvocato Titta Madia che insieme al collega Luigi Fornari difende il dottor Pier Paolo Brega Massone, in carcere da quasi 9 anni. «Irragionevole credere che Brega Massone fosse un assassino»: è chiaro l’avvocato Titta Madia che insieme al legale Luigi Fornari difende Pier Paolo Brega Massone, il chirurgo ex primario della Santa Rita di Milano.

Avvocato Madia si aspettava questa decisione dei Supremi Giudici? Era ottimista?

«Quando si va in Cassazione è difficile essere ottimisti. Si ha una speranza, perché bisogna tener conto che in Cassazione l’indice di accoglimento dei ricorsi è del 3 per cento».

Quali sono stati i motivi principali – in sintesi – posti alla base del vostro ricorso?

«Sono stati due: Brega Massone era stato condannato per questi interventi chirurgici ritenuti abusivi senza che sia stata fatta mai una perizia».

Una super perizia da voi chiesta più volte.

«Sì, ma ci è stata sempre negata. Il secondo motivo è che ritenere che Brega Massone entrasse in sala operatoria sapendo che era un assassino, e pronto ad uccidere delle persone, era un fatto privo di qualsiasi ragionevolezza».

Adesso in Corte d’Appello si stabilirà se trattasi di omicidio colposo o preterintenzionale?

«I giudici dovranno attenersi alle direttive impartite dalla Cassazione. Quindi avranno la possibilità di fare una valutazione piuttosto limitata in base ai principi espressi dalla Suprema corte».

Pur in assenza delle motivazioni, secondo lei si può fin da ora intuire qual è stato l’iter logico- giuridico che i giudici di Cassazione hanno seguito per giungere a questa decisione?

«È presto, bisogna attendere le motivazioni che saranno molto importanti».

Quali sono state le anomalie più grandi che hanno contraddistinto i vari gradi di giudizio?

«Una campagna mediatica che forse non ha precedenti in Italia, che ha creato un mostro in questa figura di chirurgo che probabilmente era soltanto un chirurgo azzardato, un chirurgo che probabilmente rischiava più degli altri. E intorno a questa figura si è creato il mostro soprattutto attraverso la televisione che ogni anno mandava in onda il processo a Brega Massone, dipingendolo sempre come un mostro».

Si riferisce anche al docufilm L’infiltrato – Operazione clinica degli orrori, andato in onda su Rai 3 nel 2014?

«Si, insieme a tutta la campagna di stampa. Ma Brega Massone non è un mostro, ripeto. Purtroppo, è noto come i mass media si appiattiscano sulla tesi dell’accusa e fanno da megafono alle Procure. Alla tesi dell’accusa e alla tesi dei consulenti dell’accusa che sono i consulenti di una parte e che non sono mai stati verificati con una perizia super partes».

Invece in sede civile la stessa perizia aveva dato ragione a Brega Massone, anche questa è una anomalia.

«Si è purtroppo verificata una serie di gravi anomalie in questo processo, come ho detto prima, a causa di una grossa pressione mediatica e forse anche a causa della magistratura milanese che aveva un desiderio di punire in modo esemplare questo personaggio e questa struttura sanitaria».

Si parla molto di super perizie, penso ad esempio al processo a Massimo Bossetti, riguardo al quale a breve si saprà se verrà concessa. Come mai si è reticenti nel concedere una perizia super partes?

«Perché a volte subentra la paura che l’esito della super perizia possa smentire l’accusa, e la tesi che piace alla gente, al senso comune e ai mass media».

In questo contesto si rende necessaria una separazione delle carriere tra giudici e pm, su cui l’Unione della Camere Penali sta raccogliendo le firme?

«Questa riforma è indispensabile perché l’Italia è l’unico Paese in Europa nel quale il pubblico ministero veste la stessa maglia del giudice».

Come ha accolto il suo cliente questa decisione?

«Il mio cliente è in carcere da ben 8 anni e mezzo, quindi posso raccontare la reazione della moglie che ha avuto un pianto liberatorio».

Forse in Italia c’è un abuso della carcerazione preventiva.

«Ci sono molte cose da riformare ma il nostro è un Paese a parole garantista ma sostanzialmente giustizialista».

PRESUNTI COLPEVOLI. GIOVANNI SCATTONE E SALVATORE FERRARO.

GIOVANNI SCATTONE. FINE PENA: MAI. Caso Marta Russo, Scattone: «Parlo tre lingue, ma adesso potrei fare l’imbianchino». L’uomo condannato per omicidio colposo per la studentessa: non voglio polemiche, rinuncio. Ma ci sono altri prof condannati, scrive Fabrizio Caccia su “Il Corriere della Sera”. Accanto a lui c’è la moglie Cinzia, che tutta la notte, anche con le lacrime agli occhi, ha tentato di dissuaderlo («Scusa Giò, domani che ci mangiamo, l’aria?»). Inutilmente, però. Giovanni Scattone ha deciso: con l’insegnamento, con la scuola, lui ha chiuso. Per sempre? «Sì, per sempre. Non tornerò indietro. È una parentesi della mia vita che si chiude. Troppe polemiche. Insegno nei licei da dieci anni e ad ogni inizio è la stessa storia. Basta, sono stufo. Certo, mi dispiace. E ora sono anche un po’ preoccupato. È un salto nel vuoto. Rinuncio a un lavoro sicuro. Novecento euro al mese che ci avrebbero fatto comodo. Per fortuna, sono un tipo coraggioso». La mamma di Marta Russo dice che «è stata fatta giustizia» e che lei è «soddisfatta, soprattutto per i ragazzi». «Va bene così. La rispetto, non dico altro. Contenta lei, contenti tutti». Ha già pensato a cosa farà domani? «Sinceramente non so. Scherzando, potrei dire che ho appena finito di tinteggiare le pareti del corridoio di casa, non son venute male, forse ho scoperto un mondo... Vedremo: conosco tre lingue, francese, inglese e spagnolo, potrei fare delle traduzioni, correggere delle bozze, inventarmi ghostwriter, lavorare come storico in qualche istituto di ricerca privato... Ma ho quasi 50 anni e non sarà facile. Magari andrò via dall’Italia, cercherò qualcosa in Europa». Le reazioni politiche, dopo la sua rinuncia, sono tantissime. Che cosa risponderebbe se qualche partito dovesse offrirle una candidatura? «No grazie. Vorrei restare fuori da certi giochi. Non m’interessa. A me piacerebbe avere una vita normale». Secondo la Cassazione lei è l’assassino di Marta Russo. Il passato non si cancella. «Io non ho ucciso Marta Russo e mi porterò sempre nel cuore la speranza che, prima della fine della mia vita, possa venir fuori la verità. In altri casi di cronaca è successo: la verità si è saputa anche dopo 30 anni». Più dura adesso o più dura quando la rinchiusero a Regina Coeli? «Fu più dura all’epoca, senza dubbio. Ci passai più di un anno, ma resistetti. Avrei potuto fare come Gardini o Cagliari. Togliermi la vita. Riuscii a non farlo. Ora è diverso. Qualcosa per andare avanti la troverò». Roberto Giachetti (Pd), vicepresidente della Camera, ha scritto questo tweet: «Rispetto dolore della mamma di Marta Russo. Ma se neanche espiazione della pena riabilita una persona, finisce stato di diritto». «Io sono stufo di tutte le polemiche, perciò non dico nulla. Faccio presente, però, che nel mondo della scuola non sarei stato io l’unico professore con una condanna alle spalle. Eppure nessuno ci bada. Forse pago l’estrema “mediaticità” del caso. Comunque ormai ho deciso. Mi dispiace però, anche per un altro motivo...». Quale? «In questo Paese, degli ex terroristi sono finiti addirittura in Parlamento. Altri, dopo aver espiato la loro pena, oggi tengono conferenze, scrivono libri. Eppure in tanti dicono adesso che io non posso fare l’educatore, che sono pericoloso per i miei studenti. Pazienza, la mia coscienza mi dice invece che potrei insegnare. Purtroppo, non c’è più la giusta serenità». I suoi studenti che dicono? «Mi consola molto la mail che mi ha appena mandato una mia ex allieva: mi ha scritto che grazie a me ha deciso di continuare dopo il diploma e che studierà Storia all’università. Mi basta questo. Ora spegnete le luci, per favore». 

Scattone, il tribunale ha detto: 5 anni e 4 mesi. Il popolo ha detto: fine pena mai, scrive Angela Azzaro su "Il Garantista l'11 settembre 2015. Da ieri possiamo dormire sonni meno tranquilli. In Italia la condanna non viene decisa da un tribunale, con tre gradi di giudizio, la valutazione delle prove, un’accusa e una difesa. Viene decisa dal popolo che dello Stato di diritto se ne frega. E così che Giovanni Scattone, dopo le polemiche per l’assegnazione di una cattedra, ha deciso di lasciare. Ha rinunciato al posto e – parole del suo avvocato -si trova ora in mezzo a una strada: “Se la coscienza – ha scritto all’Ansa – mi dice di poter insegnare, la mancanza di serenità mi induce a rinunciare all’incarico”.

Scattone è stato condannato a 5 anni e 4 mesi per l’omicidio colposo (aggravato) di Marta Russo, uccisa da un colpo di pistola nei giardini della Sapienza. Era il 1997. Con lui è stato condannato per favoreggiamento Salvatore Ferraro. Scattone si è sempre dichiarato innocente. Ma ha comunque pagato i suoi conti con la giustizia e ha poi cercato di rifarsi una vita. Come è normale. Come è giusto che sia. Come, soprattutto, recita la Costituzione all’articolo 27, quando indica nella pena non uno strumento di vendetta ma di rieducazione. Scattone c’ha creduto, ha vinto il concorso per avere una cattedra e grazie alle nuove assunzioni ha ottenuto il posto. Ma non aveva fatto i conti con qualcosa che la Costituzione non dice, che la civiltà dovrebbe ostacolare. Non ha fatto i conti con la vendetta, l’idea che se hai sbagliato non potrai mai e poi mai ritornare nel consesso umano e civile. Scattone nella lettera in cui rinuncia alla cattedra ha scritto parole durissime. Ha detto che gli si vuole impedire una vita da cittadino normale e che quello che è accaduto non è degno di un Paese civile. La sua decisione di lasciare è di fatto una sconfitta per tutti noi, la sconfitta di chi davvero pensa che la società, la civiltà che abbiamo costruito, siano abbastanza forti da permettere a una persona, che ha sbagliato, di pagare il suo debito e di riprendere a vivere. Qui sta l’ipocrisia. Perché in realtà questa idea non vale più. Si applicano le norme, ma poi vince ormai la cultura della vendetta, dell’occhio per occhio, dente per dente. Se una persona ha sbagliato, è bollata a vita, è condannata a vita. Il processo che ha condannato Scattone e Ferraro è stato uno dei primi basati principalmente su indizi e non su prove. E’ stato cioè uno dei primi grandi processi mediatici, dove ha contato più la pressione popolare che lo Stato di diritto. Da qui quella sentenza a metà, quei 5 anni e 4 mesi per omicidio colposo come se i giudici avessero, nel dubbio, deciso di infliggere il minimo indispensabile. Nel dubbio, si sa, si dovrebbe assolvere. Ma erano troppe le pressioni, troppa l’attenzione di giornali e tv per non dare loro in pasto un colpevole. Comunque sia andata, la Cassazione nel 1997 ha deciso per una condanna definitiva a 5 anni e 4 mesi. La condanna è stata scontata. Il popolo urlante, però, dice che non basta. L’obiezione più diffusa è che così si manca di rispetto ai genitori di Marta Russo. Loro hanno perso una figlia, mentre Scattone può insegnare. Confutare questo discorso è centrale. Dirimente. Perché se ci affidiamo a questo ragionamento davvero possiamo chiudere i tribunali, stracciare il codice penale, dare fuoco alla Costituzione. La terzietà del giudice rispetto al dolore dei parenti della vittima o della vittima stessa è fondamentale per non ricadere nella vendetta, in una società che non ha fiducia nel cambiamento delle persone. Non dando una seconda possibilità a Scattone è come se dicessimo che l’essere umano non cambia, che la rieducazione è una utopia, che l’unico modo che abbiamo per garantire il rispetto della vita è quello di vendicarci contro chi sbaglia. Non dando una seconda possibilità a Scattone, non stiamo dando una possibilità a noi, alla società di cui facciamo parte per uscire dal clima di odio e di livore che si stanno affermando. Ecco perché sarebbe bello che Scattone, come auspicato anche dal suo avvocato, Giancarlo Viglione, cambiasse idea e non si facesse intimorire da chi oggi lo perseguita.

In Italia il garantismo è sempre più a rischio, scrive  su “L’Internazionale”. Giovanni Scattone era stato condannato per l’omicidio di Marta Russo, ormai quasi una ventina d’anni fa, in un processo iperamplificato dai mezzi d’informazione e farraginoso. Ha scontato cinque anni per omicidio preterintenzionale, è uscito di galera, e si è fatto anche un decennio di precariato nella scuola, poi quest’anno aveva avuto una cattedra di ruolo in un liceo romano. Oggi la sua rinuncia al posto di lavoro dopo la campagna accusatoria montata dal Corriere della Sera e ripresa da vari giornali – secondo la quale era una vergogna avergli assegnato una cattedra statale – conclude nel modo peggiore una delle settimane più brutte della storia recente italiana per quello che riguarda i temi della giustizia; certificando, se mai ce ne fosse bisogno, il dilagare di quello che un bel libro recente di Stefano Anastasia, Manuel Anselmi e Daniela Falcinelli ha definito Populismo penale – un giustizialismo tanto vigoroso da essere una mentalità politica. La settimana era cominciata con la pubblicazione delle cinquantadue pagine della corte di cassazione che chiarivano le ragioni dell’annullamento della sentenza sull’omicidio di Meredith Kercher: c’era scritto che il processo aveva avuto “un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o ‘amnesie’ investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine”. Tra le motivazioni di questo fallimento eclatante (che ha compreso dibattimenti estenuanti, anni di carcere per gli imputati tra cui molta custodia cautelare) sempre la corte ha scritto: L’inusitato clamore mediatico del delitto Kercher e i riflessi internazionali della stessa vicenda, non hanno certamente giovato alla ricerca della verità provocando un’improvvisa accelerazione delle indagini nella spasmodica ricerca di colpevoli da consegnare all’opinione pubblica internazionale. E poi ha rilevato un altro elemento interessante, quando dice che se le indagini non avessero risentito di tali colpevoli omissioni, si sarebbe con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quantomeno di affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell’estraneità di Knox e Sollecito. La sentenza sul processo di Perugia e il linciaggio mediatico di Scattone mostrano che se c’è una cultura diffusa, vincente, condivisa è quella di un giustizialismo vendicativo, bilioso, regressivo con tratti fascistoidi che ha largo spazio anche nei media che si proclamano progressisti, laici, fanatici della costituzione. Quell’impronta garantista che i padri costituenti avrebbero voluto far diventare parte della cultura sociale del paese di Cesare Beccaria oggi è un alone fantasmatico, evanescente. Più che di giustizia e di avversari politici l’opinione pubblica ha bisogno di colpevoli morali che svolgano in modo efficace la funzione di capri espiatori. Topi elettrizzati. Era già successo qualche mese fa, per esempio, con la nomina di Adriano Sofri nella consulta sulle carceri voluta dal ministro Orlando: massacrato dai giornali, anche quella volta Sofri aveva alla fine rinunciato. Se prendiamo il caso simile di Giovanni Scattone, ci rendiamo conto che per moltissime persone il diritto penale non è sufficiente ma occorre una specie di surplus di giudizio, che Anastasia e gli altri definiscono diritto penale emozionale, in cui i diritti della vittima sono potenzialmente infiniti (l’abuso del paradigma vittimario di cui hanno scritto molti: per una buona sintesi, Daniele Giglioli, Critica della vittima). In uno stato di diritto scambiato per un tribunale teologico giacobino, non ci sarà mai risarcimento, e quindi si può continuare a esercitare la richiesta di vendetta anche oltre la sentenza definitiva, e il normale oblio; mentre i diritti del condannato – per esempio il suo diritto al reinserimento, al riscatto, o i semplici diritti civili – sono annullati. Quando per vent’anni si è paventato il rischio di una diseducazione giuridica di massa dovuta alla spettacolarizzazione dei processi, quando si faceva notare la nociva inutilità di contrastare il berlusconismo giocando tutto sul piano giudiziario, forse si doveva già immaginare che il risultato sarebbe stato quello di veder allargarsi il contagio del populismo penale anche a reati non commessi da politici. Oggi sembra che un processo non abbia valore se non comprende anche la riprovazione morale, la gogna, lo spettacolo (che obbrobrio sono i recital con la lettura delle intercettazioni fatta da attori!). E sembra che non ci sia conflitto politico, contrasto sociale che non sia d’altra parte fondato sullo stigma morale. La comunità civile desiderata dai giustizialisti è uno stato d’allerta etico dove si è sempre pronti a reagire come topi elettrizzati allo scandalo di qualcuno da poter condannare all’istante, per sentirsi consolati di appartenere al novero dei giusti. Giovanni Scattone è stato condannato e ha scontato la pena (compresa un’interdizione provvisoria dai pubblici uffici), Raffaele Sollecito e Amanda Knox sono stati assolti. Qualunque cosa si possa pensare delle loro idee, delle vicende giudiziarie e politiche che li hanno coinvolti, a loro va la solidarietà di chi crede in uno stato di diritto e in una cultura garantista.

Il caso Scattone è la fine dello stato di diritto. Sono passati vent’anni dal fatto, una sentenza definitiva per omicidio colposo (lo stesso reato ascritto a Grillo, per intenderci) è stata eseguita nella sua interezza. Ma questo non basta per il circo mediatico-giudiziario italiano, scrive Claudio Cerasa su “Il Foglio”. Al direttore - La rinuncia di Scattone all’incarico legittimamente ottenuto conferma che nel circo mediatico-giudiziario italiano esistono una pena ufficiale e una ufficiosa. Stavolta non c’entrano i giudici, c’entriamo noi. Penne e lingue che solleticano gli istinti delle fiere. Unica eccezione rimarchevole il ministro Stefania Giannini che a Panorama dichiara: “Manderei mia figlia a scuola da Scattone”. Sono passati vent’anni dal fatto, una sentenza definitiva per omicidio colposo (lo stesso reato ascritto a Grillo, per intenderci) è stata eseguita nella sua interezza. A norma di legge non prevedeva l’interdizione. Eppure al condannato si nega il diritto di riannodare i fili della propria, sfilacciata, esistenza. Marta Russo non risorge. Giovanni Scattone muore di nuovo. Annalisa Chirico. Ha ragione Roberto Giachetti: se neanche l’espiazione della pena riabilita una persona qui non siamo di fronte solo a un linciaggio, siamo di fronte alla fine dello stato di diritto.

Scattone e i "cattivi maestri", scrive Massimo Bordin su “Il Foglio”. Ho sempre pensato che l’espressione, largamente abusata, “cattivi maestri” contenga una contraddizione insanabile. Al maestro non dovrebbe essere richiesto di essere buono o cattivo. Un maestro sa delle cose e le insegna. Se non le sa o non è capace di insegnarle, semplicemente non è un maestro. L’insegnamento trasmette sapere e gli insegnanti per questo sono pagati, devono spiegare a mio figlio che, per esempio, chi ruba o uccide è sottoposto a processi e sanzioni, mentre tocca a me spiegargli perché non si deve rubare o uccidere. Questa è la prima cosa che ho pensato leggendo le dichiarazioni sulla vicenda di Scattone. La seconda riguarda il preambolo a ogni sentenza di tribunale: “In nome del popolo italiano”, non “In nome delle vittime” ai cui familiari non appartiene la sorte del condannato, almeno secondo i nostri codici. Tanto più a condanna scontata.

Caso Scattone: in uno stato moderno funziona così, scrive Francesco Felis su “Il Corriere della Sera”. Caso Scattone. Merita il trattamento che ha avuto? Ma uno Stato deve far riferimento al fatto che meriti o meno qualcosa, o che si sia pentito o no di qualcosa dopo che ha espiato la pena? Premettiamo che Scattone è stato condannato per omicidio colposo, cioè per aver agito con leggerezza, o senza rispettare norme di condotta regolamentari, ma senza volontà specifica di uccidere. Ma se anche fosse lui l’omicida, nonostante quello che lui afferma, nonostante che il processo abbia evidenziato metodi, da parte del PM, di acquisizione delle cosiddette prove metodi un po’ dubbi, se nonostante tutto questo fosse il vero autore del fatto, ha espiato la pena. Con l’espiazione della stessa chiude ogni pendenza verso la società. Perciò è inutile interrogare la persona offesa, come se dovesse dare un perdono o ricevere qualcosa. E’ duro, sembra crudele dirlo, ma verso la società i conti sono chiusi, e perciò perchè non può esercitare certe attività con rilievo verso la società e lo Stato, come se avesse sempre bisogno di un assenso dei parenti della vittima? Attribuire, di fatto, diritti di veto o di altro genere, non è legittimo e non è da Stato di diritto. La pena, inoltre, è, deve essere riabilitativa. Per cui, se anche fosse stato colpevole, per lo Stato lo è, lui dice di no, la famiglia della vittima di sì, ma tutti questi sono rapporti privati tra loro, per lo Stato e la società si è riabilitato. La pena ha avuto una funzione rieducativa e lui si è rieducato. Perciò è contraddittorio presumere una rieducazione e al contempo pretendere che per svolgere un lavoro debba avere un consenso, peggio perdono, dai parenti della vittima. Sarà brutale dirlo, ma non funziona così uno Stato moderno. Funzionava così nei Promessi Sposi (episodio di Fra Cristoforo che chiede perdono) o nel Medio Evo.

Scattone no, i terroristi sì. La strana morale dei forcaioli. L’omicida di Marta Russo ha rinunciato alla cattedra. Dalla quale non sono mai scesi Curcio, Negri e gli altri, scrive Antonio Rapisarda su “Il Tempo”

In Italia non tutti i «cattivi maestri» hanno la stessa sorte. Giovanni Scattone, ad esempio, non insegnerà più. Dopo le polemiche scatenate per l’assegnazione della cattedra di liceo (dove avrebbe dovuto tenere lezioni di Psicologia), l’ex assistente di Filosofia del Diritto condannato per l’omicidio di Marta Russo - e sempre proclamatosi innocente - alla fine ha scelto di rinunciare a insegnare per mancanza di serenità e per chiudere una polemica, come ha spiegato ieri il nostro direttore Gian Marco Chiocci, animata da una «gogna popolare che ha sancito la fine dello stato di diritto». Vale per tutti i «condannati» lo stesso ragionamento? Tutti hanno subito la stessa «gogna» di Scattone? Non proprio. In Italia, si sa, una cattedra - reale o virtuale - non si nega a nessuno: ci sono finiti ex terroristi, ex fiancheggiatori, condannati di tutti i tipi. Molti di questi la sinistra italiana - così veloce nell’invocare censure e limitazioni per CasaPound in queste ore - si è ben guardata dall’isolarli o dall’osteggiare quando sono, letteralmente, saliti in cattedra o alla ripreso la ribalta con tesi non proprio in linea con la socialdemocrazia. Quella che vi proponiamo allora non è ovviamente una lista di proscrizione - lungi appunto dallo spirito del Tempo - ma un promemoria del doppiopesismo della sinistra all’italiana sì. «In Italia insegnano altri condannati - ha spiegato non a caso lo stesso Giovanni Scattone - e sono stati riabilitati tanti ex detenuti che hanno avuto condanne perfino più pesanti della mia. Penso ad ex brigatisti a cui è stata data la ribalta dell'università, a intellettuali stimati e ben retribuiti, ai cosiddetti "cattivi maestri" eletti». In cattedra, più volte, è finito appunto Renato Curcio, il fondatore delle famigerate Brigate Rosse. Lui ha messo in chiaro: «Io parlo solo del mio lavoro di ricercatore, il resto non mi interessa. Non salgo in cattedra e non sono un cattivo maestro». Se non sale metaforicamente in cattedra, resta il fatto che l’ideologo delle Brigate Rosse è stato invitato qualche anno fa, tra le altre, all’Università di Lecce in merito al suo libro «Il carcere speciale» e all’Università del Salento. E alle vibrate proteste del centrodestra - nel silenzio delle forze di centrosinistra - il professore e autore dell’invito replicava ai tempi: «Criticare l'invito di Renato Curcio a Lecce è un atto di intolleranza». E confermava: «Alza la voce solo certa politica». Decano della «cattedra» è anche Toni Negri, tra gli animatori di Potere Operaio, filosofo ed ex parlamentare eletto nelle liste radicali. Bene, il teorico dell’autonomia, che può «vantare» una condanna a dodici anni nel processo «7 aprile», è stato un habitué dei seminari della gauche negli atenei parigini e continua a essere un guru della sinistra no-global italiana. Più volte ospite della trasmissione L’Infedele di Gad Lerner in prima serata come «docente di Harvard», c'era chi ricordava al presentatore icona della sinistra televisiva che forse era necessario completare la descrizione dell’ospite con l’articolo di Potere operaio dove si invitano i proletari a colpire «il corpo fisico del potere» (Lerner ha replicato che «Negri ha da tempo saldato per intero i suoi conti, scontando fino all'ultimo la sua condanna detentiva»). Per alcuni dei protagonisti della stagione della contestazione, poi, se non ci sono stati ricollocazioni accademiche o mediatiche, il rientro nella scena non ha scatenato scandalo tra i benpensanti. Che dire, ad esempio, di Oreste Scalzone? Il capo di Autonomia Operaia è stato più volte invitato a tenere incontri dagli studenti universitari dei collettivi (incontri finiti spesso in «scontri») e anche di assemblee, come quelle tenute nel 2007 a La Sapienza dove fu invitato per ricordare la cacciata del leader della Cgil Lama. Anche un omicida pluricondannato come Cesare Battisti continua ad avere - tra Brasile e Francia - adulatori e sostenitori tutti di impronta rigorosamente progressista. Altri «ex» invece hanno avuto un vero e proprio posto di lavoro, altro che strali dalla sinistra di governo. È il caso di Franco Piperno, il fondatore di Potere Operaio nominato - dopo la condanna per banda armata e associazione sovversiva - nel 1998 assessore ai Vigili urbani a Cosenza dall’allora sindaco socialista Giacomo Mancini. Ma la ciliegina sulla torta è ciò che è successo nella giunta di Giuliano Pisapia (il censore della manifestazione di CasaPound) con Maurizio Azzolini «promosso» capo di gabinetto del vicesindaco di Milano Guida. Azzolini è rimasto nell’immaginario per alcune foto che lo ritraggono con la P-38 in mano il 14 maggio 1977 a Milano, giorno in cui morì l’agente Antonio Custra. Bene, per Pisapia Azzolini ha espiato la pena (non è suo il colpo che ha ucciso l’agente) e pertanto oggi può ricoprire «incarichi di responsabilità». In questo caso «l’opportunità politica» tanto sbandierata dal sindaco di Milano per giustificare il divieto imposto alla festa di CasaPound - associazione legalmente riconosciuta - non vi era. Altro peso, altra misura.

Marta Russo, 20 anni fa il «delitto della Sapienza»: la dinamica, i testimoni, la condanna di Scattone e Ferraro. Scrive Angela Geraci il 2 maggio 2017 su “Il Corriere della Sera”. Marta Russo è una studentessa romana di Giurisprudenza ed ex campionessa juniores di scherma. Ha 22 anni quando la mattina del 9 maggio del 1997, alle 11,42, viene colpita da un proiettile alla nuca mentre cammina con un’amica in un vialetto all’interno dell’Università La Sapienza, a Roma. Il colpo entra da sotto l’orecchio sinistro e le condizioni della ragazza appaiono subito molto gravi. I testimoni raccontano che nessuno si è avvicinato a Marta prima dello sparo: il colpo è partito da lontano. Molti studenti - come riporta uno dei primi lanci dell’agenzia Ansa di quel giorno - «dicono di aver sentito una sorta di “tonfo sordo” che farebbe pensare che sia stato utilizzato un silenziatore». L’amica di Marta Russo, Iolanda Ricci, dirà di aver pensato inizialmente a un malore. Buio fitto sul movente. È l’inizio di una vicenda giudiziaria lunga e molto complicata, un rompicapo per investigatori e magistrati che appassiona giornali e opinione pubblica.

La scena del crimine, il cortile dell’Università. Negli investigatori si fa subito strada il convincimento che il proiettile che ha colpito Marta sia partito dai bagni a piano terra della facoltà di Statistica. Le indagini si concentrano anche sulla ditta che si occupa delle pulizie nell’ateneo.

Marta Russo viene dichiarata morta dopo cinque giorni di agonia: alle 22 del 13 maggio 1997. I genitori Donato e Aureliana donano gli organi della ragazza, così come lei voleva. Il proiettile che ha ucciso Marta, frantumandosi in undici schegge, è un calibro 22 del peso di 2,6 grammi.

Ai funerali di Marta Russo, il 16 maggio 1997, partecipano migliaia di persone (tra cui anche Romano Prodi, Walter Veltroni, Luciano Violante, il ministro Luigi Berlinguer).

Il lavoro degli investigatori (un pool di 80 persone) continua e c’è un significativo passo avanti: il 19 maggio vengono trovate tracce compatibili con polvere da sparo sul davanzale della finestra dell’aula 6 dell’Istituto di Filosofia del Diritto della facoltà di Scienze Politiche. Tutte le persone che lavorano nell’Istituto - docenti, assistenti e personale amministrativo - vengono interrogate. In foto un momento della ricostruzione degli inquirenti, nel 1998.

Il 12 giugno 1997 c’è il primo arresto: si tratta del professore Bruno Romano, direttore dell’Istituto di Filosofia del diritto. Il docente finisce ai domiciliari con l’accusa di favoreggiamento perché secondo l’accusa avrebbe chiesto a chi era presente negli uffici quel 9 maggio di tenere la bocca chiusa. Una settimana dopo tornerà libero e due anni dopo, il 1° giugno 1999, sarà assolto in primo grado.

A portare all’arresto del professor Romano è stata la testimonianza di una sua assistente, Maria Chiara Lipari. La ragazza fa anche i nomi di chi era presente quel giorno nell’Istituto di Filosofia del diritto (e dice anche di ricordare che c’era «un’atmosfera strana»): Gabriella Alletto, 45enne, segretaria; il ricercatore Salvatore Ferraro, 30 anni; l’assistente Giovanni Scattone, 29; l’usciere Francesco Liparota, 35 anni. In foto Maria Chiara Lipari nel 2000.

Il 14 giugno 1997, a tarda sera, vengono arrestati Giovanni Scattone (in foto lo scatto segnaletico della polizia), Salvatore Ferraro e Francesco Liparota: l’accusa è concorso in omicidio volontario.

Francesco Liparota. L’usciere dice di essere stato nell’aula 6 la mattina del delitto e di aver visto Scattone sparare e mettere la pistola nella cartelletta di Ferraro. Poi ritratta tutto spiegando di aver avuto paura e di essersi sentito sotto pressione. Sarà rinviato a giudizio e l’accusa chiederà per lui una condanna a 5 anni e 9 mesi ma verrà assolto in primo grado. Condannato a 4 anni per favoreggiamento nel primo processo di appello nel 2001; condannato a 2 anni (sempre per favoreggiamento) nell’appello bis del 2002 e infine assolto definitivamente nel 2003.

Scattone e Ferraro si dicono fin da subito totalmente innocenti ed estranei alla vicenda. Il processo inizia il 20 aprile del 1998 nell’aula bunker del Foro italico di Roma. Va in scena il balletto delle dichiarazioni dell’importante - e controversa - super testimone: la segretaria Gabriella Alletto (in foto ai tempi del processo di primo grado). Secondo gli inquirenti c’era anche lei nell’aula 6 quel 9 maggio insieme a Liparota, Scattone e Ferraro. La 45enne a lungo nega di essere stata lì, poi dichiara invece di aver visto i due assistenti: «Scattone era nell’aula 6 e aveva una pistola in mano» mentre Ferraro «era scostato dalla finestra, non poteva vedere quello che succedeva di sotto». Dirà di aver cambiato versione perché sottoposta a pressioni da parte di inquirenti e magistrati. Grandi polemiche scoppiano quando viene reso pubblico il video di un vecchio interrogatorio in cui la Alletto giurava di non aver visto nulla. Alla fine sarà rinviata a giudizio per favoreggiamento e condannata in primo grado a un mese di reclusione.

La sentenza di primo grado arriva il 1° giugno del 1999, dopo 70 udienze: Giovanni Scattone viene condannato a 7 anni di reclusione per omicidio colposo mentre a Salvatore Ferraro sono inflitti 4 anni per favoreggiamento personale. I due - per cui l’accusa aveva chiesto 18 anni per omicidio volontario ipotizzando «uno scellerato gioco criminale» alla base del delitto - vengono scarcerati per decorrenza dei termini di custodia cautelare. Assolti Liparota e il professor Romano. In foto Scattone e Ferraro, che fin da subito si sono detti innocenti e continueranno a farlo sempre, il giorno della sentenza.

Al primo processo d’appello che inizia il 3 maggio del 2000, il procuratore generale Luciano Infelisi chiede 22 anni per Scattone, 16 per Ferraro e 4 per Liparota. La sentenza di appello arriva il 7 febbraio e aumenta le pene per gli assistenti: 8 anni a Scattone, 6 a Ferraro. Liparota, assolto in primo grado, viene condannato a 4 anni per favoreggiamento. Ma la Cassazione, il 6 dicembre 2001, decide che il processo è tutto da rifare perché alcune prove sono «illogiche e contraddittorie» e le testimonianze della Alletto e di Lipari sono considerate inattendibili.

Il secondo processo di appello inizia il 15 ottobre 2002. La sentenza arriva il 30 novembre 2002: Giovanni Scattone viene condannato a 6 anni, Salvatore Ferraro a 4 anni e Francesco Liparota a 2 anni.

L’ultimo atto giudiziario del «delitto della Sapienza» arriva il 15 dicembre 2013: la Cassazione condanna definitivamente Scattone a 5 anni e 4 mesi di reclusione per omicidio colposo; Ferraro a 4 anni e 2 mesi per favoreggiamento; e assolve Liparota. La sera stessa Giovanni Scattone viene portato in cella mentre con il carcere preventivo Ferraro ha già scontato la sua pena. La Cassazione decide di cancellare per lui l’interdizione all’insegnamento dato che è ritenuto colpevole di omicidio non volontario. Esce da Rebibbia il 2 aprile 2004 quando viene affidato in prova ai servizi sociali: in tutto ha trascorso in carcere 2 anni e 4 mesi. L’arma del delitto non è mai stata trovata. Scattone continua a dichiararsi innocente e nel 2007, a dieci anni dalla morte di Marta Russo, scrive un lungo articolo su L’Europeo: «Il delitto dell’università rappresenta uno dei più clamorosi errori giudiziari degli ultimi anni - scrive adombrando l’ipotesi di una pista terroristica e ricordando che il 9 maggio è l’anniversario dell’uccisione di Aldo Moro - In realtà nessuna delle domande più ovvie («Chi è stato? Da dove? Perché?») ha ricevuto a tutt’oggi una risposta minimamente plausibile». Nel 2001 ha sposato Cinzia Giorgio, ragazza che si era innamorata di lui durante il processo e gli aveva scritto lettere quando lui era in galera. Nel 2015 si è tornato a parlare di lui quando ha ottenuto una cattedra alle superiori.

Nel 2011 il tribunale di Roma ha condannato Ferraro e Scattone a risarcire i familiari di Marta con circa un milione di euro. Ferraro è stato anche condannato a versare alla Sapienza 28mila euro come risarcimento per i danni d’immagine.

La famiglia I Russo. Il padre Donato, Tiziana, sorella di Marta, e la moglie Aureliana. Tiziana dichiarerà anni dopo: «Marta è morta. È stata uccisa da una pallottola. C’è la sua tomba, ci sono i suoi ricordi, c’è la sua figura in tante iniziative pubbliche. Ma ad ucciderla è stato Giovanni Scattone con la complicità di Salvatore Ferraro. Questa è la verità. Storica e processuale. Una verità grande come la memoria di una studentessa, assassinata per gioco all’università».

Il Prof. Giovanni Scattone rinuncia alla cattedra e diventa Giovanni L’Assassino. Fuori dal Coro, scrive Fabio Cammalleri il 10 Settembre 2015 su "La Voce di New York". La vicenda di Giovanni Scattone, condannato per l’omicidio di Marta Russo, la studentessa di 19 anni uccisa alla Sapienza il 9 Maggio 1997, e dissuaso da una “moral suasion collettiva” a rinunciare al ruolo di insegnante, pur avendo espiato la pena, pur riabilitato, ci dice, una volta di più, che in Italia la barbarie giuridica è preminente: oggi, dopo il processo, ieri, nel processo. Giovanni Scattone, Professore di ruolo (la nomenclatura aggiornata forse è diversa, ma ci siamo capiti), ha rinunciato alla cattedra dell’istituto professionale in cui avrebbe dovuto insegnare. Condannato per omicidio colposo nei confronti di Marta Russo, da qualche giorno era stato investito da ogni sorta di critica indiretta. Critiche allusive: certo, ha scontato la pena, però si può far insegnare psicologia a un assassino? Critiche velate: certo, era stato riabilitato, però ‘almeno’ l’interdizione dai pubblici uffici? Critiche ricattatorie: certo, era tra i legittimi destinatari della Legge di assegnazione definitiva delle cattedre, però chi è incensurato e rimane fuori? Per quanto indirette, evidentemente hanno fatta breccia nella coscienza assente di Giovanni Scattone “l’Assassino”; il quale ha così motivato la rinuncia: “se la coscienza mi dice, come mi ha sempre detto, di poter insegnare, la mancanza di serenità mi induce a rinunciare all’incarico per rispetto degli alunni che mi sono stati affidati”. Non male, per una coscienza inesistente. Sì, perchè, Giovanni Scattone ha capito di essere non più un uomo, più o meno cosciente, ma semplicemente, irreversibilmente, un assassino: e con la certezza che solo il nostro magnifico Processo Penale e il nostro esemplare Ordine Giudiziario possono assicurare. Giovanni L’Assassino, pronto per la leggenda nera, come Ivàn Il Terribile, Jack Lo Squartatore e via così. Giustizia è fatta. Quasi, in verità: perchè, a voler essere precisi, misura per misura: sicchè un bel suicidio sarebbe l’ideale. Ma, dobbiamo pur sempre fingere di essere una comunità civile (una specie di Duca Vincenzo Collettivo), che deve saper distinguere Amos da un cannibale, come auspicherebbe Leo Strauss; perciò, titoli di coda ed happy end: è solo una scelta di “buon senso”, di “opportunità”, non imposta (mai sia) e tuttavia benvenuta. Ipocriti: fino alle midolla e oltre. Ma la vicenda ultima di Giovanni Scattone ci permette di tornare brevemente alla penultima, cioè al suo processo, alla sua condanna. Anzi, ai cinque processi. Perchè tanto limpide erano le prove, tanto certi erano i fatti, che alla condanna si è arrivati per consunzione. Ma non tornerò alla sentenza di condanna per la quale un Procuratore Generale di Cassazione, chiedendone l’annullamento, volle dire: “Ci sono pagine che in uno Stato di diritto non vorrei mai leggere”; precisando che bisognava “gettare alle ortiche le dichiarazioni della Alletto e di Maria Chiara Lipari”, cioè dei testimoni (diciamo) posti al centro dell’accusa; nè vorrò tornare al videotape in cui proprio la testimone Alletto crollava in lacrime, scongiurando di non essere costretta a mentire contro gli indagati; o al “la prenderemo per omicida”, graziosamente sillabatole da un pubblico ministero, per sospingerla vieppiù verso la verità (e poi titolo di un libro); nè alle quindici traiettorie ipotizzate, fra piano terreno e primo piano, da cui poi si trascelse la famosa Aula n. 6 dell’Istituto di Filosofia del Diritto, sul cui davanzale, però, si rinvennero solo reperti pulviscolari, a “forte possibilità” di provenire da inquinamento atmosferico e non da polvere da sparo; nè sulla postura della vittima che, se fosse stata colpita dall’Aula 6, avrebbe dovuto tenere il capo chinato verso terra e verso sinistra, come cercando qualcosa (postura mai allusa da qualcuno), e non ritto e in avanti, come quando si cammina: ma così l’unica traiettoria possibile sarebbe dovuta provenire dal primo piano (bagno dei disabili di Statistica), dove mai Scattone potè dirsi fosse stato; e non voglio riandare nemmeno alla genesi delle testimonianze -Maria Chiara Lipari che, dicendo di essere entrata nell’Aula 6 ma di non aver visto Scattone, si sente rispondere dai pubblici ministeri che allora l’indiziata è lei; così indica altre persone, fra le quali la suddetta Alletto, che nega, e allora è lei l’indiziata, costretta alla performace del videotape; no, non tornerò a cose così. E manco a dirlo, tutti, CSM, ANM, stipendi e pensioni, sono rimasti dov’erano. Non occorre tornarci: perchè sono materiali sicuri e inossidabili, che verranno utili al tempo in cui in Italia si costruirà una giusta Colonna Infame. Invece vorrei solo soffermarmi su una curiosità. Fu così equo e “diritto” quel processo, che qualcuno volle persino supporre una sorta di condanna “strategica”. Il Prof. Alberto Beretta Anguissola sostenne che la prima condanna (quella che pose le basi, per così dire) avrebbe inteso salvare i pubblici ministeri dai pasticci: giacchè, essendo contemporaneamente impegnati nelle indagini per l’omicidio del Prof. D’Antona, una clamorosa assoluzione li avrebbe indeboliti. L’estensore della sentenza di condanna, il Dott. De Cataldo, noto scrittore di provvedimenti giudiziari e di romanzi, lo citò per danni: ma non si è mai saputo da dove mai il Prof. Beretta Anguissola avesse cavato simile ipotesi, perchè alla citazione l’attore rinunciò. Il Dott. De Cataldo in uno dei suoi libri (In Giustizia, questo, una sorta di memoire) lepidamente liquidò l’ipotesi sul registro dell’assurdo: proponeva una teorica conversazione telefonica fra un ministro X o un Senatore Y, che più o meno dettavano l’immonda strategia. Assurdo, ovviamente. Sebbene, solo immaginare che l’innocenza di un imputato possa divenire oggetto di raccomandazione, come un voto di matematica o un appuntamento per la TAC, fa correre al passaporto. Che il Prof. Anguissola, studioso di Marcel Proust, non pensasse al telefono? Ma a les intermittences du coeur, al palpitante moto verso la giustizia? Alla sfuggente, misteriosa ma necessaria vastità dell’onere interpretativo, per cui, con una pistola a canna lunga ma anche corta, silenziata ma anche no, arrugginita ma da troppo per essere quella, e che nessuno ha mai trovato, un giorno, Giovanni Scattone, per gioco, per sperimentare il delitto perfetto (e, a questo punto, proprio del buon Raskol’nikov dovremmo scordarci?), o per nessun motivo, divenne Giovanni l’Assassino? E Marta Russo?  E che c’entra, Marta Russo?

Il caso Marta Russo, la finestra dell’orrore e una sentenza irrisolta. Pressioni e falle dell’inchiesta Così si è arrivati alla condanna per omicidio colposo, scrive Goffredo Buccini l'11 settembre 2015 su "Il Corriere della Sera". La finestra di Marta, ormai, quasi si confonde tra le altre, anonime, del primo piano, sul retro di Giurisprudenza. La vecchia serranda di legno marrone abbassata a metà, le doghe ingrigite della tenda, il condizionatore spostato sotto il davanzale rispetto alle foto di diciott’anni fa. Da quella finestra, alle 11 e 42 del 9 maggio 1997, partì il proiettile calibro 22 che stroncò la vita di Marta Russo, a quindici metri di distanza, lì in mezzo al vialetto, dove è stata piantata una magnolia dai genitori. E a quella finestra è rimasta incatenata la vita del colpevole, Giovanni Scattone, ben oltre la condanna definitiva a 5 anni e 4 mesi. Nell’aula 6 del dipartimento di Filosofia del diritto, da dove Scattone, secondo la sentenza, ha sparato, ora ci tengono i seminari. Chiedo: non fa impressione? «Ma lei quanti crede che lo sappiano?», mi risponde sorridendo Andrea, classe 1988, quarta elementare diciott’anni fa, sbucando dalla porta del collettivo studentesco: «Lo sappiamo io e pochi altri». Delitto e processo sono rimasti imprigionati come Scattone, appesi a quella finestra dell’orrore, dentro una bolla di non detto che a quel tempo la gente ha tuttavia percepito, è diventata narrazione popolare ed è stata la dannazione successiva dell’ex assistente della Sapienza, la sua pena accessoria e impronunciabile che ancora oggi lo costringe a rinunciare a una cattedra. Andrea ha appena due anni meno di Scattone allora, ma pare un ragazzo, come molti di una generazione consegnata dalla precarietà a un’infinita adolescenza. Fisico da rugby, barbetta, garantismo tenace: «L’hanno condannato per omicidio colposo, no?, mica è un pedofilo. Mica gli hanno dato interdizioni. Io dico, basta, rispettiamo le sentenze: perché non dovrebbe insegnare?». Ma il punto sta proprio là, per molti: nel percorso della sentenza e nel non detto. Per capirlo occorre un esempio astratto: se il professor X, né ubriaco né drogato, ammazza un passante con la macchina in un malaugurato incidente stradale e viene condannato per omicidio colposo, a quanti salterebbe in mente di impedirgli poi di tornare in cattedra? E allora dov’è la differenza con la condanna per omicidio colposo inflitta a Scattone? Proviamo a dirlo senza girarci attorno, scusandoci in premessa perché le sentenze, come ci ricorda Andrea, si rispettano. A quel colpo partito per sbaglio, maneggiando incautamente una pistola poi mai più ritrovata, senza immaginare che fosse carica, col braccio teso fuori dal davanzale della maledetta finestra, beh, non ci hanno mai creduto in tanti. Men che meno la pubblica accusa che, al tempo, ha insistito a chiedere 18 anni per omicidio volontario, costruendo un’ipotesi di scuola. Si chiama dolo eventuale: Scattone e il suo amico inseparabile, Salvatore Ferraro, secondo alcuni vera mente della coppia, sedotti da Nietzsche e dal superomismo decidono per gioco, sfregio o chissà quale bizza della mente l’azzardo di quello sparo tra la folla di studenti che passa sotto la finestra, ben consapevoli di poter colpire qualcuno e accettando l’evento (da qui il dolo).

E’ una tesi sostenibile? Forse sì, forse no, ma è l’unica, in totale assenza di qualunque altro movente. Mancano troppe cose nella pessima inchiesta che, sotto l’enorme pressione dell’opinione pubblica, la Procura di Roma mette in piedi allora. I testi sono tutti alquanto ballerini e vengono sollecitati a parlare con metodi non sempre amichevoli (famoso resta il video-choc di un interrogatorio dell’accusatrice chiave, Gabriella Alletto). Le perizie sono così contrastanti da lasciare aperta l’ipotesi alternativa di un colpo partito da un’altra finestra, in un bagno dell’istituto di Statistica, un piano sotto Giurisprudenza, e sotto Scattone e Ferraro (contro il quale, giova ricordarlo, resterà in piedi solo il favoreggiamento). Ciò nonostante, certo, si potrebbero condannare Scattone e Ferraro per l’omicidio odioso di una ragazzina che tutti vediamo figlia nostra. Oppure assolverli, perché mancano prove sicure. I giudici, che sono pur sempre umani, non se la sentono di prendere nessuna delle due strade più estreme e imboccano il vicolo stretto della condanna «dimezzata», con la tesi assai faticosa di uno sparo per errore. In fondo, una soluzione all’italiana che porta con sé italianissimi paradossi. Comprensibilmente la famiglia di Marta, sentendosi risarcita solo in piccola parte, continua a stare addosso al colpevole, anno dopo anno, chiedendone almeno contrizione e pentimento: ma Scattone continua a proclamarsi innocente, dunque, non può chiedere perdono. Come capita sovente in Italia, dove non arriva la giustizia arrivano l’ostracismo e la disumanizzazione del reo. La logica di molti genitori in queste ore («non voglio che un assassino faccia lezione a mio figlio») scavalca del tutto la sentenza e torna a pescare in quell’abisso di non detto dove guardiamo smarriti. L’idea stessa della riabilitazione implica un’etichetta che Scattone rifiuta. E’ un perfetto rompicapo etico e giudiziario. Nel quale, tuttavia, non bisogna dimenticare le vere vittime, i familiari di Marta, unici detentori di un diritto, per così dire, all’eterno rancore. Noi possiamo solo sperare che trovino pace. E, per quanti ci riescono, provare a restituire un’ipotesi di umanità anche a chi (forse) l’umanità se l’è negata un giorno giocando a fare Dio affacciato alla finestra. 

Si riapre il caso Marta Russo. Contraddizioni, testi e buchi nell’indagine: nel libro di Vittorio Pezzuto il confronto tra le ipotesi investigative. Analizzate le dichiarazioni che hanno portato alla condanna di Scattone e Ferraro, scrive Dimitri Buffa su “Il Tempo" l'1 Maggio 2017. Un omicidio senza movente e senza l'arma del delitto. Ma con due persone condannate in via definitiva. A dieci anni dall'omicidio di Marta Russo (9 maggio 1997) arriva un libro, molto accurato e preciso, che potrebbe contribuire a far riaprire il caso. Lo ha scritto Vittorio Pezzuto, che se l’è dovuto pubblicare da solo, tanta la pavidità delle case editrici in Italia nell'affrontare casi scomodi. In esso si ripercorrono quelle drammatiche settimane successive all'inspiegabile omicidio all'interno dell'Università La Sapienza a Roma per il quale furono condannati gli ex assistenti della cattedra di filosofia del diritto Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro. Nel libro, specie nella parte iniziale, ci si sofferma a lungo sulle possibili piste alternative abbandonate inspiegabilmente dagli investigatori. A partire da quella degli addetti di una ditta di pulizie che avevano l'incredibile hobby del tiro a segno e che possedevano pistole modificate o modificabili anche all'interno dei locali a loro disposizione dentro l'Università̀. Per tacere di quella, inquietante, di un altro personaggio strano, che deteneva un arsenale a casa e che frequentava anche lui la Sapienza, dilettandosi al tiro a segno con armi ottenute con falsi certificati di lavoro. Cosa per la quale poi patteggiò la condanna a un anno di reclusione sia pure uscendo dall'inchiesta. I due malcapitati, di cui Pezzuto in un capitolo ad hoc, il quinto, rievoca anche la criminalizzazione mediatica («Costruire due mostri»), vennero dopo un tortuoso iter processuale condannati a cinque anni e quattro mesi (Scattone) e a 4 anni e due mesi (Ferraro). Il tutto dopo che il 6 dicembre 2001, la prima sezione penale della Corte di Cassazione, su richiesta conforme del Procuratore Generale Vincenzo Geraci (il quale definì «basi di sabbia» le testimonianze di Gabriella Alletto e di Maria Chiara Lipari, aggiungendo che erano da «gettare alle ortiche») aveva annullato le condanne di primo e secondo grado. La Cassazione stigmatizzò i metodi degli inquirenti.

Marta Russo: delitto a La Sapienza 20 anni dopo. Genesi di un libro rifiutato. La controinchiesta scottante sul delitto a La Sapienza sarà in vendita su Amazon. La firma Vittorio Pezzuto, scrive Patrizio J. Macci il 10 aprile 2017 su "Affari Italiani". Venti rifiuti sommari, decine di mail che hanno solcato il web con motivazioni di una banalità sconcertante, risposte scompiscianti, rinvii e palleggiamenti. “MARTA RUSSO - Di sicuro c’è solo che è morta”, la corposa e documentissima contro-inchiesta scritta dal giornalista Vittorio Pezzuto in occasione del ventennale del celebre omicidio a "La Sapienza" (9 maggio 1997), sembrava destinata a non trovare alcuno spazio in libreria. Sarà invece proposta dal più grande editore internazionale dal 19 aprile: parliamo di Jeff Bezos, patron di Amazon. Basterà collegarsi allo store del sito e con un semplice clic acquistarne una copia, in versione sia cartacea sia e-book.

Un libro che per tutti non s'aveva da pubblicare. Intanto vi proponiamo un piccolo campionario delle motivazioni con le quali è stato di volta in volta rifiutato: uno "sciocchezzaio" che ci aiuta a comprendere lo stato attuale dell'editoria italiana e soprattutto le ragioni della sua profonda crisi.

FRASI FATTE, FRASI DETTE

"Guardi, a noi questa storia interessa moltissimo e il suo lavoro di ricerca storica è stato veramente enorme”.

"Bene, mi fa piacere sentirlo."

"Però vede, lo stile del libro è troppo enfatico, ricorre a volte a frasi fatte e appare talmente schierato a favore dagli accusati che il lettore è spinto a parteggiare per il lavoro dei magistrati."

"Addirittura."

"Intendiamoci, consideriamo questa vicenda giudiziaria una vera schifezza però così non va. Che ne dice di mandarci fra qualche mese un proposal...".

"...un che? Intende una proposta?"

"Sì, insomma... La proposta di un capitolo asciugato con stile più asettico, più idoneo allo stile della nostra casa editrice. Se riscrive il libro in questo modo può darsi che poi il nostro consiglio di amministrazione si decida nel tempo alla sua pubblicazione."

"Grazie, ci penso su e le farò sapere."

CI VORREBBE UNA SPONSORIZZAZIONE

"Buonasera, mi chiamo Vittorio Pezzuto e..."

"Sì certo, la conosco. Dica."

"Volevo proporle la pubblicazione di un libro-inchiesta sul caso Marta Russo. A maggio cade il ventennale dell'omicidio e poiché siete una casa editrice specializzata in saggi di cultura liberale..."

"... Mhh. Un libro del genere però non si ripaga solo col mercato. Occorrerebbe un sostegno, uno sponsor all'edizione..."

"Addirittura?"

"Eh sì. Il problema è che su questi temi c'è una forte concorrenza del web..."

"Del web?! Veramente la Rete è spesso sinonimo di insulti, approssimazione, fonti incerte..."

"Guardi, se proprio insiste può mandarmi una scheda dell'opera e nel caso le faccio sapere."

"Faccio prima a mandarle, per sua cultura personale, l'intero volume. Sono circa 500 pagine..."

"... Ah, una cosa corposa."

"Beh, sì. È un libro, mica un tweet."

L’EDITORE DI QUALITÀ

"Guardi Pezzuto, diamo per scontato che il suo libro sul caso Marta Russo sia un capolavoro. Per quale motivo però dovremmo pubblicarlo?"

"Forse proprio perché, come dice lei, si tratta di un capolavoro."

"Ehh, fosse così semplice..."

L’EDITORE “MILANESE”

"Buongiorno, mi chiamo Vittorio Pezzuto e ho avuto il suo numero da (...). La chiamo perché, dopo aver scritto qualche anno fa la biografia di Enzo Tortora, ho appena ultimato un'accurata contro-inchiesta sul caso Marta Russo in occasione del prossimo ventennale di questo omicidio che tanto ha diviso l'opinione pubblica. Mi rivolgo alla sua casa editrice perché mi dicono essere seria ma soprattutto perché da molti anni pubblica libri coraggiosi di denuncia...".

"Guardi, a parte queste note di colore che non interessano nessuno..."

"Sì?"

"...Io la inviterei a recarsi ogni tanto in libreria per vedere cosa viene pubblicato. Scoprirà che la storia che propone è molto vecchia”.

"Veramente in libreria mi capita di andarci, e vi scopro sempre nuovi libri sulla prima e sulla seconda guerra mondiale, per non parlare di nuovi tomi sulle Brigate Rosse, sulla morte di Pasolini, sul caso Moro...".

"Io la inviterei a non accostare il caso Moro a un banale episodio di cronaca nera che non ha avuto alcun risvolto politico e giudiziario!".

“Ma veramente...".

Riprendono le recensioni di Giuditta’s files. Quest’oggi ci occupiamo di “Marta Russo – Di sicuro c’è solo che è morta”, di Vittorio Pezzuto (2017, Amazon), scrive Daniele Capezzone Martedì 2 maggio 2017 su "Affari italiani”. Doppia doverosa premessa. La prima: Vittorio Pezzuto è un caro amico, ne ho a lungo condiviso l’impegno civile e politico, ne ho apprezzato l’opera giornalistica, e soprattutto ho ammirato quel vero capolavoro (non a caso, pluri-saccheggiato da presunti grandi raccontatori e narratori televisivi) che è stato il libro Applausi e sputi, la più documentata e straziante analisi della vicenda giudiziaria, politica e umana di Enzo Tortora. La seconda: sono da sempre convinto dell’innocenza di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, riconosciuti invece colpevoli dalla giustizia italiana, a seguito del caso di Marta Russo, la studentessa uccisa il 9 maggio del 1997 nei vialetti dell’Università La Sapienza di Roma. Ma mettete da parte questi miei pre-giudizi, e (davvero: è un invito e insieme un “volantinaggio”) leggete l’ultima fatica di Pezzuto, frutto di cinque anni di lavoro. Si tratta di una monumentale controinchiesta, che in un paese normale avrebbe già gettato le basi per la riapertura anche giudiziaria del caso. Pezzuto ha scelto come titolo il famoso incipit dell’articolo che il grande Tommaso Besozzi scrisse su L’Europeo sulla morte del bandito Giuliano (“Di sicuro c’è solo che è morto”): ecco, per la povera Marta Russo, vale qualcosa di molto simile. E’ un viaggio terrificante (ma insieme illuminante) non solo nella giustizia italiana, ma anche in una politica chiacchierona (già allora, ansiosa di dichiarazioni fini a se stesse, di presenzialismo inconsistente, di banalità, e ovviamente di giustizialismo anche da parte di chi – in altri contesti – predicava garantismo), di un giornalismo manettaro e superficiale (rileggere la brutalità e la faciloneria di certi giudizi illumina le caratteristiche di alcune “grandi firme”: per il presente e per il futuro, non solo per il passato), e anche di un’editoria priva di coraggio che ha a lungo rifiutato la pubblicazione del libro, e con patetiche scuse ha declinato la proposta di Pezzuto (pur reduce da un indiscusso successo editoriale!), fino alla scelta liberatoria di pubblicare il volume su Amazon.

Il libro si raccomanda da sé, e merita successo per varie ragioni:

-un certosino lavoro di classificazione e riordino di un materiale enorme e magmatico; 

-la cura chirurgica nel recuperare i peggiori misfatti di "giornalisti" e "opinionisti", rendendone bene il misto di sensazionalismo, improvvisazione, sciacallaggio: Pezzuto li definisce bene "turisti del mistero";

-la denuncia forte di una "giustizia" descritta da un’agghiacciante considerazione di Ferraro, all’epoca avviato alla carriera universitaria ("ho insegnato qualcosa che non esiste");

-la scelta di citazioni davvero appropriate di Longanesi per punteggiare il tema di ciascun capitolo;

-il modo in cui Pezzuto spiega il meccanismo di "costruzione dei mostri”, con la dignità, il decoro personale, il riserbo e il self-restraint dei due accusati che si tramutano in altrettanti capi d'accusa aggiuntivi ai loro danni.

Non dimentichiamo che si tratta forse del primo caso recente di processo mediatico. O comunque, se non del primo caso, del caso che ha indubbiamente aperto una nuova fase: con intere trasmissioni televisive e mesi di “inchieste” giornalistiche ossessivamente dedicate alla questione, tutte o quasi in ottica colpevolista a prescindere, e un dispiegamento di mezzi mediatici senza precedenti.

Aggiungo tre elementi assolutamente non scontati, vista la gran mole del lavoro:

-una scrittura sempre curatissima, con un registro che resta limpido e pulito lungo tutto il saggio;

-una ammirevole "empatia" nei confronti di tutte le figure deboli e colpite (a partire dalla vittima, ovviamente), delle quali l’autore rende molto bene il punto di vista;

-il fatto che, pur dinanzi a una cavalcata così lunga e carica di dettagli, Pezzuto riesca a mantenere l'attenzione del lettore vivissima fino alla fine. 

Nonostante tanti boicottaggi, questo libro merita di essere letto, compreso e meditato a lungo. Anzi, quei boicottaggi offrono una ragione di più per apprezzarlo. Alla fine della lettura, resta solo un …problema: sentirsi sicuri e a proprio agio in questa Italia. Daniele Capezzone

Marta Russo: in un libro una nuova ipotesi sulla morte. A 20 anni dall'uccisione della studentessa romana, un saggio di Vittorio Pezzuto lancia un'inquietante ipotesi: l'omicidio potrebbe essere stato causato da uno scambio di persona, scrive Maurizio Tortorella il 3 maggio 2017 su Panorama. La mattina del 9 maggio 1997, a Roma, poco prima di mezzogiorno una pallottola colpisce alla testa la studentessa Marta Russo, appena 22 anni, mentre sta passeggiando in un viale dell’Università “La Sapienza”. La sua morte, avvenuta quattro giorni dopo, desta grande clamore in tutta Italia. Chi ha ucciso la ragazza, e perché? Gli inquirenti si convincono presto che a sparare sia stato Giovanni Scattone, un dottorando in giurisprudenza, con la complicità del collega Salvatore Ferraro. Il loro movente? Nessuno. Paradossalmente, però, è proprio l’assenza di un movente a inchiodarli. Ad accusarli sono testimonianze controverse e una particella di bario e antimonio trovata sulla finestra dell’aula 6 dell’Istituto di filosofia del diritto. Esattamente a 20 anni di distanza, il caso Marta Russo resta però una storia quasi incredibile, oscura e sfuggente ma anche rivelatrice di un certo tipo di magistratura e di un certo tipo di giornalismo. Se ne occupa ora Vittorio Pezzuto, giornalista e autore di altri libri di denuncia, in un ponderoso saggio analitico. Il libro ha un titolo che riecheggia l’attacco di un famoso articolo di Tommaso Besozzi, mitico inviato di nera, spedito dal settimanale Europeo sulle tracce dei veri assassini del bandito Salvatore Giuliano: Marta Russo: di sicuro c’è solo che è morta (664 pagine, disponibile su Amazon dal 19 aprile, in versione sia cartacea, a 16 euro, sia e-book a 7.99 euro). Scritto con lo stile di un legal thriller e basato su una mole imponente di documenti, il saggio ripropone per la prima volta le fasi dell’inchiesta e i diversi colpi di scena nei diversi gradi del processo che nel 2003 portarono alla condanna dei due giovani, che sempre si sono proclamati innocenti. Ma soprattutto, sia pure vent’anni dopo l’omicidio della povera Marta Russo, arriva a una conclusione sconvolgente su un caso che per larga parte dell’opinione pubblica resta ancora inspiegabile. Studiando gli otto faldoni contenenti i documenti dell’inchiesta e del processo (interrogatori, perizie balistiche, intercettazioni ambientali e telefoniche, trascrizioni delle udienze in Corte d’assise), tutti i lanci dell'agenzia Ansa sul caso dal 1997 al 2015 nonché circa 8 mila articoli ed editoriali apparsi sui maggiori quotidiani e periodici, Pezzuto (che in passato ha scritto per Sperling&Kupfer di Applausi e sputi, una biografia “definitiva” e controcorrente di Enzo Tortora), è convinto che la verità processuale sia del tutto lontana dalla verità fattuale. Pezzuto, però, non si limita a mettere uno accanto all'altro i mille dubbi sul verdetto che nel 2003 ha visto Scattone e Ferraro condannati a pene peraltro miti e di per sé apparentemente irragionevoli per un omicidio, sia pure colposo: 5 anni e 4 mesi di reclusione per Scattone (cui è stata addirittura accordata la riabilitazione penale e accordato il diritto a insegnare); 4 anni e 2 mesi per Ferraro. La sua è di fatto un'inchiesta parallela e diversa rispetto a quella compiuta in primo grado dall'allora procuratore aggiunto di Roma, Italo Ormanni, e dal sostituto Carlo Lasperanza. Pezzuto infatti pare convinto di avere trovato, se non le potenziali prove di uno scambio di persona, quanto meno una serie di indizi concentrici: a morire, 20 anni fa, a Roma, avrebbe forse dovuto essere una ragazza messinese di 26 anni, iscritta al terzo anno fuori corso di Giurisprudenza alla Sapienza. "Sarebbe sarebbe stata lei e non Marta Russo il vero bersaglio di quel maledetto colpo di pistola", scrive Pezzuto nel libro. Del resto, le due ragazze potevano essere confuse: stessa lunghezza e colore dei capelli, stessa carnagione chiara, stesso sguardo, altezza e corporatura molto simili. E il movente? Qualcosa di assai più credibile di uno sparo a caso: la mafia. Scrive Pezzuto: "I sicari sarebbero giunti dal Sud per attuare una vendetta trasversale contro suo padre, un imprenditore che aveva denunciato per estorsione e usura i criminali mafiosi che gli avevano tolto fino all’ultima lira e che si erano impossessati dei suoi due supermercati". Il fatto più inquietante è che la ragazza segnala quasi subito i suoi sospetti all'autorità giudiziaria, e viene sentita il 1° luglio 1997. I due pubblici ministeri romani che seguono il caso, però, non si convincono della tesi. Così la ragazza e suo padre si rivolgono anche al sostituto Carmelo Petralia, alla Procura di Messina. "I boss ci hanno rintracciato anche a Roma" gli dicono. "Per l’agguato potrebbero aver scelto l’Università dove quasi ogni giorno io percorrevo lo stesso tragitto fatto da Marta". Il verbale però viene inoltrato alla Procura di Roma perché competente sul caso e viene archiviato. Non basta. Perché c'è addirittura una seconda pista alternativa: in questo caso si tratta di una giovane di Frosinone, studentessa alla Sapienza di Roma e a sua volta assai simile a Marta Russo, il cui padre aveva presentato denunce ed esposti contro una serie di personaggi in qualche modo "pericolosi" della città, tanto da avere ricevuto numerose minacce. "La nostra è una pena che non finirà mai" ha dichiarato con amarezza Donato Russo il 29 gennaio 2007, alla cerimonia di inaugurazione della nuova tomba monumentale che da allora raccoglie i resti della figlia, al cimitero del Verano. Sulla lapide, scrive Pezzuto, c'è la foto di Marta, quella che abbiamo imparato a conoscere: "Un volto dai tratti regolari, coi capelli biondi lisci scriminati al centro, la promessa di un sorriso disegnata da labbra rosse e sottili. E occhi chiari, profondi e quieti, che continuano a interrogarci sulle ragioni misteriose del suo assassinio. Ancora oggi non riusciamo a risponderle. Sappiamo soltanto che purtroppo, in tutta questa storia, di sicuro c’è solo che è morta".

Marta Russo, quel pasticciaccio brutto diventato tabù, scrive il 6 Maggio 2017 "Il Dubbio". “Di sicuro c’è solo che è morta”. Il titolo è già un pugno in faccia. Ma è anche il primo brivido dello strepitoso legal thriller scritto da Vittorio Pezzuto sul delitto di vent’anni fa. Nessun editore ha voluto pubblicarlo: “Abbiamo paura”, dicevano. Ci ha pensato direttamente l’autore, grazie ad Amazon. Ve ne offriamo due estratti. La mattina del 9 maggio 1997 una pallottola colpisce alla testa la studentessa Marta Russo mentre sta passeggiando in un viale dell’Università “La Sapienza”. La sua morte, avvenuta quattro giorni dopo, desta un enorme clamore in tutta Italia. Chi l’ha uccisa, e perché? Ben presto gli inquirenti si convinceranno che a sparare sia stato il dottorando Giovanni Scattone, con la complicità del collega Salvatore Ferraro. Il loro movente? L’assenza di un movente. Ad accusarli vi sono testimonianze controverse e una particella di bario e antimonio trovata sulla finestra dell’aula 6 dell’Istituto di Filosofia di diritto. Una storia incredibile, oscura e sfuggente ma anche rivelatrice di un certo tipo di Italia, di un certo tipo di magistratura, di un certo tipo di Università, di un certo tipo di giornalismo. Scritto con lo stile avvincente di un legal thriller e avvalendosi di una documentazione imponente, questo nuovo saggio di Vittorio Pezzuto Marta Russo. Di sicuro c’è solo che è morta (già autore della biografia di Enzo Tortora Applausi e sputi, Sperling& Kupfer) ripropone per la prima volta le fasi dell’inchiesta e i diversi colpi di scena nei diversi gradi del processo che portarono alla condanna dei due giovani. Ma soprattutto, vent’anni dopo quell’omicidio, arriva a una conclusione sconvolgente su un caso che per larga parte dell’opinione pubblica resta ancora inspiegabile. Dopo che per un anno e mezzo tutti i maggiori editori italiani hanno rifiutato di pubblicarlo («Questa storia non interessa più nessuno», «Non avrebbe un mercato», «Il libro ci piace molto ma abbiamo paura di essere citati dai magistrati» ), Pezzuto ha deciso così di autopubblicarlo e di metterlo in vendita direttamente su Amazon ( 664 pagine, versione cartacea 16 euro, e- book 7.99 euro). Pubblichiamo due estratti. Dal capitolo 4 (“Da La Sapienza a Regina Coeli”) e dal capitolo 14 (“Microscopio e cronometri”).

Dal Capitolo 4 – DA “LA SAPIENZA A REGINA COELI”. Due catture nella notte. Con incredibile rapidità, il gip Muntoni decide di firmare le ordinanze di custodia cautelare contro Scattone e Ferraro mentre l’interrogatorio di Gabriella Alletto è ancora in corso. Una soluzione che costringerà quest’ultima a mantenere le sue accuse, se non altro per evitare un’incriminazione per calunnia. Le sue tardive rivelazioni hanno infatti il pregio di inserire sulla scena del delitto quel quarto uomo di cui i magistrati sono da tempo sicuri ma che nemmeno la volenterosa Lipari aveva confermato esistesse. A uccidere Marta Russo sarebbe quindi stato Giovanni Scattone, mentre una frase dell’impiegata («Se non ricordo male, subito dopo lo sparo si chinò a terra all’interno della finestra dopo aver rilasciato la tenda») li convince che abbia avuto anche la freddezza di raccogliere il bossolo. L’amico e collega Ferraro si è limitato a fargli da complice, portando via la pistola nella sua borsa. Per gli inquirenti si tratta davvero di un colpo di fortuna. Ferraro è infatti mancino e quindi non avrebbe potuto rivolgere l’arma in direzione di Marta perché impedito nel movimento della mano dal cassone del condizionatore d’aria alla sinistra della finestra. E non avendo mai sparato in vita sua, l’imputazione a suo carico avrebbe potuto essere solo di omicidio colposo. Con Scattone invece le cose cambiano: a differenza dell’amico ha fatto il servizio militare come carabiniere ausiliario e pertanto ha già usato armi. L’accusa quindi può restare quella di omicidio volontario. Le volanti della polizia partono subito alla ricerca dei due giovani collaboratori del professor Carcaterra. Scattone viene rintracciato intorno alle 23 mentre sta cenando con alcuni amici in un ristorante all’aperto nei pressi del Foro Italico. Un ispettore e altri due agenti in borghese gli chiedono di seguirlo in Questura. Il giovane è disorientato. Intuisce subito che si tratta dell’indagine sull’omicidio di Marta Russo ma a dire il vero non è molto aggiornato sui suoi sviluppi: mancano un paio di giorni all’esame finale nazionale per il dottorato di ricerca e in quel periodo trascorre gran parte della settimana a Napoli, dove segue un corso di perfezionamento in Filosofia del diritto con frequenza obbligatoria. Gli agenti della Squadra mobile lo trattengono negli uffici di via San Vitale fino alle prime luci dell’alba. Foto segnaletiche, impronte digitali e un interrogatorio serrato senza l’assistenza di un avvocato. Dopo avergli dato da leggere l’ordinanza di custodia cautelare, il capo della Squadra mobile D’Angelo e il suo vice Intini alternano minacce e blandizie. Vogliono che ammetta subito che il colpo gli è partito per caso («Altrimenti ti farai almeno 24 anni!») e riveli il luogo esatto da cui ha fatto fuoco. Gli agenti sono stanchi e innervositi. «Che fine ha fatto la pistola?» gli urlano addosso. «Quale pistola?» risponde sempre più sconcertato Scattone. È allora che s’incazzano, che iniziano a strattonarlo violentemente, facendo però attenzione a non provocargli tracce o ferite riscontrabili. Scattone nega con fermezza ogni addebito. I funzionari a quel punto si allontanano, lasciandolo in compagnia di un agente che gli spiega: «Sono in riunione per decidere il da farsi». Sono le cinque del mattino quando una volante lo trasferisce nel carcere di Regina Coeli. Rinchiuso in una cella di isolamento vicino all’infermeria, gli resta solo l’eco delle ultime parole degli agenti: «Se confessi resti dentro al massimo due giorni, giusto il tempo di sostenere l’interrogatorio di garanzia del gip. Pensaci bene…». Anche Salvatore Ferraro viene arrestato quando ancora si sta asciugando l’inchiostro della firma della Alletto in calce alla sua ultima deposizione. Quattro agenti alti, corpulenti e nervosi entrano a casa sua mentre in boxer e t- shirt sta suonando con la sua chitarra acustica un vecchio blues di Robert Johnson. Si tratta di Me and the Devil Blues, parla del diavolo che all’improvviso bussa alla porta. Un brano decisamente azzeccato. «Ci segua». «Per caso mi state arrestando?». «Assolutamente no». Un’ora dopo l’assistente universitario si trova in una stanza della Digos, con le manette ai polsi e ancora convinto che si tratti di una messinscena per verificare l’attendibilità delle sue deposizioni precedenti. Tant’è vero che una mezza dozzina di investigatori, tra funzionari e semplici agenti, si avvicendano davanti alla sua poltrona chiedendogli se abbia detto davvero tutto quello che sa. Col trascorrere del tempo il loro atteggiamento cambia e l’atmosfera, all’inizio piuttosto rilassata, s’indurisce in sguardi e movenze imbottiti di tensione e stanchezza. Quando Ferraro conferma per l’ennesima volta di non sapere nulla del delitto, Belfiore sbuffa spazientito e sbatte il pugno sul tavolo: «Parla o finisci in galera!» A quel punto Intini gli consegna l’ordinanza di custodia cautelare. Ferraro la legge velocemente e strabuzza gli occhi. «Dai, parla! Dicci che è stato Scattone e stasera te ne vai a casa!» insistono quelli. «Non posso dirlo, non sono stato testimone di nulla!». «E allora sei solo un gran pezzo di merda!». «Ve lo ripeto, io con l’assassino di questa ragazza non c’entro nulla!». Ferraro sorride con amarezza. Cerca di astrarsi dalla situazione. Per mantenere il controllo dei nervi fissa una fotografia di Rossano Calabro, appiccicata alla parete più lontana, che lo riporta ai luoghi della sua infanzia. Intanto gli agenti lo braccano con sorrisi maliziosi e voci di volta in volta suadenti, minacciose, beffarde. «Dicci che a Scattone è partito un colpo per sbaglio, e te ne vai a casa a dormire in santa pace!». Lui però rifiuta l’accomodamento, la disonesta logica del “mors tua vita mea” gli ha sempre fatto ribrezzo. Non ha quasi più parole, e non vuole certo sprecarle accusando Scattone solo per far finire al più presto quest’incubo. Scuote la testa, chiude gli occhi, dondola nel buio. Il suo respiro si sta accartocciando, sopraffatto dalla sensazione quasi materiale di una forza avvolgente che lo sta schiacciando. «Bene, ebbravo lo stronzo!…», «Finirai a marcire in galera!», «Questa è la fine della sua brillante carriera, dottor Ferraro!» gli urlano a pochi centimetri. Lui allora riapre gli occhi: «Con una coscienza pulita sarà facile ricominciarne un’altra».

23 SECONDI E UN MANICHINO CHE MANCA. Quando il dibattimento è ormai alle battute finali, ecco rifarsi strada un’ipotesi clamorosa: l’ora ufficiale del delitto non sarebbe quella giusta. Un tabulato Telecom, ottenuto a suo tempo dalle difese e poi richiesto dalla Corte alla Procura, certifica infatti che la telefonata che quella mattina Iolanda Ricci ha fatto al fidanzato da una cabina telefonica dell’Università è terminata alle 11,39 e 1 secondo (anche se lei, nei verbali e al processo, l’aveva sempre collocata intorno alle 11,30). Come si ricorderà, in udienza ha raccontato che immediatamente dopo aver abbassato la cornetta è stata raggiunta da Marta, insieme alla quale si è incamminata in direzione dell’uscita su viale Regina Elena, sotto il tunnel della Facoltà di Giurisprudenza, per andare a seguire una lezione di Storia economica in via del Castro Laurenziano. Da quella cabina, per raggiungere a piedi il punto del vialetto in cui l’amica è stata colpita, si impiegano al massimo sessanta secondi. Marta quindi non sarebbe stata uccisa alle 11,42 ma – secondo più, secondo meno – due minuti prima. Un dettaglio che cambierebbe tutto. Se il colpo è stato esploso alle 11,40 come ha fatto allora Maria Chiara Lipari a sentire (lo ha confermato in udienza) un «tonfo sordo» alle 11,44 mentre era in procinto di entrare nell’aula 6? E perché la Alletto ha ripetuto più volte che la dottoranda fece il suo ingresso «nell’immediatezza dello sparo, forse dopo una trentina di secondi, massimo un minuto»? Qualcosa evidentemente non quadra. «Qui non siamo più nel campo delle opinioni» osserva la difesa di Ferraro. «Si tratta di numeri, di cose esatte. E una discrepanza del genere, a nostro giudizio, rende del tutto inattendibile non solo il racconto della Lipari ma tutto il resto della ricostruzione». (…) Alla Procura di Roma va però almeno riconosciuta una ferrea coerenza: alla Lipari hanno sempre voluto credere, adoperandosi fattivamente per favorire l’incessante work in progress della sua memoria. Un calvario doloroso della mente («dall’ano proprio del cervello», come aveva riconosciuto lei stessa) che merita la pena – sì, la pena – di essere ricordato per sommi capi. Interrogata il 21 maggio 1997 nel Commissariato dell’Università, dapprima sostiene che durante il primo tentativo di telefonata al padre, mentre girava le spalle alla stanza, le è parso che non vi fosse nessuno. L’interrogatorio viene improvvisamente sospeso per «accertamenti tecnici» e ripreso in tarda serata. Solo allora dice «di non essere sicura» della presenza di qualche altro suo collega nell’aula, quindi aggiunge che «mi sembra di ricordare che qualcuno sia uscito frettolosamente.». A dirla tutta, adesso che ci riflette meglio, «mentre stavo con la cornetta in mano, questo signore ha aperto dall’interno la porta e, passandomi accanto, nell’uscire mi ha salutato bofonchiando qualcosa». Racconta poi di non aver avuto «la sensazione del vuoto» nella stanza anche se non sa precisare quante e quali persone vi fossero («comunque non donne»). Fa un primo nome: «Forse era presente il mio collega Andrea Simari», che risulterà invece assente. Non ha comunque sentito «alcun rumore che possa somigliare ad uno sparo.» A notte fonda, dopo altre cinque ore di interrogatorio in Questura, dichiara «di non aver visto nessuno vicino alla finestra» ma «due o forse tre persone, due certamente di sesso maschile e una probabilmente di sesso femminile» spostate verso il centro della stanza e «che parlottavano tra loro». Entrando nella stanza ha avuto comunque la «sensazione netta» di una «forte tensione nell’aria». Butta giù altri nomi: quelli di Francesco Liparota, di Gabriella Alletto («Quello che ricordo è un interrogativo che mi è passato nel cervello come un lampo in quel momento e cioè: “Che ci fa Gabriella qua? ”») e infine dell’assistente Massimo Mancini ( del quale ha udito il «suono della voce, ma questo a livello subliminale senza averne quindi altra possibilità di precisione» ). Sfortuna vuole che però anche quest’ultimo risulterà assente, circostanza che la costringe a precisare in seguito che il suo nome gli è stato suggerito da un funzionario di polizia mentre lei «non ci pensava affatto». Nella notte tra il 26 e il 27 maggio dichiara invece di aver visto tre individui, due al centro della stanza e uno vicino alla finestra che poi l’ha salutata uscendo. Gli investigatori le fanno allora il nome di Ferraro ma lei si rifiuta di confermarlo dal momento che quella persona non l’ha vista in faccia. Intercettata poco dopo al telefono col padre, sostiene però di avere finalmente ottenuto il suo «ricordo visivo»: non ne è ancora certa ma quell’uomo ha proprio «la sensazione di averlo visto in facci». E poi aggiunge: «Ma se fosse quel calabrese, quel calabrese ci ha… Veramente ci può avere proprio degli amici con le armi, in casa in Calabria proprio sotto al cuscino… ». Il 19 giugno, quando ormai Scattone e Ferraro sono stati arrestati grazie alle parole della Alletto (la cui testimonianza combacia finalmente con i suoi “ricordi”), precisa di aver avuto «la sensazione netta» che nella stanza vi fossero più persone, forse quattro. La sera dell’8 agosto, tre mesi dopo il delitto, si reca infine negli uffici della Polaria dell’aeroporto di Fiumicino. Sta partendo per le vacanze e vuole a mettere a verbale altri particolari «di cui, adesso, ho un ricordo preciso»: prima di entrare nell’aula 6 ha sentito «un rumore sordo, un tonfo» e adesso rammenta «con precisione» la figura di Ferraro nella Sala assistenti («In particolare ho focalizzato l’espressione del suo volto» ). Non appena l’ha vista questi si è voltato di scatto verso la finestra, l’ha salutata impallidito ed è uscito dalla stanza insieme a un’altra persona. Chi? «L’impressione è che si tratti di Scattone». Lo stesso che, vedi tu a volte il caso, era stato arrestato nella notte del 14 giugno come omicida e le cui foto riempivano da un pezzo tutti i giornali. La Procura è soddisfatta. Per sparare da quella finestra in direzione della vittima bisognava usare la destra. Non poteva essere stato Ferraro perché non sa sparare ed è pure mancino. Lui invece è destro e ha fatto il servizio militare nell’Arma dei carabinieri. Tutto combacia, quindi. Ben fatto, Maria Chiara! Il suo accidentato percorso di ricostruzione mnemonica può dirsi ora finalmente concluso. Per apprezzarne al meglio le dinamiche ne verrà mostrata al processo una tappa significativa. Si tratta di un video di 17 minuti registrato la sera del 26 maggio 1997 in occasione di un sopralluogo che la Lipari e gli inquirenti hanno effettuato presso la Sala assistenti. L’audio è pessimo. Dalle immagini si evince comunque lo sforzo evidente della ragazza, che con espressione corrucciata parla più volte di «lampi», riferendosi a quei brani di memoria che tenta di richiamare nella sua mente con l’aiuto del procuratore aggiunto Italo Ormanni. Questi sollecita la sua preziosa testimone, invitandola più volte a «cercare di focalizzare» i suoi ricordi. La ragazza allora mima i movimenti che avrebbe compiuto quella mattina, chiude gli occhi e porta le mani alle tempie, si tormenta i capelli, balbetta, pronuncia frasi sconnesse mentre sul suo volto si alternano preoccupazione e concentrazione: «Un maschio forse là…», dice indicando il lato destro dell’aula. «Non so, forse si sono mossi, forse…» spiega al capo della Squadra mobile Nicolò D’Angelo e al commissario Francesca Monaldi che intanto fanno posizionare dei manichini in base alle sue indicazioni. Alla fine la telecamera ne inquadra due al centro della stanza (rappresentano Liparota e la Alletto) e un terzo poco lontano dalla finestra: è Salvatore Ferraro, di cui però non ha ancora fatto il nome. In questo presepio manca ancora la sagoma del personaggio più importante, l’omicida Scattone. Ma come abbiamo visto, è solo questione di tempo.

PRESUNTO COLPEVOLE. RAFFAELE SOLLECITO.

Raffaele Sollecito: «Ho denunciato i miei giudici». Intervista di Valentina Stella il 16 Aprile 2017 su “Il Dubbio”. Raffaele Sollecito non molla e chiede allo Stato tre cose: capire perché la sua vita è stata stravolta dalla macchina giudiziaria, essere risarcito per aver trascorso da innocente 4 anni in carcere, e condannare civilmente i magistrati che lo hanno punito ingiustamente. La storia di questo ragazzo, dalla voce e dell’atteggiamento mite, e che può essere riassunta da questa frase che apre il suo sito The long path through injustice (il lungo percorso attraverso l’ingiustizia), è quella di un giovane uomo che ancora non si è risvegliato completamente dall’incubo che lo ha segnato quando aveva solo 23 anni, che aveva da poco perso la madre e che stava per laurearsi. Il suo futuro è incerto, tra il nuovo lavoro a Parma e l’esito delle sue iniziative giudiziarie contro lo Stato. Tuttavia sull’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher, uccisa nel 2007 a Perugia, esistono due certezze: la prima è che per quel brutale assassinio c’è un solo colpevole, l’ivoriano Rudi Guede, condannato in via definitiva con il rito abbreviato a 16 anni di reclusione. La seconda è che per il delitto sono stati assolti per non aver commesso il fatto, dopo ben 5 gradi di giudizio, Raffaele Sollecito e Amanda Knox. A mettere un punto alla vicenda giudiziaria dei due ex fidanzati, che al momento dei fatti si conoscevano da appena una settimana, ci ha pensato la Cassazione il 27 marzo 2015 con una sentenza di cui è bene sottolineare un estratto riguardo le indagini: un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante di clamorose defaillances o amnesie investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine. Ora però si apre un altro capitolo: Raffaele Sollecito chiede, appunto, i danni allo Stato. Il primo tentativo per il risarcimento per ingiustizia detenzione è stato respinto, ma gli avvocati Giulia Bongiorno e Luca Maori hanno annunciato il ricorso in Cassazione. Intanto si è aperto da poco l’altro filone: l’ingegnere informatico, assistito dagli avvocati Antonio e Valerio Ciccariello, ha deciso di fare causa ad alcuni magistrati, chiedendo tre milioni di euro in virtù della legge sulla responsabilità civile dei togati che prevede cause “per dolo o colpa grave”.

Perché hai deciso di fare causa ai giudici? Quali sono, a vostro parere, le colpe gravi?

«Si tratta di tutte le mancanze interpretative che ci sono state in questi anni. Ad esempio è cambiato il movente da un giudizio all’altro, la prova sul Dna è stata travisata più volte, il materiale probatorio è stato interpretato in maniera differente da un giudice all’altro, addirittura diversi magistrati hanno diciamo – disatteso le regole pur di dimostrare l’indimostrabile. Oltretutto questi errori vengono in una certa maniera stigmatizzati e riassunti dalla Corte di Cassazione che mi ha assolto».

La persona che forse più di tutte ha segnato il tuo destino è stato il pm Giuliano Mignini.

«Lui ha condotto le indagini e mi ha accusato, ma alcuni giudici mi hanno dichiarato ingiustamente colpevole e hanno messo l’ultima parola. È vero comunque che Mignini è stato sanzionato dal Csm per avermi vietato di conferire con il mio avvocato in fase preliminare, e questa la considero una grave lesione dei miei diritti di difesa».

La Corte d’appello di Firenze ha respinto invece l’istanza per il risarcimento per ingiusta detenzione a causa della tua condotta dolosa o gravemente colposa. Percepisci un pregiudizio da parte della magistratura nei tuoi confronti o sei fiducioso sull’esito del risarcimento e della causa ai magistrati?

«La magistratura è fatta di tante teste diverse. Di fatto la sentenza della Corte di appello di Firenze non ha fatto altro che condannarmi un’altra volta, perché hanno completamente distorto e disatteso tutte le risultanze probatorie che sono intervenute durante questi anni, non prendendo minimamente in considerazione tutto quello che è emerso durante le udienze. Hanno reinterpretato tutto il caso, piazzandomi addirittura sulla scena del crimine. Tra virgolette è come se mi avessero detto “Sollecito ti è andata bene tutto sommato, però ora stai zitto”. Si sono comportati in maniera indecente».

Contro di te c’è una sorta di accanimento?

«Forse risulto loro antipatico, forse non piaccio perché sottolineo i loro errori; d’altronde hanno totalmente stravolto e distrutto la mia esistenza, per questo non capisco perché dovrei essere magnanimo nei loro confronti o rimanere zitto nell’angolo e dire “no, per favore non fatemi più del male”. Hanno la colpa di aver perseguitato per anni degli innocenti. Perciò, quantomeno, credo che possa chiedere delle spiegazioni allo Stato di tutta questa vicenda. E vorrei una risposta chiara».

Ora come va la tua vita a Parma?

«Mi sono trasferito da un mese per una nuova opportunità lavorativa. Sono stato accolto decisamente bene: molte persone mi hanno dato il benvenuto e mi hanno trattato con rispetto. La cosa più importante è il lavoro e spero di riuscire a far fronte ai grossi debiti nei quali mi ha lasciato questa giustizia».

Sollecito: «Ridatemi la mia vita». L'ingegnere informatico, assolto per l'omicidio di Meredith Kercher, ha fatto causa a nove giudici per aver travisato fatti, circostanze e prove sul caso Kercher. Ci ha spiegato come sta ricominciando a vivere, con un nuovo lavoro, a Parma. Intervista di Monica Coviello del 12 aprile 2017 su "Vanityfair.it". «Nessuno mi restituirà il tempo che ho perso. Non c’è cifra che possa risarcire dieci anni di vita rubati». Ma Raffaele Sollecito, 33 anni, assolto per l’omicidio di Meredith Kercher, la studentessa di 22 anni uccisa la sera del primo novembre del 2007 a Perugia, dove era in Erasmus, un risarcimento l’ha chiesto. Circa tre milioni di euro. Ha citato in giudizio, in base alla nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati, nove tra pubblici ministeri, procuratori generali, giudici delle indagini preliminari e giudici di corte d’assise e corte d’assise d’appello, per aver travisato fatti, circostanze e prove sul caso Kercher.

«Il calcolo della somma è stato fatto a tavolino dai miei avvocati – ci spiega Sollecito – considerando gli anni passati in carcere, l’iter giudiziario, l’entità dei travisamenti. Quei soldi li userei per me, per riprendermi la mia vita, e per fare opere di bene, ma anche per ripianare i debiti di cui ho dovuto coprirmi durante quegli anni di inferno. Poi, vorrei che venisse chiarita la posizione dei giudici. Ma ne parleremo, eventualmente, tra qualche anno».

Dopo tutti quegli anni passati tra carcere e processi, ha ancora intenzione di tornare in tribunale?

«Ci sono ancora, in tribunale, e non per mia volontà. Sono stato querelato dal sostituto procuratore della Repubblica di Perugia Giuliano Mignini per vilipendio e calunnia, per le affermazioni contenute nel mio libro “Honor bound”, pubblicato negli Stati Uniti. Sono altri che vogliono tenermi sotto processo».

Lei ha trascorso quattro anni in carcere.

«Sono stati tragici e tristi. Ho trascorso sei mesi in isolamento e 3 e mezzo in massima sicurezza a Terni, mentre vedevo affondare la mia vita».

Che cosa le hanno insegnato questi anni?

«A essere meno pauroso. Poi, la detenzione mi ha fatto conoscere un mondo che ignoravo: ho capito che la carcerazione, nelle modalità italiane, non ha senso. Si passano 22 ore, almeno, in una cella di 2 metri per 3, e le altre due in una più grande, che si chiama “passeggio”. Gli effetti si possono immaginare.  Chi è colpevole dovrebbe avere la chance di potersi riabilitare, e chi è in attesa di giudizio non dovrebbe finire dietro le sbarre».

Può esserci il pericolo che fugga.

«Ma no: bisognerebbe cambiare identità, e per farlo sono necessari investimenti esosi che forse solo i mafiosi potrebbero permettersi. Chi è in attesa di giudizio, al massimo, potrebbe essere affidato a una comunità: il carcere è una pena estremamente pesante. E la gente non tiene conto che a tutti potrebbe capitare, prima o poi, di finire in giudizio per qualcosa che non hanno fatto».

Ha stretto amicizie in carcere?

«Sì, certo. Ero un po’ la mascotte, lì dentro. In mezzo a tante persone con una vita disastrata, ero l’unico studente, per di più di ingegneria, e di famiglia buona. Ero un pesce fuori dall’acqua, e facevo un po’ tenerezza a tutti».

Quanto è presente il ricordo del carcere nella sua vita quotidiana?

«Più che altro, sono costretto tutti i giorni a fare i conti con questa vicenda, che continua ad avere spazio. Sono ancora costretto a giustificarmi, a spenderci energie. I gossip e i dubbi sulla mia persona mi danno tanto dolore».

La gente continua a guardarla con sospetto?

«Purtroppo capita: per strada una ragazza, quando mi ha visto, ha cominciato a piangere spaventata. Ma se lo fanno, è solo perché tutta la vicenda è stata raccontata in un modo fuorviante sui giornali e in tribunale. La gente comune si è informata seguendo i media, non leggendo le carte del processo. Non sono io che faccio paura: è l’immagine che hanno dato di me che fa schifo. Pensi anche a tutte le accuse mosse verso mio padre».

Quali?

«Hanno detto che era un mafioso. Invece è un medico, che non ha avuto nemmeno la possibilità di pagare tutte le spese di questo processo: abbiamo dovuto vendere le proprietà di mia mamma, siamo sommersi dai debiti. Le chiacchiere sono state alimentate dai tribunali e dai giornalisti, ed è da loro che pretendo spiegazioni. Io non ne posso più di darne».

Ora vive a Parma.

«Sono qui da meno di un mese e mezzo, grazie agli amici che mi hanno dato questa opportunità. Lavoro come ingegnere informatico per un’azienda, Memories IT Company, e ho creato insieme ai colleghi un portale di servizi. Vivo in una stanza in cui mi ospita un amico. Ma mi trovo bene: la gente mi ha accolto con affetto. Se il lavoro andrà bene, rimarrò qua: mi piacerebbe».

Ripensa spesso al periodo della morte di Meredith?

«Sono totalmente estraneo ai fatti e mi sono scocciato di ripensarci. Ma vengo invitato a diversi convegni sul caso, quindi devo tornarci spesso. Quando ci rifletto, mi viene da piangere pensando ad anni che non potrò più vivere, che erano bellissimi e che non torneranno».

Sente ancora Amanda?

«Pochissimo: ognuno ha la sua vita, siamo presi da altri pensieri. Ma Amanda l’ho conosciuta cinque giorni prima di quella vicenda: per me Perugia è altro».

Ha mai fatto visita a Rudy Guede? 

«Non ci sarebbe motivo di andare a trovarlo: non lo conosco. La sua posizione è chiara: il suo Dna è stato ritrovato sulla scena del crimine e lui ha tentato di alimentare ombre e dubbi su di Amanda e me, anche se sa che siamo innocenti».

È stata fatta giustizia per Meredith?

«A mio parere sì: secondo me non è stato un omicidio compiuto da più persone».

Ha contatti con la sua famiglia?

«Mi hanno ignorato durante questi anni: non li ho mai sentiti. Ho tentato qualche volta di avere un dialogo con loro, ma ho trovato solo dei muri».

Giustizia carogna. Errori giudiziari e controversi indennizzi per l'ingiusta detenzione.

Raffaele Sollecito e Giuseppe Gulotta. Quando la giustizia è strabica, permalosa e vendicativa.

Di Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Antonio Giangrande ha scritto i libri che parlano della malagiustizia e della ingiustizia, in generale, e del delitto di Perugia, in particolare.

Giustizia carogna, scrive Fabrizio Boschi il 31 gennaio 2017 su "Il Giornale”. Nel febbraio 2012 ci provò un deputato di Forza Italia, Daniele Galli: presentò una proposta di legge per obbligare lo Stato a rifondere le spese legali del cittadino che viene imputato in un processo penale e ne esce assolto con formula piena. Non venne mai nemmeno discussa. Eppure affrontava una delle peggiori ingiustizie italiane.

Raffaele Sollecito, in seguito alla sua definitiva assoluzione, ha deciso di chiedere solo l’indennizzo per ingiusta detenzione, scartando l’idea di chiedere anche il risarcimento danni per responsabilità civile dei magistrati, consigliato dalla magnanimità ed accondiscendenza dei suoi legali verso i magistrati di Perugia.

"Nelle prossime settimane valuteremo eventuali istanze relative all'ingiusta detenzione". Lo ha detto uno dei legali di Raffaele Sollecito all’Agi il 30 marzo 2015, Giulia Bongiorno, spiegando che eventuali azioni di "risarcimento e responsabilità civile non saranno alimentati da sentimenti di vendetta che non sono presenti nell'animo di Sollecito". Quanto alla responsabilità civile dei magistrati inquirenti, "quello della responsabilità civile dei magistrati è un istituto serio che non va esercitato con spirito di vendetta – ha aggiunto il legale - e allo stato non ci sono iniziative di questo genere".

Ciononostante la bontà d’animo di Raffaele Sollecito viene presa a pesci in faccia.

Raffaele Sollecito non deve essere risarcito per i quasi quattro anni di ingiusta detenzione subiti dopo essere stato coinvolto nell’indagine l’omicidio di Meredith Kercher, delitto per il quale è stato definitivamente assolto insieme ad Amanda Knox. A stabilirlo è stata la Corte d’appello di Firenze l’11 febbraio 2017 che ha respinto la richiesta di indennizzo ritenendo che il giovane abbia «concorso a causarla» rendendo «in particolare nelle fasi iniziali delle indagini, dichiarazioni contraddittorie o addirittura francamente menzognere». Il giovane arrestato assieme ad Amanda Knox e poi assolto per l’omicidio a Perugia di Meredith Kercher, aveva chiesto 516mila euro di indennizzo per i 4 anni dietro le sbarre.

Alla richiesta di risarcimento si erano opposti la procura generale di Firenze e il ministero delle Finanze. Nella richiesta di risarcimento i legali di Sollecito avevano richiamato la motivazione della sentenza della Cassazione nelle pagine in cui venivano criticate le indagini secondo la Suprema Corte mal condotte dagli inquirenti e dalla procura di Perugia. In primo grado, nel 2009, Raffaele Sollecito e l’americana Amanda Knox erano stati condannati dalla Corte d’Assise di Perugia a 25 anni e 26 anni di carcere per omicidio. Nel 2011 vennero poi assolti e scarcerati dalla Corte d’Assise d’appello dal reato di omicidio (alla Knox fu confermata la condanna a tre anni per calunnia). Nel 2013 la Corte di Cassazione annullò poi l’assoluzione e rinviò gli atti alla Corte d’Assise d’Appello di Firenze che condannò (2014) Sollecito a 25 anni e Knox a 28 anni e 6 mesi. Infine, il 27 marzo 2015, il verdetto assolutorio della Cassazione.

Prima dei commenti ci sono i numeri. Sconcertanti, scrive Alessandro Fulloni il 31 12 2016 su "Il Corriere della Sera”. Il dato complessivo lascia senza parole. Il risarcimento complessivo versato alle vittime della «mala-giustizia» ammonta a 630 milioni di euro. Indennizzi previsti dall’istituto della riparazione per ingiusta detenzione, introdotto con il codice di procedura penale del 1988, ma i primi pagamenti – spiegano dal Ministero – sono avvenuti solo nel 1991 e contabilizzati l’anno successivo: in 24 anni, dunque, circa 24 mila persone sono state vittima di errore giudiziario o di ingiusta detenzione. L’errore giudiziario vero e proprio è il caso in cui un presunto colpevole, magari condannato in giudicato, viene finalmente scagionato dalle accuse perché viene identificato il vero autore del reato. Situazioni che sono circa il 10 per cento del totale. Il resto è alla voce di chi in carcere non dovrebbe starci: custodie cautelari oltre i termini, per accuse che magari decadono davanti al Gip o al Riesame. In questo caso sono previsti indennizzi, richiesti «automaticamente» - usiamo questo termine perché la prassi è divenuta inevitabile - dagli avvocati che si accorgono dell’ingiusta detenzione. Il Guardasigilli ha fissato una tabella, per questi risarcimenti: 270 euro per ogni giorno ingiustamente trascorso in gattabuia e 135 ai domiciliari. Indennizzi comunque in calo: se nel 2015 lo Stato ha versato 37 milioni di euro, nel 2011 sono stati 47. Mentre nel 2004 furono 56. Ridimensionamento - in linea con una sorta di «spendig review» - che viene dall’orientamento della Cassazione che applica in maniera restrittiva un codicillo per cui se l’imputato ha in qualche modo concorso all’esito della sentenza a lui sfavorevole - poniamo facendo scena muta all’interrogatorio - non viene rimborsato. In termini assoluti e relativi, gli errori giudiziari si concentrano soprattutto a Napoli: 144 casi nel 2015 con 3,7 milioni di euro di indennizzi. A Roma 106 casi (2 milioni). Bari: 105 casi (3,4 milioni). Palermo: 80 casi (2,4 milioni). La situazione pare migliorare al Nord: per Torino e Milano rispettivamente 26 e 52 casi per 500 mila e 995 mila euro di indennizzi. Alla detenzione si accompagna il processo, che può durare anni. Quando l’errore subito viene accertato, la vita ormai è cambiata per sempre. C’è chi riesce a rialzarsi, magari realizzando un obiettivo rimasto per tanto tempo inespresso. E chi resta imbrigliato nell’abbandono dei familiari, nella perdita del lavoro, nella necessità di tirare a campare con la pensione.

Carceri "Negli ultimi 50 anni incarcerati 4 milioni di innocenti". Decine di innocenti rinchiusi per anni. Errori giudiziari che segnano le vite di migliaia di persone e costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali, scrive Romina Rosolia il 29 settembre 2015 su "La Repubblica". False rivelazioni, indagini sbagliate, scambi di persona. E' così che decine di innocenti, dopo essere stati condannati al carcere, diventano vittime di ingiusta detenzione. Errori giudiziari che non solo segnano pesantemente e profondamente le loro vite, trascorse - ingiustamente - dietro le sbarre, ma che costano caro allo Stato. Eccone un breve resoconto pubblicato da Ristretti Orizzonti, che ha reso nota una ricerca dell'Eurispes e dell'Unione delle Camere penali italiane. Quanto spende l'Italia per gli errori dei giudici? La legge prevede che vengano risarciti anche tutti quei cittadini che sono stati ingiustamente detenuti, anche solo nella fase di custodia cautelare, e poi assolti magari con formula piena. Solo nel 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, con un incremento del 41,3% dei pagamenti rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012, lo Stato ha dovuto spendere 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente detenuti negli ultimi 15 anni. In pole position nel 2014, tra le città con un maggior numero di risarcimenti, c'è Catanzaro (146 casi), seguita da Napoli (143 casi). Errori in buona fede che però non diminuiscono. Eurispes e Unione delle Camere penali italiane, analizzando sentenze e scarcerazioni degli ultimi 50 anni, hanno rilevato che sarebbero 4 milioni gli italiani dichiarati colpevoli, arrestati e rilasciati dopo tempi più o meno lunghi, perché innocenti. Errori non in malafede nella stragrande maggioranza dei casi, che però non accennano a diminuire, anzi sono in costante aumento. Sui casi di mala giustizia c'è un osservatorio on line, che dà conto degli errori giudiziari. Mentre sulla pagina del Ministero dell'Economia e delle Finanze si trovano tutte le procedure per la chiesta di indennizzo da ingiusta detenzione. Gli errori più eclatanti. Il caso Tortora è l'emblema degli errori giudiziari italiani. Fino ai condannati per la strage di via D'Amelio: sette uomini ritenuti tra gli autori dell'attentato che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alle cinque persone della scorta il 19 luglio 1992. Queste stesse persone sono state liberate dopo periodi di carcerazione durati tra i 15 e i 18 anni, trascorsi in regime di 41 bis. Il 13 febbraio scorso, la Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto un altro grave sbaglio: è innocente anche Giuseppe Gulotta, che ha trascorso 21 anni, 2 mesi e 15 giorni in carcere per l'omicidio di due carabinieri nella caserma di Alcamo Marina (Trapani), nel 1976. Trent'anni dopo, un ex brigadiere che aveva assistito alle torture cui Gulotta era stato sottoposto per indurlo a confessare, ha raccontato com'era andata davvero. Altri casi paradossali. Nel 2005, Maria Columbu, 40 anni, sarda, invalida, madre di quattro bambini, venne condannata con l'accusa di eversione per dei messaggi goliardici diffusi in rete, nei quali insegnava anche a costruire "un'atomica fatta in casa". Nel 2010 fu assolta con formula piena. Per l'ultimo giudice, quelle istruzioni terroristiche erano "risibili" e "ridicole". Tra gli ultimi casi, la carcerazione e la successiva liberazione, nel caso Yara Gambirasio, del cittadino marocchino Mohamed Fikri, accusato e subito scagionato per l'omicidio della ragazza. Sono fin troppo frequenti i casi in cui si accusa un innocente? Perché la verità viene fuori così tardi? Perché non viene creduto chi è innocente? A volte si ritiene valida - con ostinazione - un'unica pista, oppure la verità viene messa troppe volte in dubbio. Forse, ampliare lo spettro d'indagine potrebbe rilevare e far emergere molto altro.

Ma veniamo al caso "Sollecito".

I rischi della difesa, scrive Ugo Ruffolo il 12 febbraio 2017 su"Quotidiano.net". La decisione sembra salomonica: Sollecito, assolto per il rotto della cuffia, viene liberato ma non risarcito per la ingiusta pregressa detenzione. Quattro anni, per i quali chiede 500.000 euro. Sollecito dovrebbe ringraziare il cielo di essere libero e non forzare la mano, per non fare impazzire i colpevolisti. Ma Salomone non abita nei codici. I quali sarebbero un sistema binario. O tutto, o niente. Se sei assolto, non importa come, la ingiusta detenzione ti deve essere risarcita. C’è però l’articolo 314 del c.p.c., il quale prevede una sorta di concorso di colpa del danneggiato, che neutralizzerebbe la sua pretesa al risarcimento. Come dire: se sei assolto, ma per difenderti hai mentito o ti sei contraddetto, allora sei tu ad aver depistato polizia e giudici, o ad aver complicato il loro lavoro. Se ti hanno prima condannato e poi assolto, e dunque se hai fatto quattro anni di carcere ingiustamente, la colpa è anche tua; e questo ti impedirebbe di chiedere il risarcimento (come dire: un po’ te la sei voluta). Sembrerebbe giusto, almeno in linea di principio. Ma sorge il problema che, assolto in penale l’imputato, in sede civile viene processata la sua linea difensiva, ai fini di accordargli o meno risarcimento da ingiusta detenzione. In altri termini ciascuno è libero di difendersi come crede, anche depistando o mentendo (potrebbe essere talora funzionale alla difesa nel caso concreto). Ma chi sceglie questa linea si espone al rischio di vedersi poi rifiutato il risarcimento. È quanto obbietta a Sollecito l’ordinanza della Corte d’Appello, ricostruendo quella storia processuale come costellata di depistaggi, imprecisioni, contraddizioni e menzogne. Che talora Sollecito aveva ammesso, giustificandosi con l’essere stato, al tempo, “confuso”. I suoi avvocati annunciano ricorso in Cassazione, per contestare come erronea quella ricostruzione processuale. Dovrebbero avere, credo, scarsa possibilità di vittoria. Salomone, così, rientrerebbe dalla finestra ed i colpevolisti eviterebbero di impazzire. Ma quel che turba, è un processo che si riavvolta su se stesso, cannibalizzandosi: processo del processo del processo (e anche, processo nel processo nel processo). Come riflesso fra due specchi all’infinito. 

Sollecito, no ai risarcimenti. Non è abbastanza innocente. La Corte d'appello di Firenze nega 500mila euro per 4 anni di cella: «Troppi silenzi e menzogne», scrive Annalisa Chirico, Domenica 12/02/2017, su "Il Giornale". Per la giustizia italiana puoi essere innocente e, a un tempo, colpevole. La Corte d'appello di Firenze ha rigettato la richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione avanzata da Raffaele Sollecito. Il dispositivo, pubblicato dal sito web finoaprovacontraria.it, s'inserisce nel solco della cosiddetta giurisprudenza sul concorso di colpa. In sostanza, il cittadino che, ancorché assolto, abbia contribuito con dolo o colpa grave a indurre in errore inquirenti e magistrati, vede ridimensionato il proprio diritto a ottenere un risarcimento per la detenzione ingiustamente inflitta. Nel caso di Sollecito, quattro anni di carcere e un'assoluzione definitiva, questo diritto si annulla, si polverizza, nessun risarcimento, non un euro, niente. Per i giudici della terza sezione penale, «le dichiarazioni contraddittorie o false e i successivi mancati chiarimenti» da parte del giovane laureatosi ingegnere dietro le sbarre avrebbero contribuito all'applicazione e al mantenimento della misura cautelare. Ma quali sarebbero le dichiarazioni «menzognere»? «Io non mi sono mai sottratto agli interrogatori - commenta al Giornale il protagonista, suo malgrado, dell'ennesimo colpo di scena in un'odissea giudiziaria durata quasi dieci anni Ho letto la decisione, sono sbigottito. Avverto l'eco della sentenza di condanna, forse sono affezionati agli errori giudiziari». Sollecito è scosso, non se l'aspettava. «Credevo di aver vissuto le pagine più nere della giustizia italiana. Devo prendere atto che la mia durissima detenzione sarebbe giustificata». Nelle ore successive al ritrovamento del cadavere di Meredith Kercher, la studentessa inglese barbaramente uccisa nell'appartamento di via della Pergola nel 2007, Sollecito risponde alle domande di chi indaga, cerca di ricostruire nel dettaglio gli spostamenti suoi e di Amanda, la ragazza americana che frequenta da una settimana, prova a fissare gli orari di ingresso e uscita dal suo appartamento perugino, se Amanda si sia mai assentata nel corso della notte, se il padre gli abbia telefonato dalla Puglia verso l'ora di cena o prima di andare a dormire, Raffaele non si sottrae ma fatica a ricordare con esattezza, si contraddice, giustifica l'imprecisione ammettendo di aver fumato qualche canna come fanno gli universitari di mezzo mondo, nel corso dell'interrogatorio di garanzia dinanzi al gip dichiara: «Ho detto delle cazzate perché io ero agitato, ero spaventato e avevo paura. Posso dire che io non ricordo esattamente quando Amanda è uscita, se è uscita non ricordo». Ma c'è di più. Nell'ordinanza di 12 pagine, si legge che il silenzio mantenuto dall'indagato dopo l'interrogatorio di garanzia Sollecito fu tenuto per sei mesi in isolamento avrebbe contribuito a indurre in errore i giudici. In altre parole, l'esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, frutto di una valutazione della difesa in via prudenziale, diventa indizio di un'innocenza a metà: Sollecito è ancora sotto processo. Per spazzare via ogni dubbio, si afferma che la stessa sentenza di assoluzione emessa dalla Cassazione avrebbe rinvenuto «un elemento di forte sospetto a carico del Sollecito» a causa delle dichiarazioni contraddittorie. Non vi è traccia invece delle censure espresse dai supremi giudici sull'operato dei pm: «clamorose défaillance o amnesie investigative e colpevoli omissioni di attività di indagine», scrivono gli ermellini. Per l'omicidio della Kercher un cittadino ivoriano sconta una condanna definitiva a sedici anni di carcere. Ormai la cultura del sospetto ha inghiottito quella del diritto, è la stessa che fa dire candidamente al presidente dell'Anm Davigo che pure gli innocenti sono colpevoli.

Innocenti di serie B, scrive Claudio Romiti il 14 febbraio 2017 su “L’Opinione. Destando un certo scalpore, soprattutto tra quei cittadini avvertiti che credono in una visione garantista della giustizia, la Corte d’Appello di Firenze ha negato qualunque risarcimento a Raffaele Sollecito per l’ingiusta detenzione. Quattro interminabili anni passati dietro le sbarre che, per una persona vittima di una ricostruzione dei fatti a dir poco surreale, devono essere sembrati un inferno. Così come un inferno, che in alcuni aspetti continua a sussistere per il giovane ingegnere informatico pugliese, è stato il lunghissimo iter processuale, fortemente inquinato da un forte pregiudizio mediatico che ancora oggi fa sentire i suoi effetti presso una parte dell’opinione pubblica disposta a bersi qualunque pozione colpevolista. In estrema sintesi i giudici di Firenze hanno stabilito, bontà loro, che il comportamento iniziale del Sollecito, considerato eccessivamente ambiguo e, in alcuni casi, menzognero, avrebbe indotto gli inquirenti perugini in errore, convincendo questi ultimi - aggiungo io - a mettere in piedi un castello di accuse fondato sul nulla, visto che nella stanza del delitto non furono ritrovate tracce dei due fidanzatini dell’epoca, contrariamente alle decine e decine di evidenze schiaccianti a carico di Rudy Guede. Quest’ultimo, considerato ancora oggi da molti analfabeti funzionali di questo disgraziato Paese solo un capro espiatorio dell’atroce delitto di Perugia, vittima dei soliti poteri forti capitanati dalla Cia, fino a coinvolgere la longa manus di Donald Trump, il quale in passato si era interessato del caso.

Sta di fatto che Raffaele Sollecito, pur essendo scampato ad uno dei più clamorosi errori giudiziari della storia italiana, viene considerato oggi, negandogli alcun risarcimento, un innocente dimezzato. Un mezzo colpevole che avrebbe cagionato le sue disgrazie per non aver fornito in modo chiaro le ragioni della sua innocenza. Tant’è che persino il silenzio mantenuto dall’imputato dopo l’interrogatorio di garanzia, come sottolinea Annalisa Chirico sul “Il Giornale”, avrebbe indotto i giudici nell’errore. “In altre parole - commenta la stessa Chirico - l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, frutto di una valutazione della difesa in via prudenziale, diventa indizio di una innocenza a metà”. E se la decisione di avvalersi della facoltà di non rispondere alle domande degli inquirenti viene valutata in questo modo, ciò significa che nelle nostre aule giudiziarie ancora aleggia quell’idea molto medievale dell’inversione della prova. In un evoluto sistema giudiziario, al contrario, spetta sempre all’accusa dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio la colpevolezza di qualunque imputato. E se questo non accade, proprio perché siamo tutti innocenti fino a prova contraria, le conseguenze fisiche, morali e finanziarie di una accusa caduta nel nulla non possono ricadere sulla testa di chi l’ha pesantemente subìta. Da questo punto di vista, dopo l’annuncio del ricorso in Cassazione presentato dall’avvocato di Sollecito, Giulia Bongiorno, dobbiamo sempre sperare, al pari del mugnaio di Potsdam, che ci sia sempre un giudice a Berlino.

Ma quale è il comportamento contestato a Raffaele Sollecito?

Si legge il 11 Febbraio 2017 su “Il Tempo”. "Credevo di aver vissuto le pagine più nere della Giustizia Italiana, ma nonostante la Cassazione mi ha dichiarato innocente, devo prendere atto che la mia durissima detenzione sarebbe giustificata. Ripeto, la Cassazione aveva sottolineato l'esistenza di gravissime omissioni in questo processo e di defaillance investigative". Così Sollecito - assolto dall'accusa di aver partecipato all'omicidio di Meredith Kercher - commenta sul suo profilo Facebook. "Riprendono in toto la sentenza di condanna di Firenze, piena di errori fattuali ingiustificabili - scrive ancora Sollecito - Adesso questi giudici non tengono minimamente conto di sentenze in cui è acclarato il clima di violenza durante gli interrogatori. Non mi sono mai sottratto ad un interrogatorio e dire che non mi hanno ascoltato è soltanto una scusa, visto che ho fatto mille dichiarazioni spontanee". Per l'avvocato di Sollecito, Giulia Bongiorno, la decisione della Corte d'appello di Firenze «si caratterizza per una serie consistente di errori. Basterebbe pensare che esclude il diritto al risarcimento sulla base delle dichiarazioni che avrebbe reso Sollecito e dimentica che esistono delle sentenze in cui è stato attestato che addirittura, nell'ambito della questura, furono fatte pressioni e violenze alla Knox e Sollecito proprio nel momento in cui rendevano queste dichiarazioni». «Non c'è un solo cenno sulla situazione in questura - aggiunge il legale - Inoltre, l'ordinanza dimentica che le dichiarazioni non possono in nessun modo aver inciso sull'ingiusta detenzione perché non sono state citate come decisive nei provvedimenti restrittivi in cui si faceva invece riferimento ad altri elementi. Infine, in sede di dibattimentale, Sollecito non ha reso alcun esame quindi non si vede come le sue dichiarazioni possano aver causato il diniego di libertà in quella fase. È una sentenza - conclude il legale - che verrà immediatamente impugnata in Cassazione».

Insomma, la Corte di Appello di Firenze, volutamente e corporativamente non ha tenuto conto del clima di violenza e coercizione psicologica che sollecito ha subito nelle fasi in cui gli si contesta un atteggiamento omissivo e non collaborativo.

In ogni modo. Se a Firenze a Sollecito si contesta un comportamento in cui abbia «concorso a causarla» (l'illegittima detenzione), rendendo «in particolare nelle fasi iniziali delle indagini, dichiarazioni contraddittorie o addirittura francamente menzognere», come se non fosse nel suo sacrosanto diritto di difesa farlo, ancor più motivato, plausibile e condivisibile sarebbe stato il diniego alla richiesta dell'indennizzo di fronte ad una vera e propria confessione.

Invece si dimostra che in Italia chi esercita impropriamente un potere, pur essendo solo un Ordine Giudiziario, ha sempre l'ultima parola per rivalersi da fallimenti pregressi.

Giuseppe Gulotta, risarcito con 6,5 milioni di euro dopo 22 anni in carcere da innocente. Il muratore di Certaldo (Firenze) è stato condannato nel 1976 per duplice omicidio e assolto nel 2012. La Corte d'appello di Reggio Calabria ha riconosciuto l'indennizzo. L'avvocato aveva chiesto 56 milioni di euro, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 14 aprile 2016. Sei milioni e mezzo di euro di risarcimento per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. La corte d’appello di Reggio Calabria ha stabilito l’indennizzo per Giuseppe Gulotta, il muratore di Certaldo (Firenze) accusato di aver ucciso due carabinieri e poi assolto nel 2012. La richiesta di Gulotta, attraverso il legale Pardo Cellini, ammontava a 56 milioni di euro. “Stiamo valutando un ricorso in Cassazione”, ha spiegato l’avvocato. “Se da un lato siamo soddisfatti perché con la decisione dei giudici di Reggio Calabria finisce questo lungo percorso, dall’altro non ci soddisfa che sia stato riconosciuto un indennizzo e non un risarcimento”. “Per trentasei anni sono stato un assassino”, aveva raccontato in un libro del 2013 lo stesso Gulotta, “dopo che mi hanno costretto a firmare una confessione con le botte, puntandomi una pistola in faccia, torturandomi per una notte intera. Mi sono autoaccusato: era l’unico modo per farli smettere”. Nel 1976, a 18 anni, Gulotta fu condannato per il duplice omicidio di Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella caserma Alkmar di Alcamo Marina, in provincia di Trapani.

In carcere in Toscana da innocente, crea una fondazione per le vittime degli errori giudiziari. Giuseppe Gulotta fu condannato per l'omicidio di due carabinieri. Dopo 40 anni ha ricevuto i 6,5 milioni di indennizzo dallo Stato, scrive Franca Selvatici il 17 gennaio 2017 su "La Repubblica". È arrivato finalmente l'indennizzo dello Stato per Giuseppe Gulotta e per la sua vita devastata da un tragico errore giudiziario. In tutto 6 milioni e mezzo di euro, che dopo anni di carcere, di disperazione e di difficoltà economiche permetteranno all'ex ergastolano, accusato ingiustamente dell'atroce esecuzione di due giovani carabinieri, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, trucidati il 26 gennaio 1976 nella piccola caserma di Alcamo Marina, di assicurare un po' di agiatezza alla moglie Michela e ai figli e di aiutare chi, come lui, è finito in carcere innocente. Giuseppe Gulotta, nato il 7 agosto 1957, aveva poco più di 18 anni quando finì nel "tritacarne di Stato". Chiamato in causa con altri da un giovane che, dopo essere stato trovato in possesso di armi, fu torturato, costretto a ingoiare acqua, sale e olio di ricino e a subire scosse elettriche ai testicoli, anche lui fu incatenato, circondato da "un branco di lupi", picchiato, insultato, umiliato e torturato, finché - come ha raccontato nel libro Alkamar scritto con Nicola Biondo e pubblicato da Chiarelette - "sporco di sangue, lacrime, bava e pipì" - non ha firmato una confessione che, seppure ritrattata il giorno successivo, gli ha distrutto la vita. Il 13 febbraio 1976 fu arrestato e dopo ben nove processi il 19 settembre 1990 fu condannato definitivamente all'ergastolo. Scarcerato nel 1978 per decorrenza dei termini della custodia cautelare, era stato allontanato dalla Sicilia. I genitori lo mandarono in Toscana, a Certaldo, e qui - fra un processo e l'altro - Giuseppe ha conosciuto Michela, sua moglie, che gli ha dato la forza di resistere nei 15 anni trascorsi in carcere. Nel 2005 ha ottenuto la semilibertà. Sarebbe comunque rimasto un "mostro" assassino se nel 2007 un ex carabiniere non avesse deciso di raccontare le torture a cui aveva assistito. Da allora Giuseppe - assistito dagli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini - ha intrapreso l'impervio percorso della revisione del processo. Il 13 febbraio 2016 - esattamente 40 anni dopo il suo arresto - è stato riconosciuto innocente e assolto con formula piena dalla corte di appello di Reggio Calabria. Quattro anni più tardi, il 12 aprile 2016, dopo altre estenuanti battaglie gli è stato definitivamente riconosciuto l'indennizzo di 6 milioni e mezzo a titolo di riparazione dell'errore giudiziario. Anche gli altri tre giovani condannati come lui sono usciti assolti dal processo di revisione, incluso Giovanni Mandalà, morto in carcere disperato nel 1998. Per i suoi familiari lo Stato si appresta a versare un indennizzo record, il più alto mai riconosciuto in Italia: 6 milioni e 600 mila euro.

Dieci anni dopo Sollecito si racconta: "Servirebbe un film anche su di me. Rivoglio la mia vita". Di Giacomo Talignani l'8 aprile 2017 su Repubblica TV. Tra gli occhi delle persone "che mi guardano come colpevole, come una se fossi una patata bollente" Raffaele Sollecito, 10 anni dopo l'omicidio di Meredith Kercher a Perugia, prova a ripartire da Parma dove lavora come ingegnere informatico in una azienda di app. Assolto in Cassazione, dice di sentirsi "abbandonato dallo Stato" e ferito per "il risarcimento economico negato". Come per Amanda (prodotto da Netflix) anche lui vorrebbe che si facesse chiarezza sul suo ruolo, "magari con un film per raccontare il mio processo. Voglio avere indietro la mia vita".

Assolto per il delitto di Perugia, Sollecito fa causa ai giudici. Raffaele Sollecito e Amanda Knox assolti per l'omicidio di Meredith Kercher. A Genova per competenza territoriale. "Hanno sbagliato e mi hanno rovinato la vita, ora paghino", scrive Marco Preve l'11 aprile 2017 su "La Repubblica".  A dieci anni da uno dei casi di cronaca nera più clamorosi e controversi, uno dei sospettati che dovette trascorrere quattro anni in carcere prima di essere riconosciuto innocente presenta il conto alla magistratura: tre milioni di euro per una serie di “errori e travisamenti delle prove”. Va in scena a Genova l’ultimo capitolo del delitto di Perugia. Meredith Kercher, Mez come era soprannominata dagli amici, era la studentessa inglese di 22 anni che venne uccisa con una coltellata alla gola la sera del primo novembre del 2007 mentre era nella casa di Perugia dove trascorreva l’Erasmus. Tra una serie di ribaltoni giudiziari e una pressione mediatica pesantissima, solo nel 2015 i due sospettati principali, Raffaele Sollecito e la statunitense Amanda Knox, sono stati assolti definitivamente dalla Cassazione. Sollecito aveva avviato una richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione che, però a febbraio gli è stata respinta. Nessuno sapeva che avesse citato in giudizio, in base alla nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati, nove tra pubblici, ministeri procuratori generali, giudici delle indagini preliminari e giudici di corte d’assise e corte d’assise d’appello chiedendo un risarcimento – si parla di una cifra attorno ai tre milioni - per aver travisato fatti, circostanze e prove relative all’omicidio di Meredith Kercher. La legge sulla responsabilità civile prevede cause “per dolo o colpa grave”. Solo per il secondo caso è prevista la citazione anche dei giudici popolari. Ma l’ultima parola spetta al giudice Pietro Spera al quale è stata affidata la causa. Sarà lui, oggi, a decidere se coinvolgere nella citazione anche i 12 giurati popolari della Corte di Assise di Perugia e di quella di Assise di Appello di Firenze. La causa è radicata nel capoluogo ligure perché gli ultimi giudici ad aver condannato Sollecito sono quelli della Corte di Appello di Firenze, e per processi in cui siano coinvolti magistrati toscani il tribunale competente è quello di Genova. Formalmente, in aula è stata citata la Presidenza del Consiglio in rappresentanza dei giudici. A difenderla ci sarà l’Avvocato dello Stato Giuseppe Novaresi. In caso di condanna lo Stato, dopo aver pagato il risarcimento, si rivarrà a sua volta nei confronti dei singoli pm, gip e giudici citati. Sollecito e Knox vennero condannati in primo grado e assolti in appello a Perugia con una decisione annullata dalla Cassazione che dispose un appello bis a Firenze dove i due vennero nuovamente dichiarati colpevoli del delitto di via della Pergola. Prima di essere di nuovo e definitivamente assolti dai Supremi giudici con delle motivazioni decisamente pesanti: “colpevoli omissioni” nelle indagini, condotte con “deprecabile pressapochismo”. Tra i principali bersagli” di Sollecito il pm di Perugia Giuliano Mignini che aveva condotto le indagini. A febbraio di nuovo la Corte di Appello di Firenze aveva respinto la richiesta di risarcimento da mezzo milione di euro per ingiusta detenzione: “I giudici - aveva detto Sollecito - non hanno tenuto conto della sentenza della Cassazione che mi ha definitivamente assolto da tutte le accuse. Questa aveva infatti rilevato che ci sono state gravi omissioni e defaillance degli investigatori e dunque cerano precise responsabilità’ nella fase delle indagini. Per questo sono sorpreso da una decisione che ancora una volta proviene da Firenze e che sembra non dare seguito a una chiara sentenza della Cassazione”.

Raffaele Sollecito a Parma: "Voglio essere riconosciuto innocente davanti all'Italia". Intervista di Maria Chiara Perri del 10 aprile 2017 su "La Repubblica", all'ingegnere 33enne a dieci anni dal delitto di Perugia. Sogna un documentario che lo riabiliti agli occhi dell'opinione pubblica: "Ancora molti pregiudizi verso di me, le istituzioni ammettano di aver sbagliato". Nel documentario di Netflix "Amanda Knox" ogni intervento di Raffaele Sollecito, originario di Giovinazzo, è preannunciato da vedute di maestosi faraglioni della costa barese. E’ piuttosto straniante vedere il co-protagonista dell'eclatante caso giudiziario internazionale a proprio agio davanti a un caffè in piazza Ghiaia a Parma, mentre cita alcuni dei luoghi più frequentati dai giovani parmigiani - bar Gianni, parco Ducale, via Farini - come fosse ormai “di casa”. A dieci anni dal delitto di Meredith Kercher, che lo ha reso suo malgrado noto alle cronache mondiali, Raffaele Sollecito riparte dalla città emiliana dove si è trasferito stabilmente da ormai più di un mese. Lo ha portato a Parma una collaborazione stretta con una società di sistemi informatici, Teknomaint Srl, per la sponsorizzazione di un software da lui ideato per la prenotazione online di ombrelloni e altri servizi turistici, suntickets.it. Per ora è ospitato a casa di amici nei pressi di barriera Bixio, ma non esclude di trovare una sistemazione fissa per il futuro e, chissà, di prendere la residenza. Oggi divide la sua attività tra quella di ingegnere informatico e la partecipazione a convegni e incontri per far conoscere la sua vicenda. La riabilitazione agli occhi dell’opinione pubblica, mancata dopo l’assoluzione in via definitiva, è un traguardo che il 33enne cerca con forza.  

Raffaele, come è stato accolto a Parma?

“Mi trovo bene qui. Amo il paesaggio del Lungoparma, lo stile liberty, i bellissimi parchi come il Ducale dove c’è la sede del Ris. Le persone hanno un’aura un po’ francese e distaccata, abbastanza diffidente, diciamo che tendono a stare sulle loro ma qualcuno mi ha detto persino 'benvenuto'. A Perugia l’atteggiamento era diverso, molto più invadente. Quando è uscita la notizia del mio trasferimento ci sono state un po’ di polemiche sui social network, ma penso che la Rete tiri fuori il peggio della gente quando si tratta di criticare. Canalizza un odio latente che oggi è molto presente nella società italiana e che si scarica su capri espiatori, ad esempio gli immigrati. Io però a Parma ho trovato collaborazioni, approcci cordiali, la possibilità di promuovere il mio libro. Ho scoperto persino di avere alcuni parenti che vivono a Traversetolo”.

Immagino che anche qui, come in tutta Italia, la riconoscano.

“Agli sguardi sono abituato, cerco di passarci sopra. A volte quando mi sento gli occhi addosso parlo con le persone, non sono chiuso se qualcuno ha una curiosità nei miei confronti. Quello che pesa è il pregiudizio: la gente si immagina di tutto e di più”.

Lei sa che l’opinione dell’uomo della strada sul caso Kercher è ancora ‘Amanda e Sollecito sono fuori perché hanno i soldi per i bravi avvocati, Guede è dentro per tutti”.

“L’uomo della strada non sa di che cosa parla. Non sono i soldi ad aver portato una persona in carcere, è la scena del crimine. Le tracce di Rudy Guede ci sono, quelle mie e di Amanda no. Vorrei che le persone riflettessero: se questo fosse successo a loro, che cosa avrebbero fatto? E’ giusto che una persona innocente per difendersi debba avere i soldi? E se uno non li ha, deve rimanere in carcere? La mia famiglia ha investito molto sulle consulenze di parte in termini di tempo e denaro, io mi sono fatto quattro anni di carcere tra isolamento e massima sicurezza, oggi devo ancora affrontare debiti. L’uomo della strada parla dopo aver visto un’immagine di me e di Amanda che ci abbracciamo, senza sapere che non ci siamo neanche avvicinati a quella stanza, che ho dato io l’allarme ai carabinieri. Sono state diffuse molte informazioni distorte e sono stato dipinto come un personaggio negativo per dare spazio alle tesi della Procura”.

Prima ha citato la sede del Ris. Questo le ricorda il processo?

“Molti pensano che le indagini nel 2007 siano state condotte dal Ris, ma non è così. E’ stata la Polizia scientifica di Roma, che all’epoca non aveva le certificazioni internazionali per fare le indagini forensi. Il Ris nel processo di appello bis è giunto alle stesse conclusioni della nostra consulenza di parte su procedure e protocolli riguardanti le tracce di Dna sul coltello. Ho raccontato la verità in convegni, interviste, in tv”.

Nonostante l’assoluzione definitiva, non le è stato riconosciuto un risarcimento per l’ingiusta detenzione.

“E’ come se lo Stato mi avesse preso in antipatia perché ho attaccato i magistrati che hanno fatto grandi errori. La motivazione con cui mi negano il risarcimento è, di fatto, che dovevo essere condannato e che dovrei dire grazie perché sono stato assolto. Questo mi fa molto arrabbiare. Qual è il loro gioco? Mi sento abbandonato a me stesso. E’ colpa mia se hanno fatto errori? Io lo dico, pretendo di poterlo dire. Io voglio essere riconosciuto innocente davanti all’Italia”.

C’è ancora pregiudizio nei suoi confronti. Come lo vive sulla sua pelle?

“E’ come essere ai domiciliari, immerso in una società ostile. Gli sconosciuti mi percepiscono come una patata bollente, un ordigno pronto a esplodere perché sono sotto i riflettori. Se mando un curriculum o telefono a un’azienda presentandomi come Raffaele Sollecito, è matematico che non ci sarà una risposta positiva. L’unica soluzione è presentarmi con la mia faccia e parlare direttamente con le persone, solo così si apre una strada. L’ho scoperto dopo tante porte in faccia. Sono stato coraggioso perché non so in quanti, dopo quattro anni di carcere e dieci sui media, abbiano voglia di affrontare la vita. Quest'esperienza ha fatto sì che a 33 anni per molti aspetti non abbia timori, ma avrei preferito vivere serenamente piuttosto che passare quello che ho vissuto”.

Lei ha vissuto l’esperienza del carcere quando era molto giovane.

“In quel periodo ho avuto un grande supporto dalla mia famiglia e dagli amici. Ho un carattere particolare, sono molto riflessivo e non rancoroso, l’odio non è nel mio vocabolario. I primi tempi ero certo che si sarebbero accorti di aver sbagliato e che sarebbero tornati sui propri passi. Invece, per mantenere l’orgoglio o il prestigio delle proprie carriere hanno tenuto in piedi un castello di carte. Oggi vedo le cose allo stesso modo in cui le vedevo allora, mi chiedevo: è possibile che abbiano costruito tutto questo sul nulla? Sì, lo hanno fatto. Quando l’ho capito ho messo da parte la mia vita per fare emergere la verità. Questo non deve succedere più. Non hanno ripagato la mia fiducia nelle istituzioni e hanno sbattuto innocenti in carcere con indagini penose. Io non voglio gogne, non mi interessa accusare gli inquirenti con nomi e cognomi, voglio solo che mi sia restituita la mia dignità e che si dica che le istituzioni hanno sbagliato”.

In che modo potrebbe essere riabilitato agli occhi dell’opinione pubblica?

“Magari con un documentario in cui rappresentanti delle istituzioni, della magistratura, del Ris, insomma figure esperte e di rilevanza sociale, spieghino che cos’è stato questo processo. Io ad oggi, dopo una sentenza definitiva, non ho ancora capito se lo Stato mi ha assolto o no, ci sono giudici che mi dicono cose opposte. Voglio risposte chiare, che mettano fine a uno scempio”.

Col senno di poi, ci sono cose che non farebbe o che farebbe in modo diverso?

“Quel giorno andrei a Gubbio, dove dovevo andare, non rimarrei con Amanda. Le direi: mi dispiace ma è un problema tuo e delle tue amiche. Io avevo 23 anni, conoscevo Amanda da cinque giorni, la settimana successiva avrei dovuto discutere la tesi. Insomma, sono stato coinvolto in una storia tristissima ma completamente al di fuori da ogni mio raggio d’azione. E poi mi prenderei subito un avvocato, come mi venne consigliato in questura. Non lo feci perché appunto ero molto giovane e preso da tutt’altro, pensavo ‘ma perché mai dovrebbero toccarmi, non c’entro nulla’”.

Come vorrebbe che la vedessero?

“Come un ingegnere informatico che fa software. Mi divido tra quest’attività e i convegni, c’è molto interesse nel settore forense per la mia vicenda. Nel futuro mi piacerebbe proporre alle Procure l’idea di un software per compilare i verbali in modo sicuro. Il sistema informatico si aprirebbe prima degli interrogatori, riconoscerebbe voci e ruoli del presenti e trascriverebbe automaticamente tutta la registrazione, per poi salvarla criptata sui server del Ministero dell’Interno. Sarebbe una garanzia in più per tutti, inquirenti e imputati, ed eviterebbe verbali approssimativi che vengono dichiarati inutilizzabili in sede processuale. Come i miei”.

PRESUNTA COLPEVOLE. AMANDA KNOX.

Amanda Knox: “Io, colpita e molestata dalla giustizia italiana”, scrive il 13 Agosto 2017 "Il Dubbio". La ragazza assolta per l’omicidio di Meredith Kercher torna a parlare: “L’aiuto di Trump mi danneggiò”. “Ringrazio Trump per avermi sostenuto, ma il suo aiuto avrebbe potuto danneggiarmi”. Amanda Knox, la ragazza di Seattle assolta per l’omicidio di Meredith Kercher dopo una lunghissima battaglia giudiziaria, torna a parlare della sua vicenda. Lo fa con una lunga intervista a “Rolling Stones” e punta dritto contro Donald Trump che la difese, certo, ma la sua non è “sembrata una difesa ma una sorta di bullismo, di arroganza da parte degli americani nei confronti degli italiani. Come se gli americani si sentissero in diritto di dire agli italiani cosa fare”. Dunque, ammette Amanda: “Avrei preferito che Trump avesse agito con maggiore prudenza”. Ma il giudizio di Amanda nei confronti dei magistrati italiani è durissimo: “Ho denunciato il fatto di avermi negato il diritto di avere un avvocato, di avermi colpita durante gli interrogatori”, racconta Amanda, che poi rincara la dose: “Mi interrogarono per oltre 53 ore in cinque giorni. Il risultato fu che l’interrogatorio finì nel modo sbagliato che tutti abbiamo visto. Non mi lasciavano uscire senza che affermassi qualcosa che includesse il nome di qualcuno. Questa cosa insana di estorcere false confessioni è molto comune. Non c’è alcun bisogno di colpire le persone o di molestarle verbalmente e psicologicamente. C’è un motivo se tutto ciò è definito illegale. Ero una ragazza di 20 anni senza precedenti con la giustizia e con un livello di italiano pari a quello di un bambino di 10 anni”. Poi le accuse a Guede, l’unico riconosciuto colpevole dai giudici: “Non voglio incontrare mai più quella persona, quello che ha fatto è stato terribile, ma so che chiamandolo cattivo non capirò mai perché lo ha fatto. Ho compreso il pubblico ministero, Giuliano Mignini: per quanto le sue idee fossero folli, almeno ho capito da dove venissero fuori. Ho capito che aveva motivi nobili e che in fondo ha a cuore le persone. Ho capito perché e come de-umanizza le persone e come lo ha fatto con me. Ma non ho ancora capito Guede. Non ce l’ho con lui, ma mi spaventa.”

PRESUNTO COLPEVOLE. LUCIANO CONTE.

Luciano Conte, 54 giorni in carcere per un latitante in casa ma a sua insaputa. C’era una volta la casa a sua insaputa, e persino la tangente a sua insaputa. Ma il latitante a sua insaputa è un brivido che, in casa propria, ha sperimentato solo un barista: che ne avrebbe volentieri fatto a meno, visto che l’equivoco da incubo gli è costato 54 giorni per sbaglio a San Vittore e altri 86 giorni per errore agli arresti domiciliari. Custodia cautelare prima di essere scagionato dall’accusa di aver nascosto a casa il latitante Gioacchino Matranga, fuggito il 26 ottobre 2009 dalla prospettiva di 30 anni per traffico di droga. La serrata caccia datagli dal pm Paolo Storari aveva riacciuffato Matranga il 31 dicembre e individuato anche la casa in cui era stato a Natale: casa del barista Luciano Conte, dunque arrestato dal gip Giulia Turri insieme al cognato di cui il latitante parlava intercettato con la moglie. Inutilmente il barista si sgolò dalla cella: mai conosciuto Matranga, non sapevo stesse nel mio appartamento e non me ne sono accorto, è mio ma ci vado poco perché vivo a casa della mia compagna, ed ecco le foto che provano che dal 24 al 28 dicembre non ero a Milano ma in vacanza con lei in Svizzera. Tutto inutile. Fin quando in Tribunale la verità riflessa si impone alla giudice Marina Zelante che assolve Conte per non aver commesso il fatto: è stato il cognato, a sua insaputa, a dare per 4.000 euro a un basista del latitante le chiavi di casa prese alla moglie (sorella del barista) che ogni tanto andava a farvi le pulizie. E ora, «per la “beffa” di essere assolto sulla base degli stessi elementi indicati sin dall’inizio», con l’avvocato Francesca Galli il barista chiede allo Stato 70.000 euro di risarcimento per ingiusta detenzione. (Fonte: Luigi Ferrrarella, Corriere della sera, 3 aprile 2013)

PRESUNTO COLPEVOLE. MARIO CONTE.

Addio a Mario Conte, magistrato vittima della malagiustizia. Gli errori giudiziari sono qualcosa che può capitare a tutti. Finire in carcere da innocenti, vivere un periodo più o meno lungo di ingiusta detenzione, è molto meno raro di quello che si possa pensare. Un fenomeno che in Italia è decisamente sottovalutato perché – numeri alla mano – costituisce in realtà una vera emergenza sociale: come altro definireste i circa mille casi di riparazione per ingiusta detenzione che ogni anno in media si verificano nel nostro Paese, da più di vent’anni a questa parte? La storia del magistrato Mario Conte, una precocissima esperienza a Palermo in prima linea nell’antimafia seguita da una carriera come pm a Bergamo, sotto questo aspetto è illuminante. Finì trascinato in un’accusa infamante, per un giudice dalla condotta cristallina come lui, per opera di un pentito. Travolto da capi di imputazione pesantissimi. Sottoposto a un’odissea giudiziaria a cui, nel tempo, si aggiunse un macigno ancora più colossale: una malattia terribile come il mieloma multiplo. Difficile dire se provocata, magari indirettamente, dal calvario personale cui già era stato sottoposto dal momento dell’incriminazione infondata. Ma destinata comunque a cambiargli la vita per sempre. Mario Conte ha impiegato 18 anni per dimostrare la sua totale estraneità a ogni accusa. Ha vinto contro la malagiustizia, ma ha dovuto cedere a qualcosa contro cui, purtroppo, non poteva che soccombere. Di lui ci resta un libro testamento dal titolo chiaro ed efficace come pochi altri. Perfetto per ricordare a tutti che finire nelle maglie dell’errore giudiziario può accadere a chiunque: a prescindere dalla condizione sociale, dalla provenienza, dalla collocazione geografica. E quando la giustizia sbaglia, sono dolori veri. Raccontare la sua storia in giro per l’Italia sarebbe stato, per quanto possibile, un piccolissimo risarcimento alle vicende nelle quali è stato suo malgrado coinvolto. Ma Mario Conte non ce l’ha fatta: è spirato pochi giorni prima che il suo libro «E se fossi tu l’imputato? Storia di un magistrato in attesa di giustizia» (Guerini e Associati Editore) potesse essere presentato nel paese che aveva dato le origini alla sua famiglia, Villanova del Battista, al quale era molto legato. Quello che ha riguardato Conte può essere catalogato come mero errore giudiziario, uno di quelli che in Italia, purtroppo, non sono così rari? Napoletano di nascita, ma irpino di Villanova per origini familiari, Conte era entrato in magistratura a soli 27 anni: da allora, a Bergamo per anni da pubblico ministero presso la Procura della Repubblica. «E se fossi tu l’imputato?» è il suo libro-testamento che invita a fuggire, a rigettare il concetto di giustizia come mero e vuoto esercizio del potere. Un titolo che è una domanda secca a chi legge, per far intendere che l’errore può colpire chiunque: anche magistrati come lui. Perché gli ultimi 18 anni della vita di Conte sono un vero e proprio calvario. Prima, nel 1997, viene accusato da un pentito di essere a capo di una serie di presunte operazioni illecitamente gestite dai militari del Ros di Bergamo e di Roma, che avrebbero costituito una struttura deviata per strumentalizzare le norme sulla consegna controllata di stupefacenti, al fine di conseguire brillanti operazioni. Nel 2003, Conte riceve il primo avviso di garanzia. Le accuse, gravissime, gli piombano addosso come un macigno: associazione a delinquere, traffico di stupefacenti, falso, peculato. «Io sono un pm, non un narcos», reagisce d’istinto. Normale, per chi aveva trascorso quattro anni, dal 1992 al 1996, da applicato presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. Là dove la mafia la si combatte giorno dopo giorno, minuto dopo minuto. Al dramma giudiziario si aggiunge quello strettamente personale, che alcuni neurochirurghi ritengono legato al primo a filo doppio: nel 2006 gli viene diagnosticato un mieloma multiplo. Conte non si arrende e alla battaglia per la sua innocenza affianca quella per la guarigione. Battaglie che terminano nello stesso periodo, seppur con esiti drammaticamente opposti: dopo aver rinunciato alla prescrizione, nel luglio 2014 viene assolto con formula piena dalla Corte d’Appello di Milano. Il 2 ottobre scorso, invece, deve arrendersi al male che in 9 anni lo ha divorato. Dopo i funerali, tenuti a Bergamo, oggi, con una celebrazione alle 17 presso la Chiesa di Santa Maria Assunta, lo ricorderà anche Villanova del Battista. Oltre all’insegnamento di una vita integerrima, Mario Conte lascia un libro che è anche un testamento, una visione del tanto discusso e discutibile sistema giuridico italiano maturata attraverso la propria professione e la vicenda che lo ha coinvolto. Un sistema che egli conosce benissimo ma del quale rimane vittima. Eppure, basterebbero «piccoli accorgimenti: bisogna recuperare – scrive Conte – le distinzioni dei ruoli e la cultura della prova, oggi spesso soppiantata da una visione della giustizia non già come servizio nei confronti del cittadino, ma come esercizio di un potere che funge da ammortizzatore sociale, scadendo così in un’attività di supplenza di altri poteri dello Stato incapaci di esprimere il proprio ruolo». (fonte: Domenico Bonaventura, Il Mattino, 10 ottobre 2015)

Storia di Mario Conte, magistrato rovinato dalla “giustizia”. Un processo all’ingiusto processo, scrive il 28 Maggio Francesco Amicone su “Tempi”. Messo alla sbarra per vent’anni secondo le accuse (inattendibili) di un criminale senza scrupoli, uscito assolto ma distrutto da due gradi di giudizio, l’ex pm ha deciso di scrivere un libro per legittima difesa. A partire da oggi, giovedì 28 maggio, sarà nelle librerie “E se fossi tu l’imputato?” (Guerini e Associati, 143 pagine, 15,50 euro), il libro in cui l’ex pm di Bergamo Mario Conte “processa” l’ingiusto processo subìto per vent’anni dopo essere stato coinvolto nella rumorosa indagine sul generale del Ros Giampaolo Ganzer. Pubblichiamo l’articolo tratto dal numero di Tempi in edicola che racconta la sua storia. L’Italia non sarebbe abbonata alle sentenze europee per violazione dei diritti umani e la giustizia avrebbe risolto gran parte dei suoi problemi, se fosse svelta come lo era Biagio Rotondo a uscire di prigione. Rotondo era un criminale soprannominato “il Rosso”. Entrava in prigione con accuse che avrebbero sistemato chiunque per anni e riusciva ottenere gli arresti domiciliari dopo qualche mese. Spaccio, rapine, furti. La sua fedina penale era costellata di crimini, anche violenti, ma riusciva a cavarsela con le parole. Mandava a chiamare il pm di turno e in cambio di informazioni per lui si aprivano le porte del carcere. Per i suoi accusati, invece, ad aprirsi era una lunga stagione di guai. Dalle parole di Rotondo nasce l’inchiesta che dal 1997 ha coinvolto alcuni carabinieri della sezione anticrimine di Bergamo, i vertici dei carabinieri e un magistrato, per associazione a delinquere e traffico di stupefacenti. Rotondo non c’è più, si è impiccato in carcere nel 2007, ma il processo per alcuni imputati, in particolare l’ex comandante del Ros Giampaolo Ganzer, è ancora in corso. La durata quasi ventennale del processo è solo un particolare dell’esperienza da imputato vissuta da Mario Conte. Per trent’anni pm a Bergamo e oggi scrittore per legittima difesa, dal 1997 al 2014 Conte ha calcato aule di tribunali e studi di avvocati replicando alle accuse di Rotondo, della procura di Brescia e di Milano, dalle quali è stato completamente scagionato lo scorso anno. Dichiarato due volte innocente, ha preso la penna e ripercorso la sua vicenda giudiziaria raccontando nel dettaglio gli errori, le discrasie del sistema e alcune sviste dei pm che hanno condotto l’inchiesta. E se fossi tu l’imputato? è il titolo del libro di Conte, editato da Guerini. La vicenda ha inizio nel 1997. A giugno di quell’anno, Rotondo viene arrestato per tentato omicidio, rapina, illecita detenzione e porto di armi dalla questura di Brescia. Le porte del carcere si sarebbero chiuse per almeno un decennio se non avesse aperto bocca. Non bastava il mea culpa, c’era bisogno di una storia. Il Rosso l’aveva e la offrì alla procura di Brescia. Il pm Fabio Salamone decise di ascoltarla. Rotondo parlò della sua collaborazione con i carabinieri di Bergamo, due anni come informatore fra il 1992 e il 1994, soffermandosi su alcune irregolarità compiute dai militari e spiegando, dichiarazione dopo dichiarazione, in cosa consistesse il suo lavoro. Il compito affidatogli da “il Biondo”, “il Ciccio” e altri militari del Ros infiltrati nelle organizzazioni del narcotraffico, sarebbe stato quello di trovare criminali e istigarli ad acquistare la droga da loro importata tramite alcune fonti. In Italia, la legge sulle attività sotto copertura vieta la provocazione, ma stando a Rotondo, era proprio quello che facevano lui e gli altri militari coinvolti: avrebbero imbastito un traffico di stupefacenti internazionale con la protezione di un magistrato di Bergamo, Mario Conte, che firmava gli atti di indagine per ottenere successo, pubblicità e fare carriera. Il “sistema” sarà poi definito dai magistrati e dai giornalisti “metodo Ganzer”, generale dei carabinieri allora in ascesa e oggi in pensione, con una sentenza della Cassazione ancora pendente. Salamone, colpito dalle confessioni di Rotondo, fece parlare il pregiudicato per altri due anni. L’inchiesta, per quanto delicata, approdò davanti a un giudice soltanto nel 2003, a Milano. Nel frattempo Rotondo non smise di delinquere e fu nuovamente arrestato nel 2007, dopo aver violato più volte il programma di protezione testimoni che aveva conquistato con le sue dichiarazioni sul Ros. Sulla base delle parole di Rotondo è stato costruito un processo in cui Conte viene accusato di essere a capo del “sistema” con cui gli agenti del Ros, sotto la sua regia, avrebbero violato la legge sulle “consegne controllate” di droga, usando come burattini il Rosso e narcotrafficanti del calibro di Otoya Tobon, soprannominato “El drago” (un colombiano ai vertici del cartello di Calì e in seguito collaboratore della Dea americana). Il problema, afferma l’ex pm di Bergamo, non è avere cercato riscontro alle parole del pentito, ma il metodo seguito per verificarle. Le dichiarazioni di Rotondo difficilmente potevano essere ritenute attendibili, nel suo caso. Esaminato dalla difesa o dalla accusa, Rotondo più volte aveva cambiato versione dei fatti. Ai giudici che hanno assolto Conte è parso evidente dalle stesse dichiarazioni del pentito, il quale nel 1997 affermava «io non so se il dottor Conte sapesse come le operazioni venivano gestite», per poi cambiare parere dopo quattro anni di collaborazione: «Il dottor Conte certamente sapeva che lo stupefacente era nelle mani del Ros e che io cercavo acquirenti». Ma non si fermano qui le perplessità sulle dichiarazioni di Rotondo, perché il consulente di Conte, analizzando i nastri delle registrazioni del 1997 e del 1998, vi riscontrò molte anomalie. Ad esempio numerose interruzioni – in alcuni casi ogni sei minuti, in un caso addirittura ogni cinquanta secondi – e a volte sovra-incisioni che avrebbero dovuto rendere quelle registrazioni inutilizzabili. Il metodo operativo che avrebbe seguito Conte, usare le fonti dei carabinieri come Rotondo o “El drago” per imbastire traffici di droga direttamente dagli uffici della procura, sarebbe poi stato confermato da un appunto (senza data e non protocollato) di un maresciallo dei carabinieri. Si tratta di un resoconto di una riunione del 1991 fra il pm Conte e sottufficiali del Ros e del Road. In quell’occasione, stando all’appunto inoltrato da un maresciallo (del Road) ai superiori di stanza a Roma, Conte avrebbe teorizzato come infrangere la legge per incastrare alcuni narcotrafficanti. Nella riunione si era parlato di un’operazione sotto copertura nel quadro dell’allora nuova legge sugli agenti “undercovered”. L’appunto del carabiniere (deceduto prima di testimoniare), stando all’accusa confermava le parole di Rotondo. Secondo i giudici, però, non poteva considerarsi fedele a quanto detto da Conte. Ciò è avvalorato dal fatto che nessun altro ufficiale di polizia giudiziaria aveva pensato di informare i superiori di quel “metodo” di condurre le operazioni anti-droga. Ma ciò che ha stupito Conte è il fatto che sia stato proprio lui a dovere chiamare a testimoniare i presenti alla riunione per dimostrare che quell’appunto non poteva corrispondere a un suo discorso. Anche in questo caso, secondo il magistrato di Bergamo, si è disatteso un principio cardine del sistema processuale italiano. Il pm, infatti, non è un avvocato dell’accusa che si limita a cercare conferme alla sua teoria. Deve applicare la legge senza ignorare gli indizi a favore dell’imputato. Un modo di procedere diverso porta alla «inversione dell’onere della prova», dove è un presunto colpevole a dovere dimostrare la falsità o la verità di una teoria, quando questo compito spetterebbe ai pm. Nel processo Conte ci sono stati 43 depositi di atti relativi a indagini integrative in un arco temporale che va dal 2005 al 2012, con una media di un deposito di migliaia di pagine ogni due mesi. Il fascicolo del solo dibattimento è composto da circa 95 mila file. Migliaia di pagine, decine di faldoni da studiare, e tempi che si allungano portano inoltre a errori e confusioni negli stessi addetti ai lavori. È quasi inevitabile. Quando il procuratore generale fece appello contro la sentenza di primo grado che aveva assolto Conte, avrebbe dovuto aver studiato tutti gli atti nei quarantacinque giorni a disposizione per legge. Il che avrebbe implicato una velocità di lettura media di circa 2 mila pagine al giorno e un impegno giornaliero di circa 17 ore lavorative. 24 ore su 24, se si conta anche la redazione dei motivi di appello, una volta letti gli atti. Umanamente impossibile. Nella doppia veste di ex imputato e magistrato (favorevole alla responsabilità civile), Conte si chiede come può funzionare una giustizia che non risponde dei propri errori. Gli abbagli che sono spesso favoriti da una proliferazione di atti, mettono in difficoltà sia l’accusa sia la difesa. Conte, a riguardo, cita un esempio lampante. Nei suoi capi d’accusa era stata inserita un’operazione della procura di Bologna, condotta da un altro magistrato. L’errore all’apparenza banale fu fatto presente al pm che gestiva l’inchiesta nella seconda fase (udienza preliminare) e sembrò essere accolto. Ma fu dimenticato nella richiesta di rinvio a giudizio. Questo sbaglio, spiega l’ex pm Conte, ha comportato una evitabile perdita di tempo. Si è dovuto chiamare il magistrato di Bologna e farlo venire a testimoniare a Milano per provare che quell’operazione non aveva nulla a che fare con l’imputato. Nelle requisitorie dei pm si assiste, racconta Conte, a una replica delle inesattezze presenti negli atti. Dalle date alle interpretazioni, ovunque può nascondersi una svista. Emergono anche aspetti non chiari sul modo di seguire le regole da parte della stessa autorità giudiziaria. Riguardo all’uso delle intercettazioni, ad esempio. Conte spiega come nel suo processo dovessero essere acquisite alcune conversazioni registrate dalla procura di Roma ma che ciò fu impossibile. Il pm, nel dibattimento, informò le parti dell’impossibilità di acquisirle per «motivi tecnici». Si trattava, disse l’accusa, di «conversazioni registrate dalla Guardia di Finanza su delle cassette purtroppo oggi irrecuperabili». Conte volle controllare e scoprì un’altra verità. I finanzieri avevano scritto al pm milanese: «È d’obbligo precisare che l’operazione di registrazione venne effettuata per soli scopi operativi. Non essendoci alcuna autorizzazione formale dell’autorità giudiziaria». «Come già specificato, la registrazione non era stata oggetto di alcuna autorizzazione del pm (di Roma, ndr), il quale, verbalmente, al momento del coordinamento con gli operanti circa le attività da esperire, aveva con gli stessi convenuto di effettuare tale registrazione». Stando alle parole dei finanzieri, quindi, era stata eseguita un’intercettazione abusiva. Ecco perché non potevano essere acquisite. Si conclude con una seconda assoluzione in appello, senza strette di mano o risarcimenti, la vicenda di Conte. La carriera dell’ex pm, oggi giudice civile, è ancora bloccata dal Consiglio superiore della magistratura, che a un anno dall’assoluzione chiede a Conte di rispondere della richiesta di rinvio a giudizio di dieci anni fa, incurante dell’innocenza stabilita dai tribunali. E se fossi tu l’imputato? è un “processo” a un processo. Un libro che dimostra nel dettaglio come la malagiustizia può nascere quando chi dovrebbe applicare le leggi si dimentica dei princìpi che stanno alla base del giusto processo, dalla presunzione d’innocenza all’onere della prova.

E se fossi tu l’imputato? Il caso del magistrato Mario Conte, scrive l'11 Giugno 2015 Luigi Amicone su "Tempi". La lettera del direttore di Tempi al Foglio a proposito del libro del «pm indagato, triturato e assolto dopo vent’anni». Sul Foglio di oggi appare una lettera del direttore di Tempi Luigi Amicone e relativa risposta di Claudio Cerasa. Le riproponiamo di seguito. Al direttore – C’è un volumetto appena uscito in libreria per i tipi della Guerini&Associati (E se fossi tu l’imputato?) che ben si potrebbe definire una esemplificazione della testimonianza di Piero Tony, con esposizione fin troppo minuziosa, tecnica e dettagliata di come si costruisce un “mostro” attraverso un lavorìo perfettamente rispettoso di tutte le regole del circo mediatico-giudiziario ma anche totalmente avulso dai dati, prove, riscontri fattuali. Il caso del magistrato (anch’egli appartenente a Md) Mario Conte è interessante. Dimostra che quando l’accusa si trasforma in epopea narrata dalla grancassa mediatico-scandalistica, solo un pm può avere gli strumenti per difendersi da altri pm. Oggi, dopo vent’anni di processi e il manifestarsi di un cancro come quello che uccise Tortora, Mario Conte è un magistrato a cui è stato restituito l’onore umano e professionale, completamente prosciolto dall’accusa di essere stato il regista di una organizzazione criminale strutturata in cellula deviata dei Ros che avrebbe trafficato e spacciato per “brillanti operazioni di polizia” il puro e semplice traffico e spaccio di stupefacenti in tutta Italia. Ma in tutta Italia però – ci conferma l’esperienza di questo magistrato democratico – un pm che rispetti le leggi dello scandalismo mediatico può violare le leggi, farla franca e uccidere per via giudiziaria anche un collega, se necessario. Come? Cito ad esempio un episodio riferito nel libro. «Dagli atti risulta che il Goa (Gruppo operativo antidroga della Guardia di Finanza ndr) aveva inviato il 19 maggio 2004 al pm di Milano, in risposta alla sua richiesta di acquisizione dei nastri delle registrazioni, una nota18 nella quale c’era scritto qualcosa di ben diverso da quanto dichiarato dalla pubblica accusa: “È d’obbligo precisare – si legge – che l’operazione di registrazione venne effettuata per soli scopi operativi. Non essendoci alcuna autorizzazione formale dell’A.G. … Come già specificato, la registrazione non era stata oggetto di alcuna autorizzazione del pm [di Roma], il quale, verbalmente, al momento del coordinamento con gli operanti circa le attività da esperire, aveva con gli stessi convenuto di effettuare tale registrazione”. Non vi era alcun provvedimento di autorizzazione per quelle intercettazioni. Era stata eseguita un’intercettazione abusiva! Fa, poi, quasi sorridere, se come al solito non si giocasse con il destino delle persone, il fatto che la Guardia di Finanza parli di intercettazioni “per soli scopi operativi”, categoria che sicuramente mi manca non trovando un riscontro normativo. Il pm di Milano, in conclusione, apprende di un’intercettazione abusiva, ma non prende nessuna iniziativa a riguardo».

Il problema definitivo è che nessun cittadino italiano può mettersi al posto di Conte. Pm indagato, triturato e assolto dopo vent’anni. Perché nessun cittadino italiano può permettersi collegi di difesa come quelli di Andreotti o di Berlusconi. Oppure, in alternativa, difendersi come si è difeso il pm Conte, sapendo letteralmente dove “mettere le mani” (munito per altro di un programmino informatico capace di vivisezionare e individuare gli elementi cruciali nella montagna di atti processuali, nel caso: 100 mila file). Perciò, per rispondere all’interrogativo del libro, se fossi stato tu l’imputato Mario, ma Laqualunque e non un Conte pm, avresti potuto semplicemente rassegnarti. Cominciare a scrivere le tue memorie dal carcere e imparare a morire di cancro. Luigi Amicone. Grazie della lettera. Sul tema garantismo e sulla lotta dura e pura e senza paura alla repubblica delle manette le confesso però che la partita più appassionante in questi giorni si gioca fuori da Roma. Si gioca a Venezia, secondo me. Dove vincerà l’ex magistrato Felice Casson, tanti auguri sinceri, ma se per una qualsiasi ragione dovesse vincere il suo rivale, Luigi Brugnaro, siamo pronti a farci un bel selfie con una buona bottiglia di champagne. Cin cin.

PRESUNTO COLPEVOLE. BENIAMINO ZAPPIA.

Beniamino Zappia. Tre anni di ingiusta detenzione per mafia. Ma era solo un’omonimia. Per essere un esponente di spicco della mafia può attendersi, gli era anche andata bene: 3 anni di carcere più 11 mesi agli arresti domiciliari. Il fatto è, però, che Beniamino Zappia non era affatto quello che gli inquirenti pensavano che fosse: non era un boss della mafia italo-canadese. I giudici se ne sono accorti in ritardo, assolvendolo con formula piena. E il suo legale, l’avvocato Luis Eduardo Vaghi, ha subito pensato di presentare un’istanza di riparazione per ingiusta detenzione. Ma procediamo per gradi. Come e quando comincia questa storia? Tutto inizia il 22 ottobre 2007, con il blitz della Dia di Roma ribattezzato “Orso Bruno”. Beniamino Gioiello Zappia – questo il nome del protagonista della vicenda – viene arrestato con un’accusa pesantissima: associazione a delinquere di stampo mafioso. I magistrati della Capitale lo indicano come l’uomo di collegamento, a Milano, tra le cosche agrigentine e quelle italo-canadesi legate al clan dei fratelli Rizzuto di Montreal. Nel capo di imputazione, lo descrivono come “personaggio storicamente legato all’associazione mafiosa Rizzuto”, di cui “è da sempre suo referente in Italia e in particolare a Milano ed in Svizzera”. Un uomo, insomma, “dedito alle più disparate attività delinquenziali” di cui, sempre stando all’ipotesi accusatoria, i Rizzuto si sarebbero serviti per infiltrarsi negli appalti milionari per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina. Insieme a lui, che ha ammesso davanti ai magistrati di conoscere alcuni membri della famiglia Rizzuto solo “per nome”, finiscono dietro le sbarre altri 18 presunti esponenti del clan italo-canadese dei Rizzuto. Diciamolo subito: Beniamino Zappia non è uno stinco di santo, la sua fedina penale non è immacolata. Ma di qui ad accusarlo di essere un boss ce ne corre. Il giorno del suo arresto viene portato nel carcere milanese di San Vittore. Poi viene trasferito a Roma e quindi spostato ancora, prima a Benevento e poi a Secondigliano. Poco più di un anno dopo essere stato arrestato, Zappia vive il suo periodo più difficile. Da fine novembre 2008, a 70 anni compiuti (Zappia è del 1938) scatta per lui la sorveglianza speciale: è il cosiddetto regime di “carcere duro”, previsto dal 41 bis per i mafiosi. Un incubo che finisce il 25 maggio 2010, con la concessione degli arresti domiciliari. La fine del calvario giudiziario arriva il 23 novembre 2012, a 5 anni, un mese e un giorno dall’operazione che lo aveva portato in carcere. La sentenza di assoluzione è di totale proscioglimento: “perché il fatto non sussiste”. Una volta tornato libero il suo assistito, l’avvocato Vaghi decide di andare a fondo: è convinto che gli inquirenti romani abbiano fatto un errore macroscopico: uno scambio di persona dovuto a un’omonimia. Ha studiato con la massima cura tutte le carte processuali. Nel capo di imputazione dell’operazione “Orso Bruno”, si legge che “Robert Papalia (presunto boss delle cosche di Montereal) ha coadiuvato Giuseppe Zappia nell’attività finalizzata all’aggiudicazione dell’appalto per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina”. Si parla di Giuseppe, non Beniamino, Zappia. Ma le anomalie non finiscono qui. Un’altra anomalia emerge dalle motivazioni della sentenza dove è citata la testimonianza del vicequestore Alessandro Mosca, ufficiale della Dia di Roma che ha coordinato l’inchiesta Orso Bruno. Nel corso del dibattimento, il funzionario ha dichiarato che “l’indagine è nata nel 2003 presso la procura della Repubblica di Roma a seguito di una segnalazione pervenuta alla Dia della Polizia Canadese, nella quale si segnalava la presenza in Roma di un personaggio, Giuseppe Zappia, soprannominato in Canada il ‘Commendatore’, che veniva indicato come fortemente legato ad un’organizzazione criminale che operava a Montreal, denominata famiglia Rizzuto”. Sempre in quel’occasione, si legge nel provvedimento, “il vice questore Mosca ha chiarito che Giuseppe Zappia è persona diversa dall’imputato medesimo, né suo parente”. La stessa tesi viene sostenuta nel corso del processo da Lorie Mcdougall, un ufficiale della polizia canadese. È lo stesso investigatore che ha seguito le indagini sulla famiglia di Vito Rizzuto dal settembre 2002 e che ha affermato di essere consapevole che l’imputato era persona diversa da tale Giuseppe Zappia, soggetto questo coinvolto nei traffici e nei rapporti con il Rizzuto in particolare nella procedura per l’appalto per la costruzione del ponte sullo Stretto di Messina. Per l’avvocato Vaghi non ci sono dubbi: Beniamino Zappia è stato vittima di “un caso di mera omonimia”. Quel che è peggio, secondo il legale, è che la difesa ha tentato in ogni modo di portare alla luce l’equivoco, ma tutti gli elementi raccolti “sono stati sistematicamente ignorati, sia in sede di indagine che in sede di udienza preliminare”. Lo dimostra proprio l’esame dell’ufficiale Mcdougall, citato come testimone dalla Procura, che durante la fase dibattimentale “rammostrava al giudicante l’errore in cui era corsa la pubblica accusa. E a questa stessa conclusione si poteva arrivare con maggiore tempestività”. (fonte: Askanews, 7 marzo 2015).

PRESUNTO COLPEVOLE. MARCO SAVINI.

Marco Savini, otto anni per dimostrare di essere innocente. “Assolto perché il fatto non sussiste”: una formula di cui l’avvocato Marco Savini conosce perfettamente il valore e non soltanto per via della sua professione. È grazie a questa frase, pronunciata per tutti i capi di imputazione, infatti, che l’ex vicesindaco di Montesilvano (in provincia di Pescara) è uscito a testa alta dall’inchiesta Ciclone, che a luglio 2007 cambiò per sempre la sua vita costringendolo, all’età di 32 anni, a 98 giorni di arresti domiciliari. Un’avventura giudiziaria lunga otto anni che Savini ora ha deciso di portare fino in fondo attraverso una richiesta di un risarcimento danni in grado, se non di cancellare la sofferenza di essere stato accusato ingiustamente di una lunga serie di reati che vanno dall’associazione a delinquere, al falso, dalla truffa alla corruzione, almeno di poter dimostrare che la giustizia ha compiuto correttamente tutto il suo percorso. “Ho sempre avuto fiducia nel sistema giudiziario”, rivela Savini, “e pur ritenendomi una persona assolutamente estranea a tutti i capi di imputazione, in maniera rispettosa e silente, mi sono fatto i miei processi e mi sono difeso. Ma proprio perché credo molto nel sistema, adesso il sistema prevede che chi come me ha subito ingiuste detenzioni o, come nel mio caso, un danno alla propria immagine, possa ottenere un risarcimento. Non voglio gridare al complotto e non lo faccio in un’ottica di rivincita, ma è solo un modo per compensare le opportunità personali perse e che credo siano state perdute anche dalla città. E non perché Marco Savini era il più bravo di tutti”, chiarisce l’ex vicesindaco, “ma perché erano stati attivati dei processi amministrativi che poi sono stati tranciati e messi nel tritacarne”. A detta di Savini, l’inchiesta Ciclone ha creato dei grandi danni soprattutto alla città. “In questi anni, non si è lavorato per l’affermazione di un nuovo progetto”, prosegue, “ma soltanto per differenziarsi da un passato con il quale non si è mai fatto il conto. L’inchiesta ha rappresentato un alibi per molti, un’opportunità per altri, ma il dato oggettivo è che Montesilvano in 8 anni ha perso tante occasioni e soprattutto la reputazione. Mi auguro che la politica montesilvanese di centrosinistra recuperi il tempo perso”. Per Savini è importante, però, non commettere gli stessi errori del passato. “L’errore finora è stato consentire agli interessi privati di entrare nelle istituzioni”, prosegue, «sia ben chiaro in maniera legittima attraverso le elezioni. Ma dobbiamo fare in modo che i partiti fungano da filtro. I cittadini devono poter scegliere tra persone lontane da interessi economici”. L’ex vicesindaco, già assessore nella giunta Gallerati, torna a quel 2007 e alla domanda se «rifarebbe quanto fatto finora» non ha dubbi: «È facile con il senno di poi dire non rifarei il vicesindaco, ma forse non è neanche vero questo. Dopotutto, senza questa esperienza non sarei quello che sono oggi ed è stata utile anche per la mia professione di avvocato, perché ha confermato la mia fiducia nei confronti della giustizia. Certo ho commesso degli errori, ma non mi sono mai nacchiato di reati, e questo è un dato oggettivo”. Sull’importo della richiesta di risarcimento danni, attualmente al vaglio dei suoi colleghi avvocati, spiega: “La richiesta non è stata ancora quantificata, aspettiamo prima le motivazioni della sentenza”. (fonte: Antonella Luccitti, il Centro, 2 gennaio 2015)

PRESUNTO COLPEVOLE. OSCAR MILANETTO.

Oscar Milanetto, niente scommesse: la sua fu ingiusta detenzione. Coinvolto in una brutta storia legata al calcioscommesse, ne è uscito fuori completamente scagionato. Ma sull’ingiusta detenzione subita, ben 17 giorni in carcere da innocente con la pesante accusa di associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva, Omar Milanetto (ex calciatore e oggi dirigente del Genoa) non vuole passarci sopra come se nulla fosse accaduto. E, acclarata con sentenza definitiva la sua innocenza, ha dato mandato ai suoi avvocati di richiedere ciò che la legge prevede espressamente nei casi come il suo: una riparazione per l’ingiusta detenzione subita, quei giorni in custodia cautelare che gli hanno distrutto la reputazione e portato via la serenità. Ci sono voluti quattro anni e mezzo per escludere ogni coinvolgimento di Milanetto in una presunta – ma mai accaduta – combine della partita Genoa-Lazio del 2011. E oggi l’ex centrocampista vuole andare fino in fondo. Dopo aver rifiutato assieme al suo Genoa patteggiamenti in ambito sportivo e subito quattro anni e mezzo di persecuzione giudiziaria culminata con 17 giorni di ingiusta detenzione, Omar Milanetto e con lui (moralmente) tanti genoani che l’hanno sempre difeso, è passato al contrattacco. Il dirigente RossoBlu ha atteso la fine della vicenda innanzi alla Caf(di cui abbiamo dato conto) con la definitiva conclusione dell’affaire Lazio-Genoa, per chiedere un cospicuo risarcimento danni allo Stato. In più circostanze ci siamo occupati di vicende carcerarie, di innocenti in galera e di ‘piccoli’ Enzo Tortora o nomi noti prima adorati e poi gettati nella polvere con tanto di tv, siti e giornali non bramanti di meglio, che ogni tanto fanno capolino nelle cronache giudiziarie. Quella di Milanetto, infatti, è ormai questione di civiltà e non più sportiva. Ma ricordiamo brevemente i fatti: il 28 maggio 2012 Milanetto, all’epoca centrocampista del Padova, fu tirato giù dal letto in piena notte, trascinato in carcere davanti ai figli attoniti e caricato di accuse pesanti come l’associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva. Tutto ciò per le dichiarazioni false di improbabili collaboratori come Ilievsky o per le intercettazioni mal trascritte o interpretate in modo errato. Su tutte, quella in cui il calciatore spiegava di volersi recare ad Albaro per degli acquisti, trascritta come se Milanetto avesse detto di voler andare ‘dal baro’ per truccare qualche partita. 17 giorni di ingiusta carcerazione preventiva per accuse sgretolatesi fino all’assoluzione finale, che porrebbero sul banco degli imputati in un paese progredito a livello giuridico il Pm cremonese (e sampdoriano) Roberto Di Martino che si è intestardito nel portare avanti iniziative (fra cui questa) fondate sul nulla e quei giudici che di volta in volta permettono arresti in stile tangentopoli, ovvero finalizzati a ottenere confessioni o nomi. La testardaggine con cui Milanetto (e con lui il Genoa) ha fatto emergere dopo quattro anni e mezzo la sua innocenza per la presunta ma inesistente combine con Lazio nel 2011,vedrà ora un’ulteriore coda dopo l’annuncio dato a Primo Canale dall’avvocato dell’ex calciatore, Maurizio Mascia. Come già preannunciato alcuni mesi fa, a luglio, ora è giunta la conferma che l’azione legale contro lo Stato sarà intrapresa e la cifra richiesta sarà di 516.546 euro, ovvero l’equivalente di un miliardo di lire. Somma che forse non ripaga della gogna, della sofferenza, dell’umiliazione e dell’ingiusta detenzione subite ma che può – se riconosciutagli – servire a ribadire ancora una volta quanto costino sulla pelle dei cittadini e sulle finanze pubbliche certi errori giudiziari pagati da tutti i cittadini, in assenza di una vera responsabilità civile dei magistrati in Italia. (fonte: Fabrizio Ferrante, Blastingnews, 11 ottobre 2015)

PRESUNTO COLPEVOLE. DIALLO A..

Diallo, 2 mesi in carcere per un “disguido d’ufficio”. La burocrazia è uno dei problemi fondamentali della giustizia italiana. E, nel caso che vi stiamo per raccontare, anche la causa prima di un’ingiusta detenzione, se non di un vero e proprio errore giudiziario. Proprio così: in Italia può accadere che, per quello che in burocratese viene ridotto a un banale “disguido d’ufficio”, un uomo sia costretto a passare in carcere senza motivo più di due mesi. E’ l’ennesima storia di malagiustizia: per colpa di un incredibile intreccio di coincidenze, unito a un pasticcio di competenze tra commissariato e questura, una comunicazione importantissima – perché certificherebbe che un condannato sta effettivamente rispettando l’obbligo di firma che gli è stato comminato – si perde nei meandri della burocrazia. Con il pessimo risultato di far risultare il protagonista di questa vicenda (Diallo A., un ventottenne immigrato regolare, originario della Guinea) responsabile di un reato che in realtà non ha mai commesso: “renitente all’obbligo di firma”, per usare l’arido linguaggio della polizia. Un errore, dunque. Non proprio un errore giudiziario nel significato che il codice penale dà a questa locuzione, ma uno sbaglio che causa un danno non da poco a chi invece, avendo già sbagliato di suo e volendo regolare i propri conti con la giustizia, si ritrova invece a vestire un ruolo che non vorrebbe: quello di chi ricasca nell’errore di commettere un reato. Nell’articolo del quotidiano milanese “Il Giorno” che riportiamo, viene ricostruita nei dettagli questa vicenda paradossale e per certi versi sintomatica dello stato della giustizia italiana. Tutta colpa di una firma, e di dove la metti. Se in questura o se in un commissariato di zona. E, nel secondo caso, c’è il rischio che quella firma si perda, si vanifichi e vanifichi anche il suo effetto. E il firmatario torni spedito a San Vittore. Per due mesi e un tot, dove è tuttora: per un «disguido d’ufficio». Un errore. Non suo. Il suo, quello di spacciare piccole dosi, lo ha pagato con un patteggiamento a un anno di reclusione: per cui la pena di Diallo A. – 28enne della Guinea, lingua francese e poco italiano – l’1 luglio è stata commutata dal giudice Micaela Curami in obbligo di firma trisettimanale. Ma un «disguido d’ufficio» – come viene definito dal dirigente della Divisione anticrimine della questura, Maurizio Azzolina, in una nota di chiarimenti a Procura, direttissime, e legale che Diallo è riuscito finalmente a nominare, Antonio Nebuloni – lo ha rinfilato a San Vittore, dal 30 luglio fino a tuttora. E il tuttora comprende un pasticcio di competenze su chi ha titolo, allo stato degli atti, sul detenuto, per cui la sua posizione potrebbe rimbalzare tra giudice del procedimento (nel frattempo divenuto definitivo), ufficio esecuzione della Procura e Tribunale di sorveglianza. A tutti i quali saranno destinate carte per la scarcerazione del ragazzo, che poi sarà in grado di valutare con il legale una causa per ingiusta detenzione. La prima colpa di Diallo – regolare sul territorio italiano – è il piccolo spaccio, la seconda è di non avere una dimora certa. Questo sarebbe, stando alla ricostruzione imbarazzata fatta dalla questura, il motivo dell’equivoco. Lui infatti, arrestato in flagranza il 24 maggio, condannato l’1 luglio a un anno e 1.200 euro di multa, ottiene la commutazione della pena in obbligo di firma, lunedì mercoledì e venerdì presso uffici della polizia giudiziaria. Dove regolarmente si presenta dall’1 al 6 luglio: nel commissariato di Porta Genova ma a insaputa degli uffici centrali. Così su Diallo, già il 6 luglio piomba la segnalazione della divisione anticrimine come renitente all’obbligo. Ragione per cui il tribunale il 10 luglio ripristina la custodia in carcere, e il 30 luglio – nel corso di un controllo – Diallo torna a San Vittore. Il giovane africano impiega oltre due mesi a capire e a trovare un legale che lo capisca. Quando l’avvocato Nebuloni ricostruisce che Diallo si è «presentato alla firma presso il commissariato Milano Porta Genova dall’1.7 al 30.7» e che «non ha mai saltato neppure un giorno del suo obbligo», la questura avvia una verifica interna. Da cui: «Effettivamente il Diallo in data 1.7.2015 si presentava» al commissariato Porta Genova; mentre «non risulta che si sia mai presentato negli uffici della questura dove era stato invitato…». La trasgressione delle prescrizioni è segnalata «in quanto dalla interrogazione allo Sdi non risultava essere stato sottoposto agli obblighi di nessun ufficio di polizia…». E, non avendo il ragazzo eletto alcun domicilio certo, «l’ufficio» era nell’«impossibilità di avere uno specifico commissariato come riferimento», così unico strumento utile all’accertamento restava la banca dati che lo aveva invece obliato. Solo «dalla successiva consultazione degli atti dell’Archivio generale è stata rinvenuta la nota del commissariato di Porta Genova, diretta anche alla Divisione anticrimine per conoscenza». Ma «la citata nota per un mero disguido d’ufficio sfuggiva all’attenzione degli operatori e quindi veniva trattata alla stregua di tutta la corrispondenza che perviene per conoscenza all’ufficio arrestati ai soli fini dell’archiviazione». E fu così che Diallo – Guinea – fu archiviato a San Vittore. (fonte: Marinella Rossi, Il Giorno, 9 ottobre 2015).

Altro che errori giudiziari. Giustizia in Italia, dove tutto può accadere. Gli orrori e le ingiustizie del nostro sistema, scrive Valter Vecellio su “L’Indro”. Molti lo ricordano certamente Un giorno in pretura: il film di Steno con un grande Alberto Sordi, un altrettanto bravo Peppino De Filippo; e Sophia LorenSilvana PampaniniWalter ChiariLeopoldo Trieste; ambientato nella seconda sezione della pretura di Roma, davanti al giudice Salomone Lo Russo, si presentano gli imputati di diversi, piccoli reati. Un film che parla, in chiave leggera, ma al tempo stesso serissima, della giustizia cosiddetta minore: quella chiamata a confrontarsi quotidianamente con le vicende umane più comuni e disparate. Qui mancano De Filippo, Sordi, Chiari; ma sono comunque episodi che possono far parte di quella galleria, una sorta di Un giorno in pretura due; e rivelano più di qualsiasi convegno o trattato giuridico, lo stato della giustizia in Italia. Per esempio: un detenutoriconosciuto innocente, e nonostante ciò in carcere. Non per un giorno, una settimana, che può capitare, anche se non dovrebbe. In carcere per ben 72 giorni: oltre due mesi. Non tanto per il classico ‘errore giudiziario’; perché non c’è giudice competente sul suo caso. Incredibile? Bene, vediamola, la storia di Diallo A., 28 anni, originario della Guinea, piccolo spacciatore. Per questo viene condannato; patteggia, e si vede commutata in obbligo di firma. A questo punto viene – si fa per dire – il bello. Diallo è in carcere; per svista amministrativa, per burocrazia inerte, per quel che si vuole, resta in cella, non viene liberato. Finalmente si accorgono che non dovrebbe starci; a questo punto i portoni del carcere si aprono? Proprio no. Nessuno firma l’ordine di scarcerazione, e Diallo continua a stare in quella cella dove, per ‘disguido’ (giustificazione della questura) è stato rinchiuso. L’avvocato difensore si rivolge al giudice, per ottenere lo sblocco della situazione; il giudice, pur comprensivo, risponde con un non luogo a provvedere: ha ammesso il patteggiamento, commutato la pena in obbligo di firma tri-settimanale; lui a questo punto esce di scena. L’inghippo sta nel fatto che a causa di quel disguido, gli atti sono stati trasmessi alla Procura. Il Pubblico Ministero competente, qui entra in campo Franz Kafka, dovrebbe concedere la sospensione dell’esecuzione della penama il provvedimento si applica a chi è in libertà, proprio per evitargli la galera. Ma in questo caso, Diallo in galera già c’è… Potrebbe intervenire il Giudice di sorveglianzaperò la cosa non è ancora nella fase delle sue competenze, la sentenza definitiva non è a sua disposizione; solo dopo quella, il difensore può proporre istanza di misure alternative. Ora tutta questa labirintica e tortuosa situazione ci si augura di averla raccontata come si è verificata; non si esclude di aver commesso qualche imprecisione; come si può immaginare, capire, e spiegare, come sia potuto accadere quello che è accaduto, è complicato. Prima o poi la vicenda si risolverà, se già in queste ore non si è risolta. Non è questo il problema; il problema è che è potuto accadere. Un caso interessante è quello del Tribunale di Prato. Un caso che diventa un caso perché c’è un giudice gran lavoratore, colpevole appunto di lavorare troppo. Di udienza in udienza, riesce a smaltire una quantità di procedimenti: questo singolare magistrato, una donna, spiega che “proprio non riesco a fare rinvii su certe questioni, mi sento come un medico o un’infermiera che stanno soccorrendo un moribondo e non se ne vanno se suona la campanella di fine lavoro”. Vallo a dire a cancellieri e al personale del tribunale che lavora oltre l’orario previsto senza essere retribuito… In Tribunale raccontano che la pianta organica è sotto-dimensionata, che il personale è stato ridotto del 35 per cento. A Prato, raccontano, convivono 127 etnie, la falsificazione dei marchi è ormai un qualcosa di cronico e storico; e una quantità enorme di micro, ma anche macro reati. “Dovremmo essere almeno un centinaio come a Lucca o Pisa invece siamo una quarantina”, dice Sergio Arpaia, cancelliere e sindacalista dell’Unsa. Non ha torto, beninteso. Lo riconosce anche il magistrato iper-attivo, il potenziamento del personale è necessario. Al tempo stesso, ragiona, “qui decidiamo della vita delle persone e non si può ascoltare la campanella di fine lavoro”… Della serie: c’è sempre qualcuno che sta peggio di quanto si sta noi. La disegnatrice e attivista iraniana Atena Farghadani, 29 anni, è detenuta nel famigerato carcere di Evin a Teheran, condannata a 12 anni e nove mesi per oltraggio; ma anche per attentato alla sicurezza nazionale e diffusione di propaganda a ostile alle istituzioni; in realtà è colpevole di pensare come non pensano gli ayatollah, e di aver disegnato alcune vignette che hanno preso di mira esponenti del regime, perfino e la guida suprema, Alì Khamenei. Prelevata in casa nell’agosto 2014 dai pasdaran della Guardia rivoluzionaria, Atena viene malmenata e trascinata in carcere. Rilasciata a novembre, è di nuovo arrestata, dopo aver denunciato in un video i maltrattamenti in cella. Nuovo rilascio, quindi l’ultima incarcerazione a gennaio; altre denunce di percosse, uno sciopero della fame di protesta, il peggioramento delle condizioni di salute. Un giorno incontra l’avvocato difensore; alla fine del colloquio, si congeda con una stretta di mano. L’avvocato, Mohammad Moghimi, per questa stretta di mano arrestato: il gesto viene bollato come ‘al limite dell’adulterio’; lo liberano dopo tre giorni, paga una cauzione di 60.000 dollari, resta comunque sotto accusa. Atena, è accusata di condotta indecente e relazione sessuale inappropriata; deve perfino a subire un test di verginità e gravidanza nel carcere in cui è rinchiusa.

PRESUNTO COLPEVOLE. MARCO SANTESE.

Marco Santese.Gli nascondono polvere bianca nell’auto, parrucchiere passa 26 giorni in carcere. Trascorse ventisei lunghi giorni fra carcere e arresti domiciliari con l’accusa di detenzione ai fini di spaccio di cocaina, erano invece poco più di 23 grammi di zucchero. Dopo un lungo anno di indagini, gli investigatori hanno scovato i presunti registi della messinscena ordita ai danni del parrucchiere brindisino Marco Santese, 30 anni. Secondo l’accusa del pm Giuseppe De Nozza, che ha chiesto per entrambi il rinvio a giudizio per calunnia aggravata in concorso, si tratta della ex moglie Monica Biasi, 25 anni e Antonio Sanasi, 40 anni, il nuovo compagno di lei. Il movente? Pare che Sanasi temesse un ritorno di fiamma fra i due ex e che, con la complicità di un confidente storico dei carabinieri, avesse soffiato la calunnia nelle orecchie dei militari. Il prologo di questa incredibile vicenda risale a poco più di un anno fa. Il parrucchiere brindisino, incensurato, viene arrestato dai carabinieri il 29 marzo scorso. Quella mattina stessa una telefonata avverte i militari che sotto il copri cerchio della sua auto l’artigiano nasconde lo stupefacente. Alle 7,30 scatta il blitz, in sei piombano nella bottega del rione Santa Chiara, e la perquisizione conferma le informazioni dello spione. Non è tutto. Ancora più incredibile è il fatto che, da lì a poco, il narcotest sulla sostanza conferma che si tratta di cocaina. L’uomo viene arrestato di fronte ai clienti increduli e al datore di lavoro, allibito. Il legale difensore, Gianvito Lillo, non si arrende e ostinatamente chiede una seconda perizia che viene infine disposta dal pubblico ministero. I risultati confermarono l’innocenza proclamata per ventisei lunghi giorni dalla vittima: è zucchero, comune disaccaride saccarosio in polvere. Il gip Alcide Maritati dispose l’immediata scarcerazione dell’artigiano mentre l’avvocato Lillo sporse per conto del proprio assistito denuncia contro ignoti. Gli investigatori si misero immediatamente a caccia dei calunniatori. La coppia è stata stanata dagli stessi militari della compagnia francavillese, indagini coordinate dal maresciallo Antonino Farrugia, impianto accusatorio corroborato da un massiccio carico di intercettazioni.  E’ lo stesso Marco Santese, nel corso dell’interrogatorio di garanzia, a suggerire la pista agli inquirenti, sa bene che non sono molte le persone che possono nutrire motivi di rancore nei suoi confronti. La traccia si rivela assai puntuale e i carabinieri, con una motivazione in più del solito, arrivano presto e bene al punto, i registi della storia sono la ex moglie e il nuovo compagno. Il movente? Un insano desiderio di vendetta. A ordire il piano contro il parrucchiere, suggerendo il nascondiglio dello stupefacente posticcio a un confidente dei carabinieri, fu Santese, il nuovo compagno della ex moglie, con l’obiettivo di eliminare il rivale dalla circolazione. Letteralmente. Le intercettazioni confermano le prime intuizioni degli investigatori, tanto che la prima ipotesi di reato a carico dei due, ossia falso per induzione, muta in calunnia aggravata in concorso per aver fatto ingiustamente rischiare all’artigiano una pena da otto a venti anni di carcere. Fissata per il 28 maggio l’udienza preliminare che deciderà per il rinvio a giudizio o l’archiviazione del caso, mentre pende di fronte alla Corte d’appello di Lecce la richiesta risarcitoria per ingiusta detenzione. (Fonte: Sonia Gioia, Brindisi Report, 10 aprile 2011)

PRESUNTO COLPEVOLE. FRANCESCO FUSCO.

Francesco Fusco. “I pm mi hanno rovinato la vita in cambio di 8 mila euro”. “Signor Presidente, faccia qualcosa per gli italiani, eviti che finiscano nelle mani di persone che possono rovinare la loro vita come hanno fatto con me, eviti che la magistratura abbia a spargere tanta sofferenza”: con queste parole, il 13 luglio del 2008, Francesco Fusco, ex dirigente dell’Agusta – arrestato due volte e processato tre per reati mai commessi, prosciolto da ogni accusa, ma solo dopo dieci anni di persecuzione giudiziaria – concludeva una lettera al Presidente Napolitano, destinata a non ricevere risposte. L’aveva scritta con la sola mano destra, dal letto dell’istituto Redaelli di Milano, dove l’aveva inchiodato un ictus paralizzandogli il lato sinistro e lo tormentava un cancro alle ghiandole salivari. Fusco è morto a Milano l’altro giorno, e questa mattina – venerdì 27 luglio – avrà le sue esequie. Vittima di una giustizia approssimativa e occasionale, sbadata quanto spietata nei suoi carsici accanimenti. Una storia da Giobbe, la sua, la storia di un giovane benestante, apolitico, che dopo una bella carriera da giornalista, a 53 anni, nell’89, viene assunto all’Agusta dall’allora presidente Roberto D’Alessandro, craxiano, come direttore delle relazioni esterne. Nel settembre del ’92 i pm Antonio Vinci e Francesco Misiani lo arrestano (il primo morirà d’infarto nel ’98 mentre era agli arresti domiciliari per corruzione; e il secondo sarà incriminato nel ’96 per favoreggiamento e assolto solo dopo essersi dimesso dalla magistratura: un sinistro contrappasso). I pm pensano che Fusco sappia tutto delle tangenti intermediate da D’Alessandro, che invece faceva da sé. Lo sbattono in prigione senza neanche interrogarlo: vogliono nomi. Lui non ne sa, alla fine il gip lo scarcera. Riprende a lavorare, nel privato, ma nel ’94 lo riarrestano negli Usa per “corruzione di persone ancora da identificare”. Stessa trafila, altri tre mesi bruciati tra carcere e domiciliari, un altro lavoro perduto, e poi una trafila estenuante fino al 2001 – 2 milioni di euro per difendersi e mantenere e curare se stesso e la famiglia – quando arriva l’assoluzione definitiva. Nel frattempo un’altra incriminazione, a Milano, che in tre anni evapora, con lo stesso pm Gherardo Colombo che ne propone il proscioglimento per l’evidente estraneità ai fatti. Fusco chiede l’indennizzo per l’ingiusta detenzione: lo stato valuta la sua via crucis 8 mila euro. Vale la pena ricordare tutto questo nel giorno del suo ultimo viaggio. Perché i giornali di solito raccontano le inchieste e le condanne: molto più raramente gli errori giudiziari e il calvario di chi ne subisce le devastanti conseguenze. (fonte: Sergio Luciano, Italia Oggi, 27 luglio 2012).

PRESUNTO COLPEVOLE. ANDREA MARCON.

Andrea Marcon, ingiusto il suo arresto. La vita distrutta di un maresciallo dei carabinieri. «L’arresto? Uno choc. Io arrestavo i delinquenti, non sarebbe dovuto succedere il contrario». Il maresciallo maggiore Andrea Marcon viene catturato nell’ottobre 2005 in caserma, mentre comanda ad interim la stazione dei carabinieri di Montecchio Maggiore. «Fu terribile», ricorda. Dieci giorni di detenzione e poi la sospensione dal servizio. «Quasi trent’anni di carriera cancellati, perché la maggior parte di colleghi e superiori mi voltarono le spalle, come fossi appestato, eppure ero sicuro di non avere violato la legge», aggiunge angosciato e sconsolato. Il tempo non ha lenito la ferita che dice durerà per il resto della sua esistenza. Poi il rientro in servizio e il trasferimento al battaglione di Bologna in attesa del processo. «Sono ripartito da capo, poi la seconda tegola, perché col rinvio a giudizio ci fu la seconda sospensione, mi sentivo finito perché con lo stipendio ridotto a 700 euro non potevo più mantenere la famiglia», rammenta la pagina più umiliante della sua vita. Quindi due processi conclusisi allo stesso modo: la pubblica accusa che chiede la condanna, i giudici che lo assolvono con formula piena. Un arresto del tutto ingiusto. La Corte d’Appello menziona poche volte il suo nome nelle 42 pagine della sentenza con la quale sono stati invece condannati a 5 anni di reclusione gli ex colleghi Francesco Menolascina e Ignazio Mirigliani. L’inchiesta è quella nota delle operazioni antidroga dei carabinieri di Valdagno, tra il 2004 e 2005, giudicate in secondo grado illegali nell’utilizzo degli agenti provocatori. Per Marcon una vicenda anche straziante, perché nelle stesse ore in cui veniva assolto a Venezia definitivamente – la procura generale non ha presentato ricorso in Cassazione – il padre moriva a Torri di Quartesolo. Intanto, una decisione il maresciallo l’aveva presa. «Sono andato in pensione, nonostante avessi 52 anni, e in teoria pensassi di avere davanti a me ancora una decina d’anni di carriera. Ma con 700 euro al mese non si può vivere, avendo famiglia». Già, la famiglia. Con l’arresto è andata a pezzi. Tanto che nei momenti più bui, quando «la depressione ti assale e pensi perché un servizio fatto come mille altre volte stavolta è giudicato illegale, per giunta arrestando spacciatori», Marcon ha pensato «di farla finita». «Non mi vergogno a dire di essere andato a comprare la gomma per attaccarla al gas di scarico della macchina – insiste senza alcun velo d’infingimento – e se mi sono fermato all’ultimo è stato per mio figlio. Perché se sei innocente, come poi i giudici hanno per due volte stabilito, non te ne fai una ragione di essere invischiato in una storia allucinante». Marcon racconta di quando per andare a compiere le operazione antidroga usava la propria macchina, per non gravare sullo Stato. «Avevo sempre lavorato così e io non c’entravo davvero nulla con gli eventuali illeciti commessi – dice -, perché io comandavo il radiomobile, le indagini erano imbastite dai colleghi del nucleo e io intervenivo nella fase conclusiva, a supporto. Invece, sono stato preso in mezzo». Il maresciallo in pensione sottolinea con amarezza che non tutti sono uguali. «Io senza essere mai condannato – osserva – sono stato sospeso due volte dal servizio e in pratica costretto ad andarmene dall’Arma nonostante il mio stato di servizio fosse ineccepibile, mentre il generale dei carabinieri Ganzer, per indagini antidroga di ben altra dimensione e gravità, è stato condannato a 14 anni di carcere e non è mai stato sospeso. Io constato il trattamento diverso. Ci sono militari di seria A e serie B». La «grande famiglia» dell’Arma quando Marcon venne arrestato nei fatti «mi espulse». «Sono stato abbandonato da tutti – conclude – in particolare dall’Arma, nonostante una vita spesa a correre dietro ai banditi. Ne sono uscito a pezzi, perché a costo di sembrare retorico, io gli alamari li avevo cuciti sulla pelle. Adesso chiederò i danni allo Stato per l’ingiusta detenzione e per le spese che ho dovuto sostenere di avvocato, Lucio Zarantonello, che ringrazio perché mi ha sostenuto come un fratello. Ma per il resto…». (Fonte: Ivano Tolettini, Il Giornale di Vicenza, 5 febbraio 2012).

PRESUNTA COLPEVOLE. CHIARA BARATTERI.

Chiara Baratteri. Era al bar a lavorare, altro che rubare: con quella banda di truffatori non c’entra. E’ notte fonda a Niella Tanaro, in provincia di Cuneo. A casa Baratteri, Chiara, la madre, dorme nella sua camera, nell’altra stanza c’è Jodie, il figlio adolescente, che è andato a letto presto perché domani c’è la scuola. Il silenzio ovattato viene interrotto dal campanello della porta: “Aprite, Carabinieri!”. Chiara, senza rendersene conto, si ritrova con le manette ai polsi, circondata da uomini dell’Arma, davanti al figlio che trema di paura. La donna crede di sognare, di trovarsi in un orrendo incubo. E’ invece è tutto vero. Chiara viene fatta salire sulla gazzella con il lampeggiante acceso e condotta prima nella stazione dei Carabinieri di Mondovì, poi nel carcere di Cuneo. Solo all’arrivo nel penitenziario piemontese viene messa al corrente dell’accusa di far parte di una banda di nomadi Sinti responsabile di una sessantina di truffe e raggiri ai danni di anziani della zona. E’ l’11 ottobre del 2007. Cinque giorni e cinque notti in una cella prima di dimostrare che lei, con quei due episodi, tentato furto e furto, commessi il 26 ottobre e il 24 novembre 2006, in due case di anziani di Carcare, non c’entrava nulla. Chiara, come sempre, era al lavoro dietro il bancone del bar “Caffè Le Olle”, lungo la statale 28 tra San Michele Mondovì e Vicoforte. “Sono stata arrestata sulla base di un riconoscimento fotografico, ma nei giorni in cui avrei tentato la truffa e il raggiro a Carcare, in provincia di Savona, ero a lavorare al bar, a Niella Tanaro, come ho dimostrato dai registri del locale. E’ stata un’esperienza allucinante che non auguro a nessuno”, ha spiegato la signora, 35 anni, assistita dall’avvocato Mario Almondo di Torino, che ne ha ottenuto la scarcerazione dopo l’interrogatorio di garanzia, “vista l’infondatezza delle notizie di reato”, come affermato dal Gip di Savona Emilio Fois. “Durante l’interrogatorio è emerso in maniera incontrovertibile che lei non aveva nulla a che fare con quei fatti. E anche le fattezze fisiche della mia assistita sono ben diverse da quelle riconosciute dall’anziana”, ha sottolineato il legale. Dopo due anni la posizione di Chiara Baratteri è stata archiviata e la donna, assistita dall’avvocato Gabriella Turco, del foro di Mondovì, ha chiesto un indennizzo per l’ingiusta detenzione. “Per il coinvolgimento in questa vicenda, la mia assistita ha subito danni all’integrità psico-fisica, patrimoniali, di immagine e morali, non soltanto per la privazione della libertà, ma anche per il discredito su di lei gettato dalle notizie di cronaca che la dipingevano come una persona costantemente dedita a reati odiosi, tanto più odiosi quanto deboli ed indifese sono le vittime”, ha precisato l’avvocato. Il 1 marzo 2012 la terza sezione penale d’Appello di Genova, presidente Paolo Galizia, relatore Vincenzo Papillo, consigliere Maurizio De Matteis, ha accolto la domanda di risarcimento riconoscendo alla Baratteri la somma di 6.180 euro, oltre agli interessi e alle spese legali.

PRESUNTO COLPEVOLE. FRANCO MOCERI.

Franco Moceri. Altro che trafficante di droga, doveva solo costruire un muro. Era rimasto coinvolto nell’operazione antidroga “El Dorado” nel 2008. Rimasto in carcere sei mesi, era stato poi rilasciato e prosciolto da ogni accusa. Un imprenditore di Mazara, Franco Moceri, rimasto coinvolto nell’operazione antidroga “El Dorado” del 2008 ha ottenuto, da parte della Corte di appello di Palermo, un risarcimento di 41 mila euro per l’ingiusta detenzione. Moceri, dopo avere subito una lunga detenzione cautelare, nel corso della quale si era sempre proclamato innocente, era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione, con l’accusa di associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti. E questo nonostante “anche gli altri imputati, durante gli interrogatori, abbiano più volte ricordato che l’operaio era una persona estranea ai fatti”, spiega il suo avvocato, Giuseppe Pinella. Ma in appello il verdetto della corte d’assise si è capovolto: Franco Moceri fu assolto per non aver commesso il fatto e riconosciuto come “un semplice operaio a cui era stato dato l’incarico di costruire un muro proprio nel luogo in cui, mesi dopo, sarebbero state sequestrate le piantagioni-bunker di cannabis”, dice ancora l’avvocato Pinella. Che immediatamente aveva presentato una richiesta di risarcimento danni collegata all’ingiusta detenzione (6 mesi in carcere) subita dal suo assistito. Ora, a risarcimento ottenuto, l’avvocato Pinella attacca: “Questo risarcimento è comunque inadeguato, pur essendo un ristoro per la carcerazione subita ingiustamente, perché certamente non potrà elidere il pregiudizio che si è formato a carico di Moceri, il quale da quella data non ha quasi più lavorato a causa del grave pregiudizio che la notizia del suo arresto e della lunga detenzione gli ha causato”. L’operazione “El Dorado” risale al febbraio 2008, quando i carabinieri di Trapani insieme alla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, arrestarono dodici persone con l’accusa di traffico internazionale di sostanze stupefacenti. L’organizzazione criminale, operante tra Mazara, Campobello, Marsala e Petrosino, avrebbe goduto del sostegno di indiziati mafiosi imparentanti con boss di Cosa Nostra. Gli affiliati avevano inizialmente aperto dei canali di traffico di cocaina con la Spagna e il Marocco e, in seguito, avevano avviato la produzione di due piantagioni di cannabis, nelle campagne di Mazara del Vallo, per un totale di oltre 2 mila piante destinate a produrre più di 120 milioni di dosi. L’operazione portò alla condanna di 112 anni di carcere per nove persone. (fonte: il Giornale di Sicilia, 26 gennaio 2013).

PRESUNTO COLPEVOLE. SALVATORE RAMELLA.

Salvatore Ramella. Una vita devastata. E i giudici aumentano il risarcimento. Quanto valgono nove giorni in carcere da innocente? Quale risarcimento per ingiusta detenzione potrà mai soddisfare la vittima di un errore giudiziario grossolano, che sconvolge una vita in tutti i suoi aspetti: lavorativi, personali, privati? Stando ai parametri ufficiali previsti dalla legge, poco più di duemila euro dovrebbero rappresentare il giusto indennizzo per un dramma così grande come quello di finire in prigione senza colpa per più di una settimana. Ma talvolta anche i giudici capiscono che è il caso di andare oltre le fredde tabelle che impongono i parametri di calcolo della riparazione per ingiusta detenzione. E si rendono conto che è il caso di aumentare l’importo, perché pur nella consapevolezza che nessuna somma potrà mai risarcire una tragedia come questa, c’è un limite a tutto. E’ quello che è accaduto a Salvatore Ramella, funzionario di banca coinvolto in una storia di riciclaggio con cui non aveva nulla a che fare. In questo articolo, la sua storia. Il puro calcolo matematico per i nove giorni passati in carcere ingiustamente porterebbe a liquidare come indennizzo per l’ingiusta detenzione 2.122 euro, più 38 centesimi. Ma i giudici della Corte d’appello di Reggio Calabria chiamati a pronunciarsi sull’istanza di risarcimento presentata dal funzionario di banca Salvatore Ramella, prima indagato e poi pienamente scagionato nell’ambito dell’inchiesta “Gioco d’azzardo”, nei giorni scorsi hanno deciso di innalzare l’entità del risarcimento a 15 mila euro. Ramella, che in questa vicenda è stato assistito dall’avvocato Bonaventura Candido, all’epoca quando scattò il blitz – siamo nel maggio del 2005 –, era direttore di una filiale della banca Unicredit e per nove giorni fu ristretto in carcere; successivamente lo stesso gip dispose la misura meno afflittiva dell’obbligo di dimora, e pochi giorni dopo il Tribunale del Riesame ne dispose la liberazione totale con annullamento dell’ordinanza di custodia in quanto «non sorrette le accuse di riciclaggio dal requisito della gravità indiziaria». E si arrivò fino all’ottobre del 2007 con l’archiviazione dell’inchiesta disposta dal gip di Reggio Calabria. Eppure, dopo l’arresto, il funzionario di banca, fino a quel momento con un posto di alta responsabilità nell’ambito del suo istituto di credito, fu sospeso cautelativamente dal datore di lavoro dal 12 maggio al 5 settembre del 2005, successivamente fu trasferito in una sede bancaria a Roma presso il Servizio crediti della Direzione regionale Centro Sud. I giudici d’appello nell’argomentare la decisione con cui hanno stabilito di concedere un indennizzo molto più alto rispetto al “freddo” calcolo matematico da effettuare in questi casi, scrivono che «…nella liquidazione dell’indennizzo, il giudice deve procedere in via equitativa, essendogli riconosciuta – entro i confini della ragionevolezza e coerenza –, ampia libertà di apprezzamento di tutte le circostanze del caso concreto, avendo riguardo non solo alla durata della custodia cautelare ma anche e non marginalmente alle concrete conseguenze sociali, personali e familiari scaturite dalla privazione della libertà».

E i giudici della Corte d’appello hanno riconosciuto che la vita di Ramella fu letteralmente “devastata” da questa vicenda. (fonte: Enrico Di Giacomo, Stampalibera.it, 14 gennaio 2011).

PRESUNTO COLPEVOLE. SALVATORE GRASSO.

Salvatore Grasso. Undici anni in carcere per omicidio. Ma quel giorno lui era a centinaia di chilometri. Undici anni passati in carcere da innocente, fino all’arrivo di una lettera che lo scagiona da un omicidio mai compiuto. Ora Salvatore Grasso, 53 anni, è tornato a Giarre, il paese in provincia di Catania dove vive l’anziana madre. Ma nel frattempo ha perduto tutto: due figli, il lavoro, tutti i suoi progetti, i soldi che aveva messo da parte come agente immobiliare. “Ti chiedo scusa per non aver parlato prima ma tu e Iuculano siete innocenti ed io ora sono pronto a dirlo ai giudici”. Poche righe scritte di pugno da Agatino Di Bella, detenuto nel carcere di Porto Azzurro e reo confesso dell’omicidio di Salvatore Calì, siciliano emigrato in Germania, sono state decisive per la scarcerazione di Salvatore Grasso. “Quella busta è arrivata come un fulmine a ciel sereno – racconta l’uomo – ed è stata decisiva per la fine del mio incubo”. E’ un uomo provato Salvatore Grasso, dai problemi di salute, dall’ingiusta detenzione e dal travagliato iter giudiziario che va avanti dall’agosto dell’86, quando Salvatore Calì, un siciliano emigrato come lui in Germania viene misteriosamente ucciso in un boschetto alla porte di Haltberg. Dell’omicidio viene accusato, oltre a Grasso, un altro suo amico, Francesco Iuculano Cunga, anche lui condannato per omicidio dalla corte d’assise di Catania. Grasso, che si costituisce una prima volta in Francia, inutilmente cerca di dimostrare la sua innocenza. Così trascorre tre anni in carcere, fino al ’90 quando viene prosciolto in appello e torna in libertà. Un anno dopo però la corte di Cassazione annulla con rinvio la sentenza ed il nuovo verdetto, che lo condanna a 26 anni, gli fa crollare il mondo addosso. Per 5 anni Salvatore Grasso vive da latitante. “Certo – dice – avrei potuto restare dov’ero, probabilmente non avrei avuto problemi, ma non mi davo per vinto e poi, come si fa a difendersi se si è lontani?”. Nel giro di qualche mese Grasso perde i due figli, uno dei quali scompare in circostanze tragiche. “Nessuno potrà mai cancellare il sospetto terribile che su quella morte – ricorda con un filo di voce l’uomo – non pesi anche la mia tragedia personale, una vicenda che i miei figli vivevano come una macchia terribile che non si è fatto in tempo a cancellare…”. L’ emozione più grande, tanto intensa da essersi tradotta in un malore, è arrivata l’altro ieri quando Salvatore Grasso è stato convocato dal direttore del carcere di Brucoli. “Mi ha chiesto come mi sentissi – racconta Grasso – e poi mi ha dato un foglio su cui c’era scritto “Provvisoria sospensione dell’esecuzione della pena in attesa della revisione del processo”. Ho avuto bisogno di sedermi, poi mi sono sentito male e sono stato portato in infermeria”. E’ stata la corte d’assise d’appello di Messina, che a fine mese pronuncerà la sentenza al processo di revisione chiesto da Grasso, a disporre la sua scarcerazione. Oltre alla lettera inviata dal vero assassino, agli atti del processo c’è ora anche la testimonianza di un uomo che aveva telefonato a Grasso poco prima che venisse ucciso Salvatore Calì e che afferma che Grasso si trovava a centinaia di chilometri di distanza dal luogo dell’omicidio. (fonte: Michela Giuffrida, la Repubblica, 3 febbraio 2005).

PRESUNTI COLPEVOLI. VINCENZO E GIUSEPPE IAQUINTA.

‘NDRANGHETA, VINCENZO IAQUINTA DOPO LA CONDANNA. Video Le Iene: “Siamo stati marchiati per delle voci”. ‘Ndrangheta, Vincenzo Iaquinta dopo la condanna parla a Le Iene, video. La rabbia del calciatore: “Io e mio padre siamo innocenti, non mafiosi”, scrive il 4.11.2018 Silvana Palazzo su "Il Sussidiario". «Non è uscito niente su mio padre, stiamo parlando del nulla». Così Vincenzo Iaquinta parla a “Le Iene” della condanna a 19 anni di suo padre Giuseppe. L’ex attaccante di Udinese e Juventus ha ricostruito con Giulio Golia le tappe dell’inchiesta che ha portato al processo e alla condanna. «Mi fa paura sentire questa parola, essere accostati alla ‘ndrangheta è la cosa più brutta che poteva capitarmi. Avevo fiducia nella giustizia, ma ora è arrivato il momento di far capire alla gente che mio padre è innocente. Sono stanco di questa situazione». Iaquinta parla di accanimento nei confronti della sua famiglia. «Essere calabrese non vuol dire essere ‘ndranghetista. Ho paura solo a parlarne, sto tremando. Sono stato marchiato». Iaquinta ha raccontato le lacrime dei figli per le condanne e il dolore di sua madre, malata di tumore da quattro anni. «Io avevo preso il porto d’armi, le armi sono rimaste sempre a casa mia. Mia sorella chiese di andare ad abitare in quella casa, allora mio padre se l’è portate a casa sua per sicurezza, e quella è stata un’ingenuità perché dovevo denunciare lo spostamento. Sono stato condannato perché ho dato le armi ad un mafioso, che sarebbe mio padre». Nelle carte del processo si parla però di frequentazioni del padre con presunti capi della ‘Ndrangheta. «Mio padre ha detto che li conosceva, ma non ha fatto niente con loro, e le carte lo dimostrano. Conoscere certe persone non è reato, tutti si conoscono in paese. Ma questo non vuol dire che ha fatto qualcosa di sbagliato». Ma a Iaquinta fa male anche sapere che qualcuno insinua facilitazioni per i presunti legami con la ‘Ndrangheta: «Non mi hanno mai chiesto niente a parte qualche maglietta o foto. Questa è mafia?». (agg. di Silvana Palazzo)

Vincenzo Iaquinta parla a “Le Iene” dopo la sua condanna a due anninel processo più grande mai celebrato al Nord sulla mafia calabrese. L’ex attaccante di Udinese, Juventus e Nazionale proclama con rabbia la sua innocenza ai microfoni di Giulio Golia, e fa lo stesso per il padre, che è stato condannato invece a 19 anni. «Siamo innocenti», dichiara nell’intervista rilasciata al programma di Italia 1. Si tratta della prima intervista rilasciata dal calciatore dopo la sentenza. Parlando con la Iena, Iaquinta sostiene che lui e suo padre sono stati condannati perché calabresi di Cutro, paese da cui viene il boss principale al centro del processo Aemilia, Nicolino Grande Aracri. Tra le accuse c’è quella che la ‘Ndrangheta avrebbe facilitato la sua carriera. «Ma stiamo scherzando, tutte fesserie! È la cosa più schifosa che hanno detto i pentiti: io ho fatto 90 gol in serie A e 40 presenze in Nazionale».

Vincenzo Iaquinta si è fatto un’idea sul processo Aemilia, per il quale il 31 ottobre scorso c’è stata la prima sentenza, quella in primo grado. «Può essere che questo processo, se assolvevano mio padre, poteva cadere perché non c’era più un’immagine per i media». L’ex attaccante di Udinese e Juventus sostiene che il processo ruoti solo attorno al suo nome, che si regga in piedi per questo. «Lo stiamo tenendo su noi questo processo: Iaquinta…, Iaquinta…, su tutti i giornali. Ci sono state 119 condanne, hanno parlato solo di Iaquinta Giuseppe e Vincenzo Iaquinta», prosegue il calciatore. La popolarità ha i suoi pro e contro, sottolinea Iaquinta. «I giornali mettono solo: due anni a Iaquinta per ‘Ndrangheta, maledizione!». Per Iaquinta questa è la cosa più brutta che possa capitare: «Un giorno mi sono fermato al McDonald’s. Una signora che era alla cassa mi ha riconosciuto: “Ah, c’è Iaquinta”. E di là quello che lavava i piatti ha detto: “Ah, quel mafioso!”. E io c’avevo i bambini in macchina».

A “Le Iene Show” la prima intervista di Vincenzo Iaquinta dopo la condanna a due anni nel processo “Aemilia”, scrive Antonio Galluzzo su spettacolinews.it il 5 novembre 2018. Durante la puntata di oggi, domenica 4 novembre, de “Le Iene Show” (in onda in prima serata su Italia 1) verrà trasmessa la prima intervista a Vincenzo Iaquinta dopo la condanna a due anni subita al termine del primo grado del processo “Aemilia”, il più grande mai celebrato contro la ‘ndrangheta in Emilia-Romagna. L’ex attaccante della Juventus e della Nazionale campione del Mondo 2006 è stato condannato per “reati di armi”. Il calciatore avrebbe lasciato nella disponibilità del padre Giuseppe (condannato a 19 anni nello stesso processo) armi legittimamente detenute e munizioni. Giuseppe Iaquinta aveva però ricevuto un provvedimento dal prefetto di Reggio Emilia, nel 2012, che gli vietava di detenere armamenti e pallottole a causa delle segnalazioni relative alla frequentazione con alcuni degli indagati. Di seguito la trascrizione di alcuni passi dell’intervista realizzata da Giulio Golia. Insieme a Vincenzo Iaquinta, è presente anche sua moglie Arianna.

Iena: Il campione del mondo che è legato alla ‘ndrangheta?

Iaquinta: Mi fa paura sentire questa parola qua. Essere accostati a questa ‘ndrangheta è la cosa più brutta che mi poteva capitare.

Iena: Tu non hai mai parlato.

Iaquinta: No, mai, perché io avevo fiducia in questa giustizia. Ho aspettato però adesso basta, è arrivato il momento di far capire alla gente che mio padre non c'entra niente in tutto questo. Veramente, è innocente. Sono stanco, Giulio, sono veramente stanco di questa situazione. Sono stanco. Ieri, dopo la condanna, sono arrivato a casa… i miei bambini che piangevano… mia madre che è malata di tumore da 4 anni… ma un cuore ce l'ha questa gente o no? Ce l'ha un cuore?

Mio padre è calabrese, anche io sono calabrese, sono di Cutro. Essere di quel paese non vuol dire che tu sia ‘ndranghetista. È questo che non capisco. Hanno fatto di tutta un'erba un fascio. Oggi tu dai la carta d'identità a Reggio Emilia, "Sei di Cutro? Sei mafioso - qua dicono - sei ‘ndranghetista".

Iena: Che significa ‘ndrangheta per te?

Iaquinta: La ‘ndrangheta a me non interessa, Giulio. È una cosa che nella mia famiglia deve stare lontana perché non fa parte di noi. Ho paura a parlare solo di ‘ndrangheta, vedi che sto tremando. Scusa la tensione ma sono così io, sono genuino come mi vedete. Non c’è cosa più brutta di venire marchiato col nome della ‘ndrangheta, non c’è cosa più brutta. A mio padre hanno tolto la White List (il certificato per lavorare con gli enti pubblici, ndr) e non riusciva a capirne il motivo, il perché. È andato mio padre alla DDA di Bologna a dire ‘Venite a controllare’ perché lui era pulito, non aveva fatto niente. Io ho preso il porto d’armi con due armi dichiarate.

Iena: Andavi a sparare al poligono?

Iaquinta: Sono stato al poligono una volta, quando le ho prese, poi non ci sono più andato. Ero sempre a Torino, così le armi sono rimaste sempre a casa mia. Nel 2014 mia sorella mi chiese se poteva andare ad abitare a casa mia, dove io detenevo regolarmente queste armi. Mio padre, a mia insaputa, per sicurezza ha preso queste armi, le ha trasferite a casa sua, in cassaforte. È stata un'ingenuità di mio padre. Quando vengono ad arrestare mio padre, nel 2015, le armi non le avevano trovate. Dopo tre giorni ritornano questi della DDA e gli ho detto io che c'erano le mie armi. Ho detto: "Guardate che mio padre ha preso le armi, le ha prese per sicurezza", gli ho spiegato tutta la storia.

Iena: E loro che ti hanno detto?

Iaquinta: "Stai tranquillo, vedrai che sarà una cosa amministrativa". Dopo 15 giorni, invece, mi chiamano alla caserma di Quattro Castella dove c'era una notifica che diceva che io queste armi le ho date in mano alla ‘ndrangheta, che sarebbe mio padre… dandomi l'articolo 7 (l’aggravante mafiosa, ndr). Con la sentenza l'articolo 7 è caduto perché non c'era l'aggravante mafiosa.

Iena: È possibile che tuo padre abbia preso alla leggera determinate amicizie?

Iaquinta: Ma può anche essere, ma mio padre andava a mangiare con quelli. C’è scritto anche agli atti che conosceva tutti, ma conoscerle è reato? Se conoscerle è un reato alziamo le mani e si fa 19 anni di carcere, ma non è così. Mio padre deve aver fatto qualcosa con questi qua per essere condannato, ma mio padre non ha fatto niente perché le carte lo dimostrano al processo. Cutro è un paese normale, dove tutti si conoscono. Mio padre conosce tutti al paese, ma questo conoscere non vuol dire conoscere persone che hanno fatto del male, non vuol dire che mio padre ha fatto del male anche lui, perché mio padre in tutta questa storia non c'entra nulla, assolutamente. È pulito mio padre, e si chiedeva “Perché mi devono fare qualcosa se io sono pulito?”. Se la gente ha commesso dei reati perché non sta in carcere? Perché io sono un uomo pulito e ho paura ad andare al bar e incontrare una persona che è delinquente e se la conosco non la devo salutare? Quel delinquente tienilo in carcere così mio padre può andare al bar tranquillo. Alla cena di Pagliani c’erano avvocati e giornalisti. Mio padre si è fermato dieci minuti e non sapeva neanche di cosa stavano parlando. Il signor Pagliani non lo conosceva neanche, lo ha conosciuto poi in carcere.

Iena: Nel momento in cui uno che tu sai vicino a una famiglia mafiosa ti chiama e ti invita a cena, uno perché ci va?

Iaquinta: Perché una volta gli dici di no, la seconda gli dici di no, venti volte gli dici di no, poi ci devi andare. Quello può dire "perché non viene da me? Che paura ha?". È un'offesa per loro e poi ci vai. Mio cugino si è sposato la figlia di Grande Aracri (boss della ‘ndrangheta, ndr), mio padre e mia madre sono stati invitati a questo matrimonio e ci sono andati, basta. Per rispetto in Calabria si va ai funerali e si va ai matrimoni.

Iena: Le persone che conoscevano tuo padre tu le conoscevi?

Iaquinta: Certo che le conoscevo, ma conoscere queste persone non vuol dire che io sia ‘ndranghetista. Ma stiamo scherzando? Abbiamo la casa in questo villaggio, di fianco a casa mia abita il fratello di Nicolino Grande Aracri. Un giorno Nicola è entrato a casa mia, è venuto lì per salutarci perché c'ero io… Queste persone erano orgogliose di me, di quello che ho fatto a livello calcistico, io sono diventato campione del mondo. E abbiamo fatto questa foto, e questa foto qua poi è andata su Facebook ed è agli atti dicendo che quello era un summit di ‘ndrangheta. A mezzogiorno, con dei bambini, c'erano i miei figli, c'erano i miei cognati. C'era un summit e tu vai a pubblicarlo su Facebook?

Iena: Voi sapevate chi erano?

Moglie: Ma certo che lo sapevamo chi era.

Iaquinta: Come faccio a dirgli di uscire perché è ‘ndranghetista?

Moglie: Non è che quando arriva si presentano con armi… Tu puoi evitare di farci un affare perché sai chi è, ma non puoi evitare di salutare o dare la mano o fare la foto.

Iaquinta: Perché, per un po' di paura, non lo so.

Iena: Se si offende uno che sai che appartiene alla ‘ndrangheta qualche scrupolo te lo fai.

Iaquinta: E certo, quello sì, sicuramente.

Moglie: Ma noi abbiamo quattro bambini…

Iaquinta: Tutti si farebbero qualche scrupolo. Solo del nome ‘ndrangheta ho paura.

Iena: Hai facilitato delle volte delle persone?

Iaquinta: Mai, mai. A me queste persone non hanno mai chiesto niente.

Iena: Qualche maglietta?

Iaquinta: Magliette, palloni, fotografie. Perché, non posso fare fotografie o dare una maglietta? È un reato? È mafia? Ma in quanti si fanno la foto con me che io non so neanche chi siano? Può essere il più delinquente del mondo, perché io devo dire di no? Ma dai, ma stiamo scherzando? Quando toccano la tua dignità è impossibile stare zitti o stare fermi, è impossibile! Penso che se una persona si arrabbia è perché non ha fatto niente. Si sono attaccati a robe allucinanti, ci sono i pentiti che hanno parlato che mio padre faceva fatturazione falsa, e dove sono queste fatture false?

Iena: Hanno detto che la ‘ndrangheta ti ha facilitato nel mondo…

Iaquinta: Ma ha facilitato cosa? A me non ha facilitato nulla… Perché non ho bisogno della ‘ndrangheta. Io ho guadagnato dei soldi, secondo te ho bisogno dei soldi della ‘ndrangheta o mio padre aveva bisogno dei soldi della ‘ndrangheta, ma stiamo scherzando?

Iena: Vengono messe in discussione tutta una serie di cose: come ci sei arrivato a giocare in nazionale…

Iaquinta: Quella è la cosa più schifosa che hanno detto i pentiti. Tutte fesserie, balle. Io ho fatto 90 gol in Serie A, sono arrivato in Nazionale: 40 presenze in Nazionale, ho vinto un Mondiale. Perché queste cattiverie su di noi? Sulla questione emersa durante il dibattimento processuale riguardo agli ombrelloni nel villaggio a Cutro di Giuseppe Iaquinta, l’ex attaccante della Nazionale risponde: Hanno rubato due ombrelloni che noi avevamo pagato, un amico di infanzia di mio padre ha chiamato un personaggio di questi dicendo che a Iaquinta avevano rubato questi due ombrelloni e non c'è più rispetto. I PM l'hanno girata come se mio padre era una persona importante, no? Ci sono stati ridati gli ombrelloni ma pagati, non è perché ce li ha portati la ‘ndrangheta, capito? Abbiamo la fattura e le abbiamo portate anche agli atti queste cose qua. L'amministratore di questo villaggio è venuto a fare dichiarazioni e non gli hanno neanche creduto.

Iena: E dalle indagini non è uscito un collegamento per appalti…

Iaquinta: Assolutamente, mai. Mio padre gli ha portato un faldone così di roba che ha chiesto al commercialista e ha detto "Ecco qua, controllate".

Iena: Ha avuto qualcuno a lavorare di qualche famiglia ‘ndranghetista?

Iaquinta: No, no mai.

Iena: Qualcosa ci deve essere…

Iaquinta: Se c’era stato veniva fuori. Ma non è venuto fuori niente, Giulio. Su mio padre non c’è un’intercettazione telefonica, sono sempre gli altri che parlano del nostro cognome. Non è che è uscito fuori ‘Tuo padre ha fatto questo’. No, stiamo parlando del nulla. Io ero convinto che mio padre ne sarebbe uscito pulito, invece no.  Solo per una cena, perché sei andato al matrimonio o al funerale, parliamo di due ombrelloni! Può essere che questo processo, se avessero assolto mio padre, sarebbe potuto cadere perché non c’era più un’immagine per i media? Lo stiamo tenendo su noi sto processo ‘Iaquinta, Iaquinta’, tutti i giornali… Ci sono state non so quante condanne, cento e passa condanne ieri…

Iena: 119!

Iaquinta: Ma hanno parlato di Giuseppe e Vincenzo Iaquinta. Essere famosi ha i suoi pro e i suoi contro. I giornali mettono solo due anni a Iaquinta per ‘ndrangheta. Maledizione, maledizione. È la cosa più brutta che ti può capitare, un giorno mi sono fermato al Mc Donald e una signorina, quella che era alla cassa, mi ha riconosciuto ‘Ah c’è Iaquinta’ e di là quello che lavava i piatti ha detto "Ah quel mafioso". E io avevo i bambini in macchina, capito? Perché mio padre è ancora in carcere? Dopo una condanna di primo grado già in carcere? Sono andati a prenderlo ieri, ieri sera. Non lo so perché questo accanimento contro di noi, non lo so. Non è emerso niente su mio padre che poteva esserci una associazione, non è emerso niente. Partiamo dal fondo della famiglia Iaquinta, chi è stata la famiglia Iaquinta e cosa si è costruito mio padre a 16 anni che è venuto a lavorare in fabbrica a Milano con suo fratello che dormiva in fabbrica. E si è costruito tutto da solo, tutto da solo senza l’aiuto di nessuno. Come mi sono fatto io tutto da solo, ad arrivare a certi livelli. E questi qua in un secondo vogliono rovinare la famiglia Iaquinta, in un secondo dopo tutti i sacrifici che abbiamo fatto? È così che funziona l’Italia, è così? Per tre giudici? Per due PM? O per un pentito che ha detto solo cazzate nel processo? Un pentito che ha fatto le cose e va a buttare merda addosso alla gente, è questa l’Italia? No Giulio, non è così. Basta! Mi sono rotto le palle di stare zitto, c’è da parlare. Io lotterò fino alla morte per l’innocenza per mio padre. Perché io lo conosco talmente bene, è una persona che non si permetterebbe mai di far del male a me. Io sono nato a Crotone, e siccome mia madre e mio padre abitavano in una casa piena di umidità, dove il bagno era fuori e avevano paura che se mi portavano lì morivo con tutta quella umidità. Mi hanno lasciato due mesi da mia nonna e da mio nonno. Loro sono tornati qua perché mio padre lavorava e dopo mi sono venuti a prendere. La gente deve capire da dove siamo partiti anche noi. Abbiamo altri due gradi giudizio e la verità deve venire fuori, per forza. Ho fiducia nella giustizia, Giulio.

Iena: Tu hai fiducia?

Iaquinta: Al 100% sull’innocenza di mio padre.

PRESUNTA COLPEVOLE. BEATRICE CENCI.

Beatrice Cenci, il fantasma dell’ingiustizia. Il suo processo fu una farsa, la sua barbara esecuzione l’11 settembre 1599 venne seguita da migliaia di persone, scrive Daniele Zaccaria il 13 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Il carro che porta i Cenci al patibolo si fa largo tra grappoli di folla; e grida, singhiozzi, ululati provengono dai marciapiedi, dalle carrozze, dai balconi dei palazzi, in un misto di compassione e ferocia, di eccitazione e paura, nobiltà e popolino a formare un unico, delirante branco. E mentre la processione attraversa Santa Maria di Monserrato, i Banchi, Tordinona, e si avvicina al luogo dell’esecuzione l’aria è satura di calore: quell’ 11 settembre 1599 a Roma fa un caldo torrido, l’estate sembra non voler finire più. C’è un momento però in cui la schiera si azzittisce, un istante sospeso, quasi a raccogliere pensieri e spiriti animali prima del supplizio: la figura sdegnosa di Beatrice appare sul ciglio di San Celso, neanche uno sguardo rivolto agli astanti, gli occhi dritti su ponte S. Angelo dove di lì a poco verrà decollata, ceppo e mannaia, l’ombra del boia già occhieggia sinistra sul palco. Sul carro, dietro di lei, la matrigna Lucrezia Petroni tremante e inebetita, e il corpo già afflitto ma ancora in vita del fratello Giacomo: durante il tragitto lo hanno mazzolato sul cranio, divelto con tenaglie roventi, alla fine morirà per squartamento nel più brutale dei martirii. Lucrezia non sopporta la scena e perde i sensi, Beatrice, che è già il suo fantasma, rimane muta e altera. Al fratello Bernardo, che ha appena 15 anni, viene risparmiato il patibolo ma non lo strazio di assistere alla morte dei suoi cari, anche lui perde i sensi per l’orrore e rimane svenuto per mezz’ora. La prima testa a cadere è quella di Lucrezia, tagliata di netto dallo spadone del boia. Poi tocca a Beatrice, la star, ha 22 anni, ed è di una bellezza rara. Le cronache raccontano di una preghiera sussurrata, di un bacio lieve al crocifisso e, anche qui, di un istante di esitazione da parte del carnefice prima che le vibrasse il colpo fatale: «Intimorito si trovò impacciato a vibrarle la mannaia. Un grido universale lo imprecava, ma frattanto il capo della vergine fu mostrato staccato dal busto, ed il corpo s’agitò con violenza. La testa di Beatrice fu involta in un velo come quella della matrigna, e posta in lato del palco; il corpo nel calarlo cadde in terra con gran colpo, perché si sciolse dalla corda». In piazza quel giorno c’erano migliaia di persone, tra di loro anche un giovane pittore lombardo, Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio. In dodici persero la vita, chi per insolazione, chi schiacciato nella calca, chi affogato nel Tevere. Una cupa giornata di morte e di delirio, quell’ 11 settembre 1599. Erano stati condannati alla pena capitale direttamente da Papa Clemente VIII per l’uccisione del conte Francesco Cenci, padre di Beatrice, Giacomo e Bernardo e marito di Lucrezia, sua seconda moglie. Un delitto premeditato per porre fine alle violenze di quell’uomo malvagio di cui tutti dicevano un gran male. Francesco Cenci, ultimo esponente di una nobile e influente casata che acquistò i titoli del medioevo, era arrogante, brutale e perverso, coinvolto in risse e diversi fatti di sangue, finito più volte a processo per violenze sessuali e pedofilia (aveva violentato il figlio 12enne di un popolano) era sempre riuscito a comprarsi un’assoluzione, sfruttando la sua posizione e le sue ricchezze. Ma era con le donne della sua famiglia che riusciva a esprimere al meglio la sua crudeltà. La figlia maggiore Antonina scrive addirittura a Clemente VIII per sfuggire agli abusi paterni, il pontefice, che non aveva alcuna simpatia per Francesco, accoglie la richiesta combinandole un matrimonio con un nobiluomo di Gubbio. Costretto a pagare una ricca dote si sfoga su Beatrice che fa segregare assieme a Lucrezia in un castello in provincia di Rieti che appartiene alla famiglia Colonna, nel territorio del Regno di Napoli. È il 1595 e, fino alla morte avvenuta nel 1598, il castello sarà teatro di sevizie e percosse, di continue umiliazioni, accentuati dall’animo sempre più incarognito di Francesco, malato di gotta e di rogna e assediato dai debiti e dai creditori. Con l’aiuto dei domestici Olimpio Calvetti e Marzio da Fioran, Lucrezia, Beatrice e Giacomo tentano di ucciderlo per ben tre volte, provando ad avve- lenarlo, tentando di pagare dei briganti locali, stordendolo con l’oppio. Alla fine è Olimpio a ucciderlo nel sonno, a colpi di martello e a chiodate. Ufficialmente Francesco Cenci è morto per una brutta caduta da una balaustra, ma la messa in scena è goffa, amatoriale. Fanno ritrovare il corpo in un orto ai piedi del castello. Non ci vuole molto agli investigatori mandati sia dal viceré del Regno di Napoli che dal Vaticano per capire che quello non era un incidente, ma un delitto. Riesumano il cadavere, trovano i segni delle martellate sul cranio e alcuni buchi nel collo, due chirurghi certificano l’omicidio. Il movente è limpido: tutti sapevano delle brutalità del conte nei confronti dei familiari che avevano più di una buona ragione per liberarsi di lui. I Cenci vengono portati a Roma, in un primo momento ai domiciliari nel loro palazzo sotto la sorveglianza delle guardie pontificie. Si dichiarano innocenti, sono una famiglia molto in vista, dei “vip” e il loro processo, che oggi verrebbe definito uno show mediatico, calamita l’attenzione morbosa dell’opinione pubblica ed è condotto dai più noti giuristi dell’epoca. Il dibattimento vede affrontarsi infatti due autentici principi del foro, Pompeo Molella per la pubblica accusa e Prospero Farinacci per la difesa, il giudice è Ulisse Moscato che due secoli più tardi il francese Stendhal (grande appassionato della tragedia dei Cenci) descrive nelle sue Cronache Romane come «uomo dalla profonda sapienza e dalla superiore sagacità dell’intelletto». Ma Clemente VIII, lo stesso che l’anno successivo farà ardere vivo Giordano Bruno, non può accettare una sentenza che non si concluda con la morte per gli accusati. L’avidità, la cupidigia untuosa di Papa Aldobrandini, beneficiario naturale della confisca dei beni dei Cenci, rende il processo una farsa, fosse stato per lui non ci sarebbe stato nessun processo, li avrebbe fatti squartare tutti appena arrivati a Roma. Irritato dalla ragionevolezza e dalla moderazione di Moscato e preoccupato che possa venire colpito dalla grazia della giovane, lo fa sostituire dal giudice Cesare Luciani, noto per la facilità con cui spedisce gli imputati dal boia fin dai cupi tempi di Sisto V, soprannominato “il Papa della delazione e delle forche”. Ma soprattutto c’è Beatrice, superba e altezzosa, che rifiuta di ammettere le violenze e gli stupri del padre, un po’ per scongiurare il movente, un po’ per orgoglio e vergogna. A nulla servono le suppliche del suo avvocato, che la invita ad ammettere l’omicidio ma anche a elencare tutti gli abusi subiti da quell’orrendo genitore, abusi che potranno servire da altrettante attenuanti e a risparmiarle la vita. Niente da fare, lei rigetta con sdegno ogni accusa. Molella porta in aula a testimoniare il domestico Marzio che alla vigilia aveva confessato sotto tortura, ma alla vista di Beatrice, di cui era perdutamente innamorato, scoppia a piangere e ritratta tutto. Viene ucciso qualche giorno dopo a colpi di mazza dagli aguzzini del Papa. Olimpio, l’altro domestico che aveva partecipato alla congiura era invece riuscito a darsi alla macchia prima degli arresti, ma viene ritrovato da un simpatizzante dei Cenci che lo ammazza per impedirgli di testimoniare. La sentenza di condanna a morte è scontata, tanto che viene emessa in assenza di Farinacci, ancor prima che possa pronunciare l’arringa difensiva. Soltanto al piccolo Bernardo è risparmiato il supplizio, lo condannano ai “remi perpeutui” nelle galere delle Stato Pontificio (comprerà la sua libertà qualche anno dopo pagando un’ingente somma). Immediatamente i Cenci sono portati in prigione, Lucrezia e Beatrice rinchie nella Corte Savella, Giacomo e Bernardo nel carcere di Tordinona, prima dell’esecuzione ci sarà la tortura. Clemente VIII vuole infatti che i Cenci confessino e vuole eliminarli prima che la pietà possa far breccia nei sentimenti del popolo, incuriosito e appassionato da quella tragica vicenda. Confesseranno tutti, l’ultima a piegarsi è proprio Beatrice, sottoposta al trattamento della “corda” che consiste nel sollevare il corpo tramite una carrucola mentre delle grosse funi ti spezzano giunture e articolazioni. Si piega per il dolore fisico, insopportabile, ma anche perché capisce che tutto è ormai perduto, che i suoi familiari hanno confessato, che niente e nessuno potrà salvarla dallo spadone affilato del boia. Il suo processo e la sua esecuzione, il barbaro squartamento del fratello Giacomo, simbolo di una giustizia vendicativa e ancella del potere, ha colpito a fondo l’immaginario collettivo del popolo e degli artisti e intellettuali. E nei secoli ha ricevuto il tributo di scrittori come Stendhal, Shelley, Dumas, Artaud, Moravia, di pittori come Caravaggio, Artemisia Gentileschi (anche lei in piazza il giorno della morte), Guido Reni, di musicisti come Rota e Goldschmidt, di cineasti come Mario Camerini e Lucio Fulci. La leggenda vuole che ogni 11 settembre, annunciato da una gelida brezza, il fantasma di Beatrice Cenci appaia all’imbrunire sui balconi di Castel S. Angelo. La testa appoggiata sulle mani bianche come la luna, la camminata leggera e altezzosa, una luce malinconica nello sguardo, e un sorriso beffardo da regalare ai romani, proprio come quando era in vita.

PRESUNTO COLPEVOLE. ARMANDO CHIARO.

La Cassazione: «È innocente» Ma ha fatto 7 anni di carcere. Armando Chiaro per il pm era «uomo di camorra», scrive Simone De Meo, Lunedì 02/07/2018, su "Il Giornale". L'ex coordinatore flegreo del Pdl Armando Chiaro ha già scontato una pena a sei anni e mezzo di galera per un reato da cui è stato assolto due giorni fa. Carcere preventivo, carcere ingiusto nel suo caso. Accusato di essere l'uomo di collegamento tra la camorra di Marano - il potente clan Polverino, che ha ramificazioni in mezz'Europa - e la macchina comunale. C'erano i pentiti, c'erano le intercettazioni, c'era il teorema della Procura. Ma l'inchiesta è crollata in Cassazione, e la condanna - inflitta in primo grado e confermata, con un piccolo sconto di sei mesi sui sette anni iniziali, in Appello - è stata cancellata. Era l'epoca della caccia alle streghe nel centrodestra campano, il 2011. Con una compagine di pm e investigatori convinti che il Pdl vincesse e triturasse record elettorali nei feudi della sinistra per aver venduto l'anima al diavolo con lupara e coppola. Ipotesi, suggestioni in alcuni casi che, però, furono trasfuse in atti giudiziari. Come l'indagine che, il 3 maggio di quell'anno, portò alla cattura di 38 presunti fiancheggiatori della cosca di Peppe Polverino, soprannominato o barone per i modi aristocratici. Tra loro, tra estorsori, trafficanti di droga e faccendieri in odore di zolfo, anche Armando Chiaro, consigliere comunale uscente e coordinatore del Pdl per Marano e i Comuni vicini. Indicato nelle conversazioni spiate dalle forze dell'ordine col duplice soprannome di «onorevole» o «assessore Mesillo», dal nome di fantasia di un politico corrotto del film Il Camorrista di Giuseppe Tornatore. Ci sono voluti sette (anni che Chiaro ha trascorso tra carcere e domiciliari) per scoprire che è innocente. Durante il processo, furono trascritte e depositate addirittura le intercettazioni tra Chiaro e Luigi Cesaro, l'allora presidente della Provincia di Napoli. Di che cosa parlavano, i due esponenti del Pdl? Di politica, di accordi elettorali, di strategie e alleanze per vincere le elezioni amministrative. Di tutto quello che, normalmente, è argomento del giorno per un politico. Materiale «scottante», invece, per gli inquirenti che ritennero usarlo come ulteriore indizio per dimostrare la colpevolezza di un sistema, a loro dire, malato. Falso, tutto ribaltato dagli ermellini che, oltre ad assolvere Chiaro, hanno disposto il dissequestro dei beni e la cancellazione della pena accessoria dell'interdizione dai pubblici uffici. Pur detenuto, Chiaro risultò eletto alle comunali. Ottenne 385 preferenze, i suoi sostenitori e gli amici di sempre avevano tappezzato Marano di manifesti in sua difesa. Fu poi il prefetto a intervenire e a disporre la sostituzione in consiglio comunale. Quella dimostrazione di affetto, però, divenne prova del grado di condizionamento - che certo esiste - della criminalità organizzata a Marano. All'epoca, si segnalò per l'attivismo a favore di una politica tutta manette e gogna mediatica l'allora senatrice del Partito democratico Teresa Armato. Firmò due interrogazioni parlamentari e chiese l'intervento del ministro dell'Interno. Chissà che cosa dirà, oggi.

PRESUNTA COLPEVOLE. EMILIA SALOMONE.

Assolta? Alla Corte dei conti non basta: «Restituisca 12 milioni di euro». Il caso nella procura di Torre annunziata: accusata di corruzione rinuncia alla prescrizione per ottenere giustizia, viene dichiarata innocente ma è costretta lo stesso a risarcire lo Stato, scrive Simona Musco l'1 luglio 2018 su "Il Dubbio". Quasi vent’anni di calvario giudiziario e un’assoluzione perché il fatto non costituisce reato. Ma poi la beffa: nonostante non abbia commesso alcun delitto, Emilia Salomone, assistente giudiziario al Tribunale di Torre Annunziata per 40 anni, dovrà pagare circa 12 milioni di euro di danni erariali. Sette milioni di euro in solido con il “cancelliere d’oro” Domenico Vernola e 5 milioni e 700mila euro (in concorrenza) con l’allora procuratore Alfredo Ormanni. A stabilirlo è stata la Corte dei conti in sede d’appello, che nonostante l’assoluzione nel processo ordinario ha deciso che l’assistente giudiziario ha contribuito a far intascare a Vernola circa 30 miliardi di lire, sgraffignati allo Stato grazie ad una serie di falsi mandati di pagamento. «Per la Corte dei conti la mia non sarebbe un’assoluzione piena – racconta la donna al Dubbio –. Questo nonostante io sia un dipendente di sesto livello e non dovrei quindi nemmeno comparirci, davanti alla magistratura contabile. Era il dirigente a doverne rispondere». Quella storia, per la Procura campana, fu un vero e proprio terremoto. Tutto ruotava attorno alla figura di Vernola, che per anni avrebbe falsificato i mandati di pagamento, collezionandone dal 1995 al 2002 ben 176, con i quali si era fatto rimborsare, assieme ad alcuni agenti della polizia giudiziaria finiti con lui a processo, circa 16 milioni di euro, con il “visto” per liquidazione, appunto, dall’ex procuratore Ormanni. La colpa di Salomone era stata quella di aver registrato, con la propria firma, 103 ordinativi al cosiddetto modello 12. Senza dolo, secondo il Tribunale di Roma che l’ha assolta in appello, dopo che la donna aveva rinunciato alla prescrizione per dimostrare la propria innocenza. Con «una ripetitività e continuità tale da renderla quantomeno pienamente consapevole della assoluta anomalia di mandati intestati sempre a Vernola», invece, secondo la Corte dei conti, che nella sentenza 117 del 2017 parla di «dolosa acquiscenza (…) al sistema fraudolento ordito da Vernola». Si trattava di pagamenti effettuati in assenza di documentazione, per procedimenti penali inesistenti, missioni mai effettuate, anche durante periodi di ferie e congedi. Pagamenti ingiustificati e esorbitanti, anche da 7mila euro a missione. Anomalie delle quali Salomone si accorse, segnalandole al proprio superiore, che però la tranquillizzò. «Appena mi sono accorta che qualcosa non andava – spiega – per prima cosa ho riferito tutto al mio dirigente, che mi ha rassicurata, dicendo che erano spese coperte da segreto e, perciò, autointestate. Glielo dissi due volte e a dire la verità ero preoccupata, ma più per un fatto amministrativo: non ho mai pensato che Vernola stesse rubando». Nessun sospetto, infatti, aveva sfiorato Salomone: del cancelliere si fidava. «Era un tipo sui generis e molto disordinato nel suo lavoro, quindi attribuivo a questo le sue mancanze», spiega. Ma a creare il sospetto della Procura prima e della Corte dei conti poi è stato un prestito da parte di Vernola alla donna. «Io non gli ho mai chiesto quei soldi – racconta –, gli avevo soltanto chiesto di presentarmi il direttore della banca, perché sapevo che tra loro c’erano buoni rapporti». Quei soldi servivano per l’acquisto di una proprietà, acquisto per il quale Salomone avrebbe voluto accedere ad un prestito agevolato. Ma Vernola non ha mai presentato il direttore alla donna, proponendo un’altra soluzione. «Mi disse che sua sorella, vedova di un generale e senza figli, aveva molti soldi da parte e che lo avrebbe fatto con piacere, anche perché così avrebbe pagato meno tasse – racconta –. Facemmo anche una scrittura privata, dissero che non volevano niente in cambio. Mi dovevo solo limitare a restituire 5 milioni l’anno». Salomone e suo marito ricevettero 50 milioni a testa, tutti versati tramite assegni, dei quali restituirono 25 milioni, sempre a mezzo assegni. «Dopo il suo arresto, non avendo contatti con la sorella, mi sono fermata», aggiunge. Ma quel prestito, per la Corte dei conti, sarebbe stata la prova della partecipazione della Salomone a quel piano fraudolento messo in piedi da Vernola. «Io non ho mai falsificato nulla – sottolinea –. Mi limitavo ad annotare i pagamenti, in un registro che poi veniva controllato dalla Procura. Quella davanti alla Corte dei conti doveva essere una causa civile, invece mi sono sentita di nuovo giudicata. Hanno deciso di condannarmi, ma in realtà io non ho fatto niente. E vorrei si sapesse». I mandati di pagamento che Vernola intestava a se stesso, infatti, venivano controllati dall’ufficio postale passando, da ultimo, dalla Ragioneria dello Stato e dalla Corte dei conti. «Quindi chi mi condanna è chi, con più competenze di me, ha poi controllato quei mandati ritenendoli validi», aggiunge. Ma come detto la colpa di Salomone, secondo la Corte dei conti, sarebbe stata quella di non aver denunciato, dopo essersi accorta delle anomalie, continuando a registrare i mandati di pagamento. Per i giudici contabili ci sarebbe stato, dunque, un effettivo apporto causale. Se avesse segnalato il tutto, contestano, il danno erariale sarebbe stato infatti arginato e il tutto scoperto anni prima.

Quel prestito, dunque, per i giudici sarebbe stato il modo di Vernola di “comprarla”, nonostante tale evenienza sia stata esclusa dai giudici di merito. E nonostante sia stato lo stesso cancelliere a scagionarla, riferendo ai pm di aver tratto in inganno la donna. Salomone ha ora presentato una revocatoria, sperando che la situazione possa risolversi. «Spero che qualche magistrato mi ascolti – racconta ancora –. Quando arrivò la prima condanna per me fu una doccia fredda. Fui allontanata dal lavoro per più di tre anni, la gente mi guardava come una ladra. Ho rinunciato alla prescrizione perché volevo dimostrare a tutti di essere innocente. Altri non l’hanno fatto. E nonostante la sentenza di assoluzione sia passata in giudicato ad ottobre 2016, ho ricominciato a lavorare solo a settembre dell’anno successivo. I soldi che mi chiedono non li saprei nemmeno contare – conclude – ma dovrò pagare questa tassa a vita, pur non avendo fatto niente».

PRESUNTO COLPEVOLE. ALFONSO SABELLA.

Sabella: «Io, innocente, per la Corte dei conti resto il “boia del G8”». Intervista al magistrato condannato a un risarcimento milionario per i fatti di Genova, scrive Simona Musco il 27 Maggio 2018 su "Il Dubbio". «Fa comodo mantenere una situazione in cui è vero tutto e il contrario di tutto. Su Genova non si conosce la verità. Sono note le responsabilità dei criminali della Diaz e di Bolzaneto, ma su chi ha fomentato quelle mani nessuno ha mai indagato». Il magistrato Alfonso Sabella, giudice del Riesame a Napoli, racconta quella parentesi del G8 come una ferita aperta. Che sanguina, perché da innocente, come stabilito dal tribunale che archiviò la sua posizione, si ritrova ora con «una condanna a morte», come lui stesso l’ha definita: per i giudici della Corte dei conti di Genova, Sabella, durante il G8 a capo del servizio ispettivo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, deve sborsare circa 3 milioni e mezzo di euro. A lui viene infatti addebitata una responsabilità «sussidiaria», per non aver vigilato sull’operato di chi compì quelle violenze. Per la procura della Corte dei conti, infatti, «vi erano molteplici elementi» di cui Sabella era a conoscenza, «che avrebbero imposto» maggiore controllo sul sito di Bolzaneto. Il magistrato, però, annuncia ricorso e denuncia: «Non mi hanno consentito di difendermi. Non chiedo di essere prosciolto, voglio solo poter essere giudicato secondo le regole in cui credo».

Lei dovrà risarcire parte del danno erariale per i soldi che lo Stato ha dovuto liquidare ai detenuti torturati a Bolzaneto. Quali responsabilità le attribuiscono?

«Una responsabilità sussidiaria praticamente su ogni cosa. Ma che c’entro io con i medici, con le visite, con i certificati falsi? Avrei dovuto fare tutto da solo, secondo i giudici. Ma io avevo ben altri compiti e quello di controllo sulle condotte delle forze di polizia era affidato al più alto in grado possibile. C’erano strutture dislocate su quattro regioni ed io sono stato fisicamente bloccato a Forte San Giuliano (sede del comando regionale ligure dei Carabinieri, ndr) il 20 e il 21 luglio, per via degli assalti. Lì, però, non è stato torto un capello a nessuno, mentre è dove non c’ero che sono state commesse quelle nefandezze.

La sua posizione, nel corso del processo penale, è stata archiviata perché non può ritenersi accertata la sua piena consapevolezza di quanto accadeva a Bolzaneto. Com’è possibile che la Corte dei conti ribalti questo assunto?

«Chiariamo un punto: la Corte dei conti ha diritto a processarmi, ma io ho diritto di difendermi. Però me l’hanno impedito. Affermano falsamente, e mi dispiace dirlo, che tutti i testi da me richiesti fossero finalizzati a dimostrare le mie presenze a Bolzaneto. Poi, però, dicono che tali presenze non sono provate. In realtà i miei testi – che non sono stati ammessi – avrebbero dovuto riferire su cose che erano responsabilità di altri. Ma è chiaro che c’è un interesse affinché non si sappia. Il risarcimento non è proporzionato alla mia presunta colpa, che non dicono quale sia. Nel primo invito a dedurre la richiesta era addirittura di 12 milioni. Secondo l’accusa, io avrei avuto responsabilità praticamente su tutte le forze di polizia. Ma io ero un funzionario della pubblica amministrazione. Era una tesi insostenibile, così alla fine il danno è stato quantificato in quattro milioni, da dividere tra me e il colonnello Oronzo Doria (all’epoca dei fatti colonnello del Corpo degli agenti di custodia, ndr). Ma la cosa allucinante è che sono stato condannato per responsabilità sussidiaria anche in merito alle lesioni. Se fossi davvero responsabile, allora avrebbero dovuto fare un processo penale per concorso colposo. Perchè non sono stato processato? Per non farmi difendere.

In un’intervista ha fatto trapelare propositi suicidari per non lasciare in eredità a sua figlia questo debito. Ci ha pensato sul serio?

«È stato solo un momento, un pensiero accantonato subito. Ma è chiaro che uno ci pensa, una volta che ti mettono davanti all’alternativa “o paghi o ti ammazzi”.

Torniamo alla vicenda penale. Lei ha chiesto di essere processato. Perché?

«Ho ricusato la remissione delle querele e sono l’unico nella storia d’Italia a essersi associato all’opposizione delle parti civili alla richiesta di archiviazione del pm. Volevo avere la possibilità di produrre documenti, controinterrogare. Ora, 17 anni dopo e senza aver mai subito il processo, mi condannano a morte. Eppure sono stato io il primo a fornire le prove per far emergere il clima di omertà che c’era a Bolzaneto e molti sono stati condannati perché non mi hanno riferito quanto accadeva. Non mi avrebbero mai fatto sapere quanto stava accadendo e questo lo scrivono anche il pm e il gip.

Nessuno si è accorto di nulla?

«Nemmeno il ministro (della Giustizia, Roberto Castelli, ndr) che visitò la caserma si accorse di niente. Non ci facevano vedere nulla. Lì erano tutti poliziotti, carabinieri e agenti penitenziari e tra questi nessuno ha avvisato i propri superiori. Quegli uomini dipendevano gerarchicamente dal procuratore. E nessuno dei pm ha pensato di andare a vedere come venissero gestiti gli arresti. Ho visto solo una cosa: dei ragazzi in piedi – ma in alcuni momenti anche seduti -, con il viso al muro e le mani appoggiate alle pareti. Chiesi spiegazioni e diedi disposizione di tenere gli arrestati in quella posizione solo per il tempo necessario a compiere le operazioni di perquisizione. Nonostante, dunque, io abbia segnalato quella anomalia mi accollano tutte le responsabilità, anche quelle degli altri.

Quali responsabilità ci sono?

«La prima violazione è stata non concedere alle persone arrestate di parlare con gli avvocati. E chi l’ha commessa? Il procuratore di Genova, con un provvedimento illegittimo in cui vietava i colloqui prima ancora che qualcuno venisse arrestato. Lo stesso magistrato che poi ha investigato su quei fatti. La magistratura di Genova ha precise responsabilità, se mi avessero processato magari sarebbero venute fuori. Forse si voleva evitare che io parlassi di fatti connessi a quella indagine, come il piano degli arresti preventivi, condiviso dalla magistratura. Io avevo messo nero su bianco quanto fosse sbagliato, avevo proposto l’alternativa di portare tutti al carcere di Marassi, che non sarebbe stato attaccabile. Ma quel piano c’era, quindi andavano tutti portati lontano da Genova. Poi, però, venne cambiato.

Secondo lei perché?

«Non mi accorsi che era stato modificato in corso d’opera. Forse lo scopo era proprio quello di aizzare gli animi. Forse non doveva essere Carlo Giuliani a morire, ma un membro della polizia. Posso immaginare chi lo volesse, ho fornito tutti gli elementi sul punto, ma non hanno indagato.

Secondo lei i fatti di Genova e la sua condanna davanti alla Corte dei conti sono legati?

«Non posso mettere in relazione le due cose, non ho elementi per dirlo. Tendo a non credere al complotto. Certo è che non capisco questo trattamento di sfavore. Sono stato l’unico, tra quelli che non sono stati condannati, a non aver fatto carriera, l’unico con l’avanzamento bloccato, l’unico a pagare realmente.

Perché?

«Il problema è che io sono un magistrato indipendente. Nel decreto di archiviazione vengono usate parole infamanti, definendo il mio comportamento «negligente», come se il G8 lo avessi organizzato io. Siccome non potevo impugnare l’archiviazione, feci un esposto al Csm.

Che fine fece?

«Andò perso. Come i tabulati telefonici dei miei cellulari. Chiesi al gip Lucia Vignale di acquisirli per accertare i miei movimenti in ogni istante, in modo da provare dove fossi. Si trattava di 1.500 telefonate in due giorni, praticamente una ogni 172 secondi. Ma acquisiti i tabulati, tutte le celle impegnate in uscita erano state cancellate. Dissero che non era possibile identificare la cella, perché ce n’erano diverse. Eppure capire quale fosse il ripetitore che agganciava Bolzaneto era un gioco da ragazzi e ancora oggi è verificabile. Quando mi accorsi che il Csm aveva perso il mio esposto, che conteneva anche una memoria dettagliata sui fatti di Genova e sulle omissioni dei colleghi, ho presentato un’istanza per sapere dove fossero finite quelle carte e ho scoperto che sono state archiviate ed espunte dal mio fasci- colo. Ma non solo: la stessa sera venne comunicato all’Ansa, falsamente, che mi ero candidato con An alle politiche e che avevo chiesto un’aspettativa. Così, per l’opinione pubblica, il “boia di Bolzaneto” era stato ricompensato con un candidatura.

Come sparirono quelle carte?

«Non me lo so spiegare. Voglio addebitare tutto questo alla mia sfortuna. Solo che mi sembra di essere un po’ troppo sfortunato. Sono fiducioso nell’autonomia dei giudici, ma devo prendere atto che il clima non è dei migliori. Mi auguro soltanto che la sezione d’appello mi dia la possibilità di avere un processo, portare prove e testimoni. Per me è importante potermi difendere. L’esito, poi, sia quel che sia: i magistrati sbagliano anche in perfetta buona fede. Il mio scoramento è dettato proprio da questo: ho sempre creduto nella giustizia e io, da magistrato, ho consentito anche ai peggiori criminali di difendersi. Ma se lo Stato ritiene di poter bypassare le proprie regole si mette allo stesso livello della criminalità organizzata.

Ci sono ancora verità nascoste sui fatti del G8?

«Su Genova non è stato detto tutto. Sono note solo le verità sui criminali della Diaz e di Bolzaneto. Ma su chi ha fomentato le loro mani indagini non ne sono state proprio fatte. Non interessa a nessuno. Al di là di chi ha subito i pestaggi, la vera parte offesa è la dignità di questo Paese, calpestata da questi comportamenti ignobili. E non a caso il reato di tortura, per anni, è rimasto congelato negli scranni del Parlamento.

Quali punti rimangono ancora oscuri?

«Che fine hanno fatto i verbali del comitato per l’ordine e la sicurezza? E le notizie dei servizi segreti? Perché i respingimenti alla frontiera, all’ultimo minuto, non sono stati fatti? Perché il personale esperto è stato messo solo nella zona rossa e fuori c’era gente magari con un solo anno di anzianità? Chi ha deciso tutto questo e perché? Ci sono tantissime domande. Io ho provato a dire quel poco che so, ma non sono stato ascoltato.

Cosa farà se il ricorso in appello dovesse andare male?

«Mi rivolgerò alla Corte europea. Non ho avuto nemmeno una contestazione chiara dei miei addebiti, perché viene cambiata ogni volta. Una volta mi ritengono responsabile per non essere andato a Bolzaneto, una volta per esserci andato troppo spesso, una volta per esserci andato e non essere entrato. Insomma, non si capisce cosa abbia fatto. Spero che i giudici europei mi ascoltino, perché in quella sede dirò cosa non ha fatto il nostro Paese per accertare la verità sui fatti del G8.

PRESUNTO COLPEVOLE. DOMENICO ZAMBETTI.

'Ndrangheta: Zambetti, sono vittima. Ex assessore, meritavo l'assoluzione. Crespi, sono innocente, scrive il 23 Maggio 2018 "La Gazzettadelmezzogiorno.it". "Sono una vittima e non sono un carnefice. Dovevo essere assolto perché non ho fatto nulla. Speravo di chiuderla qui, con il processo in appello". Sono le parole a caldo dell'ex assessore regionale Domenico Zambetti che, occhi lucidi per la rabbia, ha espresso il suo rammarico per la sentenza dei giudici di secondo grado che, comunque, gli hanno quasi dimezzato la pena inflitta dal Tribunale. Zambetti, accusato di aver comprato 4000 voti dalla 'ndrangheta per le regionali del 2010, oltre ad annunciare ricorso, ha notato che, vista la riduzione delle pene a lui e ad Ambrogio Crespi, fratello dell'ex sondaggista di Berlusconi, "qualcosa forse non ha funzionato in primo grado". Crespi ha invece affermato: "Credo ancora nella giustizia, sono innocente. Cercherò di riprendermela andando in Cassazione. Se la giustizia ha un suo corso, lo rispetto ma non lo condivido".

PRESUNTO COLPEVOLE. AMBROGIO CRESPI.

Solidarietà bipartisan per il regista Ambrogio Crespi alla vigilia della sentenza. Un processo tra dubbi e prove fragili. Un nuovo caso Enzo Tortora per alcuni giornali. Anche Marco Pannella si schierò per l'innocenza del regista, scrive Angelo Amante il 20/02/2018 su "Huffingtonpost.it". Il secondo capitolo della discussa vicenda giudiziaria del regista Ambrogio Crespi si concluderà domani, di fronte alla corte d'Appello di Milano. Un iter lungo quasi sei anni, che a Crespi, tirato in ballo da una serie di intercettazioni, è già costato duecento giorni di carcere e una condanna in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa. La vicenda risale alle elezioni regionali in Lombardia del 2010, le ultime vinte da Roberto Formigoni. Il tribunale ha ritenuto Crespi colpevole di aver procurato voti a Domenico Zambetti, assessore alla Casa di quella giunta, servendosi di conoscenze in ambienti criminali. Un nuovo caso Enzo Tortora, hanno scritto alcuni giornali, facendo un parallelo con il presentatore condannato per reati che non aveva commesso dopo un lungo calvario tra carceri e tribunali. Il processo è andato avanti tra dubbi sull'impianto accusatorio, a causa di prove fragili e ritrattazioni da parte degli intercettati. Dal mondo della politica è giunta una solidarietà bipartisan, che coinvolge esponenti del centrodestra, tra cui Mara Carfagna e Gianni Alemanno, e del centrosinistra, come il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Sandro Gozi. All'epoca dell'arresto, anche Pannella si schierò per l'innocenza del regista, autore di numerosi film e documentari, tra cui "Spes contra spem - Liberi dentro", presentato nel 2016 alla mostra del cinema di Venezia. La sentenza di primo grado è arrivata a febbraio dello scorso anno. Il pm aveva chiesto una condanna a sei anni. Ne sono arrivati dodici, nonostante Crespi, in aula, "abbia ricevuto le scuse del suo principale accusatore, Eugenio Costantino", dice l'avvocato Giuseppe Rossodivita. Costantino ha ammesso di aver soltanto finto di conoscere il regista nelle conversazioni intercettate dagli inquirenti. L'obiettivo era accreditarsi agli occhi del gruppo criminale di cui faceva parte, millantando contatti di alto livello. "Costantino le sparava a tutto spiano. Non mi spiego perché Ambrogio sia stato condannato al massimo della pena. È stato trattato alla stregua di un associato all'organizzazione". Dopo essere stato arrestato a Roma nell'ottobre del 2012, il regista ha trascorso quasi sette mesi tra Regina Coeli e Opera, due dei quali in isolamento. Per l'accusa, avrebbe contributo a un sistema che provvedeva a raccattare voti in cambio di soldi. Denaro che andava a finire nelle tasche dell'organizzazione, che si serviva di una rete di "controllori" per indirizzare i consensi di interi condomini sul candidato preferito. Zambetti avrebbe pagato circa 200 mila euro per 4 mila voti. 2.500 di questi, stando alle intercettazioni, sarebbero stati procurati da Crespi. Il regista nega di conoscere sia Costantino, che avrebbe incontrato per la prima volta in carcere, che Zambetti. Crespi è stato scarcerato ad aprile 2013. Il gip Alessandro Santangelo escludeva non soltanto ogni collegamento abituale tra l'imputato e la criminalità organizzata, ma dava per scontata la sua volontà di difendersi. A Crespi fu infatti offerta da Francesco Storace una candidatura in parlamento. In caso di elezione, l'immunità penale garantita agli onorevoli lo avrebbe messo parzialmente al riparo dall'azione della magistratura. Ma preferì rifiutare e andare avanti nell'iter giudiziario. Crespi parla in un'intercettazione telefonica con Alessandro Gugliotta. Sospettato di avere legami con la 'ndrangheta, Gugliotta ha conosciuto Crespi durante l'infanzia trascorsa nelle case popolari del quartiere Baggio, periferia Ovest di Milano: "Agli occhi di Ambrogio, era soltanto una persona che viveva di piccoli espedienti. Un giorno si sono rincontrati, e Gugliotta gli si è attaccato dietro", dice ancora Rossodivita. Nella telefonata, Gugliotta chiede a Crespi di dare una mano a sostenere Sara Giudice, una candidata al consiglio comunale di Milano nel 2011. Richieste che Crespi liquidò evasivamente, senza offrire nulla più che una possibile intervista sul quotidiano che allora dirigeva. O al massimo un sondaggio, confezionato dal fratello Luigi. Crespi è accusato di aver presentato Gugliotta a Giuseppe D'Agostino, altro uomo dei clan. «Ma non è vero. Si tratta di una ricostruzione già smentita nel corso del processo di primo grado», afferma il legale. Secondo la difesa, organizzata da Rossodivita assieme al collega Marcello Elia, la tesi dei condomini "orientati" non regge. Spiega ancora l'avvocato: "Tutti gli abitanti di un condominio votano nella stessa sezione elettorale. Se ci fossero stati 10 o 12 condomini gestiti da malavitosi, questo avrebbe dovuto produrre picchi di preferenze concentrati in alcune zone della città". Non è così, sostengono gli avvocati. "Il massimo ottenuto da Zambetti in una singola sezione sono 38 preferenze. In qualche altra, si oscilla tra le 15 e le 20", aggiunge il legale. Sarebbe anche esagerato, aggiungono i difensori, credere che Crespi abbia il potere di muovere 2500 voti. Nel 2006, il regista si candidò a sindaco di Milano. A sceglierlo furono 1086 elettori. Meno della metà di quelli che, per merito suo, avrebbero barrato il nome di Zambetti.

PRESUNTO COLPEVOLE. ILVO CALZIA.

Se 11 assoluzioni vi sembran poche…, scrive Simona Musco il 25 Aprile 2018 su "Il Dubbio".  L’odissea giudiziaria di un dipendente comunale. Undici processi, tutti archiviati o finiti con un’assoluzione con formula piena. «Sei anni di calvario», dice l’avvocato Paolo Frank raccontando la storia del suo cliente. Ilvo Calzia, ex dirigente del settore Urbanistica del Comune di Imperia, è per tutti un recordman: indagato, processato e assolto ogni volta, ma comunque sospeso dal lavoro, con lo stipendio ridotto all’osso per circa tre anni, nonostante la legge Severino richieda almeno una condanna per giustificare una sospensione. Tutto comincia nel 2012, con l’indagine sul porto turistico d’Imperia, che coinvolge anche l’imprenditore Francesco Bellavista Caltagirone e l’ex ministro Claudio Scajola. «Durante la fase delle indagini – spiega l’avvocato Frank Calzia è stato più volte sentito a sommarie informazioni dalla Procura e dalla polizia giudiziaria perché considerato una persona attendibile e onesta e anche perché si tratta di un tecnico, un architetto competentissimo, che conosce perfettamente le norme». Non viene sentito dunque in qualità di indagato, ma solo come persona informata sui fatti. Una situazione che però, ad un certo punto, cambia completamente: «quando il pm ha tirato le fila delle indagini ha chiesto la misura cautelare per concorso in associazione a delinquere anche per Calzia», spiega l’avvocato. Una richiesta che non convince il gip, secondo cui può essere contestato, al limite, l’abuso d’ufficio. Viene così chiesta soltanto l’interdizione per due mesi. «Durante l’interrogatorio – racconta il legale, Calzia ha spiegato in maniera dettagliata la sua posizione e così, passati i due mesi, la misura interdittiva ha perso efficacia». Il dirigente torna dunque a lavoro, convinto che tutto torni come prima. Ma il Comune decide di chiudergli le porte in faccia con una nuova sospensione cautelare. Motivo: «volevano attendere l’esito dell’udienza preliminare». L’udienza preliminare si rivela ulteriormente deleteria: Calzia viene rinviato a giudizio per abuso d’ufficio e per un presunto falso omissivo relativo a una dichiarazione fatta su una variante al piano regolatore. E mentre attende la fine del processo, rimane forzatamente a casa. «La Severino – spiega il suo avvocato – prevede la sospensione solo dopo una condanna, non basta un rinvio a giudizio. Ma nonostante questo, Calzia è stato sospeso con lo stipendio al 30 percento». Una situazione che dura per due anni e mezzo, fino alla fine del primo grado di giudizio, celebrato a Torino, «perché ad Imperia non sono stati trovati tre giudici in grado di farlo», sottolinea Frank. Il pro- cesso si chiude con un’assoluzione con formula piena, impugnata dal pm per quanto riguarda l’accusa di falso e poi confermata anche in appello. Ma nonostante ciò i problemi sul posto di lavoro non sono terminati: «una volta assolto in primo grado – spiega il legale -, Calzia si è presentato con la sentenza in mano chiedendo il reintegro. Prima di farlo, però, ci hanno pensato un po’, facendo consulti e prendendo tempo». Risultato: viene sì reintegrato, ma in un ufficio diverso. Prima finisce al Patrimonio, con un settore creato appositamente il giorno prima e privo, dunque, di mansioni da svolgere, e poi al settore Ecologia, dove lo stipendio è più basso e per il quale, comunque, Calzia non ha la preparazione adatta. Ma non sembra bastare: per il dirigente arriva infatti una nuova sospensione cautelare. «Quando era al minimo di stipendio e non lavorava ha fatto un po’ di attività privata – evidenzia Frank -. Ma secondo il Comune non avrebbe potuto farlo, sulla base di un regolamento interno. Quindi è stata sospeso per altri due mesi, come se la sentenza di assoluzione per loro non fosse valida». Un calvario condito da una trafila di indagini nate una dopo l’altra dopo quella sul porto, tutte chiuse con archiviazione o assoluzione. «La Procura di Imperia ha setacciato tutta la sua vita privata, sia come dirigente pubblico sia come professionista privato e su nove processi siamo andati a giudizio solo in tre casi, finiti tutti con un’assoluzione con formula piena», spiega Frank. Processi nati da «consulenze fatte male», dimostrate inattendibili e «pagate con soldi pubblici». Un particolare che si legge anche nelle motivazioni dell’ultima assoluzione, relativa ad un presunto abuso d’ufficio per l’autorizzazione di un complesso edilizio vicino al mare, per il quale, secondo la Procura, sarebbe stata necessaria una autorizzazione doganale. «La normativa non prevede che venga chiesta oltre i 30 metri rispetto alla linea demaniale – spiega il difensore -, ma il consulente si era rifatto a vecchie cartine catastali, tanto che la reale distanza non era inferiore a 30 metri, come contestato dall’accusa, ma addirittura sopra i 150 metri». Un punto evidenziato anche dai giudici: il consulente, si legge in sentenza, «ha dichiarato di non essere a conoscenza dell’approvazione del piano regolatore del porto di Imperia: all’evidenza, egli non lo ha, dunque, valutato nel proprio elaborato». Una svista non da poco, essendo costata a Calvia l’ennesimo processo e l’ennesima gogna. Il dirigente ha ora fatto causa al Comune, per vedersi risarcito il danno subito e ingigantito dal clima forcaiolo nato a seguito dell’indagine sul porto. «È stato un capro espiatorio», contesta ora la famiglia. Che chiede giustizia.

PRESUNTO COLPEVOLE. OTTAVIANO DEL TURCO.

OTTAVIANO DEL TURCO - STORIA DI ORDINARIA ITALIANITA’.

Ottaviano Del Turco. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Ottaviano Del Turco (Collelongo, 7 novembre 1944) è un sindacalista e politico italiano. Di ideologia socialista, è stato l'ultimo segretario nazionale del Partito Socialista Italiano (1993-1994), ministro della Repubblica (2000-2001) e presidente della Regione Abruzzo (2005-2008), carica dalla quale si è dimesso in seguito al suo arresto disposto dalla Procura di Pescara per questioni inerenti alla gestione della sanità privata. È stato membro della direzione nazionale del Partito Democratico.

Biografia.

Inizi e carriera sindacale. Dopo la licenza media serale emigra a Roma e inizia il suo apprendistato sindacale nella sede romana dell'Istituto nazionale confederale di assistenza (INCA). Come sindacalista di area PSI, entra a far parte della segreteria provinciale della FIOM di Roma e quindi approfondisce la sua conoscenza del sindacato dei Metalmeccanici entrando a far parte dell'ufficio di organizzazione centrale della FIOM (Federazione Impiegati Operai Metalmeccanici) della CGIL (1968). Prosegue la carriera sindacale, prima guidando per molto tempo la corrente socialista della CGIL e successivamente diventando segretario aggiunto durante la segreteria di Luciano Lama (1970-1986). Durante il Congresso del PSI del 1987 a Rimini, Del Turco, insieme a Giacomo Mancini, Franco Piro e Giorgio Ruffolo, fu protagonista di un intervento polemico sulla corruzione nel partito. Del Turco e gli altri tre dirigenti socialisti, con parole sgradevoli ai craxiani, parlano di corruzione interna al partito, chiedono pulizia e invocano ordine nelle giunte locali.

Carriera politica. Nel 1992 lascia il sindacato e un anno dopo diventa segretario nazionale del PSI subentrando a Giorgio Benvenuto, che aveva provvisoriamente sostituito Craxi al momento dell'uscita di quest'ultimo dalla vita politica italiana. Il partito, sconvolto dall'inchiesta di Mani pulite, durante la sua segreteria si sfalda, diventando prima SI (Socialisti Italiani) e poi SDI (Socialisti Democratici Italiani). Col primo movimento, nel 1994 Del Turco viene eletto alla Camera (XII Legislatura) nel collegio elettorale di San Lazzaro di Savena e viene nominato vicepresidente della Commissione Affari Esteri; nella successiva legislatura viene eletto al Senato nel collegio di Grosseto per L'Ulivo. Dal 16 maggio 1996 al 6 febbraio 1997 è presidente del gruppo dei senatori di Rinnovamento Italiano. Durante il secondo governo Amato (2000-2001) ricopre l'incarico di Ministro delle Finanze. La sua attività politica è legata anche alla Commissione Antimafia, della quale è stato presidente dal 1996 al 2000. Nel 2004 viene eletto al Parlamento europeo nella circoscrizione sud, con 180.000 preferenze, per la lista Uniti nell'Ulivo e si iscrive al Partito Socialista Europeo. Nelle elezioni regionali del 3 e 4 aprile 2005 viene eletto presidente della Regione Abruzzo, per la coalizione dell'Unione con il 58,1% dei voti, e lascia l'incarico di Strasburgo. Nel 2007 fonda l'associazione Alleanza Riformista con l'intento di portare lo SDI nel Partito Democratico, in seguito al congresso nazionale dello SDI, nel quale prevale la linea del segretario nazionale Enrico Boselli, abbandona il partito per confluire con Alleanza Riformista nel PD. Dal 23 maggio 2007 è uno dei 45 membri del Comitato nazionale per il PD. Coinvolto in un'inchiesta giudiziaria sulla sanità abruzzese, ha presentato le dimissioni dalla carica di Presidente della Regione Abruzzo il 17 luglio 2008. Il Corriere della Sera, in data 14 dicembre 2008, pubblica un'intervista all'ex presidente Del Turco, in cui questi annuncia di stare pensando di candidarsi con il centrodestra alle successive elezioni europee: "... tornerò a fare politica ovunque sia possibile farlo da riformista"; la cosa tuttavia alla fine non si concretizzerà.

La questione Ortona. Negli anni in cui era presidente della regione Abruzzo, il suo nome è legato alla vicenda del Centro Oli di Ortona, come favorevole al progetto di tale centro petrolchimico, contro la forte e netta opposizione della popolazione locale, allertata dal Comitato Natura Verde, e dei produttori vitivinicoli della zona[1]. Questo tra l'altro, proprio a ridosso del Parco Nazionale della Costa Teatina, ancora in fase di perimetrazione definitiva. Dalle sue dichiarazioni del febbraio 2008 si evince una forte convinzione del benessere che comporterebbero le royalty da parte dell'ENI, nonostante le preoccupazioni dell'Istituto Mario Negri Sud che dichiara gravi danni alla salute nel suo documento di studio.

La questione Sale Bingo. Un'inchiesta di Report del 1º ottobre 2002, intitolata "Dietro al Bingo", rivela alcuni retroscena torbidi sulla "industrializzazione" del gioco della tombola (rinominata di fatto Bingo) e i coinvolgimenti politici. In particolare Milena Gabanelli sintetizza dicendo "Imprenditori privati e multinazionali spagnole del gioco d'azzardo che hanno fiutato l'affare nel 1999 quando sotto il governo D'Alema il gioco della tombola diventa Bingo. Ma il decreto legge che lo rende operativo e che trasformerebbe in illegali tutte le tombole di quartiere nasce il 21 novembre 2000. Ministro delle Finanze Del Turco, Ministro del tesoro Vincenzo Visco"[3]. Coinvolti anche l'ex ministro Vincenzo Scotti, che cofonda, assieme a Luciano Consoli (in area D'Alema), "Formula Bingo", società nella quale è presidente, che svolge consulenze per l'apertura delle sale bingo e rapidamente ottiene 214 delle 420 concessioni promesse dalla normativa, grazie anche all'alleanza con Codere, una multinazionale spagnola del gioco d'azzardo. Scotti è anche presidente di Ascob, l'associazione dei concessionari. È lo stesso Scotti, infatti, che, in Senato, preme per rendere abusive le tombole nei circoli.

Procedimenti giudiziari. Il 14 luglio 2008 viene arrestato dalla Guardia di Finanza a seguito di un'inchiesta della Procura della Repubblica di Pescara, insieme a una decina tra assessori, ex-assessori, consiglieri ed alti funzionari della Regione Abruzzo con l'accusa di associazione per delinquere, truffa, corruzione e concussione, nell'ambito di un'inchiesta avviata dalla Procura della Repubblica di Pescara sulla gestione della sanità di iniziativa privata in Abruzzo. L'accusa contesta globalmente movimenti di denaro per circa 14 milioni di euro, di cui 12,8 consegnati; la cifra contestata a Del Turco, Cesarone e Quarta per la presunta concussione e corruzione ammonta a 5 milioni e ottocentomila euro. L'Abruzzo è una delle regioni italiane con il più alto debito nella sanità. L'inchiesta della procura pescarese si riferisce alla seconda cartolarizzazione dei crediti vantati da cliniche private nei confronti delle ASL abruzzesi. Poco dopo l'arresto si dimette da presidente e si autosospende da membro della Direzione Nazionale del PD[8]. Del Turco è stato detenuto nel carcere di Sulmona (AQ) ventotto giorni, uscendone l'11 agosto a seguito di concessione degli arresti domiciliari da scontare nel paese natale di Collelongo. Il 16 luglio 2009 la Procura di Pescara ha disposto il sequestro preventivo di 28 tra beni mobili e immobili, per un valore totale di oltre 10 milioni di euro, riferiti ad alcuni indagati nella cosiddetta “Sanitopoli” abruzzese. A Ottaviano Del Turco sono stati sequestrati due immobili, uno a Roma e l'altro in Sardegna. Il Giudice per le indagini preliminari ha confermato i «gravi indizi di colpevolezza a carico degli indagati per le ipotesi di corruzione e concussione». Angelini ha detto negli interrogatori di aver versato 5,540 milioni di euro a Del Turco e gli altri: nel decreto si legge che «l'attività investigativa non ha ancora consentito di tracciare l'effettiva destinazione finale di tali rilevanti risorse economiche». L'8 gennaio 2010 vengono pubblicati sulla "Stampa" gli atti giudiziari relativi all'inchiesta sulla sanità abruzzese che portò agli arresti nel luglio 2008 del governatore. All'articolo della Stampa risponde il 10 gennaio 2010 Sandra Amurri su Il Fatto Quotidiano. Il 22 luglio 2013 Del Turco viene condannato in primo grado a 9 anni e 6 mesi di reclusione per i reati di associazione per delinquere, corruzione, concussione, tentata concussione e falso. Il 20 novembre 2015 la Corte d'Appello dell'Aquila condanna Del Turco a 4 anni e 2 mesi di reclusione per i reati di associazione per delinquere e per induzione indebita. Del Turco viene invece assolto dalle accuse di corruzione e falso. I legali di Del Turco annunciano ricorso in Cassazione. Il 3 dicembre 2016 la Corte di Cassazione annulla con rinvio la condanna di Del Turco per l'accusa di associazione a delinquere. Viene invece confermata la condanna per induzione indebita. Il 27 settembre 2017 la Corte d'Appello di Perugia assolve poi Del Turco dall'accusa di associazione a delinquere perché "il fatto non sussiste" rideterminando la pena in 3 anni e 11 mesi (da 4 anni e 2 mesi); inoltre l'interdizione dai pubblici uffici viene trasformata da perpetua a 5 anni. A ottobre 2018, la Corte di Cassazione condanna definitivamente Ottaviano Del Turco a 3 anni e 11 mesi di reclusione per induzione indebita confermando la pena decisa nel 2017 dalla Corte d’Appello di Perugia nell’appello-bis.

Nove anni e quattro processi per scoprire che Del Turco non è un corrotto. La Corte di appello di Perugia ha assolto l'ex governatore abruzzese dal reato di “associazione a delinquere” con la formula dell’insussistenza del fatto, scrive Massimo Bordin il 28 Settembre 2017 su "Il Foglio". Ci sono voluti nove anni perché quattro processi arrivassero a sgretolare “la montagna di prove schiaccianti” evocata enfaticamente dal procuratore capo di Pescara Nicola Trifuoggi nel 2008, quando venne annunciato con una conferenza stampa l’arresto di Ottaviano Del Turco, all’epoca presidente della giunta regionale abruzzese. Ieri la Corte di appello di Perugia lo ha assolto dal reato di “associazione a delinquere” con la formula dell’insussistenza del fatto. I giudici umbri dovevano rideterminare la pena comminata in appello all’esponente socialista poi passato al Pd. Ormai è rimasta solo una pena ulteriormente ridotta per un reato di induzione. In sostanza l’amministrazione Del Turco non era quella associazione di criminali descritta dai pm che con la loro inchiesta ne determinarono lo scioglimento e Del Turco non è un corrotto. La sequenza dei processi ha avuto un andamento lineare almeno da un punto di vista. Più la sede si allontanava da Pescara, più la sentenza appariva critica con l’impianto accusatorio. Decisiva la cassazione e ancor più quest’ultima sentenza di Perugia. L’impasto fra magistratura e politica non può non essere considerato un motivo plausibile dell’andamento processuale. Per lo meno non aiuta a fugare un dubbio del genere il fatto che l’evocatore della montagna di prove, che alla fine si è sbriciolata, abbia nel frattempo, una volta andato in pensione, rivestito il ruolo di vicesindaco e poi di candidato, sia pure con scarsa fortuna, alla massima carica comunale.

Crolla il teorema dei pm, Del Turco assolto 9 anni dopo. Un’odissea giudiziaria iniziata 9 anni fa, scrive Errico Novi il 28 Settembre 2017 su "Il Dubbio".

L’APPELLO CANCELLA L’ASSOCIAZIONE A DELINQUERE. LA DIFESA: ORA LA REVISIONE. Mentre la Corte d’appello di Perugia assolve Ottaviano Del Turco dall’accusa di associazione a delinquere, il Senato si accinge ad approvare il ddl sui piccoli comuni. Del Turco viene da uno di questi, Collelongo, nell’Aquilano. Ha preso la licenza media alle scuole serali, se n’è venuto a Roma, si è fatto le ossa con la fatica e da sindacalista vero, che può parlare della fatica altrui perché conosce la propria. Forse per questo i giudici non gli avevano creduto, in primo e in secondo grado. E forse per questo i compagni che con l’ex governatore dell’Abruzzo avevano fondato il Pd, lo avevano scaricato il giorno stesso dell’arresto, nel luglio del 2008. Del Turco ha il volto scavato dell’operaio di provincia, non il profilo levigato della sinistra borghese. Di chi, come Walter Veltroni, nel pieno della tormenta gli disse: «Spero riuscirai a provare la tua innocenza». Secondo la Corte d’appello di Perugia, dunque, è certo che Ottaviano Del Turco, da presidente della Regione, non ha fatto parte di alcuna associazione a delinquere. Nel ultimo rivolo del processo sulla cosiddetta Sanitopoli abruzzese, innescato dal rinvio della Cassazione, i giudici hanno fatto cadere il capo d’imputazione più odioso e ricalcolato la pena in 3 anni e 9 mesi. «Cade in modo rovinoso e definitivo l’intero impianto della Procura», commenta a caldo il difensore di Del Turco, Gian Domenico Caiazza. Non c’è la rete associativa. Restano cinque asseriti casi di induzione indebita a dare o commettere utilità. Episodi in cui l’ex governatore avrebbe ricevuto denaro dal suo unico accusatore, l’ex re delle cliniche Vincenzo Angelini. Ha preso quei soldi per favorire l’imprenditore? Ha modificato la politica sanitaria regionale per ricambiare le generose dazioni? Niente di tutto questo. «Del Turco continuò a fare un sedere così ad Angelini». Allo straordinario avvocato Caiazza si potrà perdonare il francesismo. I cinque episodi corruttivi restano dunque sospesi nel nulla, ma restano e non avrebbe potuto essere altrimenti. La Corte d’appello di Perugia era stata chiamata dalla Cassazione solo a decidere se c’era l’articolo 416. Non avrebbe potuto rivalutare nel merito le altre accuse.

L’ASSOCIAZIONE A DELINQUERE? UN FANTASMA. Cade l’associazione a delinquere, «perché il fatto non sussiste», anche per gli altri quattro imputati “rinviati”, come Del Turco, davanti al giudice di secondo grado. Si tratta dell’ex segretario della Presidenza all’epoca della giunta Del Turco, Lamberto Quarta, dell’allora capogruppo della Margherita in Consiglio regionale Camillo Cesarone, degli ex assessori alla Sanità Bernardo Mazzocca e alle Attività produttive Antonio Boschetti. Il sistema organizzato non c’è più. E non si capisce appunto, come facciano a esserci i singoli 5 illeciti residui, di induzione indebita da parte di Del Turco nei confronti di Angelini. «Viene meno la struttura stessa dell’accusa», spiega il difensore. Non a caso ora l’ex governatore e i suoi legali dicono: «Non è finita qui, adesso andiamo per la revisione del processo». In modo da cancellare tutto.

OTTAVIANO NON ASCOLTA LA LETTURA DELLA SENTENZA. Lui, Ottaviano, è a Perugia ma non se la sente di stare in aula al momento della pronuncia. C’è suo figlio Guido, giornalista del Tg5, che in questi casi è la sua ombra. E l’avvocato Caiazza. Sono loro due ad abbracciarlo e a comunicargli che un altro pezzo di incubo si è dissolto. Persino l’interdizione dai pubblici uffici è stata ridimensionata a 5 anni, da che era “perpetua”. «Resta quello schizzo di fango esiziale», lamenta il difensore. Le cinque induzioni indebite. Niente rispetto ai 24 capi d’imputazione contestati nel 2008 dalla Procura di Pescara. Troppe, anzi, tutte intollerabili dal punto di vista di chi si professa innocente.

STORIA DI UN PROCESSO, E DI UN ACCUSATORE, ROMANZESCHI. ll 14 luglio di 9 anni fa Del Turco viene arrestato con le accuse di corruzione, concussione, truffa, falso e associazione a delinquere. La Sanitopoli abruzzese nasce coi botti. Finisce in carcere un’altra decina di persone tra consiglieri regionali, assessori e alti funzionari dell’Amministrazione. Tutto gigantesco. Ma sorretto da un solo, unico pilastro: Vincenzo Angelini appunto. Accusa tutti, e Del Turco più di tutti, di avergli sfilato tangenti per 5 milioni e 800mila euro. Contati. Solo per Del Turco i capi d’imputazione sono 24, una quindicina riguardano appunto le mazzette all’ineffabile imprenditore. Fanno, in primo grado, una condanna a 9 anni e 6 mesi. Si va in appello e, nel novembre 2015, il conto è assai più che dimezzato. Oltre all’associazione a delinquere, restano in piedi solo 5 dei capi d’imputazione relativi alle asserite tangenti. Il precedente conto virtuale e immaginario di quasi 6 milioni si riduce a 600mila euro. La condanna scende a 4 anni e 2 mesi. Cadono le accuse sui reati “strumentali”. Nel caso di Del Turco il falso, per gli altri imputati gli abusi d’ufficio. E già lì il colpo all’impianto accusatorio è letale. Intanto perché le 5 dazioni sopravvissute del governatore a Angelini si reggono praticamente tutte su quella, leggendaria per così dire, della busta piena di mele con cui il magnate sanitario viene via da casa Del Turco a Collelongo, dopo averla svuotata di bigliettoni. La prova? Foto della busta coi bigliettoni, foto della busta con mele, foto sfocatissima che ritrae due figure indistinguibili. Sembra Fantozzi. È la prova regina, anche per la Corte d’appello dell’Aquila, che almeno quella mazzetta è passata nelle mani dell’ex presidente. Il quale quel giorno, il 2 novembre 2007, era a casa, ma con ospiti istituzionali che non ricordano affatto la misteriosa visita. Sopravvivono altre 4 dazioni per “riverbero” dalla prima. Secondo la impegnativa costruzione della sentenza di secondo grado, sono vere perché sarebbe provata quella delle mele e perché, anche in questi altri quattro casi, i riscontri dei passaggi Telepass forniti da Angelini non sono chiaramente improponibili. «Prima di Del Turco la Regione Abruzzo sfrondava la spesa sanitaria per 50mila euro l’anno di ‘ inattività inappropriate’, con lui si è arrivati in 3 anni a tagliarle per 100 milioni di euro: ora capite da dove nasce questo processo?», urlò inutilmente Caiazza davanti ai giudici d’appello.

LA PRONUNCIA CHE LA CASSAZIONE TROVA “ILLOGICA”. Si arriva in Cassazione. Non si possono più rivedere i cinque episodi di induzione indebita: la Suprema corte non è giudice di merito. Ma può, e lo fa, rilevare che l’accusa di associazione a delinquere è illogica, così come formulata dalla sentenza di secondo grado: non ci sono i reati strumentali di falso e abuso, ci dite allora come funzionava quest’associazione a delinquere che non produceva alcunché? Ecco perché il 3 dicembre dell’anno scorso la Cassazione annulla la pronuncia d’appello con rinvio, per competenza, ad altra Corte, quella di Perugia. Va riformulato con altri presupposti o cancellato il reato associativo.

IL LAPSUS DEL PG CHE CHIEDE UNA PENA TROPPO BASSA. Siamo a ieri, quando puntualmente l’associazione a delinquere cade per tutti, a cominciare da Del Turco. Nel suo caso ai 4 anni e 2 mesi della condanna precedente vengono sottratti i 3 mesi del articolo 416, ed ecco il rideterminazione di 3 anni e 9 mesi. Ma vorrà dire, vorrà pur dire qualcosa, il fatto che il sostituto procuratore generale Giuliano Mignini non solo chieda di cancellare quel capo d’ imputazione e rivedere così complessivamente al ribasso tutte le condanne; ma che nel formulare la richiesta per Del Turco esageri addirittura. Mignini chiede di portarla a 1 anno e 9 mesi. «È un errore, purtroppo, solo un errore tecnico, perché il minimo per l’induzione indebita è 3 anni e poi c’è l’asserita continuazione del reato», commenta Caiazza in attesa della sentenza. Quel lapsus però resta. «Ben rappresenta quale sia anche da parte della Procura generale l’apprezzamento di gravità del fatto che residua rispetto all’indagine di 9 anni fa». Nulla, appunto. Solo un ultimo schizzo di fango.

Del Turco: «Se ce l’ho con i pm? No, ce l’ho con il populismo giudiziario». «Mi sono liberato di un macigno sia psicologico che morale. Ora punto alla revisione del processo per dimostrare la mia piena innocenza», scrive Giulia Merlo il 28 Settembre 2017 su "Il Dubbio". «Ora voglio la revisione del processo, per dimostrare la mia piena e totale innocenza». L’ex presi- dente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco, è raggiante mentre torna in auto da Perugia, dopo la sentenza che lo assolve dall’accusa di associazione per delinquere. Il cellulare squilla in continuazione, mentre lo scandalo “Sanitopoli” abruzzese si sgretola, dopo quasi dieci anni dai primi arresti. Del Turco, detenuto 28 giorni nel carcere di Sulmona e poi agli arresti domiciliari, era stato condannato in primo grado a 9 anni e 6 mesi, ridotti in appello a 4 anni e due mesi con una sentenza che viene poi annullata con rinvio dalla Cassazione. Fino ad ieri, quando l’ultima sentenza della Corte d’Appello «mi ma liberato dall’aberrante accusa di essere a capo di una associazione per delinquere».

Onorevole, è soddisfatto degli esiti della sentenza? Rimane in piedi la condanna per induzione indebita a dare o promettere utilità.

«Soddisfazione è dire poco, mi sono liberato da un macigno che mi opprimeva. Lei non sa quanto mi sia pesata, sia dal punto di vista psicologico che morale, l’accusa di essere a capo di un’associazione per delinquere. Non trovo parole per descriverle quanto sia importante per me la sentenza di oggi».

La vicenda è chiusa, ora?

«Sono felicissimo di questo primo passo verso la chiusura. Lo ricordava lei: rimane in piedi la condanna per induzione indebita, ma non è definitiva e mi batterò in giudizio perché cada anche quella. Ora, infatti, è il momento di trarre le conseguenze dell’assoluzione dall’accusa di associazione per delinquere: tutte le altre ipotesi di reato si giustificavano con l’esistenza dell’associazione, ma senza questa non hanno ragion d’essere. Questo sarà il tema del futuro giudizio».

Quale sarà la sua prossima mossa processuale?

«Punto a ottenere la revisione del processo. Come dicevo, il reato fondamentale a me contestato era quello associativo ed è stato distrutto da questa sentenza. Su questo si reggeva l’impianto accusatorio che tiene in piedi le altre ipotesi di reato. Ora voglio ottenere la piena assoluzione».

Lei, al momento dell’arresto, era governatore della Regione Abruzzo e dirigente del Partito Democratico. Ha ricevuto solidarietà dai colleghi di partito, in questi anni di battaglia processuale?

«Guardi, le posso dire di aver ricevuto moltissima solidarietà diretta, con centinaia e forse addirittura migliaia di telefonate di solidarietà, con molti che hanno definito vergognosa l’inchiesta contro di me. Ecco, ora penso che queste parole possano venire pronunciate anche pubblicamente, non solo a me per telefono».

Forse, ora, sente di poter vantare qualche credito anche nei confronti della politica?

«Assolutamente no. La prego, mi lasci passare qualche ora a crogiolarmi nella soddisfazione di aver smontato accuse mostruose nei miei confronti».

Nessun proverbiale sassolino dalla scarpa?

«Le dico la verità: non esco da questa vicenda con la voglia di rimettere in discussione gli equilibri politici di questo o quel partito, non sono quel genere di persona. Glielo assicuro, dalla meraviglia della sentenza di oggi trarrò conseguenze personali e non politiche».

La sua carriera politica è stata azzerata da questa inchiesta giudiziaria. Si sente di recriminare qualcosa ai magistrati che l’hanno indagata?

«Io sono un militante di un grande movimento democratico e vengo dalla tradizione socialista. Ho partecipato alle battaglie del Partito Democratico di questi anni e non metto in alcun modo in discussione le regole e gli ideali della democrazia. Anzi, le dico che questa sentenza rafforza la mia fiducia nella giustizia: da oggi, la mostruosità che si chiamava associazione a delinquere non pesa più sulle mie spalle».

Il suo non è il solo caso di politico finito imbrigliato da inchiesta giudiziarie. E’ in atto in questo senso un conflitto tra politica e magistratura?

«Il fatto che l’associazione per delinquere sia caduta nei confronti miei e degli altri imputati fortifica ulteriormente la fede nella politica, che ho conservato intatta in questi anni. Io spero però che la sentenza rimanga impressa nella mente di tutti quelli che hanno voluto giocare sulla pelle della politica, perché la smettano con il populismo giudiziario».

Sanitopoli in Abruzzo, la Cassazione annulla la condanna a Del Turco. Ora si dovrà celebrare un nuovo processo per riscrivere la sentenza d’appello emessa dalla Corte d’Appello dell’Aquila, scrive Sergio Rame, Sabato 3/12/2016, su "Il Giornale". L'inchiesta e il processo sulle presunti tangenti nella sanità abruzzese hanno di fatto stroncato la sua carriera politica. Oggi, però, la Cassazione ha annullato la sentenza che lo aveva visto condannare per associazione a delinquere. E delle accuse granitiche di cui aveva parlato il procuratore capo nel giorno dell’arresto non resta più nulla. Per l'ex governatore della Regione Abruzzo, Ottaviano del Turco, si profila così un nuovo processo. Tutto da rifare. Si riparte dalla Corte d'Appello, ancora una volta. "Questa vicenda e quattro processi si frantumano con questa sentenza della Cassazione - commenta Del Turco - tutto ciò è la prova della situazione drammatica in cui versa il sistema giudiziario. Fortunatamente sono salvo perchè ci sono ancora molti magistrati fedeli ai principi della Costituzione". Per l'ex governatore, ieri sera, i supremi giudici della VI sezione penale della Cassazione hanno, infatti, disposto un processo d'appello-bis sulla "Sanitopoli" Abruzzo trasmettendo gli atti alla Corte di Appello di Perugia. Viene così a cadere il teorema su Del Turco che lo aveva visto condannato per il reato di associazione a delinquere. Diventa definitiva, invece, la condanna per induzione indebita. I giudici di Perugia, dunque, oltre a riesaminare la questione del reato associativo, dovranno determinare la pena e le statuizioni civili relative al reato di induzione indebita. Del Turco fu arrestato il 14 luglio 2008 assieme ad altre nove persone, tra cui assessori e consiglieri regionali. L'ex governatore fu detenuto in carcere a Sulmona per 28 giorni e, poi, trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. Qualche giorno dopo l'arresto, il 17 luglio 2008, Del Turco si dimise dalla carica di presidente della Regione e, con una lettera, si autosospese dal Pd, di cui era stato uno dei saggi fondatori e membro della direzione nazionale. Da quel momento ha avuto inizio il calvario giudiziario. La sentenza d'appello, che lo aveva condannato a quattro anni e due mesi di reclusione, ha però dimezzato la pena dopo aver demolito gran parte del castello di accuse che al primo grado erano state prese per buone. Le accuse, come aveva dimostrato anche ilGiornale, sono sempre provenute da un solo teste e non sono mai riuscite a dimostrare alcun passaggio di mazzette. "Il processo ha costruito una montagna schiacciante di fango - commenta ancora Del Turco - sono passati cinque anni dall'arresto e tutto si risolve con macchie di fango sul viso di persone perbene". L'ex governatore non dimentica quei ventotto giorni di isolamento in una cella a Sulmona: "Un letto, una porta con le sbarre e quattro secondini che mi controllavano a vista. Forse pensavano che mi sarei suicidato. Invece sono stati i processi a frantumarsi".

La parola ai Manettari.

Sanitopoli Abruzzo, per Del Turco Cassazione conferma induzione indebita e annulla associazione a delinquere. Dovranno essere rideterminate le pene per le tangenti dello scandalo che coinvolse l'ex governatore e alcuni componenti della sua giunta. L'ex parlamentare fu condannato in primo grado a nove anni e sei mesi e in secondo a quattro anni e due. "Non trovo in questa vicenda nessun altro senso, se non la evidente necessità di dare una parvenza, seppure grottesca, di giustificazione alla infamia che ha travolto una giunta regionale democraticamente eletta e con essa la vita mia e di molti di noi" dice l'imputato, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 3 dicembre 2016. Dovranno essere rideterminate le pene per le tangenti della Sanitopoli abruzzese che videro l’ex parlamentare e presidente dell’Abruzzo Ottaviano Del Turco, condannato in primo grado a nove anni e sei mesi e in secondo a quattro anni e due. La Cassazione ha infatti annullato con rinvio la condanna d’appello in relazione all’accusa di associazione a delinquere, ma ha confermato le tangenti con l’imputazione di induzione indebita che prima della legge Severino rientrava nel reato di concussione. Ad accusare Del Turco, che fu arrestato il 14 luglio 2008 per una lunga serie di reati tra cui anche la corruzione, l’abuso e falso, l’ex titolare della clinica privata Villa Pini di Chieti, Vincenzo Angelini, che rivelò ai magistrati di aver pagato tangenti per 15 milioni di euro in cambio di favori. Tra il primo e l’appello alcune accuse sono cadute, gli episodi corruttivi sono passati da 24 a 6 e davanti ai supremi giudici è arrivata l’associazione a delinquere finalizzata all’induzione indebita, che è stata confermata. Il giro di denaro, alla fine, è stato quantificato per Del Turco e gli altri imputati in 800mila euro. Tre le “dazioni” di denaro per l’ex parlamentare. Gli atti ora verranno inviati alla Corte di appello di Perugia. Ma la prescrizione maturerà prima della fine del prossimo anno. I magistrati umbri dovranno rideterminare il trattamento sanzionatorio per Del Turco, gli altri imputati, tra i quali l’ex assessore abruzzese alla sanità, Gabriele Mazzocca, e altri funzionari e componenti della vecchia giunta di centrosinistra, caduta sotto i colpi di questa inchiesta. Il legale di Del Turco, l’avvocato Giandomenico Caiazza, e le difese degli altri imputati, hanno sottolineato come le accuse fossero state mosse da un “bancarottiere seriale, condannato a più di 20 anni di reclusione per una distrazione di fondi pari a 105 milioni di euro”. “Spero che questo incubo termini e che a Ottaviano Del Turco sia restituita interamente la piena dignità: è un galantuomo che non ha mai preso nemmeno un euro di tangenti, è una ‘riserva’ della Repubblica e non si può distruggere una persona senza nessuna prova”, aveva sottolineato l’avvocato Giandomenico Caiazza nella sua arringa. Angelini però è stato ritenuto credibile dai giudici di appello che lo hanno assolto dall’accusa di corruzione, dopo che in primo grado era stato condannato a tre anni e sei mesi. Per il pg della Cassazione Aldo Policastro, che durante la requisitoria aveva chiesto la conferma della sentenza d’appello, Del Turco, insieme con amministratori della sua giunta, ha commesso “abuso esplicito dei suoi poteri, in riferimento alla grave situazione di dissesto finanziario in cui si trovata l’imprenditore Angelini”. L’accusa ha definito “esplicite” le modalità delle richieste di tangenti. Tra gli imputati e l’imprenditore, ha proseguito il pg “non c’era nessuna par condicio contrattuale”. Quella nei confronti di Angelini, titolare di alcune cliniche convenzionate con la Regione, è stata una “azione preordinata per ricattarlo subdolamente” come emerge dalla “trattativa sulla vendita della clinica Villa dei Pini”. “La Cassazione ha confermato definitivamente il reato di corruzione, che era il cuore dell’inchiesta: il passaggio di denaro c’è stato, e questo conferma la correttezza del processo” dice l’ex procuratore capo della Procura di Pescara, Nicola Trifuoggi, all’epoca capo del pool che insieme ai pm Giampiero Di Florio e Giuseppe Bellelli, diedero il via all’indagine. “Ora la Corte d’Appello di Perugia dovrà solo ricalcolare la pena dopo che è stato invece cancellato il reato di associazione per delinquere – chiude Trifuoggi – ma si tratta di un argomento tecnico per rimodulare la condanna, condanna che è definitiva”. “L’ex procuratore di Pescara esulta per la sentenza della Corte di Cassazione nei confronti di Ottaviano Del Turco. In fondo, lo apprezzo: sapersi accontentare di poco una virtù” scrive in una nota il legale Caiazza. “La Giustizia italiana, e le connesse risorse pubbliche necessarie, sono state impegnate per anni di processi e migliaia di pagine di verbali ad occuparsi delle strabilianti prove sul falso ideologico nella prima cartolarizzazione; su abusi di ufficio per budget provvisori manipolati, emendamenti legislativi segretamente modificati, documenti indebitamente sottratti alla legittima conoscenza pubblica, ispezioni sanitarie illegittime, ed una congerie di altre simili fandonie. Tutto questo al fine di prendere per ben 21 volte denaro da Angelini, per oltre 6 milioni di euro, dei quali nessuno ha saputo fornire prova nemmeno per un centesimo”. Sottolineando le sentenze della Corte di Appello, della Cassazione, il legale ricorda che “residuano, galleggiando incomprensibilmente il quel mare di assurdità, tre dazioni di denaro che Del Turco avrebbe richiesto ed ottenuto Dio sola sa perché. Il dottor Trifuoggi ci si lancia sopra, brandendole per cantare vittoria. È il degno finale di questa tragica farsa”. “La montagna di prove che doveva schiacciarmi, si è dimostrata per quello che era: una montagna di fango” dice Del Turco. “Quando sei sommerso da una montagna di fango e riesci a non soffocare è quasi impossibile che non ti rimanga addosso qualche schizzo. Già la corte di appello mi aveva assolto da tutti i reati di abuso e di falso ideologico. E da 18 delle 21 fantasiose dazioni di denaro che avrei ricevuto, e delle quali non è mai stato trovato un solo euro. Ora si dissolve anche l’associazione per delinquere. Non trovo in questa vicenda nessun altro senso, se non la evidente necessità di dare una parvenza, seppure grottesca, di giustificazione alla infamia che ha travolto una giunta regionale democraticamente eletta e con essa la vita mia e di molti di noi”.

La parola ai Manettari.

Del Turco condannato ma assolto, la post-verità di un corrotto, scrive Alberto Vannucci, Professore di Scienza Politica, il 10 dicembre 2016 su "Il Fatto Quotidiano". L’hanno chiamata post-verità, è l’ultima frontiera di una politica destrutturata. Prodotto di strategie di chirurgica divulgazione di notizie fraudolente, amplificate nella loro propagazione dai social network. Rappresentazioni menzognere impermeabili a qualsiasi smentita, persino quella del fact-checking, il controllo dei fatti tipico del giornalismo tradizionale, che giunge in ritardo risultando così impotente. Nel tempo accelerato delle nuove tecniche di comunicazione la pseudo-realtà artefatta e illusoria ha già centrato il suo obiettivo: fissare nella mente dei destinatari, specie quelli appartenenti a specifiche cerchie emotivamente affini (simpatizzanti, militanti, “amici di”, etc.), un’immagine o una convinzione sulla quale qualsiasi contro-informazione ancorata alla verità scivola come acqua. La post-verità ha già plasmato il mondo a propria immagine e somiglianza. Siamo di fronte a forme di abuso della credulità popolare già note come leggende metropolitane, che vedono incrementare esponenzialmente la propria velocità e potenza diffusiva grazie ai flussi continui di informazioni generate dai nuovi media. Altra novità contemporanea è il loro impiego scientemente programmato da politici opportunisti per manipolare le opinioni pubbliche e il consenso. Donald Trump, il candidato più bugiardo nella storia d’America, non è stato eletto nonostante, ma grazie alle sue menzogne, che nessun ragionamento razionale è riuscito a smontare o confutare. Circa il 77 per cento delle sue affermazioni sono risultate false o non del tutto veritiere, durante la campagna elettorale si è calcolata la media record di una sua bugia ogni 3 minuti e 15 secondi. Una recente vicenda italiana – in parte eclissata dal cataclisma referendario – mostra un’applicazione autoctona, non priva di originalità, di questo meccanismo sofisticato di disinformazione. Nel caso italiano, o meglio abruzzese, la strategia della post-verità non è stata utilizzata per ottenere voti, ma per la riabilitazione di un politico corrotto. Stranamente poi il suo canale originario di diffusione, ancor prima della circolazione in rete, è stata proprio la stampa tradizionale – a dimostrazione che le classifiche sulla “libertà di stampa” che collocano l’Italia in una posizione sconfortante non sono poi così ingannevoli. Alla vigilia del referendum costituzionale quasi tutti i principali quotidiani nazionali e locali – tra le poche eccezioni proprio Il Fatto Quotidiano – danno notizia dell’apparente assoluzione di Ottaviano Del Turco, ex-segretario socialista, ex-membro della direzione del Pd ed ex-presidente della Regione Abruzzo, arrestato nel 2008 per le tangenti ricevute da un imprenditore operante nel settore sanitario. Almeno, l’innocenza del politico ingiustamente crocifisso dalla magistratura è la post-verità inoculata nel discorso pubblico. Difficile interpretare altrimenti i titoli che la Repubblica, La Stampa, Il Corriere, Il Sole 24 Ore, Il Giornale dedicano al caso, in buona sostanza: “La Cassazione annulla la condanna a Del Turco”. A corroborare questa interpretazione la generosa concessione di spazio alle tesi dell’avvocato difensore: “Spero che questo incubo termini e che a Ottaviano Del Turco sia restituita interamente la piena dignità: è un galantuomo che non ha mai preso nemmeno un euro di tangenti, è una ‘riserva’ della Repubblica”. Lo stesso “post-corrotto” si concede un’intervista autocelebrativa su La Stampa, in cui rievocando “l’infamia che mi ha travolto” proclama: “Mi hanno restituito l’onore. Doveva schiacciarmi una montagna di prove. Si è ridotta a una montagna di fango. E uno schizzo mi è rimasto addosso. Ma io sono innocente”. Soltanto un’attenta esegesi dei testi giornalistici permette di ricostruire meglio la natura maleodorante dello “schizzo di fango”. E’ la verità giudiziaria della vicenda, massima approssimazione della verità fattuale cui si è giunti al termine di un lungo e difficile procedimento. E non è cosa da poco. Si tratta della condanna di Del Turco e complici, resa definitiva dalla Cassazione, per cinque tangenti, corrispondenti a un totale di 850mila euro, riscosse dietro “indebita induzione” – corrispondente al vecchio reato di concussione – e del rinvio a un altro processo d’appello per ridefinire la pena da scontare e rigiudicare l’accusa di associazione a delinquere. Già incombe la prescrizione, magica rete di salvataggio per tutti i criminali in colletto bianco d’Italia, e questo forse spiega l’esultanza dei protagonisti. Ma soltanto nel mondo rovesciato del malaffare italiano, dove la post-verità dei corrotti si sposa con l’acquiescenza di una stampa connivente (o collusa) e con una cittadinanza indifferente (o confusa), può accadere che il politico colpevole conclamato di un grave reato di quasi-concussione, col quale si è depredata la sanità abruzzese per centinaia di migliaia di euro, celebri pubblicamente la propria condanna definitiva come “restituzione dell’onore” e dichiari di volerla festeggiare “a Collelongo, il mio paese, dove tanti in strada mi hanno abbracciato commossi”. E così, in questo abbraccio solidale al corrotto, si realizza anche simbolicamente il trionfo della post-verità all’italiana.

Sanitopoli Abruzzo, Del Turco: "Solo una montagna di fango". Il figlio Guido: "Una via Crucis, ma orgoglioso di essergli stato vicino". Trifuoggi: "Soddisfazione per conferma condanna corruzione", scrive il 3 dicembre 2016 “La Repubblica”. L'ex governatore d'Abruzzo, Ottaviano Del Turco (ansa)ROMA - "La montagna di prove che doveva schiacciarmi, si è dimostrata per quello che era: una montagna di fango". Così l'ex governatore dell'Abruzzo, Ottaviano Del Turco, ha commentato la sentenza della Cassazione della notte scorsa. "Quando sei sommerso da una montagna di fango e riesci a non soffocare è quasi impossibile che non ti rimanga addosso qualche schizzo. Già la Corte di Appello mi aveva assolto da tutti i reati di abuso e di falso ideologico. E da 18 delle 21 fantasiose dazioni di denaro che avrei ricevuto, e delle quali non è mai stato trovato un solo euro. Ora si dissolve anche l'associazione per delinquere. Non trovo in questa vicenda nessun altro senso, se non la evidente necessità di dare una parvenza, seppure grottesca, di giustificazione alla infamia che ha travolto una giunta regionale democraticamente eletta e con essa la vita mia e di molti di noi", ha concluso. "La sentenza si commenta da sola. Oggi finalmente la Cassazione ha demolito definitivamente l'ipotesi che la giunta Del Turco fosse un'associazione per delinquere", ha detto l'avvocato Giandomenico Caiazza. "Non puntiamo alla prescrizione - ha spiegato l'avvocato -. La Corte di Cassazione ha annullato con rinvio la condanna, ciò vuol dire che o la Corte d'appello di Perugia troverà un'argomentazione diversa per ritenere che ci sia un'associazione per delinquere, oppure ci deve assolvere". "L'assoluzione prevale sulla prescrizione - ha insistito Caiazza - Perugia si deve pronunciare e spiegare alla Cassazione perchè eventualmente non ritiene di assolverci. Seppur volessimo immaginare astrattamente che la Corte d'appello volesse ricondannarci di nuovo, con motivazioni diverse, per associazione a delinquere, allora scatterebbe la presa d'atto della prescrizione del reato. Ma a noi non interessa, andremo a Perugia e saremo assolti. Il giudice può applicare la prescrizione solo nel caso in cui non ritenga doveroso assolvere". Caiazza ha comunque espresso soddisfazione per la sentenza "È l'ennesima demolizione definitiva dell'accusa originaria". Il figlio dell'ex governatore, Guido, ha scritto sulla sua pagina Facebook: "La sentenza è arrivata a mezzanotte, ricevo un mucchio di telefonate mentre cerco di prepararmi per andare a lavoro. Quello che ha deciso la Cassazione non mi è ancora chiaro. Sto bevendo litri di caffè per combattere l'effetto di calmanti presi nella giornata di ieri, dunque davvero a quest'ora non ho ancora capito nulla. Ho solo compreso che ci vorranno altri anni prima della parola fine". "Una via Crucis infinita - aggiunge Guido Del Turco -, ma di una cosa sono felice ed orgoglioso, che mio padre mi abbia dato la possibilità di stargli accanto, di vivere con lui le amarezze le sofferenze in questi anni. Sono tra i pochi giornalisti ad aver letto tutte le carte, che gridano la sua innocenza, ed il lavoro fatto per risanare la sanità in Abruzzo. Ha pagato, sta pagando un prezzo umano troppo alto all'amore per la sua terra. Alle parole di un bancarottiere condannato da più tribunali. Ci vorranno altri anni per mettere la parola fine, forse, almeno per me, è una delle ragioni per le quali vale la pena di vivere e lottare", conclude. Soddisfazione invece è stata espressa dall'ex procuratore capo di Pescara, Nicola Trifuoggi: "La Cassazione ha confermato definitivamente il reato di corruzione, che era il cuore dell'inchiesta: 'Il passaggio di denaro c'è stato, e questo conferma la correttezza del processo", ha detto l'ex procuratore capo della Procura di Pescara, Nicola Trifuoggi, all'epoca capo del pull che insieme ai pm Giampiero Di Florio e Giuseppe Bellelli, diedero il via all'indagine dopo le rivelazioni dell'imprenditore della sanità Vincenzo Angelini. "Ora la Corte d'Appello di Perugia dovrà solo ricalcolare la pena dopo che è stato invece cancellato il reato di associazione per delinquere - chiude Trifuoggi - ma si tratta di un argomento tecnico per rimodulare la condanna, condanna che è definitiva". Il caso. Del Turco in appello era stato condannato a 4 anni e 2 mesi di reclusione, una pena più bassa rispetto a quella inflitta in primo grado, paria 9 anni e mezzo. L'ex governatore dell'Abbruzzo, nell'ambito di questa indagine, fu arrestato il 14 luglio 2008 assieme ad altre nove persone, tra cui assessori e consiglieri regionali. Detenuto in carcere a Sulmona per 28 giorni, De Turco trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. Qualche giorno dopo l'arresto, il 17 luglio 2008, si dimise dalla carica di presidente della Regione e, con una lettera, si autosospese dal Pd, di cui era stato uno dei saggi fondatori e membro della direzione nazionale.

Era il 2008 e l’allora presidente dell’Abruzzo fu arrestato come un tangentaro e costretto alle dimissioni, senza che nessuno, nel Pd, dicesse una parola in sua difesa. E adesso, dopo la singolare ammissione dell’accusa, non viene chiesta l’assoluzione, ma una semplice riduzione della pena…scrive Pierluigi Battista per il “Corriere della Sera” il 17 novembre 2015. Adesso persino l'accusa, nel processo d' appello a Ottaviano Del Turco, ammette che non ci sono «riscontri» sulle presunte tangenti incassate dal governatore dell'Abruzzo costretto a dimettersi nel 2008, dopo essere stato arrestato nottetempo, come i peggiori malfattori: cioè, in parole povere, non si trovano, non si sa nemmeno se esistano. Ci arrivano adesso, meglio tardi che mai. Ma si sapeva già, lo sapevano tutti, bastava solo informarsi e non uniformarsi a priori ai bollettini stampa della Procura. Solo l'accusa, i giornali forcaioli e i giudici della sentenza di primo grado non se n'erano accorti: quelle tangenti non si trovavano, il presunto corruttore è stato creduto sulla parola, anni e anni di indagini non hanno scoperto niente, si è accusato un uomo di aver intascato tangenti mai trovate. Non c'erano «riscontri». Un uomo è andato in galera senza riscontri. Si è dimesso senza riscontri. All' indomani dell’arresto di Del Turco, il procuratore Trifuoggi, nella oramai rituale conferenza stampa (è la nuova moda) in cui chi conduce le indagini emette mediaticamente un verdetto preconfezionato di colpevolezza, aveva detto che quei riscontri c' erano ed erano addirittura «schiaccianti». Disse proprio così: «schiaccianti». Così schiaccianti che per trovare queste benedette tangenti hanno chiesto più volte supplementi di indagine: niente. L' accusatore si è fatto un videoselfie mettendo in evidenza il contante che avrebbe consegnato a Del Turco, ma poi si è dimenticato di accendere il registratore nel momento della consegna: anche qui mancano i riscontri, audio e video. Si dice che per condannare, occorre avere la certezza della colpevolezza di un imputato al di là di ogni dubbio. Ma la mancanza di «riscontri» è stata considerata una certezza e non un dubbio. Venerdì dovrebbe esserci la sentenza d' appello. L'accusa, appena ammessa la mancanza di «riscontri», cioè dell'oggetto stesso del reato, ha chiesto una riduzione della pena. Riduzione? Avremmo un primo caso di pena, ancorché ridotta, senza «riscontri». Certe cose non possono accadere? No, in Italia accadono. È accaduto a Del Turco che un magistrato, poche ore dopo l'arresto, abbia parlato di prove «schiaccianti». È accaduto che i media abbiano nella grande maggioranza fatto proprie le certezze senza «riscontri» dell'accusa. È accaduto che una Regione d' Italia abbia cambiato equilibri senza che il Pd spendesse una sola parola a favore di Del Turco. Questa sì, che è storia riscontrata.

E’ morto Ottaviano Del Turco, scrive Roberta Galeotti su "Formiche" il 14/07/2014. Lunedì 14 luglio 2008 è morto l'uomo politico Ottaviano Del Turco. La sua storia politica avrebbe meritato un epilogo migliore. L'ex ministro si è ritirato tra le montagne abruzzesi, dipinge e scrive. Nell’era delle morti virali sul web dei grandi personaggi pubblici, diamo l’annuncio della morte politica dell’ultimo segretario nazionale del partito Socialista, ex ministro delle Finanze ed ex presidente della Regione Abruzzo. Il 14 luglio 2008 è terminata la carriera politica di Ottaviano Del Turco tranciata dalle accuse di Vincenzo Angelini e dalla valanga di prove annunciata dal procuratore capo Nicola Trifuoggi. «Avrei voluto scegliere io il momento in cui ritirarmi dalla scena politica e, soprattutto, ritengo che la mia storia politica meritasse tutt’altro epilogo» il commento di Del Turco all’indomani dello scandalo mediatico che lo investì, cosiddetto Sanitopoli. Sono trascorsi 6 lunghissimi anni e, dopo un estenuante processo, il presidente dimissionario si è visto condannare a 9 anni e 6 mesi con un capo d’accusa modificato. A sessantanove anni l’ex presidente, ex ministro, ex onorevole, ex senatore non può più programmare la sua vita politica e preferisce, causa forza maggiore, «vivere qui, a Collelongo – dice ostentando noncuranza -, a casa mia guardando dove sorge il sole, da Pescara». La sua lunga e dignitosa storia politica comincia quando, neo licenziato alla scuola media, iniziò il suo apprendistato sindacale nella sede romana dell’Istituto Nazionale Confederale di Assistenza (INCA). Come sindacalista di area PSI, entrò nella segreteria provinciale della FIOM di Roma e quindi approfondì la sua conoscenza del sindacato dei Metalmeccanici entrando a far parte dell’ufficio di organizzazione centrale della FIOM (Federazione operai Metalmeccanici) della CGIL (1968). Alla guida per molto tempo della corrente socialista della CGIL, diventò segretario aggiunto durante la segreteria di Luciano Lama (1970-1986). Nel 1992 lasciò il sindacato e un anno dopo diventò segretario nazionale del PSI subentrando a Giorgio Bencenuto, che aveva provvisoriamente sostituito Craxi all’indomani dell’inchiesta Mani Pulite. Nel 1994 Del Turco venne eletto alla Camera durante la XII Legislatura con lo SDI e venne nominato vicepresidente della Commissione Affari Esteri; nella legislatura successiva venne eletto al Senato e ricoprì il delicato ruolo di presidente della Commissione antimafia (1996-2000). Durante il secondo governo Amato (2000) gli venne affidato l’incarico di Ministro delle Finanze. Nel 2004 venne eletto al Parlamento Europeo nella circoscrizione sud, con 180.000 preferenze, per la lista Uniti nell’Ulivo e si iscrisse al Partito Socialista Europeo. Ebbe l’incarico di presidente della Commissione Affari Sociali, la terza commissione per importanza. Nelle elezioni regionali del 3 e 4 aprile 2005 venne eletto presidente della Regione Abruzzo, per la coalizione dell’Unione con il 58,1% dei voti, dimettendosi dall’incarico di Strasburgo. Il resto della storia l’abbiamo raccontato in questi approfondimento. Come chiudere questa 5 giorni? Ho avuto l’onore di conoscere Ottaviano Del Turco, volevo che poteste conoscerlo un po’ meglio anche voi! Ambivo a cercare di raccontare quello che per sei lunghi anni si sapeva ma non si poteva dire. Ora le prove schiaccianti sono venute fuori ma contro qualcun altro e con molto meno clamore che se avessero trovato i 6 milioni di euro di tangenti ‘consegnati‘ a Del Turco. Non conoscevo il presidente Del Turco prima di affrontare un colloquio per la selezione del responsabile della sua segreteria ad aprile 2005. Abbiamo lavorato insieme per tre lunghi e duri anni. Ho potuto svolgere un master di alta politica a fianco a lui, quando la metà degli uomini politici abruzzesi non aveva il coraggio di incrociare il suo sguardo. E’ stato un uomo scomodo per la politica locale, non malleabile agli accordi e alle spartizioni, affatto avvezzo ad accondiscendere ai poteri forti. L’ex presidente della regione ha cercato di far volare alto questo piccolo Abruzzo e, oggi, ne paga il fio. Oggi vende i suoi quadri più preziosi per vivere e pagare le spese legali di un assurdo processo che lo ha ucciso. Il 14 luglio 2008 è morto l’uomo politico Ottaviano Del Turco.

Così il Pd isolò Ottaviano Del Turco. Riproponiamo il racconto della nostra Paola Sacchi, scritto per Panorama nell’Aprile 2013. Nel giorno in cui la cassazione ha annullato con rinvio il reato di associazione per delinquere per Ottaviano Del Turco – caposaldo dell’intero impianto accusatorio nell’inchiesta sulla sanità abruzzese – ecco un episodio su come l’ex governatore, ex numero 2 della Cgil di Luciano Lama e ultimo segretario del Psi, fu di fatto isolato dai suoi “compagni” del Pd. Ad eccezione di Enrico Letta che unico della sinistra in Transatlantico nel 2011 andò da lui per salutarlo. Lo sfogo amaro di “Ottaviano” e il saluto di “Enrico” nel racconto della nostra Paola Sacchi scritto per Panorama.it nell’Aprile 2013, nei giorni dell’incarico di Letta a premier. Era un paio di anni fa. Un pomeriggio a Montecitorio. Transatlantico affollatissimo, tutti i big presenti. Arriva Ottaviano Del Turco, l’ex senatore eletto dal Pd, finito nella bufera dell’inchiesta giudiziaria sulla sanità abruzzese. Solo alcuni cronisti parlamentari, compresa chi scrive, gli si avvicinano. Ottaviano, l’ex segretario generale aggiunto della Cgil di Luciano Lama, il socialista che lavorò sempre per l’unità dei lavoratori, ma che sul decreto della scala mobile difese fino in fondo le ragioni di Bettino Craxi, trattato come un appestato dai suoi “compagni” del Pd. Chi gli passa vicino e abbassa lo sguardo, chi si allontana, chi fa finta di aver ricevuto una telefonata sul cellulare. Del Turco, l’ultimo segretario del Psi, li guarda con compassione. E si sfoga con il cronista: “Guarda che roba… Ho incrociato giorni fa uno di questi signori vicino al Senato. Pioveva a dirotto. Lui ha abbassato l’ombrello sulla sua faccia pur di non incontrare il mio sguardo ed essere costretto a salutarmi…”. Ma a un certo punto l’ultimo segretario di Via del Corso interrompe lo sfogo con il cronista. Si alza dal divanetto dove è seduto. C’è Enrico Letta che è venuto a salutarlo. L’unico (del Pd) a farlo. E quel giorno Letta neppure sapeva che le foto, che misero Del Turco nel frullatore del processo politico, mediatico, giudiziario fino a sbatterlo in galera, fossero taroccate! Ma il codice di un Letta (Enrico nipote di Gianni) mette il rispetto degli altri prima di tutto. Vedremo ora se il giovane “Enrico” saprà resistere politicamente nella formazione del governo agli spiriti settari ed estremisti del suo partito.

Del Turco: “Sinistra complice di un enorme errore giudiziario. Renzi si liberi dei giustizialisti”, scrive Paola Sacchi il 3 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". Parla lex governatore e sindacalista: Il populismo giudiziario è una malattia di questa Repubblica. Chi è stato complice della mia vicenda non può offrire latto riparatore che ha fatto la Corte di Cassazione. Il figlio Guido, nostro caro collega, giornalista politico del Tg5, su Facebook scherzando ha confessato di stare ancora bevendo litri di caffè per annullare l’effetto dei calmanti presi ieri notte (tra il 2 e il 3 dicembre) prima della sentenza della Cassazione. Ottaviano Del Turco al telefono, che gli squilla ininterrottamente da questa mattina (3 dicembre) alle 6 risponde a Il Dubbio, dichiarando tutta la sua gioia per l’annullamento (con rinvio) del reato più infamante, caposaldo di tutto l’impianto accusatorio nell’inchiesta sulla sanità abruzzese, ovvero quello di associazione a delinquere.  Lex governatore parla anche del suo Sì al referendum, di Lama, Craxi e Renzi. Onorevole Del Turco (ex di tante importanti cose: numero 2 di Luciano Lama alla Cgil, ultimo segretario del Psi, presidente di Regione, senatore) è soddisfatto? Sono molto contento di concludere la mia vicenda politica con una dichiarazione che dice: io non sono il capo di un’associazione a delinquere ma un uomo che ha dato qualcosa di sé alla storia della Repubblica, alla storia delle istituzioni della Repubblica. È una cosa che mi riempie di gioia, che probabilmente è anche la sanzione giusta al termine di un processo incominciato con una montagna di fango e che finisce con una montagna di riconoscimenti alla dirittura della mia esperienza alla guida della Regione Abruzzo. Purtroppo non è ancora del tutto finita la sua odissea giudiziaria. La questione fondamentale è che era rimasto in piedi un reato grande come un palazzo: l’associazione a delinquere. Ora questo reato non c’è più. Questa è la grande vittoria della sentenza di ieri. Una cosa che veramente mi riempie di gioia. Si è sentito abbandonato dalla sinistra in questi lunghi e amari anni? Sì e continua nella sua ostinazione. Perché la sinistra è stata complice di un errore giudiziario pazzesco. E dunque quelli che sono stati complici di questo non possono offrire l'atto riparatore che ha fatto la Corte di Cassazione. La sinistra ha abbandonato la battaglia garantista? Sì, il garantismo è una cosa penosa in questo Paese. Si è garantisti spesso con le cause dei tuoi amici, invece il garantismo è una regola costituzionale fondamentale che consente una vita e una dialettica civile mettendo insieme idee anche molto diverse. Però, insomma non si può avere tutto dalla vita. A me piacerebbe avere una sentenza che mi cancella i reati e che cancella dal dibattito tutti i giustizialisti cresciuti nel corso di questi anni. C’è una formula usata da Luciano Violante che io trovo molto bella. Violante ha parlato di populismo legato alle vicende giudiziarie. Il populismo giudiziario è una malattia di questa Repubblica. Tutte le sentenze che riaffermano sia i valori del garantismo sia i valori della Repubblica sono sentenze che vanno benedette. E quella di ieri è una di queste. Chi l’ha chiamata? Qualche nome ce lo può dire? No, intanto perché non voglio dimenticare nessuno e ci rimarrei male, perché sono state veramente tante le persone che mi hanno chiamato. E poi soprattutto non voglio far torto a chi avrebbe voluto chiamarmi e non ha potuto farlo. Io ringrazierò tutti quanti, uno ad uno, con la telematica, le lettere, le cartoline, le telefonate, tutto, non tralascerò niente e nessuno. Telefonate bipartisan? Sì, è da stamattina alle 6 che rispondo al telefono. Lei esprime una grande storia della sinistra riformista italiana, alla Cgil era il segretario generale aggiunto di Lama. Che ricordi ora le vengono in mente? Non mi faccia commuovere parlandomi di Luciano, perché è stata una delle persone più importanti della mia vita. Domenica 4 dicembre intanto si vota per il referendum. Che farà? Domenica si vota e io ho una ragione in più per votare Sì. Anche al premier Renzi, che è segretario del Pd, consiglia di battersi di più per il garantismo? Sì, spero che lui sia sempre garantista. D’altro canto per essere molto rispettati quando sei garantista devi essere molto severo con i giustizialisti. Renzi dovrebbe correggere quella definizione su Bettino Craxi liquidato come la sinistra dell’opportunismo, mentre Enrico Berlinguer è stato chiamato la sinistra dell’opportunità? Penso proprio di sì! Però queste polemiche della sinistra sono cose che drammaticamente non interessano più a nessuno. Nessuno più si entusiasma per una rissa tra ex socialisti e ex comunisti. Ma sono storie che avrebbero bisogno di altro. Io sono orgoglioso della mia storia dentro la quale c’è quella bella, gloriosa, piena anche di errori, del Partito socialista. Ma io sono nato in quella storia. E quella storia mi seguirà finché vivo.

Storia di Mike, che ha chiesto solo “verità e giustizia per Ottaviano Del Turco”. Chiacchierata di Chiara Rizzo su “Tempi” con l’inventore di una pagina facebook di contro-informazione sul caso dell’ex governatore: «Non è merito mio: è solo gente che ha voglia di sapere come funziona la giustizia».Mike Ballini è un geometra di 34 anni di Firenze. Un tipo come tanti, che si interessa di musica e a volte di politica: quanto di più lontano, insomma, dalle aule di un tribunale. Eppure è lui che ha inventato una pagina facebook su un caso giudiziario sempre più discusso, che in pochi mesi ha raggiunto 700 utenti fissi, e in una settimana, in un tam tam incredibile, fino a 55 mila contatti. La pagina si chiama “Verità e giustizia per Ottaviano Del Turco”: vuole diffondere notizie e una sorta di “controinformazione”, in un momento in cui del processo all’ex governatore dell’Abruzzo accusato di concussione si parlava solo su qualche giornale locale, su Tempi e su Radio radicale (che segue e registra tutte le udienze): «Non ho fatto nulla – racconta Ballini a tempi.it – e sono stupito io stesso: ho pensato solo che facebook poteva essere uno strumento utile per raccontare una storia di cui nessuno parlava più, dopo le prime pagine del giorno degli arresti cautelari di Del Turco. Non ho fatto nulla, ma ho visto che c’è solo molta gente che vuole davvero giustizia».

Cominciamo da lei. Chi è? E perché si è appassionato a questa vicenda? «Sono un ragazzo di 34 anni di Firenze e faccio il geometra. Il caso Del Turco mi ha sempre colpito, lo seguivo come semplice curioso, perché mi faceva tornare in mente un altro caso, quello di Enzo Tortora. Ci vedevo dei parallelismi: perché anche Del Turco è stato arrestato con clamore tremendo e poi, quando iniziavano a uscire notizie, diciamo così, “diverse” (come le indagini su Vincenzo Angelini) tutto veniva un po’ dimenticato. Di queste ultime svolte nell’inchiesta si leggeva poco o nulla sui giornali nazionali. Perché no? Allora ho cominciato a spulciare i giornali locali e il web per cercare qualcosa in più. E mi sono fatto l’idea che Del Turco fosse del tutto innocente: del tutto, non solo un po’.»

Dica la verità, lei è amico o parente di Del Turco. «Assolutamente no. Non l’ho nemmeno mai conosciuto fino a ottobre dell’anno scorso, quando avevo creato già da diversi mesi la pagina. Non sapevo nemmeno che voce avesse, se non avessi trovato una sua intervista su Radio radicale. Semplicemente mi sono detto che volevo fare qualcosa per far conoscere questa vicenda, per non lasciarla finire nel dimenticatoio.»

E su che basi si è convinto dell’innocenza di Del Turco? «Mettendo insieme i pezzi. La sua giunta stava appianando il deficit nella Sanità, e questo poteva dare fastidio a chi approfittava di altri tipi di benefits, come magari un imprenditore quale Angelini, il suo accusatore. Quando ho letto delle indagini su Angelini, mi sono persuaso. Così ho creato la pagina Facebook. Ho ripreso tutti i piccoli articoli, gli interventi che leggevo in giro e poi le dirette di Radio radicale e li ho resi pubblici. La pagina l’ho avviata a maggio 2013: all’inizio contava giusto un centinaio scarso di persone.»

E Del Turco? Lo ha conosciuto? «Sì, qualche tempo dopo su facebook ho preso contatti diretti con lui. Gli ho detto: «Vorrei fare qualcosa per te, ma non per un tornaconto personale». A ottobre 2012 ci siamo conosciuti per la prima volta di persona. E finora è stato anche l’unico incontro. Non abbiamo parlato di carcere o della sua vicenda giudiziaria, ma conversato di tutt’altro, ed è stato bello. Ero emozionato, e anche lui immagino. Gli occhi si illuminavano quando parlava di musica. Nonostante quello che gli è capitato, questa persona aveva la forza di emozionarsi dentro, mentre noi spesso ci inaridiamo per molto meno.»

Del Turco di recente ha voluto ringraziarla, definendo la sua pagina “una finestra sul mondo”. «In queste ultime settimane in cui la difesa ha iniziato a demolire le accuse, la stampa ha ripreso a parlare della vicenda con completezza, e noi siamo arrivati a 700 persone fisse in pochi giorni. Ho ripubblicato allora alcuni articoli di giornale. Ciò che rende facebook un motore potentissimo è che le attività delle persone vengono condivise in un passaparola che può diventare esponenziale. Così è successo anche per noi: abbiamo ripubblicato le immagini dei titoli che smascheravano alcune incongruenze di questa vicenda, su Il Giornale, Repubblica, e L’Unità. C’è stato un tam tam pazzesco. Non è merito mio: secondo me ‘è solo gente che ha voglia che sia fatta giustizia davvero. E questo spazio è stato un modo anche per Del Turco di raccontarsi, sebbene non dovesse fare niente, perché pubblico tutto io. Ecco: è una finestra sul mondo.»

Cosa l’ha colpita di più di questa sua attività? «Ho voluto che questa pagina fosse un posto libero, dove ognuno può esprimere la propria opinione. Ho notato così che ci sono stati molti messaggi di incoraggiamento, ma anche altri che invece mi raccontavano altre storie: “Colgo l’occasione di segnalare la vicenda del detenuto x o y ingiustamente carcerato”. Ecco, per me il senso di questa pagina è proprio questo, riportare fuori dalla sabbia, dalla cenere, vicende di malagiustizia che sono dimenticate ma non ancora concluse, e perciò vanno raccontate, perché sino ad oggi, anche quando se ne è parlato, lo si è fatto in modo parziale. Non mi piace invece quando qualche utente strumentalizza questo spazio o le vicende per parlare di politica. E tra le miriadi di post di incoraggiamento, c’è anche qualche insulto. Ma tutto questo l’ho lasciato comunque, perché se faccio una pagina per chiedere verità e giustizia, non sarò certo io a censurare alcunché.»

Intanto il processo cosa dice?

Le questioni relative alla giustizia e al suo pessimo funzionamento tornano ciclicamente d’attualità, scrive Walter Vecellio su Notizie Radicali. L’attualità, beninteso, scandita dai giornali e dai mezzi di comunicazione (per non dire di una classe politica, che non perde occasione per rivelarsi e dimostrarsi sorda e miope), perché chi ha la sventura di rimanervi impigliato, quell’“attualità” la conosce bene. E non ci si riferisce tanto alle iniziative di Silvio Berlusconi, e alle chiassate a palazzo di Giustizia di Milano dei suoi deputati, seguita dalla minaccia di gettare il paese nel caos. Piuttosto si pensa a vicende come quella che ha per protagonista Ottaviano Del Turco. E’ il 14 luglio 2008, Del Turco era presidente della Regione Abruzzo quando viene arrestato con l’accusa di corruzione sugli appalti sanitari regionali. Prove schiaccianti, assicurarono gli inquirenti, grazie alla testimonianza, determinante e decisiva, dell’ex re delle cliniche private della regione, Vincenzo Angelini. Cinque anni dopo di quelle prove schiaccianti e inoppugnabili non c’è traccia; solo che a svelare l’inconsistenza di tutto il castello accusatorio non sono stati gli inquirenti, che pure facilmente e doverosamente avrebbero dovuto e potuto farlo, ma la difesa di Del Turco. Chi doveva e poteva vedere, non ha voluto e potuto. Così sono trascorsi cinque anni. Del Turco ha patito una lunga e dolorosa carcerazione, è stato costretto alle dimissioni, la sua giunta travolta. Chi chiede scusa, ora? Anche se non c’è, evidentemente, risarcimento che possa sanare tutto ciò. Quel che è più grave è che chi sbaglia non paga mai. Intanto la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo ha nuovamente condannato il nostro paese, per irragionevole durata dei processi. Nel caso specifico, la Corte rileva che «la procedura fallimentare di un creditore è durata circa 16 anni e 1 mese per un grado di giurisdizione”. Segue la formula incollata in tutte le sentenze di condanna: «La Corte a più riprese ha trattato delle istanze che sollevavano questioni simili a quella del caso di specie ed ha constatato una ignoranza/incomprensione dell'esigenza del «termine ragionevole», considerando i criteri derivanti dalla sua ben consolidata giurisprudenza in materia”. E c’è ancora chi dice che quella della Giustizia, di come non viene amministrata, la questione del diritto e della legalità violata, non sono le vere, grandi urgenze di questo paese, e rimprovera ai radicali l’errore di crederlo, e di operare di conseguenza!

Il castello di carte è venuto giù, quasi improvvisamente, con quello che Vincenzo Angelini ha chiamato un «coup de theatre», scrive Roberto Rossi sul “L’Unità”. Perché è stato proprio questo: un colpo di scena. Al processo contro Ottaviano Del Turco in corso a Pescara la credibilità dell’ex re delle cliniche d’Abruzzo, nonché principale teste, Angelini appunto, è franata in un istante. Ed è crollata proprio su quella che era stata la prova regina: la foto o, meglio, le foto. Famose, famosissime, la pistola fumante con la quale la Procura di Pescara ordinò l’arresto dell’ex governatore nel luglio 2008. In tutto erano tredici e rappresentavano il fulcro dell’accusa allora guidata dal procuratore Nicola Trifuoggi. Le principali, tutte consequenziali, ritraevano le varie fasi del pagamento della tangente a Del Turco: il denaro dentro una busta di carta, una sagoma che entrava nella casa dell’ex presidente della Regione a Collelongo e, infine, una busta identica alla prima ma piena di mele e noci. Per tutta la durata del processo l’ex imprenditore della sanità abruzzese, a giudizio a Chieti per bancarotta, ha messo sempre una data certa a quegli scatti: il 2 novembre 2007. Ma da ieri foto e giorno non corrispondono più. Gli scatti sono stati fatti prima, nel 2006.  Angelini, dunque, secondo le prove della difesa, mente. Su quelle foto, su quella data, ha costruito una larga fetta della sua credibilità, mentre la procura ha montato troppo in fretta l’accusa. Senza quella data saltano le ricostruzioni della presunta concussione perpetrata dalla giunta del Turco e il quadro processuale diventa uno schizzo astratto. E il castello frana. Ma come si è riusciti a retrodatare quelle foto? Per capire come si è materializzato il colpo di teatro si deve partire dall'analisi della macchina fotografica di proprietà proprio di Vincenzo Angelini. Ed è quello che ha fatto il consulente tecnico della difesa, Giacomo Gloria, sul materiale fornito dalla Procura pescarese. Gloria non ha fatto nulla di particolare se non analizzare la memoria della macchina stessa, una comunissima Panasonic Dmc-Fz25. Nonostante qualche scatto sia stato cancellato a mano, nella memoria della Panasonic ci sono 132 foto. Quasi tutti leggibili, tranne qualcuna sovrascritta. Ogni scatto ha un nome e una numerazione progressiva, assegnato in automatico proprio dalla stessa macchina e non modificabile se non lasciando una traccia. Dunque, le 132 foto sono tutte consequenziali e non sono state manomesse. Le prime ottanta non hanno una grande valore processuale. Ci sono ritratte delle belle auto, di cui Angelini amava circondarsi. Solo una può dirsi importante: vi si vede una signora, una collaboratrice dell’imprenditore, che legge un giornale. Il quotidiano porta la data del 16 giugno 2006. La foto, la numero 48, è rilevante perché permette di stabilire con certezza una data di partenza. La macchina fotografica è stata usata sicuramente per la prima volta dopo quel giorno. E poi, quando? Il problema è proprio questo, quando? Secondo Angelini, gli scatti successivi, da 82 a 95, quelli della presunta tangente, porterebbero la data del 2 novembre 2007. Cioè un anno e mezzo dopo. E queste foto hanno elementi che consentono una datazione? No, ma le successive sì. Perché, nonostante dalla macchina fotografica qualcuno le abbia cancellate, ci sono degli scatti rimasti in memoria successivi a quelli della probabile mazzetta. Sono quelli che vanno da 96 a 132. Recuperati dallo stesso tecnico della procura ma non utilizzati dai magistrati. Ritraggono una piccola frana dovuta a una rottura di condotta presso la zona dei depuratori di Villa Pini, la clinica più grande posseduta da Angelini (oggi all'asta), e alcuni lavori di manutenzione. Chi li ha fatti? La ditta Emoter. E quando? In un periodo compreso tra settembre e novembre 2006. La difesa, guidata dall'avvocato Giandomenico Caiazza, ne è certa. Tanto che sul banco dei testimoni ha chiamato il proprietario della società, Filippo Colanzi, e l’architetto che diresse i lavori, Fabio Pacillo, a confermare il tutto con fatture e bolle alla mano. Inoltre, proprio quell'area, a seguito dello smottamento, il 30 giugno 2006 fu sottoposta a sequestro dal Corpo forestale dello Stato e successivamente, il 14 settembre 2006 temporaneamente dissequestrata per permettere l’esecuzione dei lavori. Addirittura l'architetto ricorda anche che la frana fu fotografata dallo stesso autista di Angelini, Dario Sciarrelli. Se con la stessa macchina lo si può solo supporre. Ma è un particolare secondario. Quello che interessa, invece, è altro. Secondo la memoria della macchina fotografica, le istantanee che dovrebbero accusare Ottaviano Del Turco furono fatte un anno e mezzo prima di quello dichiarato in aula da Angelini, in un periodo che può essere collocabile tra il marzo del 2006 e il novembre dello stesso anno (in base ai lavori di riparazione, al sequestro del corpo forestale e, da ultimo, alle fatture della Emoter). Perché, allora, Angelini avrebbe mentito? E perché la procura non ha considerato di visionare tutta la memoria della macchina fotografica? Tra l’altro non è l’unica manchevolezza da parte dei pm. In cinque anni di indagini, ad esempio, non hanno mai acquisito i telepass dell’auto che la Regione aveva messo a disposizione per Ottaviano Del Turco. È importante? Certo. Ieri, infatti, grazie alla testimonianza degli autisti e ai loro rapporti di servizio, con i quali registravano tutti gli spostamenti dell’ex governatore, si è intuito che Angelini potrebbe aver mentito ancora. Perché mentre l’ex re delle cliniche, ieri cacciato dall’aula su ordine del presidente Carmelo De Santis per ingiurie nei confronti del collegio difensivo e della stampa, sosteneva di essere ricevuto a Collelongo, Del Turco avrebbe potuto trovarsi altrove. Magari in missione con la propria auto. Per capire meglio questo punto, tra l’altro, il Tribunale ha ordinato l’acquisizione dei movimenti telepass relativi proprio all’auto blu di Del Turco. Inoltre il tribunale ha anche ordinato di acquisire dalla società Autostrade tutti i movimenti di entrata al casello dell’auto di Angelini. Per poter meglio comprendere come sia possibile, ad esempio, viaggiare a 185 chilometri orari di media sull'autostrada A25 con i lavori in corso. Finora Angelini ha attribuito qualità magiche al suo autista. La procura gli ha creduto. Ma l’imprenditore ha dimostrato di non essere affidabile. Il castello è crollato. Rimetterlo in piedi sarà arduo.

PRESUNTA COLPEVOLE. MARTA VINCENZI.

Marta Vincenzi: «Caro Nogarin ti aspetta il mio stesso calvario», scrive Errico Novi il 17 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Parla Marta Vincenzi, ex sindaco di Genova, indagata come il primo cittadino di Livorno per l’alluvione che ha colpito la città. «E certo, ho suggerito a Filippo Nogarin di fare un bel respiro profondo e di trovare un equilibrio interiore». Non è rassicurante. «No che non lo è», conviene Marta Vincenzi, «ma la realtà purtroppo è questa: attualmente la normativa su protezione civile e emergenze fa ricadere una responsabilità totale e irragionevole sui sindaci. Tutta su di loro, su di noi se penso che mi trovo a fronteggiare una situazione come questa. Credo che le forze politiche dovrebbero assumere un preciso impegno elettorale: dare attuazione alla legge delega di riordino della protezione civile da poco pubblicata in Gazzetta ufficiale. Un provvedimento quadro importante, se venisse completato con i contenuti che servono. A partire da una più sensata condivisione delle responsabilità di fronte a eventi meteo avversi». Marta Vincenzi è il solo amministratore di una grande città ad aver già pagato il prezzo che ora si chiede al primo cittadino di Livorno. Proprio mente Nogarin è indagato per concorso in omicidio colposo plurimo, e chiede alla magistratura di «accertare le responsabilità», mentre oltre al primo cittadino la Procura accusa anche il comandante della polizia municipale Riccardo Pucciarelli della stessa ipotesi di reato, mentre insomma davanti ai suoi occhi si dipana una sequenza che ben conosce, l’ex sindaca di Genova solleva il nodo di una disciplina «figlia dell’abbrutimento e dell’ignoranza». Condannata in primo grado a 5 anni di carcere per omicidio colposo plurimo, disastro e altri reati relativi all’esondazione del torrente Ferreggiano che il 4 novembre 2011 provocò otto vittime a Genova, Vincenzi si è sempre considerata «innocente».

Il travaglio sarà inevitabile anche per Nogarin?

«L’ho detto nell’intervista al Corriere della Sera. Le norme introdotte a metà degli anni Duemila lasciano pochi margini: sarà un iter giudiziario in salita. Nel mio caso son passati 6 anni e si è concluso solo il primo grado».

In Italia siamo sempre più a caccia del colpevole?

«È il mood di questi anni: è un meccanismo di semplificazione. Ma più che sulla filosofia vorrei concentrarmi su questioni concrete».

Ovvero?

«Le norme appunto. Vede, io no voglio entrare nel merito dell’indagine sul sindaco di Livorno, così come non intendo parlare del mio processo. Ma ci sono alcuni aspetti che ricorrono, in questo tipo di vicende giudiziarie: e dipendono dal meccanismo normativo di responsabilità nel sistema della protezione civile, che a un certo punto si inceppa».

Dove esattamente?

«Nel libro che pubblicherò a marzo, per il quale siamo ormai in dirittura d’arrivo con l’editore, ricostruisco tutto. C’è stata una fase negli anni Novanta in cui la materia è stata regolata da interventi interessanti: la legge 225 del 1992 e le norme che definirono il cosiddetto metodo Augustus. Erano baste sul principio della collaborazione e della condivisione di responsabilità tra una pluralità di soggetti. Non solo i sindaci, dunque. Sulla base di quelle norme i Comuni avrebbero dovuto adottare i piani di emergenza».

E lo fecero?

«Proprio perché non tutti li adottavano, e nessuno controllava, si è pensato bene di stravolgere la disciplina e di far ricadere tutta l’autorità, e di conseguenza la responsabilità nelle emergenze dovute a eventi meteo, sui soli sindaci. Secondo un meccanismo per cui se non ci sono vittime tutti hanno lavorato bene, in caso di tragedia è solo colpa del primo cittadino».

Irragionevole, in effetti.

«Ci sono macchine organizzative complesse che richiederebbero ben altra modularità normativa. E invece il sistema spinge ormai i sindaci alla cosiddetta gestione difensiva: si eccede nelle misure, si chiude tutto. E col cavolo, mi scusi il francesismo, che si sviluppa la cosiddetta società della resilienza, cioè procedure che maturano dalle esperienze condivise di una pluralità di soggetti».

Perché il legislatore è stato così superficiale?

«Sulla scia di un abbrutimento e di un’ignoranza in cui la politica è man mano scivolata. Qui non c’entra la logica del potere decentrato, del federalismo, ma del menefreghismo: se la vede il sindaco, son fatti suoi».

Crede davvero nell’attuazione della delega?

«La legge dovrà essere riapprovata dal nuovo Parlamento, la delega cioè deve essere riaffermata in capo all’esecutivo che verrà. Sarebbe un tema assai più degno della campagna elettorale rispetto alle polemiche sul sindaco più o meno inadeguato, cinquestelle o di altro partito che sia».

Sulla base di quella legge le Procure devono per forza indagare i sindaci?

«Sì, anche se in casi diversi dal mio, come quello delle Cinque terre che si verificò nello stesso periodo della tragedia di, alla fine non si è andati a processo. Però è sostanzialmente inevitabile che un sindaco sia indagato per omicidio colposo, in casi come quelli di Genova e Livorno».

Tornerà a fare politica?

«No, ho 70 anni e come diciamo a Genova, ’ emo già deto, abbiamo già dato. Ma voglio comunque far conoscere le mie riflessioni su questi temi a chi la politica si appresta a farla. Peraltro non saprei con chi stare, non mi riconosco in nessuna proposta».

Certe norme rischiano di dissuadere le persone perbene dall’impegno pubblico?

«Il rischio c’è. Poi c’è anche una strana legge per cui una persona perbene accetta di fare politica nonostante si debba essere davvero un po’ matti per non darsela a gambe».

PRESUNTI COLPEVOLI. GIULIO E MARIA FRANCESCA OCCHIONERO.

Cyberspionaggio, condannati rispettivamente a 5 anni e 4 anni i fratelli Occhionero. Giulio e Maria Francesca sono accusati dalla procura di Roma di cyberspionaggio per aver «spiato» per anni migliaia di computer appartenenti a società, partiti e istituzioni, scrive il 17/07/2018 Edoardo Rizzo su "La Stampa". Sono stati condannati rispettivamente a 5 anni e 4 anni di carcere l’ingegnere, Giulio Occhionero, e sua sorella Maria Francesca, entrambi accusati dalla procura di Roma di cyberspionaggio per aver «spiato» per anni migliaia di computer appartenenti a società, partiti e istituzioni. Per i due il pm Albamonte aveva sollecitato condanne di 9 e 7 anni di reclusione. L’ingegnere Occhionero, secondo la procura, avrebbe in sostanza creato una rete «botnet» che sfruttando un virus che entrava nei computer da colpire attraverso un messaggio email, gli permetteva di accedere e carpire informazioni da pc infettati, tra cui dati, password e messaggi. Sono oltre 18 mila i computer «colpiti» da Occhionero: fra questi, di 1935 pc l’ingegnere aveva anche le relative password, e quindi ne aveva il pieno controllo, ha detto il pm in aula. Per l’accusa, all’ingegnere nucleare Giulio Occhionero spetta la «responsabilità di avere concepito, pianificato e alimentato dal 2001 un sistema per l’acquisizione» di un numero enorme di dati. Tra i bersagli, c’erano i computer di grandi aziende e quelli di istituzioni politiche ed economiche fra cui Camera, Senato, ministeri di Esteri e di Giustizia, Partito Democratico, Enav, Finmeccanica e Bankitalia. Ma non solo. C’erano, infatti, anche gli indirizzi mail dell’ex premier, Matteo Renzi; quello del presidente Bce, Mario Draghi il noto conduttore della trasmissione di Rai Uno «Porta a Porta», Bruno Vespa, il procuratore generale della Corte d’Appello di Roma, Giovanni Salvi, e Maurizio Selli del Movimento 5 Stelle (consigliere comunale a Civita Castellana). Non è il solo filone d’inchiesta che coinvolge gli Occhionero. Giulio e Francesca Maria la procura di Roma contesta, in altra indagine, anche lo spionaggio politico (un reato per il quale è prevista la pena di 10 anni di carcere) sulla base di una informativa di oltre 250 pagine redatta dagli esperti della Polizia Postale che, grazie alla collaborazione fornita dagli esperti dell’Fbi, sono riusciti a sbloccare i server utilizzati negli Usa dai due fratelli e ricostruire l’intera rete creata su 9 computer riconducibili agli Occhionero. 

Spionaggio informatico, condannati i fratelli Occhionero, scrive il 17 luglio 2018 Alessio Porcu. Condannati i due fratelli romani arrestati lo sorso anno con l'accusa di spionaggio informatico. Alcune loro società avevano avuto la sede nell'appartamento in cui aveva risieduto Licio Gelli. Sospettati di incursioni anche nei computer del Gruppo Ini e della Toti Trans.

Nulla è stato spiato da Frosinone. Più di qualcosa invece a Frosinone è stato cercato. Si è concluso con due condanne il processo ai fratelli Occhionero, arrestati il 9 gennaio del 2017 per la loro attività di cyberspionaggio. (Leggi qui Le spie di Renzi e Monti stavano in via Brighindi a Frosinone). Il giudice del tribunale di Roma Antonella Bencivinni ha condannato l’ingegnere nucleare Giulio Occhionero a 5 anni di reclusione e la sorella Francesca Maria Occhionero a 4 anni. Li ha giudicati colpevoli del reato di accesso abusivo a un sistema informatico: in pratica avere violato le caselle di posta elettronica, sia personali che istituzionali, di professionisti del settore giuridico-economico, esponenti della politica o riconducibili ad Enti pubblici. Al momento di procedere con l’arresto, tra le reti informatiche ‘visitate’ dagli Occhionero c’erano anche quelle di grandi aziende e di istituzioni politiche come Camera, Senato, ministeri di Esteri e Giustizia, Partito Democratico, Finmeccanica, Bankitalia, Comune di Roma ed Enav. Inoltre c’erano i computer del gruppo sanitario Ini (con sedi a Veroli e Grottaferrata), della Toti Trans (società di logistica internazionale che ha il terminal ad Anagni: 150 dipendenti, passata al "concordato in continuità" nei mesi scorsi confluendo nella società Sli di Frosinone), di due commercialisti di Sora. A Frosinone Giulio Occhionero aveva la sede di alcune società: la Rogest S.r.l, di cui è stato consigliere e sua sorella ha rivestito la carica di presidente. La Rogest era stata costituita l’11 maggio 2004 a Frosinone in via Brighindi 44. E lì avevano sede anche altre due società legate agli Occhionero, la Correndo S.r.l. e la Sire Engineering S.r.l., entrambe in liquidazione. Dopo tre anni il capitale sociale era portato da 10mila a 100mila euro e la sede legale era stata trasferita a Roma. A quell’indirizzo, nel passato, aveva risieduto Licio Gelli, il fondatore della loggia massonica P2 (leggi qui Gelli Licio, residente in via Brighindi 44 a Frosinone)

La sentenza di condanna è arrivata dopo un’ora scarsa di camera di consiglio. Giulio Occhionero è stato dichiarato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale per la durata della pena. La sorella è stata interdetta dai pubblici uffici per cinque anni. I due fratelli sono stati condannati al risarcimento dei danni da liquidarsi in separata sede alle parti civili costituite, salvo una provvisionale immediatamente esecutiva di 5.000 euro all’Enav spa, 2.000 euro al Ministero dell’Interno, 8.000 euro al Ministero degli Affari Esteri, 495,32 euro alla Regione Lazio e 25.000 euro al Ministero dell’Economia e Finanze. Il sostituto procuratore Eugenio Albamonte aveva chiesto pene più severe: 9 anni per Giulio Occhionero e 7 anni per Francesca Maria.

Alla lettura del dispositivo della sentenza, i due fratelli, presenti in aula, non hanno detto una parola. Durante la requisitoria aveva parlato di «quadro probatorio consolidato», confermato in sede di riesame e poi anche successivamente dall’esito delle intercettazioni telefoniche, e aveva fatto riferimento a migliaia di «file esfiltrati tramite virus e nascosti in sotto cartelle». I dati carpiti sarebbero poi finiti in alcuni server americani gestiti dall’ingegnere nucleare in cui gli inquirenti del Cnaipic, servizio specializzato interno alla Polizia Postale, hanno recuperato oltre 3 milioni di mail intercettate. Per la Pubblica Accusa, a Giulio Occhionero andava attribuita «una responsabilità di grado superiore per aver concepito e ipotizzato l’intero sistema illecito, per averlo realizzato e mantenuto nel tempo». Il magistrato ha ritenuto meno grave il ruolo della sorella che non ha preso parte alla fase ideativa del progetto «ma sicuramente – era il punto di vista dell’accusa – ha concorso nell’attività di accesso abusivo e acquisizione dati».

Cyberspionaggio, la difesa dei fratelli Occhionero: «Nessuna prova». A luglio la sentenza, scrive Venerdì 1 Giugno 2018 Il Messaggero. La sentenza arriverà a metà luglio e intanto oggi al processo a Giulio e Francesca Maria Occhionero, arrestati nel gennaio del 2017 perché accusati di una presunta attività di cyberspionaggio ad altissimi livelli, è andata in scena l'arringa delle difese, che continuano a respingere la tesi della procura e hanno anche denunciato il pm. «Possiamo dire che la montagna ha partorito un topolino, anche gracile di salute», hanno replicato alle richieste di condanna della procura i legali sollecitando l'assoluzione degli imputati. «Dall'istruttoria dibattimentale - hanno affermato gli avvocati Stefano Parretta e Roberto Bottacchiari - non è emerso assolutamente nulla che potesse essere riconducibile al loro lavoro». Per l'ingegnere nucleare e la sorella, il pm Eugenio Albamonte ha chiesto condanne a 9 e 7 anni di reclusione per accesso abusivo (consumato o solo tentato) a sistemi informatici e di intercettazione illecita di comunicazioni informatiche.  «Questo processo - hanno aggiunto i penalisti - ha dimostrato che non si è andati oltre qualche indizio e in assenza di riscontri probatori questi indizi non sono idonei a sostenere l'accusa. Nessuna responsabilità può essere attribuita ai due fratelli i quali, per fronteggiare alcune difficoltà economiche, hanno dovuto alienare alcuni beni. La procura è convinta che abbiano carpito dati riservati a fine di lucro, ma dal dibattimento non è emersa neppure una casella di posta elettronica, riconducibile a personalità militari o della politica o del settore giuridico-economico, che sia stata effettivamente violata».

I fratelli Occhionero accusati di cyberspionaggio. I fratelli Occhionero sono stati arrestati il 9 gennaio 2017 con l’accusa di cyberspionaggio, la prossima udienza è prevista per lunedì 17 luglio, scrive il 15 Luglio "Il Dubbio". La parabola discendente di Francesca Maria Occhionero inizia il 9 gennaio di quest’anno quando viene arrestata insieme al fratello Giulio, e condotta nel carcere romano di Rebibbia. Le accuse mosse dalla procura di Roma sono: accesso abusivo a sistema informatico aggravato, intercettazione illecita di comunicazioni informatiche, violazione della privacy; accantonata al momento quella di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato. In pratica i due avrebbero cercato di entrare nella posta elettronica di 18mila persone, tra cui l’attuale segretario del Pd, Matteo Renzi, l’ex premier Mario Monti, il presidente della Bce, Mario Draghi, il cardinale Gianfranco Ravasi, ma anche in quella di nomi altisonanti della finanza, delle istituzioni, delle pubbliche amministrazioni, di celebri studi professionali. Il processo a carico dei due fratelli, iniziato lo scorso 27 giugno, riprenderà il 17 luglio davanti al giudice monocratico. La Procura ha chiesto ed ottenuto dal gip l’ok al giudizio immediato che ha consentito, alla luce delle prove raccolte nella fase investigativa, di saltare l’udienza preliminare e di portare il processo direttamente in aula. Entrambi lavoravano insieme in diverse società di famiglia, compresa la Westlands Securities, fondata da Giulio due anni dopo la laurea, nel 1998, a Malta, e che si occupa di consulenza finanziaria a istituzioni bancarie. Lui con la passione per la matematica, lei per la maratona. Secondo gli inquirenti i fratelli Occhionero sarebbero stati al vertice di una centrale di cyberspionaggio che accumulava illecitamente dati sensibili e riservati, attraverso l’utilizzo di un malware (malicious software) chiamato Eye Pyramid, “occhio sulla piramide”, il simbolo massonico per eccellenza. I dati sottratti dal virus informatico erano custoditi in server negli Stati Uniti. L’indagine era partita da una segnalazione del capo della sicurezza dell’Enav, Francesco Di Maio, che aveva rilevato nella posta elettronica una email malevola. L’attacco malware avveniva generalmente infatti tramite una email. Dalle carte della Procura di Roma, che ha condotto le indagini con il Cnaipic, il Centro nazionale anticrimine informatico della Polizia postale, e in collaborazione con l’Fbi, si legge che quella che ha poi consentito di infettare i computer arrivava da uno studio legale, in cui si diceva di scaricare un file pdf contenuto in allegato. Una fattura, nel caso specifico. Dentro quel pdf in realtà era contenuto il software. Appena si apriva il file, l’infezione del computer era avvenuta, ed esso poteva essere controllato da remoto, senza che il proprietario se ne potesse accorgere. Contemporaneamente il virus metteva in condizione il presunto hacker di accedere abusivamente a tutti gli account in possesso del titolare del sistema infettato: email, cloud, conti correnti, profili social. I due fratelli – lui ingegnere nucleare di 45 anni, lei quarantanovenne con un dottorato in chimica – difesi rispettivamente dagli avvocati Stefano Parretta e Roberto Bottacchiari, si sono sempre dichiarati estranei ai fatti contestati. I legali avevano chiesto più volte la scarcerazione dei loro assistiti, e in subordine gli arresti domiciliari, ma il Tribunale del Riesame aveva respinto il ricorso, sui cui aveva espresso parere contrario anche il pm Eugenio Albamonte.

Figli di Trojan, come due spioni possono infettare vip ed enti pubblici. Scrive Umberto Rapetto, Giornalista, scrittore e docente universitario, l'11 gennaio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". La cronaca ci parla di un plateale Ko di due criminali telematici, finiti al tappeto – nomina sunt homina – entrambi con un occhio tumefatto. I signori Occhionero sono balzati sullo schermo televisivo e sul display di smartphone, tablet e computer, incastrati al termine di una lunga indagine e soprattutto inchiodati dalle 47 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare. Intere generazioni di spie e di hacker, che hanno sudato sette camicie per guadagnarsi un briciolo di notorietà, sono stati mortificati brutalmente da imprevedibili Bonnie e Clide del bit. Ma cosa è successo davvero? Chi si aspetta la solita risposta tranchant, quella che deve stare in un minuto di servizio del TG o in duecento battute virgolettate dell’intervista su carta, purtroppo stavolta non sarà accontentato. Una storia del genere merita di essere assaporata con la massima calma, ma soprattutto deve essere ricostruita in un linguaggio e in una modalità accessibili anche a chi è fortunatamente digiuno di tecnologie, di indagini, di misteri. Questo post somiglia a certi acquisti del periodo natalizio. E’ a rate. Una rateazione senza sorprese, se non quella – legittima – del “ho capito anch’io” esclamato dall’immancabile “scettico blu”. Il primo step riguarda alcune considerazioni sulla platea dei soggetti presi di mira, il cui elenco sembra aver sbalordito l’opinione pubblica. La lunga lista di “Very Important Person” è fin troppo scontata: avremmo dovuto restare stupefatti se il target fosse stato rappresentato dal verduriere sotto casa, dall’edicolante all’angolo della strada, dal benzinaio lungo il viale, dal pensionato del piano di sopra. Le persone “catalogate” nella progressiva azione di costante spionaggio ed ininterrotta archiviazione sono tra loro concatenate: il ruolo istituzionale, lo status sociale, le condizioni economiche e la posizione di spicco in un contesto aziendale rendono probabile la compresenza nella medesima rubrica telefonica o di indirizzi di posta elettronica. Chi immagina il puntuale assalto dei personaggi “uno ad uno”, sbaglia. Chi opera con certi grimaldelli digitali si limita a prendere di mira un tizio di interesse e da lì, come in certe sfortunate cordate di alpinisti, “tira giù” tutti quelli che gli sono a qualunque titolo legati. Tutto comincia con la scelta del tallone d’Achille e della tecnica per entrare nella vita della vittima prescelta. Il punto debole non sta sotto la caviglia, ma nella tasca o nella borsa del bersaglio: smartphone, tablet e computer portatili e da scrivania. Chiunque ha un dispositivo elettronico che lo accompagna ovunque e cui sono affidate informazioni più o meno riservate. Capito “dove” colpire, si passa rapidamente al “come”. Il dardo avvelenato di maggior efficacia è rappresentato dallo sconfinato arsenale di “malware”, ovvero i “malicious software” o programmi dalle venefiche capacità operative. Una manciata di istruzioni nocive sono capaci di “narcotizzare” gli strumenti di lavoro e di farli sfuggire dal regolare controllo di chi ne è legittimo possessore o utente. In pratica chi vuole colpire il suo avversario – per poi, violandone la riservatezza, depredarlo di dati e notizie – deve riuscire ad installare il malware sull’apparato nel mirino. Le modalità per “infettare” ricordano le pagine dell’Odissea ed evocano il ricorso a virtuali “cavalli di Troia”, dizione storicamente adoperata per identificare i malvagi programmini pronti a fregare il destinatario del dono. La trappola è nascosta in un allegato ad una mail apparentemente innocua, oppure in una App gratuita che viene consigliata da un presunto amico, o in tanti altri modi idonei a veicolare fregature bestiali. Il malcapitato non riconosce l’inghippo, fa clic con il mouse sulla “graffettina” che identifica l’annesso al messaggio o magari non esita ad installare la fatidica applicazione per il moderno telefonino intelligente ma non troppo. Il file allegato o la App si aprono e si comportano in modo esteriormente corretto, ma – dribblando le protezioni – entrano in azione e mandano a segno la propria missione illecita. Cellulare, palmare o computer ingurgitano in totale incoscienza i codici malevoli, ricevono ordini che l’utente non ha mai impartito, spalancano la via a chi vuole sottrarre qualsivoglia contenuto, registrano quel che viene digitato sul touch screen o alla tastiera. In pratica il dispositivo diventa uno “zombie”, ubbidisce a chi ha predisposto l’insidioso malware, si lascia scappare copia dei documenti memorizzati o delle mail spedite o ricevute, mette in funzione la webcam o la videocamera del telefonino e filma quel che rientra nella sua visuale, attiva il microfono di portatile/tablet/smartphone improvvisandosi microspia ambientale, e così a seguire. La vittima non ha scampo. E deve sperare che l’unico file installato sul suo computer sia solo quello del virus. Eh, già. Perché un vero malintenzionato potrebbe non accontentarsi di piazzare le istruzioni, ma inserire cartelle e file (di qualunque genere, magari materiale pedopornografico) che il proprietario di quell’arnese non ha mai nemmeno immaginato potessero esistere… Ma su questo “dettaglio” torneremo in una prossima puntata di questo sequel…Fermiamoci qui. Tranquilli, non mi farò attendere.

Figli di Trojan: come, a furia di spiare, si diventa spiati. Scrive Umberto Rapetto, Giornalista, scrittore e docente universitario, il 12 gennaio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Viene legittimamente da chiedersi da dove e perché saltino fuori questi dannati malware. E, lo si stenterà a credere, l’humus di questo genere di prodotti è il contesto giudiziario che rappresenta un importante committente e al tempo stesso un alibi per il mercato. Le Procure della Repubblica se ne servono per le indagini più impegnative (non faccio mistero dei tanti fondati dubbi di legittimità di questo modus operandi – che personalmente non ho mai utilizzato né genericamente “approvato”, ma mi riservo di rinviare il tema ad una delle future tappe di questa chiacchierata). Le software house, da parte loro, li producono dichiarando la speranza di venderli ad articolazioni territoriali della giustizia e non disdegnando di collocarli su un più redditizio mercato parallelo (senza arrivare al crimine organizzato, ci si può accontentare di qualche Paese poco democratico…. Hacking Team docet). In termini pratici il mercato non manca di opportunità e poi mille artigiani della programmazione informatica sono sempre pronti a confezionare soluzioni sartoriali. Non bastasse, banditelli di qualunque taglia – simili a vecchi druidi – mescolano righe di codice per pozioni dannose da somministrare personalmente o conto terzi al primo computer che capita. Nelle viscere della Rete insediamenti dell’underground computing (deepweb o darknet direbbero quelli “più giovani”) non esitano – simili all’Ikea – a proporre gratuitamente o a pagamento kit fai-da-te per costruirsi autonomamente un malware o combinare altri guai… Ognuno può personalizzare il proprio malware, provvedendo direttamente o commissionando a qualche esperto il confezionamento di quel che gli serve. Il malware soddisfa le pretese anche dei più esigenti e non di rado fa anche qualcosa di più rispetto quel che è stato richiesto o quella che è stata dichiarata come dinamica di funzionamento. Il programmatore, infatti, non si accontenta del corrispettivo pattuito e si riserva sempre la possibilità di ottenere una sorta di “mancia”. Cosa fa? Semplice. Combina la procedura in maniera tale da ottenere una copia del materiale che verrà sottratto e il privilegio di servirsi a proprio uso e consumo del varco aperto dal suo committente nel dispositivo aggredito. Lo “smanettone” non si preoccupa certo di distinguere la natura del committente, né lo scopo – più o meno nobile – che anima chi si serve della sua “creatura”. Nessuno infatti è in grado di sapere cosa facciano effettivamente i “trojan” (espressione gergale appioppata a questa tipologia di programmi spia) adoperati per finalità di indagine dalle Forze dell’Ordine o dalla magistratura. Si corre addirittura il rischio (ma spero di esagerare) che in questo sconfortante stato di cose il programmatore o la software house abbiano automaticamente il monitoraggio (o il controllo) delle investigazioni in corso o comunque si trovino ad accompagnare zitti zitti chi si occupa dei casi più delicati. Lo spionaggio dello spionaggio, che meraviglia….I malware in questione vengono comprati a scatola chiusa e non sono accompagnati dal classico foglietto illustrativo dove si riportano le controindicazioni dei medicinali. Non esiste un albo certificato dei fornitori selezionati, come vorrebbe giustamente il procuratore capo di Torino Armando Spataro, e ancor meno esiste un “bollino” a garanzia dell’affidabilità di prodotti e servizi tecnici (che sarebbe bello venissero ideati, sviluppati, realizzati e gestiti direttamente da strutture statali e non da privati). Chi, quindi, può entrare più o meno prepotentemente nella nostra vita, insinuandosi negli strumenti che ci assicurano il tanto ambito “stay connected”? Esiste un mandante? Qual è la finalità di simili azioni? Le domande si moltiplicano rapidamente. Facile a prevedersi. Proprio per questo ci si ritrova a brevissimo su queste pagine per proseguire la chiacchierata che prenderà spunto anche da osservazioni, commenti, curiosità e opinioni di chi ci legge.

Figli di Trojan, la Cia confessa: "Da soli non ce la facevano, ci servivano gli Occhionero". Scrive Umberto Rapetto, Giornalista, scrittore e docente universitario, il 13 gennaio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". L’ “intrigo internazionale” immaginato dai tanti finti esperti, che si accalcano nei talk-show, farebbe impallidire persino Alfred Hitchcock che quella espressione l’ha impiegata per titolare uno dei suoi capolavori cinematografici. In tanti si sono affrettati a dipingere appassionanti “dietro le quinte”, ipotizzando i due protagonisti della vicenda giudiziaria come ispiratori delle migliori pagine di Tom Clancy o John Le Carrè. Unico loro connotato corrispondente al normotipo dell’agente segreto l’essere totalmente sconosciuti ai più. Elemento immancabile in ogni avventura epica dai contorni informatici, invece, la disponibilità di un garage: proprio come quello dove Steve Jobs e Steve Wozniak hanno fondato la Apple e quell’altro in cui Hewlett e Packard hanno avviato la loro impresa. Questi due indizi hanno sicuramente avuto un peso significativo per chi – in assenza di informazioni dettagliate dagli inquirenti – ha voluto far credere di saperne una più del diavolo. A questo punto mi prendo la libertà di dar sfogo – almeno per qualche riga – alla mia irrefrenabile vena goliardica. In ogni spy-story che si rispetti non manca mai una gigantesca organizzazione di intelligence. Talmente gigantesca che a qualcuno è scappato il riferimento alla Gru, facendo correre il pensiero non al servizio segreto russo “Glavnoe Razvedyvatel’noe Upravlenie”, ma piuttosto a qualcosa di grosso da doversi spostare o sollevare. In un attimo tutti quelli che non sapevano nulla, ma pensavano di far brutta figura a dichiararlo, hanno giocato il jolly e non hanno esitato a sparare la sigla che tutti si aspettavano: la Cia. Anche qui i soliti cattivi – consci che a blaterare fossero braccia, voci o penne rubate ai campi da arare – hanno subito compreso che i sedicenti guru dello spionaggio stessero facendo una bieca operazione di lobbying a vantaggio dei coltivatori nostrani, magnificando imprevedibili potenzialità della Confederazione Italiana Agricoltori il cui sito cia.it ha spesso tratto in inganno gli appassionati di thriller. Qualche altro ha azzardato un cenno alla Nsa ma molti interlocutori distratti hanno detto che la sigla corretta era Nsu e che non andava nemmeno nominata per evitare sfortune e calamità. I più dotti (o magari semplicemente meno giovani) rammentavano che proprio la Nsu produceva l’automobile Prinz che nella colorazione verde portava una sfiga pazzesca e che negli anni Settanta gli studenti “si passavano” l’un l’altro urlando “tutta tua” al pari di quanto avveniva alla vista di una suora. Riconquistando, a fatica, un barlume di serietà, riesce difficile credere che i Servizi più potenti del mondo possano aver assoldato (non me ne vogliano gli interessati) fratello e sorella o aver deciso di acquistare il risultato delle loro perlustrazioni informative. Ho provato a chiudere gli occhi e, sollecitato dal ricordo di pellicole come “Nemico Pubblico”, ho cercato di vedere la sala operativa di Langley o quella a Fort Meade con fior di analisti che – stremati e delusi – si lasciano scappare “Non ce la possiamo fare da soli…. Ci vogliono gli Occhionero…”. Non manco di fantasia, ma non ci sono riuscito. Anche a sforzarmi, proprio non ce la faccio. Perdonatemi, ve ne prego. Fortunatamente gli specialisti dell’intelligence, nonostante il ruolo serio e i toni seriosi che li contraddistinguono, sono persone di grande spirito e non serberanno rancore nei confronti di chi ha fatto abbinamenti irriguardosi. Chi ha ragionevolmente scartato il coinvolgimento di 007 e relative strutture, rinunciando così ad innamorarsi di incantevoli tesi complottiste, si domanda se l’operato dei nostri angloconnazionali sia da ricondurre ad un incarico ricevuto da chissà quale committente e vorrebbe conoscerne le ragioni. Già, c’è un mandante? E chi potrebbe essere? Esclusi i servizi segreti, qualcuno intravede torbidi scenari massonici. Sullo sfondo appare Corrado Guzzanti che esorta i suoi fratelli al golpe…

Figli di Trojan, non solo gli Occhionero: sul web un intero esercito di mancati detective. Scrive Umberto Rapetto, Giornalista, scrittore e docente universitario, il 14 gennaio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Quello “in grembiule” è un mondo che conosco davvero poco (mia nonna Bigina ne aveva uno, ma lo adoperava per cucinare) ma so che gli intrecci del nostro pianeta si annodano molto spesso con personaggi appartenenti a logge o aggregazioni misteriose. Probabilmente chi frequenta certi ambienti si alimenta (come i vampiri con il sangue) di dati e notizie che garantiscano la supremazia dell’informazione. Sapere, sapere prima, sapere qualcosa in più, sapere qualcosa d’altro: questa è la forza di chi vuole rompere gli equilibri o crearne di nuovi, approfittando di un patrimonio conoscitivo che assicuri una posizione di vantaggio. Considerato, però, che certe associazioni possono contare tra i “fratelli” tanti personaggi di spicco nelle istituzioni e nelle Forze Armate e di Polizia, sembra bizzarro che non si avvalgano proprio dei loro affiliati che – tra l’altro – sono debitori della loro carriera alla cerchia cui hanno aderito e che in qualche modo dovranno pur sdebitarsi con contributi di adeguato calibro. E allora perché rivolgersi ai pur “volenterosi” signori Occhionero? L’ombra della massoneria – così dicono e scrivono i “ben informati” – aleggia sulla scena. L’ingegner Occhionero a quanto pare è affiliato alla Loggia 773 “Paolo Ungari – Nicola Ricciotti Pensiero e Azione”, da non confondersi (ho cominciato a documentarmi!) con la quasi omonima Loggia numero 1498 “Pensiero e Azione” il cui maestro venerabile comunicava via Facebook e i cui elenchi e documenti sono stati trovati il 5 marzo scorso in un cassonetto dei rifiuti davanti agli uffici del dipartimento regionale all’Energia di viale Campania a Palermo. Il Grande Oriente d’Italia – casa madre della massoneria italiana e, come si legge sul relativo sito, “iniziatico i cui membri operano per l’elevazione morale e spirituale dell’uomo e dell’umana famiglia” ha formalmente “sospeso” l’Occhionero riconoscendo l’appartenenza del soggetto al sodalizio. Probabilmente accumulare dossier riservati era propedeutico all’acquisizione di ruoli sempre di maggior caratura nell’ambito dell’organizzazione cui l’ingegnere aveva aderito: l’informazione come freccia nella propria faretra, come merce di scambio, come strumento di potere. Molto più facilmente la collezione dei dati poteva avere una destinazione commerciale. Mi spiego meglio. Chi intraprende queste avventure (anche e soprattutto chi lo fa senza farsi accalappiare) opera a scopo di lucro: agisce su specifica istanza di qualche cliente, confida in una futura committenza da soddisfare con immediatezza, non esclude nemmeno dinamiche estorsive in danno di chi ha qualcosa da nascondere. Questa vasta gamma di possibile impiego di dati tesaurizzati ci porta per mano dinanzi al baratro in cui è sprofondata la nostra privacy. Non ci troviamo dinanzi a due presunti “fenomeni” (Giulio e Francesca Maria), ma al solo effettivo e preoccupante fenomeno della “data collection” che conta migliaia di persone tra i suoi appassionati. La speranza di “rivendere” quel che si è scovato in maniera più o meno lecita trasforma le ricerche in attività compulsive. E se qualcosa non lo si trova in Rete (la cosiddetta “Open Source Intelligence” è disciplina di grande efficacia), l’aspirante “dominus” della conoscenza globale non esita a contattare chi ha a disposizione un terminale collegato a una banca dati giudiziaria o investigativa. La catena di favori e cortesie (prezzolate e non) e di piccole manovre sottobanco qualifica il livello della partita in corso, in cui farebbero capolino anche operatori di polizia pronti a sgraffignare qualche informazione nei database dell’ufficio (incuranti del fatto che ogni loro azione è rigorosamente tracciata). I fratelli Occhionero sono la prima pattuglia che viene catturata, ma in campo c’è un intero esercito di mancati detective che somigliano ai tanti che vanno a giocare alla guerra nei boschi con il “softair” magari dopo essere stati “obiettori di coscienza” in età di leva. Internet è la giungla in cui vietcong digitali vanno autonomamente a caccia di nemici, sentendosi bravi e importanti per esser riusciti ad utilizzare trappole e ordigni virtuali e aver accumulato prede. I mercenari della guerra alla riservatezza personale prima o poi riusciranno a vendere il loro scalpo a chi ne farà richiesta. Basta aspettare. Le “radiografie” dei singoli individui pescati anche a strascico non ingialliscono mai.

Figli di Trojan, i sistemi hackerati dagli Occhionero erano protetti? Scrive Umberto Rapetto, Giornalista, scrittore e docente universitario, il 16 gennaio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Computer, tablet e smartphone sono una sorta di cornucopia di informazioni. Il loro saccheggio è certo attività deprecabile, il loro utilizzo improprio addirittura peccato mortale. Etica a parte, c’è poi da fare i conti con il codice penale. Ma se i primi colpevoli fossero i vip che si sono fatti scippare il contenuto delle loro “memorie” e delle caselle di posta elettronica? La boutade – che potrebbe non esser tale – prende spunto dalla lettura del codice penale e degli articoli che in questo sono stati inseriti dall’entrata in vigore “illo tempore” della legge 547 del 1993 che ha introdotto nel nostro ordinamento i crimini informatici. Le disposizioni che hanno contemplato la sanzionabilità di comportamenti illeciti mandate a segno in danno di sistemi informatici hanno – analogamente a tanti brani di musica leggera – un ritornello ricorrente. Il refrain è quel “protetto da misure di sicurezza”, che troviamo – sempre compreso tra due virgole – nelle diverse fattispecie di reato come elemento indispensabile perché siano soddisfatti i requisiti delle singole condotte delittuose. In termini pratici il reato si configura solo ed esclusivamente se il computer destinatario delle attività criminose (ad esempio di “accesso abusivo” di cui all’articolo 615 ter del codice penale o di “danneggiamento” previsto e punito dal successivo 635 bis) è opportunamente difeso da idonee precauzioni tecniche. Proviamo ad accostare l’accesso abusivo a un sistema informatico alla ben più materiale violazione di domicilio. Quest’ultima si realizza se chi entra rompe lucchetti, scassina serrature, scavalca recinzioni, divelle porte blindate, fa violenza sulle persone che si oppongono all’ingresso, quindi superando o infrangendo le “misure di sicurezza” poste a difesa dell’immobile. Non commette reati chi va a sdraiarsi sul prato – pur proprietà privata – antistante l’altrui abitazione di cui è pertinenza: il padrone di casa avrà diritto di cacciarlo, di lamentare il superamento del perimetro segnato dalle margheritine piantate sul bordo del terreno, di chiedere il risarcimento di un eventuale danno all’aiuola, ma nulla di più. I dispositivi elettronici su cui hanno scorrazzato i due sedicenti hacker somigliano più alla costruzione corazzata della prima situazione o piuttosto allo spazio semiaperto del secondo caso? La questione delle misure di sicurezza è incredibilmente importante. Se ci sono, chi le viola si macchia di reato. Se non ci sono, gli indesiderati visitatori non devono rispondere di accesso indebito. Ma la storia non finisce certo qui. Le misure di sicurezza, infatti, sono considerate obbligatorie dalla disciplina vigente in materia di privacy. La normativa in argomento si preoccupa del fatto che enti e aziende raccolgano o utilizzino informazioni personali sui propri computer effettuando tali operazioni su dati riferiti ad altre persone (si pensi a quelli dei dipendenti per una azienda o dei cittadini per un ente pubblico). Un eventuale attacco a un archivio elettronico non danneggia tanto chi lo detiene e lo gestisce, ma piuttosto tutti i soggetti cui i dati sottratti, copiati o alterati si riferiscono. Per questo motivo gli articoli 33 e 34 del decreto legislativo 196 del 2003 e l’allegato B al medesimo provvedimento stabiliscono misure minime e precauzioni specifiche per chi si avvale di strumenti tecnologici di elaborazione dati (categoria in cui rientrano dai più piccoli ai più sofisticati arnesi digitali di uso comune per lavorare alla scrivania o comunicare in mobilità). Il primo comma dell’articolo 169 del medesimo d.lgs. 196/03 prevede la pena dell’arresto fino a due anni per chi, essendovi tenuto, omette l’adozione di tali misure. Conoscono bene la sottile linea di demarcazione tra codice penale e quello della privacy tutte quelle imprese che, subita una aggressione informatica, hanno capito le controindicazioni al presentare regolare denuncia. Considerato che oltre al danno di immagine per la beffa subita, infatti, c’è il rischio di passare dalla posizione di vittima a quella ben più scomoda di reo, parecchie aziende preferiscono tacere sull’accaduto e sperare che i dati sgraffignati non comincino a circolare…Tenuto conto che il virus “Eye Pyramid” utilizzato per combinare questo ambaradan risale al 2008 e quindi erano disponibili da tempo sistemi idonei a prevenire o neutralizzare azioni o situazioni dannose o comunque pericolose generate dal suo entrare in azione, gli apparati presumibilmente azzannati in modo virtuale dagli Occhionero erano protetti da misure di sicurezza? Viste le considerazioni precedenti, sarebbe interessante appurarlo. Tranquillizziamo subito chi è pronto a commenti feroci pensando che si stiano cercando giustificazioni o alibi ai due personaggi. La loro posizione giudiziaria è ancorata anche ad altri capi di imputazione come l’intercettazione di comunicazioni telematiche (articolo 617 quater comma 1 e 4 n°1 del codice penale), il procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato (art. 256 comma 1 e 3 c.p.), la diffusione di programmi informatici atti ad alterare il funzionamento di un sistema informatico (art. 615 quinquies c.p.). Strada in salita per chi deve difenderli, ma percorso che offre mille spunti di riflessione per chi vuole capire meglio cosa è davvero successo. Un pochino di pazienza. Il sequel continua.

Giulio Occhionero scrisse a Papa Francesco, scrive "L'Ansa" come riportato da "L'huffingtonpost.it" il 13/01/2017. Funzionari delle Regioni Campania, Lombardia, Marche, Sicilia e Veneto. E ancora: banche, consiglio nazionale dei notai, il ministero del Tesoro, farmacie, alberghi a cinque stelle, agenzie di viaggio. I fratelli Giulio e Francesca Maria Occhionero "monitoravano" i più disparati settori nella loro presunta attività di cyberspionaggio. Non tralasciando, sembra, neanche una non bene specificata lettera "da consegnare al Papa". L'elenco delle caselle di posta elettronica hackerate dai due arrestati è presente negli allegati all'ordinanza di custodia cautelare. Oltre ai politici, di quasi tutti gli schieramenti, nel database degli Occhionero sono presenti caselle di posta di dirigenti e funzionari del ministero degli Esteri, a cominciare dall'account dell'ambasciatore ed ex ministro, Giulio Terzi, di società come Alitalia, Poste Italiane e Trenitalia. E ancora: la banca dati avvocati oltre ad un lungo elenco di istituti di credito come American express, Allianza Bank, banca di Roma, Banca Mediolanum, Banca Fideuram, Bank of America, Bim Bank, ByBank.it, Cari Parma, Civibank, csebanking.it, Fineco, Unicreditbanca.it e Webank. Nelle carte dell'inchiesta anche una serie di intercettazioni di telefonate tra i due fratelli e in alcuni casi di Giulio con la madre, Marisa Ferrari. Parole che restituiscono anche un spaccato della vita dei due. In particolare le offerte di lavoro da società di prestigio a Londra, Berlino e Dublino ma anche una non bene specificata lettera "da consegnare al Papa". Giulio racconta delle offerte di lavoro ricevute. In particolare in una l'ingegnere mette a parte la sorella della proposta di lavoro "ricevuta per un progetto che ha sede a Berlino dove verrebbe retribuito con 50 euro all'ora per 7 ore al giorno dal lunedì al venerdì e facendo un calcolo a suo dire saranno 8 mila euro e rotti al mese per 5 mesi". Stando a quanto racconta l'ingegnere nucleare proposte di lavoro gli sono giunte da Deutsche Bank ("come Vice President tra le 90 e le 160 mila sterline l'anno più bonus"), Ubs e Hsbc. In una conversazione intercettata l'8 agosto scorso tra Giulio e la madre si fa, invece, riferimento ad una lettera da consegnare al Papa. Giulio chiede: "ma quella della lettera al papa? è sparita?" e la madre risponde:" no, non è sparita, ti ricordi che sono andata a trovarla (riferendosi ad una amica ndr). Sono andata trovarla le ho portato pure il regalo con la speranza e ho detto senti un pò che cosa ha fatto e sì sì è stata consegnata". Giulio le dice "facciamo un aggiornamento ad un certo punto mò so passati 3, 4 mesi sentiamo che fine ha fatto sta lettera" e la madre gli dice "a settembre e che quando è andata glielo ha detto e le ha risposto che è stata consegnata poi dice se l'ha letta il papa perlomeno sa chi". Dalle carte emerge che Giulio fosse assai attento a tutto ciò che riguardava la galassia delle logge massoniche. Agli atti c'è una telefonata, sempre dell'agosto scorso, in cui emerge come l'ingegnere nucleare fosse preoccupato per l'iniziativa del presidente della Commissione Antimafia Rosy Bindi di chiedere, nel corso dell'audizione di Stefano Bisi (Gran Maestro del Goi, il Grande Oriente d'Italia che sarà ascoltato dalla commissione il 18 gennaio) l'elenco delle oltre 20mila persone iscritte. "La Bindi pubblicherà gli elenchi della loggia sui giornali - dice Occhionero - poichè la Commissione Parlamentare ha chiesto l'acquisizione degli elenchi a seguito della storia della Calabria". Secondo Occhionero, "la Bindi sembrerebbe intenzionata a passarli ai giornali".

Gli hacker di Mafia capitale. I due fratelli Occhionero, arrestati per cyberspionaggio ai danni di decine di politici, businessman e prelati, sono stati amministratori di società collegate al faccendiere Salvatore Buzzi, uno dei principali imputati del processo romano, scrive Gianfranco Turano il 10 gennaio 2017 su "La Repubblica". Tutte le strade portano a Roma capitale. Il detto vale anche per i due fratelli hacker, Giulio e Francesca Maria Occhionero, arrestati la mattina del 10 gennaio perché spiavano sistematicamente politici al massimo livello, businessmen, alti prelati ed esponenti della massoneria: da Matteo Renzi a monsignor Gianfranco Ravasi, dal Governatore della Bce Mario Draghi al'ex premier Mario Monti fino al Gran Maestro del Grande Oriente d'Italia Stefano Bisi. Francesca Maria Occhionero, nata negli Stati Uniti 48 anni fa, e Giulio, classe 1971, sono stati rispettivamente presidente del cda e amministratore della Rogest, oggi fallita, una delle società immobiliari riferibili a Salvatore Buzzi e alla cooperativa 29 giugno finite sotto sequestro giudiziario a giugno del 2015. La Polizia Postale ha individuato a Roma una vera e propria centrale di cyberspionaggio, che intercettava e raccoglieva dati sensibili su personaggi noti della politica e della finanza. In manette un ingegnere nucleare di 45 anni e la sorella di 49, conosciuti negli ambienti dell'alta finanza, residenti a Londra ma domiciliati nella capitale. Gli Occhionero hanno svolto il loro ruolo in Rogest per circa un anno e mezzo fra il 2006 e il 2007. Fra gli azionisti della Rogest ci sono stati la Edil House 80 di Andrea Munno, con un passato nell'estrema destra, la Luoghi del Tempo di Lucia Mokbel, sorella di Gennaro coinvolto nelle inchieste su Finmeccanica, la Sarim immobiliare, pure considerata nella disponibilità di Buzzi, e la Casa Comune 2000 di Ladispoli, anche questa presente nelle carte di Mafia capitale. In un'altra società, la Sire, gli Occhionero sono stati amministratori. La Sire risulta in liquidazione con pendenze per circa 8 milioni di euro nei confronti della regione Lazio nell'ultimo bilancio disponibile (2008). Era invece nel diretto controllo dei fratelli Occhionero la Westland securities, partecipata da una limited omonima con sede a Londra e dalla Owl Investments, insediata nel paradiso offshore delle Turks and Caicos. La filiale romana della Westland, attiva fra Italia e Stati Uniti e collegata alla maltese Pombal, è stata cancellata nel marzo del 2015.

Cyberspionaggio, così funzionava il meccanismo di controllo. L’indagine condotta dagli investigatori del Centro nazionale anticrimine informatico della Polizia che ha portato all'arresto dei due fratelli Occhionero ha scoperchiato un'attività di dossieraggio durato anni. Che riguardava non solo esponenti di rilievo istituzionale ma anche vittime apparentemente insospettabili. Da Sergio De Gregorio alla Cgil di Torino fino a una società di trasporti di Frosinone recentemente fallita, scrive Floriana Bulfon il 10 gennaio 2017 su "La Repubblica". Il meccanismo digitale di controllo era questo: un server Command and Control utilizzato per controllare l’azione del malware, da lì la gestione di tutti i sistemi informatici infettati, inviando file di configurazione, sottraendo protocolli di posta elettronica e memorizzando migliaia di documenti da custodire negli Stati Uniti. 18327 username univoche, 1793 di queste corredate da password, suddivise in 122 categorie: dalla politica, agli affari, dalla massoneria ai palazzinari, fino alla Guardia di Finanza e al Vaticano. A gestire l’ “eye pyramid”, l’occhio della Piramide, due fratelli romani, Giulio e Francesca Maria Occhionero. Personaggi noti dell’alta finanza capitolina trapianti a Londra che, secondo l’indagine condotta dagli investigatori del Centro nazionale anticrimine informatico della Polizia postale in collaborazione con la Cyber Division dell’Fbi, avrebbero coordinato una rete di computer infettati con un malware acquisendo per anni notizie riservate e dati sensibili di autorità di strategica importanza o di sistemi informatici protetti utilizzati dallo Stato e da altri enti pubblici. I dati carpiti, attraverso l’invio di una mail, e ricevuti comodamente sul pc venivano catalogati poi in sottocartelle ciascuna con una differente tipologia: dalle password per le mail e messenger ai preferiti del browser, dalla cronologia dei siti visitati alle conversazioni Skype, fino ai collegamenti email tra le vittime. Tra gli spiati appartenenti alla massoneria, raggruppati nella cartella Bros (Brothers, ossia Fratelli ndr) quali il Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia Stefano Bisi e il presidente del Collegio dei Venerabili del Lazio Franco Conforti, e politici e uomini d’affari racchiusi nella cartella POBU (Politicians Business ndr). Si va dall’account Apple dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi agli indirizzi email degli ex governatori della Banca d’Italia Fabrizio Saccomanni e dell’ora presidente della BCE Mario Draghi. E poi Mario Monti, Vincenzo Scotti e Vincenzo Fortunato, il comandante della Guardia di Finanza Saverio Capolupo, l’ex portavoce di Silvio Berlusconi, Paolo Bonaiuti e l’ex ministro Maria Vittoria Brambilla. Sotto controllo anche la posta elettronica di Ignazio La Russa e Piero Fassino, quella di Fabrizio Cicchitto fino ai computer in uso a due collaboratori del Cardinale Gianfranco Ravasi, dal 2007 presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e pure quelli della Casa Bonus Pastor, 89 camere a ridosso delle mura vaticane con aria condizionata, wi-fi e tv satellitare adibite a struttura alberghiera. E poi tanti studi legali. Tra questi quello dell’ex parlamentare Pdl Maurizio Scelli, già commissario della Croce Rossa, lo studio Ghia che raggruppa esperti di diritto societario fallimentare e bancario, avvocati internazionali specializzati in consulenza e rappresentanza di enti pubblici, professori di diritto amministrativo come Mario Macchia e legali come Elena Prezioso, dirigente dell’ufficio contenzioso dell’Avvocatura generale del Lazio. Se l’interesse di Occhionero, scrivono gli inquirenti, “nei confronti dei suoi fratelli massoni possa essere legato a giochi di potere” o nel caso della cartella classificata come TABU (Taranto Business ndr) ad affari riconducibili alla sua società, la Westland Securities, se risultano comprensibili le mire di spionaggio di esponenti di rilievo istituzionale, lascia ancora senza spiegazione la scelta di altre vittime. A partire dal pc della segreteria di Lettere dalla seconda università di Napoli, la Cgil di Torino o la Toti trans, una società di trasporti di Frosinone recentemente fallita. Ci sono inoltre i pc di due agenzie della Reale mutua assicurazioni di Roma e quelli dell’istituto neuro-traumatologico italiano che vanta oltre 1000 posti letto e 1200 dipendenti e infine la MBA, la più grande mutua sanitaria italiana per numero di soci. Nelle mire anche l’account gmail di Sergio De Gregorio, ex senatore Pdl, ex direttore de ‘L’Avanti!’ decaduto dall’immunità e finito ai domiciliari, e il pc di Antonio Pulcini, patron dell’impero di palazzine a Roma, una famiglia coinvolta in varie inchieste, tra le ultime quella di mafia Capitale. Un’attività di dossieraggio durata anni, con il malware in continua evoluzione. Le prime cartelle risalgono al 2010, le ultime segnalano come data di infezione agosto 2016. Lo scorso luglio, secondo i tecnici, sono state aggiunte due nuove classi aventi il compito rispettivamente di creare alert in base ad una lista di parole chiave e di geolocalizzare la vittima in base all’indirizzo IP. L’indagine è partita dalla segnalazione dell’invio di una email indirizzata a Francesco di Maio, a capo della security di Enav, un’infrastruttura critica nazionale. La mail conteneva il virus e seguendo quella traccia gli investigatori sono risaliti alla rete botnet che, sfruttando il malware, riusciva ad acquisire da remoto il controllo dei computer e dei sistemi informatici. Per i due fratelli, oggi arrestati, le accuse sono di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato, accesso abusivo a sistema informatico aggravato e intercettazione illecita di comunicazioni informatiche o telematiche.

Occhionero spiava i notai e "monitorava" l'Antimafia. Una trentina i professionisti nel mirino. Quella strana telefonata sulla Bindi: «Svelerà gli elenchi dei massoni», scrive Massimo Malpica, Sabato 14/01/2017, su "Il Giornale". Tutti nel mirino, compresi i notai. Nell'elenco allegato all'ordinanza si moltiplicano gli obiettivi del lavoro di spionaggio che, secondo la Procura di Roma e la Polizia postale, Giulio Occhionero e la sorella Francesca Maria avrebbero portato avanti da tempo. L'elenco dei presunti spiati è diviso da uno spartiacque non indifferente. Da una parte i 1.936 utenti dei quali, sui server riferibili agli Occhionero, oltre ai dati informatici di accesso alle caselle email erano presenti anche le password. Ci sono poi una serie di esponenti istituzionali che erano finiti anche loro monitorati da Eyepyramid, il malware che Giulio Occhionero avrebbe utilizzato per infettare i pc dei suoi bersagli. Qui c'è il nome di Mario Monti e c'è anche quello di Matteo Renzi, il cui account Apple non sarebbe però stato violato. Ma dall'allegato saltano fuori altre vittime eccellenti delle attenzioni della centrale di dossieraggio. Come Stefano Fassina di Sinistra italiana, o Nicola Latorre, senatore dem e presidente della commissione Difesa di Palazzo Madama, o ancora l'ex ministro del Lavoro Maurizio Sacconi, il ministro degli Esteri del governo Monti Giuliomaria Terzi di Sant'Agata, e pure il leader di Ala, Denis Verdini, per finire con il senatore di Ncd Paolo Bonaiuti. Colpisce, però, anche il gran numero di «bersagli» che le presunte spie avevano individuato tra i notai. Forse per carpire informazioni riservate da una categoria strategicamente rilevante. O forse, come fatto anche per gli studi legali e per i commercialisti «violati» dal file Eyepyramid, per usare quei pc «conquistati» come basi di partenza per spedire alle vittime le email contenenti il malware che Occhionero avrebbe personalizzato. E i destinatari, di fronte a una missiva elettronica il cui mittente era uno studio affermato, hanno spesso abbassato la guardia. E così nell'allegato all'ordinanza ci sono almeno una trentina di indirizzi di posta elettronica relativi ad account email del Consiglio nazionale del notariato, riferibili a professionisti di tutta Italia, più una quindicina di account privati di altri studi notarili. Alcuni «deformati» nel nome (ne parliamo nello Spillo, in questa pagina), altri riportati correttamente, come il notaio Gianluca Napoleone di Civitavecchia, quello davanti al quale avvenne la stipula della famosa casa con vista Colosseo dell'ex ministro Claudio Scajola. E a quanto pare finito pure lui - il notaio - «attenzionato» chissà perché dagli Occhionero. Al netto del dubbio che a muovere i fili dei fratelli fossero interessi d'oltreoceano, infatti, allo stato si cerca ancora di capire quale fosse lo scopo del presunto spionaggio - anche se Occhionero nega di aver svolto attività illegali. Di certo i primi a mettere le mani sul malware per analizzare il metodo degli Occhionero, la società Mentat solutions, si erano limitati un anno fa alla considerazione essenziale: «La finalità ultima sembra quella di sottrarre informazioni riservate e documenti sensibili e inviarli a un'entità di natura sconosciuta che gestisce la rete del virus». Ma l'entità altro non era, allo stato delle indagini, che il pc di casa di Giulio, dove il flusso di dati «rubati», e poi selezionati sui server all'estero che ospitavano l'intero «malloppo» digitale, concludeva la corsa. Lì ci arrivavano solo le informazioni che Giulio desiderava, selezionando parole chiave nel testo delle email o in quello digitato dalle inconsapevoli vittime sulle tastiere dei pc. Ma è ancora da accertare che cosa poi facesse l'ingegnere di questa messe di dati e informazioni sottratte ai pc controllati grazie al malware. Nemmeno nelle intercettazioni c'è molto che spieghi il fine ultimo di questo rastrellamento meticoloso. Di solito Giulio e la sorella Francesca Maria parlano di lavoro, della sua (di lui) passione per le certificazioni informatiche, di gite al lago, di possibili trasferimenti all'estero e della mamma. Mai di potenziali, ulteriori clienti o personaggi interessati al loro lavoro sulle vite degli altri. Occasionalmente i due parlano anche di Rosi Bindi, presidente della commissione Antimafia. Succede l'otto agosto scorso, quando Giulio confida alla sorella «che la Bindi pubblicherà gli elenchi della loggia sui giornali poiché la commissione parlamentare ha chiesto l'acquisizione degli elenchi a seguito della storia della Calabria e la Bindi secondo lui sembrerebbe intenzionata a passarli ai giornali».

Cyberspionaggio, il contrattacco di Occhionero: io hackerato dai malware degli investigatori. La posizione difensiva dell'ingegnere romano arrestato il 10 gennaio è tecnicamente possibile e, se sarà confermata, apre le porte a un tema fra i più sensibili della giustizia in questo momento, scrive Gianfranco Turano il 12 gennaio 2017 su "La Repubblica". L'hacker Giulio Occhionero si difende e contrattacca: non c'è nulla di vero, afferma, nel provvedimento che lo ha portato in carcere insieme alla sorella Francesca Maria. È stato lui a essere hackerato dai malware degli investigatori. All'apparenza sembra una linea difensiva delirante, consentita soltanto perché un imputato ha il diritto di mentire pur di difendersi. Ma Occhionero è un tecnico e tecnicamente quello che afferma è possibile. Un malware lavora con la semplicità di un tumore maligno. Non solo imita le cellule sane. Non solo guarda, ascolta e registra ma è anche capace di fabbricare false prove attraverso interventi attivi su sistemi operativi, file, audio, video. In altre parole, si può costruire un profilo di omicida, di narcotrafficante o, appunto, di hacker attraverso il trojan, il cavallo di Troia che infetta i vari device che ormai fanno parte della vita quotidiana di chiunque. E c'è poco da illudersi sulle possibilità di difendersi. «Basta un'innocua foto di WhatsApp, che di solito si scarica in automatico, o un semplice pdf allegato a una mail», dice Giovanni Nazzaro, ingegnere, consulente di varie Procure della repubblica e direttore della rivista specializzata Sicurezza e giustizia. «Stiamo ancora elaborando i protocolli di sicurezza per consentire le chiamate dall'aereo, che a oggi sono vietate in Italia perché la cybersecurity è la tempesta perfetta dal punto di vista della legge, con infiniti profili di attenzione nazionale e internazionale». Il wi-fi in volo però è un business con rischi di sicurezza. L'inchiesta romana sui fratelli Occhionero è altra cosa e la posizione difensiva dell'ingegnere romano arrestato il 10 gennaio, se sarà confermata nel prosieguo del procedimento, apre le porte a un tema fra i più sensibili della giustizia in questo momento. E se Francesco Cossiga, un presidente della Repubblica molto addentro agli apparati di intelligence, diceva: «Io parto dal presupposto di essere intercettato», nemmeno lui poteva partire dall'ipotesi che i suoi scritti e le sue parole potessero essere manipolabili a distanza. Inoltre per l'ex ministro dell'Interno degli anni di piombo essere ascoltato era una sorta di status symbol. Cossiga ne sapeva abbastanza del mondo da non illudersi che i suoi colloqui sfuggissero agli altri potenti. Sei anni dopo la morte del Picconatore, la sicurezza informatica, gli hacker, le spiate elettroniche sono diventate merce comune che copre una vasta gamma di clienti, dal capo di Stato al coniuge diffidente. Niente a che vedere con il caso del perito Gioacchino Genchi o dei servizi segreti più o meno deviati. E anche il Tiger team di Giuliano Tavaroli era comunque una devianza partita da una grande impresa di interesse nazionale come la Telecom. Oggi è semplicemente troppo facile fare soldi con un malware, l'equivalente di un cavallo di Troia digitale che l'ignaro accoglie fra le mura a rischio della sua distruzione.

Mentat Solutions, chi ha smascherato davvero i fratelli Occhionero, scrive Simona Sotgiu su "Formiche.net" il 17 gennaio 2017. Giulio e Francesca Maria Occhionero, i due fratelli romani accusati di aver spiato per anni le caselle di posta elettronica di politici, dirigenti istituzionali, avvocati, commerciali e aziende, sono stati smascherati da un’indagine condotta dalla Polizia Postale diretta da Roberto Di Legami (nella foto), poi sostituito da Nunzia Ciardi su decisione del capo della Polizia, Franco Gabrielli, e coordinata dalla procura di Roma. Secondo l’ordinanza di arresto, a sbrogliare la matassa cibernetica che dal malware Eye Pyramid ha portato ai nomi degli arrestati è stata una società privata, la Mentat Solutions, che ha condotto le analisi preliminari permettendo alla procura di arrivare, poi, ai fratelli Occhionero. Ecco quale ruolo ha avuto la Mentat Solutions nelle indagini sullo cyberspionaggio, come opera, chi sono i proprietari e lo stato di salute contabile della società. Secondo l’ordinanza d’arresto, firmata dal gip Maria Paola Tomaselli, le indagini che hanno portato all’arresto dei fratelli Occhionero sono nate dalla segnalazione fatta da Francesco Di Maio, responsabile della sicurezza della società Enav, di una mail sospetta inviata per l’analisi tecnica “alla società MENTAT Solutions s.r.l., che opera specificamente nel settore della sicurezza informatica e della malware analysis” (pagina 5 dell’ordinanza che si può leggere qui). Le analisi condotte dalla società hanno mostrato come l’account mittente che aveva inviato la mail a Di Maio “faceva parte di una serie di account collegati a studi legali risultati compromessi a seguito di un’infezione informatica”. Inoltre, il file analizzato presentava molte analogie con un altro malware diffuso in passato e già studiato nell’ottobre del 2014 dal personale della Mentat, quando l’Eni S.p.A. era stata oggetto di messaggi malevoli al pari dell’Enav, si legge ancora nell’ordinanza. Dalle analisi condotte dalla Mentat, si è potuta rintracciare la tipologia di malware contenuto nella mail ricevuta dall’Enav, che corrispondeva con la versione recente di un virus denominato “EyePyramid” usato nel 2008 per un massiccio attacco informatico a seguito del quale erano stati compromessi sistemi informatici appartenenti a società private e studi professionali. I tecnici della Mentat, “grazie a un software da loro appositamente realizzato, sono riusciti a decodificare i file trasmessi tramite mail”, oltre a individuare il funzionamento del malware: sottrazione dei dati mediante duplicazione, successiva cifratura e invio dei dati mediante due modalità di trasmissione. “Per i file di dimensioni grandi vengono utilizzati account di cloud storage; gli altri vengono trasmessi in allegato a messaggi email inviati utilizzando account di posta elettronica aventi dominio @gmx.com” (pag. 6), gestito dalla società statunitense 1&1 Mail & Media Inc”. Sempre partendo dall’analisi dell’allegato malevolo – scrive il gip Maria Paola Tommaselli – i tecnici Mentat “sono stati in grado di individuare un server punto di riferimento per il citato malware, ossia il cosiddetto server di Command and Control (C&C) utilizzato per la gestione di tutti i sistemi informatici infettati e sul quale erano memorizzati i file relativi alla configurazione delle macchine compromesse dal medesimo virus EuePyramid, oltre a migliaia di documenti informatici abusivamente esfiltrati secondo la descritta modalità” (pag. 6). Ma come hanno fatto i tecnici della Mentat Solutions ad arrivare ai nomi dei fratelli Occhionero permettendo, così, alla Procura di mettere in atto la seconda fase delle indagini, ossia le attività di intercettazione, terminate con l’arresto dei fratelli? Sbrogliare la matassa informatica è stato possibile, da una parte, grazie all’analisi di tutti i malware citati in precedenza – quello inviato all’Enav, ma anche quelli già in possesso della Mentat – con i quali si sono riscontrate “analogie presenti in tutte le versioni del malware analizzato, compresa quella in esame. Così, fin dal maggio 2010, tutte le versioni del programma malevolo succedutesi nel tempo, fino al dicembre 2015, hanno sempre utilizzato la stessa licenza del componente MailBee.NET caratterizzata dallo stesso codice univoco identificativo”. “La licenza MailBee utilizzata dal malware è variata solamente nel dicembre 2015 quando – si legge ancora nell’ordinanza -, a seguito della richiesta effettuata dalla Mentat di fornire le generalità del suo acquirente, la società AFTERLOGIC Corporation (produttrice delle componenti MailBee.NET Object) ha ritenuto di dover dare notizia a riguardo il proprio cliente”. Tale circostanza fa presumere che a utilizzare la licenza sia stata sempre la stessa persona nel corso del tempo, almeno a partire dal 2010. Altro dato emerso dalle analisi della Mentat riguarda il metodo con cui il virus copiava e reinoltrava i dati carpiti dalle macchine compromesse, ossia attraverso l’invio via mail a caselle di posta specifiche. In particolare è stato fondamentale scoprire che il reinoltro del contenuto delle caselle email @gmx “utilizzate per le descritte operazioni di exfiltration” fosse verso “un account del dominio hostpenta.com, registrato sfruttando il servizio di ‘whois privacy’ offerto dalla società statunitense PERFECT PRIVACY, LLC, con sede a Jacksonvile (Florida), che oscura i dati identificativi del reale titolare del dominio”. Tale dominio, risultava essere collegato ad altri domini, come: enasrl.com, eyepiramyd.com, marashen.com, occhionero.net e westlands.com, tutti registrati con la stessa società statunitense (Registrar: NETWORK SOLUTIONS, LLC.), “ma sono risultati tutti essere, a vario titolo, riconducibili a Giulio Occhionero, o a società a lui collegate ove collabora con la sorella Francesca Maria Occhionero”. “Ulteriori accertamenti – conclude l’ordinanza -, effettuati per tramite dell’FBI statunitense presso la società Afterlogic Corporation, produttrice della licenza MailBee.NET Objects, permettevano di appurare che la licenza relativa al componente utilizzato dal malware, dal maggio 2010 al dicembre 2015, risultava essere stata acquistata proprio da Giulio Occhionero”. La società Mentat Solutions è di proprietà di Federico Ramondino (70% delle quote) e di Paola D’Angelo (30% delle quote), ha iniziato le sue attività il 10 agosto 2009 e si occupa prevalentemente della “produzione di software non connessi all’edizione, consulenza nel settore tecnologico dell’informatica, gestione di strutture e apparecchiature informatiche hardware – housing (esclusa la riparazione)” e ha due dipendenti. Il conto economico al 31 dicembre 2015 indica in 203.128 euro i ricavi delle vendite e delle prestazioni, in crescita rispetto all’anno precedente (133.018 euro). Tra i costi della produzione, si nota una crescita per “materie prime, sussidiarie, di consumo e di merci”, passate da 4.515 euro nel 2014 a 35.348 euro alla fine del 2015. La società nel 2015 ha fatto registrare un utile di 12.146 euro. Sono poche le informazioni rintracciabili online sui due proprietari della società. Tra i pochi risultati, la partecipazione come relatore da parte di Federico Ramondino alla presentazione del libro “Futuro Ignoto” di Philip Larrey, docente di Logica e Filosofia della conoscenza presso la Pontificia Università Lateranense e sacerdote per la diocesi di Roma. Il libro, si legge nella quarta di copertina, “presenta 14 conversazioni con persone altamente qualificate in diversi settori della società odierna che riflettono sull’impatto che la rivoluzione digitale sta avendo nel loro campo specifico”. A intervenire assieme a Ramondino anche Claudio Bianchi, definitivo “professionista nel settore Informatica e servizi”, come si legge nella presentazione.

Hackers e cyberspionaggio dopo Eyepyramid e Occhionero: l'esperto dagli USA. E' Massimo Bertaccini a rispondere ad alcune domande sull'argomento spie informatiche, dal suo ufficio di Santa Clara in California: "In futuro proliferazione ed un affinamento degli attacchi cyber-informatici", scrive il 17 gennaio 2017 "Bologna Today". Dopo il malware Eyepyramid usato per infettare e spiare persone "influenti" e le presunte violazioni alle elezioni Usa da parte di hacker russi, la questione della security informatica è tornata di nuovo in primo piano. In Italia, con l'esplosione del caso Occhionero, ci si chiede cosa possiamo fare per proteggerci e come agiscono queste cyber-spie. Attraverso Innovami, centro per l’Innovazione e incubatore d’impresa senza finalità di lucro con sede a Imola, è stato raggiunto a Santa Clara in California presso la sua sede americana Massimo Bertaccini, fondatore di Cryptolab Srl (una startup imolese, ex-incubata presso Innovami), che produce soluzioni crittografiche per la sicurezza informatica per fare il punto e commentare le ultime vicende in generale, affrontare il tema della sicurezza informatica. 

E’ possibile che un malware possa avere infettato così tanti account e sistemi informatici strategici per l’Italia?

«Al netto del clamore giornalistico per i nomi coinvolti, è certamente possibile e assisteremo sempre più in futuro ad una proliferazione ed un affinamento degli attacchi cyber-informatici. Personalmente sono anni che cerco di trasmettere, il concetto di “backdoor” (possibilità di creare un gate spia all‘interno delle comunicazioni tra 2 o più computers infettati) e “botnet” (agenti computerizzati che controllano una rete di computers infettati) e della reale possibilità di infettare milioni di computers nello stesso tempo. Una falla potrebbe dipendere anche dal fatto che la cyber-security Europea e Italiana sta utilizzando algoritmi crittografici standardizzati in America e non in Europa e non dispone quindi (o non vuole disporre) di propri algoritmi standard per la protezione delle comunicazioni».

C’è a suo avviso una carenza di protezione o di strategia difensiva?

«C’è carenza di strategia difensiva; bisognerebbe fare una campagna informativa estesa. Abbiamo in dotazione computers molto potenti e pensiamo solo alla velocità e alle prestazioni ma siamo titubanti nel pagare un euro in più per avere le dotazioni di sicurezza adeguate. Oppure siamo disposti a cliccare “accept” pur di loggarci all’interno di un social network, rinunciando totalmente alla nostra privacy. Queste informazioni e queste disposizioni dovrebbero arrivare a livello istituzionale con campagne informative e norme ben precise».

Quali rischi corre il sistema economico e istituzionale italiano?

«Le informazioni carpite dagli hackers, in larga percentuale, sono vendute per dare un maggior vantaggio competitivo ad altre aziende o stati.  Non solo: altri governi o enti potrebbero utilizzarle per mettere a rischio l’economia e la politica del paese. Gli scenari possono essere estremi. Si pensi che attualmente non c’è bisogno di costruire una bomba atomica per poter utilizzare una bomba atomica, ma è sufficiente entrare in possesso dei codici crittografici che la fanno innescare. Questo ci fa capire quanto la Cyber security sia importante e non solo per l’economia di un paese».

Quali sono ora le azioni principali per correre ai ripari?

«Non conosco quali sono state le lacune. Serve un’azione coordinata pubblico-privata. In America, ad esempio, quando il governo si è accorto della possibilità di creare un “super quantum computer” che può devastare la rete di sicurezza nazionale perché immensamente più veloce di tutti i precedenti computer finora progettati il NIST, che è l’organo deputato dal governo per la standardizzazione di nuovi algoritmi crittografici, ha promosso un bando (con relativo premio in denaro) che invita tutti a presentare nuovi algoritmi di post quantum computing.  Noi potremmo fare lo stesso in questo settore chiedendo l’aiuto dei privati che, spesso, agiscono meglio degli enti governativi o delle università».

L’operazione è stata portata a termine anche in collaborazione internazionale con l’Fbi. Quanto è importante stabilire e coltivare questo genere di partnership?

«Prima di agire in combinazione con altri stati dovremmo muoverci con le nostre gambe. Poi possiamo collaborare alla pari con terzi. Oggi, inutile negarlo, enti mastodontici come l’NSA o la CIA hanno a disposizione tecnologie e mezzi per monitorare l’intero globo. Per non parlare di aziende private come Google, Amazon Facebook e altri che sono sponsorizzate a suon di miliardi dal governo per fargli da spalla. Chi ci garantisce che gli stessi che ci stanno aiutando non siano gli artefici o i sostenitori di queste strategie di attacco? E’ risaputo oramai quale importanza abbiano gli attacchi informatici che periodicamente si scatenano tra Russia-America o Cina-America o altri stati e viceversa. Se prima non pensiamo a rafforzare le nostre cyber-difese per affrontare questa corsa del gatto e del topo e a proteggere le informazioni all’interno dei nostri confini non c’è nessuna garanzia che altri lo facciano per noi».

«Cronaca da una cella di Rebibbia: qui si vive all’inferno». La dichiarazione spontanea di Francesca Occhionero, reclusa nel carcere di Rebibbia dal 9 gennaio del 2017 con l’accusa di cyberspionaggio, scrive il 15 luglio 2017 "Il Dubbio". Sono Francesca Occhionero, dal 9 gennaio 2017 detenuta nel carcere di Rebibbia, dove, quindi, mi trovo a “sopravvivere” ormai da 183 giorni. Ritengo che sia assolutamente infondato ed ingiusto quanto sostenuto per la custodia cautelare che sto subendo: ma ciò è stato e sarà trattato nelle opportune sedi. Quel che, invece, ora mi preme evidenziare riguarda il fatto che la detenzione avviene in condizioni generali di assoluta, evidente e nota illegalità, e ciò rischia di essere strettamente collegato con i fatti di causa. Sono note le condanne inflitte dalla Cedu all’Italia per lo stato di illegalità delle carceri (per le dimensioni delle celle e per il sovraffollamento, che dovrebbe far pensare ad un ricorso eccessivo alla custodia cautelare in carcere). Ma sono altrettanto ben note le condizioni concrete nelle quali i detenuti sono costretti a “sopravvivere”, così come mi trovo io, letteralmente a “sopravvivere”.

Qualche cenno:

1) Nel cortile della mia sezione c’è una fogna a cielo aperto, con odori insopportabili, tra sterpi da cui fuoriescono topi di varie dimensioni; ebbene, qui si svolge l’ora d’aria!

2) Detenute che hanno piaghe e sfoghi cutanei sono chiuse in “isolamento sanitario” per giorni, senza che si presenti un dermatologo, nonostante il sospetto (arguibile dall’isolamento) del trattarsi di malattie infettive. Infatti, il reparto Nido è stato isolato in quarantena per “scabbia”.

3) Io stessa, ormai piena di sfoghi e punture di insetti, il 7 giugno scorso chiedevo di avere un parere medico. La risposta dell’infermiere di turno in ambulatorio è stata che il medico sarebbe stato disponibile per il mio settore solo il martedì successivo. Insomma, ci si può ammalare solo di martedì, ovviamente iscrizione nella lista permettendo. Cosa analoga era successa a maggio, quando sono rimasta bloccata per un colpo della strega dovuto a cinque mesi passati su un letto con un materasso di cui dirò. Per i miei ponfi, non sono riuscita ad avere neanche una crema cortisonica, in quanto, a detta dei vari infermieri di turno, sarebbe terminata da tempo. Ho assistito io stessa un infermiere mettere del Voltaren gel su un ponfo derivante dalla puntura di un’ape.

4) Una ragazza, che lamentava da tempo l’insorgenza di piaghe sulle gambe, dopo un mese ha finalmente ricevuto una visita medica e le è stata diagnosticata una micosi infettiva (si è parlato di tigna). La stessa ragazza ha continuato a condividere i 9 mq. di cella con la sua concellina ed a frequentare gli spazi comuni.

5) Condivido una cella di meno di 9 mq (magari lo fossero!) con un’altra persona che dorme sul letto superiore di un letto a castello dotato di materassi di gommapiuma usurati, bucati, bruciati, pieni di acari e pulci, ormai scaduti da oltre 10 anni. Alla richiesta di sostituzione mi sono sentita rispondere, con il visibile sconcerto della stessa polizia penitenziaria, che non ci sono materassi a sufficienza.

6) Sono obbligata a nutrirmi mediante il vitto passato dal carrello del carcere, ma con grande disgusto e sofferenza fisica. Ne ho capito il motivo quando altre detenute che hanno lavorato in cucina me ne hanno riferito le pessime condizioni igieniche. Pentole, teglie, mestoli e tutto il resto viene infatti “lavato” con spugnette bisunte e praticamente senza detersivi. Non vi è mancata la presenza di scarafaggi e persino un grosso topo. I grandi scolapasta vengono sfilati dalle pentole in ebollizione e, con tutta la pasta, trascinati sul pavimento anziché essere sollevati. E questo solo un cenno.

7) Il congelatore non funziona, col risultato che è impossibile conservare alcunché. Nella cella la temperatura è infatti ormai prossima a quella di un forno. Il cibo si scongela e ricongela. Per non dire che, ovviamene, gli approvvigionamenti interni sono fuori di qualsiasi logica: i prodotti sono limitati ed i prezzi raddoppiati e triplicati.

8) Il cortile, le grate delle finestre e i davanzali sono preda di piccioni (e dei loro escrementi) e di gabbiani. Sovente i gabbiani attaccano i piccioni lasciando i cadaveri a marcire sui davanzali delle finestre. Facile immaginare gli odori ed il vomitevole panorama.

9) Il carcere è teatro di continue risse e scontri tra le detenute a causa della difficile convivenza nelle celle, la cui assegnazione avviene inevitabilmente in funzione della scarsa disponibilità; e così vengono fatti convivere soggetti assolutamente incompatibili tra loro e con il carcere (molti di loro dovrebbero essere indirizzati presso altre strutture, idonee per adeguati trattamenti psichiatrici).

10) Il bagno presente in cella è in condizioni pietose. Lo sciacquone perde acqua ininterrottamente, la cipolla della doccia, completamente intasata dal calcare, è un proiettile pronto a partire con la pressione dell’acqua. Dopo esserne stata colpita una volta, d’intesa con la mia concellina, mi faccio la doccia usando il solo tubo. Il filtro/ riduttore del lavandino è analogamente “esploso” a causa del calcare e, data l’assenza di tappi, è finito nello scarico. Il water è privo di coperchio.

11) Una mattina mi sono svegliata con la cella completamente allagata a causa di un’enorme perdita dal muro del bagno (problema che aveva già interessato la cella a fianco). Tutto galleggiava, sia nel bagno che nella cella, le lenzuola del letto del piano di sotto erano zuppe, così come le scarpe e tutto ciò che poggiava in terra. A nulla sono valsi i solleciti alle assistenti di sezione, che ben poco potevano fare, se non a loro volta sollecitare la manutenzione. L’idraulico si è presentato solo tre giorni dopo. Nel mentre, il bagno, il water e il bidet erano del tutto inutilizzabili, e quindi ci è stato dato l’unico suggerimento pratico possibile: «Chiudete tutti i rubinetti dell’acqua e … usate i secchi».

Tutto ciò, anche in estrema sintesi, era la necessaria premessa per OSSERVARE che le condanne inflitte dalla CEDU sono ben note, ma altrettanto note sono le concrete condizioni, come quelle da me vissute, nelle quali i detenuti e le detenute si trovano a “sopravvivere”, spesso in condizioni davvero disumane ed inaccettabili per una società civile. Ebbene, poiché tutto ciò è ben noto, è mio libero pensiero ritenere che continuare a fare uso della custodia cautelare sia una forzatura inammissibile, un abuso del diritto, una ingiustizia. Tanto più nei casi come il mio, nel quale il rischio di fuga è formalmente escluso, quello di inquinamento è riconosciuto come scemato, residuando, nei provvedimenti che mi hanno negato una attenuazione della misura, solo il rischio di reiterazione, il quale però resta escluso dalla assoluta mancanza di elementi circa i fatti di insussistenti e non provate esfiltrazioni informatiche. Mi sembra, quindi, evidente la forzatura del mantenimento della mia custodia cautelare in carcere, che nei vari provvedimenti, in modo significativamente seriale, viene espressamente ancorata alla mia (asserita) mancata resipiscenza ed alla mia mancata collaborazione, come se una qualche norma la ponesse a buon motivo della misura cautelare! Tralascio le altre evidenti forzature contenute nei vari provvedimenti (nei quali, ad esempio, si fa riferimento a dati informatici esfiltrati: ma da dove risultano tali esfiltrazioni? ma dove sono indicate negli atti di Pg?). Prima o poi inevitabilmente emergerà che dette forzature sono solo l’evidente segno della debolezza dell’impianto accusatorio, cui evidentemente il giudice avverte il bisogno di porre rimedio. Tutto ciò premesso e considerato, la CONCLUSIONE appare evidente. Infatti, quanto sopra sintetizzato induce a sospettare che le ben note, illegali e talvolta disumane condizioni carcerarie, rispetto alle quali non coglie il segno di alcuna reazione, vadano a conciliarsi perfettamente con l’aspettativa che il detenuto “collabori”, anche se per legge una collaborazione non è dovuta ed anche se (come nel mio caso) una collaborazione è persino impossibile. Ovvio che non posso minimamente accettare l’idea che tale sospetto possa avere un lontano fondo di verità: sarebbe a dir poco avvilente ed irrispettoso della intelligenza e della dignità umana e professionale di chi dovesse far uso di simili strategie. Per cui, ferma restando la incomprensibile inerzia che accompagna le note condizioni carcerarie, voglio tenere del tutto lontano il sospetto di un uso strumentale e distorto dello strumento carcerario, che, diversamente ragionando, a ben vedere, si tradurrebbe in una vera e propria tortura. Dovendo e volendo escludere l’indicato sospetto, debbo però aggiungere che nel mio caso non ritengo si possa in alcun modo ipotizzare la attuale sussistenza dei presupposti di legge per il mantenimento del mio stato di detenzione. Come ho già detto, fuga ed inquinamento sono esclusi; e il pericolo di reiterazione non ha ragione d’essere. Ed ovviamente la mancanza di tali presupposti non può essere colmata con riferimento ad insussistenti e non provati fatti di esfiltrazioni informatiche (che peraltro non sarebbero a me riferibili): nel fascicolo non ve ne è la minima traccia e non capisco perché si continui meccanicamente ad invocarle. Al riguardo non posso e non voglio trattare profili tecnici, ma ritengo significativo che, salvo errori nelle notizie di cui dispongono, io e mio fratello siamo, almeno in Italia, gli unici imputati per “tentati” reati informatici attualmente in carcere e certamente siamo i detentori di un record assoluto di durata di custodia cautelare carceraria per tali reati. In conclusione, quindi, CHIEDO, in primo luogo, che ognuno per quanto di propria competenza si attivi affinché cessino le denunciate illegalità in ambito carcerario e, in secondo luogo, che, considerata la insussistenza almeno attuale – dei presupposti di legge, venga rimossa o attenuata la misura cautelare a me applicata.

Francesca Occhionero: «Pensavo che in cella ci andasse chi commette dei reati. Invece…», scrive Valentina Stella il 29 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Francesca Occhionero, scarcerata lo scorso 25 settembre, dopo circa 9 mesi di detenzione preventiva nel carcere romano di Rebibbia si racconta al Dubbio. «Mi preparavo a trascorrere un’altra notte in cella. Un’ora dopo mi sento chiamare dall’altoparlante “Occhionero scendi a piano terra” e la guardia “prepara la tua roba e vattene perché sei libera”». Comincia così il racconto al Dubbio di Francesca Occhionero, scarcerata lo scorso 25 settembre, dopo circa 9 mesi di detenzione preventiva nel carcere romano di Rebibbia, nel quale era rinchiusa perché accusata di cyber spionaggio col fratello Giulio, che rimane a Regina Coeli. Nel provvedimento firmato dal giudice Bencivinni si legge che viene concesso alla Occhionero l’obbligo di firma e dimora a Roma, oltre il parere favorevole per i domiciliari del pm Albamonte, per questi due motivi: la “condotta rispettosa” tenuta in carcere e gli elementi emersi dall’incipit dell’istruttoria dibattimentale “consentono di ritenere che vi sia stato un parziale ridimensionamento” della posizione della donna. «Ho sempre avuto l’impressione di essere stata arrestata sulla base di un fumus che non si è mai concretizzato in una serie di prove ci racconta nello studio del suo avvocato Roberto Bottacchiari. Al giudice è bastato da un lato che le intercettazioni fossero chiarite e dall’altro sentire paradossalmente solo il primo teste dell’accusa, il dottor Pereno del Cnaipic (Centro Nazionale Anticrimine Informatico per la Protezione delle Infrastrutture Critiche della Polizia postale), per capire che contro di me non ci sono elementi probanti: nessuna esfiltrazione di dati, nessun collegamento con il malware e i server». E sul perché abbia fatto nove mesi di carcere preventivo Francesca Occhionero si dà due spiegazioni: «Avendo avuto molto tempo di pensare in cella, temo che abbiano strumentalizzato la mia detenzione per fare leva su Giulio, e per acquisire conoscenza di elementi da poter poi contestare in maniera specifica, anche se ad oggi manca ancora l’individuazione di un fatto criminale». E sul rapporto con suo fratello, che i giornali hanno descritto talvolta come in crisi, ci risponde: «Assolutamente, il rapporto tra me e mio fratello è solidissimo».

Tornando al 25 settembre, le chiediamo cosa ha fatto appena saputo di dover lasciare Rebibbia: «In pochissimo tempo ho preparato la mia roba. Poi grandi abbracci più o meno sinceri: ho stretto amicizie profonde che mi hanno fatto trascorrere domeniche normali. Prima di uscire mi hanno prelevato il dna. E poi l’incontro con mio marito fuori dal carcere. Ero emozionata ma anche tesa perché credevo che qualcuno potesse cambiare idea e rispedirmi dentro. La prima notte non ho dormito, ero adrenalinica, carica, non sapevo cosa fare». Il mattino invece sono subentrati sentimenti contrastanti: «Da un lato avevo una grande voglia di uscire, di tirare subito su le tapparelle e di andare a correre lungo il Tevere, ma poi è subentrata l’ansia del giudizio popolare. Sono entrata in banca e mi sono sentita gli occhi addosso di chi sussurrava nelle orecchie il mio nome, guardandomi e pensando di non essere visto. Mi sono resa conto di avere una popolarità negativa».

E sulla celebrità che il caso ha suscitato: «Non mi ero resa conto subito di quello che riportavano i giornali e le televisioni, perché nei primi giorni di detenzione non mi era stato permesso di accedere a nulla. Poi ho notato due cose: che per la stampa mio fratello era ingegnere nucleare, io semplicemente ‘ la sorella di’ o la runner. Tutti avevano omesso il mio dottorato di ricerca in chimica. Poi ho letto che mi dipingevano come “lady hacker”, “la bella spia” e mi sono resa conto che si trattava di una montatura, di una enorme bufala che si smonterà. Ma purtroppo qualcuno dentro e fuori il carcere ha goduto nel vedermi rinchiusa». Qualche mese fa il Dubbio pubblicò in esclusiva una lettera dal carcere di Francesca Occhionero in cui denunciava le pessime condizioni di detenzione: «Le prime notti ho pianto, poi alla disperazione è subentrata la rabbia per una situazione così surreale e shockante. Ho passato i primi venti giorni nella sezione Camerotti, dove ci sono quelli in attesa di giudizio. Avevo paura ad uscire dalla cella fredda e spoglia per farmi la doccia, temevo di essere aggredita. Non capivo perché le guardie mi davano del “tu” e si rivolgevano a me con “questa”, “quella”, palesando una chiaro atteggiamento di insufficienza. Poi sono stata trasferita in un reparto migliore. Comunque non sono mai riuscita ad abituarmi alla condizione di detenzione perché per me ogni giorno era l’ultimo psicologicamente, non riuscivo a entrare nel sistema, lo rigettavo, pensavo di uscire subito. Passavo il tempo leggendo e scrivendo, anche un libro sulla mia vicenda, e facendo sudoku. E poi nell’ultimo mese sono riuscita a far riaprire una palestra donata al carcere da De Rossi e Totti e ho insegnato fitness a oltre 50 detenute». Sarà il processo a mettere un punto a questa storia ma concludiamo chiedendo a Francesca Occhionero che idea in generale si sia fatta di questa vicenda: «All’inizio pensavo che qualcuno doveva far carriera sulla nostra pelle. Adesso credo che siamo un perfetto capro espiatorio, il soggetto giusto a cui dare la colpa di qualcosa messo in piedi da altri nel passato, essendoci altri sei malware in circolazione». Un ultimo pensiero sul carcere: «È un mondo che non mi aveva mai incuriosita. Confesso di aver avuto un pregiudizio, per cui se qualcuno entrava in carcere doveva aver fatto qualcosa. Il classico luogo comune su cui mi sono dovuta ricredere. Ora dico che bisogna pregare di non incappare nella giustizia; purtroppo si è incrinata la mia fiducia in alcuni ambiti delle istituzioni e delle forze dell’ordine».

«Vi racconto la fantasiosa montatura sui fratelli Occhionero». Parla l’avvocato Roberto Bottacchiari, scrive Valentina Stella il 18 Agosto 2017 su "Il Dubbio". Qualche settimana fa abbiamo pubblicato in esclusiva la lettera integrale che Francesca Occhionero ha scritto dal carcere romano di Rebibbia per denunciare le condizioni disumane di detenzione che sta vivendo insieme alle altre detenute. Oggi, mentre è in corso anche una petizione su Change. org rivolta al Presidente Mattarella per chiedere di porre fine alla detenzione preventiva della donna, torniamo sulla vicenda dei fratelli Occhionero, accusati dalla Procura di Roma di aver creato una centrale di cyberspionaggio per monitorare istituzioni, pubbliche amministrazioni, studi professionali, imprenditori, politici di primo piano e massoni. Sentiamo il punto di vista della difesa.

Avvocato Roberto Bottacchiari, sulla stampa è emerso che i fratelli Occhionero sapevano di essere indagati e per questo avrebbero sistematicamente cancellato file compromettenti. Addirittura avrebbero negato di fornire le password e bloccato l’accesso ai loro pc lanciandosi sui computer appena gli agenti sono entrati a casa loro.

«Si tratta di una fantasiosa ricostruzione giornalistica. Gli investigatori sono entrati per arrestare Giulio con un provvedimento che prevedeva anche il sequestro dei pc, non l’accesso agli stessi, ma la polizia insisteva nel voler accedere. Questa cosa ha indisposto Giulio che si è rifiutato di fornire le credenziali di accesso anche per proteggere i dati dei suoi clienti. I computer devono essere analizzati nel rispetto di tutte le regole del contraddittorio, in base alla metodica forense che preserva dal rischio di contaminazione e cancellazione dati. Cosa analoga è accaduta con Francesca: in maniera insistente, con fortissima pressione, le chiedevano la password di accesso, lei rispondeva che non aveva la password perché lavorava con la smart card. Loro l’hanno costretta a digitare la password ma non è servito a nulla e gli investigatori hanno sostenuto che lei abbia sfilato di proposito la smart card. Il fatto di averla sfilata è stata una reazione di autodifesa rispetto a quello che stava accadendo. Non è che Francesca non ha collaborato, sono gli investigatori che sono andati contro le regole. E poi in assenza dell’avvocato: ero stato avvisato ma nessuno mi aveva parlato di accesso ai computer».

Sta dicendo che la polizia ha operato in maniera illegale?

«Quantomeno con dubbia legalità: d’altronde basti pensare che la polizia postale ha inoculato, qualche mese prima dell’arresto, un malware nel computer di Giulio. Sono entrati con un falso aggiornamento Microsoft. Da intercettazione passiva si è trasformata in attiva: hanno compiuto una attività di perquisizione e sequestro e non lo hanno comunicato. Giulio comunque ha presentato una denuncia alla Procura di Perugia che ha avviato le conseguenti indagini».

Passiamo al cuore dell’indagine: gli Occhionero sono accusati di essersi introdotti in oltre 18000 profili e di aver conservato in server americani i dati acquisiti illecitamente.

«Punto primo: sul fatto che il malware appartenga a Giulio non esiste alcuna prova. Inoltre sono state fatte anche indagini patrimoniali e non sono stati trovati soldi estorti a qualcuno dei possibili soggetti spiati. Poi sfatiamo subito un altro aspetto che è stato urlato dalla stampa: il computer di Matteo Renzi non poteva essere infettato perché usava Apple mentre il software che avrebbe usato Giulio è Microsoft. Inoltre dall’analisi dei nostri periti solo 1935 (8,2%) username recano anche la password ma non risultano essere stati mai utilizzati; all’interno dei 1.935 indirizzi, solo 11 (0,5%) sono relativi ad Enti; da essi, non risultano essere mai state utilizzate le credenziali; nessun elemento risulta transitato verso Giulio Occhionero: nessuna esfiltrazione. Rispetto a quest’ultimo punto un grave errore è stato commesso dal Tribunale del Riesame che scrive di dati esfiltrati. Il pm Albamonte ci ha confermato che invece nelle contestazioni manca l’esfiltrazione».

Però addirittura nelle indagini sarebbe intervenuta l’Fbi con i suoi potenti mezzi.

«Come si legge espressamente nel documento che vi ho fornito, il 21 marzo 2016 la Polizia Postale Italiana chiedeva agli americani di sapere dove Giulio avesse comprato la licenza di un software (Corporation) che sarebbe servita, a parer loro, per comporre il malware. L’Fbi ha risposto, specificando che tutto quello che aveva comunicato non poteva essere usato dall’Italia in nessun procedimento legale. E invece ce lo troviamo nell’ordinanza di custodia cautelare. Ma poi secondo il buon senso Giulio andava a comprare la licenza dando il suo nome e la sua carta di credito se avesse avuto intenzioni illegali? Per non dire del fatto che mai un hacker collocherebbe i propri server nel Paese – gli Usa – con la più severa legislazione in materia di crimini informatici. Insomma, tutto stride con la linea dell’accusa».

Si è scritto anche che Giulio Occhionero spiasse il pm Albamonte.

«Non è affatto così. Semplicemente aveva incaricato una persona di procurargli gli appunti di un intervento che Albamonte aveva tenuto in un convegno sui reati informatici».

La sua cliente è in custodia cautelare da ormai quasi otto mesi.

««Purtroppo, come ha ben descritto nella sua lettera Francesca, le condizioni di detenzione sono difficili. Contro di lei sembra esserci una sorta di accanimento. Alcuni esempi: la precedente udienza è stata segnata da un episodio che lascia quantomeno perplessi: i fratelli Occhionero sono stati condotti in Tribunale con le manette ai polsi, con un caldo afoso, e senza poter bere dell’acqua dalla bottiglietta che gli volevamo offrire noi avvocati. Ma la cosa drammatica è che la giudice era in ferie e nessuno ci aveva avvisato! Per non parlare delle vessazioni che subisce: circa un mese fa una detenuta si è infiltrata tra i visitatori tentando la fuga. Hanno dato la colpa a Francesca chiedendole perché non avesse avvisato le guardie che la detenuta voleva fuggire. Dopo questo le è stato dimezzato il piazzale dove corre. Questa cosa è fuori da ogni regolamento».

Secondo gli inquirenti ad incastrarla sarebbero sostanzialmente due intercettazioni telefoniche: in una lei rispondendo al fratello dice ‘ Giulio ti prego di non coinvolgere mamma nei nostri problemi…… come vedi sono dei falsi allarmi’ e la seconda in cui lei, parlando con un tecnico informatico, dice che ha necessità di connettersi ai server Usa, dove, secondo la relazione della Mentat, sarebbero custoditi i dati esfiltrati.

««Nel primo caso quell’espressione è mal collocata nel contesto investigativo, non è oggetto di acquisizione agli atti del processo e si riferiva ai problemi economici per superare i quali la mamma aveva ampiamente contribuito, ad esempio vendendo un villino a Santa Marinella per dividere il ricavato tra i due figli. Come si legge chiaramente dalla trascrizione della seconda telefonata la mia cliente dice espressamente “non sono un tecnico informatico” e chiede aiuto per entrare nel dominio dell’azienda che dirige, ossia la Westlands.com a cui specifica che accedono anche altri dipendenti. Quindi di quale oscuro server stiamo parlando? Ci tengo però a dire che a riguardo della mia cliente è avvenuto un fatto gravissimo: a Francesca il Tribunale del Riesame ha negato i domiciliari perché si rifiuta di collaborare. Quale norma prevede questo? Un’altra motivazione è che potrebbe reiterare il reato utilizzando lo smartphone ma i periti hanno già stabilito che dal cellulare quel malware non può essere utilizzato».

Avvocato ascoltando la sua versione, quella dei fratelli Occhionero sembrerebbe una montatura gigante.

«Senza il reato di esfiltrazione di dati, di cui ripeto non si hanno prove, il reato minore che così rimarrebbe sarebbe quello di aver tentato di utilizzare una email con relativa password. Questa è cosa ben diversa dall’aver danneggiato il computer di qualcuno, che è l’aggravante che giustifica la custodia cautelare, ma non vi è stato nessuno che abbia potuto dire una simile cosa. L’Acea ha persino rinunciato a costituirsi parte civile per non aver subito danni».

Falso e abuso d’ufficio: il presidente dell’Anm indagato a Perugia. Le accuse si riferiscono alla gestione dell’inchiesta sui fratelli Occhionero. Il pm disponibile ad astenersi, come chiesto dalla difesa, ma Pignatone ha stabilito che continuerà a seguire il processo. Il pg Salvi: «Decisione pienamente condivisa», scrive Ilaria Sacchettoni il 21 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il pubblico ministero di Roma Eugenio Albamonte, presidente l’Associazione nazionale magistrati, è indagato dalla procura di Perugia per falso e abuso d’ufficio. Le contestazioni si riferiscono alla gestione dell’inchiesta sui fratelli Giulio e Francesca Occhionero, arrestati a gennaio scorso e oggi a processo con l’accusa di aver hackerato le mail di politici e manager. Proprio Giulio Occhionero ha presentato la denuncia sfociata nell’iscrizione a «modello 21» del pm e di due investigatori della polizia postale, Ivano Gabrielli e Federico Preno. L’iscrizione di Albamonte nel registro degli indagati è emersa oggi nel processo agli Occhionero. La difesa, gli avvocati Stefano Parretta e Roberto Bottacchiari, hanno chiesto che il pm si astenga dal processo, ma il capo della procura, Giuseppe Pignatone, non ha accolto la disponibilità del magistrato al passo indietro. Una decisione che il procuratore generale, Giovanni Salvi, ha «pienamente condiviso». Nel suo provvedimento Pignatone, facendo riferimento a una giurisprudenza consolidata, sostiene che «non può confondersi l’inimicizia fra magistrato e parte con le iniziative di quest’ultima, tesa a sottrarsi al proprio giudice naturale; l’inimicizia deve trovare fondamento in rapporti personali svolti in precedenza e fuori del processo». A parere del procuratore, dall’istruttoria «risulta che l’imputato Giulio Occhionero, nel corso delle indagini a suo carico e prima di avere accesso agli atti del procedimento, aveva già manifestato l’intenzione di presentare un esposto contro Albamonte alla procura di Perugia», come emerge da una conversazione intercettata il 18 novembre del 2016. Da altri colloqui carpiti in quello stesso periodo - ricorda Pignatone in una nota sarà trasmessa domani al giudice del dibattimento Antonella Bencivinni - «risulta che Occhionero, avendo appreso la falsa notizia dell’imminente trasferimento di Albamonte ad altro incarico, esprimeva soddisfazione per il fatto che lo stesso non si sarebbe più occupato delle indagini a suo carico». Occhionero è ancora detenuto a Rebibbia. Fra gli spiati erano anche emersi i nomi del politico Domenico Gramazio, del costruttore Antonio Pulcini, dell’avvocato Lucio Ghia e molti altri. Violati anche il sito dell’accoglienza del vicariato romano e i computer di società assicurative e imprese private. Giulio Occhionero aveva ammesso durante il suo interrogatorio di garanzia di essere un massone. Ma ha sempre sostenuto la sua innocenza, spiegando che le molte informazioni trovate sui suoi pc gli servivano per il suo lavoro di consulente d’azienda.

Cyberspionaggio: pm Albamonte indagato dopo esposto Occhionero. Ma resta pubblico ministero a processo. Il presidente dell'Anm è accusato di falso e abuso d'ufficio insieme a due agenti della polizia postale. Pignatone conferma la designazione: l'inimicizia tra magistrato e parte, può diventare un impedimento per un corretto giudizio, scrive il 22 settembre 2017 "La Repubblica". Falso e abuso d'ufficio: sono questi i reati contestati al presidente dell'Anm e pm a Roma, Eugenio Albamonte, dalla Procura di Perugia, che indaga in seguito a un esposto presentato nel febbraio scorso da Giulio Occhionero, l'ingegnere finito sotto processo assieme alla sorella Francesca Maria, per una presunta attività di cyberspionaggio ai danni di siti istituzionali e mail di politici, enti e imprenditori, nell'inchiesta 'Eye Piramid'. Nonostante questo, Albamonte, continuerà a rappresentare l'accusa nel processo a carico dei fratelli. Lo ha deciso il Procuratore della Repubblica, Giuseppe Pignatone, secondo il quale, "l'inimicizia tra magistrato e parte", può diventare un impedimento per un corretto giudizio. La notizia dell'iscrizione è emersa nel corso della prima udienza, davanti al giudice monocratico, del processo agli Occhionero. Gli avvocati della difesa hanno formalmente chiesto al pm di astenersi dal rappresentare l'accusa durante il procedimento.

Il procuratore Giuseppe Pignatone, però, ha confermato Albamonte a rappresentare l'accusa nel processo con un provvedimento che verrà depositato in udienza. Una decisione "pienamente condivisa" dal procuratore generale presso la Corte d'appello, Giovanni Salvi. In base a quanto si apprende, il fascicolo nel capoluogo umbro è stato aperto contestualmente al deposito dell'esposto, ma l'iscrizione del magistrato è arrivata alcune settimane fa. Nel suo documento Giulio Occhionero lamenta alcuni 'abusi' fatti dall'autorità inquirente nel corso dell'attività di indagine.

Accessi non consentiti al suo personal computer, violazioni della privacy e altri illeciti. Su quanto denunciato, Occhionero nel giugno scorso è stato chiamato a deporre, in presenza del suo difensore, l'avvocato Stefano Parretta, davanti ai pm umbri L'ingegnere avrebbe confermato le accuse. Sul fascicolo aperto, al momento, Perugia mantiene il riserbo più assoluto. Il procuratore Luigi De Ficchy non ha voluto in alcun modo commentare quanto emerso nell'udienza romana, anche se l'iscrizione sarebbe un atto dovuto in seguito all'esposto. Con Albamonte risultano indagati anche due agenti della polizia postale a cui viene contestato anche l'accesso abusivo a sistema informatico.

Il colpo di scena ha fatto, quindi, slittare le audizioni di alcuni testi dell'accusa che erano in programma per la prima udienza del processo. I fratelli Occhionero, che sono detenuti dal gennaio scorso, sono accusati di avere organizzato una colossale operazione di cyberspionaggio ai danni anche di alte cariche dello Stato. I due avrebbero tentato di violare anche le mail dell'ex presedente del consiglio Matteo Renzi, del presidente della Bce Mario Draghi e dell'ex premier Mario Monti. Nei loro confronti la Procura contesta i reati di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato, accesso abusivo a sistema informatico aggravato ed intercettazione illecita di comunicazioni informatiche e telematiche.

PRESUNTO COLPEVOLE. FILIPPO MAGNINI.

Stangata a Magnini, 4 anni per doping. Sospeso per uso o tentato uso. "Mi sento come Cristiano Ronaldo", scrive Riccardo Signori, Mercoledì 07/11/2018, su "Il Giornale". È solo la virata dei 50 metri. «Ed io le gare le vincevo negli ultimi 10 metri». Fra le tante cose dette da Filippo Magnini, questa è l'unica che non sia controvertibile. Il resto per ora è fumo o, peggio, da condannare, ha sentenziato il tribunale antidoping di Nado Italia infliggendogli una squalifica di quattro anni per uso o tentato uso di doping (norma 2.2 del codice Wada). Condanna a lui e al compagno di allenamento Michele Santucci. Entrambi non certo agevolati dalla conoscenza del medico-nutrizionista Guido Porcellini, gratificato di 30 anni di squalifica e sotto processo penale a Pesaro. Magnini, due volte campione mondiale dei 100 s.l., come gli altri? Speriamo, speravamo tutti che così non fosse. Lo abbiamo visto paladino dell'antidoping per anni, ha fondato pure il movimento I'm doping free, il tribunale penale aveva archiviato ogni responsabilità. La Procura sportiva non gli ha creduto: inflessibile e pesante nella richiesta (8 anni). Però che dire? Quasi, quasi, stona vederlo incunearsi nello stesso atteggiamento difensivo di tanti dopati che si sono detti innocenti, nonostante le squalifiche. Tutti si muovono e parlano nello stesso modo. Scenografia un po' datata. Ci stiamo ancora trascinando il caso Schwazer con implicazioni di non facile interpretazione. Magnini si sente vittima, accusa e controaccusa. «La procura dice di pensare che abbiamo pensato di fare qualcosa, anche se poi non lo abbiamo fatto: mi vien da ridere». Il tribunale sportivo squalifica anche sul sospetto. Filippo è sempre stato un fiume di parole, e spesso acchiappa l'immagine che fa colpo. Stavolta ci ha provato con Cristiano Ronaldo. «Mi rivedo in lui. Ha usato una frase, dopo l'accusa di stupro: Sono un esempio nello sport e nella vita. Io ho una ragazza che amo e mi segue in tutto, sono in salute, e ho sempre avuto un sorriso per tutti». Il sorriso di Magnini è passato alla storia, ma forse si spegnerebbe pensando che CR7 ha pagato per mettere il silenzio ad una ragazza, furba o ingenua: non giudichiamo, non è proprio un uscirne bene. Un dubbio per il nostro ex nuotatore, che ora lotterà per la sua faccia pulita in appello o davanti al Tas di Losanna. La sentenza è inutilmente pesante visto che Magnini ha già chiuso la carriera, ma fa pensare non sia tanto «un accanimento, una forzatura», come dice il Magno, piuttosto l'ennesimo avviso ai naviganti. O ai nuotatori, sebben la Federnuoto abbia ricordato che Filippo è stato atleta simbolo per un Paese dotato di 5 milioni di praticanti. E di tanti campioni puliti.

Doping, Magnini è una furia: «Non c’è una prova, siamo nel Far West». L’ex nuotatore squalificato quattro anni: «Il pm mi ha urlato: questa è una questione personale. Ho anche pensato volessero colpire qualcuno più in alto», scrive Marco Bonarrigo il 6 novembre 2018 su "Il Corriere della Sera”. La rampa 28 della curva sud dello Stadio Olimpico ne ha viste tante di fughe alla chetichella dalle stanze disadorne del Tribunale Nazionale Antidoping: dall’uscita di servizio, attraverso il dedalo di sotterranei del campo, dentro macchine dai vetri scuri, a occhi bassi e con un corteo di avvocati a far da scudo. Non è il caso di Filippo Magnini. Il pluricampione del mondo di nuoto lascia l’aula dopo 5 minuti di udienza e con 4 anni di squalifica sul groppone ma ha voglia di parlare, quasi di urlare. Niente avvocati a fare da filtro, la fidanzata Giorgia Palmas a guardarlo a distanza, presenza muta al fianco del compagno di sventura Michele Santucci. «Ci hanno sbattuto sulle prime pagine dei giornali come dopati e dopatori — attacca Filo — e adesso ci danno 4 anni perché forse, secondo loro, avremmo tentato di doparci. Con sostanze che nessuno ci ha mai indicato, con prove che non esistono, dopo interrogatori a dir poco inquietanti di cui un giorno forse rivelerò i particolari». Il nemico di Magnini ha un nome e un cognome. È l’ex pubblico ministero romano Pierfilippo Laviani che il Coni ha designato lo scorso anno come pubblica accusa dell’agenzia antidoping italiana. «In quale tribunale — si accalora l’ex nuotatore — un pm può permettersi di alzarsi in piedi, sbattere i pugni sul tavolo e urlare all’imputato “Questa è una questione personale tra me e lei?”. Siamo nel Far West? Come può il Coni non avere paura di una situazione del genere? Come fanno gli atleti a non temerla? Io ho accettato ogni tipo di processo ma qui fin dall’inizio si cercava una verità precostituita». Parole durissime. Magnini giura che mai l’accusa avrebbe fatto il nome della sostanza con cui lui e Santucci si sarebbero dopati. Ma nelle carte dell’inchiesta si parla delle famigerate fiale di Gh, il proibitissimo ormone della crescita che il medico Porcellini ha effettivamente ordinato via Internet in Cina e ricevuto a Pesaro. «Cosa significa “tentato uso”? — prosegue l’atleta — Tentato uso è se ti beccano con la roba nello zaino o nel frigo. E allora certo che meriti la condanna. Ma nelle carte non c’è una telefonata, una consegna, un pacco a mio nome. Niente. Cercavano un capro espiatorio, l’hanno trovato. Ho anche pensato volessero colpire qualcuno più in alto. Chi? Non ve lo posso dire. No, non Federica Pellegrini, magari qualche altro atleta, magari un politico. Io la penso come Cristiano Ronaldo. Sono stato un esempio nello sport e nella vita, ho una bellissima famiglia, ho sempre aiutato il prossimo per cui quello che dice certa gente non mi tocca». Nessun atleta aveva mai attaccato così duramente e direttamente gli organi di giustizia sportiva antidoping. Organi che, al contrario di quelli penali, mantengono blindatissimi sia i processi che le decisioni: accesso proibito alla stampa, motivazioni delle sentenze pubblicate solo per telegrafici estratti, procuratori e magistrati muti come pesci. Ecco, se c’è un’esigenza che emerge dopo la squalifica choc di Magnini (e Santucci) e dopo le sue durissime dichiarazioni è quella di procedure più trasparenti che permettano a tutti almeno di farsi un’opinione più chiara della verità. Che, al momento, è solo parziale: gli avvocati di Magnini (Stincardini e Compagna) hanno annunciato ricorso sia al tribunale d’appello (servirà almeno un mese) e, se dovesse servire, al Tas di Losanna dove le prove verrebbero vagliate a livello internazionale. «Se devo paragonarla a una gara di nuoto — chiude Magnini — questa mia corsa è alla prima virata, ai 50 metri. E io le gare importanti le vincevo sempre negli ultimi dieci».

Doping, Magnini squalificato per 4 anni. “Sentenza già scritta, io come Ronaldo”. L’ex nuotatore azzurro è stato riconosciuto colpevole dal Tribunale antidoping, insieme al collega Michele Santucci, per "tentato uso": la richiesta della Procura era stata di 8 anni. Paga le sue frequentazioni col nutrizionista Guido Porcellini. L'attacco: "Vittima di una persecuzione, ma resto un esempio", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 6 novembre 2018. La prima sezione del Tribunale nazionale antidoping ha squalificato Filippo Magnini per quattro anni. L’ex nuotatore azzurro è stato riconosciuto colpevole di aver violato l’articolo 2.2 del codice Wada, nello specifico per tentato uso di sostanze dopanti. La richiesta della Procura di Nado Italia era stata di otto anni. La stessa pena è stata inflitta al suo collega Michele Santucci. Il due volte campione del mondo dei 100 stile libero di Montreal e Melbourne paga le sue frequentazioni col nutrizionista Guido Porcellini, a sua volta squalificato per 30 anni e a processo penale a Pesaro per un presunto traffico di sostanze dopanti. Magnini ha sempre professato la sua innocenza, forte del fatto che il tribunale penale aveva archiviato ogni sua responsabilità. Il velocista si è ritirato un anno fa e nel corso della sua carriera non è mai risultato positivo. Ora lui e Santucci potranno ricorrere in appello. L’ultima chance rimane il Tas di Losanna. “E’ una sentenza che era già scritta e per questo sono incazzato nero”, commenta lo stesso Magnini. “Il procuratore Laviani mi ha detto al processo, sbattendo i pugni sul tavolo: ‘Basta, ormai questa è una questione personale‘. Parliamo di un accanimento, di una forzatura. Faremo sicuramente ricorso”, annuncia. “Nella giustizia ordinaria non ci potrebbe essere una questione personale, questa è una cosa molto grave”, sostiene l’ex nuotatore azzurro. “Ci sono state molte irregolarità, abbiamo le prove ma le diremo nelle sedi giuste – prosegue- Ma sono molto deluso da questa giustizia sportiva, che non chiamo nemmeno più così”. Magnini continua il suo sfogo: “Perché è successo? Ho pensato di tutto, che il mio movimento ‘I’m doping free‘ possa aver dato fastidio a qualcuno o che io potessi essere una pedina per colpire qualcuno più importante. Di certo qua non parliamo di un pregiudizio nei miei confronti, ma di una persecuzione”. L’ex nuotatore dice di rivedersi “molto” in Cristiano Ronaldo “riguardo le accuse di stupro che gli sono state rivolte. Lui ha detto ‘Sono un esempio nello sport’ e lo sono anche io”. “Ho una bellissima famiglia e una ragazza che mi segue in tutto e che amo. Non mi faccio toccare minimamente dalle cose ridicole che dice certa gente, di cui non ho alcuna stima”, conclude il due volte campione del mondo. Magnini era stato indagato insieme a Santucci dalla procura antidoping Nado Italia nell’ottobre 2017 sulla base degli atti dell’inchiesta della procura della Repubblica di Pesaro sul caso del medico nutrizionista Porcellini. Al due volte campione del mondo veniva contestata la violazione degli articoli 2.2 e 2.9 (favoreggiamento) del codice Wada. A Santucci veniva contestato solo uso o tentato uso (articolo 2.2).

Doping, Magnini e Santucci squalificati per 4 anni. Il Tribunale antidoping ha dimezzato la richiesta di sospensione per gli ex velocisti ma confermato l’impianto accusatorio fermandoli per tentato uso di doping. Trenta anni al nutrizionista Porcellini. L’ex campione: “Sentenza ridicola, scritta prima del processo. Mi sento come Ronaldo”, scrive il 6 novembre 2018 Gazzetta.it. Dimezzata la richiesta (otto anni) di squalifica da parte della Procura antidoping, ma oggi a Roma la prima sezione del Tribunale antidoping di Nado Italia (Tna), presieduto da Adele Rando, ha inflitto però a Filippo Magnini quattro anni ed altrettanti all’altro velocista Michele Santucci per uso o tentato uso di doping (la norma 2.2 del codice Wada). Il bicampione del mondo dei 100 sl di Montreal e Melbourne paga la frequentazione col nutrizionista Guido Porcellini, a sua volta squalificato 30 anni e a processo penale a Pesaro. Magnini aveva professato la sua innocenza poggiandosi anche sul fatto che il tribunale penale aveva archiviato ogni sua responsabilità. Ma la Procura sportiva è stata inflessibile e il solo sospetto viene punito. Adesso Magnini e Santucci potranno ricorrere in appello, ed in ultima istanza al Tribunale sportivo (Tas) di Losanna. Dal processo di alcune settimane fa, Magnini era uscito più ottimista: “Ho raccontato semplicemente la verità e ora sono tranquillo. Che sono totalmente estraneo ai fatti”. La sentenza era stata rinviata ad oggi. Magnini si è ritirato un anno fa. Nel corso della sua carriera non è mai risultato positivo.

PARLA L’EX CAMPIONE — Così Magnini ha commentato la squalifica: “Le parole di Filo: “Sono dispiaciuto e anche arrabbiato, ma me l’aspettavo. So che la sentenza era stata scritta già prima del 15 ottobre, prima che io venissi qui a parlare. Perché? Non lo so, ce lo stiamo chiedendo con gli avvocati, stiamo pensando a chi potrei aver pestato i piedi. Non ho fatto nulla, questa sentenza è ridicola. Il procuratore Laviani mi ha detto a processo sbattendo i pugni sul tavolo: “Basta, ormai è una questione personale”. Parliamo di un accanimento, di una forzatura. Non ci sono prove, anzi le prove dimostrano il contrario. Faremo sicuramente ricorso”. Quindi Magnini fa un accostamento: “Mi rivedo molto in una frase importante e bella di Cristiano Ronaldo, accusato di stupro. Io come lui sono un esempio nello sport e nella vita: ho una bellissima famiglia, ho una ragazza che amo e mi segue in tutto, sono in salute e ho sempre avuto un sorriso per tutti, quindi sinceramente di quello che dice certa gente non mi interessa minimamente”. E ancora: “Una cosa mi fa ridere, anzi mi fa rabbia: la Procura dice di pensare che noi abbiamo pensato di fare qualcosa, anche se poi non lo abbiamo fatto. È un processo alle intenzioni e non mi sarei mai immaginato una cosa del genere: sono incazzato nero. Se vogliamo guardare gli aspetti positivi, visto che sono sempre stato un atleta ottimista, oggi usciamo da qui con la certezza che non si può dire né scrivere che Magnini si sia dopato. Perché sui tre capi di accusa due sono spariti - ha sottolineato Magnini, lasciando gli uffici del Tna allo stadio Olimpico di Roma -. Qualunque persona che ha un po’ di cervello capisce che io non posso aver convinto una persona di trenta anni come Michele (Santucci, anche lui squalificato per quattro anni, ndr) a fare delle cose. L’entità della squalifica di 4 anni? Io mi sarei arrabbiato anche per un giorno. Quattro anni fa ridere perché viene fuori da niente. Abbiamo esempi di atleti che hanno preso due mesi dopo essere stati trovati positivi, altri che hanno preso due anni da recidivi. Noi abbiamo più o meno 200 controlli nazionali e internazionali tutti a posto, e forse anche di più: quattro anni mi sembra esagerato. Non dico di fare come negli altri Paesi, dove per una cosa del genere ti avrebbero dato una pacca sulla spalla, ma noi non abbiamo neanche fatto il tentativo. Nessuno ha mai pensato a questo. Io e Michele abbiamo fatto un record insieme: siamo gli unici atleti non positivi che vengono squalificati. Voglio dare un consiglio al Coni. Pensare che al Comitato Olimpico vada bene che un procuratore, al quale è stato dato pieno potere, possa dire queste parole senza avere nessuna ripercussione, mi farebbe arrabbiare parecchio fossi in loro. È una cosa molto grave, l’indagine non è stata fatta per cercare la verità. Ci sono state molte irregolarità nel processo. Abbiamo prove di cose accadute molto gravi e le diremo nelle sedi giuste. Sono molto deluso da questa giustizia sportiva che non chiamo nemmeno più così. Credo che scriverò un libro su questa vicenda. Agli atleti dico: “state attenti, fate qualcosa perché io ho avuto paura”. Finché non sono morto non posso accettare una cosa del genere. Siamo solo alla virata dei cinquanta metri ed io le gare le vincevo negli ultimi dieci. Perché è successo? Ho pensato di tutto, anche che il mio movimento “I’m doping free” possa aver dato fastidio a qualcuno o che io potessi essere una pedina per colpire qualcuno più importante. Se i trenta anni dati al medico Porcellini possano aver portato il mio processo su questa strada? Forse è tutto uno schema, ma mi chiedo quale sia il motivo. È una persecuzione, un accanimento nei miei confronti: la legge non può essere una cosa personale, non si giudica così. Al mio amico Mornati sono state fatte saltare le Olimpiadi di Rio e poi poco tempo fa ho avuto ragione dalla giustizia ordinaria: così è un po’ troppo facile”.

LA NOTA FEDERALE — In una nota la Federnuoto “esprime fiducia negli organi preposti a prevenire, combattere e perseguire il doping. Il percorso giudiziale che coinvolge Filippo Magnini e Michele Santucci ha espresso solo il primo verdetto e potrebbe proseguire. Pertanto la Federnuoto chiede il massimo rispetto nei confronti degli atleti, auspicando che riescano a dimostrare la loro estraneità alla vicenda in ulteriori sedi. La Federnuoto ricorda altresì come Magnini sia stato - nel corso della sua straordinaria carriera - un esempio per tutto il movimento, nonché uomo simbolo dello sport italiano e della lotta al doping. Si coglie l’occasione per ribadire l’impegno della Federazione Italiana Nuoto per affermare e tutelare lo sport pulito e nel trasmettere i principi di lealtà e probità, condivisione, aggregazione e integrazione nel nostro Paese che conta oltre 5.000.000 di praticanti”.

PRESUNTO COLPEVOLE. ALEX SCHWAZER.

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

"Le urine di Schwazer furono manipolate". Una rivelazione riapre il giallo doping. Nei due campioni ri-analizzati trovate differenze abnormi nella quantità di dna, scrive Benny Casadei Lucchi, Sabato 28/07/2018, su "Il Giornale". «Io marcio» ha detto un giorno, «io marcio per me stesso» ha concluso la frase dopo aver ripreso fiato. Una pausa in mezzo. Come a separare volutamente l'«io marcio» che sa di confessione ed evoca il giallo, i dubbi, lo sporco che ne hanno accompagnato a tratti la carriera, dall'«io marcio per me stesso» che rappresenta invece l'amore con cui ha comunque affrontato quella carriera. Anche se l'amore, si sa, talvolta distrugge. Alex Schwazer è questo. È una frase spezzata in due come la sua vita agonistica e non solo agonistica. Prima l'oro olimpico di Rio e la gloria, poi la vergogna grande e la confessione di Londra 2012. Prima la vita da reietto dello sport seguita alla squalifica, poi il ritorno vincente del 2016 alla vigilia dei Giochi di Rio accudito dal professor Sandro Donati, simbolo della lotta al doping e diventato per Alex patente e certificato di pulizia. Prima la vittoria al rientro, seguita da redenzione e applausi, poi il nuovo sprofondo alla vigilia delle olimpiadi brasiliane. E ancora: prima la nuova squalifica a otto anni e la fine della carriera, poi la voglia di vederci chiaro, i dubbi su quel controllo delle urine effettuato dagli ispettori su incarico Iaaf e deciso proprio nel giorno in cui l'atleta aveva testimoniato contro un medico della Federazione internazionale. Una provetta rimasta troppe ore in mano agli ispettori prima di arrivare al laboratorio di Colonia e mai veramente anonima come invece dovrebbe, fecero subito notare i difensori di Schwazer. Un campione di urina che al primo controllo era risultato a posto e al secondo con una concentrazione di valori dopanti talmente minimi da non poter aiutare la prestazione atletica. Un giallo. O Schwazer stupido all'inverosimile da doparsi per non aver alcun beneficio o Schwazer al centro di un qualche complotto. Anche per questo l'atleta, che nel primo caso di doping, a Londra, aveva subito confessato, la seconda volta aveva urlato la propria innocenza chiedendo di vederci chiaro «perché credo che lì dentro ci siano anche le urine di altri» aveva detto, «e allora voglio l'esame del dna, non servirà per la mia carriera ormai finita, ma per il mio onore sì...». Ed è proprio dell'esame del dna che si è saputo ieri. Ultimo e più importante tentativo di ricomporre i cocci dell'esistenza di questo altotesino di 34 anni. La notizia è stata data dal quotidiano altotesino Tageszeitung e da Nando Sanvito sul il sussidiario.net, giornalista che non ha mai smesso di voler far luce sulla vicenda: «L'esame delle urine ha rivelato che le urine di Alex Schwazer sono state manipolate» ha scritto dopo essere venuto a conoscenza del risultato delle analisi svolte, su richiesta del tribunale di Bolzano, sul campione di urine. Ovviamente non sono state trovate le tracce di altri dna, ma di quello dello stesso Schwazer in quantità così abnormi da far sospettare il tentativo di nasconderne altri. Il dna col tempo va infatti riducendosi in modo vistoso, per cui è anomalo che nel primo campione, quello negativo, ci fosse un quantitativo inferiore al secondo. Da qui la decisione del Ris di Parma e del suo comandante Giampietro Lago (anche perito del tribunale di Bolzano) di monitorare il dna separato in due campioni di un centinaio di volontari. Per capire se difformità simili siano possibili. I risultati definitivi a settembre. Per ricominciare di nuovo a ricomporre i cocci di un uomo discusso. O per buttarne via l'ultimo e dimenticarlo per sempre.

Doping Schwazer, anomalie nelle analisi: ora un test su 100 dna. Le analisi sui campioni A e B risultati positivi alla vigilia di Rio de Janeiro effettuate dal Ris rilevano discrepanze «abnormi» nella concentrazione di dna nelle due provette, scrive Giuseppe Toti il 27 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". Se non siamo di fronte al passo decisivo, poco ci manca. La vicenda di Alex Schwazer, secondo le clamorose rivelazioni di giovedì scorso di Tageszeitung, quotidiano altoatesino in lingua tedesca, è giunta a un momento cruciale grazie al lavoro che da molti mesi sta portando avanti il Ris di Parma del colonnello Giampietro Lago, su incarico del gip di Bolzano, titolare dell’inchiesta penale, Walter Pelino. Per prima cosa, le analisi di laboratorio sui campioni A e B di urina del marciatore azzurro — fermato per doping nel 2016, alla vigilia dei Giochi olimpici di Rio de Janeiro, in seguito al controllo a sorpresa di gennaio di quell’anno, dopo essersi affidato alle cure del professor Sandro Donati, memoria storica dell’antidoping italiano — hanno evidenziato un’anomalia incredibile: la concentrazione di dna di Schwazer nel campione B è tre volte superiore a quella presente nel flacone A: 1.187 nanogrammi contro 437. Una discrepanza «inspiegabile» scientificamente, che potrebbe nascondere ciò che l’entourage di Schwazer ha sempre sostenuto con forza: la manomissione delle provette (faticosamente ottenute dopo una battaglia durissima dal laboratorio di Colonia, che il 7 febbraio scorso aveva addirittura consegnato un campione aperto) per incastrare l’atleta e realizzare il «delitto perfetto». La Iaaf si è già affrettata a dichiarare che quella differenza abnorme non ha valore, il Ris invece continua spedito: il comandante Lago ha infatti ordinato una maxi test sul dna di 100 individui, scelti tra sportivi e persone comuni, che hanno dato l’assenso. Le conclusioni del Ris saranno presentate entro il 5 settembre sul tavolo del gip Pelino: se la «discrepanza» dovesse rimanere solo per Schwazer e non riguardare nessuno di quei cento, allora molti altri dubbi verrebbero spazzati via.

CASO SCHWAZER. L'esame del Dna rivela la manipolazione delle urine (esclusiva). Le urine di Schwazer sono state manipolate. Così si evince dall'analisi del Dna che il Ris di Parma ha effettuato sui campioni di Colonia. Una novità che cambia tutto, scrive Nando Sanvito il 27 luglio 2018 su "Il Sussidiario". La ostinata e disperata resistenza della Iaaf e del Laboratorio di Colonia a non cedere le urine di Schwazer al Tribunale di Bolzano aveva una ragione più che valida: quelle provette erano state manipolate. Così almeno si evince dall'analisi del Dna che il Laboratorio del Ris di Parma ha effettuato su quei campioni nelle scorse settimane. Cosa è stato trovato in quelle urine? Un Dna estraneo a quello di Schwazer? No, non siamo più ai tempi del caffè messo nella provetta della Di Terlizzi allenata da Sandro Donati, roba casereccia da peracottari anni 90. Nel caso Schwazer invece si è dato per scontato che se mai tarocco ci fosse stato, sarebbe stato fatto a regola d'arte, da professionisti del ramo e che tracce di Dna esogeno non ne avrebbero lasciate. Allora cos'ha trovato il colonnello Lago? Una concentrazione spaventosamente anomala del Dna di Schwazer. Bastano pochi numeri: 437 picogrammi microlitro nel campione A, addirittura 1187 nel campione B. Se la letteratura scientifica – prodotta dagli stessi laboratori accreditati presso la Wada – dice che le urine conservate a -20 gradi dopo una settimana riducono a 1/7 il valore quantitativo del Dna, dobbiamo pensare che dopo 26 mesi debbano contenere ancora al massimo qualche picogrammo, che si possa contare su qualche dita di una mano. Il Dna di Schwazer presenta invece una concentrazione centinaia (campione A) o migliaia (campione B) di volte superiore alla norma. Di fronte a questi valori assolutamente fuori-scala, i casi sono due: o Schwazer è un alieno oppure qualcuno ci ha messo mano. E qui sta il punto. Cosa vuol dire che ci ha messo mano? Vuol dire che ha "pompato" nelle urine di Schwazer una quantità sproporzionata di Dna dello stesso marciatore altoatesino. Che bisogno aveva di farlo? Questa operazione di solito la si fa quando si vuole nascondere un altro Dna presente nelle urine, perché se è vero che centrifugando urina contaminata da doping e congelandola e riscaldandola (coi raggi Uv) più volte, il Dna scompare al 99,9%, in realtà quello 0,1% inquieta il manipolatore e dunque il metodo più sicuro per non lasciare traccia è pompare altro Dna del proprietario delle urine da inquinare. Così si elimina ogni rischio di essere scoperti. Colpisce poi quella discrepanza tra campione A e campione B: 437 contro 1187. La Iaaf ha incaricato a Ginevra uno studio scientifico per dimostrare che questa discrepanza non ha alcun valore, ma se così fosse perché allora il laboratorio di Colonia e l'avvocato della Iaaf a febbraio tentarono di spacciare per campione B il liquido contenuto in una provetta di plastica non sigillata? Su questa discrepanza, da parte sua il colonnello Lago (carabiniere del Ris e perito del tribunale di Bolzano) invece sta monitorando il Dna di un centinaio di volontari a cui è stata prelevata urina, separata in due campioni: daranno differenze? E nelle proporzioni di quella di Schwazer? Lo sapremo ai primi di settembre quando presenterà il risultato completo della sua perizia al Gip di Bolzano Walter Pelino. Ma queste anticipazioni suggeriscono doverose riflessioni. Chi, come e dove ha operato la manomissione delle urine di Schwazer? A chi potrebbero toccare gli avvisi di garanzia che il Gip di Bolzano presumibilmente invierà una volta letta la perizia? Di questo ne parleremo nella puntata di domani.  

Atletica, doping; caso Schwazer: condannati i medici Fidal. Il tribunale di Bolzano ha condannato a due anni ciascuno Pierluigi Fiorella e Giuseppe Fischetto, nove mesi per Rita Bottiglieri. Per tutti e tre l'accusa è di essere a conoscenza dell'uso di sostanze da parte dell'ex marciatore e di non aver denunciato i fatti. Una sentenza storica, scrive Eugenio Capodacqua il 25 gennaio 2018 su "La Repubblica". Sapevano ed hanno taciuto. E non hanno fatto nulla per impedire che Alex Schwazer si dopasse prima delle Olimpiadi di Londra 2012. E adesso, a sei anni dai fatti, il tribunale di Bolzano per bocca della giudice Carla Scheide, ha stabilito che il loro comportamento era colpevole quanto il doping dell'atleta. Favoreggiamento del doping: così i due medici della Fidal (federazione atletica italiana), Pierluigi Fiorella e Giuseppe Fischetto sono stati condannati rispettivamente, a due anni di reclusione e ad una multa di 10.000 euro ciascuno. Una sentenza storica. La prima in cui vengono sanzionati due massimi dirigenti sportivi italiani. Per i due c'è anche l'interdizione dalla pratica della professione medica per due anni e l'inibizione perpetua da incarichi direttivi al Coni e in società sportive. Per Rita Bottiglieri, all'epoca impiegata nella segreteria federale, invece, la condanna è stata di 9 mesi di reclusione e 4.000 euro di multa. Anche per lei l'inibizione perpetua da incarichi direttivi al Coni e in società sportive. Secondo la sentenza tutti e tre erano a conoscenza dell'uso di sostanze dopanti da parte di Alex Schwazer, prima dei Giochi 2012 ma non hanno denunciato i fatti. Inoltre, è stato stabilito un risarcimento di complessivi 15.000 euro nei confronti della Wada: 12.000 euro dovranno essere pagati da Fiorella e Fischetto (6.000 a testa), e i restanti 3.000 sono a carico della dirigente Bottiglieri. I tre, infine, sono stati condannati al risarcimento delle spese legali sostenute dalla Wada. La sentenza contro cui, ovviamente gli interessati hanno già detto di voler ricorrere in appello, è stata più severa delle richieste del pm che per la Bottiglieri aveva chiesto l'assoluzione. Era attesa anche perché costituisce una anteprima assoluta. E' la prima volta che due medici sportivi, inseriti nella dirigenza di una federazione, vengono condannati per favoreggiamento nel doping. "La prima volta in cui per questo reato vengono sanzionate persone diverse dall'atleta ed è molto importante, perché l'atleta spesso è l'ultimo anello della catena", dice Sandro Donati, da sempre in prima fila nella lotta alla farmacia proibita, che Schwazer ha seguito come tecnico quando, scontata la prima squalifica, si è ripresentato per gareggiare. "Cosa farà adesso la Iaaf, la federazione internazionale? Ignorerà la sentenza?". Fischetto è ancora medico del settore sanitario ed ora si trova interdetto a frequentare ambienti sportivi. "Ricordo - aggiunge Donati - che fui proprio io a indicare alla Wada l'11 e 12 luglio del 2012 la necessità di un controllo su Alex. Lui era colpevole per quel doping. Ed ha pagato con la squalifica (tre anni e nove mesi in tutto, n.d.r.).  Ora questa sentenza mette in luce anche le responsabilità dell'ambiente e fa inquadrare in una prospettiva ben chiara la presunta seconda positività dell'atleta riscontrata il 1° gennaio 2012".

Una storiaccia. Con coincidenze talmente assurde da far pensare ad un complotto, come lamentano da mesi Schwazer e il suo staff difensivo capeggiato dall'avvocato Brandstaetter. Come, ad esempio, l'incarico dato dalla Iaaf alla ditta tedesca che poi ha svolto il test del 1° gennaio a Racines, avvenuto, secondo le tesi dei difensori di Alex, immediatamente dopo la testimonianza di Schwazer a Bolzano nella quale, svelando tutti i retroscena chiamava in causa proprio i medici federali. Una intercettazione durante l'inchiesta, rivelò tutta la rabbia di Fischetto: "Ha da morì ammazzato questo crucco di merda": la frase, resa pubblica nel docufilm di Repubblica di qualche mese addietro, dice tanto dell'atmosfera che circondava Schwazer all'epoca. Una storiaccia che ancora non si è chiusa. E ancora una volta mentre lo sport assolve (i protagonisti erano stati scagionati dalla Procura antidoping del Coni) la magistratura condanna. Il che deve far riflettere sul ruolo e le capacità di organismi che non hanno alcuna credibilità, perché assolutamente autoreferenziali. Lo sport che controlla se stesso non può funzionare con gli interessi in ballo. "Bella giustizia! - commenta Donati - C'è sempre stata ostilità nei confronti di Schwazer al quale il Tribunale Nazione Antidoping non ha mai dato la possibilita', per il presunto secondo caso (quello del gennaio 2016 per cui il marciatore altoatesino sta scontando una condanna a otto anni, n.d.r.), di un'udienza sportiva in Italia davanti al TNA. Nessuna autorità italiana dell'antidoping italiana è mai intervenuta per difendere Schwazer rispetto alle vessazioni imposte dalla Iaaf e che il Tribunale Arbitrale Sportivo ha subito passivamente come quando ha costretto Alex all'udienza a Rio in piene Olimpiadi e non a Losanna. E' stata colpita vigliaccamente la persona a terra".

Alex Schwazer, il laboratorio antidoping di Colonia nega i campioni di urina al Ris di Parma, scrive Eugenio Capodacqua il 24 Dicembre 2017 su "Libero Quotidiano". Dalla Germania le stanno provando tutte per rinviare un nuovo esame che potrebbe portare una nuova svolta sul caso controverso di doping sul marciatore azzurro Alex Schwazer. Da un anno i campioni di urina prelevati dall'atleta a Vipiteno il 1 gennaio 2016 sono sotto sequestro, conservati e sigillati a 20 gradi sottozero nel Manfred Donike Institut di Colonia. Lo scorso ottobre, come ricorda il Corriere della sera, il Ris di Parma per mano del colonnello GiampieroLago ha chiesto ai responsabili del laboratorio di accertare che in quelle provette ci fosse davvero l'urina di Schwazer, dopo che la rogatoria internazionale del magistrato ri Bolzano, Walter Pellino, era stata trasformata in ordinanza da un giudice tedesco. Con quella comunicazione, il colonnello Lago aveva formalizzato la richiesta di consegna, negata solo tre giorni fa dal direttore del laboratorio di Colonia perché dal punto di vista tecnico quella richiesta è risultata "troppo vaga". La lettera del colonnello dei carabinieri è tutt'altro che vaga, la procedura per l'esame del campione è ben descritta nella disciplina internazionale, quindi ci sono pochi margini di interpretazione da parte dei tecnici tedeschi. La vicenda del marciatore azzurro vira sempre di più verso il mistero dalle torbide venature di politica sportiva. Il laboratorio di Colonia è sotto la Wada, l'agenzia internazionale antidoping, non dovrebbe temere nulla da un nuovo esame di quei campioni e potrebbe dimostrare ancora una volta la propria imparzialità. La stessa Wada però da mesi si è opposta alla richiesta della magistratura italiana e sulla stessa linea si è schierata anche la Iaaf, la federazione mondiale di atletica. Gli interrogativi trovano una risposta tanto chiara quanto amara nella parole dell'allenatore di Schwazer, Sandro Donati: "Il laboratorio di Colonia ha ricevuto l'ordinanza due mesi fa. Perché non ha manifestato subito i suoi dubbi? Perché questo muro di gomma contro una richiesta che non dovrebbe suscitare nessun problema? Cosa nascondono le autorità sportive?". Le domande retoriche di Donati insinuano l'ennesimo dubbio sulla trasparenza degli organi internazionali, c'è qualcuno che teme quelle nuove analisi. E qualche indizio su nomi e cognomi comincia emergere. Come un'email dello scorso febbraio del capo dell'ufficio legale Iaaf, Ross Wenzel, diretta al presidente della commissione medica federale, Thomas Capdevielle, grande accusatore di Schwazer, che confessa la sua preoccupazione per l'eventuale spostamento di quei campioni e spera di riuscire a convincere i responsabili del laboratorio di Colonia a tenerli dove sono. Già la scorsa estate la Wada e la Iaaf impedirono il sequestro di tutte le provette, ma non il prelievo di due campioni. Di norma è una procedura concessa a tanti atleti che tentano un ricorso, in questo caso invece per opporsi alla richiesta dei magistrati italiani sono stati spesi migliaia di euro in cause legali. La faccenda deve stare loro particolarmente a cuore, qualcuno che non ha nessuna intenzione di far emergere la verità contro ogni ragionevole dubbio.

Caso Schwazer, 17 mesi di melina: il test Dna ancora rimandato, scrive il 20 dicembre 2017 “La Repubblica". Diciassette mesi di melina e ancora non si vede giorno. Il test sul dna da cui dipende tanto del futuro di Alex Schwazer non viene ancora fatto, nonostante ci sia un verdetto chiarissimo della Corte di appello di Colonia. E il caso della discussa seconda positività del marciatore altoatesino, (squalificato prima dei Giochi 2016) resta ancora senza soluzione definitiva. Tutto rimandato all’anno prossimo, se non verranno posti altri incomprensibili intoppi. Cosa pensare? Che l’evidente strategia dilatoria della Iaaf, la federazione atletica internazionale, stia producendo i suoi effetti?La misero in evidenza mesi addietro alcune email svelate dagli hacker di Fancy Bear, riprese da molti “media”. Si trattava di 23 messaggi di posta telematica scambiati tra il manager dei controlli antidoping della Iaaf Thomas Capdeville e il consulente legale Ross Wenzel, oltre avvocati e altri dirigenti. Il tema era evidente: identificare la strategia difensiva nei confronti del sequestro richiesto ed ottenuto da parte del Tribunale di Bolzano delle provette del test del 1° gennaio 2016, la cui positività è stata contestata dalla difesa dell’atleta azzurro, che ha apertamente parlato di complotto. Per dirimere la questione si sarebbe già dovuto procedere al test del dna, risolutivo per entrambe le parti. Colpevole o innocente. Definitivamente. Ma le provette sono ancora bloccate in Germania presso il laboratorio di Colonia. In Italia tutto sarebbe pronto, ma quei “benedetti” 6 millilitri del campione B e 9 di quello A ancora non arrivano nel laboratorio dei Ris di Parma. Nonostante il Gip Walter Pelino abbia fatto tutti i passi necessari, nominando il colonnello Giampiero Lago, responsabile del Ris di Parma come perito super partes. Questa volta c’è un evidente ritardo nel coordinamento con Iaaf e Wada che dovrebbero essere presenti a tutte le operazioni di prelievo, sigillatura e trasporto del liquido da analizzare. Così siamo arrivati a Natale tra ricorsi, appelli e sentenze della magistratura tedesca che ha stabilito alla fine la legittimità delle procedura nel rispetto dei diritti della difesa. Ma difficilmente la vicenda vedrà una soluzione prima di gennaio-febbraio prossimi. Eppure sarebbe interesse delle parti risolvere il prima possibile per mettere fine alle ovvie e scandalose polemiche che hanno coinvolto fin qui l’atletica mondiale. Dall’analisi dei fatti emerge come Iaaf e Wada abbiano più o meno seguito la stessa strada. Ma è una circostanza sconcertante. Infatti, se da una parte la Iaaf risulta controparte dell’atleta e di fatto si è opposta ferocemente alle nuove analisi sulle provette; la Wada, almeno, dovrebbe essere “neutra”. Cioè esercitare quella terzietà che è l’elemento più discusso e mancante nel sistema antidoping mondiale. E questo sconsolante quadro, che mina i fondamentali della giustizia, è complicato da fatto che la Corte d’appello di Colonia non ha fissato, nella sua ordinanza, una data precisa per la consegna delle urine da parte del laboratorio. Favorendo così chi la vuole tirare per le lunghe. Ora si attendono ulteriori contromosse da parte della Procura di Bolzano.

Quelle strane mail del caso Schwazer. (Un articolo importante di Sarah Franzosini, per Salto.bz del 6 luglio 2017). Il vento fa il suo giro. La parabola discendente di Alex Schwazer potrebbe ora subire una svolta. I fatti: il 29 giugno scorso il colpo di scena, gli hacker russi di “Fancy Bear” si impossessano di 23 e-mail sottratte alla Iaaf, la Federazione internazionale di atletica leggera. Le mail vengono scambiate nel corso di tre mesi (da gennaio a marzo 2017) fra l’antidoping senior manager della Iaaf Thomas Capdevielle e il consulente legale Ross Wenzel, membro dello studio di Losanna Kellerhals Carrard (che insieme a Huw Roberts, dello studio londinese Bird & Bird, si occupa del caso Schwazer), con il coinvolgimento di altri avvocati e dirigenti della Iaaf e del laboratorio di Colonia, dove ancora si trovano le provette “incriminate” con i campioni di urina. Occorre infatti ancora accertare se l’urina dell’esame sia effettivamente quella di Schwazer e se non ci sia stato un inquinamento “esterno” o altri tipi di alterazione. Il marciatore, infatti, sostiene che qualcuno gli abbia dato la sostanza di nascosto o modificato la provetta. Le e-mail in questione avvalorerebbero l’ipotesi di un complotto ordito per mettere fuori dai giochi l’atleta, come da tempo denuncia il suo ex tecnico Sandro Donati. Il 10 agosto 2016 Alex Schwazer viene squalificato per 8 anni dal Tribunale Arbitrale dello Sport (TAS) di Losanna – dopo aver scontato tre anni e nove mesi per il doping all’epo (abbreviazione di eritropoietina, un ormone che controlla la produzione di globuli rossi nel sangue) del luglio 2012 -, una sentenza che gli impedirà di partecipare alle due discipline della marcia previste alle Olimpiadi di Rio, e cioè i 20 e i 50 chilometri; e che porrà di fatto fine alla sua carriera agonistica. Sono i contorni di una storia lacunosa che sfumano ulteriormente alla luce delle ultime rivelazioni.

La prima e-mail è datata 17 gennaio 2017, giorno in cui il giudice per le indagini preliminari di Bolzano, Walter Pelino, stabilisce che l’esame del DNA di Schwazer si farà, complice una rogatoria internazionale, presso il laboratorio dei Ris dei carabinieri di Parma. L’incarico viene conferito al colonnello Giampietro Lago e al professor Marco Vincenti, chimico dell’università di Torino e presidente del laboratorio antidoping piemontese. Katherine Brown, legale della WADA (l’Agenzia mondiale antidoping) di Losanna, scrive ai vertici del laboratorio di Colonia, Wilhelm Schänzer e Hans Geyer, inviando loro una lettera del direttore antidoping della WADA Julien Sieveking e il verbale dell’incidente probatorio chiesto dalla difesa di Schwazer. Schänzer e Geyer prendono tempo – suscitando una certa insofferenza da parte di Losanna – e dopo 10 giorni rispondono che contatteranno il loro avvocato, il dottor Sartorius. Scattano i primi dubbi sulla neutralità della WADA: l’Agenzia starebbe tentando di condizionare il laboratorio di Colonia, accreditato peraltro dalla stessa WADA, al fine di accontentare la Iaaf che vuole impedire l’esame del DNA di Schwazer in un circuito neutro, a Parma, ovvero in un laboratorio che non sia controllato dalla WADA. Come evitare allora che le analisi vengano svolte in Italia? L’idea è quella di procedere rivolgendosi al tribunale di Colonia ma sorge un problema. La sede della Iaaf è a Montecarlo e il Principato di Monaco non fa parte dell’Unione europea e perciò non può intercedere presso i giudici di Colonia. Dopo diverse ipotesi vagliate nel successivo febbrile scambio di e-mail fra i legali della Iaaf, Wada e Colonia per cercare una soluzione, si alza bandiera bianca.

Un primo, clamoroso, espediente emerge nell’e-mail del 9 febbraio.Ulrich Leimenstoll, avvocato della Iaaf di Colonia che si occupa del caso Schwazer insieme al collega Björn Gercke, scrive a Ross Wenzel: “Se sei d’accordo darei il testo della memoria al Dr. Sartorius, cosicché il laboratorio possa lavorare su una dichiarazione ‘armonizzata’ [con la nostra]”. In sostanza il laboratorio della città della Renania viene “imbeccato” allo scopo di sottoscrivere una linea quanto più possibile coincidente con quella della Iaaf. Se non è collusione questa. Il 10 febbraio Ross Wenzel contatta Thomas Capdevielle e cita i punti principali della memoria che sarà inviata al tribunale di Colonia. Per la Iaaf l’analisi della provetta deve avvenire nell’ambito sportivo e dunque per evitare l’entrata in scena del Reparto Investigazioni Scientifiche (Ris) dei carabinieri di Parma ecco il colpo di genio: fare riferimento al fatto che Schwazer sia stato un ex carabiniere e abbia gareggiato per l’Arma in diverse occasioni, insinuando dunque un presunto conflitto di interessi e la minaccia di eventuali manipolazioni dei campioni. Nel passaggio successivo della mail, tuttavia, la stessa Iaaf arriva a ritenere difficile la condanna di Schwazer per doping intenzionale in sede penale, in quanto “tutti gli esperti del caso concordano che non è possibile distinguere fra uso volontario e involontario” di certe sostanze.

Ma ce n’è per tutti. Il prossimo malcapitato finito sulla lista nera della Iaaf è il professor Donati. Ancora un botta e risposta fra Leimenstoll e Wenzel Ross: un altro motivo per allontanare l’incubo Ris di Parma è alludere al fatto che l’allenatore di Schwazer abbia uno stretto contatto con la polizia italiana definita uno “sponsor”, tanto che “la scritta ‘Carabinieri’ appare regolarmente sulla maglia dell’atleta”. Qualcosa scricchiola in casa Iaaf. Il tentativo di dimostrare una oscura connessione fra i carabinieri, Schwazer e Donati suona quasi disperato, tanto che il legale Huw Roberts sconsiglierà di seguire questa strategia. E infatti il passaggio in cui si fa riferimento al presunto legame fra l’ex coach Donati e i carabinieri verrà tolto dal testo della memoria presentato dalla Federazione per il ricorso presso la Corte d’Appello di Colonia. Non solo. L’avvocato Sergio Spagnolo (per la Iaaf di Milano) mette in guardia, in una mail del 14 febbraio, il nostro Ross Wenzel: se la Iaaf continua a fare ostruzionismo circa lo spostamento delle provette la magistratura, oltre che la stampa, potrebbe giudicare “negativamente questo tipo di approccio”, e concludere che “i sospetti di Schwazer possano essere in qualche modo confermati o che la Iaaf stia cercando di ‘nascondere qualcosa’”. Ross Wenzel risponde prontamente: “Invierò senz’altro la vostra e-mail alla Iaaf ma è escluso che la Federazione non faccia tutto quanto è in suo potere per evitare che i campioni non sigillati vengano consegnati al laboratorio dei carabinieri”. Poco dopo il consulente legale avverte Capdevielle: “Comincio a chiedermi se [gli avvocati italiani] siano dalla nostra parte…”.

Nel cast dell’ingarbugliata pièce fa la sua comparsa Luciano Barra, ex segretario della Fidal ed ex membro del Coni già noto alle cronache, come noto è il suo risentimento nei confronti di Schwazer e Donati. Nell’aprile 2016 Barra manda una lettera aperta al numero uno della Fidal Alfio Giomi implorandolo di non iscrivere l’atleta altoatesino alla Coppa del Mondo di Marcia che si sarebbe tenuta a Roma l’8 maggio successivo. In quell’occasione Schwazer vince la 50 chilometri con un tempo di 3 ore e 39 minuti qualificandosi per i Giochi di Rio. Un trionfo effimero, visto che a giugno verrà ancora sospeso dalla Iaaf dopo essere risultato positivo a un nuovo test antidoping. In una e-mail di Capdevielle del 14 febbraio indirizzata al suo interlocutore preferito, Ross Wenzel, si prospetta l’eventualità di inviare il testo della memoria presentata ai giudici di Colonia, guarda caso, a Barra. Il motivo? Non pervenuto, ma non è difficile intuirlo data la sua avversione per il duo Donati-Schwazer. Il 20 febbraio l’ennesimo, significativo, “carteggio” fra il consulente legale e Capdevielle: “Il laboratorio di Colonia sta cercando di restare neutrale, ma sarebbe utile se fosse disposto a sostenere in una certa misura la nostra posizione”, afferma il consulente svizzero. La replica di Capdevielle: “Non si rendono conto di essere parte della trama contro AS [Alex Schwazer, ndr] e delle potenziali conseguenze per loro? Hans [Geyer] ha probabilmente bisogno di ulteriori informazioni base”. E infine il cliffhanger. Scrive Ross Wenzel: “Credo di essere riuscito a convincerli”.

“L’antidoping e l’arroganza del potere”. L’ex allenatore di Schwazer Sandro Donati sulle e-mail hackerate dai russi, il plausibile complotto, l’impudenza della IAAF, le colpe dei media e i conti che non tornano. L'intervista di Sarah Franzosini del 7.07.2017 su salto.bz: 

Professor Donati, le e-mail hackerate dai russi di “Fancy Bear” che sembrano aver svelato il cosiddetto trappolone in cui è caduto il suo protetto, Alex Schwazer, danno nuova linfa alla vostra instancabile ricerca della verità, qual è stata la sua reazione quando ha letto il contenuto di questa corrispondenza?

«Mi piacerebbe innanzitutto capire quanto è stato difficile per i media reperire queste e-mail».

Non lo è stato affatto.

«Ecco, sono sicuro che i giornali che le hanno ricevute si siano autocensurati perché è piuttosto singolare che non siano state ancora pubblicate su larga scala. Ma ciò non mi stupisce».

Che intende?

«Il giornalismo sportivo è del tutto satellitare alle istituzioni sportive. Ricordo che la Gazzetta dello Sport fu invece la prima a dare la notizia della sentenza del TAS di Losanna che comminò a Schwazer 8 anni di squalifica, trattando quella sentenza come l’oro colato mentre sul Corriere della Sera, lo stesso giorno, venne pubblicato un articolo che quantomeno evidenziava i punti oscuri della vicenda ai quali la sentenza non aveva dato risposta. Il punto è che chi questa manipolazione l’ha attuata la difende, mentre le Istituzioni sportive che non l’hanno messa in pratica difendono la IAAF, per tutelare loro stessi e il sistema sportivo, e qui sta la perversione».

Cosa rappresentano queste e-mail in termini di strategia difensiva, a questo punto?

«Senza dubbio un contributo nuovo. Intanto mettono in evidenza questo affannoso assemblaggio delle forze che la IAAF ha attuato - probabilmente anche con un forte intervento della WADA - per poter fare pressione sul laboratorio di Colonia perché le provette con l’urina di Schwazer rimanessero dov’erano, e credo che questo genererà nei giudici una pessima impressione su tali organismi. È chiaro che se verrà fuori che c’è stata una manipolazione dei campioni, l’intero sistema antidoping andrà in crisi. Il punto è che chi questa manipolazione l’ha attuata la difende, mentre le Istituzioni sportive che non l’hanno messa in pratica difendono la IAAF, per tutelare loro stessi e il sistema sportivo, e qui sta la perversione. Quando gli stessi avvocati della IAAF riconoscono nelle email che con quelle prove a disposizione non è possibile dimostrare il doping volontario siamo già di fronte a un’ammissione che stride in maniera incredibile con quegli 8 anni di squalifica che sono stati dati a Schwazer. E poi c’è quel nome, che non è un nome qualunque»

Si riferisce a Luciano Barra, presumo. Ma che ruolo ha avuto lui in tutta questa storia?

«Barra è stato il segretario generale della Federazione di atletica negli anni ’70-’80, fino al 1987, quando venne sollevato dal suo incarico proprio in seguito alla mia denuncia riguardo la manipolazione della gara di salto in lungo di Giovanni Evangelisti nel campionato del mondo di atletica del 1987 di Roma. In quella circostanza la Federazione di atletica decise che bisognava, come dire, rimpinguare il bottino dei trofei inventandosi delle medaglie. Evangelisti (peraltro all’oscuro della trama) era un grande campione ma quel giorno non era nelle condizioni fisiche di offrire una prestazione di alto livello. La competizione venne quindi truccata, con i giudici che decisero la misura da assegnare a Evangelisti in modo che vincesse la medaglia di bronzo senza disturbare il primo posto, che fu conquistato dall’americano Carl Lewis, e il secondo, agguantato dal sovietico Robert Emmyan. Le due superpotenze, Stati Uniti e Unione Sovietica, dunque, non erano state toccate e l’Italia si era “accontentata” di occupare il terzo posto. Io denunciai e dimostrai l’avvenuta manipolazione della gara e ne nacque uno scandalo internazionale di gigantesche proporzioni. La Federazione internazionale fu costretta ad annullare il risultato, il Coni nominò una commissione d’inchiesta e Barra perse il suo incarico e quindi anche la sua posizione di potere all’interno della Federazione. Anche se è passato molto tempo da allora, è evidente dai fatti che questo signore nutre ancora risentimenti e motivi di rivalsa nei miei confronti»

Ritiene che l’ex segretario della Fidal sia stato un interlocutore abituale nella vicenda Schwazer?

«Sì, è chiaro dalla serie di atti ostili diretti a Schwazer che ha esplicitato dal settembre 2015 fino all’aprile 2016 e credo che la sua opinione sia stata tenuta in grande considerazione in determinati ambienti. Il suo nome nella e-mail, se non sarà smentito o spiegato adeguatamente, diventa inquietante perché, come detto, Barra si era speso molto per impedire in tutti i modi possibili il ritorno alle gare di Schwazer. All’inizio aveva parlato di un’operazione di marketing, successivamente, una volta fatto fare ad Alex un test di allenamento in cui era andato fortissimo, vestì i panni del tecnico e divulgò urbi et orbi alcuni fotogrammi per dimostrare che Schwazer non marciava ma correva, salvo poi essere smentito dai fatti, quando Alex tornò da dominatore nelle gare con una tecnica di marcia valutata dai giudici come perfetta. E poi ancora Barra è intervenuto il 28 aprile 2016 presso il presidente della Fidal supplicandolo di non mettere l’atleta in squadra per i campionati del mondo. Quali elementi a sua conoscenza gli consentivano di attuare una simile pressione?» 

Come commenta questa insinuazione, poi di fatto depennata dalle carte ufficiali, della sua presunta connessione con i carabinieri?

«È grottesco e gli stessi avvocati della IAAF hanno avuto poi il buonsenso di ometterla nella loro memoria indirizzata al giudice. Quanto all’altra insinuazione secondo la quale i Carabinieri sarebbero pronti ad aiutarlo in quanto ex carabiniere è piuttosto penosa e dimostra anche un’ignoranza crassa dei fatti. Ricordiamoci che Schwazer è stato immediatamente allontanato dall’Arma dopo la positività all’epo del 2012. Mentre altri atleti che hanno avuto problemi di doping, come per esempio il maratoneta Alberico Di Cecco, sono rimasti carabinieri. Se questa è una dimostrazione di favoritismo… L’impressione è quella di un’istituzione sportiva autoreferenziale, abituata a decidere per conto proprio con i cosiddetti organi di giustizia sportiva che in molti casi è assolutamente sommaria e che quando si deve misurare con la giustizia ordinaria mostra insofferenza, volontà di sottrarsi al giudizio, ritenendosi al di sopra o al di fuori di quel circuito».

Come se ne esce, allora?

«Credo che su questi organismi sia il caso di riflettere anche perché, muovendosi su scala internazionale, rischiano di porsi al di sopra degli ordinamenti giudiziari degli Stati. È indicativo che nel presentare le loro argomentazioni la IAAF abbia scritto qualcosa come “le provette sono di nostra proprietà, inoltre è il sistema sportivo che ha le competenze per fare le valutazioni del caso”, omettendo di precisare che quelle competenze se le sono auto-attribuite. Sarò ancora più chiaro: i laboratori antidoping, che sono 25 in tutto il mondo, hanno competenza specifica per ricercare le sostanze doping. Ma nel caso Schwazer si tratta di analizzare il DNA, che è un’altra cosa. E il DNA non è compreso nelle ricerche dei controlli antidoping, salvo rarissimi casi, perciò vantare la competenza esclusiva anche su questo aspetto è un’affermazione autoreferenziale che non ha alcun riscontro con la realtà. Al contrario, nei laboratori delle forze di polizia impegnati come sono nelle analisi relative a fatti criminali, l’esame del DNA è una consuetudine consolidata. È chiaro dunque che il gip di Bolzano si sia rivolto al Ris di Parma che è il principale laboratorio italiano per l’accertamento di fatti criminali. Tornerò prima o poi sul mio passato rapporto con la WADA, perché se pensano che sia finita qui si sbagliano di grosso».

Ma il laboratorio di Colonia non aveva nessuno motivo per opporsi all’esame del DNA delle provette in Italia, non è così?

«Non ne aveva. E di fatto inizialmente Colonia non si è espressa contro un eventuale prelevamento dei campioni. Ciò significa, a mio parere, che il laboratorio di Colonia è estraneo a qualsiasi manipolazione ma nel contempo è diventata sciaguratamente allarmante questa pressione eseguita dalla IAAF. Va anche precisato che il laboratorio non è in una posizione di autonomia finanziaria sia perché dipende dal lavoro che gli viene commissionato proprio dalle federazioni internazionali, sia perché è coordinato e finanziato dalla WADA. Quella di Schwazer è una storia emblematica che fa capire che l’antidoping non è ormai più un’attività da portare avanti per il senso dell’etica e delle regole, ma è potere, e a seconda di come questo potere viene gestito si favorisce l’uno o l’altro, e si ‘eliminano’ a piacimento gli avversari scomodi. In ogni caso, vede, io tornerò prima o poi sul mio passato rapporto con la WADA, perché se pensano che sia finita qui si sbagliano di grosso»

Cioè?

«Fornirò tutti i dettagli su ciò che io ho fatto in 13 anni per la WADA e sul fatto che improvvisamente l’Agenzia abbia preso le distanze da me e allora la storia la racconteremo tutta, ma adesso non è il momento perché dobbiamo portare avanti la nostra battaglia per la verità»

Come ha vissuto quest’ultimo anno?

«In modo terribile, essere vittime di un atto infame come questo è orrendo. Molti dimenticano che è la seconda volta che vengo coinvolto in uno “strano” caso di doping. Nel 1998 una mia atleta, Anna Maria Di Terlizzi, fu dichiarata positiva alla caffeina, positività che venne contraddetta nelle controanalisi. E fu smentita solo perché alcuni tecnici di laboratorio mi avvertirono di una possibile manomissione del campione di urina e mi dissero di nominare per la controanalisi un chimico che non si allontanasse mai dalle apparecchiature. Il risultato che emerse fu clamoroso: non c’era caffeina nel campione B dell’atleta».

Basta avere un po’ di memoria storica per collegare i fatti, dice.

«Esatto. Non è strano che l’unico caso, nella storia dell’antidoping, in cui ci si è trovati di fronte a un campione B risultato diverso dal campione A perché manipolato, abbia riguardato me? E che per la seconda volta, con l’oscuro caso Schwazer, capiti di nuovo proprio a me? Pensi che il caso di Anna Maria Di Terlizzi vorrebbero derubricarlo a un incidente, cercando di accreditare la tesi secondo la quale il medico durante il prelievo abbia involontariamente contaminato un campione. Guarda caso il campione di un’atleta allenata dalla persona che aveva denunciato la scellerata collaborazione tra il CONI, le Federazioni sportive e il professor Conconi. Questa è l’arroganza della gestione del potere da parte dell’antidoping. Mi viene da pensare che ormai da tempo o forse da sempre i media non facciano il loro lavoro di osservazione critica delle istituzioni».

Non ha più allenato nessuno dopo Schwazer, come aveva annunciato lo scorso anno?

«No, per me non è possibile mettere a repentaglio la carriera sportiva di un altro atleta per il fatto che io sono stato preso di mira. Ma è chiaro che se la vicenda Schwazer si concluderà con l’emersione della verità cambieranno molte cose nel sistema antidoping».

Per esempio?

«Farò capire a tutti gli atleti che devono tutelarsi, hanno diritto ad avere una terza provetta che poi potranno consegnare a un laboratorio di loro fiducia, perché ora è tutto nelle mani di questo potere dell’antidoping che evidentemente non dà alcuna garanzia assoluta di correttezza una volta prelevati i campioni. Quella della IAAF è la storia recente di un presidente e di un responsabile antidoping a libro paga dei russi e anche da questo punto di vista i media dello sport hanno fatto una figura penosa».

Per quale motivo?

«Perché hanno omesso di raccontare o hanno minimizzato la descrizione di questo sistema di corruttela e le sue conseguenze. Hanno disgiunto il caso Schwazer dallo scandalo dell’alta dirigenza della IAAF corrotta dai russi e allora mi chiedo, il problema sono i russi o le istituzioni corrotte? Questo è il punto di vista sul quale ho fatto ruotare tutta la mia vita, perché fin dall’inizio mi sono reso conto del marcio che c’era nel sistema. Ma anche di questo parlerò in futuro. Mi viene da pensare che ormai da tempo o forse da sempre i media non facciano il loro lavoro di osservazione critica delle istituzioni, e se questo cerca di farlo una singola persona succede che viene bersagliata e si tenta di distruggerla anche sul piano della credibilità, come dimostra la vicenda Schwazer. Ma hanno sottovalutato il fatto che io non avrei mollato la presa. Del resto avevo in mano tutti gli elementi chiave per essere certo che Alex non si era dopato, non ne aveva bisogno, perché è un fuoriclasse e perché era ben allenato. È uscito sempre pulito da quella miriade di controlli a sorpresa che gli hanno fatto da ottobre 2015 a giugno 2016; perché mai avrebbe preso micro-dosi di testosterone, ininfluenti ai fini della prestazione, solo durante le vacanze di Natale? Chiunque avrebbe dovuto capire dall’inizio che questa storia non reggeva. Alex per me non è stato una gallina dalle uova d’oro, è un ragazzo che mi ha chiesto aiuto e io gliel’ho fornito e continuerò a fornirglielo in futuro se ne avrà necessità».

Vede finalmente una possibilità di riscatto per Schwazer?

«Me lo auguro. Alex è un ragazzo meraviglioso che nel 2012 ha commesso un errore e questo gli rimane come responsabilità. Ma c’erano anche molte persone intorno a lui che sapevano e hanno fatto finta di non vedere, tant’è vero che a Bolzano è in corso un procedimento giudiziario in cui due medici sono imputati per favoreggiamento. Schwazer si è dopato in un periodo in cui era sotto cura con degli anti-depressivi e invece di preoccuparsi di capire le cause di questo suo disagio chi gli stava attorno ha continuato a vederlo soltanto come un produttore di risultati e medaglie. Ho scoperto poi, seguendolo come allenatore, che era stato allenato in maniera ridicola ed era peggiorato al punto da perdere ogni speranza. Nel momento in cui ho iniziato a seguire questo atleta ho capito che aveva un potenziale e delle doti fuori dal comune. Alex per me non è stato una gallina dalle uova d’oro, è un ragazzo che mi ha chiesto aiuto e io gliel’ho fornito e continuerò a fornirglielo in futuro se ne avrà necessità. Il colmo è che io stesso ho segnalato alla WADA i miei sospetti su di lui prima di Londra 2012 con due precise email che sono in grado di esibire in qualsiasi momento. E grazie a queste due mail è scattato il controllo che ha portato alla sua positività. Non bastava questa credenziale per ascoltare almeno un poco le mie parole quando, dopo l’ultimo scandalo, ho affermato con forza che era pulito e che in questa putrida storia si sarebbe dovuto scavare molto più a fondo?»

Io mi schiero con Alex. Schwazer ha avuto il coraggio di cadere e di risorgere con le proprie forze. Ecco perché non crederò mai alla sua nuova colpevolezza, scrive Susanna Tamaro il 15 luglio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Sono stata una praticante di atletica e l’atletica, fra tutti gli sport, è forse quello che seguo con maggiore passione, per questo la vicenda di Alex Schwazer mi ha colpito in modo particolare. Ricordo ancora le sue lacrime durante la conferenza stampa del 2012, mentre ammetteva pubblicamente la sua colpevolezza. Vedendole avevo pensato subito che quelle lacrime non avevano nulla di mediatico, c’era una vera disperazione in quei singhiozzi fuori controllo, la disperazione di chi si rende conto di aver tradito la parte più profonda e vera di se stesso. La parabola di Alex era quella di un ragazzo onestamente fragile. Aveva vinto l’oro olimpico a ventiquattro anni, con il conseguente peso di un’improvvisa fama mondiale. Non è facile reggere la fama, bisogna essere molto forti, molto distaccati, circondati da persone che ti amano e sono in grado di proteggerti, ed è molto difficile esserlo a ventiquattro anni. La tensione dei media, gli sponsor, la continua attesa di un risultato sempre eclatante possono provocare in una persona sensibile uno stato di enorme stress. E con lo stress cresce l’ansia. L’ansia di non farcela, di non essere all’altezza. Ed è su quest’ansia che facilmente si insinuano i cattivi consiglieri. Quattro anni fa Alex Schwazer dunque ha sbagliato per ragioni umanissime. Ammesso il suo errore, si è ritirato con dignità dalla scena pubblica. In quel silenzio, in quell’ombra deve aver sceso tutti i gradini della dannazione; toccato l’ultimo, ha preso la decisione che solo i grandi sono capaci di prendere: la sfida di risalire contando solo sulle proprie forze. Sono stata felice quando ho saputo che si allenava anonimamente per le strade di Roma, in solitaria, senza sponsor, carico solo del grande furore che alimenta le sfide con se stessi. E sono stata ancora più felice quando, ai Mondiali a squadra di marcia del 2016, ha vinto la 50 chilometri, ottenendo la qualificazione per i giochi olimpici di Rio.  In questi tempi proni al cinismo, al menefreghismo, alle continue scorciatoie dell’opportunismo, in questi tempi che sbeffeggiano ormai anche il minimo barlume di coscienza e che ritengono la nobiltà d’animo nient’altro che un antico orpello, la parabola di Alex Schwazer era un meraviglioso esempio di come una persona degna di questo nome potesse essere in grado di cadere e di risorgere facendo leva soltanto sulla sua forza d’animo. Per questa ragione, quando è stata sventolata sotto gli occhi avidi dei media quella anomala provetta giramondo — che vorrebbe ributtare l’atleta nell’arena del lerciume — ho avuto una reazione di assoluto rifiuto. Non per Schwazer, ma per il mondo sordidamente sinistro che sta cercando di fagocitarlo, un mondo senza scrupoli legato evidentemente a una complessità di interessi molto lontani dall’appassionato candore dell’atleta. E i media ci si sono tuffati con la potenza degli avvoltoi, il becco uncinato già pronto a dilaniare le carni. Avete visto? Anche questo non era altro che un bluff, fumo negli occhi per coprire tutto il marcio che c’era sotto. Vi eravate illusi che ci fossero le persone per bene? Ricredetevi! Non c’è altro che finzione sotto il sole! Grazie alle provette, grazie alle intercettazioni, tutti prima o poi sono costretti a mostrare il loro vero volto, che altro non è che quello della corruzione. Vite distrutte, carriere rovinate, con il conseguente dilagare ormai inarrestabile dell’impoverimento delle competenze in ogni campo. Nel nostro Paese, l’essere appassionati alla propria vocazione è una condizione estremamente rischiosa. Più energia uno mette nella propria attività infatti, meno ne mette negli intrallazzi, e quando si accorge di questa grave carenza è spesso troppo tardi perché, intanto, coloro che appassionati e talentuosi non sono hanno lavorato alacremente con un unico scopo, quello di fare cadere l’incauto distratto. Questa consorteria comprende in sé un’estesissima varietà che va dal mediocre vicino di scrivania fino alle grandi organizzazioni opache che ormai controllano capillarmente tutto ciò che succede nel mondo. Penso, tanto per citare qualche esempio recente, al vergognoso caso della virologa Ilaria Capua, accusata di essere una trafficante di virus per biechi motivi commerciali, vituperata, insultata sui giornali, per poi venire, dopo due lunghi anni, totalmente assolta. Naturalmente la lista di vittime è lunga e nei tempi a venire — in questo mondo che non sa che cosa sia la giustizia ma è sempre più giustizialista — diventerà lunghissima. I forni manzoniani mediatici forniranno sempre nuovo e più attraente materiale da gettare in pasto agli affamati cultori del disgusto. Perché Alex avrebbe dovuto fare una cosa così idiota? Personalmente non crederò alla nuova colpevolezza di Schwazer neanche se mi si sventolasse sotto il naso un ettolitro di sangue in provetta sfavillante di testosterone. Per quale ragione una persona come lui, che avuto il coraggio di cadere e di risorgere, avrebbe dovuto fare una cosa così totalmente idiota? So che ormai è una cosa piuttosto fastidiosa da dire, ma esiste una complessità della persona e dunque, se vogliamo usare una parola grossa, dell’anima, che non è piegabile all’onnipotente forza del rendiconto, della doppiezza, della manipolazione. Da questa complessità nascono la poesia, la letteratura, l’arte. Da questa stessa complessità nascono gli eroi. E gli atleti — quando sono tali — appartengono nel nostro immaginario proprio a questa categoria. Di solito non twitto, se non con i miei canarini, ma per gli appassionati del genere sono pronta a lanciare un hashtag: #IostoconAlex.

Atletica e doping, quelle telefonate per fermare Schwazer. "Lasci vincere i cinesi". Verso Rio 2016. Prima delle gare, pressioni sul marciatore poi sospeso. Sandro Donati registrò tutto: "Era un giudice vicino ai Damilano". La procura di Roma ha aperto un fascicolo, scrive Attilio Bolzoni il 27 luglio 2016 su "La Repubblica". I Misteri del "caso Schwazer" non si inseguono solo lungo i tortuosi percorsi che portano una provetta nei laboratori di Colonia. Alla vigilia delle Olimpiadi di Riosi scopre che qualcuno ha tentato di "aggiustare" due gare molto importanti, la Coppa del Mondo di Roma dell'8 maggio e il Gran Premio di La Coruna di venti giorni dopo. Quel qualcuno è un giudice internazionale di marcia. Le paure denunciate due settimane fa dal maestro dello sport Sandro Donati ("Sono minacciato, temo per me e anche per la mia famiglia") intorno alla nuova e assai sospetta "positività" di Alex Schwazer e alle manovre di "consorterie criminali " legate ad alcuni dirigenti della Federazione Internazionale di Atletica, prendono forma in alcune telefonate che sono state segnalate all'autorità giudiziaria e alla commissione parlamentare antimafia. Sono due conversazioni in particolare, ricevute da Donati e nelle quali il suo interlocutore - un personaggio molto noto nel mondo dello sport - lo "consigliava" di tenere a freno il suo atleta nelle competizioni dove sarebbe ricomparso dopo la lunga squalifica per il doping all'Epo del 2012. La prima è del 7 maggio scorso, a poche ore dalla Coppa del mondo di marcia di Roma sui 50 chilometri. Sono le 6,05 del mattino. Donati sta dormendo, lo squillo del telefono lo sveglia. Sente la voce di un giudice internazionale di marcia "molto vicino a Sandro Damilano". L'uomo si scusa per l'ora, parla della serata precedente passata "con tutte le vecchie glorie" poi gli sussurra: "La prego, glielo dica (ad Alex Schwazer, ndr) ancora una volta fino a prima della gara, possibilmente lasci vincere Tallent, mi capisce?". Jared Tallent è il marciatore australiano che appena un paio di settimane prima - il 28 aprile, giorno della fine della squalifica di Schwazer, aveva dichiarato: "Lui è la vergogna d'Italia, ora rientra lui e poi i russi: così è come ridere in faccia agli atleti puliti". Il giorno dopo la telefonata mattutina - e dopo 3 anni e 9 mesi di squalifica - Alex Schwazer trionfa alle Terme di Caracalla. Seconda prestazione mondiale stagionale con 3h39'00, dietro di lui Tallent a più di tre minuti e mezzo. La seconda telefonata ricevuta da Sandro Donati è del 23 maggio, cinque giorni prima della gara di La Coruna sui 20 chilometri. È sempre lo stesso giudice internazionale di marcia che richiama l'allenatore di Schwazer. Questa volta gli suggerisce di non rispondere agli attacchi di alcuni atleti, "e di non andare a cercare disgrazie con i due cinesi che sono da 1 ora e 17 minuti...". A La Coruna il marciatore altoatesino arriverà secondo dietro il cinese Whang Zhen. Avvertimenti e pressioni. C'era molta agitazione intorno al rientro alle gare di Schwazer e ce n'è ancora di più oggi dopo la scoperta - comunicata solo il 21 giugno - di una nuova positività a "lievi tracce di testosterone". Un campione di urina partito il 1° gennaio 2016 da Racines - a pochi chilometri da Vipiteno, dove l'atleta abita - e arrivato 26 ore dopo in un laboratorio di Colonia. Un itinerario fantasma della provetta, una documentazione approssimativa, un ritardo estremo nella notifica del risultato. E una difesa incomprensibilmente negata ad oltranza dalla Federazione internazionale di atletica. Alex Schwazer e i suoi avvocati non hanno mai potuto discolparsi davanti ai giudici, fornire controprove, rappresentare le proprie ragioni. Lo faranno soltanto il 4 agosto prossimo a Rio, luogo e data imposti dalla stessa Federazione Internazionale di Atletica che si è sottratta all'udienza che si sarebbe dovuta svolgere a Losanna proprio oggi. Un processo senza processo. Un vero intrigo, per i tempi e le modalità di esecuzione. Che ha convinto la presidente della commissione antimafia Rosi Bindi a convocare il 14 luglio scorso Sandro Donati a Palazzo San Macuto - audizione integralmente secretata - e che ha portato lo stesso allenatore di Schwazer a presentarsi qualche ora dopo nelle stanze del procuratore capo Giuseppe Pignatone e del suo aggiunto Lucia Lotti. Aperto un fascicolo. Ma non sono soltanto quelle due telefonate a rendere maleodorante questa vicenda di sport che si presenta ogni giorno di più come una storia di malaffare, incrocio fra interessi economici e criminali tenuti insieme da una piccola grande Cupola di burocrati e faccendieri. È lo spaccato di un mondo che alla vigilia delle Olimpiadi di Rio vi racconterà Repubblica in un documentario dal titolo Operazione Schwazer, le trame dei signori del doping, 20 minuti che ricostruiscono tutte le stranezze del controllo di Capodanno effettuato a Racines, il fondo melmoso dove si muovono alcuni personaggi dell'atletica italiana, i clamorosi casi di corruzione che coinvolgono i loro amici che erano ai vertici della federazione internazionale. E poi medici "supervisori" per l'antidoping sotto processo per avere favorito il doping, data-base con i nomi di tutti quelli in fila alla farmacia proibita, clan familiari dove spudoratamente si ritrovano controllori e controllati. Maurizio Damilano, presidente della commissione marcia della Iaaf. Sandro Damilano, allenatore della nazionale cinese. Due fratelli.

Atletica, caso Schwazer; Donati: "Dal mondo dello sport un silenzio assordante". L'allenatore del marciatore altoatesino è stato ascoltato presso la Commissione Antimafia della Camera. Il precedente: "Diciannove anni fa seguivo una ostacolista pugliese, Annamaria Di Terlizzi, e fu manipolata la sua urina. Stavolta, probabilmente, l'hanno fatta in maniera un po' più professionale". Tas: "L'atleta ha il 20% di chance di andare a Rio", scrive "La Repubblica" il 14 luglio 2016. Sandro Donati va all'attacco. Il tecnico di Alex Schwazer, coinvolto nel noto caso di doping e sospeso dalla Federazione internazionale di atletica leggera, è stato ascoltato presso la Commissione Antimafia della Camera dei Deputati. Al termine le sue parole sono dure: "Il sostegno è venuto dalle procure della Repubblica e dalla Commissione parlamentare antimafia, ma sul caso Schwazer dalle istituzioni sportive ho sentito un silenzio assordante o ironie di pessimo gusto. Schwazer è stato descritto come un bipolare, un uomo dalla doppia personalità. Io lo conosco da oltre un anno e chi lo frequenta lo trova un ragazzo semplice, coerente, che non ha nulla di strano, eppure è stato creato un quadretto: 'Se lo ha fatto in passato lo avrà fatto di nuovo'. In questo modo si cerca di coprire l'enormità di questo controllo antidoping assurdo, con una tempistica che da sola rappresenta la firma dell'agguato". Donati ha poi replicato a chi gli chiedeva perché le istituzioni sportive italiane non difendano Schwazer: "Perché non vogliono mettersi contro la Iaaf -ha spiegato- una istituzione internazionale. Mi sono rivolto pubblicamente a Sebastian Coe affinché dia una spallata per il cambiamento: non può lasciare all'interno gente compromessa, gente che ha preso dei soldi per nascondere i casi di doping. Io con questa schifezza non ho niente a che vedere e invece mi ritrovo mail intimidatorie: non mi rendevo conto che allenare Schwazer, un fenomeno assoluto, farlo andare così forte senza doping sarebbe diventata una esperienza esplosiva, destabilizzante. Una iniziativa rivoluzionaria che è stata stroncata". L'iniziativa parlamentare nasce da un vasto gruppo di deputati e senatori che vogliono appurare "la veridicità delle affermazioni rese a mezzo stampa dal professor Donati circa la sequela di minacce, intimidazioni e diffamazioni ricevute telefonicamente, via mail e attraverso alcuni media, prima e dopo la gara di Schwazer del 9 maggio scorso, e successivamente all'avvio della segnalazione alla Wada". In merito anche i Ros hanno aperto un'indagine. "Credo ci sia un interesse di più procure sull'argomento - ha aggiunto Donati - Tutti hanno ormai capito il fatto inusitato su una positività a un controllo fatto a gennaio, una sorta di bomba a orologeria riscossa a giugno. Tutto ciò è assurdo. Per me è il secondo agguato perché ne ho subito un altro 19 anni fa quando seguivo una ostacolista pugliese, Annamaria Di Terlizzi, e fu manipolata la sua urina. Stavolta, probabilmente, l'hanno fatta in maniera un po' più professionale". Schwazer spera ancora di partecipare all'Olimpiade di Rio ma è una corsa contro il tempo vista la sospensione inflittagli dalla Iaaf. "Abbiamo incaricato un avvocato svizzero per il ricorso al Tas di Losanna, ci ritroveremo con un dossier nostro che arriva stamattina - ha concluso Donati - e verrà esaminato tra oggi e domani da qualcuno in fretta e furia. Quello sarà il giudizio sul quale si deciderà la sorte di un grande campione". "Il professore Donati ci ha raccontato il lavoro fatto in questi anni ed è emerso un quadro abbastanza imbarazzante. Ci ha parlato molto marginalmente della vicenda Schwazer: il punto non è la nuova squalifica ma il modo in cui questa vicenda si inserisce in un contesto assai opaco, ambiguo, vischioso. Di questo è bene farsi carico". Queste le parole del vicepresidente della Commissione Antimafia, Claudio Fava, al termine dell'audizione. "Ci sono molti elementi di opacità in questa vicenda - ha aggiunto Fava - Non solo in Italia. Curvature strane che sfuggono alla nostra comprensione. Oltretutto ci sembra che la vicenda Schwazer possa essere un pedaggio che sta pagando Donati per il lavoro e le denunce fatte nel tempo. Oggi abbiamo ascoltato Alessandro Donati, ora parleremo della vicenda doping in ufficio di presidenza e ragioneremo su quanto può essere fatto - aggiunge Fava - Penso ci siano funzioni e cariche che possono occuparsene: dal ministro della Giustizia a quello della Cultura e delle attività sportive, alla Sanità. E' una questione trasversale che attraversa più campi di interesse, funzioni e responsabilità: occorre uno sguardo più attento e vigile". "Non sembra ci sia criminalità organizzata dietro tutto questo - ha aggiunto Fava - Sembra ci siano invece poteri forti, interessi e menzogne nel modo con cui le inchieste di doping vengono usate per premiare o per colpire: questo è un sospetto più che legittimo e sul quale occorre muoversi sul piano istituzionale. Il problema del doping è un tema che pesa come una cappa, che ricatta, costringe, occlude e condiziona il mondo dello sport, non soltanto nel nostro Paese. Ci sono organismi internazionali che possono farsene carico, ma per quanto riguarda il Coni, la Procura antidoping e la vicenda degli atleti italiani c'è una responsabilità e un dovere di vigilanza". "Io penso che per Schwazer ci siano poche possibilità che il Tas decida di bloccare la sospensione della Iaaf e lo faccia gareggiare a Rio. Se devo dare una percentuale direi non più del 20%". Lo ha dichiarato l'avvocato Guido Valori, membro del Tas. "Il giudice - spiega Valori - dovrà decidere tra due pesi differenti. Da una parte c'è una positività che ha un peso enorme e dall'altra ci sono una serie di irregolarità procedurali. Penso sia difficile che il Tas ritenga che i vizi di procedura abbiano invalidato il controllo risultato positivo, onestamente è una ricostruzione difficile da fare anche per il poco tempo a disposizione. La difesa ha qualche punto a suo favore e tra questi c'è sicuramente il mancato rispetto dell'anonimato ma mi sembrano pochi per far gareggiare un atleta positivo e che oltretutto ha anche grandi possibilità di vittoria. C'è poi il forte rischio di dovergli togliere la medaglia. Per essere chiari per bloccare la sospensiva decisa dalla Iaaf, Schwazer dovrebbe avere buone possibilità di vincere poi il processo che ci sarà dopo l'estate" conclude il membro Tas. 

Caso Schwazer, quelle strane provette e il 5 luglio è vicino. In cinque punti, tutti i misteri sul caso in attesa delle risposte della Iaaf. Fra 7 giorni le controanalisi, l'11 luglio scade il termine di iscrizione per i Giochi, scrive Nando Sanvito su "Sport Mediaset" il 28 Giugno 2016. Quello che si sta muovendo attorno alla Procura di Bolzano comincia a dare qualche elemento in più sulla vicenda Schwazer e i dubbi invece di scemare purtroppo aumentano. Riepiloghiamo alcuni di questi elementi.

1 - Un prelievo di urina da parte di due Doping Control Officers tedeschi il 1° gennaio finito alle 8.35 di mattina a Calice di Racines finisce con le provette portate a destinazione quando il laboratorio antidoping di Colonia è chiuso per festività e dunque rimangono nell'ufficio degli ispettori dalle ore 15 fino alle 6 di mattina del giorno seguente. Che succede in quelle 15 ore? Come mai, inoltre, contrariamente alla prassi quel giorno Schwazer è l'unico atleta controllato?

2 - Correttamente viene indicato il nome del luogo del prelievo sul formulario, ma perché tale dato arriva al laboratorio di Colonia? Come si può garantire l’anonimato in queste condizioni, dato che a Racines abita un solo atleta? 

3 - La negatività del test viene pubblicizzata sul sistema Adams e dopo due ulteriori prelievi (24 gennaio e 1 febbraio) il profilo ormonale è completato, eppure per un paio di mesi nulla si muove e solo il 14 aprile arriva l’ordine al laboratorio di Colonia di effettuare il test IRMS. Il 13 maggio viene comunicato alla IAAF che il test ha dato esito positivo stabilendo la presenza di 2 metaboliti del testosterone sintetico. Perché la IAAF aspetta fino al 21 giugno a dare la notizia della positività e perché rifiuta di anticipare le controanalisi previste per il 5 luglio sapendo che l’11 si chiudono le iscrizioni per le Olimpiadi? 

4 - Alla obiezione che un paio di metaboliti del testosterone sintetico non bastano a giustificare un’attività dopante l'accusa potrebbe rispondere tirando in ballo le cosiddette microdosi, ma allora perché negli altri 14 test antidoping non c'è traccia della sostanza? 

5 - Si può escludere che un set di provette possa essere preventivamente contaminato di metaboliti del testosterone sintetico se la stessa Azienda che li produce (Berlinger) in un comunicato del mese scorso riconosce (a proposito della denuncia di Grigory Rodchenkov della Rusada sulla manipolazione di provette alle Olimpiadi di Sochi) che “il caso è la prova di un atto criminale condotto da professionisti, pianificato dietro le quinte, con un coinvolgimento dei Servizi Segreti Russi, che ha implicazioni non solo sulle provette, ma anche sull'intera catena di custodia e procedure collegate”? 

Vedremo se la risposta della IAAF alla memoria difensiva dei legali di Schwazer darà risposte a queste domande. La beffa finale sarebbero delle scuse per un test antidoping invalido per vizio procedurale, riconosciuto tale quando i termini di iscrizione alle Olimpiadi saranno già scaduti. Alla buona fede della IAAF non crederebbe nessuno e dopo essere stata decapitata dei vertici che mercanteggiavano sull’antidoping non potrebbe sopportare un altro colpo mortale alla sua credibilità.

Caso Schwazer: la Iaaf, i sospetti e i chiarimenti attesi. Procedure insolite e un accanimento anomalo sul marciatore altoatesino, scrive Nando Sanvito su "Sport Mediaset" il 24 Giugno 2016. Schierati e divisi: i media italiani -a volte anche testate dello stesso gruppo editoriale- hanno posizioni molto diverse sul caso Schwazer. C'è chi ipotizza un disturbo bipolare della personalità del marciatore altoatesino, dando per scontata la trasparenza della procedura antidoping utilizzata nei suoi confronti. C’è chi invece ha seri dubbi su quest’ultima. Se infatti, come trapela dalla Iaaf, la Federazione internazionale di atletica, il ricontrollo della provetta incriminata di urina è avvenuto per un automatismo del sistema informatico antidoping, perché allora -si chiedono costoro- a differenza di ogni altro campione d’urina testato in pochi minuti al momento del prelievo quello del marciatore viene invece lavorato per tre giorni? E perché viene di nuovo analizzato quattro mesi dopo senza la presenza di un prelievo fatto in competizione da incrociare? Ad aprile infatti Schwazer non era ancora tornato a gareggiare. Dunque il minimo che si può dire è che la procedura sia stata oggettivamente anomala. Tanto accanimento poi autorizza sospetti se la Iaaf è la stessa che delega il controllo antidoping della gara dell'altoatesino a Roma proprio al medico indagato dalla Procura di Bolzano per il caso Schwazer. Insomma sia in caso di innocenza che di colpevolezza la Iaaf deve comunque spiegare perché Alex sia stato trattato in modo anomalo rispetto alla procedura standard. Senza chiarimenti ogni sospetto è autorizzato, specie per una Iaaf già pesantemente screditata in questi mesi da corruzioni e scandali anche sull'antidoping.

La conferenza stampa, scrive Ezio Azzollini il 22 giugno 2016 su “Io gioco pulito. Il fatto Quotidiano”. La Conferenza Stampa di Alex Schwazer e del suo avvocato e di Sandro Donati in merito al nuovo scandalo legato al doping che ha coinvolto il marciatore italiano.

PER IL LEGALE NON C’E’ COINVOLGIMENTO – Ecco le parole dell’Avvocato di Alex Schwazer: “Notizia incredibile, impossibile, devastante, che non possiamo accettare. Alex con questa vicenda non ha nulla a che vedere, nessuna responsabilità. Noi adesso cercheremo di acclarare la verità anche per un interesse di giustizia. Per noi inconcepibile tutta la vicenda, strano che una prova che a gennaio era negativa, 5 giorni dopo che Alex vince a Roma, venga riaperta e classificata positiva a sostanze anabolizzanti che nulla hanno a che vedere con uno sport di resistenza. C’era una pressione enorme, a causa di chi ostacolava il rientro di Alex alle competizioni: vicenda brutta e sporca, faremo una denuncia penale contro ignoti. Alex spera ancora e confida di poter andare alle olimpiadi, e Donati spiegherà quale è stato negli ultimi due anni il percorso olimpico trasparente. Alex ha segnalato alla Wada di essere disponibile ai controlli 24 ore su 24, e i controlli sono stati tantissimi. Vedere a 4 mesi dal 1 gennaio, dopo un controllo negativo, vedersi confutato un test positivo agli anabolizzanti ci lascia furiosi. Alex ha fatto un percorso esemplare, non può accettare di essere rimesso in discussione. Combatteremo con tutte le nostre forze. Ha sbagliato Alex, ma ha fatto un percorso di umiltà, di riabilitazione, non se lo merita, non pensavo che ci fossero tali prove di cattiveria umana.

LE DICHIARAZIONI DI SCHWAZER – “Sarò sintetico per non essere accusato di nuovo di fare teatro. Sono di nuovo qua a metterci la faccia per rispetto a chi mi è stato vicino. Ma stavolta non devo scusarmi perchè non ho fatto nessun errore. Da un anno e mezzo ho fatto il contrario dello sbagliare, allenandomi con Donati, per fare l’impossibile per dimostrare che il mio ritorno è pulito. Oggi non ci sarà nessuna scusa perchè non c’è nessun errore. Informato ieri di questa positività, è un incubo per me perchè è la peggiore cosa che poteva succedere, ma posso giurare che si andrà in fondo, perchè ho investito troppo in questo ritorno. So che molti non mi volevano alle Olimpiadi, così come non volevano che vincessi a Roma. Io so benissimo che un atleta già trovato positivo ha poca credibilità, so che per qualcuno le mie parole lasciano il tempo che trovano, ma a fianco a me c’è Donati, che ha impegnato una vita contro il doping, io spero che ci pensiate due volte prima di attaccare lui e altre persone che mi sono state di fianco.

LE PAROLE DI SANDRO DONATI – “Considerando il passato, Alex è l’identikit perfetto di chi disillude, tradisce, si dopa all’insaputa dell’allenatore. Quale pretesto migliore avrei avuto per lasciarlo adesso, per chiamarmene fuori? Ma io non lo farò mai. Con Alex abbiamo intrapreso un progetto unico al mondo. Abbiamo messo a disposizione delle istituzioni sportive più di trenta controlli presso la sanità pubblica, non abbiamo mai ricevuto risposta. La mancata risposta non è una volontà di mantenere l’ambiente pulito, ma una provocazione. Mi sono reso conto che l’atleta positivo per doping diventa la preda su cui il sistema sportivo può dimostrare la propria durezza e inflessibilità. Peccato che avvenga solo sui soggetti più deboli. Passava il tempo e mi rendevo conto che attiravo su Alex l’odio che hanno nei miei confronti per le mie battaglie. Ci vuole un bel fegato per far passare Alex come un soggetto anabolizzato, che avrebbe un braccio quanto due delle cosce di Schwazer. Se quell’urina avesse destato sospetti, avrebbero provveduto a fare immediatamente quello che invece hanno fatto mesi dopo. Forse aveva a che vedere con il risultato di Roma. Non serve che vi dica quanti dirigenti della Iaaf in passato sono stati sospesi per faccende legate alla compravendita di positività e negatività. Olimpiade? I tempi della giustizia sportiva appaiono rapidi rispetto alla giustizia ordinaria, ma sono tremendamente lenti per una preparazione che già sarà condizionata in maniera pesante. La settimana che ha preceduto i campionati del mondo è stata un calvario, hanno tentato di dimostrare che anzichè allenarsi Alex avesse sostenuto una gara, cosa contraria alla squalifica. E’ stata una settimana passata nell’angoscia che venisse fermato, anzi di vedersi reiterare la squalifica, una specie di profezia”.

I lati oscuri, scrive Andrea Corti il 24 giugno 2016 su “Io gioco pulito. Il fatto Quotidiano”. Sono passate poco più di 24 ore dalla deflagrazione del caso riguardante Alex Schwazer: il marciatore altoatesino, rientrato trionfalmente alle gare a maggio dopo la squalifica per 3 anni e 9 mesi in seguito a una positività all’Epo nel 2012, non ha superato un controllo antidoping effettuato lo scorso 1 gennaio in seguito ad una nuova analisi di un campione che era stato inizialmente classificato come negativo. L’allenatore di Schwazer, da più di un anno a questa parte, è il Professor Alessandro Donati, il guru dell’antidoping italiano, che ha accettato di fare da garante nel percorso di Alex verso l’obiettivo dichiarato, quelle Olimpiadi di Rio per le quali un mese fa il marciatore aveva strappato il pass. Donati ha spiegato la sua opinione su questa spinosa vicenda a ‘Io gioco pulito’: “Il lato più oscuro è senza dubbio la tempistica, e la decisione di rianalizzare il campione. E’ un qualcosa di incredibile, perché il primo campione è stato analizzato dal più importante laboratorio antidoping, quello di Colonia. Ho studiato il report e il campione è stato sotto analisi per tre giorni: non parliamo dunque di un’analisi superficiale. Quel campione è stato giudicato negativo, al punto che la Iaaf lo ha inserito tra i vari documenti che le hanno poi permesso di dare l’ok al rientro di Schwazer alla Federatletica. A questo punto è subentrata una volontà esterna, che ha fatto riaprire questo campione e andare a cercare il pelo nell’uovo, ammesso che ci fosse visto che ciò che è emerso è un valore di testosterone bassissimo, di pochissimo superiore alla norma. Bisognerà chiarire anche altri lati oscuri, come anche la tempistica della fine delle analisi, avvenuta cinque giorni dopo la vittoria di Alex a Roma. Poi mi chiedo: perché questa analisi non è stata resa nota? Perché Fidal e federazione internazionale di atletica non sono state informate? Perché l’atleta continuava a gareggiare? Non posso poi parlare di altri lati oscuri, che saranno inseriti in una denuncia penale, per ora contro ignoti”. Poi Donati ha raccontato un retroscena relativo alle due gare a cui Schwazer ha partecipato nel mese di maggio, che gli hanno consentito di ottenere la qualificazione per le Olimpiadi: “Personaggi molto importanti con un ruolo importante mi hanno suggerito che sarebbe stato un bene che Schwazer a Roma avesse fatto vincere Tallent. Poi a La Coruna mi è stato detto che sarebbe stato bene non seguire l’attacco di due atleti cinesi. La persona che mi ha dato questi consigli la conosco: può darsi che abbia captato il clima dell’ambiente e giudicato inopportuno e pericoloso battere Tallent e il cinese. Nella peggiore delle ipotesi, invece, questa persona è stato un messaggero degli interessi di altri. Si tratta di una persona interna all’organizzazione italiana, ma tutti i particolari verranno inseriti nella denuncia. Interessi legati al mondo delle scommesse? Non credo nella maniera più assoluta. Ma un atleta come Schwazer, con un potenziale atletico enorme che ne farebbe l’uomo da battere a Rio e non solo nei 50 km, che subentra quando nessuno se lo aspettava sposta degli equilibri. E’ logico che ci siano interessi economici: dietro gli atleti ci sono contratti, allenatori e interi Paesi che investono dei soldi”. Ma Donati non vuole parlare di complotto: “Come carattere non faccio riferimento a complotti, anche quando subii un’imboscata ad Anna Maria Di Terlizzi nel 1997, quando l’urina di questa atleta fu manipolata in un controllo antidoping. Anche in questo caso non parlo di complotto, ma di una successione di avvenimenti inquietanti. Con queste tempistiche ci ritroviamo alla vigilia delle Olimpiadi con un atleta bombardato psicologicamente. Sono assolutamente convinto che Alex non sia colpevole: perché ce lo avevo sempre davanti e perché non aveva assolutamente nessun interesse ad assumere un dosaggio così ridicolo e minimo di un anabolizzante. Se si sceglie di prenderlo lo si fa in quantità decisamente superiori. Questo dosaggio minimo può derivare da varie situazioni. Non capisco perché ci sia stata questa grande attenzione, questo sforzo fatto all’esterno del laboratorio di Colonia. Dico che Colonia non ha lavorato da sola, c’è stata una ‘manina’, una volontà esterna che ha chiesto al laboratorio tedesco di rianalizzare un campione. Non so nemmeno se a Colonia sapessero che si trattativa di un campione precedentemente classificato come negativo”. Al termine dei mondiali di 50 km di marcia vinti da Schwazer a Roma l’8 maggio scorso Donati si era sfogato con i giornalisti presenti a Caracalla, assicurando di essere stato protagonista con l’atleta di una vera lotta contro l’odio: “Non parlavo a vanvera. Non si tratta di odio personale, ma di contrapposizione di interessi. Io da nostalgico vorrei delle istituzioni sportive che difendano la correttezza e le regole e che non facessero solo finta. D’altra parte si desidera che non venga disturbato il manovratore. E’ un odio che non ha nulla a che vedere con l’emotività di noi esseri umani”. Infine Donati ha voluto evidenziare un qualcosa che non si aspettava: “Con sorpresa ho notato che dei giornalisti che in passato hanno attaccato me e Schwazer anche pesantemente e in maniera cattiva hanno scritto manifestando la loro perplessità di fronte alla positività di Alex. Ciò mi ha fatto enormemente piacere e dimostra come in questa vicenda ci siano tanti, troppi, lati oscuri”.

Atletica, doping: Donati, un uomo contro tra polemiche e molti nemici. Sullo sfondo del caso Schwazer i rapporti tempestosi con la Iaaf e la Wada. Ieri il tecnico italiano ha puntato l'indice contro la mancanza di credibilità della Federatletica internazionale, scrive il 23 giugno 2016 “La Gazzetta dello Sport”. Lo scontro fra Sandro Donati, la Wada e la Iaaf non nasce ora con la positività di Alex Schwazer al testosterone. Viene da lontano. Ieri, il tecnico italiano ha puntato l'indice contro la mancanza di credibilità della Federatletica internazionale, citando il caso dell'ex presidente Lamine Diack e della sua famiglia, impegnati nella "truffa e compravendita di positività, insieme con l'ex capo dell'antidoping", alludendo a Gabriel Dollè, coinvolto anche lui nello scandalo russo su cui indaga anche la giustizia francese, mentre altri tre funzionari Iaaf sono stati di recente sospesi per aver avuto un ruolo nella corruzione. Sulla Wada, ha invece sottolineato i "suoi meriti per molte iniziative", ricordando però l'articolo del New York Times che ha rivelato una denuncia rivolta all'Agenzia Mondiale Antidoping da una discobola russa, Darya Poshchalnikova, medaglia d'argento a Londra, che fu lasciata cadere. Prima dello scoppio dello scandalo dovuto all'inchiesta giornalistica della tv tedesca ARD. Un'inchiesta, quella guidata dal giornalista Hajo Seppelt, che è stata la madre della vera e propria rivoluzione antidoping di questi mesi, con le istituzioni sportive costrette a dare risposte finalmente categoriche al problema, fino alla clamorosa esclusione dell'atletica russa, confermata negli ultimi giorni, dall'Olimpiade di Rio de Janeiro. Ma dove tutto è cominciato? Non va dimenticato che le denunce di Donati non si sono concentrate soltanto sull'Italia dai tempi del salto allungato di Evangelisti e del doping degli anni '80, ma hanno guardato anche all'estero, ai tempi in cui la Federatletica internazionale era diretta da Primo Nebiolo. Più recentemente, nei suoi rapporti con la Iaaf, è chiaro che l'inchiesta di Bolzano ha avuto un ruolo importante. La federazione internazionale, sin dal primo momento successivo all'epo di Schwazer, è sempre stata solidale con il suo medico Giuseppe Fischetto, finito sotto processo per favoreggiamento nell'inchiesta condotta dal pm Giancarlo Bramante. Un processo in cui Donati è stato citato come teste dell'accusa e della stessa Wada, costituitasi parte civile. Fischetto si è autosospeso, all'inizio dell'inchiesta giudiziaria, da medico della Fidal, ma ha continuato a esercitare il suo ruolo di delegato antidoping in grandi manifestazioni internazionali, Mondiali a squadre di marcia di Roma compresa, senza però far parte della struttura di intelligence che ha lavorato in queste ultime settimane su alcuni casa scottanti, e sull'analisi bis del campione di Alex Schwazer, che ha portato alla nuova positività. Diverso è il discorso che riguarda la Wada. Sandro Donati ha collaborato con l'agenzia mondiale antidoping per anni con una numerosa serie di lavori che sono tuttora rintracciabili sul sito ufficiale. Ma negli ultimi mesi si è acceso uno scontro sulla sua qualifica di "consulente", negata dal nuovo direttore generale Olivier Niggli, che ha sostituito proprio in questi giorni nella carica David Howman. Sulla vicenda si è trovata poi una composizione con un comunicato condiviso. Ma che non ha riempito la distanza fra Donati e la "nuova" Wada, che, in particolare, non ha gradito l'impegno del tecnico a fianco di Schwazer, accusato, in maniera neanche troppo nascosta, di non aver detto tutta la verità sui suoi rapporti con Michele Ferrari. La stessa Wada, insieme con la Iaaf, si è poi opposta allo sconto di pena per Schwazer in base alla sua collaborazione. Un no che ha lasciato quindi la squalifica intatta fino al 29 aprile scorso. Prima che il caso testosterone riaprisse per l'ennesima volta la storia.

Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera”. «Il laboratorio di Colonia ha lavorato bene. Non contestiamo il suo operato. E non ricorriamo alla fantapolitica: non c' è nessun complotto, nessuno ha messo questa o quella polverina nelle bevande o nel cibo di Alex per incastrarlo. La sua positività all' antidoping è il frutto di un accanimento mirato sui campioni biologici che ha deformato il risultato delle analisi. L' obiettivo era colpire lui per colpire me. Ci sono dei mandanti. Lo dimostreremo». A 48 ore dall' esplosione del caso Schwazer, Sandro Donati tiene fede alla promessa e resta a fianco del suo atleta in Alto Adige: «Alex è provato ma vivo. Abbiamo parlato a lungo. Adesso è a fare una sgambata di una decina di chilometri nei prati dietro casa». La difesa del marciatore prepara le prime scadenze: a fine giugno il deposito delle memorie, il 5 luglio le controanalisi. L' obiettivo è più che ambizioso: far valere l'articolo 5.1 del Codice Wada, l'unico in grado di annullare la squalifica. Il solo modo per farlo è invalidare la procedura con cui il laboratorio di Colonia ha trovato testosterone sintetico nelle urine del marciatore. Lo staff di Schwazer mostra i referti del controllo che smentirebbero le tesi procedurali fatte trapelare dalla Iaaf: la positività come primo clamoroso successo del passaporto steroideo (adottato solo nel 2015) su un atleta di vertice. Si sarebbe trattato di un ricontrollo mirato, lo scorso maggio, del campione prelevato il 1° gennaio. Questo sulla base di un allarme automatico lanciato dal sistema informatico. Caro recidivo hai cercato di fregarci: ma noi ti abbiamo beccato. I referti in mano a Schwazer indicano però una verità diversa: il suo campione di urine di Capodanno sarebbe stato invece «torturato» per tre giorni subito dopo il prelievo (dal 2 al 4 gennaio) quando il test ormonale standard dura pochi minuti. Alla fine dei tre giorni, sulla base del referto di Colonia («Nulla da segnalare: atleta rieleggibile»), la Iaaf ha dato il via libera alle competizioni. Poi l'altra anomalia: lo stesso campione di urine viene rimesso sotto torchio il 10 aprile, quando il passaporto biologico ancora non era validabile per l'assenza dal primo controllo in competizione. Perché? E perché la procedura, anormalmente lunga, resta aperta fino al 13 maggio, quando viene accertata la positività. E perché a Schwazer viene permesso di gareggiare a La Coruña a fine maggio notificandogli la squalifica solo il 21 giugno? Che tesi utilizzerà la difesa? Alcune sono ipotizzabili. Le apparecchiature per la spettrometria di massa avrebbero una potenza così elevata da rilevare anche tracce infinitesimali di steroidi. Quelli dovuti a una banale contaminazione alimentare, ad esempio. O quelli, sostengono altri, rimasti «fissati» nell' organismo a lunghissimo termine: Schwazer ammise di aver assunto testosterone nel 2010. Quante probabilità ci sono di vincere una battaglia del genere, scardinando l'antidoping mondiale?

STAVOLTA NIENTE SCUSE di Benny Casadei Lucchi per “il Giornale” il 23 giugno 2016. Maglietta bianca. Sguardo a pezzi. Nessuna lacrima. Ore 18 e una manciata di minuti. Alex ancora lì. Dietro una scrivania a Bolzano. Quattro anni dopo. A parlare di doping. Il suo doping. O siamo di fronte a un grande coglione o siamo di fronte a un grande complotto. Stavolta non ci sono vie di mezzo. Alex Schwazer positivo a uno steroide anabolizzante dopo aver chiesto e ottenuto, unico al mondo, di poter essere controllato a sorpresa 24 ore su 24. Per dire. Trentacinque test in pochi mesi, uno su due dedicato agli anabolizzanti, controllato anche ieri mattina a Vipiteno, ore sette, dopo notte insonne seguita alla cartella ricevuta con l'esito degli esami, toc toc, sono un ispettore della Iaaf, prego pipì. Ci sarebbe da ridere, c' è solo da piangere. Ma Alex non piange. «Stavolta non devo chiedere scusa di niente, perché non ho fatto niente. Se sono qui a metterci la faccia è per rispetto di me stesso e di chi mi è vicino». Con lui la manager Giulia Mancini, con lui l'allenatore e paladino della lotta antidoping Sandro Donati, con lui i legali che annunciano battaglia e denuncia penale contro ignoti «perché qui c' è stata cattiveria, è una vicenda profondamente ingiusta e vogliamo la verità». Contro di lui, invece, c' è il mondo. Martedì 21 giugno, ore 18 e 50, gli ispettori antidoping della Iaaf notificano tutto ad atleta e allenatore. L' esame sangue e urine effettuato a Vipiteno la mattina del primo gennaio, negativo all' epoca, riesaminato in maggio, il 12, è diventato positivo. La Gazzetta dello Sport pubblica tutto. È un risveglio traumatico. Per i sognatori e quelli del partito diamogli un'altra chance, per gli scettici e quelli del via per sempre dallo sport. Visibilmente scosso appare anche il presidente del Coni Giovanni Malagò che nel giorno della consegna della bandiera a Federica Pellegrini, si ritrova nel mezzo di una bufera, col cerino acceso, «certo che c'è qualcosa di molto particolare sulla tempistica...» dirà. La sequenza è infatti sotto gli occhi di tutti: la bomba che scoppia nel giorno del Quirinale, la bomba che deflagra al secondo controllo, il 12 maggio, quattro giorni dopo la bella vittoria di Schwazer nella 50 km mondiale di marcia e pass per Rio conquistato, la bomba che scheggia i buoni sentimenti tredici giorni dopo la fine della squalifica per doping di tre anni e mezzo. Alex è positivo a scoppio ritardato. A un anabolizzante sintetico che serve a chi vuole muscoli e non contro la fatica dei marciatori. Questo spiega Donati, questo sottolineano i legali, questo racconta il ragazzo a cui non dobbiamo credere perché, come dice lo stesso Alex levandoci dall' imbarazzo, «capisco che credere a un ex dopato sia difficile, però Sandro Donati che ha dedicato la vita contro il doping è ancora qui accanto a me... E poi io quella stessa sostanza l'ho anche provata, prima dei Giochi di Londra, in quell' anno in cui ho provato di tutto e l'avevo messa da parte, non mi dava effetti. E allora ditemi voi, perché mai dovrei da una parte rendermi disponibile a controlli a sorpresa 24 ore su 24 e poi doparmi con qualcosa che non mi serve e che non mi aveva dato effetti?». Un grande coglione o un grande complotto. Non se ne esce. Perché «tra l'altro la quantità rilevata è minima» precisa Donati, e perché «sarebbe stato facile presentarmi qui davanti a tutti voi e fare la figura di quello che si leva di torno e che non sapeva niente. Invece io non lo lascio, Schwazer paga le mie lotte, l'odio nei miei confronti per quanto fatto contro il doping doveva trovare una vendetta. Eccola». Ancora: «E le incongruenze sono tante, la tempistica è anomala e ci era stato chiesto da persone importanti di non vincere a Roma e La Coruña (2° nella 20 km), forse questo ha dato fastidio. E ricordo la settimana prima della 50 km, la Procura Antidoping aveva cercato di dimostrare che una prova su strada era stata una gara e non un allenamento e Alex ha rischiato che la squalifica s'allungasse... Abbiamo toccato molti interessi...l'indagine sul doping russo è partita anche da Bolzano». Parole pesanti, che più pesanti diventano e più, incredibilmente, lasciano aperto uno spiraglio: che davvero ci sia del losco, un complotto, roba brutta e alla fine Rio non salti. «È un incubo per me, è la peggior cosa che mi potesse succedere - confida Alex -, ma andrò fino in fondo. Probabilmente qualcuno non vuole che vada alle Olimpiadi, a Roma c' erano state pressioni perché non vincessi. Però credo ancora di potercela fare, darò il 100% per chiarire e farcela» e se poi vogliono, fa capire, mi levo di torno.

LA PIPÌ AL QUIRINALE E IL WATERBOARDING DELL' ANTIDOPING di Maurizio Crippa per “il Foglio” il 23 giugno 2016. Visto come ragionano gli organi di giustizia, ci aspettiamo che prima o poi qualcuno incrimini la marciatrice Elisa Rigaudo - come quel famoso professore di Bergamo - per essere stata sorpresa a fare pipì nei giardini del Quirinale. Paradosso, ma neanche troppo. Ieri gli ispettori dell'Associazione internazionale delle federazioni di atletica leggera, in pratica la spectre delle Olimpiadi, si sono presentati a casa Mattarella per effettuare un controllo antidoping a sorpresa sulla Rigaudo, mentre partecipava alla consegna del tricolore ai portabandiera italiani in partenza per Rio 2016. I corazzieri li hanno gentilmente mandati a cagare, e il test su sangue e urine rimandato a quando l'Elisa è rientrata con gli altri alla Casa delle armi al Foro Italico. Ma il vulnus resta. E va bene che con gli olimpionici non si sa mai, e che Alex Schwazer dopo le lacrime e la riabilitazione l'hanno beccato (l'avrebbero) positivo un'altra volta. E va bene che le squalifiche per doping sono rimaste l'unico tipo di sanzioni che l'occidente riesca ad applicare a chicchessia, ad esempio alla Russia di Putin. Ma al Quirinale? Durante una cerimonia ufficiale? Gli energumeni della Iaaf affermano di essersi mossi in base al whereabout, il protocollo che impone agli atleti di essere sempre reperibili per i controlli a sorpresa (provassero un po' con le centrali iraniane). Ma detta così, sembra il waterboarding applicato allo spirito olimpico. A meno che sia il nuovo protocollo -trasparenza della luminosa epoca Raggi.

L’ANTIDOPING AL QUIRINALE LA FA FUORI DAL VASO di Filippo Facci per il “Libero Quotidiano” il 23 giugno 2016. Drogarsi prima di parlare con Mattarella, o subito dopo averlo fatto: c' è una logica, proprio volendo. Ma l'idea di fare un controllo antidoping proprio al Quirinale, come ha cercato di fare ieri la Federazione internazionale di atletica, beh, andrà giustamente archiviata come una gaffe o come una smaliziata prova di stupidità: roba che l'antidoping andrebbe fatto a loro, quelli della Federazione internazionale. Forse la notizia già la conoscete: ieri, giorno in cui iniziava ufficialmente la spedizione italiana di Rio, giorno in cui appunto era prevista la cerimonia di consegna del tricolore da parte del Presidente della Repubblica, giorno in cui peraltro scoppiava un altro caso di doping legato ad Alex Schwazer, ieri, insomma, la International Association of Athletics Federation (Iaaf) ha pensato di presentarsi al Quirinale per controllare le urine di una marciatrice presente alla cerimonia, Elisa Rigaudo. Al Quirinale, sì. E li hanno messi alla porta, ovvio, anzi, non li hanno neanche fatti entrare. Nota: l'estate scorsa, durante una spedizione sul Monte Bianco, il campione del mondo di karate Stefano Maniscalco continuava a dire allo scrivente che, anche a 4000 metri, doveva sempre rendersi disponibile alla Federazione in base al "whereabout", cioè una sorta di indicazione che gli atleti devono lasciare per essere reperibili per eventuali controlli antidoping; a me e agli altri pareva una pazzia, ma probabilmente aveva ragione. Gli ispettori non andarono sul Monte Bianco, ma sul Colle ieri ci sono andati. Fine della nota. E, ieri, era bellissima l'espressione del presidente del Coni, Giovanni Malagò, mentre un corazziere lo avvertiva: ci sono i commissari con le provette, sì, proprio qui nei giardini del Quirinale, sì, proprio mentre c'è la cerimonia che precede la partenza per le Olimpiadi. Va da sé: agli ispettori hanno risposto che la raccolta di sangue e urine, forse, potevano andarsela a fare da un'altra parte, per esempio al Foro Italico dove più tardi hanno intercettato la povera Rigaudo. La quale, intervistata da Repubblica online, più tardi ha detto: «L' ispettore non sapeva che il Quirinale era un posto molto importante». Era un tedesco: l'orgoglio di Mattarella ne avrà avuto nocumento. La Rigaudo, invece, pare abbia detto al tizio della Federazione: «Scusi, ma è come se lei volesse fare il test a degli atleti mentre sono a casa della Merkel». Incidente diplomatico? Ma no, niente, figurarsi: the sport must go on, il Doping controller officer (Dco) successivamente ha potuto officiare in una sala igienicamente idonea negli uffici del Coni. Così, nella giornata di ieri, si sono registrate tre notizie. La prima: Alex Schwazer è risultato positivo al controllo antidoping. La seconda: Elisa Rigaudo è risultata negativa al controllo antidoping. La terza: Sergio Mattarella è risultato.

DUE TECNICI SPECIALIZZATI, 48 ORE DI LAVORO, UNA PROCEDURA COSTOSA E SPECIALIZZATA: LA ... di Marco Bonarrigo per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2016. Due tecnici specializzati, 48 ore di lavoro, una procedura costosa e specializzata: la spettrometria di massa per rapporto isotopico. Lo scorso 13 maggio, per dichiarare positive le urine di Alex Schwazer, i biologi del laboratorio Wada di Colonia hanno utilizzato lo stesso metodo che smaschera chi adultera il whisky per vendere al prezzo dei pregiati «single malt» i banali «blended». Hanno ionizzato la pipì del marciatore bombardandola con un fascio di elettroni per poi spararla all' interno di un analizzatore di massa. Il risultato? La percentuale di carbonio-13 ha dimostrato la presenza di precursori del testosterone sintetico estranei all' organismo. Per i tedeschi è il risultato esemplare dell'efficacia della più avanzata arma contro il doping: il passaporto steroideo, complementare a quello sanguigno per accerchiare i bari. In vigore dal 1° gennaio 2015 (quando Alex era fermo per squalifica) il passaporto di Schwazer è nato con il primo controllo a sorpresa fuori competizione, lo scorso dicembre a Roma. Per validarlo servivano dai tre ai sei test, di cui uno in competizione: quello della vittoria in Coppa del Mondo a Roma dello scorso 8 maggio. In ogni esame si valutavano parametri diretti e indiretti (testosterone assoluto, rapporto con epitestosterone) per costruire una «curva di normalità» sempre più raffinata. L'aggiunta del tassello dell'8 maggio ha messo fuori range il controllo dell'1 gennaio a Vipiteno: i test a sorpresa nei giorni festivi non sono rari, perché chi si dopa li considera strategici. L' ipotesi di complotto durante la procedura di esame sarebbe smentita dal rigoroso protocollo operativo. L' analisi di gennaio è stata fatta a Colonia su campioni «ciechi». Accertata la negatività, i parametri steroidei sono stati trasferiti alla Iaaf per costruire un profilo ormonale anonimo. Il 13 maggio, ricevuto l'ultimo esame, il sistema Iaaf ha segnalato in automatico l'anomalia a Colonia, che con Roma e Montreal è la struttura più avanzata al mondo sul fronte ormonale. Allarme rosso. A quel punto è scattato il bombardamento ionico che ha isolato (in quello che restava della provetta A) il testosterone sintetico su un'urina sempre anonima: positività netta - non massiccia - e impossibile da contestare. Ok, ma cosa ha fatto Alex Schwazer per risultare positivo? Nessun tecnico o dirigente di laboratorio si sbilancia. Ma le possibilità sono sostanzialmente tre. La prima è la più drammatica per chi in Alex ha creduto. Quantità e qualità dei precursori del testosterone sono compatibili con un micro dosaggio continuativo: un piano organizzato di doping. Steroidi in un atleta di endurance, con masse muscolari ridotte? Farsi di testosterone aumenta la resistenza agli allenamenti duri e migliora il recupero. L'ipotesi è agghiacciante perché presuppone un tradimento totale dell'allenatore Donati e dello staff medico e un supporto medico e farmacologico parallelo. La seconda ipotesi, non meno agghiacciante per ragioni opposte, è la contaminazione dolosa: i tecnici ammettono che le quantità ritrovate sono compatibili con un'assunzione unica anche involontaria - avvenuta in un range temporale di alcuni giorni prima del controllo - di testosterone per via orale. Insomma, qualcuno potrebbe aver piazzato il farmaco in un alimento o una bevanda per incastrare Alex. La terza ipotesi è la contaminazione. Non alimentare (ci sarebbero altri precursori) ma piuttosto da integratori, che però Schwazer ha sempre detto di non utilizzare. Ora la palla passa alla giustizia sportiva. Analisi del campione B entro il 5 luglio o prima, se la difesa riuscirà a chiedere un anticipo. Se la positività fosse confermata, come accade sempre nella giustizia sportiva tocca all' atleta l'onere di provare con fatti concreti la sua innocenza. Una sfida al cui confronto la 50 chilometri olimpica è una passeggiata.

Doping Schwazer, perché serve essere garantisti. Se si è dopato va radiato. Ma il test che lo inchioda è sospetto. E va chiarito, scrive Gabriele Lippi su “Lettera 43” il 22 Giugno 2016. Déjà vu. A pochi metri dal traguardo più ambito, il marciatore si ferma. A colpirlo non è una crisi di fame o la disidratazione dopo quasi 50 chilometri sotto il sole, ma un test antidoping che fa piombare su di lui la più infamante delle accuse che possano esistere per un atleta. Ad Alex Schwazer era già successo prima di Londra 2012, ed è ricapitato a 45 giorni dalla cerimonia di inaugurazione di Rio 2016. Epo, allora, anabolizzanti adesso. Sembra di vedere un film già visto, eppure le differenze tra le due situazioni sono più delle analogie. Allora, scoperto, Alex si presentò in conferenza stampa, da solo, senza un solo membro della Fidal a fargli compagnia. Pianse lacrime amare, ammise ogni responsabilità, raccontò di essere andato a spese proprie fino in Turchia per acquistare 1.500 euro di eritropoietina e assumerla poi a casa sua per mesi, ingannando anche la fidanzata Carolina Kostner, che per quel peccato di ingenuità/negligenza/amore avrebbe pagato con una squalifica di 16 mesi (poi ridotti a 12). Spiegò di averlo fatto perché «tutti lo facevano, e mi sentivo impotente». Apparì come un uomo solo, schiacciato dalla pressione, un atleta che si sentiva costretto a vincere e unico baluardo di un'atletica italiana con poco talento e un livello di programmazione inferiore agli altri. Qualcuno provò compassione, altri no, ma sulla sua colpevolezza non potevano esserci dubbi. Oggi è tutto diverso. La provetta che incastra Schwazer è stata prelevata a gennaio e, la prima volta, ha dato esito negativo. A maggio, poco dopo la sua vittoria nella 50 km del Mondiale a squadre di Roma, a pass olimpico strappato, un nuovo test sullo stesso campione. Positivo, stavolta, con valori di testosterone 11 volte superiori alla media. Non uno scarto minimo, ma qualcosa di enorme, passato inosservato al primo controllo e trovato solo con le contro-analisi. In mezzo, tra quei due esami, Schwazer ha ricevuto 15 visite degli ispettori Iaaf (la federazione internazionale di atletica leggera), Wada (l'agenzia mondiale antidoping) e Nado (l'agenzia italiana antidoping). Tutti rigorosamente negativi. In un anno, da quando nel maggio 2015 ha deciso di tornare a gareggiare, affidandosi alle cure di Sandro Donati, ha subito 47 controlli antidoping, senza risultare mai positivo. Ora è facile cadere nella tentazione della gogna mediatica e invocare la radiazione. Chi scrive ha sempre sostenuto la tesi della 'seconda chance', l'ideologia della redenzione. Eppure, la prima tentazione nella notte del 22 giugno, è stata quella di fare mea culpa, scagliarsi contro Schwazer, chiedere scusa a Gianmarco Tamberi e a chi, come lui, aveva espresso pareri durissimi sulla sua possibile partecipazione a Rio. Perché chi gli aveva concesso un'apertura di credito si sente ancora più tradito di chi, al contrario, non l'ha mai perdonato e mai lo perdonerà. Ci si sente persino un po' sciocchi ad averci creduto. Ma in un mondo giusto, Schwazer merita la sospensione di un giudizio che stavolta potrebbe essere quello finale. La merita non per le lacrime versate nel 2012, non per l'oro di Pechino 2008, non perché a lui ci si aggrappa per una medaglia in più in un'Olimpiade destinata a dare poche gioie all'Italia. La merita in quanto essere umano. La storia dello sport è tristemente piena di truffatori dopati, ma conta anche drammi umani legati a giudizi sommari e vittime innocenti di casi tuttora irrisolti. La fine di Marco Pantani, morto da solo in una camera d'albergo dopo esser stato trattato come un paria per un ematocrito sopra il limite che ancora oggi è velato dall'ombra del complotto, dovrebbe far riflettere. Così come quella, fortunatamente con esito diverso, di Andrea Baldini, fiorettista italiano costretto a fermarsi mentre si preparava all'Olimpiade di Pechino 2008 da favorito assoluto perché nelle sue urine fu trovato del furosemide, un diuretico non dopante ma usato anche come coprente di altri farmaci. Baldini sostenne di non aver mai assunto quella sostanza, gli esami approfonditi non trovarono traccia di doping, e pochi mesi dopo fu riabilitato. Tornò e si laureò campione del mondo, ma quei Giochi di Pechino, nessuno glieli ha mai potuti restituire. Schwazer, a differenza di Pantani e Baldini, ha già sbagliato una volta, è vero, ma quel conto l'ha già pagato. Ora va giudicato per questo nuovo caso, e la lezione migliore, in queste ore, nel mucchio di chi lo chiama «stupido» e invoca la sua radiazione, arriva dal silenzio di Tamberi, dal richiamo al garantismo di Filippo Magnini, o dalle parole dello spadista Paolo Pizzo, un altro che non è mai stato soft nei giudizi sul marciatore e su chiunque si dopi. «Se fosse vero, sarebbe molto molto grave». Se fosse vero, appunto. Occorre andarci piano, ascoltare le spiegazioni del marciatore, che ha convocato una conferenza stampa per le 18 del 22 giugno, e del suo avvocato Gerhard Brandstaetter, che parla di «accuse false e mostruose». In gioco non c'è solo la carriera di un atleta, ma la vita di un ragazzo di 31 anni e la credibilità di un allenatore come Sandro Donati, che su Schwazer si è giocato tutto. Se non volete farlo per Alex, fatelo almeno per lui. Aspettate. Poi, se tutto sarà confermato, radiazione a vita sia. Altrimenti chiederemo conto alla Iaaf di come un test negativo a gennaio possa risultare con valori 11 volte più alti della norma a maggio.

Donati: “Ho combattuto la mafia del doping sono minacciato e vivo nella paura”. L’allenatore di Schwazer: “Racconterò tutto ai pm”, scrive Attilio Bolzoni l'11 luglio 2016 su "La Repubblica". Sempre più solo e sempre più accerchiato, questa mattina ha parlato con "qualcuno che gli sta intorno" e l'inquietudine che l'ha accompagnato nei suoi ultimi drammatici giorni è diventata paura. Confessa Sandro Donati: "Sì, ho paura che possa accadere qualcosa di molto brutto a me o alla mia famiglia". Paura di cosa, professore? "Anche di perdere la vita". Non è soltanto una storia di qualificazioni olimpiche e di record, di allori e di medaglie. Una vicenda che è stata rappresentata come uno scandalo dello sport in realtà fa tanto odore di mafia, di clan, di soldi. E mistero dopo mistero si sta trasformando in un affaire internazionale dove le provette di urina s'intrecciano con grandi affari e grandi interessi, appetiti di consorterie criminali, intrighi e vendette. Sandro Donati esce allo scoperto, non si arrende, attacca. E denuncia: "Non mi sono piegato ed ecco perché adesso temo il peggio. Già la mia carriera di allenatore è stata stroncata 29 anni fa quando feci le prime denunce sul doping, ma oggi le contiguità fra alcune istituzioni sportive e ambienti malavitosi sono ricorrenti e dimostrabili". Da Vipiteno, il ritiro scelto per allenare Alex Schwazer per le Olimpiadi di Rio e suo quartiere generale anche dopo l'assai sospetta positività al doping del marciatore che è finito in un gorgo fangoso, svela i suoi timori e annuncia: "Andrò al più presto alla procura della repubblica di Roma a rappresentare certe situazioni, ho molte cose da dire ma nei dettagli preferisco informare prima i magistrati. Per colpire me è stato macellato un atleta innocente che in passato ha sbagliato, ma che è un campione immenso che avrebbe sicuramente vinto a Rio la medaglia d'oro sia sui 20 chilometri che sui 50".

Chi l'ha voluto fermare?

"Questa storia porta con sé un messaggio molto chiaro: chiunque parla va messo fuori gioco, chi rompe il muro dell'omertà che c'è sul doping deve comunque pagarla cara".

Ci spieghi meglio: da dove provengono queste minacce per la sua vita?

"Più persone mi hanno sottolineato come sia stato un grande azzardo da parte di Alex Schwazer accusare gli atleti russi di doping. Ed è evidente il rapporto di corruttela reciproco che ha contrassegnato la relazione fra alcuni dirigenti della Iaaf (la Federazione internazionale di atletica) e le autorità sportive russe, finalizzato ad insabbiare o a gestire in maniera addomesticata i casi di doping".

E cosa c'entra tutto questo con la sua paura?

"Io ho avuto un ruolo fondamentale, collaborando con la procura della repubblica di Bolzano e con il Ros dei carabinieri, nell'individuazione di un gigantesco date base che era nelle mani di un medico italiano che collaborava e collabora ancora con la Iaaf. Nel date base c'erano centinaia di casi di atleti internazionali con valori ematici particolarmente elevati. E, tra questi, un gran numero di russi. Ho portato all'attenzione della Wada (l'agenzia mondiale antidoping) quel data base e nel frattempo la magistratura francese ha aperto un'indagine per riciclaggio e corruzione nei confronti del vecchio presidente della Iaaf Amine Diack che è stato arrestato ".

Lei sta dicendo quindi che la sua azione contro il doping ha provocato una rappresaglia?

"Ne sono sicuro. E ho cominciato a ricevere strane telefonate e anche strane mail che ho già consegnato alla magistratura. Una mi diceva: "Ho da comunicarti informazioni che ti riguardano, un accademico tedesco possiede documenti che dimostrano il tuo coinvolgimento nella vicenda del doping dei russi". Era firmata da una certa Maria Zamora, un nome e una persona che non conosce nessuno. Ho fatto le mie ricerche e sono arrivato alle conclusioni che la parte corrotta della Iaaf e i russi sono un tutt'uno".

Ma perché questo accanimento contro di lei?

"Perché c'è un sistema che non tollera che l'antidoping venga fatto da soggetti esterni alla sua organizzazione, in questo caso la Iaaf. La vicenda è stata in questo senso un'operazione quasi "geometricamente perfetta". Che lancia un avviso a tutti: di doping non si deve parlare, ce ne dobbiamo occupare solo noi istituzioni sportive e chi ne parla fuori fa sempre una brutta fine".

È una legge molto mafiosa, quella del silenzio.

"Il silenzio è la legge in quel mondo. C'è anche una complicità politica, ma non solo in Italia, in tutti i Paesi. Le manovre di isolamento nei miei confronti sono iniziate fra marzo e aprile di quest'anno quando hanno messo in circolo alcune informazioni false, secondo le quali io avrei avuto un ruolo marginale nella Wada. Un tentativo di delegittimarmi, il mio rapporto con la Wada è sempre stato intensissimo fin dal 2003. Eppure qualcuno ha scritto che io ero "un millantatore". Poi è arrivato il resto. L'8 maggio - il giorno prima che Alex vincesse a Roma la gara dei 50 chilometri per la qualificazione a Rio - qualcuno mi ha telefonato dicendomi "che sarebbe stato meglio che Alex arrivasse secondo". Una ventina di giorni dopo lo stesso personaggio mi ha ritelefonato consigliandomi di "non rispondere all'attacco dei marciatori cinesi" nella 20 chilometri. C'è gente che vuole condizionare i risultati, gente che ha interessi altri. Io, dopo 35 anni di attività, posso dire che non ho mai visto tanta coalizione di forze e tanti segnali inquietanti come in questa vicenda di Alex".

Professor Donati, lei è da una vita che combatte contro il doping. Ma davvero l'hanno lasciato sempre solo?

"Qualche mese fa alcuni deputati della Commissione Cultura della camera mi avevano invitato per un'audizione. Mi sono preparato, poi le istituzioni sportive hanno lavorato per depennare il mio nome. Silenzio. Vogliono solo il silenzio".

Come sta Alex Schwazer?

"È un ragazzo serio. È aggrappato a una piccola speranza che vede in me. Ma è così sereno che l'altro giorno mi ha detto: " Prof, se non mi vogliono, io farò altro". Io però non mi arrendo anche se vivo nel terrore. Ho paura ma non piego". 

"Cosa ho visto in quella stanza...": Lo sfregio, l'avvocato spiega come hanno umiliato Schwazer, scrive “Libero Quotidiano” il 9 agosto 2016. Una notte da incubo, per Alex Schwazer, volato a Rio de Janeiro per l'incontro con il Tribunale arbitrale dello sport di Losanna che dovrà decidere se concedergli la possibilità di partecipare ai giochi dopo il - controverso - caso di doping che lo ha coinvolto. Il Tas ha deciso di non decidere: il verdetto slitta a venerdì, il giorno in cui Alex dovrebbe affrontare la sua prima gara, la 20 chilometri. Un nuovo sfregio contro l'azzurro, arrivato al culmine di un tesissimo incontro, durante il quale l'allenatore, Sandro Donati, avrebbe dato in escandescenza, urlando, abbandonando la stanza sbattendo la porta, per poi tornare, sempre più scorato. "Il verdetto pare già scritto", hanno detto da ambienti vicini ad Alex. E a tratteggiare il clima che si respira, ci ha pensato l'avvocato dell'atleta, Gerhard Brandstaetter, che spiega che cosa ha visto nella stanzetta dove hanno "processato" il suo assistito: "Il clima è un po' da santa inquisizione, ma noi siamo convinti di aver ragione. Adesso speriamo di trovare un giudice che ce la dia". L'udienza è durata quasi 10 ore, un'eternità. "Alex era molto stanco e provato, ha preferito tornare in hotel. Domani si allenerà e aspetterà fiducioso". Ma la fiducia, purtroppo, è pochissima: la Iaaf, la federazione internazionale di atletica, avrebbe chiesto otto anni di squalifica per il marciatore. Un piano perfetto per farlo fuori. Tanto che la difesa di Schwazer al Tas, si è appreso, ha assunto i contorni di un attacco totale proprio alla Iaaf. Nel mirino della difesa i macroscopici vizi procedurali relativi ai controlli del campione positivo, prelevato lo scorso primo gennaio. Inoltre, per dimostrare che la sostanza trovata nelle urine di Alex fosse stata piazzata, la difesa ha presentato un modello logico-matematico che si basa sui tempi di dimezzamento del testosterone sintetico nella quantità rilevata. L'obiettivo è dimostrare che i controlli subiti da Schwazer subito dopo il primo gennaio avrebbero dovuto rilevare sostanze dopanti. Ma in un clima da "santa inquizione", giusto per ripetere le parole dell'avvocato, ogni dimostrazione potrebbe rivelarsi inutile.

Il campione che l'Italia ha abbandonato. "Libero Quotidiano" per Schwazer: "Preso per il culo", scrive di Fabrizio Biasin

il 10 agosto 2016. Noi ancora non lo sappiamo, ma Alex Schwazer ha ammazzato qualcuno. Non c’è altra spiegazione. Tra l’altro non deve avere ucciso «uno qualunque», un povero cristo, semmai il parente di qualcuno che conta: un bis-nipote del presidente Iaaf (federazione internazionale di atletica leggera), lo zio di un capoccione della Wada (l’agenzia mondiale antidoping). Viceversa non si spiega l’accanimento, il trattamento ai limiti della presa per il culo (e perdonateci il «culo», ma quando ci vuole ci vuole) che il mondo dell’atletica sta riservando al nostro marciatore e, di riflesso, anche a noi italiani. Schwazer conoscerà il suo destino - ovvero la decisione sul farlo o non farlo gareggiare a Rio - «entro venerdì», che poi è il giorno della 20 km, una delle due gare alle quali vorrebbe partecipare (per provare a vincerle, tra l’altro). L’ha deciso il Tas (Tribunale Arbitrale dello Sport), chiamato a trovare una risposta al seguente domandone: è Alex un dopato recidivo e quindi figlio di buona donna? Si è effettivamente «strafatto» di anabolizzanti l’1 gennaio scorso e merita quindi pernacchie e radiazione (8 anni, richiesta della Iaaf)? Avremmo dovuto scoprirlo nella notte italiana di lunedì ma, «chi comanda», ha scelto di rimandare ulteriormente ogni decisione (il primo rinvio senza senso è del 27 luglio, firmato dai «soliti» responsabili Iaaf). Non vi sentite parte in causa? Son fattacci del marciatore e peggio per lui? Forse avete ragione, ma perdete due minuti dietro a questa vicenda allucinante e vediamo se cambiate idea. Alex Schwazer - 31 anni, altoatesino, faccia da sberle - è uno sculettatore con i fiocchi e, infatti, marcia che è una meraviglia. La «povera» atletica leggera italiana se ne accorge ben presto, si attacca alla gallina dalle uova (e dalle medaglie) d’oro e ben fa. Non stiamo ad annoiarvi con l’elenco dei trionfi, ci limitiamo a citare il 1° posto di Pechino 2008, conquistato triturando gli avversari. Quattro anni dopo, alla vigilia dei Giochi di Londra, il «patinato» fidanzato della pattinatrice Carolina Kostner, viene giustamente sputtanato sulla pubblica piazza: è dopato, si fa di Epo, deve essere fermato. Così accade: Schwazer si becca, tra una cosa e l’altra, 45 mesi di squalifica, gli amici gli girano le spalle, la fidanzata lo molla. Praticamente è solo come un cane. Solo un tale gli tende la mano, Sandro Donati, paladino della lotta al doping, tecnico capace, uomo di sport che non piace al mondo dello sport per la sua petulante denuncia contro un sistema sporco e corrotto. «Ti alleno io», gli dice. «Grazie», risponde Alex. I due si fanno un mazzo così marciando lungo le strade provinciali, ben lontano dai campi di gara a loro preclusi. Schwazer viene guardato dagli altri come «sozzo e imperdonabile», ma se ne frega, ritrova forma e tempi, quindi alla prima occasione dopo la riabilitazione (Roma, Mondiale a squadre dell’8 maggio scorso) conquista vittoria e crono utile per volare a Rio. Una favola straordinaria? Neanche per idea. Il 21 giugno salta fuori una provetta, quella relativa alle analisi a sorpresa dell’1 gennaio scorso: il test che a suo tempo diede esito negativo, improvvisamente si trasforma in positivo. Alex viene sospeso. E fa niente se gli altri 19 controlli a cui si è sottoposto negli ultimi due anni hanno certificato la sua «purezza»: Alex, per chi comanda, è come il lupo che perde il pelo e bla bla bla. In conferenza stampa il marciatore, Donati e l’avvocato Brandstaetter sono incazzati come iene e gridano la loro innocenza. Spuntano telefonate registrate in cui si «consiglia» a Schwazer di non vincere «perché è meglio così». Come se non bastasse, l’ennesimo test (quello del 22 giugno) è negativo: Alex chiede e ottiene udienza al Tas. Il resto è storia di oggi: il-rinvio-del-rinvio-della-sentenza-sulla-vera-o-presunta-positività-relativa-a-un-test-che-era-negativo-ma-poi-è-risultato-positivo. Una situazione grottesca, un trattamento indegno. Il tutto condito da un silenzio bestiale: non tanto quello dei tifosi (c’è chi grida al complotto, chi semplicemente denuncia «l’indecenza» del trattamento riservato al nostro marciatore), quanto quello dei nostri «comandanti», dei capi-spedizione, dei responsabili del Coni. Nessuno tra quelli «che contano» che alzi un dito e dica: «Squalificarlo è vostra facoltà, umiliarlo proprio no». Niente di niente: vince l’indifferenza, il mutismo rotto solo da Donati che, lunedì, dopo 7 ore di udienza, se n’è andato dall’aula di Rio sbattendo la porta. «Hanno già deciso», ha detto a mezza bocca. Sul volto la smorfia di chi inseguiva un sogno. Fabrizio Biasin

Doping, Schwazer: il Tas ha deciso otto anni di squalifica: «Sono distrutto, chiedo più rispetto per me». La sentenza ai danni del marciatore azzurro notificata alle parti, accolta la richiesta della Federazione internazionale per la positività di inizio gennaio, scrive Gaia Piccardi, inviata a Rio de Janeiro, il 10 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. La lunga marcia finisce qui, sul lungomare scintillante di Copacabana dove Alex Schwazer sparisce nel buio pesto della notte brasiliana con il morale a pezzi («Sono distrutto»), inseguito dai fantasmi di un verdetto impietoso: otto anni di squalifica per doping-bis. Ha gli occhi scavati, le labbra serrate, nessuna voglia di parlare: «Dovreste avere più rispetto per me come persona». Sale in taxi, destinazione sconosciuta. In mattinata si era allenato sotto la pioggia, 40 km inseguito da Sandro Donati in bicicletta e aggrappato alla certezza che il Tas lo avrebbe riammesso ai Giochi di Rio, che avrebbe potuto indossare una maglia della nazionale italiana ed entrare in una stanza del villaggio, parte integrante della spedizione olimpica, di nuovo atleta e non più reietto. L’udienza fiume (9 ore) di lunedì, dopo due giorni di camera di consiglio, invece ha prodotto il verdetto più scontato in presenza di positività al testosterone. La fine della carriera. La fine di tutti i sogni. Gliel’ha detto la manager storica, Giulia Mancini. Alex si è seduto e ha fissato il pavimento per un’ora, livido. Poi ha rotto il silenzio: «Potete andare?». Si è fatto una doccia, ha indossato pantaloncini e maglietta. È uscito per correre. Non è più tornato. Solo nella notte raggiunto dall’agenzia di stampa Agi ha detto: «Non mi sembrava che l’udienza fosse poi andata così male, per questo ho voluto crederci fino alla fine. Non conosco ancora le motivazioni ma mi pare si siano limitati ad una semplice cosa tecnica. Credevo di poter partecipare alle Olimpiadi di Rio, è da oltre un anno che lavoro e facendo parecchi sacrifici, soprattutto economici». Il miracolo di ribaltare il risultato già scritto di una partita in trasferta, contro avversari enormi - la Iaaf con il direttore del suo laboratorio antidoping, Thomas Capdeville, presenza del tutto irrituale in una procedimento che di rituale non ha avuto nulla sin dall’inizio, a partire dallo spostamento dell’udienza da Losanna a Rio -, è fallito. Le spiegazioni di coach Sandro Donati, argomentate con dati/tabelle/istogrammi relativi al monitoraggio antidoping a cui Alex è stato sottoposto ogni 15 giorni dall’anno scorso («Un’iniziativa destabilizzante per un ambiente corrotto e una federazione, la Iaaf, priva di credibilità»), non sono state accolte. La veemenza con cui sono state esposte, forse scambiate per la furia iconoclasta con cui questo professore di Monte Porzio Catone da tutta la vita sta cercando di combattere un sistema che è convinto sia malato nel midollo, respinte al mittente. La tesi della Federatletica internazionale è accolta in toto: Alex Schwazer si è dopato per la seconda volta dopo la positività all’epo del 2012, nelle sue urine il primo gennaio scorso c’era il testosterone sintetico che gli costa otto anni di squalifica, la pena applicata di default a un recidivo. Le incongruenze sulla conservazione del campione, la comunicazione tardiva, l’accanimento con cui è stato esaminato più volte? Inesistenti. La tesi del complotto ipotizzata a gran voce da Donati in questo ultimo, drammatico, mese? Fantasia. La marcia s’interrompe, questa volta per sempre, nel luogo che più stride con la costernazione profonda della coppia di fatto Alex&Sandro, saldati dalle circostanze e abbattuti all’ultimo assalto alla diligenza. Dietro l’hotel Best Western dove si consuma il dramma sportivo e umano di Schwazer e Donati, le mille luci del lungomare più glamour di Rio e dell’Olimpiade, il luogo dei tanga, delle infradito e delle caipirinhe. Dentro, nella stanzetta che atleta e allenatore dividono in questa trasferta per risparmiare le spese, solo rabbia, lacrime e tristezza. Se Alex, a 30 anni, può inventarsi un’esistenza tra Calice e Vipiteno («È scioccato ma adulto, affronterà la vita fuori dall’atletica» dice il prof, stravolto), magari puntellandosi all’affetto della nuova fidanzata (Carolina Kostner tace, sullo sfondo), non c’è dubbio che Donati non si darà pace fino all’ultimo dei suoi giorni: «È una vicenda grottesca, umiliante per Alex e chi gli sta accanto. La battaglia ora passa sul piano giudiziario: ci sono già due Procure, Bolzano e Roma, che indagano». Doveva finire sul traguardo dell’Olimpiade, magari già nella 20 km di marcia di domani. E invece il sipario cala così, come una pietra tombale su questa tragedia shakespeariana. Mai finita anche adesso che è finita.

Doping, il Tas ha deciso: Schwazer condannato a 8 anni. "Sono distrutto". Il Tribunale di arbitrato sportivo ha emesso il proprio verdetto: non correrà la marcia 50km venerdì 19 agosto. La sentenza arriva dopo la positività a uno steroide sintetico rilevata in un controllo del 1 gennaio scorso. Donati: "Gli hanno stroncato la vita". Tamberi lo attacca di nuovo, scrive il 10 agosto 2016 “La Repubblica”. Il Tas demolisce la carriera di Alex Schwazer. Il Tribunale di arbitrato sportivo ha condannato il marciatore altoatesino a una squalifica di 8 anni per la nuova positività a uno steroide sintetico rilevata in un controllo del 1 gennaio scorso. Il verdetto arriva dopo l'udienza fiume di due giorni fa in cui Schwazer aveva esposto le proprie ragioni, chiedendo l'audizione di alcuni testimoni via skype e producendo una importante documentazione attraverso schede powerpoint e test. Il Tas ha accolto tutte le richieste che la Iaaf aveva fatto e quindi non ha concesso alcuna attenuante al marciatore altoatesino che sognava le Olimpiadi di Rio de Janeiro, obiettivo che si era prefissato da oltre un anno, quando aveva iniziato la collaborazione con Sandro Donati, il paladino della lotta al doping. "Sono distrutto", è la prima frase con cui Schwazer commenta il verdetto. Per poi aggiungere: "Non mi sembrava che l'udienza fosse poi andata così male, per questo ho voluto crederci fino alla fine. Di quelle dieci ore che abbiamo parlato dove Donati ha presentato il suo power point, non è rimasto nulla, solo una grande amarezza. Non conosco ancora le motivazioni ma mi pare si siano limitati ad una semplice cosa tecnica. Credevo di poter partecipare alle Olimpiadi di Rio, è da oltre un anno che lavoro e facendo parecchi sacrifici, soprattutto economici". Il tecnico Sandro Donati, in conferenza, lo difende con convinzione: "E' evidente un fine persecutorio nei confronti si Alex. Di riffa o di raffa dovevano eliminare Schwazer. Non parlerò della mia persona, ho una certa età. Ad Alex hanno stroncato la vita. Stamattina ha marciato per una quarantina di km a una velocità che tolti uno o due marciatori nessuno saprebbe tenere nemmeno in gara. E' evidente che era facile incolpare uno con un precedente. Poi avete visto con quale tecnica, anche medici interessati da procedimenti giudiziario, si siano affrettati a definirlo persino "bipolare". Alex è lineare, coerente, semplice, affidabile. Ha sbagliato una volta, con sua quota di responsabilità coinvolgendo anche la Kostner in una cosa in cui non entrava niente. Ma in quel periodo è stato abbandonato a sé stesso. Non gli è stato dato un allenatore adeguato. Qualcuno gli ha prescritto un antidepressivo per email. Sapevano che aveva incontrato il dott. Michele Ferrari e nessuno è intervenuto. Gli hanno permesso di andare in Germania per un mese. Tutti si sono sottratti, il Coni e la federazione". Ora cosa sarà di voi? "Alex è cresciuto tanto in questi anni e ha l'equilibrio per affrontare la vita anche fuori dall'atletica. Lui dopo Rio l'avrebbe abbandonata comunque dopo Rio. C'è stata un'opera di delegittimazione di Schwazer appena ha iniziato a lavorare con me, con foto mandate in giro. Ex miracolati di Conconi. Alex marcia alla grande, non gli è mai stato alzato un cartellino rosso. Si è pagato tutto di tasca sua, e lo hanno accusato di fare marketing". Chi invece è tornato ad attaccare Schwazer è Gianmarco Tamberi, a Rio per seguire le gare nonostante l'infortunio che gli ha impedito di essere tra i protagonisti del salto in alto: "Mi chiedete se 8 anni sono giusti? Non sono io a dovermi esprimere, ma Schwazer è stato trovato positivo due volte, e questo non sono io a dirlo...". L'atleta azzurro ribadisce la sua posizione: "Mi ero espresso prima di questa nuova positività, ho sempre pensato che un'atleta pizzicato per doping non debba più vestire la maglia azzurra perché non rappresenta più i valori della nazionale". Anche Elisa Di Francisca, argento nel fioretto a Rio, non è tenera con l'altoatesino: "Non ho mai barato, non ho mai pagato nessuno per farmi vincere. Ho la coscienza pulita perché non mi sono mai dopata in vita mia. Questa è la mia linea e lo sarà sempre, i risultati li voglio ottenere solo attraverso i miei sacrifici. Sta a ognuno di noi comportarsi bene". L'ultima chance, ma ormai i Giochi saranno passati, sarà quella di andare fino all'ultimo grado di giudizio che è la Corte Federale svizzera. Il 31enne marciatore di Calice di Racines farà richiesta di esame del Dna. Alex Schwazer era stato trovato positivo all'esame antidoping del primo gennaio 2016 solamente a seguito di un test di laboratorio effettuato oltre tre mesi dopo l'esame che inizialmente aveva dato esito negativo. Gravi - secondo la difesa - sono stati i ritardi nella comunicazione all'atleta da parte della Iaaf. Infatti, sono trascorsi oltre 40 giorni dal momento della positività riscontrata, il 13 maggio, alla notifica, avvenuta il 21 giugno.  "Siamo delusi ma andremo avanti a trovare la verità con l'esame del Dna e quant'altro. Otto anni perché è recidivo. Non sappiamo ancora le motivazioni". Così all'Agi l'avvocato Thomas Tiefenbrunner, legale di Alex Schwazer, alla notizia della squalifica di otto anni inflitta al marciatore altoatesino.

LO HANNO FOTTUTO. "Sotto shock", paura per Schwazer: nella notte, la sua tragica reazione, scrive “Libero Quotidiano” l’11 agosto 2016. Carriera e Olimpiadi cancellate, con un metaforico tratto di penna. Fottuto. Fregato. Massacrato. Otto anni di squalifica per Alex Schwazer, che era volato a Rio de Janeiro per il ricorso al Tas e per sperare in queste Olimpiadi. La situazione in cui lo avevano cacciato era disperata, ma lui ci credeva ancora. Ancora un pochino. Ma niente da fare. La caccia alle streghe si è conclusa così, con una punizione esemplare che lo uccide sportivamente e che arriva per un caso molto, troppo sospetto. E Alex ha reagito male. Nel peggiore dei modi, rinchiudendosi in se stesso. L'unica frase pubblica che gli è uscita dalla bocca è stata: "Sono distrutto". È un ragazzo fragile, Schwazer, lo dimostra quella sua tragica e indimenticabile conferenza stampa in cui, nel 2012, ammise tutte le porcherie di doping che aveva fatto. Porcherie che oggi, probabilmente, non ha fatto. Per nulla. Sono in pochi a credere che si sia dopato ancora, sotto lo sguardo attento di mister Sandro Donati, per giunta, l'uomo che ha lottato tutta la vita contro il doping e che proprio per questo, forse, oggi ha pagato. Nella notte italiana, Schwazer ha anche disertato la conferenza stampa convocata nella terrazza dell'albergo dopo lo squalifica. Se ne è andato via da solo, cercando il mare, un luogo in cui nessuno lo guardasse. Secondo il racconto della Gazzetta dello Sport si è seduto a un tavolo alla Casa dos Marujos, senza consumare nulla, guardando fisso la tv che proiettava Svizzera-Usa di beach volley. Solo, per più di un'ora, con la maglietta azzurro indosso, come se dovesse iniziare ad allenarsi, da un momento all'altro. Poi si è alzato e si è infilato in un taxi insieme alla sua manager, Giulia Mancini. Poi c'è mister Donati, che racconta: "Ho informato io Alex della squalifica, è rimasto in silenzio per venti minuti, senza parlare". Dunque una nuova rivelazione, che aggiunge ulteriore puzza di marcio al marcio di questa storia: "Nell'udienza del Tas, abbiamo scoperto che il famoso controllo antidoping a sorpresa era stato pianificato e comunicato agli ispettori del prelievo 15 giorni prima. Una situazione incredibile, mettendo a rischio la riservatezza del controllo. Perché controllarlo il primo gennaio e non il 28 dicembre? Perché l'obiettivo era quello di effettuare tutto il primo gennaio, con il laboratorio chiuso, e con la possibilità di tenere la provetta un giorno intero prima di portarla a Colonia". Un complotto, appunto. Gli indizi sono tanti, troppi. Una carriera bruciata, finita, calpestata, umiliata. Schwazer aveva pagato tutto quello che doveva pagare. Ora dovrà pagare anche un conto che forse non gli spetta. Gli resta solo la giustizia penale, dove dovrà dimostrare che ci sia stato un sabotaggio o una sottomissione. Impresa ardua. Si inizierà col test del Dna. Ma sarà sempre troppo tardi. Per le Olimpiadi di sicuro, e forse anche per tutto il resto.

Schwazer senza scampo: 8 anni di squalifica. Accolta la richiesta della Iaaf, l'azzurro chiude con la marcia. Ma i sospetti restano, scrive Benny Casadei Lucchi, Giovedì 11/08/2016, su "Il Giornale". Il Tas, nel tardo pomeriggio di Rio, ha comunicato la propria decisione e, anche se prevista, è choc. Alex Schwazer è fuori da tutto. Otto anni di squalifica. Senza se, senza ma, uno schiaffo all'uomo e ai suoi uomini, in primis Sandro Donati, paladino della lotta al doping finito anche lui in queste sabbie mobili del sospetto. Ricaduto, coinvolto, fregato, gli estremi del giallo e del due pesi e due misure resteranno per sempre perché questa seconda positività di Alex, fin dalla tardiva comunicazione a giugno, dopo mesi a rimpallarsi provette e controlli, è e resterà tinta di giallo. Il controllo del 1° gennaio, la presenza minima di anabolizzanti riscontrata, la provetta non anonima, con indicato il paese di Alex, Racines, unico atleta al mondo a vivere lì, per cui persino negato l'anonimato nei controlli. E poi l'incredibile tempistica che ha portato la Iaaf a comunicare la positività solo a fine giugno, quando ormai i tempi per appelli, difese, tentativi di far valere le proprie posizioni erano, e infatti si sono rivelati, vani. Inutile il viaggio a Rio, inutile la presenza dei suoi legali, di specialisti, di video che avevano monitorato giorno per giorno l'assenza di doping nel suo sangue. Inutile allenarsi con tristezza e la pena nel cuore lungo le vie di Copacabana. Schwazer torna a casa, ma questo è solo l'inizio di una lunga marcia verso altro. Domani avrebbe potuto correre la 20 km, la settimana dopo giocarsi tutto nella sua 50. Ora dovrà iniziare ben altro allenamento: reggere il peso di un simile epilogo. Perché la vicenda ha dell'incredibile. Squalificato alla vigilia della marcia di Londra 2012, risqualificato definitivamente alla vigilia di quella di Rio. Quattro anni più tardi, dopo averne scontati tre di fermo, dopo essere tornato alle competizioni lo scorso 8 maggio, dopo aver vinto la marcia mondiale di Roma, dopo aver fatto capire al mondo che avrebbe ipotecato la medaglia d'oro ai Giochi. Niente Giochi, invece. Vicenda surreale perché non ci si può sbilanciare da una e dall'altra parte. Perché Alex era stato trovato positivo e in più aveva mentito la prima volta. E perché la positività agli anabolizzanti riscontrata il 1° gennaio dai controllori della Iaaf è emersa solo dopo un secondo controllo il 12 maggio, quattro giorni dopo la marcia vittoriosa di Roma, ma comunicata a fine giugno. Per cui c'è tanto di cui sospettare. Da una parte e dall'altra.

Però poi, nonostante i dubbi, ci sono loro. Quelli che, comunque, stanno dalla parte della ragione. Posti esauriti, dato il gran numero.

Rio 2016, la russa Efimova in lacrime: vince l'argento ma piovono insulti, scrive Mario di Ciommo il 9 agosto 2016 su “La Repubblica”. Yulia Efimova ha vinto la medaglia d'argento nei 100 metri rana, ma ad attenderla fuori dalla vasca non c'erano applausi e complimenti: solo fischi e insulti. La nuotatrice russa, riammessa in extremis ai Giochi dopo il ricorso al Tas, ha vissuto una serata surreale dopo la conquista della sua seconda medaglia olimpica. "Non c'è medaglia che possa cancellare l'amarezza del vedere che tutto il pubblico è contro di te, - ha dichiarato tra le lacrime la Efimova - ho commesso degli errori nella mia vita e la prima volta ho pagato con la squalifica di sedici mesi, ma la seconda volta non è stata colpa mia. Sono pulita". Anche Lily King, medaglia d'oro nella specialità, non è stata molto indulgente con la russa e durante la semifinale le ha mostrato il dito medio in vasca. "Che giorno triste per lo sport. Permettere ai dopati di gareggiare è una cosa che mi spezza il cuore e mi fa letteralmente incazzare", è stato invece il commento di Michael Phelps alla medaglia della Efimova, diventata un vero e proprio caso. Il clima di tensione ha richiesto l'intervento del Cio. Il Comitato Olimpico Internazionale ha chiesto agli atleti di rispettare gli avversari non solo con i comportamenti sui campi di gara, ma anche nelle loro dichiarazioni.

Pubblica gogna (dei perdenti) per i dopati. Altro che tregua olimpica. Rivolta di tifosi e atleti con i riabilitati dal doping. Dotto duro: "Li guardi e vorresti dargli un pugno", scrive Benny Casadei Lucchi, Mercoledì 10/08/2016, su "Il Giornale". Per la città olimpica, per il parco olimpico, nei palazzetti olimpici, ovunque si aggira uno spettro che non è solo il doping, ma anche il modo in cui atleti puliti e pubblico lo stanno vivendo. Monta l'amarezza, c'è tensione, e siamo ai fischi, agli insulti. Nel nuoto i casi Sun Yang ed Efimova e Morozov, ieri in batteria e semifinale nei 100 stile con il nostro Luca Dotto, hanno trasformato il bordo vasca in un'arena di cose brutte. S'insultano fra loro gli atleti divisi tra puri o al momento puri e sporchi o al momento ex sporchi. Caricando a pallettoni i tifosi sugli spalti. Per dire. Luca Dotto dopo le batterie dei 100 ha detto: "Le Federazioni che dovevano prendere delle decisioni stanno perdendo la faccia e hanno stancato noi e il pubblico. E poi quando ci sono un paio di ex dopati che tolgono un posto in semifinale o finale a persone pulite, che lottano tutta la vita per quel posto... ecco... quando li guardo in camera di chiamata, mi viene da prenderli a ceffoni. Però sono ormai qui, non gli si può sparare alle gambe altrimenti l'avremmo già fatto, per cui cerchiamo di batterli perché vale doppia soddisfazione". Per dire: il Cio ieri ha saputo solo uscirsene con un inutile e ovviamente inascoltato "gli avversari vanno rispettati". Luca infatti non fa nomi, ma è ovvio che si riferisca a Sun Yang argento davanti a Detti nei 400, o al russo Morozov, finito nel rapporto Wada e però riammesso dal Tas e ieri in batteria con lui nei 100 stile. Per dire: con cruda schiettezza australiana, Mack Horton, l'altro giorno ha vinto l'oro dei 400 davanti al cinese misterioso e sospetto e "non stringo la mano a un ex dopato". O come il caso Efimova, trovata positiva al meldonium e poi riammessa dal Tas e ieri notte seconda tra i fischi e gli insulti nei 100 rana. E il morso di Phelps l'ha accolta appena uscita dalla vasca: "Triste che i positivi siano stati autorizzati a gareggiare di nuovo. Mi si spezza il cuore e mi fa letteralmente incazzare". E il francese Lacourt sul cinese Sun Yang: "Ma se fa la pipì viola...". Questo nel nuoto. L'atletica si prepara ad ugual cosa perché lo sport più rappresentativo della rassegna a cinque stelle è anche e purtroppo il più rappresentativo del doping. Per dire: Justin Gatlin velocista duro a invecchiare e soprattutto duro a darsi per vinto dopo i malanni del doping, è l'uomo che più di tutti, sulla carta e crono alla mano, può rendere difficile la vita a re Usain Bolt. E non a caso il re, un giorno sì e l'altro pure, se ne esce con frasi contro i dopati. Ieri ha detto "stiamo estirpando l'erba cattiva". Per cui anche qui ci si chiede come atleti e spalti accoglieranno l'americano trovato positivo due volte. Ugual cosa ci si domanda per Asafa Powell, anche lui finito nelle maglie dell'antidoping per uso di stimolanti. E che dire di Sandra Perkovic, fuoriclasse del disco, dopata nel 2011 e campionessa olimpica nel 2012 e oggi qui a difendere quella medaglia? O della cinese Li Yong che a Roma, tre mesi fa, ha stravinto la 20 km di marcia e poi l'ha persa perché squalificata un mese per positività e tutto è stato fatto di fretta ed eccola qui mentre Schwazer si sta dannando l'anima per essere riammesso? Già, la triste e lunga e logorante vicenda del marciatore. Ieri notte, appena usciti dall'interminabile audizione con Alex davanti al Tribunale di arbitrato sportivo in trasferta a Rio, i suoi legali hanno detto sconsolati "Alex proseguirà con gli allenamenti, la sentenza verrà comunicata entro venerdì, termine massimo per consentirgli di prendere parte alla 20 km di marcia". Il suo allenatore, Sandro Donati, si è lasciato scappare un preoccupante "pronti a una sentenza già scritta". Gli avvocati hanno comunque fornito tutte le evidenze a sostegno della tesi difensiva: vizi di forma, la provetta etichettata con il nome del paese, Racines, dove vive un solo atleta al mondo, cioè Alex, per cui diritto all'anonimato violato. Quindi prove video che illustrano l'andamento ormonale monitorato spontaneamente per mesi, anche nel periodo in questione (il test del 1 gennaio scorso). Il problema, visto lo spettro che s'aggira per l'olimpiade, è però un altro. Comunque vada a finire, Alex ha perso. Perché se i giudici confermeranno la decisione Iaaf, addio olimpiade e carriera. Dovessero invece dargli ragione e riammetterlo in tempo utile per la 20 km e, soprattutto, per la sua 50, andrà scortato mentre marcia. Il pubblico di Rio ha scelto: la squadra degli ex dopati non ha bandiera e non ha casa.

Ricostruiti in un docufilm tutti i misteri dell'incredibile marcia di Alex Schwazer. Un instant movie firmato da Attilio Bolzoni e Massimo Cappello con la regia di Alberto Mascia che contiene inedite intercettazioni telefoniche. Su tentativi di pilotare gare internazionali di atletica e sui segreti del doping russo.

I signori del doping alla prova di una vera inchiesta, scrive il 4 agosto 2016 Elisa Marincola su "Articolo 21". Il docufilm pubblicato oggi sul sito di Repubblica aiuta a capire meglio non solo la vicenda del marciatore Alex Schwazer, ma anche il funzionamento, o non funzionamento, della macchina dell’antidoping nazionale e mondiale. Che alla fine sembra ora rivedere anche i propri stessi risultati, ridimensionati dal risultato pubblicato sempre oggi del test a sorpresa sull’atleta effettuato lo scorso 22 giugno, che dimostra ancora una volta l’assoluta assenza di sostanze nel suo fisico. Il ventesimo esame in poco più di un anno, con uno solo, curiosamente, risultato positivo. La cronaca è nota ai più, ci limitiamo a ricordare che Alex Schwazer era stato già sospeso per tre anni e nove mesi complessivi dopo essere stato trovato positivo a un test alla vigilia dei giochi di Londra. Colpa ammessa pubblicamente e scontata in silenzio e in solitudine. Ma non del tutto abbandonato, perché presto accanto a lui si è schierato una figura indiscussa dello sport pulito: l’allenatore Sandro Donati che proprio per la sua inflessibile battaglia contro le pratiche di doping diffuse molto oltre l’immaginabile ha sacrificato la sua carriera, messo praticamente al bando da incarichi prestigiosi che pure proprio per le grandi capacità tecniche avrebbe meritato. E proprio grazie al sostegno tecnico e umano di Donati, Alex ha ripreso ad allenarsi fuori dai circuiti ufficiali che gli erano vietati, ha ricostruito il suo fisico ma soprattutto la sua anima e la sua autostima, sempre sotto stretto controllo del suo mister, che lo ha costretto a marce forzate e analisi continue. Fino all’8 maggio, quando, finita la squalifica, corre sui 50 km alla Coppa del mondo di Roma e vince indiscutibilmente. E poi, all’improvviso, a un mese e mezzo da quella bella medaglia d’oro, la rivelazione di quel famoso prelievo la mattina di capodanno, con due risultati contrastanti usciti a distanza di mesi, con percorsi sospetti, ma in tempo per fermare la sua partecipazione a Rio. Fino a far arrivare avvertimenti che sanno anche di criminalità organizzata a Donati, tanto da muovere la commissione parlamentare antimafia a convocarlo per raccogliere la sua denuncia. Firmata da Attilio Bolzoni e Massimo Cappello (già autori insieme del docufilm Silencio sulla mattanza di giornalisti in Messico), “Operazione Schwazer. Le trame dei signori del doping” è un’inchiesta giornalistica che rivela una serie di falle, incongruenze, intrecci d’interessi macroscopici nel sistema dell’antidoping nazionale e mondiale, ma anche nella gestione occulta di risultati di gara forse non sempre così limpidi e meritati. Non vogliamo dare giudizi su settori e vicende che non conosciamo e su cui la magistratura italiana ha da tempo aperto diversi fascicoli d’indagine. Notiamo semplicemente che non sono serviti mesi e mesi di polemiche, inchieste interne alle autorità sportive internazionali, scandali pubblici e privati, denunce e scontri persino tra governi, a mettere in fila i pezzi di una realtà malata (se anche criminale lo dimostreranno gli inquirenti) come è riuscito a fare in appena 20 minuti di video un bel prodotto giornalistico realizzato praticamente a costo zero, con il lavoro da inviato di Bolzoni, i rimborsi spese per trasferte e poco altro coperti dal quotidiano fondato da Eugenio Scalfari, e l’impegno a titolo praticamente volontario dello stesso Massimo Cappello e del regista Alberto Mascia e di quanti in questi mesi sono stati al fianco di Schwazer e di Donati e da anni denunciano con loro la marea incontrastata del doping, che sta avvelenando un mondo che per sua natura dovrebbe esaltare lo stato fisico più sano. Sembra un ossimoro, ma lo sport, vissuto sotto i riflettori in ogni momento della giornata e delle carriere di chi lo pratica soprattutto da professionista, lussuosamente finanziato da sponsor che tutto sanno e nulla dicono, raccontato fin nelle alcove da giornali, tv, siti web che pagano miliardi di diritti per pochi secondi o anche solo per un solo scatto, si rivela oggi forse la periferia più oscura e volutamente dimenticata, dai media, dalle istituzioni internazionali, e anche dalla politica che tanto severa invece appare verso chi si fuma in santa pace una cannetta senza far male a nessun altro se non a se stesso (meno comunque dei milioni di fumatori di sigarette che inquinano anche noi). Ora, dopo aver sentito le intercettazioni e visto documentazioni e testimonianze messe in fila da Bolzoni e Cappello, resta da chiedersi: i giudici sportivi che faranno? La Iaaf avrà qualcosa da dire? E tutti quei colleghi di Schwazer pronti a crocifiggerlo? Senza voler giudicare nessuno, ma qualche dubbio su intrecci di conflitti d’interesse e dossier già noti da almeno tre anni (sempre ascoltando gli intercettati) e insabbiati fino ad oggi dovrebbe averlo chiunque. L’udienza finale del Tas (il Tribunale arbitrale sportivo) sul caso Schwazer, decisiva per la sua partecipazione alle competizioni delle Olimpiadi di Rio, è ora spostata all’8 agosto nella città brasiliana, ad appena quattro giorni dalla 20 km di marcia, prima gara a cui il marciatore potrebbe partecipare se fosse riconosciuta la sua innocenza. Per chi non lo sa, il ricorso di Schwazer ha un costo: 40mila euro tra spese legali, controanalisi e viaggi. Naturalmente senza sponsor. Cercare la verità è cosa per ricchi, ma né Alex e né il suo allenatore Sandro Donati lo sono.

Caso Schwazer: le intercettazioni delle telefonate del giudice Maggio a Donati, scrive il 4/08/2016 Luca Landoni. Oggi è uscito l’atteso docufilm di Repubblica a cura di Attilio Bolzoni. Una ricostruzione minuziosa del caso legato ad Alex Schwazer a partire dalle irregolarità del modulo del controllo antidoping del 1° gennaio 2016 (quello da cui risultò l’ultima positività) e che riportava la scritta Racines (luogo di residenza di Schwazer, NdR) rendendolo di fatto non anonimo, fino alle famose intercettazioni che per la prima volta possiamo anche ascoltare. Potete vedere il docufilm in versione integrale subito sotto. Intanto però vi trascriviamo il contenuto delle intercettazioni di quello che Donati aveva definito “un giudice internazionale di marcia vicino al Damilano” e che da oggi ha il nome che molti immaginavano ma non potevamo ancora mettere nero su bianco per ovvi motivi: Nicola Maggio, già al centro di un caso clamoroso di sospette decisioni secondo le accuse del collega Robert Bowman. Ecco il testo. Telefonata Uno: ore 6 di mattina giorno della gara di Roma (7 maggio), rintracciabile al minuto 7:30 del docufilm: «Buongiorno sono Maggio. Disturbo, immagino, a quest’ora.Ieri sera stavamo qui alla cena con tutte le vecchie glorie. Allora lei per cortesia stia calmo. L’unica cosa, la prego, glielo dica ancora una volta (immaginiamo ci fosse stato un precedente contatto a voce, NdR) fino a prima della gara, possibilmente lasci vincere Tallent, mi capisce?» Telefonata Due, 23 maggio, 20 giorni prima della gara di La Coruna, minuto 8:38 del docufilm: “Gli dica di fare una gara bella tecnicamente, di non andare a cercare disgrazie con i due cinesi che sono da 1 ora e 17 perché non ha senso”. Dunque alla fine Donati i nomi li ha fatti. Passiamo ora alle intercettazioni del dottor Giuseppe Fischetto, medico della Federazione Italiana, che parla “con un amico”. Fischetto, grande accusato da Schwazer nel processo di Bolzano, cionondimeno è stato responsabile antidoping alla Coppa del Mondo di Marcia di Roma, e secondo le parole di Donati gestiva e aggiornava il database gigantesco con tanti nomi dei russi, e sempre in Russia veniva inviato a svolgere una grande quantità di missioni.

Ecco il testo. Telefonata Uno, 18 giugno 2013, ore 21:40, al minuto 10:55 del docufilm. Interlocutore un amico.

– Sono Giuseppe Fischetto, come stai?

– O Giuseppe ciao come stai?

– Un po’ incazzato con la giustizia, avrai sentito che sono venuti a sequestrarci i computer, di tutto di più. Son venuti da me, da Rita (Bottiglieri, NdR), prima a casa da Fiorella (l’altro medico al centro del caso, NdR) sempre per la vicenda Schwazer. Hanno fatto un sequestro di tutto il materiale informatico che abbiamo a casa e in Fidal alla ricerca dell’idea che qualcuno possa aver sostenuto Schwazer

– Ma questo su iniziativa di chi, Giuse’?

-Del giudice di Bolzano, Va be’ so’ una rottura di palle perché m’han tolto tutti gli hard disk e ci sono anche tante cose confidenziali internazionali eh… che io spero non ci siano fughe di notizie perché succede un casino internazionale: sai metti che vengon fuori dei dati dei russi più che non dei turchi più che non degli altri, perché io sono nella commissione mondiale, tu lo sai, della Iaaf.

L’ex procuratore capo di Bolzano Guido Rispoli spiega che il database cui si accenna conteneva dati ematici sospetti di molti atleti russi ed è stato poi usato come materiale probatorio centrale nelle indagini seguenti che hanno portato ai noti fatti culminati nell’esclusione paventata della Russia dai prossimi Giochi Olimpici.

Telefonata Due, 18 giugno 2013, minuto 13:32 del docufilm, interlocutore Rita Bottiglieri:

GF: Ciao, ‘ndo stai?

RB: Sono a (?). Ora evidentemente la Procura di Bolzano vuole cercare riscontri riguardo alle (ambizioni?) del marciatore.

GF: Io son preoccupato del materiale informatico di tutta un’attività internazionale riservata, capito?

RB: E va be’, Giuseppe…

GF: Questo crucco comunque addamorì ammazzato, devono incularsi la Kostner.

Da segnalare che nel video segue la telefonata del giornalista Bolzoni a Fischetto che però non risponde dicendo di essere all’estero. Gli si chiedeva se gli sembrava normale che lui fosse giudice nella gara di Schwazer, dopo che il marciatore lo aveva accusato. 

Telefonata Tre, 27 giugno 2013, minuto 15:15 del docufilm, interlocutore un impiegato della Fidal:

GF: La sai l’Ultima? Ho appena chiuso il telefono, sai chi ma ha chiamato? Lamine Diack (ex-Presidente della Iaaf che nel 2015 sarebbe stato arrestato per corruzione, NdR) dandomi il massimo supporto, dicendomi di andare avanti.

Impiegato Fidal: Anche qui c’è la solidarietà di tutti, di chiunque.

Donati chiosa: “E questo è l’ambiente da cui è partito l’ordine di rifare il controllo antidoping a Schwazer.

"Forse non ci vedremo più" Schwazer saluta l'allenatore. Dopo la squalifica a 8 anni, per Alex Schwazer è il momento della riflessione. Il marciatore ha deciso di lasciare Copacabana, scrive Claudio Torre, Venerdì 12/08/2016, su "Il Giornale". Dopo la squalifica a 8 anni, per Alex Schwazer è il momento della riflessione. Il marciatore ha deciso di lasciare Copacabana e di rientrare in Italia. Ma dietro le spalle si lascia amarezza e quella sensazione di impotenza di chi voleva gareggiare e adesso si ritrova a dover restare fermo e probabilmente a rinunciare alla sua carriera. E così ha salutato il suo allenatore Sandro Donati, l'uomo che lo aveva fatto rinascere. Lo ha guardato in aeroporto e gli ha detto: "Mi sa che è l'ultima volte che ci vediamo...". Una frase che, forse, più della sentenza del tas lascia intender quanto sia ormai definitiva la decisione di Schwazer di mollare tutto. "Alex è cresciuto, saprà cosa fare", ha affermato Donati. "Al momento - spiega Schwazer dopo il suo arrivo in Italia - non ho ancora le idee chiare su cosa farò, fino a mercoledì speravo, perché sono innocente. Ho dato tutto per essere qui sperando di gareggiare. Sinceramente non pensavo alla conferma della squalifica. Adesso tornerò a casa e farò i miei dovuti ragionamenti, ma è ancora presto".

Doping, Alex Schwazer sfida la paura del vuoto: «Con Kathia cambio vita». Il marciatore dopo la mega squalifica: «Non so cosa farò, ma lei è il mio esempio. Appena arrivato a Vipiteno scalerò il passo Giovo in bici: non so stare fermo», scrive Marco Bonarrigo il 11 agosto 2016 su “Il Corriere della Sera”. Il taxi per l’aeroporto è arrivato, Alex no. È uscito presto a camminare sulla spiaggia di Copacabana, quella dove mercoledì mattina ha svolto l’ultimo allenamento della carriera: 36 chilometri sotto il diluvio con Sandro Donati a ruota in bici. Dodici ore dopo la sentenza di squalifica Alex Schwazer ha ancora occhiaie profonde e viso scavato, ma è più sereno.

Come sta?

«Come uno che deve chiudere un capitolo della sua vita in fretta per non farsi male. Non voglio scappare, devo cambiare. Spero di essere capace».

Lei ha un precedente, una lunga squalifica per doping. Non le ha indicato delle vie di uscita?

«È diverso. Nel 2012 è stato faticoso ma più facile: ero colpevole, imbroglione, dopato. Mi sono salvato tornando nel mio mondo, che adesso non esiste più. Ora sono una vittima. Dopo la positività ho passato una settimana allucinante. Mi ha salvato la lotta per la verità che abbiamo iniziato con Sandro Donati. Ma abbiamo perso. Lui continuerà a lottare, con tutto il mio appoggio. Io devo cambiare vita. Subito».

Non era preparato? Come poteva pensare di sconfiggere la federazione internazionale?

«Sono — anzi ero — un atleta, mica un avvocato. Quando affronti una gara lo fa sempre per vincere, anche se hai poche speranze».

Cosa farà adesso?

«Non lo so. Durante la squalifica ho provato col ristorante, gli anziani, l’università. Ho sempre fallito e mi spaventa fallire ancora. Allenamento è massacrarsi di fatica per un obiettivo altissimo. La maggior parte dei lavori è routine, allenamento di scarico. Non riesco a immaginarlo».

Ci sarà un progetto che aveva in mente per il fine carriera.

«Un lavoro nello sport. Ma mi viene da ridere: che mestiere può fare un dopato nel mondo dello sport? Allena i ragazzi?».

Nel 2012 il doping le costò anche la fine del rapporto con Carolina Kostner. Oggi al suo fianco c’è Kathia.

«In questi mesi di allenamento a Roma e poi in queste settimane di angoscia lei è stata un riferimento fondamentale. È una relazione importante, vorrei fosse quella della vita. Amore a parte, ammiro la sua indipendenza: si è costruita un’attività e l’ha portata avanti da sola fin da ragazza. Vorrei essere capace di fare così: inventarmi un mestiere normale con l’entusiasmo che ci mette lei ogni mattina. Kathia non sa nulla di sport, di controlli, di doping. Con Carolina era tutto in comune. Solo vivendo in mondi diversi riesci a non impazzire».

Continuerà a marciare?

«Continuerò a correre e pedalare. Non posso stare fermo, mi viene troppo da pensare. Quando Sandro mi ha detto che avevamo perso, sono andato a camminare sulla spiaggia. Non sono scappato dalle telecamere, io posso dominare i pensieri solo muovendomi. Marciare no: mai più, nemmeno per un metro. La marcia non è libertà, ma controllo maniacale dei movimenti del corpo: le gambe, le braccia, le spalle. La marcia è dolore e agonismo. Non sarò mai più un marciatore».

Scrittori e intellettuali la sostengono, la maggior parte dei suoi colleghi la odia.

«Non ricambio il loro odio, anzi lo capisco. L’atletica è tutti contro tutti. Dare del dopato a un collega è il miglior modo per giustificare che vai più piano di lui o sei meno popolare. Non odio Tamberi: lui non sa chi sono, cosa ho vissuto. Non può capire, per lui e per gli altri sono solo un dopato. Pazienza».

La prima cosa che farà arrivato in Italia?

«Prenderò un treno per Bolzano e il bus fino a Vipiteno. Poi salirò in bici e scalerò il Passo Giovo».

Resterà a Vipiteno?

«È la mia terra, ci sono i miei genitori. Non potrei mai lasciarla».

Guarderà le gare olimpiche di marcia?

«Le ho cancellate dalla mente».

Alex Schwazer è innocente (ma non ho le prove). Dubbi, perplessità e qualche riflessione sulle accuse che hanno portato alla squalifica del marciatore italiano, scrive Gianluca Ferraris l'11 agosto 2016 su "Panorama".

Io so, ma non ho le prove.

Io so che Alex Schwazer è innocente.

Io so che Alex non prendeva più nemmeno un’aspirina, terrorizzato com’era da qualsiasi traccia di farmaci nel suo sangue.

Io so che Alex una notte ha urlato per un banale ascesso, perché l’oppiaceo con cui noi comuni mortali sediamo il nostro mal di denti lui non volle vederlo nemmeno da lontano.

Io so che Alex, dopo l’annuncio di voler tornare in attività, ha passato indenne oltre 40 controlli, la maggior parte dei quali a sorpresa.

Io so che non ha senso assumere «una lieve quantità» di testosterone il 31 dicembre senza esserti dopato né prima né dopo, e con il ritorno in pista lontano più di quattro mesi.

Io so che prelevare un campione di urina l’unico giorno in cui i laboratori dell’antidoping sono chiusi (permettendo così a mani ignote di trattenere la provetta con sé per 24 ore) è quantomeno strano.

Io so che mancano alcuni documenti di viaggio della fialetta. E che quando questa ricompare in un laboratorio di Colonia, invece di un codice numerico che dovrebbe rendere anonimo l’atleta, sopra c’è scritto Racines, Italia. Maschio che gareggia su lunghe distanze, superiori a 3 km. A Racines ci sono 400 abitanti. E un solo marciatore.

Io so che il primo controllo su quella fialetta fu negativo.

Io so che qualcuno, mesi dopo, suggerì al laboratorio una seconda analisi, che risultò lievemente positiva.

Io so che la Wada, l’agenzia mondiale antidoping che ha stanato Lance Armstrong e gli olimpionici russi, la più alta autorità del pianeta in materia, non ha partecipato ai controlli e alle analisi su Alex, interamente gestiti dalla Federazione internazionale di atletica.

Io so che i vertici vecchi e nuovi della Federazione internazionale di atletica sono stati a lungo chiacchierati per aver chiuso un occhio nei confronti dei tesserati russi, gli stessi che Alex e il suo coach Sandro Donati hanno contribuito a denunciare.

Io so che Donati è un mago delle tabelle di allenamento e un eroe della lotta al doping.

Io so che negli anni Novanta, quando Donati scoperchiò il cosiddetto sistema Epo, due degli atleti che allenava furono vittima di un caso di provette manipolate.

Io so che Alex, nonostante tre anni e mezzo di lontananza dalle piste, marciava ancora più veloce di tutti.

Io so che alla vigilia di una gara a La Coruna Donati ricevette pressioni perché Alex non infastidisse i marciatori cinesi candidati alla vittoria.

Io so che Alex in quella gara arrivò secondo, e che gli ispettori controllavano da vicino ogni suo passo per cogliere una qualsiasi irregolarità stilistica che lo avrebbe fatto squalificare.

Io so che l’allenatore dei cinesi è Sandro Damilano, fratello dell’ex marciatore Maurizio. E che prima della 50 chilometri di Roma, lo scorso maggio, qualcuno a lui vicino chiese a Donati di «lasciare vincere Tallent», l’atleta australiano che più aveva contestato il ritorno in pista di Alex.

Io so che Liu Hong, altra marciatrice cinese allenata da Damilano, dopo quella stessa gara fu trovata positiva all’higenamine, un vasodilatatore naturale, ma venne squalificata solo per un mese. Adesso lei è a Rio per gareggiare mentre Alex no.

Io so che subito dopo questa imbarazzante fila di coincidenze saltò fuori la presunta positività di Alex. Che però gli venne comunicata oltre un mese dopo, in piena preparazione preolimpica e con un margine davvero ristretto per organizzare una difesa tecnico-legale decente.

Io so che non assistevo a una simile solerzia investigativa, e a un simile tentativo di sobillare i media, dai tempi dell’incendio del Reichstag o dell’arresto di Lee Harvey Oswald. O per restare in ambito sportivo, da quel mattino cupo a Madonna di Campiglio che spezzò per sempre la carriera di Marco Pantani.

Io so che colpire Pantani e Schwazer, sportivi amati dal pubblico ma ragazzi fragili dentro, è facile. Troppo.

Io so che in molti avevano bisogno di punire in maniera esemplare chi ha avuto il coraggio di sfidare il sistema. Quello stesso sistema che poi si ripulisce la coscienza in favor di telecamera con il Refugee Team e i palloni regalati alle favelas.

Io so che Alex si è pagato da solo la preparazione, le divise, gli scarpini, il viaggio per Rio. Che ha finito i risparmi e che ha lavorato come cameriere per mantenersi gli allenamenti. Che dormiva in un tre stelle dietro al raccordo anulare e si faceva testare i tempi su una pista comunale, accanto a runner della domenica e anziani che portavano a passeggio il cane.

Io so che ha confessato i suoi errori del passato, e li ha pagati tutti.

Io so che si stava rialzando senza chiedere aiuti o riguardi, ma solo una seconda possibilità.

Io so che a Rio 2016 quella seconda possibilità è stata data ad atleti dal curriculum sportivo molto più «stupefacente» del suo.

Io so che nessuno di quelli che contano, dal Coni alla Fidal passando per i buonisti a gettone del mondo politico e degli editoriali qualunquisti, ha ancora speso una parola se non di difesa almeno di umana solidarietà per Alex.

Io so che Alex non ha la forza misurata per disperarsi restando saggio. Come non la ebbe Pantani.

Io so che a Rio 2016 Alex sarebbe arrivato sul podio nella 50 km e forse anche nella 20 km.

Io so che su quel podio Alex avrebbe pianto di gioia. Che sarebbe stato disposto a dimenticare.

Io so che invece oggi piange di rabbia in un bar fuori dal villaggio olimpico, come un emarginato. E che sarà condannato a ricordare.

Io so che qualcuno dovrebbe vergognarsi per aver rovinato una vita.

PRESUNTO COLPEVOLE. MARCO PANTANI.

Le Iene show. Puntata del 3 ottobre 2018, ore 21,00 in diretta Alessia Marcuzzi e Nicola Savino, tra informazione ed intrattenimento, tornano con lo storico programma di Italia 1, scrive Simone Lucidi Mercoledì, 3 Ottobre 2018 su maridacaterini.it. Si parla della morte di Marco Pantani. Ci sono molte incongruenze nella ricostruzione della scomparsa del ciclista, prima tra tutte le pallina di cocaina presente per terra accanto al cadavere. La madre di Pantani sostiene che sia stato ucciso. Già prima di morire, Pantani aveva denunciato di essere stato incastrato e di non essersi mai dopato. Qualcuno avrebbe scambiato o modificato le fialette di sangue analizzate. La morte di Pantani fu archiviata come “overdose”, ma la stanza del campione era totalmente in subbuglio. Cosa è successo davvero? La pallina di cocaina e le varie dosi trovate nella stanza non erano presenti, secondo i testimoni ascoltati, ma sono visibili nel filmato della polizia. Le cose erano spostate, non lanciate. Persino il lavandino era stato smontato e posizionato all’ingresso, mentre nel video risulta integro ed al suo posto. Pantani quel giorno aveva telefonato alla reception dell’albergo per chiedere di chiamare i carabinieri perchè c’erano “alcune persone che gli davano fastidio”. La cocaina rilevata nel corpo di Pantani è 10-20 volte superiore rispetto alla dose letale. Marco avrebbe dovuto mangiare diversi boli di droga o berli. Si sospetta dunque che qualcuno gli abbia sciolto la cocaina nell’acqua senza che lui se ne accorgesse. Secondo il medico intervistato dalle Iene il corpo sarebbe stato spostato ed i segni e le ferite presenti in faccia, sulla schiena e sulle braccia sarebbero stati provocati da qualcun altro. L’inviato Alessandro De Giuseppe intervista Pietro Buccellato, usciere che aprì la porta della stanza di Pantani con la forza e trovò il corpo. Anche lui conferma di non aver trovato la pallina di cocaina e che il lavandino era stato divelto. C’era un secondo ingresso nell’albergo e qualcuno poteva essersi introdotto ed essere andato via da lì. Le telecamere non funzionavano e la porta era aperta ed agibile. L’Ispettore di polizia, Daniele Laghi, interrogato non risponde. La scomparsa di Pantani rimane avvolta nel mistero.

Marco Pantani, come è morto veramente? Video Iene, infermiere 118: “Non c'erano tracce di cocaina”. Nella puntata de Le Iene Show, Alessandro De Giuseppe si occupa della morte di Marco Pantani, avvenuta la sera del 14 febbraio 2004 in un residence di Rimini, scrive il 4 ottobre 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". A tredici anni dalla morte di Marco Pantani restano i dubbi sull'ipotesi di suicidio accreditata dai vari processi sul caso. Sono molti i punti oscuri della vicenda. A dare voce ai dubbi della famiglia del ciclista è stato il programma “Le Iene” che ha intervistato il titolare dell'albergo in cui Pantani è stato trovato morto, oltre a uno degli operatori del 118 che per primi hanno trovato il corpo del campione di ciclismo nella camera di albergo, Anselmo Torri. Quest'ultimo ad esempio ha smentito la presenza di una pallina di cocaina che è presente nei filmati della polizia. «Ero in servizio quella notte, ci hanno detto di un'urgenza. Abbiamo trovato tutto in disordine, siamo saliti sul soppalco e abbiamo trovato il corpo di Pantani riverso per terra. Abbiamo trovato dei farmaci, intorno al cadavere non c'era niente, neppure la pallina di coca. Mi sono confrontato anche con i miei colleghi». Nelle riprese della polizia ci sono tante tracce di cocaina, non trovate invece dagli infermieri. I sanitari del 118 presenti quando fu trovato il corpo affermano di non averla vista. Anche per questo la madre di Pantani sostiene: «Marco è stato ucciso». Clicca qui per visualizzare il video del servizio delle Iene sulla morte di Pantani. (agg. di Silvana Palazzo)

Marco Pantani e lo scandalo doping. Che cosa è davvero avvenuto al campione di ciclismo, che ancora oggi occupa un posto d'onore nel cuore degli italiani? Nel corso di questi numerosi anni di distanza dalla sua morte, ancora si indaga su quanto avvenuto davvero quel giorno. I familiari del Pirata non hanno mai creduto alla tesi di suicidio, individuata invece dalle autorità nazionali. Secondo la famiglia ed alcuni amici infatti ci sarebbero dei punti oscuri tutti ancora da chiarire. Lo scorso maggio infatti i Pantani si sono rivolti all'avvocato Sabrina Rondinelli per fare luce sul caso, per risalire a quanto avvenuto anche il 5 giugno del '99. Si tratta del penultimo giorno del Giro d'Italia, data in cui il sangue di Pantani avrebbe dimostrato la presenza di sostanze dopanti. Le Iene ripercorrono ancora una volta il caso di Marco Pantani nella puntata in onda questa sera, mercoledì 3 ottobre 2018. Non si tratta della prima volta che il programma di Italia 1 si fa carico della vicenda, dato che lo scorso maggio ha affrontato alcuni punti chiave legati alla presunta positività del ciclista. Secondo l'ex massaggiatore del campione, Roberto Pregnolato, la sera precedente alla tappa di Madonna di Campiglio il valore dell'ematocrito di Pantani sarebbe stato di 48, ovvero due punti al di sotto del valore massimo previsto dalla legge. "Uno che è primo in classifica e viene controllato in ogni momento, si prepara in tempo se è fuori norma, ma Marco non lo era", ha sottolineato infatti ai microfoni delle Iene. Alcune ore più tardi invece il valore è schizzato fino a 53, ma a danneggiare ulteriormente lo stato d'animo del Pirata è stato il processo in diretta subito all'istante dai giornalisti, che lo avrebbero aspettato all'esterno dell'hotel. 

La battaglia legale della famiglia Pantani. Il sangue delle provette di Marco Pantani è stato alterato. Ne è convinta la famiglia del ciclista, che a vent'anni di distanza dalla sua morte cerca ancora di riabilitare il suo nome. Un'ipotesi confermata da Renato Vallanzasca, che ha riferito alle autorità come la camorra avrebbe minacciato un medico perché alterasse il test del sangue. L'avvocato Sabrina Rondinelli, incaricato quest'anno di svolgere le pratiche per la riapertura del caso, ha infatti sottolineato come in realtà la morte di Pantani risalga a Madonna di Campigno ed all'anno 1999. Si parla di un decesso morale, dato che la scomparsa del Pirata è avvenuta solo cinque anni più tardi. Secondo il legale tra l'altro all'epoca dei fatti non sarebbero stati fatti gli accertamenti utili per appurare l'omicidio volontario, mentre alcuni rilievi sulla scena del crimine escluderebbero l'ipotesi di suicidio. Al centro delle indagini anche quel viaggio misterioso proposto ai genitori di Marco Pantani, il giorno precedente al ritrovamento del corpo del ciclista. "La nostra famiglia non si è mai fermata", afferma Tonina, la mamma di Pantani, a Panorama. "Sono convinta che con l'avvocato Rondinelli riusciremo, finalmente, a portare all'attenzione della magistratura le troppe stranezze che circondano la morte di mio figlio", ha aggiunto.

GIALLO PANTANI: 200 ANOMALIE, IL J’ACCUSE DI DE RENSIS. Scrive il 31 luglio 2016 Andrea Cinquegrani su “La Voce delle Voci”. “Un caso che presenta almeno 200 anomalie, la morte di Marco Pantani. Un’archiviazione costruita su macroscopiche illogicità. Come credere alla storia dei poliziotti che mangiano un cono Algida durante il sopralluogo e inconsapevolmente gettano la carta nel cestino? O dei tre giubbotti che qualcuno ha a sua insaputa lasciato nel residence? Poi le analisi di Marco a Madonna di Campiglio: come può un gip non trasferire gli atti a Napoli quando ci sono le verbalizzazioni di camorristi che parlano espressamente di corruzione per taroccare quelle provette? Ma si sa, la camorra non corrompe, minaccia di morte…”. Un fiume in piena, l’avvocato Antonio De Rensis, ai microfoni di Colors Radio per puntare l’indice contro un mare – è il caso di dirlo – di anomalie nella tragica vicenda del campione, scippato di quel Giro già stravinto nel 1999, per via delle scommesse di camorra che avevano puntato una montagna di soldi sulla sua sconfitta (e quindi il Pirata “doveva perdere”, a tutti i costi); e poi “suicidato” nel residence “Le Rose” di Rimini, perchè, con ogni probabilità, dava fastidio, “non doveva parlare”, su quel mondo nel quale non dettano legge solo le scommesse della malavita organizzata (capace, a fine anni ’80, di “far perdere” uno scudetto già vinto al Napoli di Maradona), ma anche quella del doping, come dimostra il fresco “caso Schwazer”, con il suo manager, Sergio Donati, minacciato di morte per il timore che possa alzare il sipario su colossali traffici e affari innominabili che costellano il “dorato” mondo sportivo. E’ attesa in questi giorni – la previsione era per fine luglio, prima settimana di agosto – la decisione del gip di Forlì circa il destino dell’inchiesta sul giro d’Italia ’99 taroccato e la sconfitta del Pirata decisa “a tavolino” dalla camorra per via dell’enorme giro di scommesse, come hanno descritto prima Renato Vallanzasca, poi svariati “uomini di rispetto” dei clan campani, a cominciare dal collaboratore di giustizia Augusto La Torre, leader delle cosche di Mondragone abituate a grossi affari esteri (già ad inizio anni ’90 investivano in alberghi e ristoranti scozzesi, epicentro Aberdeen: i “deen don”, come scriveva già allora la stampa britannica) e in vena di riciclaggi spinti. Il legale del pentito La Torre – che ha raccontato per filo e per segno i colloqui con altri tre big boss – è Antonino Ingroia, l’ex magistrato di punta del pool di Palermo, poi passato, con poca fortuna, in politica (quindi avvocato e consulente per la Regione Sicilia targata Rosario Crocetta). Una decisione, quella del gip di Forlì, che a non pochi addetti ai lavori pare scontata: la trasmissione degli atti alla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli per competenza, visto che sono in ballo i clan di camorra, la regia del giro taroccato è made in Campania, non pochi boss hanno già verbalizzato su quelle storie e ancora possono farlo (insieme ad altri collaboratori). C’è tutto un bagaglio di conoscenze & competenze, quindi, alla Dda di Napoli, per poter agire al meglio e far luce sul giallo Pantani. Un’archiviazione “tombale”, a questo punto, suonerebbe non solo come una schiaffo alla famiglia Pantani, ma a tutti gli italiani e a quel minimo di Giustizia che – pur ridotta a brandelli – ancora esiste. E soprattutto affinchè non venga un’altra volta calpestata, come è già capitato e continua a capitare in tanti misteri e buchi neri della nostra “democrazia” altrettanto taroccata, proprio al pari di quel maledetto Giro. L’intervista con l’avvocato Antonio De Rensis, legale della famiglia Pantani, è stata rilasciata a Colors Radio, l’emittente romana diretta da David Gramiccioli, in vita da un anno ma già con indici d’ascolto molto elevati, con solo in Italia, ma anche all’estero. Impegnata soprattutto sul fronte dei diritti civili, dei diritti spesso e volentieri negati e calpestati nel nostro Paese, per dar voce a chi è in attesa di giustizia, o di quella salute portata via dagli interessi di baronie e case farmaceutiche. Uno stupendo spettacolo, diretto e interpretato da Gramiccioli, “Vorrei avere un amico come Rino Gaetano”, dedicato alla musica e all’arte civile di un artista al quale l’allora mainstream dichiarò guerra (in tutti i sensi, fino ad ammutolirlo nel senso letterale del termine), è appena andato in scena a Napoli, nella prestigiosa sede dell’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, altro avamposto che lotta non solo per la sua sopravvivenza, ma per fare cultura nel deserto partenopeo, sempre più cloroformizzato dal neomelodismo “arancione”. Uno spettacolo che seguendo il fil rouge di poteri, mafie & massonerie, legava storie e misteri d’Italia, dal caso Montesi al giallo Moro, passando per il Vajont, con una serie di rivelazioni da novanta, autentico regalo per la memoria collettiva: una risorsa da coltivare come pianta sempre più rara. Ecco, di seguito, l’intervista a De Rensis, che potete ascoltare direttamente dal sito di Colors Radio, cliccando fra i programmi sulla casella Voce on Air.

PARLA L’AVVOCATO DELLA FAMIGLIA PANTANI:

“Marco Pantani non era forse il più forte. Ma certo il più amato, mai uno più di lui nella storia del ciclismo. Ogni pomeriggio 10 milioni di italiani davanti alla tivvù a vedere il Giro o il Tour. Forse ha cominciato ad essere un problema anche allora. Il ciclismo forse non era abituato a digerire un fenomeno del genere. Paradossalmente anche questo può essere stato un problema…”.

“Stiamo aspettando le decisioni del gip di Forlì, per fine mese, primi di agosto. Ma è una vicenda che si descrive da sola, nel suo percorso giudiziario”.

“Qui ci sono dichiarazioni scritte, nero su bianco, in cui boss della camorra, come Augusto La Torre, citato da Roberto Saviano nel suo Gomorra, dice espressamente che i medici incaricati delle analisi, quella mattina, furono corrotti. Specifica, non minacciati, ma corrotti. Come se non ci fosse intimidazione, quindi estorsione. Lo sanno tutti, tu non puoi difenderti, dalle richieste della camorra, se non rischiando la vita. La camorra vive di intimidazioni: o lo fai o ti ammazzo”.

“Queste carte, queste verbalizzazioni non sono le uniche. C’erano anche quelle di Rosario Tolomelli, che fu intercettato, dichiarazioni riportate anche in tivvù, e poi quelle di Renato Vallanzasca. E adesso noi, di fronte a questi elementi così chiari, siamo in attesa di capire se il procedimento potrà essere trasmesso alla Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli. Se il suo vicino di casa dice di lei appena un decimo di quello che è stato detto, lei viene ovviamente indagato. Qui abbiamo un capoclan che dice che chi ha fatto i controlli quella mattina a Madonna di Campiglio è stato corrotto, e noi stiamo ancora a chiederci se dobbiamo archiviare o andare avanti! Io mi chiedo, non tanto come avvocato quanto come cittadino: ma noi cittadini possiamo andare avanti così?”.

“Ci sono dei camorristi che dicono questa roba? Tu, Forlì, mandi le carte a Napoli e poi vediamo che cosa succede. Stiamo scherzando? Ma si può sapere in che Stato viviamo? E’ proprio qui che la vicenda di Pantani ci fa capire a che punto siamo arrivati. Fa capire che tutto ciò che dovrebbe essere normale, da noi diventa difficile, quasi impossibile”.

“Domanda. Perchè? Perchè io ho dovuto leggere nell’archiviazione per i fatti di Rimini (la “morte” di Marco nel residence “Le Rose” di Rimini, ndr), nero su bianco, che un gip della procura dice ‘può darsi che la carta del gelato Algida è stata gettata inconsapevolmente da un poliziotto nel corso del sopralluogo’? Ma è possibile pensare che quel 14 febbraio il poliziotto fosse impegnato a mangiare un cornetto durante il sopralluogo? Ecco, io mi chiedo: questa roba qui è normale?”.

“Possibile leggere, nell’archiviazione del gip, ‘può darsi che i tre giubbotti siano stati portati inconsapevolmente nel residence dal marito della manager di Pantani’, il quale ha negato di aver mai visto quei giubbotti in vita sua? E’ una roba normale? Siccome secondo me non lo è, la vicenda Pantani si descrive da sola”.

“Quello che posso dire è una sorta di promessa che ho fatto e che ora rinnovo. Io mi sento un uomo libero, non ho scheletri nell’armadio, quel poco che ho fatto come avvocato me lo sono sudato, per questo posso fare una promessa: che farò tutto quello che è umanamente possibile per raggiungere la verità. Non ho poteri speciali perchè non solo un avvocato, ma tutto quello che sarà possibile io lo farò. E sa perchè? Non perchè sono fanaticamente convinto di avere ragione io. Ma perchè se mi si dice che facendo l’ispezione il poliziotto ha buttato nel cestino la carta del gelato, allora vuol dire che ho ragione io!”.

“Se mi avessero confutato con ragioni logiche, io avrei detto a me stesso ‘amico mio, ti sei sbagliato'; ma se uno mi vuol confutare dicendo che uno ha portato i giubbotti inconsapevolmente – come quelli che pagavano le case a loro insaputa – che la carta gelato l’hanno buttata inconsapevolmente nel cestino mentre facevano il sopralluogo, allora vuol dire che ho ragione io! E vado avanti. Perchè quando una spiegazione non è logica, e tale spiegazione viene data da una persona che deve per forza usare la logica nel suo lavoro, vuol dire che le tue argomentazioni l’hanno messa in difficoltà. Se lei mi mette in difficoltà e io le rispondo fischi per fiaschi… La questione è tutta lì”.

“La gente è tutta con noi. Tutti ricordano Marco con enorme affetto. Il ciclismo forse non era preparato per un impatto così forte, una tale passione anche per chi non seguiva quello sport. E forse tutto ciò ha creato problemi collaterali. Ci sono tante sfaccettature, nella vicenda di Marco, che con ogni probabilità non lo hanno aiutato”.

“Ma chi lavora per la giustizia deve estraniarsi da tutti questi condizionamenti ed esaminare esclusivamente i fatti. I fatti ci dicono che verosimilmente quel giorno a Madonna di Campiglio le provette delle analisi vennero alterate. E che nella vicenda della morte di Marco a Rimini molti fatti devono ancora essere approfonditi”.

“Probabilmente quella mattina nel residence la situazione è sfuggita di mano a quelli che erano con Pantani. Non mi voglio addentrare ora in dettagli, ma può darsi che l’evento morte non fosse previsto. Ma l’intera vicenda giudiziaria è stracolma di anomalie. Una per tutte. Alle 10 e 30 Marco telefona alla reception e dice ‘in camera ci sono delle persone che mi danno fastidio, per favore chiamate i carabinieri’. Che poi arrivano alle 20 e 30. Mi chiedo: se io vado in un qualunque albergo a Roma, telefono alla reception e chiedo l’intervento dei carabinieri, scommetto che arrivano prima delle 20 e 30!”. “Questa è solo una delle oltre 200 anomalie del caso Pantani”. “Le risposte a tutti i quesiti? Sono solo e unicamente nei fatti”. 

5 GIUGNO 1999. Pantani e il mistero di Campiglio. L’Antimafia sentirà i pm di Forlì. Una commissione d’inchiesta sul Giro 1999? Rosy Bindi, presidente della Commissione parlamentare: «Sentiremo i magistrati e faremo le nostre valutazioni». Il procuratore Sottani: al corridore «minacce credibili», scrive Alessandro Fulloni il 31 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". «Pantani è un simbolo dello sport italiano che merita verità e giustizia. Sentiremo i magistrati di Forlì e faremo le nostre valutazioni. Del resto si sa che le mafie hanno sempre avuto grande interesse per il mondo dello sport e la gran mole di denaro che ruota intorno alle scommesse clandestine». Non si sbilancia, la presidente della commissione parlamentare Antimafia Rosy Bindi: ma non è improbabile né lontano il via a una commissione d’inchiesta mirata a fare luce su ciò che accadde il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, quando Marco Pantani venne fermato prima del via della tappa del Giro perché trovato con un ematocrito più alto di quello consentito. Che la camorra lo abbia stoppato, con «reiterate condotte minacciose e intimidatorie» nei confronti «di svariati soggetti a vario titolo coinvolti nella vicenda del prelievo ematico» del corridore, è uno scenario che al procuratore di Forlì Sergio Sottani e al pm Lucia Spirito che hanno coordinato l’inchiesta -la seconda, avviata nel settembre 2014 dopo che una prima era stata archiviata a Trento nel 2001 - «appare credibile». Ma il movente di queste minacce resta «avvolto nel mistero, anche se qualche squarcio, nonostante il tempo trascorso, si intravede». «Tuttavia gli elementi acquisiti non sono idonei a identificare gli autori dei reati ipotizzati». Quelli di truffa ed estorsione e non la corruzione - di cui ha parlato un pentito - cancellata dalla mannaia della prescrizione che ha indotto la procura a chiedere l’archiviazione di un procedimento pur condotto con scrupolo dai due pm, dal loro nucleo di polizia giudiziaria e dai carabinieri della tutela della salute di Roma. A stabilire che destino avrà l’inchiesta - i cui atti sono stati trasmessi da Sottani alla Direzione distrettuale antimafia di Bologna - sarà la decisione, attesa a giorni, del gip di Forlì Monica Calassi. Che potrebbe percorrere tre strade: accogliere la richiesta d’archiviazione, fissare un’udienza per la raccolta di nuovi elementi, o chiedere un’indagine della Procura antimafia. Intervento, questo, rilanciato dalle novità investigative presenti nelle carte firmate da Sottani. Su tutte, le dichiarazioni di un pentito di camorra, Augusto La Torre, in passato braccio destro di «mammasantissima» campani come Antonio Bardellino, prima, e Francesco «Sandokan» Schiavone, poi. Agli inquirenti il collaboratore di giustizia racconta di una conversazione avuta nel carcere di Secondigliano con altri capi clan detenuti al 41 bis, vale a dire il carcere duro. Il pentito parla del caso Pantani - ma non ricorda se prima o dopo i fatti di Campiglio - con Francesco Bidognetti (al vertice dei Casalesi), Angelo Moccia (a capo dell’omonimo clan di Afragola) e Luigi Vollero (detto il Califfo, numero uno a Portici). Dal terzetto arriva la conferma che Pantani è stato fatto fuori dal Giro per volere dei clan operanti su Napoli. Punta il dito sui Mallardo di Giugliano: solo loro «possono averlo fatto. I tre mi dissero che il banco, se Pantani vinceva, saltava e la camorra avrebbe dovuto pagare diversi miliardi in scommesse clandestine. Come quando si verificò con Maradona e il Napoli degli anni Ottanta». La Torre ricorda quella sua delusione dopo la squalifica al Giro: ma come, pure lui «aveva preso la bumbazza»... E gli altri, di rimando: «Ma quale bumbazza e bumbazza... L’hanno fatto fuori sennò buttava in mezzo alla via quelli che gestivano le scommesse...». A verbale usa peraltro parole che avvicinano chirurgicamente la prescrizione: «Escludo nella maniera più assoluta che i medici siano stati minacciati: si tratta unicamente di corruzione». In quelle carte (leggi il documento della procura di Forlì) c’è pure quanto ribadito da Rosario Tomaselli, affiliato ai clan recluso nel 1999 a Novara con Renato Vallanzasca - il primo a parlare di interessi della camorra sul Giro - che al telefono con la figlia, senza sapere di essere intercettato nell’ambito di un’altra indagine dei carabinieri di Napoli, sostiene che «la camorra ha fatto perdere il Giro a Pantani, cambiando le provette e facendolo risultare dopato». E quando la ragazza insiste - «ma è vera questa cosa?» - lui ribadisce: «Sì, sì, sì, sì, sì». Un sì categorico, ripetuto cinque volte. Quanto al prelievo ematico vero e proprio, i carabinieri del Nas parlano, in un’informativa, di condotta «tutt’altro che trasparente e lineare» dei tre medici che fecero l’accertamento. Non ci sono solo quelle discrepanze sugli orari i cui tempi renderebbero possibile - sono le tesi degli ematologi ascoltati dagli investigatori - l’alterazione dei risultati. Piuttosto, quelle parole sono motivate dal fatto che gli investigatori hanno accertato la presenza, nella stanzetta in cui venne fatto il prelievo, di una quarta persona, il responsabile del team medico: l’olandese Wim Jeremiasse, commissario Uci e istituzione al Tour, alla Vuelta e alla corsa rosa. Che l’olandese facesse parte del gruppo - circostanza mai emersa nella prima indagine su Campiglio - lo rivela il suo autista, Simone Cantù, mai sentito prima del 2014. Ma i tre medici ascoltati dagli investigatori e direttamente coinvolti nel prelievo o non ricordano la sua presenza o addirittura non lo conoscono. Circostanza che insospettisce i carabinieri. Che chiedono al gip di intercettarli in vista dell’interrogatorio. Richiesta però bocciata dal gip che «non ravvisa la sussistenza dei gravi indizi» del reato su cui si indaga: appunto l’estorsione. Ma torniamo al 5 giugno. Ore 9 e 15. Cantù avvicina l’olandese nella hall dell’hotel in cui sonno stati fatti i prelievi per ricordargli l’imminente avvio della tappa. Jeremiasse si volta in lacrime: «... oggi il ciclismo è morto...». E poi prosegue: «Marco Pantani ha valori non regolari». Impossibile che il commissario Uci possa spiegare altro: sei mesi dopo morirà - «in circostanze non proprio chiare», scrivono i carabinieri - in un incidente in Austria. Dov’era andato per fare da giudice in una gara di pattinatori su ghiaccio. Sprofondò con l’auto in un lago ghiacciato, il Weissensee, su cui stava spostandosi alla testa di un piccolo corteo di macchine. La sua auto giù per 35 metri nell’acqua gelida, inghiottita dal cedimento improvviso della superficie: Wim venne trovato cadavere dai sommozzatori che lo recuperarono circa un’ora dopo. La donna che era con lui, Rommy van der Wal, sopravvisse miracolosamente dopo avere cercato invano di estrarlo dall’abitacolo. Nel frattempo sono le Camere a interessarsi di ciò che accadde a Madonna di Campiglio. Se l’approfondimento parlamentare dovesse decollare, avrebbe certo un passo differente da quello giudiziario. «È opportuno che venga chiarito se, effettivamente, le indagini devono fermarsi per la prescrizione oppure se ci sia modo di appurare i fatti anche a distanza di tanti anni. Se la magistratura non può andare avanti, è opportuno - riflette Ernesto Magorno, deputato Pd - che il parlamento verifichi l’esistenza di altri percorsi giudiziari da seguire». «Altrettanto inquietante è il ruolo della criminalità organizzata - osserva un altro parlamentare pd, Tiziano Arlotti - che emergerebbe nell’ambito delle scommesse sportive: un quadro già confermato in molte altre inchieste, che però merita di essere approfondito dalla commissione». Daniela Sbrollini, responsabile nazionale Sport del Pd, incalza: «bisogna fare di tutto perché emerga la verità». Non sono solo queste sollecitazioni ad aver indotto Bindi a chiedere l’audizione dei pm forlivesi: la presidente dell’Antimafia da tempo sta pensando ad approfondimenti su sport, criminalità organizzata e doping. Intrecci attorno ai quali ruota, appunto, «una gran mole di denaro». A opporsi all’archiviazione è Tonina Pantani, la mamma del Pirata. Che attraverso Antonio De Rensis, il battagliero legale della famiglia, ha depositato l’opposizione alla richiesta della procura di Forlì. Lo stesso atto che pende davanti al gip di Rimini, chiamato a decidere sul destino dell’indagine bis sulla morte del vincitore di Giro e Tour 1998: archiviazione o supplemento di indagini.

Pantani, il caso doping e il mistero dei valori del sangue. Al di là dell’ipotetico complotto, una certezza: per 10 anni i dati del corridore presentano anomalie, scrive Marco Bonarrigo il 29 marzo 2016 su "Il Corriere della Sera". La parola fine a quel romanzo tragico che è la vita di Marco Pantani è questione di giorni. I tribunali di Rimini e Forlì stanno per archiviare (su richiesta dei piemme) le inchieste sugli episodi chiave della vicenda del ciclista: la morte (14 febbraio 2004) e l’espulsione dal Giro d’Italia del 5 giugno 1999. E se il procuratore di Rimini Giovagnoli non ha dubbi (overdose di cocaina), quello di Forlì Sottani si arrende a un «movente avvolto nel mistero con elementi acquisiti non idonei a identificare eventuali colpevoli». Ma ritiene «credibile» che qualcuno abbia minacciato chi eseguì il controllo del sangue di Campiglio inducendolo a truccare le provette per incassare i soldi delle scommesse. Questo qualcuno sarebbe la Camorra. Nelle 30 pagine di motivazioni l’ipotesi è costruita da alcuni ex fedelissimi del Pirata (massaggiatore, fisioterapista), da due tifosi che avevano orecchiato minacce in una pizzeria, da Renato Vallanzasca e da quattro camorristi piuttosto confusi. Quanto basta però a risollevare l’eterna ipotesi del complotto. Intanto dagli archivi dei tribunali di Trento e Forlì escono i faldoni dei due processi penali subiti dal Pirata: per l’ematocrito alto alla Milano-Torino e per Madonna di Campiglio. In entrambi i casi Marco fu assolto in appello perché il reato ipotizzato (frode sportiva) non era sostenibile. Ma le carte dimostrano come il sangue di Pantani sia stato un profondo, costante mistero in 10 anni di carriera. Lo dicono i file dell’Università di Ferrara (dominus Francesco Conconi) dove Pantani si recò regolarmente dal 1992 al 1996. Conservati a suo nome o con curiosi pseudonimi (Panzani, Panti, Ponti, Padovani...) mostrano oscillazioni impressionanti: l’ematocrito passava dal 41-42% al 52-56% con una coincidenza perfetta tra qualità dei risultati ottenuti e valori alti. E quando Pantani viene ricoverato alle Molinette dopo lo spaventoso incidente alla Milano-Torino, il suo 60,1%, fisiologicamente inspiegabile per i periti, costringe i medici a somministrargli litri di diluente per scongiurare una trombosi. Del controllo di Campiglio ora a tutti vengono in mente dettagli inediti. Ma, interrogato dagli inquirenti, il medico di Pantani, Roberto Rempi, ammise che l’atleta si controllava da solo il sangue, che l’ematocrito la sera prima era altissimo (tra 48 e 49) e Marco totalmente fuori controllo dal punto di vista sanitario. Su Campiglio rispunta l’accurata e documentata perizia dell’Università di Parma: il Dna del sangue era di Pantani, il diluente nella provetta non ebbe effetto sul risultato mentre «l’assunzione esogena di eritropoietina artificiale» spiegava «virtualmente i parametri modificati nel campione di sangue 11.440». A completare il quadro, ecco la lettera «personale e non protocollata» che nel settembre 2000 Pasquale Bellotti, responsabile Commissione Scientifica Antidoping, inviò al segretario generale del Coni e alla Federciclismo alla vigilia dei Giochi di Sydney, dove Pantani fu convocato a dispetto di una salute non buona e di un percorso inadatto. Scriveva Bellotti: «Il quadro ematologico di Pantani, verificato ieri a Salice Terme, è estremamente preoccupante. Il regolamento attuale non ci consente di bloccarlo, ma 3 dei 5 parametri sono fortemente alterati e pongono a rischio la sua salute». Pantani aveva ematocrito al 49% e ferritina da malato: 1.019 ng/mL. La federazione rispose affermando che l’atleta aveva superato tutti i controlli antidoping. Il Coni, risentito, invitò Bellotti a occuparsi di altro. Marco Pantani, lui, mentalmente era forse già un ex atleta.

Campiglio 1999, la svolta. Il p.m.: “La camorra fermò Pantani? E’ credibile”, scrive Luca Gialanella il 14 marzo 2016 su “La Gazzetta.it" Confermate le anticipazioni, dalle parole di Vallanzasca in poi: fu un clan camorristico a intervenire per arrivare all’alterazione del controllo del sangue del Pirata la mattina del 5 giugno 1999. E’ tutto scritto nelle pagine dell’inchiesta della Procura di Forlì, che l’ha chiusa con la richiesta di archiviazione: gli autori dei reati non possono essere identificati. Ma la storia dello sport? Una “cimice” nell’abitazione di un camorrista, le indagini della polizia giudiziaria della Procura della Repubblica di Forlì, guidata dal procuratore Sergio Sottani. Le intercettazioni ambientali e finalmente i riscontri, nomi e cognomi, che svelano, secondo la ricostruzione degli inquirenti, quanto avvenne la mattina del 5 giugno 1999 nell’hotel Touring di Madonna di Campiglio, alla vigilia della penultima tappa con Gavia, Mortirolo e arrivo all’Aprica. Il controllo del livello di ematocrito di Marco Pantani in maglia rosa. L’esclusione del Pirata dal Giro d’Italia per ematocrito alto, 51,9% contro il 50% consentito allora dalle norme dell’Uci, la federciclismo mondiale. L’inizio della fine sportiva e umana dello scalatore di Cesenatico. “Un clan camorristico intervenne per far alterare il test e far risultare Pantani fuori norma”: è l’ipotesi che segue il pm di Forlì. Parole che in questi anni avevamo sentito più volte, dalla famosa frase del bandito Renato Vallanzasca in carcere (“Un membro di un clan camorristico in carcere mi consigliò fin dalle prime tappe di puntare tutti i soldi che avevo sulla vittoria dei rivali di Pantani. ‘Non so come, ma il pelatino non arriva a Milano. Fidati’) al lavoro di indagine della Procura di Forlì, che il 16 ottobre 2014 riaprì l’inchiesta sull’esclusione di Pantani da Campiglio con l’ipotesi di reato “associazione per delinquere finalizzata a frode e truffa sportiva”. Indagine già svolta nel 1999 a Trento dal pm Giardina, e archiviata. Scommesse contro Pantani, scommesse miliardarie (in lire) che la camorra non poteva perdere. Da qui il piano di alterare il controllo del sangue. La Procura di Forlì ha ricostruito tutti i passaggi, ha sentito decine di persone, in carcere e fuori. Ha avuto la prova-regina da cui partire, con l’intercettazione ambientale di un affiliato a un clan che per cinque volte ripete la parola “sì”, alla domanda se il test fosse stato alterato. Ma i magistrati sono andati oltre, hanno ricostruito la catena di comando, sono arrivati ai livelli più alti dell’associazione criminale. “Sono emersi elementi dai quali appare credibile che reiterate condotte minacciose ed intimidatorie siano state effettivamente poste in essere nel corso degli anni e nei confronti di svariati soggetti che, a vario titolo, sono stati coinvolti nella vicenda del prelievo ematico”, scrive il pm Sottani. “Tuttavia gli elementi acquisiti non sono idonei ad identificare gli autori dei reati ipotizzati”. Ecco la richiesta di archiviazione. Eppure forse uno dei più grandi misteri dello sport mondiale ha trovato una verità, almeno parziale. A distanza di 17 anni. E i legali della famiglia Pantani stanno lavorando per capire se possano esserci spiragli per qualche azione in campo civile e sportivo.

"Fu la Camorra a far perdere il Giro a Pantani". Esclusiva di Davide Dezan per Premium Sport del 14 Marzo 2016. Un detenuto vicino alla Camorra e a Vallanzasca, una telefonata intercettata e l'indiscrezione esclusiva raccolta per Premium Sport dal nostro Davide Dezan. Sono i nuovi ingredienti del "caso Pantani" e di quanto, mano a mano, sta uscendo sul Giro perso dal Pirata nel '99, quando fu fermato per doping a Madonna di Campiglio. Riportiamo qui sotto il testo dell'intercettazione. L’uomo intercettato è lo stesso che, secondo Renato Vallanzasca, confidò in prigione al criminale milanese quale sarebbe stato l’esito del Giro d’Italia del ’99, ovvero che Pantani, che fino a quel momento era stato dominatore assoluto, non avrebbe finito la corsa. Dopo le dichiarazioni di Vallanzasca, e grazie al lavoro della Procura di Forlì e di quella di Napoli, l’uomo è stato identificato e interrogato e subito dopo ha telefonato a un parente. Telefonata che la Procura ha intercettato e che Premium Sport diffonde oggi per la prima volta, in esclusiva assoluta. 

Uomo: “Mi hanno interrogato sulla morte di Pantani.”

Parente: “Noooo!!! Va buò, e che c’entri tu?”

U: “E che c’azzecca. Allora, Vallanzasca ha fatto delle dichiarazioni.”

P: “Noooo.”

U: “All’epoca dei fatti, nel ’99, loro (i Carabinieri, ndr) sono andati a prendere la lista di tutti i napoletani che erano...”

P: “In galera.”

U: “Insieme a Vallanzasca. E mi hanno trovato pure a me. Io gli davo a mangià. Nel senso che, non è che gli davo da mangiare: io gli preparavo da mangiare tutti i giorni perché è una persona che merita. È da tanti anni in galera, mangiavamo assieme, facevamo società insieme.”

P: “E che c’entrava Vallanzasca con sto Pantani?”

U: “Vallanzasca poche sere fa ha fatto delle dichiarazioni.”

P: “Una dichiarazione...”

U: “Dicendo che un camorrista di grosso calibro gli avrebbe detto: ‘Guarda che il Giro d’Italia non lo vince Pantani, non arriva alla fine. Perché sbanca tutte ‘e cose perché si sono giocati tutti quanti a isso. E quindi praticamente la Camorra ha fatto perdere il Giro a Pantani. Cambiando le provette e facendolo risultare dopato. Questa cosa ci tiene a saperla anche la mamma.”

P: “Ma è vera questa cosa?”

U: “Sì, sì, sì… sì, sì.”

Tonina Pantani: «È stata ridata la dignità a Marco». La madre parla dell'intercettazione secondo la quale la Camorra avrebbe fatto risultare positivo il ciclista di Cesenatico al controllo antidoping: «Finalmente tutti sapranno che l’avevano fregato», scrive “Tutto Sport” lunedì 14 marzo 2016. «Non mi ridanno Marco, logicamente, ma penso gli ridiano la dignità, anche se per me non l’ha mai persa». Tonina Pantani parla dell'intercettazione di un detenuto che sostiene che la Camorra abbia fatto perdere il giro al figlio, Marco. «Le parole di questa intercettazione fanno male, è una conferma di quello che ha sempre detto Marco, cioè che l’avevano fregato. Io mio figlio lo conoscevo molto bene: Marco, se non era a posto quella mattina, faceva come tutti gli altri. Si sarebbe preso quei 15 giorni a casa e poi sarebbe rientrato, calmo. Però non l’ha mai accettato, non l’ha mai accettato perché non era vero. Finalmente la gente ora potrà dirlo, anche se tanta gente sapeva che l’avevano fregato. Io sono molto serena oggi: finalmente sono riuscita e sono riusciti a trovare queste cose».

Legale famiglia Pantani: «A Madonna di Campiglio non doveva essere fermato». Antonio De Rensis, legale della famiglia del ciclista di Cesenatico: «Noi speriamo anche che si giunga a delle responsabilità ma in ogni caso ritengo che la storia di quella mattina verrà ridisegnata». Scrive “Tutto Sport” martedì 26 gennaio 2016. Marco Pantani a Madonna di Campiglio, al Giro d'Italia, nel giugno del 1999, non doveva essere fermato. Lo ribadisce l'avvocato Antonio De Rensis, legale della famiglia del ciclista di Cesenatico, in una intervista andata in onda stamane durante la trasmissione Rai della Tgr Emilia-Romagna 'Buon Giorno Regione'. "Credo - sottolinea il legale - che siano emersi dei fatti che in ogni caso disegnano gli avvenimenti di quel giorno a Campiglio in maniera diversa. Ricordo che Marco nel pomeriggio tornando a casa si fermò all'Ospedale Civile di Imola. L'ematocrito era tornato a 48.2 ma soprattutto le piastrine che a Campiglio (dove il pirata venne sottoposto ad un controllo Uci, ndr) erano 100.000, all'Ospedale di Imola erano 170.000. I due esami sono totalmente incompatibili, dobbiamo solo capire se è più attendibile quello fatto in una stanzetta di un hotel a Campiglio o in un Ospedale Civile della Repubblica italiana". La Procura di Forlì sta ancora indagando su quello che è accaduto a Madonna di Campiglio, indagine della quale anche la Direzione distrettuale antimafia di Bologna si occupa per la presunta interferenza della Camorra e di un giro illegale di scommesse nell'esclusione di Marco Pantani nel Giro d'Italia. "Credo anche con grandissimo impegno - sottolinea De Rensis - lo dico da spettatore esterno. La sensazione che noi abbiamo sempre avuto quando abbiamo colloquiato con il Procuratore Capo e il Sostituto, è stata sempre quella di essere ascoltati, non siamo mai stati un elemento di fastidio per loro e questo ci ha dato una grande soddisfazione". Da questa indagine ribadisce l'avvocato della famiglia Pantani "noi ci aspettiamo che il Procuratore Capo e il Sostituto con il loro lavoro intenso e molto serio, ridisegnino i fatti. Noi speriamo anche che si giunga a delle responsabilità ma in ogni caso ritengo che la storia di quella mattina verrà ridisegnata perché Marco Pantani, noi sosteniamo e ne siamo fermamente convinti, non doveva essere fermato". Nel filone di indagini che riguarda la Procura di Rimini sulla morte di Marco Pantani, riaperto un anno e mezzo fa, il legale della famiglia Antonio De Rensis, nell'intervista Rai ribadisce che "l'indagine non è chiusa, anzi - aggiunge - devo dire che dopo la richiesta di archiviazione del Pubblico Ministero sulla quale deciderà il Giudice delle indagini preliminari, che dovrà fissare un'udienza, abbiamo avuto ancora più conforto, perché leggendo le carte di quell'indagine abbiamo capito che forse abbiamo ragione noi". Sul caso, il legale ha ricordato che "non soltanto qualche giorno dopo la riapertura, il Pubblico Ministero incaricato si è chiamato fuori (il 9 settembre ha chiesto di astenersi da quell'indagine) ma anche il Gip che era stato nominato per decidere sulla richiesta di archiviazione, ha chiesto di astenersi per cui adesso è stato nominato un altro Gip che mi risulta essere arrivato a Rimini da poco e che speriamo abbia la forza di fare chiarezza su questa indagine che ha decine di punti da chiarire: uno per tutti, ricordo che il consulente del Pubblico Ministero ha detto nella sua relazione, ma addirittura anche a un quotidiano nazionale, che le sue conclusioni potrebbero essere completamente smentite facendo ulteriori esami e dice anche quali, e che si può fare molto di più. Davanti a queste cose faccio fatica a pensare che si possa archiviare questa indagine". "Ho molta fiducia nelle indagini - ha concluso De Rensis riferendosi a entrambi i filoni di indagini - in particolar modo ho grande fiducia sul fatto che la Procura di Forlì possa ridisegnare gli avvenimenti di quella mattina".

Caso Pantani, il legale: «Ora assegnino a Marco il Giro d’Italia 1999». L’avvocato Antonio De Rensis: «Ci opporremo alla richiesta di archiviazione e cercheremo di agire anche in funzione di una riscrittura della storia di quel Giro», scrive “Tutto sport” martedì 15 marzo 2016. Come l'inchiesta riaperta sulla sua morte a dieci anni di distanza, anche quella sulla fine sportiva di Marco Pantani si è conclusa con una richiesta di archiviazione. Come i colleghi di Rimini, i Pm di Forlì hanno definito gli accertamenti ritenendo di non aver elementi per sostenere un processo. L'ombra di un intervento della camorra sul Giro d'Italia del 1999 è rimasta tale, un sospetto, forse anche credibile, ma non percorribile, né perseguibile penalmente. Come avvenuto a Rimini, anche a Forlì la famiglia potrà opporsi alla decisione, che spetterà infine ad un Gip. L'inchiesta bis sul complotto nella corsa rosa era nata dall'idea che Pantani il 5 giugno a Madonna di Campiglio fosse stato incastrato dalla criminalità organizzata: bisognava, secondo questa ipotesi, eliminare chi stava dominando il Giro e per farlo si sarebbe alterato il valore dell'ematocrito nel sangue del ciclista di Cesenatico, favorito nelle puntate degli scommettitori. E' su questo che ha insistito l'avvocato Antonio De Rensis, il legale della madre di Pantani, Tonina Belletti. Ha ottenuto prima la riapertura in Romagna dell'indagine archiviata dalla Procura di Trento, quindi che della vicenda si interessasse anche la Dda di Bologna con il Pm Enrico Cieri, tenuto informato periodicamente dai magistrati forlivesi, il capo Sergio Sottani e la sostituta Lucia Spirito, sugli sviluppi degli accertamenti. E' lo stesso legale a spiegare che i Pm hanno "sì ritenuto credibile" che ci sia stata un'alterazione dei test, "ma forse non si può andare oltre". Risultato, richiesta di archiviazione nel merito, conferma il legale. Sul punto la procura non ha fatto commenti. A quanto si è appreso, nell'atto si farebbe riferimento ai reati di estorsione e minacce a carico di ignoti e di questi però non è stato possibile individuare gli eventuali responsabili e pertanto se ne è chiesta l'archiviazione, nel merito. La procura nella richiesta aggiunge che, rispetto ad altri reati teoricamente ipotizzabili, essi sarebbero comunque prescritti. Nell'indagine sono state sentite varie persone, tra cui la mamma del Pirata, giornalisti e medici. Uno snodo poteva arrivare a ottobre 2014, quando fu convocato Renato Vallanzasca. Agli inquirenti l'ex 'bel René' riferì che nel 1999 fu avvicinato in carcere da un esponente della camorra che, visto il ruolo di prestigio di Vallanzasca all'interno della mala italiana, era desideroso di fargli un 'regalo', e cioè di non farlo scommettere, come stavano facendo tutti, sulla vittoria di Pantani, perché il Pirata quel Giro "non lo avrebbe finito". Anche questa persona è stata sentita dagli investigatori. E c'è, agli atti dell'inchiesta, una telefonata intercettata in cui il detenuto, dopo l'interrogatorio, parla con un parente. Racconta di Vallanzasca e di quando dichiarò che "un camorrista di grosso calibro gli avrebbe detto: guarda che il Giro d'Italia non lo vince Pantani, non arriva alla fine" e che "quindi praticamente la camorra ha fatto perdere il Giro a Pantani. Cambiando le provette e facendolo risultare dopato". E quando il parente domanda, "Ma è vera questa cosa?", la risposta è un sì, ripetuto cinque volte. Parole che "fanno male", a Tonina Pantani, secondo cui "è una conferma di quello che ha sempre detto Marco, cioè che l'avevano fregato. Io sono molto serena oggi: finalmente sono riuscita e sono riusciti a trovare queste cose". Ma non è bastato. L'uomo sarebbe stato riconvocato per chiarire, ma quel poco che ha detto non avrebbe convinto chi indagava sulla possibilità concreta di fare passi in avanti. Sulla richiesta di archiviazione, l'avvocato della famiglia Pantani Antonio De Rensis ha commentato: «È una grande sconfitta - spiega a Sportface.it - per chi all’epoca non è riuscito a capire che ci fosse qualcosa di strano, che i controlli antidoping fossero alterati. E poi questa seconda richiesta di archiviazione rappresenta comunque un atto di accusa, perché conferma la presenza dell’infiltrazione camorristica. Non ci sono più dubbi. Futuro? Ci opporremo alla richiesta di archiviazione. In secondo luogo cercheremo di agire anche in funzione di una riscrittura della storia di quel Giro d’Italia 1999, perché Marco Pantani non l’aveva vinto, l’aveva stravinto. Possibilità che a Marco venga assegnato quel Giro? Io penso di sì, o almeno noi combatteremo per avere almeno una co-assegnazione ad honorem postuma (dopo la squalifica di Pantani fu Ivan Gotti a vincere quell’edizione maledetta della Corsa Rosa, ndr). D’altronde, i fatti sono chiari. Non c’è solo l’intercettazione che sta girando in queste ore, ma una serie di dichiarazione univoche di altre persone informate sui fatti. Novità sull'indagine relativa alla morte di Pantani? Anche qui siamo in fiduciosa attesa: stiamo aspettando la decisione del Gip e anche su questa indagine attendiamo risposte che ad oggi non sono ancora arrivate».

Pantani: 17 anni per avere giustizia, è grama la vita degli avvoltoi. Onore ai giudici di Forlì e un abbraccio fortissimo a Tonina e Paolo Pantani: non hanno mai smesso di difendere Marco dalle palate di fango piovutegli addosso da chi non gli chiederà mai abbastanza scusa, scrive Xavier Jacobelli su “Tutto Sport” lunedì 14 marzo 2016. Ci sono voluti diciassette anni, perché la verità su quel giorno a Madonna di Campiglio venisse a galla ed è merito dei magistrati della Procura di Forlì se, finalmente, è venuta a galla. Così come le parole di Tonina Pantani non hanno bisogno di nessun commento, tanto ammirevoli sono stati la tenacia e il coraggio con i quali la mamma di Marco e Paolo, il papà, in tutto questo tempo, per tutto questo tempo, hanno gridato al mondo che Pantani non avesse mai barato in quel Giro che stava dominando. Diciassette anni aspettando giustizia. E, se riascoltate Marco parlare durante la conferenza-stampa susseguente l’esclusione dalla corsa, leggete nella sua voce tutto lo choc che ha provato, il dolore immenso che l’ha squassato, infilandolo nel tunnel della depressione che l’ha portato alla morte il 14 febbraio 2004, a Rimini, Hotel delle Rose. In attesa di avere giustizia anche per questa vicenda, il pensiero corre a tutti quelli che il giorno dopo Campiglio e nel tempo che è venuto dopo, hanno sputato fango su Marco. Quelli che il giorno prima Marco pedalava nella leggenda e il giorno dopo veniva scaricato come un pacco postale. Dovunque siano, non chiederanno mai abbastanza scusa. E’ grama, la vita degli avvoltoi.

GIALLO PANTANI.

"Pantani è tornato", ecco il libro di De Zan. Da dieci anni, Davide De Zan, giornalista e grande amico di Marco Pantani, indaga per scoprire cosa si nasconde dietro alla morte del Pirata, avvenuta il 14 febbraio 2004 e troppo frettolosamente archiviata come overdose di cocaina, un altro modo per dire suicidio. Collaborando con la madre di Pantani, che da sempre sostiene la tesi dell’omicidio, e con i legali della famiglia, De Zan ha raccolto documenti e prove che accertano quanto sta emergendo ora e che hanno convinto la magistratura a riaprire il caso. In questo libro racconta non solo quello che ora tutti sanno, e che in buona parte nasce da sue scoperte, ma anche i retroscena di come si è arrivati a questo punto. Un’indagine nell’indagine che lascia senza parole. E che squarcia il velo su un secondo inquietante aspetto della vicenda: la cacciata di Pantani in maglia rosa per doping a Madonna di Campiglio. È lì che Marco ha cominciato a morire, ed è lì che iniziano i misteri. Ci sono molti elementi nuovi, raccolti dall’autore e qui presentati per la prima volta, che ridisegnano lo scenario di quel giorno e svelano i tratti di un complotto. Anche su quello incombe un’inchiesta giudiziaria.

"Un'indagine sconvolgente su un campione ucciso due volte": la storia raccontata dal nostro Davide. Tutti ricordano le immagini di Marco Pantani scortato dai carabinieri a Madonna di Campiglio il 5 giugno 1999. Un numero, 53, il valore del suo ematocrito al controllo, gli costa un Giro d’Italia condotto trionfalmente. Per qualcuno, quel giorno crolla un mito. Per Pantani è il mondo stesso a crollare. Insieme alla maglia rosa gli sfilano l’onore, e un gran pezzo di vita. È una discesa agli inferi, che il Pirata compie scalino dopo scalino e si consuma il 14 febbraio di cinque anni dopo nel residence di Rimini dove viene trovato morto. Overdose è il verdetto del giudice. Qualcosa di molto simile a un suicidio per il resto del mondo. Qualcuno continua a nutrire dubbi su quella conclusione ma servono nuovi elementi e molto coraggio per spingere la magistratura a riaprire il caso. Tre persone non hanno mai smesso di lottare per restituire l’onore a Marco Pantani e trovare finalmente la verità. Tonina, la mamma, che ha sempre rifiutato la versione ufficiale. Antonio De Rensis, l’avvocato della famiglia, che ha messo testa e cuore in questa battaglia. E Davide De Zan, un giornalista ostinato, che di Marco era amico. Grazie a un lavoro d’inchiesta puntiglioso e serrato, dettagli, fatti e clamorose dichiarazioni si accumulano sotto gli occhi dell’autore e qui vengono documentati e analizzati nella loro sconvolgente evidenza. È così che hanno preso corpo due parole: complotto e criminalità organizzata. Due parole che gettano la loro lunga ombra fino al tragico epilogo, e impongono di evocarne una terza, ancora più terribile: omicidio. A Campiglio hanno ucciso il campione, a Rimini l’uomo. Un solo uomo ucciso due volte. "Tutti i ragazzi che mi credevano devono parlare" esortava Marco Pantani in un messaggio ritrovato dopo la sua morte. Finalmente i ragazzi hanno parlato. Pantani è tornato. Adesso, fate giustizia.i Marco Pantani. Gli ultimi giorni del Pirata

Liti, fughe e sospetti incrociati. La ricostruzione degli ultimi 40 giorni di Marco secondo i racconti dei genitori, del medico, della manager e del "tutore". E la strana "eclissi" del soggiorno milanese, scrive Davide Di Santo su “Il Tempo”. Quello strano e fragile cerchio magico torna a riunirsi intorno a Marco Pantani qualche giorno dopo il primo dell’anno. È il gennaio del 2004, ultima salita della vita del Pirata. Unico assente è il padrone di casa Michael Mengozzi, gestore di discoteche della riviera, professionista della notte scelto come custode a tempo pieno di Pantani. Intorno al tavolo della casa di Predappio siedono Tonina e Paolo, genitori di Marco, il dottor Giovanni Greco del Sert di Ravenna, diventato nel tempo anche il medico personale del campione, e la manager Manuela Ronchi in compagnia del marito Paolo Tomola e del figlio piccolo. Secondo quanto raccontano i protagonisti prima e durante il processo agli spacciatori di Pantani, il campione non ne vuole sapere di essere ricoverato. «Sono adulto e ho il diritto di essere libero», ripete. Tutti i precedenti tentativi di metterlo in una struttura specializzata per la cura delle dipendenze erano andati in fumo. I rapporti tra Michael e la famiglia Pantani sono già erosi dai sospetti, così come quello tra Marco e l’uomo della notte di Predappio. Si tratta di una vecchia conoscenza della famiglia. Mengozzi era andato qualche volta a caccia con Paolo, il padre di Marco, e quando si era sparsa la voce dei problemi di droga del campione si era presentato al chiosco di piadine della signora Tonina. In passato, dicevano di lui, aveva aiutato un altro ragazzo della zona a sconfiggere la dipendenza con una ricetta semplice ed efficace che userà anche con Marco: aria buona, cibo genuino, battute di caccia e qualche ragazza. In quel periodo il Pirata non ha problemi a procurarsi la droga. Rotoli di banconote in tasca, milioni sul conto, basta sfuggire qualche ora al controllo per acquistare grandi quantità di polvere bianca. Quella sera alle suppliche dei genitori risponde minimizzando la gravità della sua dipendenza: bastano le cure del dottor Greco e magari cambiare aria per un po’, in Spagna o in Sud America. Ancora una volta niente di fatto. Arriva il compleanno di Marco, Michael la sera del 13 gennaio organizza una cena con amici vecchi e nuovi. Pantani si presenta in forte stato confusionale, alterato dalla droga. Pochi giorni prima aveva prelevato 10mila euro in contanti, usati per la coca e per Barbara, nome d’arte di Elena Korovina, escort russa. È lei cosiddetta Dama Nera. La serata è un fallimento, il festeggiato è stravolto e delira, il giorno successivo i genitori chiamano Greco che propone un trattamento sanitario obbligatorio. Paolo e Tonina, persone semplici, taciturno lui, sanguigna lei, si oppongono, ancora una volta. Il 15 il marito della Ronchi arriva in macchina a Predappio per prendere Pantani e portarlo nella loro casa di Milano. Passa giorni tranquilli, senza consumare la «sostanza», come la chiamava lui. Continua a rifiutare il ricovero ma si dice favorevole e una vecchia proposta della manager, un periodo in Norvegia accanto Renato Da Pozzo, atleta e motivatore. Allo stesso tempo, però, cerca in tutti i modi una scusa per tornare a Predappio o in riviera. L’occasione si presenta il 26 gennaio, prende l’auto della manager per andare a Cesenatico a prendere l’attrezzatura da montagna da usare per un’escursione col padre della Ronchi. Nella valigia preparata da mamma Tonina anche i famosi giubbotti da sci, poi spuntati misteriosamente a Rimini. Durante il viaggio preleva 22mila euro e fa il pieno di coca e di crack, che consuma di nascosto a casa della manager fino a quando i coniugi lo vedono parlare con la tv. Dice di essere in comunicazione subliminale con il presentatore Rai Massimo Giletti. Il marito di Manuela trova la droga e la getta nel water. La situazione è esplosiva, in casa c’è anche un bambino. Venerdì 30 gennaio c’è l’atteso incontro con il dottor Ravera in una clinica di Appiano Gentile. La data fissata per il ricovero è il lunedì successivo, il 2 febbraio. Marco dopo il colloquio ha una crisi nervosa, piange e si chiude nel mutismo. Il giorno successivo il “cerchio”, senza Greco e Mengozzi, si riunisce a Milano in casa della Ronchi. Quando arrivano Tonina e Paolo la tensione è già alta, con Marco e Manuela che discutono animatamente. Pantani è lucido, e determinato a fare di testa sua. I toni salgono ulteriormente, i genitori vogliono convincere Marco al ricovero immediato, senza aspettare il lunedì, oppure a partire subito per Cesenatico. La lite inizia nell’appartamento e continua sulle scale. Paolo alza le mani, il figlio lancia le valigie appena fatte per la scale, la madre ha un malore e si accascia al suolo. Marco indica la guancia e provoca il padre: «Picchia, picchia qua». Emergono vecchi rancori, il Pirata accusa i genitori di aver fatto di tutto per allontanare Christina, la sua ex fidanzata danese che non vuole più saperne di lui, e maledice il «complotto» di cui è stato vittima a Madonna di Campiglio, l’esclusione dal Giro d’Italia del ’99 per ematocrito fuori norma dopo la quale il campione non è stato più lui. Marco torna in casa, chiama il 118: «venitemi a prendere, mio padre mi ha picchiato». I medici arriveranno ma potranno assistere solo Tonina. Nelle mani del padre resta il cellulare Nokia di Marco, lui è già andato via, al Jolly Touring Hotel di Milano. Ci rimarrà, secondo le ricostruzioni ufficiali, dieci giorni, barricato nella propria stanza con le serrande chiuse, tra cartoni di pizza e lattine di Coca Cola. Eppure,   come svelato da Il Tempo la ricevuta dell’albergo   riporta ben quattro notti, quelle dal 2 al 5 febbraio, in cui Pantani ha pagato la doppia per intero e non uso singola. Forse c’era qualcuno con lui, o forse la stanza era occupata da qualcun altro mentre Marco era altrove. In quei quattro giorni, a differenza dei precedenti e dei successivi, non risultano telefonate dalla sua stanza. Un’eclissi inspiegabile. Il 6 febbraio Pantani lascia un messaggio nella segreteria di Manuela: «Sono nell’albergo che tu sai, i cagnolini tornano all’ovile». Il giorno successivo chiama Greco, dice di essere in un periodo terribile, costretto a centellinare i pochi farmaci rimasti. Il medico telefona alla Ronchi e le manda un fax con la prescrizione - che resterà nella disponibilità di Pantani – da portare a Marco insieme a qualche vestito pulito. Lei lo chiama: «Vengo ma devi farti ricoverare». Lui replica: «Sono adulto, decido io della mia vita». Si accordano che sarà il marito della Ronchi - sempre più esasperato dalla situazione - a lasciare al personale della reception la sportina con i medicinali appena acquistati, i cambi e la ricetta, lei resterà in auto per evitare ogni contatto. Così avviene. Marco richiama la Ronchi alle 8.30 di lunedì 9 febbraio. Chiede di raggiungerlo per organizzare un soggiorno nella sua casa di Saturnia. Lei risponde che sarà in hotel alle 14 ma Pantani fa retromarcia, replica che sta pagando il conto con l’intenzione di andare verso casa. «Da allora non l’ho più sentito e non riesco a spiegarmi le ragioni per cui si sia recato nell’hotel in cui poi è stato trovato senza vita», dirà la Ronchi. Quello che emerge dagli atti è che Marco sale su un taxi, a Milano, direzione Rimini. Con sé una bustina di plastica e pochi oggetti, e senza quei famosi giubbotti da sci inspiegabilmente trovati nell’appartamento D5 del residence Le Rose. Alle 21.30 del 14 febbraio lo studente trapanese Pietro Buccellato, che fa il turno alla reception, entra nella stanza con un passepartout, sale le scale del soppalco e vede riflesso sullo specchio il cadavere di Marco Pantani riverso sul pavimento. In mezzo a queste poche evidenze - alcune delle quali messe in discussione dall’esposto presentato dalla famiglia Pantani che ha permesso alla procura di Rimini di riaprire il caso - il mare di dubbi e incongruenze di cui abbiamo scritto da questa estate a oggi, oggetto della nuova inchiesta per omicidio volontario. Per coprire i tanti, troppi tasselli rimasti vuoti nel mosaico degli ultimi giorni di Marco Pantani.

Pantani, il mistero della fuga di Milano. Pochi giorni prima di morire isolato in hotel ma forse c’era qualcuno con lui Il giallo delle telefonate. Marco non aveva le sim: una ha contattato la madre, continua Davide Di Santo. Si allungano nuove ombre sugli ultimi giorni in vita di Marco Pantani. Alcuni documenti di cui Il Tempo è venuto in possesso fanno emergere uno scenario inedito: il Pirata potrebbe non essere stato solo durante una parte del suo soggiorno al Jolly Touring Hotel di Milano. Siamo tra il 31 gennaio e il 9 febbraio 2004, penultima tappa dell’esistenza di Pantani, trovato morto il giorno di San Valentino dello stesso anno nel residence Le Rose di Rimini. Ufficialmente per overdose, anche se dopo l’esposto presentato dall’avvocato della famiglia Pantani, Antonio De Rensis, la procura romagnola indaga per omicidio volontario. Secondo quanto ritenuto finora, Pantani si sarebbe volontariamente isolato con i suoi demoni per nove giorni dopo la «fuga» dalla casa milanese della manager Manuela Ronchi e dagli stessi genitori che da Cesenatico erano venuti a prenderlo. Una lite, vecchi rancori e qualche schiaffo, Pantani va via senza valigie e senza cellulare e prende una camera. Ma dalla fattura dell’albergo milanese, rinvenuta a Rimini dopo la morte, emerge che per il 31 gennaio e il primo febbraio sono stati messi in conto - solo per la camera - 132 euro a notte. Il pernotto sale a 180 euro per i quattro giorni successivi per poi tornare a quota 132 dal 6 all’8 febbraio, ultima notte passata al Jolly Touring. Da escludere che l’oscillazione sia dovuta a un cambio di tariffa per un periodo di alta stagione: non si spiegherebbe il ritorno alla cifra di partenza. È possibile che l’«appartamento», così viene chiamato nella ricevuta, sia stato preso come doppia a uso singola e che il prezzo sia salito, in quei quattro giorni, perché c’era un ospite in stanza. L’avvocato De Rensis dovrà capire cosa c’è dietro questa ennesima anomalia che non ha suscitato la curiosità degli inquirenti, prima e durante il processo ai pusher del Pirata. L’albergo, però, è passato alla catena Nh e scovare registrazioni e ingressi a dieci anni di distanza non sarà facile. Pantani, inoltre, era senza cellulare. Per comunicare usava il telefono dell’hotel, come si evince anche dal conto di 1.960,15 euro saldato a fine soggiorno e che comprende qualche centinaio di euro per pasti e frigo bar. Il 7 ad esempio chiama il suo medico, Giovanni Greco, perché rimasto a corto di farmaci, che gli saranno poi portati alla reception dalla Ronchi. Eppure c’è un buco di quattro giorni nel quale non risultano chiamate, un’«eclissi» che coincide con le date in cui si può ipotizzare la presenza di un’altra persona nella stanza. Con chi era Pantani? Per comunicare può aver utilizzato un altro cellulare? A questi interrogativi si aggiunge la possibilità che Marco, se la camera era in uso a due persone, in quei quattro giorni sarebbe potuto anche trovarsi altrove. La questione delle chiamate è centrale. Il campione romagnolo aveva in uso quattro numeri, quattro sim usate alternativamente con il suo Nokia Communicator, rimasto al padre Paolo. Da una delle sue utenze, non quella abituale ma usata ad esempio tra l’11 e il 12 gennaio per chiamare lo spacciatore Fabio Miradossa e l’amico Michael Mengozzi a Predappio, parte una chiamata la sera dell’8 febbraio, l’ultima passata a Milano. È una telefonata riportata dai tabulati alle 22.20 e 55 secondi. Il destinatario è la madre di Marco, Tonina Belletti, e la chiamata dura 0 secondi: il cellulare della donna è spento, lei e il marito sono in viaggio per la Grecia. Ebbene, quella sim non è mai state trovata, come le altre due che non erano nel cellulare. Non risultano tra gli oggetti repertati al Le Rose, come Il Tempo ha potuto verificare, e neanche tra gli oggetti personali riconsegnati alla famiglia. Chi aveva quelle schede? Chi ha chiamato quella sera la signora Pantani e perché? Domande, queste, che nessuno si è fatto in questi dieci anni. E che attendono risposta.

Mamma Pantani: "Ma perché i poliziotti vogliono querelarci?". L'avvocato della famiglia del Pirata sulle persone sentite nell'inchiesta di Rimini: "O gli credi o li indaghi. Non si va avanti facendo passare tutto", scrive  Luca Gialanella  su “La Gazzetta.it”. Il gioco si sta facendo duro. Antonio De Rensis, l'avvocato della famiglia Pantani che è stato decisivo nella riapertura delle inchieste a Rimini e Forlì, sbotta durante la presentazione del libro Pantani è tornato, scritto dal giornalista televisivo Davide De Zan: "Sto ultimando l'istanza per chiedere lo spostamento dell'inchiesta da Rimini a Bologna. La decisione spetta alla Procura Generale di Bologna. Il clima non è più sereno. E bisogna avere risposte, al più presto". De Rensis si riferisce alla decisione di cinque poliziotti, che indagarono nel 2004 sulla morte di Pantani, "di procedere in giudizio contro quanti diffondono notizie lesive della nostra reputazione". Mamma Tonina Pantani, presente con il marito Paolo, aggiunge decisa: "Perché questa decisione dei poliziotti? Se sono puliti, e lo sono, perché si comportano così? In questi dieci anni ho avuto tante difficoltà, ne ho passate di tutti i colori, ma non ho mai abbandonato la mia idea che Marco sia stato ucciso. Io voglio avere delle risposte che ancora non ho avuto. Abbiamo offeso la Polizia? Se la Polizia vuole, perché non unire le nostre forze? Perché vogliono querelarci? E comunque sappiano che io non ho paura". De Rensis sposta la discussione sul piano giuridico: "Due di quei poliziotti sono già stati chiamati a testimoniare e in futuro potrebbero essere chiamati tutti a farlo. È la prima volta, per quanto ne so io, che dei testimoni, appartenenti alla Polizia e che sono persone informate sui fatti, si ergono al ruolo dimostrato ieri con quel comunicato diffuso dall'Ansa, durante un'indagine in corso. I poliziotti hanno parlato di linciaggio mediatico. Se lo fai a indagine aperta, e l'inchiesta è svolta da altri poliziotti, posto che gli essere umani sono fatti di conscio e inconscio, questo non aiuta certo il clima. Sono veramente stupito. Il procuratore capo Giovagnoli è un galantuomo, ma l'indagine è fatta di tanti compartimenti. A Rimini non c'è serenità". Ci sono state testimonianze nuove, come quelle dei tre infermieri "i primi a intervenire nella stanza di Pantani", che hanno posto il problema della pallina di coca e pane davanti al corpo di Marco: i tre affermano di non averla mai vista, l'hanno detto nella testimonianza giurata all'avvocato De Rensis e poi l'hanno ripetuto in Procura. Loro lasciano la stanza alle 21.20, ma nel video della Polizia Scientifica, che inizia alle 22.45, la pallina c'è. "La pallina di cocaina è il grimaldello dell'indagine, essendo venuta fuori da testimoni che non erano mai stati sentiti dieci anni fa e che spontaneamente sono venuti a cercarmi per raccontare la loro verità - continua il legale -. La pallina è l'emblema dell'indagine: in uno spazio di 81 centimetri per 250 centimetri, gli infermieri hanno detto che non c'era. Servono risposte: o gli credi o li indaghi, ma non si va avanti lasciando passare tutto, e mettendoci una X sopra. Visto che ci sono orari e circostanze, e sappiamo quando sono andati via gli infermieri, o questi hanno detto una bugia, e allora devono essere indagati, o bisogna credergli. Esigo delle risposte. Andiamo a dare le risposte, il movente poi verrà da solo. La notte del 14 febbraio 2004, l'ambulanza che è intervenuta era partita da Riccione. Era San Valentino, era sabato sera, ci avrà messo almeno quindici minuti? Ebbene, la volante della Polizia che partiva da Rimini è arrivata dieci minuti dopo". Quindi il video della Scientifica: "Un girato di due ore e 56 minuti è diventato un video di 51 minuti, interrotto 35 volte, di cui una per 30 minuti, con gli investigatori che mettono anche una mano davanti all'obiettivo per non fare inquadrare. Io voglio una risposta. E se dirlo vuol dire essere querelato, allora io sono fiero di essere querelato. Il filmato parla, eccome. Uno che vede Marco Pantani nella stanza capisce tante cose, dalle ferite, dalle macchie di sangue, dalla posizione", conclude l'avvocato De Rensis.

"Sparirono 5 schede sim di Marco". Pantani, tutti i dubbi di mamma Tonina. L'intervista: "A Milano, e non solo, successero molte cose strane". Tonina Pantani svela tutti i dubbi sugli ultimi giorni di Marco ad Affaritaliani.it con Lorenzo Lamperti. Chiamate misteriose, sim scomparse, incomprensibili spese d'albergo, depistaggi e tanto altro. Gli ultimi giorni di Marco Pantani (ricostruiti cronologicamente in un articolo di Libero) nascondono molti misteri per ora insoluti. A partire da quel periodo trascorso a Milano, poco tempo prima di quel maledetto 14 febbraio del 2004. Ora Tonina Pantani, la mamma di Marco, ripercorre i dubbi su quell'ultimo oscuro periodo in un'intervista ad Affaritaliani.it.

Signora Pantani, partiamo dal 26 gennaio quando la manager di Marco, Manuela Ronchi, racconta che il marito andò a prenderlo perché non stava bene. Che cosa successe?

«Il 26 gennaio il marito della Ronchi venne a prenderlo a Predappio con me presente. Tutte le volte che Marco non stava bene arrivavano a prenderlo e se lo portavano a casa, non perché. Tanto lei come Mingozzi, l'amico dal quale Marco era andato spesso a stare. Il 26 gennaio comunque Marco arrivò a casa e mi disse che doveva fare la valigia».

Si ricorda che cosa si portò dietro?

«Sì, prese una valigia di quelle a righe, non era un trolley. Non era una valigia molto grande e dentro c'erano solo tre giubbotti e due maglioni. Io stupita gli chiesi se era tornato a casa solo per quelle poche cose, lui mi rispose che se gli sarebbero servite altre cose le avrebbe comprate».

Secondo le testimonianze il 30 gennaio Marco parlò con il professor Ravera e rifiutò di entrare in clinica per disintossicarsi.

«Io anche sta cosa qui l'ho saputa dalla Ronchi. Sono cose che dice lei, io non ho mai saputo nulla del professor Ravera».

Il 31 gennaio invece si racconta che ci fu una lite molto accesa, con lei presente, a casa della Ronchi. Che cosa successe?

«Al nostro arrivo a Milano nacque una grossa discussione al termine della quale io svenni. Quando tornai dall'ospedale Marco era sparito. Tra l'altro è stato detto che io e mio marito tornammo subito a casa quella sera ma non è assolutamente vero. Ho ancora la ricevuta dell'albergo dove abbiamo dormito».

Quella sera non riuscì più a entrare in contatto con Marco?

«No, la Ronchi ci disse che aveva telefonato a tutti gli alberghi e che non si trovava. Tra l'altro non aveva portato con sé il telefono quindi era irraggiungibile. Dopo anni poi sono tornata per capire dove Marco aveva alloggiato e ho visto che l'hotel si trovava vicino all'ufficio della Ronchi».

Vista la discrepanza nelle ricevute di pagamento dell'hotel (132 euro per i primi giorni, 180 per i successivi) crede che qualcuno possa aver alloggiato con lui?

«Non lo so, l'ho pensato subito anche io quando ho visto quelle ricevute e ho notato subito che il pagamento non era uguale per tutti i giorni».

Poi lei non sentì più Marco?

«No, non l'ho più sentito. Ci telefonò la sua manager mentre eravamo a pranzo per dirci di firmare un fax per mandare il dottore a comprargli delle medicine. La cosa mi stupì perché Marco non era uno che prendeva delle medicine. Invece qui hanno detto che aveva persino mandato uno che lavorava nell'hotel a comprargli le medicine, cosa che il portiere dell'albergo mi ha poi smentito».

L'8 febbraio però risulta che da una delle schede di Marco partì una chiamata verso di lei...

«La storia del telefonino mi ha messo molti, molti dubbi. A me Marco non mandò nessun messaggio, magari l'avesse fatto. Come faceva a chiamarmi se non aveva dietro il telefono?  Nell'ultimo periodo Marco abitava a Predappio dall'amico che aveva chiesto a mio marito un telefono per tenerlo sotto controllo. L'amico poi fece intendere che Marco si era suicidato e non venne al funerale. Mi ricordo che mi chiese di guardare il telefono di Marco e dopo un po' me lo diede indietro. Un'altra cosa strana è che sparirono da casa non tre, ma cinque schede telefoniche che appartenevano a Marco. E penso che da una scheda telefonica si possano capire molte cose, anche perché Marco usava molto il telefono».

Le sembra che ora le indagini stiano andando nella direzione giusta?

«Guardi, non lo so. Purtroppo mio figlio non me lo dà indietro più nessuno, io spero solo si possa arrivare alla verità anche per evitare che altre cose brutte come quella successa a lui non succedano più a nessuno».

Tonina Pantani ad Affari: "Ci sono tante cose che non posso dire...". "Prima di uscire sui giornali penso che il procuratore che sta facendo le indagini doveva avvisare l'avvocato e me". Tonina Pantani, la mamma del Pirata, intervistata da Affaritaliani.it, commenta le parole del procuratore Paolo Giovagnoli, secondo il quale non ci sono elementi che facciano pensare all'omicidio per la morte di Marco Pantani. "Le cose non stanno così, ne sono convintissima. Anche perché ci sono tante cose che non posso neanche dire". E ancora: "Io so com'è mio figlio. So quali sono le sue abitudini, conosco tutta la sua storia. Ne hanno dette tante, ma non è così. Ne ho dovute mandar giù di cose brutte. Ma non ce l'ho con nessuno. Voglio solo delle risposte e voglio solo vivere in pace gli ultimi anni che mi sono rimasti".

Il procuratore Paolo Giovagnoli ha dichiarato che non ci sono elementi che facciano pensare all'omicidio per la morte di suo figlio Marco. Come ha accolto questa notizia?

"Di questo non so niente. L'ho letto sui giornali. Ma prima di uscire sui giornali penso che il procuratore che sta facendo le indagini doveva avvisare l'avvocato e me".

Lei non è stata avvisata?

"No".

Lo ha saputo dalla stampa...

"Sì".

Lei continua ad essere convinta che le cose non stanno così?

"Io sono convintissima, anche perché ci sono tante cose che non posso neanche dire. Se sono dieci anni che lotto per questa cosa e se ho speso un capitale è perché penso che qualcosa non funzioni e che non sia andata così. Altrimenti avrei lasciato perdere".

Allora perché i magistrati continuano a dire il contrario?

"Lo sapessi! Non lo so. Io non punto il dito su nessuno, non so se le indagini sono state fatte bene oppure no. Dico solamente che come mamma voglio sapere come è morto mio figlio. Ho diritto, io come cittadina italiana, di sapere come è morto mio figlio. Poi se le cose sono andate diversamente me ne farò una ragione però io ho diritto ha delle risposte alle domande che ho fatto da dieci anni".

E finora queste risposte non sono arrivate...

"Nemmeno una".

Lei ha ancora fiducia nella giustizia italiana?

"Io ho fiducia perché spero che qualcosa venga fuori. Io ho fiducia. Non dico che il procuratore di prima abbia lavorato male, dico solamente che io come mamma voglio delle risposte. Quando mi daranno queste risposte me ne farò una ragione e basta".

Lei non crede al fatto che non sia stato omicidio...

"Non ci ho mai creduto".

E forse non ci crederà mai...

"Io so com'è mio figlio. Mio figlio è mio figlio. So quali sono le sue abitudini, conosco tutta la sua storia. Ne hanno dette tante, ma non è così. Ne ho dovute mandar giù di cose brutte ma io mio figlio lo conosco bene".

Che cosa l'ha delusa maggiormente in questi anni?

"L'indifferenza".

Di chi?

"In generale. Non do colpe a nessuno io, voglio solo delle risposte. Non ce l'ho con nessuno. Voglio solo vivere in pace gli ultimi anni che mi sono rimasti".

Vallanzasca sentito in carcere sulla morte di Marco Pantani. In una lettera dal carcere alla madre del Pirata, la tesi del giro di scommesse truccate gestito dalla criminalità, scrive “Il Corriere della Sera”. Renato Vallanzasca, martedì, ha risposto ai carabinieri che lo hanno sentito in carcere sulla morte di Marco Pantani. A differenza del silenzio davanti al pm di Trento Bruno Giardina e alla mamma di Marco Pantani, il «bel René» — che fu capo della banda della Comasina — ha risposto ai carabinieri che lo hanno sentito su delega del pm di Forlì-Cesena, Sergio Sottani: sua la decisione di riaprire il caso, archiviato, sul presunto complotto ordito ai danni del Pirata per alterarne le analisi del sangue del 5 giugno ‘99 a Madonna di Campiglio ed escluderlo dal Giro d’Italia che stava dominando. Dal fitto riserbo che circonda l’indagine forlivese si è appreso solo che le indagini cercano i primi riscontri alle nuove dichiarazioni di Vallanzasca. Vallanzasca sostenne all’epoca di essere stato avvicinato in carcere a Opera (Milano) da uno sconosciuto sedicente membro di un clan di camorra. Il quale lo avrebbe invitato a puntare milioni sul Giro d’Italia ma non su Pantani. «Non mi permetterei mai di darti una storta. Non so come, ma il pelatino non finisce la gara». Suggerimento insistito, anche mentre il Pirata dominava il giro. Il 5 giugno 1999, l’affondo: «Visto? Il pelatino è stato fatto fuori. Squalificato». Secondo Vallanzasca, dunque, dietro la morte del ciclista ci sarebbe stato un complotto: è quanto scritto anche nella lettera spedita dal carcere alla signora Pantani: «Quattro o cinque giorni prima che fermassero Marco a Madonna di Campiglio — le parole del malavitoso contenute nella missiva — mi avvicinò un amico, anche se forse lo dovrei definire solo un conoscente, che mi disse: “Renato, so che sei un bravo ragazzo e che sei in galera da un sacco di tempo. Per questo mi sento di farti un favore”. Ero in vero un po’ sconcertato ma lo lasciai parlare. “‘Hai qualche milione da buttare? Se sì, puntalo sul vincitore del Giro! Non so chi vincerà, ma sicuramente non sarà Pantani”». La tesi di Vallanzasca è che le scommesse clandestine sulla vittoria finale del Pirata erano talmente tante da poter «sbancare» chi le gestiva. E poiché si trattava della criminalità, era stato più facile eliminare il campione dalla competizione. Esattamente la tesi sulla quale sta indagando la Procura di Forlì.

Il capitolo Pantani si arricchisce sempre più di nuovi capitoli. L'ultimo e forse più importante in ordine di tempo è l'ulteriore interrogatorio sostenuto da Renato Vallanzasca in carcere, nel quale l'ex malvivente avrebbe confessato di aver identificato il detenuto che nel 1999 gli consigliò di non puntare sulla vittoria del Pirata, scrive “TGCom 24”. All'interno del carcere di Bollate, infatti, a Vallanzasca sono state sottoposte dieci diverse fotografie di detenuti tra i quali, alla fine, si trovava il camorrista che gli annunciò l'esclusione di Pantani al Giro. Il "bel René" dunque, ha riconosciuto l'uomo, che ora si trova dentro il carcere di Novara.  Anni fa invece, l'ex boss si rifiutò di fornire qualsiasi tipo di commento sulla vicenda, per poi spedire una recente lettera alla mamma di Marco, nella quale confidava di aver ricevuto la seguente soffiata: "Non posso dirti quello che non so, ma è certo che 4 o 5 giorni prima di Madonna di Campiglio sono stato consigliato vivamente di puntare contro il tuo ragazzo".

Pantani, si riapre il caso Giro ‘99: tra camorra, scommesse e Vallanzasca, scrive  Francesco Ceniti  su “La Gazzetta.it”. A inizio settembre, la Procura di Forlì ha aperto un fascicolo per “associazione per delinquere finalizzata a frode e truffa sportiva”. Il ruolo del famoso bandito milanese. Associazione per delinquere finalizzata alla truffa e alla frode sportiva. Dieci parole per riportare l’orologio indietro di oltre 15 anni. La Procura di Forlì ha aperto a inizio settembre un fascicolo a carico d’ignoti con questa ipotesi di reato in relazione all’esclusione subita da Marco Pantani il 5 giugno 1999 a Madonna di Campiglio, durante il Giro d’Italia. In poco più di un mese le inchieste sul Pirata si sono raddoppiate: a fine luglio c’è stata la riapertura del caso sulla morte (s’indaga per omicidio volontario) da parte della Procura di Rimini. Campiglio e Rimini. Rimini e Campiglio. Per anni la famiglia del Pirata, i tantissimi tifosi del campione rimpianto e molti sportivi hanno ripetuto come un mantra il nome delle due località: "È stato prima fregato e poi fatto fuori". Adesso gli interrogativi, i dubbi, i tanti sospetti saranno chiariti (si spera) dagli inquirenti. A Forlì l’indagine è condivisa dal Procuratore capo Carlo Sottani (da sostituto a Perugia si è occupato di vicende scottanti come le inchieste sulle Grandi opere e il G8) e dal pm Lucia Spirito. Già affidata la delega per gli interrogatori: il pool è coordinato dal maresciallo Diana dei carabinieri. Da loro bocche cucite, ma una cosa è filtrata da Forlì: ci sono tutti gli elementi per andare fino a fondo a uno dei punti più controversi della vita di Pantani. L’inizio della fine, per molti. Compresa mamma Tonina: "Senza Campiglio non ci sarebbe stato mai Rimini". Difficile sostenere il contrario. Ma perché Forlì ha deciso d’indagare 15 anni dopo? E perché l’ipotesi parte con una inquietante associazione per delinquere? Domande che hanno una risposta e rimandano a un cognome che ha segnato la cronaca nera della storia italiana: Renato Vallanzasca. Le indagini — Da settembre a oggi, gli inquirenti hanno già ascoltato diverse persone informate sui fatti. Quali fatti? Quelli legati all’esclusione dal Giro di Pantani: una vicenda che secondo l’accusa potrebbe avere dei mandanti pericolosi (clan della camorra) e degli esecutori sul posto. Di certo, chi è sfilato in Procura ha raccontato di un clima tesissimo durante la corsa rosa, con continue minacce anonime che arrivavano a chi stava intorno al Pirata. Minacce chiare: non doveva concludere la gara. E si arriva all’episodio di Cesenatico. Il Giro d’Italia arriva a casa del Pirata il 25 maggio 1999. La mattina dopo, i giornalisti sono allertati: "Pantani è fuori, ha saltato il controllo del sangue". Non sarà così, il capitano della Mercatone Uno passa quel test, ma i commissari dell’Uci lo vorrebbero lo stesso squalificare per un ritardo di circa 20’ sull’ora prevista per il prelievo. Alla fine tutto si risolve, ma l’ispettore dell’Unione ciclistica internazionale, Antonio Coccioni, lo ammonisce pubblicamente: "La prossima volta non te la caverai". Ecco, per Forlì l’ipotesi di reato inizia quel giorno. Nel senso che la criminalità organizzata aveva già deciso che Pantani non doveva giungere a Milano. Certo, è tutto da dimostrare che le parole di Coccioni siano legate a questa volontà. Possono essere solo una coincidenza, ma chi indaga ha le idee chiare: la storia è legata alle scommesse clandestine ed è stata già narrata da Vallanzasca.Pantani, nel film lo choc di Madonna di Campiglio Il banco a rischio sbanco — Nel 1999 in Italia le scommesse sul ciclismo non esistono. Meglio: sono clandestine, le gestisce la criminalità organizzata. Quando la camorra si rende conto di aver accettato troppe puntate su Pantani vincente, è troppo tardi. Lui si dimostra il più forte. Si parla di decine di miliardi di lire, il banco rischia di saltare. C’è un solo modo per evitare il flop, trasformandolo in un affare d’oro: non far trionfare Pantani. Ma il Pirata straccia gli avversari e la sfortuna sembra aver cambiato direzione. Sembra. In realtà per gli inquirenti la camorra pianifica per tempo la cacciata di Pantani. E qui arriviamo a Vallanzasca: il bel Renè nel 1999 si trova nel carcere di Opera (Milano) per scontare uno dei 4 ergastoli rimediati per le scorribande negli Anni Settanta. È avvicinato da un altro detenuto che non conosce. Dice di essere un affiliato a un importante clan della camorra e gli suggerisce di puntare tutti i risparmi sui rivali di Pantani. Vallanzasca strabuzza gli occhi: "Sai chi sono?". Risposta disarmante: "Certo, non mi permetterei mai di darti una storta. Non so come, ma il pelatino non finisce la gara". Il Giro è iniziato da poco: nelle tappe successive Pantani domina. Vallanzasca è scettico, ma l’altro insiste: "Fidati". E il 5 giugno il detenuto dalla dritta giusta va all’incasso: "Hai sentito? Il pelatino è stato fatto fuori, squalificato". Vallanzasca ha raccontato questo episodio nella sua autobiografia, uscita a fine 1999. E nei mesi successivi è stato sentito da Giardina, p.m. di Trento, titolare di un fascicolo dopo Campiglio. Fascicolo che all’inizio vedeva Pantani parte lesa (gli avvocati ipotizzavano lo scambio di provette), ma poi fu lui a finire indagato per frode sportiva. L’accusa finirà nel nulla, come quelle delle altre sei Procure che lo misero nel mirino per lo stesso motivo, inseguendo un reato che non esisteva (fu introdotto nel 2000). Vallanzasca non rispose a Giardina: troppo paura, il clan era pronto a vendicarsi. Vallanzasca 2014 — Adesso le cose potrebbero cambiare: nei prossimi giorni il procuratore Sottani andrà a Milano per interrogare Vallanzasca una seconda volta, ma questa volta gli investigatori hanno già un’idea sull’identità di quel detenuto e quindi del clan a cui era affiliato. Le deduzioni sono state fatte ricorrendo ai registri penitenziari del tempo e grazie ad alcune acquisizioni di filmati tv recenti, dove Vallanzasca a telecamere spente racconta dei particolari inediti. Non solo, tra le persone sentite anche giornalisti, gente vicina a Pantani e soprattutto medici che hanno spiegato come era possibile e semplice alterare l’ematocrito di quel 5 giugno (trovato a 51,9). Il sangue sarebbe stato deplasmato e la firma di questa operazione si troverebbe nel valore delle piastrine, piombate a livelli di un malato. Piastrine che invece erano normali (come l’ematocrito: sempre a 48) la sera del 4 giugno, quando il ciclista si fece l’esame del sangue nella sua stanza d’albergo per verificare se era nella norma (50 il valore consentito dall’Uci), e il 5 pomeriggio, quando si fermò a Imola per fare un test prima di arrivare a casa e iniziare la sua lenta discesa verso Rimini. Questa ipotesi ipotizza un complice in grado di operare sulla provetta (che non era sigillata). Ecco perché saranno interrogati anche i dottori che hanno effettuato il prelievo al Giro e l’ispettore Coccioni. L’inchiesta è all’inizio. Il procuratore Sottani ha informato da settimane il collega Giovagnoli che indaga sulla morte di Pantani, segno che nulla si può escludere: neppure una correlazione diretta tra i due fatti. Campiglio e Rimini sono distanti 414 chilometri e meno di 5 anni. Da ieri viaggiano fianco a fianco nel nome di Marco.

Marco Pantani con ematocrito alto nel ’98. Ma fu cacciato il gregario Forconi, scrive Paolo Ziliani su Il Fatto Quotidiano del 23 ottobre 2014. L'anno prima della squalifica di Madonna di Campiglio, al posto del Pirata fu spedito a casa il collega grazie a un presunto scambio di provette. Panorama parlò della vicenda nel '99, ma non ci furono reazioni. Il complotto contro Pantani? Certo che c’è stato. Ma la mala, la camorra e il mondo delle scommesse c’entrano poco; per rispetto della memoria di Marco – e con buona pace di Vallanzasca –i complottisti dovrebbero essere cercati altrove: nei palazzi del Coni, della Federciclismo, degli organizzatori del Giro, dell’Università di Ferrara. Ricordate il professor Conconi? Era il rettore dell’Università di Ferrara cui il Coni aveva affidato, a inizi anni ’80, l’assistenza medica degli atleti di ciclismo, sci di fondo, canottaggio, nuoto e altre discipline. Ingaggiato per combattere il doping, fece invece – per la gioia del Coni – esattamente il contrario: studiò nuove forme di doping e le fece mettere in pratica portando lo sport italiano a trionfi impensabili. Riconosciuto colpevole dei reati contestatigli dal Tribunale di Ferrara (sentenza del 16 febbraio 2004), ma salvato dalla prescrizione, Conconi fu il primo a somministrare Epo a Pantani negli anni dal ’93 al ’95. Il collega del Pirata raccontò tutto al suo ex ds, che rilasciò un’intervista. Non ci furono smentite né querele. Nel file DLAB sequestrato nel suo computer a Ferrara si vede come nel ’94 l’ematocrito di Pantani passa da 40,7 (prima del Giro) a 54,5 (durante il Giro). Pantani esplode, vince il 4 giugno a Merano, il 5 sul Mortirolo e il 13 giugno, all’indomani della conclusione, il suo ematocrito è da ricovero: 58%. Poi Marco va al Tour e finisce terzo. Al ritorno dalla Francia Conconi lo “testa” e l’ematocrito è assestato a 57,4. Gli sbalzi di valori di Pantani, dovuti al pompaggio di Epo, sono drammatici: come il ricovero al Cto di Torino, dopo la caduta alla Milano-Torino del ‘95, evidenzia (valori oltre il 60%). È triste dirlo, ma Pantani passa tutta la carriera con l’Epo nel sangue: parlare di complotto per il fattaccio di Madonna di Campiglio, il 5 giugno 1999, è quindi una presa in giro. Anche perché Marco, l’anno prima, ha vinto il Giro in modo strano. Come ci raccontò Ivano Fanini in un’intervista uscita su Panorama nel 1999, “nessuno sa che anche l’anno prima, al Giro del ’98, Pantani avrebbe dovuto essere mandato a casa. Invece al posto suo fu cacciato Riccardo Forconi, un gregario. Che il giorno dopo, visto che era un mio ex corridore – era stato con me 6 anni all’Amore & Vita – venne a trovarmi in ufficio e mi raccontò tutto: “Hanno fatto uno scambio di provette e hanno mandato a casa me, che alla Mercatone sono l’unico ad avere i valori bassi”. Riccardo era un modesto gregario, uno da 20-30 milioni di lire l’anno. Beh, dopo quell’episodio, e quella squalifica, si è costruito una villa sulle colline di Empoli: e si è fatto una posizione”. Per la cronaca: Pantani vinse quel Giro con 1’33” di vantaggio su Tonkov, russo della Mapei. La mattina della cronometro finale, che Pantani corre come una moto (lui scalatore finirà terzo), dopo un controllo a sorpresa di tutta la Mercatone Uno, il gregario Forconi, centesimo in classifica, viene mandato a casa con l’ematocrito oltre i 50: il tutto l’ultimo giorno e prima di una crono in cui non avrebbe nemmeno dovuto aiutare il suo capitano. Strano, non vi pare? Ma non è finita. Dopo l’intervista a Fanini, il giudice Guariniello apre un’inchiesta per fare luce sulla vicenda. Chiede di recuperare la provetta incriminata (di Forconi? Di Pantani?), all’ospedale Sant’Anna di Como dov’è depositata, per stabilire di chi effettivamente sia il Dna. Sorpresa: la provetta non c’è più, è sparita. Guariniello deve archiviare. Dopo due mesi dalla morte di Pantani, la sua ex fidanzata al settimanale Hebdo: “Si dopava e sniffava cocaina”. Domanda: se voi vincete un Giro d’Italia e qualcuno vi accusa di averlo fatto con l’inganno, fate finta di niente? Ebbene: dopo l’intervista a Fanini (che fece i nomi dei testimoni del racconto di Forconi, come il ds Salvestrini) non arrivò né a lui né a chi scrive non si dice una querela per diffamazione, ma nemmeno una richiesta di rettifica, di precisazione. Meglio far finta di niente: così magari l’anno dopo il teatrino si ripete nell’indifferenza dei più. Deve averlo pensato, Pantani. Anche la mattina del controllo a sorpresa (sic) all’hotel Touring a Madonna di Campiglio. Christine Jonsson, 37 anni, danese, fu la dama bionda di Pantani negli anni belli e negli anni bui: “Marco si dopava e prendeva la coca – raccontò la fidanzata, che oggi vive in Svizzera, a Hebdo, settimanale svizzero, due mesi dopo la morte di Pantani – stando con lui ho sempre avuto l’impressione che prendesse dei farmaci. Era la sua scelta, pagava di tasca sua i prodotti: diceva che bisognava prendere delle porcherie per avere successo. Aveva sempre dei prodotti in un contenitore di plastica nel frigorifero. Talvolta si faceva delle punture e io lo aiutavo tenendogli il braccio”. Ancora: “Dopo la cacciata dal Giro cominciò a prendere  la cocaina: mi chiese di farlo con lui. Ero disperata perché io ho paura delle droghe. Marco ne assumeva delle quantità industriali. La famiglia se ne accorse e pensò che la colpa fosse mia”.

Giallo, la morte di Pantani e i misteri della Rosa Rossa. Strano suicidio, quello di Marco Pantani. Così strano da spingere la magistratura a riaprire l’inchiesta a dieci anni di distanza da quel 14 febbraio 2004. Più che un suicidio, scrive l’avvocato Paolo Franceschetti, sembra un omicidio “firmato”, con implacabile precisione, dall’ “Ordine della Rossa Rossa”. Fantomatica organizzazione segreta internazionale, secondo alcuni studiosi sarebbe una potentissima cupola eversiva di tipo esoterico, con fini di potere, dedita anche all’oscura pratica dell’omicidio rituale. «Un’ipotesi sempre scartata come irrealistica dagli inquirenti», scrive nel suo blog lo stesso Franceschetti, autore di studi sulla presunta relazione tra crimini e occultismo iniziatico, incluso il caso del cosiddetto “mostro di Firenze”. Di matrice rosacrociana, fondata sul simbolismo della Cabala e dell’ebraico antico come la londinese “Golden Dawn” rinverdita dal “mago” Aleister Crowley, secondo alcuni saggisti la “Rosa Rossa” sarebbe una sorta di super-massoneria deviata e criminale. Problema: non esiste una sola prova che questa organizzazione esista davvero. Solo indizi, benché numerosi. Chi esegue una sentenza rituale di morte, per “punire” in modo altamente simbolico un presunto “colpevole” o addirittura perché pensa – magicamente – di “acquisire potere” dall’uccisione “satanica” di un innocente, secondo Franceschetti ricorre sistematicamente a pratiche sempre identiche: in particolare la morte per impiccagione (la corda di Giuda, traditore di Cristo), con la vittima fatta ritrovare inginocchiata, e la morte per avvelenamento (o overdose di droga). Decine di casi di cronaca, tutti contrassegnati da circostanze ricorrenti: manca sempre un movente plausibile, non si trova l’arma del delitto, i nomi delle vittime hanno spesso origine biblica, la somma dei “numeri” (data di morte, data di nascita) riconduce a numeri speciali, per la Cabala, come l’11 e i suoi multipli. Oppure il 13, il numero della morte dei tarocchi. E poi, la “firma”: Pantani fu ritrovato morto a Rimini all’hotel “Le Rose”. Accanto al corpo, un biglietto in codice dal significato criptico: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”. Sul caso Pantani, sono stati scritti fiumi di parole, reportage, libri. Tra chi non ha mai creduto alla tesi del suicidio c’è un giornalista come Andrea Scanzi, che sul “Fatto Quotidiano” scrive: «Troppe incongruenze. La camera era mezza distrutta, c’era sangue sul divano, c’erano resti di cibo cinese (che Pantani odiava: perché avrebbe dovuto ordinarlo?)». Inoltre, il campione aveva chiamato per ben due volte la reception, parlando di «due persone che lo molestavano», ma l’aneddoto è stato catalogato come “semplici allucinazioni di un uomo ormai pazzo”. In più, Pantani «fu trovato blindato nella sua camera, i mobili che ne bloccavano la porta, riverso a terra, con un paio di jeans, il torso nudo, il Rolex fermo e qualche ferita sospetta (segni strani sul collo, come se fosse stato preso da dietro per immobilizzarlo, e un taglio sopra l’occhio)». Uniche tracce di cocaina, quelle ritrovate su palline di mollica di pane. Indagini superficiali: «Non esiste un verbale delle prime persone che sono entrate all’interno della camera, non è stato isolato il Dna delle troppe persone che entrarono nella stanza». Dettaglio macabro e particolarmente strano, il destino del cuore di Pantani: «Venne trafugato dopo l’autopsia dal medico, che lo portò a casa senza motivo (“Temevo un furto”) e lo mise nel frigo senza dirlo inizialmente a nessuno», scrive Scanzi. Prima di morire, a Rimini il ciclista aveva trascorso cinque giorni, «per nulla lucido, accompagnato da figure equivoche. Avrebbe anche festeggiato con una squadra di beach volley poco prima di morire: chi erano?». Altre domande: «Perché il cadavere aveva i suoi boxer un po’ fuori dai jeans, come se lo avessero trascinato?». Certo, aggiunge Scanzi, Pantani morì per overdose di cocaina, «ma troppi particolari lasciano pensare (anche) a una messa in scena». L’autopsia, peraltro, confermò che le tracce di Epo nel suo corpo erano minime, «segno evidente di come il ciclista non avesse mai fatto un uso costante di sostanze dopanti». E poi, tutte quelle “incongruenze”, reperibili in libri-denuncia come “Vie et mort de Marco Pantani” (Grasset, 2007) e “Era mio figlio” (Mondadori, 2008). E poi, soprattutto: «Che senso aveva quel messaggio in codice accanto al cadavere?». Colori e rose, “la rosa rossa è la più contata”. Anche i suoi amici, ricorda Franceschetti, dissero che la morte di Pantani in quell’hotel non può esser stata casuale: forse Marco voleva «lasciare un messaggio a qualcuno», perché «era un uomo che non faceva nulla a caso». Meglio ancora: «Non era lui che voleva lasciare un messaggio, ma chi l’ha ucciso», chiosa l’avvocato, sempre attento ai possibili “segni invisibili”: «Probabilmente c’è un significato anche nel fatto che sia morto a San Valentino, giorno in cui tradizionalmente si regalano rose alla fidanzata». Pantani “costretto” ad andare in quel preciso albergo affinchè poi il delitto fosse “firmato”? «Ovviamente, dire che dietro un delitto c’è la “Rosa Rossa” significa poco: essendo la “Rosa Rossa” un’organizzazione internazionale, e contando centinaia di affiliati in Italia, è come dire che si tratta di un delitto di mafia o di camorra». Un’affermazione «talmente generica da essere pressoché inutile a fini investigativi». Tuttavia, «dovrebbe essere un buon indizio perlomeno per non archiviare la cosa come suicidio». Franceschetti considera «evidente» l’origine «massonica» degli attacchi a Pantani, citando l’anomalo incidente che, anni prima, lo vide protagonista a Torino: fu travolto da un’auto che era penetrata in un’area interdetta al traffico, lungo la discesa della collina di Superga, quella dove si schiantò l’aereo del Grande Torino. La basilica di Superga, sull’altura che domina la città, fu costruita nel 1717, «anno in cui venne ufficialmente fondata la massoneria». Basta questo, all’avvocato, per concludere che si tratta di «una firma manifesta, specie alla luce delle stranezze di quell’incidente». Tra gli “incidenti non casuali”, Franceschetti inserisce pure quello ai danni del cantante Rino Gaetano: come anticipato in modo inquietante dal testo di una sua canzone, “La ballata di Renzo”, peraltro gremita di “rose rosse”, l’artista morì a Roma nella notte del 2 giugno 1981 dopo esser stato rifiutato da 5 diversi ospedali. «Statisticamente, le probabilità che un cantante descriva la morte di qualcuno perché viene rifiutato da 5 ospedali, e che poi muoia nello stesso identico modo sono… nulle». Molto strana, aggiunge Franceschetti, è anche la tragica fine del ciclista Valentino Fois, della stessa squadra di Pantani: anche lui muore per cause da accertare, ma alcuni giornali parlano subito di overdose, «e già questo fa venire qualche sospetto». Premessa: in Italia, muoiono per omicidio circa 2.500 persone all’anno. E altrettante finiscono suicide. Giornali e Tv si disinteressano della stragrande maggioranza di questi episodi. «Quando però su un fatto scatta l’attenzione dei media, in genere questo è un segnale che sotto c’è dell’altro. Quindi viene spontanea la domanda: perché i giornali si interessano alla morte di un ciclista poco conosciuto come Fois?». Premesso che nello sport professionistico il doping (entro certi limiti) è pressoché inevitabile, Franceschetti sospetta che Fois sia morto «per aver “tradito”, come Pantani». Ovvero, i due avrebbero «pagato con la vita la loro maggiore pulizia e onestà intellettuale rispetto al resto dell’ambiente in cui vivevano». Secondo Franceschetti, c’è anche «non il sospetto, ma la certezza» che la verità non verrà mai a galla. Del resto, «la maggior parte delle famiglie di queste vittime non saprà mai la verità, la maggior parte muore senza che i familiari sospettino un omicidio». E racconta: «Io stesso, dopo il primo incidente che mi capitò, pensai ad un caso. E dopo il secondo pensavo che ce l’avessero con la mia collega e che avessero manomesso contemporaneamente sia la mia moto che la sua per maggior sicurezza di fare danni a lei. In altre parole, potevo morire senza sapere neanche perché, e pochi avrebbero sospettato qualcosa». E aggiunge: «Ogni volta che prendo l’auto sono consapevole che lo sterzo potrà non funzionare, che un’auto che viene in senso inverso all’improvviso potrà sbandare e venire verso di me, o magari che potrò avere un malore nell’anticamera di una Procura come è successo al capo dei vigili testimone della Thyssen Krupp». La storia italiana, aggiunge l’avvocato, è troppo gremita di “coincidenze”, depistaggi e collusioni: le bombe nelle piazze, Ustica, Moby Prince. «In quei casi i familiari delle vittime ormai hanno capito, ma negli altri?». La storia infinita del “mostro di Firenze”, ad esempio, sembra il frutto di un “normale” serial killer solitario. Secondo Franceschetti, invece, tutti quegli omicidi non sono altro che precise esecuzioni rituali, settarie ed esoteriche, meticolosamente pianificate da un clan criminale protetto da amicizie potenti. «Ho telefonato ai genitori di Pantani prima di scrivere questo articolo», scriveva Franceschetti nel 2008. «Dal loro silenzio successivo al mio fax presumo che abbiano pensato che io sia un folle, magari un mitomane in cerca di pubblicità. E’ normale che lo pensino, come è normale che la maggior parte delle persone che leggeranno queste righe le prendano per un delirio». Continua Franceschetti: «Un mio amico medico legale, a cui ho raccontato le mie “scoperte”, mi ha lasciato di stucco quando mi ha detto: “Sì, Paolo, lo sapevo. Tutti quei suicidi in carcere per soffocamento con buste di plastica sono impossibili dal punto di vista di medico-legale”». L’esoterismo «è un linguaggio: se non lo conosci è come camminare per le strade di una nazione straniera, vedi le scritte ma non ti dicono nulla, sembrano segni innocui e invece sono messaggi precisi”». Difficile parlarne, «perché ti prendono per matto». E il guaio è che, «quando capisci il sistema», è problematico «continuare a fare la vita di sempre senza impazzire».

Strano suicidio, quello di Marco Pantani, scrive “Libreidee”. Così strano da spingere la magistratura a riaprire l’inchiesta a dieci anni di distanza da quel 14 febbraio 2004. Più che un suicidio, scrive l’avvocato Paolo Franceschetti, sembra un omicidio “firmato”, con implacabile precisione, dall’ “Ordine della Rossa Rossa”. Fantomatica organizzazione segreta internazionale, secondo alcuni studiosi sarebbe una potentissima cupola eversiva di tipo esoterico, con fini di potere, dedita anche all’oscura pratica dell’omicidio rituale. «Un’ipotesi sempre scartata come irrealistica dagli inquirenti», scrive nel suo blog lo stesso Franceschetti, autore di studi sulla presunta relazione tra crimini e occultismo iniziatico, incluso il caso del cosiddetto “mostro di Firenze”. Di matrice rosacrociana, fondata sul simbolismo della Cabala e dell’ebraico antico come la londinese “Golden Dawn” rinverdita dal “mago” Aleister Crowley, secondo alcuni saggisti la “Rosa Rossa” sarebbe una sorta di super-massoneria deviata e criminale. Problema: non esiste una sola prova che questa organizzazione esista davvero. Solo indizi, benché numerosi. Chi esegue una sentenza rituale di morte, per “punire” in modo altamente simbolico un presunto “colpevole” o addirittura perché pensa – magicamente – di “acquisire potere” dall’uccisione “satanica” di un innocente, secondo Franceschetti ricorre sistematicamente a pratiche sempre identiche: in particolare la morte per impiccagione (la corda di Giuda, traditore di Cristo), con la vittima fatta ritrovare inginocchiata, e la morte per avvelenamento (o overdose di droga). Decine di casi di cronaca, tutti contrassegnati da circostanze ricorrenti: manca sempre un movente plausibile, non si trova l’arma del delitto, i nomi delle vittime hanno spesso origine biblica, la somma dei “numeri” (data di morte, data di nascita) riconduce a numeri speciali, per la Cabala, come l’11 e i suoi multipli. Oppure il 13, il numero della morte dei tarocchi. E poi, la “firma”: Pantani fu ritrovato morto a Rimini all’hotel “Le Rose”. Accanto al corpo, un biglietto in codice dal significato criptico: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”.

Sul caso Pantani, sono stati scritti fiumi di parole, reportage, libri. Tra chi non ha mai creduto alla tesi del suicidio c’è un giornalista come Andrea Scanzi, che sul “Fatto Quotidiano” scrive: «Troppe incongruenze. La camera era mezza distrutta, c’era sangue sul divano, c’erano resti di cibo cinese (che Pantani odiava: perché avrebbe dovuto ordinarlo?)». Inoltre, il campione aveva chiamato per ben due volte la reception, parlando di «due persone che lo molestavano», ma l’aneddoto è stato catalogato come “semplici allucinazioni di un uomo ormai pazzo”. In più, Pantani «fu trovato blindato nella sua camera, i mobili che ne bloccavano la porta, riverso a terra, con un paio di jeans, il torso nudo, il Rolex fermo e qualche ferita sospetta (segni strani sul collo, come se fosse stato preso da dietro per immobilizzarlo, e un taglio sopra l’occhio)». Uniche tracce di cocaina, quelle ritrovate su palline di mollica di pane. Indagini superficiali: «Non esiste un verbale delle prime persone che sono entrate all’interno della camera, non è stato isolato il Dna delle troppe persone che entrarono nella stanza». Dettaglio macabro e particolarmente strano, il destino del cuore di Pantani: «Venne trafugato dopo l’autopsia dal medico, che lo portò a casa senza motivo (“Temevo un furto”) e lo mise nel frigo senza dirlo inizialmente a nessuno», scrive Scanzi. Prima di morire, a Rimini il ciclista aveva trascorso cinque giorni, «per nulla lucido, accompagnato da figure equivoche. Avrebbe anche festeggiato con una squadra di beach volley poco prima di morire: chi erano?». Altre domande: «Perché il cadavere aveva i suoi boxer un po’ fuori dai jeans, come se lo avessero trascinato?». Certo, aggiunge Scanzi, Pantani morì per overdose di cocaina, «ma troppi particolari lasciano pensare (anche) a una messa in scena». L’autopsia, peraltro, confermò che le tracce di Epo nel suo corpo erano minime, «segno evidente di come il ciclista non avesse mai fatto un uso costante di sostanze dopanti». E poi, tutte quelle “incongruenze”, reperibili in libri-denuncia come “Vie et mort de Marco Pantani” (Grasset, 2007) e “Era mio figlio” (Mondadori, 2008). E poi, soprattutto: «Che senso aveva quel messaggio in codice accanto al cadavere?». Colori e rose, “la rosa rossa è la più contata”. Anche i suoi amici, ricorda Franceschetti, dissero che la morte di Pantani in quell’hotel non poteva esser stata casuale: forse Marco voleva «lasciare un messaggio a qualcuno», perché «era un uomo che non faceva nulla a caso». Meglio ancora: «Non era lui che voleva lasciare un messaggio, ma chi l’ha ucciso», chiosa l’avvocato, sempre attento ai possibili “segni invisibili”: «Probabilmente c’è un significato anche nel fatto che sia morto a San Valentino, giorno in cui tradizionalmente si regalano rose alla fidanzata». Pantani “costretto” ad andare in quel preciso albergo affinchè poi il delitto fosse “firmato”? «Ovviamente, dire che dietro un delitto c’è la “Rosa Rossa” significa poco: essendo la “Rosa Rossa” un’organizzazione internazionale, e contando centinaia di affiliati in Italia, è come dire che si tratta di un delitto di mafia o di camorra». Un’affermazione «talmente generica da essere pressoché inutile a fini investigativi». Tuttavia, «dovrebbe essere un buon indizio perlomeno per non archiviare la cosa come suicidio». Franceschetti considera «evidente» l’origine «massonica» degli attacchi a Pantani, citando l’anomalo incidente che, anni prima, lo vide protagonista a Torino: fu travolto da un’auto che era penetrata in un’area interdetta al traffico, lungo la discesa della collina di Superga, quella dove si schiantò l’aereo del Grande Torino. La basilica di Superga, sull’altura che domina la città, fu costruita nel 1717, «anno in cui venne ufficialmente fondata la massoneria». Basta questo, all’avvocato, per concludere che si tratta di «una firma manifesta, specie alla luce delle stranezze di quell’incidente». Tra gli “incidenti non casuali”, Franceschetti inserisce pure quello ai danni del cantante Rino Gaetano: come anticipato in modo inquietante dal testo di una sua canzone, “La ballata di Renzo”, peraltro gremita di “rose rosse”, l’artista morì a Roma nella notte del 2 giugno 1981 dopo esser stato rifiutato da 5 diversi ospedali. «Statisticamente, le probabilità che un cantante descriva la morte di qualcuno perché viene rifiutato da 5 ospedali, e che poi muoia nello stesso identico modo sono… nulle». Molto strana, aggiunge Franceschetti, è anche la tragica fine del ciclista Valentino Fois, della stessa squadra di Pantani: anche lui muore per cause da accertare, ma alcuni giornali parlano subito di overdose, «e già questo fa venire qualche sospetto». Premessa: in Italia, muoiono per omicidio circa 2.500 persone all’anno. E altrettante finiscono suicide. Giornali e Tv si disinteressano della stragrande maggioranza di questi episodi. «Quando però su un fatto scatta l’attenzione dei media, in genere questo è un segnale che sotto c’è dell’altro. Quindi viene spontanea la domanda: perché i giornali si interessano alla morte di un ciclista poco conosciuto come Fois?». Premesso che nello sport professionistico il doping (entro certi limiti) è pressoché inevitabile, Franceschetti sospetta che Fois sia morto «per aver “tradito”, come Pantani». Ovvero, i due avrebbero «pagato con la vita la loro maggiore pulizia e onestà intellettuale rispetto al resto dell’ambiente in cui vivevano». Secondo Franceschetti, c’è anche «non il sospetto, ma la certezza» che la verità non verrà mai a galla. Del resto, «la maggior parte delle famiglie di queste vittime non saprà mai la verità, la maggior parte muore senza che i familiari sospettino un omicidio». E racconta: «Io stesso, dopo il primo incidente che mi capitò, pensai ad un caso. E dopo il secondo pensavo che ce l’avessero con la mia collega e che avessero manomesso contemporaneamente sia la mia moto che la sua per maggior sicurezza di fare danni a lei. In altre parole, potevo morire senza sapere neanche perché, e pochi avrebbero sospettato qualcosa». E aggiunge: «Ogni volta che prendo l’auto sono consapevole che lo sterzo potrà non funzionare, che un’auto che viene in senso inverso all’improvviso potrà sbandare e venire verso di me, o magari che potrò avere un malore nell’anticamera di una Procura come è successo al capo dei vigili testimone della Thyssen Krupp». La storia italiana, aggiunge l’avvocato, è troppo gremita di “coincidenze”, depistaggi e collusioni: le bombe nelle piazze, Ustica, Moby Prince. «In quei casi i familiari delle vittime ormai hanno capito, ma negli altri?».

La storia infinita del “mostro di Firenze”, ad esempio, sembra il frutto di un “normale” serial killer solitario. Secondo Franceschetti, invece, tutti quegli omicidi non sono altro che precise esecuzioni rituali, settarie ed esoteriche, meticolosamente pianificate da un clan criminale protetto da amicizie potenti. «Ho telefonato ai genitori di Pantani prima di scrivere questo articolo», scriveva Franceschetti nel 2008. «Dal loro silenzio successivo al mio fax presumo che abbiano pensato che io sia un folle, magari un mitomane in cerca di pubblicità. E’ normale che lo pensino, come è normale che la maggior parte delle persone che leggeranno queste righe le prendano per un delirio». Continua Franceschetti: «Un mio amico medico legale, a cui ho raccontato le mie “scoperte”, mi ha lasciato di stucco quando mi ha detto: “Sì, Paolo, lo sapevo. Tutti quei suicidi in carcere per soffocamento con buste di plastica sono impossibili dal punto di vista medico-legale”». L’esoterismo «è un linguaggio: se non lo conosci è come camminare per le strade di una nazione straniera, vedi le scritte ma non ti dicono nulla, sembrano segni innocui e invece sono messaggi precisi». Difficile parlarne, «perché ti prendono per matto». E il guaio è che, «quando capisci il sistema», è problematico «continuare a fare la vita di sempre senza impazzire».

Marco Pantani per Paolo Franceschetti fu ucciso da un complotto, scrive Sonia Paolin su “Delitti”. E’ la tesi di Paolo Franceschetti, esperto di massoneria ed esoterismo Marco Pantani aveva dato fastidio a molti poteri forti che si sono uniti per eliminarlo. La morte di Marco Pantani? Frutto di un complotto che pare da lontano e che mescola misteri ed esoterismo, medicina, poteri forti e massoneria. A sostenerlo è Paolo Franceschetti, noto esperto della materia che insieme a Fabio Frabetti e Stefania Nicoletti da qualche tempo ha anche aperto un blog specifico, "Indagine sulla morte di Marco Pantani". Diverse le colpe di cui si sarebbe macchiato il campione, tutte punite con la sua morte: parlava senza peli sulla lingua senza aver timore di nessuno, infangando il sistema del doping, delle case farmaceutiche e delle sponsorizzazioni; vinceva troppo, non voleva piegarsi alle regole del gioco, e non permetteva a nessuno di dirgli quando e come vincere; destabilizzava anche gli equilibri geopolitici internazionali. Ora, intervistato sul blog di Vice, la trasmissione di approfondimento e inchiesta di Sky Tg24, Franceschetti ha chiarito i suoi sospetti: “La stranezza di questo caso è sempre stata considerare la morte di Marco come un suicidio e non un omicidio. La morte di Marco è un stato un omicidio eccellente, con coperture e depistaggi eccellenti. È sempre stato chiaro, a chiunque, non solo a me. Credo proprio che in questo momento qualcuno stia tremando. Magari stanno pensando a un cambio di potere, ai vertici, qualcosa così. I gruppi di potere a cui dava fastidio Pantani. Basta vedere la sua storia per vederlo. Nella sua vita si è messo contro un sacco di gente. con battaglie, anche in tribunale. Pantani era scomodo, sosteneva verità che normalmente nel mondo dello sport non vengono portate avanti”. E cita fatti già noti, peraltro già accantonati da molti: “Il declino di Pantani iniziò quando rifiutò la sponsorizzazione della Fiat (divenne testimonial di Citroen, ndr). Quella decisione gli è costata cara. C’è la droga poi, il doping, ma anche altro. Tanto per dirtene una c’è anche la pista americana. Marco vinceva tutto, forse troppo. Gli americani tengono parecchio alla loro immagine nel mondo e in quel momento avrebbero voluto che Armstrong diventasse il loro nuovo numero uno. Pantani si era messo in mezzo”. E qui si arriva ai mandanti: “C’è la firma dell’organizzazione che ha commissionato il fatto, che è l’ordine della Rosa Rossa. E’ uno degli ordini più potenti nel mondo, e i suoi componenti di grado più elevato sono ai vertici di banche, multinazionali, istituzioni di alto livello. Non sono teppisti da quattro soldi. Sono ovunque. Pantani muore all’hotel Le Rose, di fianco al cadavere, sul comodino, la polizia trova un bigliettino su cui c’è scritta una sorta di poesia, di filastrocca. “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata.” Poi c’è la data del delitto. Marco muore il giorno di San Valentino. San Valentino è il santo dell’amore e quindi delle rose, e se fai la somma dei numeri che compongono la data, uno per uno, il numero finale è 13. Se guardi i tarocchi il tredici corrisponde alla morte, e i tarocchi sono ovviamente un’espressione dell’esoterismo”.

L’omicidio massonico. Tutti lo vedono, tranne gli inquirenti, scrive Paolo Franceschetti. Gli omicidi commessi dalla massoneria seguono tutti un preciso rituale e sono – per così dire - firmati. Dal momento che le associazioni massoniche sono anche associazioni esoteriche, in ogni omicidio si ritrovano le simbologie esoteriche proprie dell’associazione che l’ha commesso; simbologie che possono consistere in simboli sparsi sulla scena del delitto, o nella modalità dell’omicidio, o nella data di esso. Questo articolo è però necessariamente incompleto, nel senso che sono riuscito a capire la motivazione e la tecnica sottesa ad alcuni delitti solo per caso, con l’aiuto di alcuni amici, giornalisti, magistrati o semplici appassionati di esoterismo. Ma devo ancora capire molte cose. La mia intenzione è di fornire però uno spunto di approfondimento a chi vorrà farlo. Evitiamo di ripercorrere i principali omicidi, perché ne abbiamo accennato nei nostri precedenti articoli (specialmente ne“Il testimone è servito” e in quello sul mostro di Firenze). Facciamo invece delle considerazioni di ordine generale. I miei dubbi sul fatto che ogni omicidio nasconda una firma e una ritualità nacquero quando mi accorsi di una caratteristica che immediatamente balza agli occhi di qualsiasi osservatore: tutte le persone che vengono trovate impiccate si impiccano “in ginocchio”, ovverosia con una modalità compatibile con un suicidio solo in linea teorica; in pratica infatti, è la statistica che mi porta ad escludere che tutti si possano essere suicidati con le ginocchia per terra, in quanto si tratta di una modalità molto difficile da realizzare effettivamente. Così come è la statistica a dirci che gli incidenti in cui sono capitati i testimoni di Ustica non sono casuali; ben 4 testimoni moriranno in un incidente aereo, ad esempio, il che è numericamente impossibile se raffrontiamo questo numero morti con quello medio delle statistiche di questo settore. L’altra cosa che mi apparve subito evidente fu la spettacolarità di alcune morti che suscitavano in me alcune domande. Perché far precipitare un aereo, anziché provocare un semplice malore (cosa che con le sostanze che esistono oggi, nonché con i mezzi e le conoscenze dei nostri moderni servizi segreti, è un gioco da ragazzi)? Perché “suicidare” le persone mettendole in ginocchio, rendendo così evidente a chiunque che si tratta di un omicidio? (a chiunque tranne agli inquirenti, sempre pronti ad archiviare come suicidi anche i casi più eclatanti). Perché nei delitti del Mostro di Firenze una testimone muore con una coltellata sul pube? (anche questo caso archiviato come “suicidio”). Perché una modalità così afferrata, ma anche così plateale, tanto da far capire a chiunque il collegamento con la vicenda del mostro? Perché firmare i delitti con una rosa rossa, come nel caso dell’omicidio Pantani, in modo da rendere palese a tutti che quell’omicidio porta la firma di questa associazione? Ricordiamo infatti che Pantani morì all’hotel Le Rose e che accanto al suo letto venne trovata una poesia apparentemente senza senso che diceva: “Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata”. Ricordiamo anche che Pantani ebbe un incidente (per il quale fece causa alla città di Torino) proprio nella salita di Superga, ovverosia la salita dove sorge la famosa cattedrale che fu eretta nel 1717, data in cui la massoneria moderna ebbe il suo inizio ufficiale. Se questi particolari non dicono nulla ad un osservatore qualsiasi, per un esperto di esoterismo dicono tutto. Tra l’altro la collina di Superga è quella ove si schiantò l’aereo del Torino Calcio, ove morì un’intera squadra di calcio con tutto il personale al seguito. Altra coincidenza inquietante, a cui pare che gli investigatori non abbiano mai fatto caso. Perché far morire due testimoni di Ustica in un incidente come quello delle frecce tricolori a Ramstein, in Germania, destando l’attenzione di tutto il mondo? La domanda mi venne ancora più forte il giorno in cui con la mia collega Solange abbiamo avuto un incidente di moto. Con due moto diverse, a me è partito lo sterzo e sono finito fuori strada; mi sono salvato per un miracolo, in quanto l’incidente è capitato nel momento in cui stavo rallentando per fermarmi e rispondere al telefono; Solange, che fortunatamente è stata avvertita in tempo da me, ha potuto fermarsi prima che perdesse la ruota posteriore. Ora, è ovvio che un simile incidente – se fossimo morti - avrebbe provocato più di qualche dubbio. Magari a qualcuno sarebbe tornato in mente il caso dei due fidanzati morti in un incidente analogo qualche anno fa: Simona Acciai e Mauro Manucci. I due fidanzati morirono infatti in due incidenti (lui in moto, lei in auto) contemporanei a Forlì. Nel caso nostro, due amici e colleghi di lavoro morti nello stesso modo avrebbero insospettito più di una persona e sarebbero stati un bel segnale per chi è in grado di capire: sono stati puniti. Per un po’ di tempo pensai che queste modalità servivano per dare un messaggio agli inquirenti: firmando il delitto tutti quelli che indagano, se appartenenti all’organizzazione, si accorgono subito che non devono procedere oltre. Inoltre ho pensato ci fosse anche un altro motivo. Lanciare un messaggio forte e chiaro di questo tipo: inutile che facciate denunce, tanto possiamo fare quello che vogliamo, e nessuno indagherà mai realmente. Senz’altro queste due motivazioni ci sono. Ma ero convinto che ci fosse anche dell’altro, specie nei casi in cui la firma è meno evidente. La risposta mi è arrivata un po’ più chiara quando ho scoperto che Dante era un Rosacroce (dico “scoperto” perché non sono e non sono mai stato un appassionato di esoterismo). Ora la massoneria più potente non è quella del GOI, ma è costituita dai Templari, dai Rosacroce e dai Cavalieri di Malta. E allora ecco qui la spiegazione dell’enigma: la regola del contrappasso. Nell’ottica dei Rosacroce, chi arriva al massimo grado di questa organizzazione, ha raggiunto la purezza della Rosa. Nella loro ottica denunciare uno di loro, o perseguirlo, è un peccato. E il peccato deve essere punito applicando la regola del contrappasso. Quindi: volevi testimoniare in una vicenda riguardante un aereo caduto? Morirai in un incidente aereo. Volevi testimoniare in un processo contro il Mostro di Firenze? Morirai con l’asportazione del pube, cioè la stessa tecnica usata dal Mostro sulle vittime. La regola del contrappasso è evidente anche ad un profano nel caso di Luciano Petrini, il consulente informatico che stava facendo una consulenza sull’omicidio di Ferraro, il testimone di Ustica trovato “impiccato” al portasciugamani del bagno. Petrini morirà infatti colpito ripetutamente da un portasciugamani. Nel mio caso e quello della mia collega il “peccato” consiste invece nell’aver denunciato determinate persone appartenenti alla massoneria (in particolare quella dei Rosacroce). Per colmo di sventura poi andai a fare l’esposto proprio da un magistrato appartenente all’organizzazione (cosa che ovviamente ho scoperto solo dopo gli incidenti, decriptando la lettera che costui mi inviò successivamente). Che è come andare a casa di Provenzano per denunciare Riina. Nel caso di Fabio Piselli, invece, il perito del Moby Prince che doveva testimoniare riguardo alla vicenda dell’incendio capitato al traghetto, costui è stato stordito e messo in un’auto a cui hanno dato fuoco, forse perché il rogo dell’auto simboleggiava il rogo della nave. Talvolta invece il simbolismo è più difficile da decodificare e si trova nelle date, o in collegamenti ancora più arditi, siano essi in casi eclatanti, o in banali fatti di cronaca. Nel caso del giudice Carlo Palermo che il 02 aprile del 1985 tentarono di uccidere con un’autobomba a Pizzolungo (Trapani). Il giudice Palermo era stato titolare di un’ampia indagine sul traffico di armi ed aveva indagato sulla fornitura di armi italiane all’Argentina durante la guerra per le isole Falkland, guerra scoppiata proprio il 02 aprile 1982 con l’invasione inglese delle isole. L’autobomba scoppiò quindi nella stessa data, e tre anni dopo (tre è un numero particolarmente simbolico). Ed ancora per quanto riguarda l’omicidio di Roberto Calvi. Come ricorda il giudice Carlo Palermo: “Nella inchiesta della magistratura di Trento un teste (Arrigo Molinari, iscritto alla P2), dichiarò che Calvi – attraverso le consociate latino-americane del Banco Ambrosiano – aveva finanziato l’acquisto, da parte dell’Argentina, dei missili Exocet e in definitiva l’intera operazione delle isole Falkland”. I primi missili Exocet affondarono due navi inglesi (la Hms Sheffield e Atlantic Conveyor). Il 18 giugno 1982 Roberto Calvi fu trovato morto impiccato a Londra sotto il ponte dei frati neri (nome di una loggia massonica inglese). Inoltre il ponte era dipinto di bianco ed azzurro che sono i colori della bandiera argentina. Nel caso del delitto Moro la scena del delitto è intrisa di simbologie, dal fatto che sia stato trovato a via Caetani (e Papa Caetani era Papa Bonifacio VIII, che simpatizzava per i Templari e a cui mossero le stesse accuse rivolte a quest’ordine) alla data del ritrovamento, al fatto che sia stato trovato proprio in una Renault 4 Rossa. Se Renault Rossa sta per Rosa Rossa, la cifra 4 farebbe riferimento al quatre de chiffre (ma forse anche al numero di lettere della parola “rosa”). Il mio articolo termina qui. Non voglio approfondire per vari motivi. In primo luogo perché non sono un appassionato di esoterismo e scendere ancora più a fondo richiederebbe uno studio approfondito e molto tempo a disposizione, che io non ho. Il mio articolo è dettato invece dalla voglia di indurre il lettore ad approfondire. E dalla voglia di dire a chiunque che molti misteri d’Italia, non sono in realtà dei misteri, se si sa leggere a fondo nelle pieghe del delitto. La conoscenza approfondita dell’esoterismo e del modo di procedere delle associazioni massoniche garantirebbe agli inquirenti, il giorno che prenderanno coscienza del fenomeno, un notevole miglioramento dal punto di vista dei risultati investigavi. Questo consentirebbe anche di capire alcuni meccanismi della politica italiana, che spesso nelle loro simbologie si rifanno a queste organizzazioni. La croce della democrazia Cristiana, ad esempio, probabilmente non è altro che la Croce templare; mentre la rosa presente nel simbolo di molti partiti è probabilmente nient’altro che la rosa dei RosaCroce. Quando dico queste cose mi viene risposto spesso che la rosa della “Rosa nel pugno” è in realtà il simbolo dei radicali francesi. E io rispondo: appunto, il simbolo dei RosaCroce, che non è un’organizzazione italiana, ma internazionale. E che non ricorre solo per i radicali ma anche per i socialisti e per altri partiti di destra. Questo consentirebbe di capire, ad esempio, il significato del cacofonico nome “Cosa Rossa” che si voleva dare alla Sinistra Arcobaleno; un nome così brutto probabilmente non è un caso. Secondo un mio amico inquirente potrebbe derivare da Cristian Rosenkreuz, il mitico fondatore dei RosaCroce. Mentre la Rosa Bianca potrebbe fare riferimento alla guerra delle due rose, in Inghilterra; guerra che terminò con un matrimonio tra Rosa bianca e Rosa Rossa. Al lettore appassionato di esoterismo il compito di capire il significato delle varie morti che qui abbiamo solo accennato. Non ho ancora capito, ad esempio, il perché dei cosiddetti “suicidi in ginocchio”. Secondo un mio amico le gambe piegate trovano un parallelismo con l’impiccato del mazzo dei tarocchi, che è sempre raffigurato con una gamba piegata. Era la punizione riservata un tempo al debitore, che veniva appeso in quel modo affinchè tutti potessero vedere la sua punizione e potessero deriderlo. E infatti, tutti quelli che vedono un suicidio in ginocchio capiscono che si trattava di un testimone scomodo e che si tratta di un omicidio. Tutti, tranne gli inquirenti. (Io speriamo che non mi suicido).

L’omicidio massonico - Il caso Pantani e il caso Fois, scrive ancora Paolo Franceschetti.

Premessa. In questo articolo approfondiamo alcuni degli argomenti trattati nel precedente articolo sull’omicidio massonico e chiariamo alcuni dubbi che l’articolo aveva suscitato specialmente in merito al caso Pantani. In primo luogo l’articolo precedente terminava con una domanda. Mi chiedevo cioè il motivo dell’immenso numero di persone “suicidate” (come si dice in gergo) mediante impiccagione, e facendo toccare alla maggioranza di essere le ginocchia per terra. Voglio poi rispondere alle molte domande che mi vengono spesso rivolte: come si distingue l’omicidio massonico? E perché dico che Pantani fu quasi sicuramente ucciso?

Impiccagioni e avvelenamenti, overdose. In primo luogo un lettore mi ha inviato la sua spiegazione. il "suicidio in ginocchio" rappresenta "l'omicidio consacrato" cioè la morte per "volere divino"... cosi come si viene investiti degli onori alla vita, cosi si viene investiti degli onori alla morte. Mi è pervenuto inoltre uno scritto, tratto dal libro di un esoterista che ha, appunto, trattato questo argomento che riportiamo. Il libro è di Lino Lista e si intitola: “Raimondo di Sangro. Il principe dei veli di pietra”. In forma romanzata vengono rivelati alcuni aspetti del ritualismo massonico che hanno quindi dato una risposta alla mia domanda sul motivo dei tanti impiccati. La corda e l’impiccagione sono i simboli di Giuda e del tradimento di Cristo. Ma il lavoro di Lino Lista svela anche un altro mistero. Un’altra modalità frequente di uccisione, tanto frequente da gettare più di un sospetto, ad esempio, è quella dell’avvelenamento da overdose, in cui sono incappati, per fare qualche nome, il ciclista Pantani, poi di recente un altro componente della sua squadra, il ciclista Valentino Fois, e a Viterbo il medico Manca, ovvero il medico che pare abbia curato il boss mafioso Bernardo Provenzano. Muoiono poi avvelenati anche molti testimoni di processi importanti. Morì avvelenato in carcere Sindona. E poi molti “malori” improvvisi, talvolta nell’anticamera di un giudice, in un tribunale, o nella buovette di Montecitorio come capitò al generale Giorgio Manes. Voglio citare integralmente il passo del libro di Lino Lista: La corda...(omissis)...è il segno dominante, che mai deve mancare, di una vendetta massonica. Con riferimento alla leggenda di Hiram, volendo spandere un maggior numero d’indizi, convenientemente si potrebbero lasciare accanto al cadavere del giustiziato, seppur di veleno: dell’acqua, in ricordo della fontana alla quale il Vendicatore smorzò la sete; un osso spezzato di cane, in onore dell’Incognito che si mutò in tal bestia; un abito nero, in memoria del lutto per Padre Hiram. Volendo eccedere, ma mai una società segreta dovrebbe eccedere perchè troppi indizi talvolta sono considerati alla stregua di una prova, si potrebbe collocare sulla salma del traditore un mattone, simbolo muratorio. Queste morti da overdose, quindi, non sono un caso. Anche l’avvelenamento è una modalità “massonica” perché simboleggia la morte per mano del serpente, simbolo dell’infedeltà e dell’inganno. Ecco quindi perché Pantani morirà dopo aver ingerito diverse dosi di coca. Perché sostengo che sia un omicidio? Perché ogni qualvolta l’incidente, o il malore, o il suicidio, sono provocati, e sono quindi un omicidio, immancabilmente partono, a seguito del fatto, i depistaggi e gli occultamenti che solo un potere come quello massonico è in grado di fornire: sparizione dei fascicoli dai tribunali, morte dei testimoni, la pervicace volontà degli inquirenti nell’ignorare determinate prove (per collusione, paura, o per la mancata conoscenza del problema), le irregolarità procedurali, ecc…

Il caso Pantani. Esaminiamo il caso Pantani, così come ce lo descrive un giornalista, Philippe Brunel, in un recente libro “Gli ultimi giorni di Marco Pantani” su cui ci basiamo per la nostra ricostruzione. E’ noto che Pantani morirà all’hotel Le rose di Rimini per una presunta overdose da cocaina. Anche qui troviamo tutti gli elementi di un omicidio massonico, ovverosia le firme, nonchè tutte le modalità procedurali investigative che gli inquirenti seguono quando il delitto è massonico.

Ad esempio troveremo:

- testimoni che cambieranno versione;

- gli inquirenti che ignorano particolari fondamentali nell’indagine: ad esempio nel cestino dei rifiuti della stanza dell’hotel verranno rivenuti resti di una cena presa da un ristorante cinese. Ma Pantani non mangiava cibo cinese. Allora chi c’era con lui quell’ultima notte?

- Sul corpo compaiono segni di colluttazione ma nessuno accerterà mai se, ad esempio, sotto le unghie compaiano o meno dei resti di DNA altrui per verificare se Pantani fu forzato a ingerire cocaina (v. pag. 278).

- Errori e omissioni varie nelle autopsie.

- Una volante della polizia, con due agenti, interverrà sul luogo dell’incidente, ma non redigerà mai il verbale relativo. Perché questa irregolarità nelle procedure?

- Le varie perizie medico legali fanno una gran confusione sull’ora della morte che collocano tra le 11,30 (la perizia del dottor Fortuni) e le 19 (il medico Toni).

Dire esattamente quanti siano i massoni a Bologna è difficile, per quanto si parli di circa 450 affiliati. Vicino alla massoneria viene indicato il medico legale Giuseppe Fortuni, che si occupò di alcune perizie sulla morte del ciclista Marco Pantani, stroncato da un’overdose di cocaina il 14 febbraio 2001 in un residence di Rimini, scrive Antonella Beccaria su “Il Fatto Quotidiano”. E lo stesso accade per l’imprenditore Vittorio Casale, uomo di Massimo D’Alema e che, tra le molte opere di cui si è occupato, ha partecipato a progetti di ristrutturazione del patrimonio di Propaganda Fides e di enti religiosi.

- Il medico legale che dopo l’autopsia si accorge di essere seguito.

- La camera fu trovata in disordine come se ci fosse stato un corpo a corpo.

Poi ci sono le domande irrisolte.

- Perché Pantani, volendosi suicidare, prende una stanza in un albergo a pochi chilometri dalla casa dove abitava?

- Perché prima di suicidarsi ci resta qualche giorno? Cosa lo fa rimanere in una stanza di albergo quando aveva la sua abitazione lì vicino?

- Uno degli inquirenti dichiara al giornalista di avere avuto pressioni dal Ministero dall’interno per concludere in fretta l’indagine. Ma il ministero non dovrebbe avere fretta di concludere; casomai dovrebbe avere la volontà di accertare la verità senza lasciare dubbi. Curioso poi che il Ministero si disinteressi del fatto che dopo decenni non sia mai venuta fuori la verità per stragi come Ustica, o per il sequestro Moro, e improvvisamente abbia fretta di concludere per un personaggio come Pantani. Difficile pensare che sotto ci sia una voglia di arrivare velocemente alla verità, dato che l’occultamento della verità è sistematico nella storia giudiziaria italiana. Mai abbiamo sentito un politico affermare che nel programma elettorale c’era la volontà di scoprire la verità sulle tante stragi impunite per dare giustizia alle migliaia di morti e alle decine di migliaia di famiglie delle vittime delle stragi. Mai. Anzi, in compenso alcuni degli autori di crimini assurdi, come l’ex terrorista D’Elia, hanno addirittura avuto incarichi istituzionali (sottosegretario alla camera nel governo Prodi). Personaggi che hanno avuto pesanti responsabilità in vicende come il sequestro Moro verranno addirittura fatti presidenti della Repubblica (Cossiga). Nessuna fretta di scoprire chi ha abbattuto l’aereo di Ustica, nessuna fretta di arrivare alla verità sul Moby Prince, nessuna fretta di scoprire chi c’è dietro ai delitti del Mostro di Firenze, dietro ai Georgofili, dietro a Piazza Fontana, dietro alla strage di Bologna. Ma una gran fretta di chiudere il caso Pantani. Curioso no? Tutte queste contraddizioni, depistaggi, ecc., sono sempre l’indizio sicuro della presenza della massoneria. In alternativa può ipotizzarsi che si tratti di incuria o superficialità nell’indagine. Ma si tratta di incuria e superficialità troppo ricorrenti per essere casuali. Poi ci sono le firme. Quelle firme che chi non si è mai occupato di massoneria non riesce a vedere. Ma immediatamente visibili per chi vive in mezzo a queste vicende. Anzitutto Pantani muore all’hotel Le Rose, il cui nome potrebbe non essere casuale ma essere la firma della Rosa Rossa. D’altronde anche i suoi amici diranno che la morte di Pantani in quell’hotel non deve essere un caso, ma forse voleva lasciare un messaggio a qualcuno perché lui era un uomo che non faceva nulla a caso (pag. 52). Forse, aggiungo io, non era lui che voleva lasciare un messaggio, ma chi l’ha ucciso. E poi viene trovato accanto al corpo un biglietto con una frase apparentemente senza senso: Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata. Non sono in grado di capire il senso di questo biglietto; ci vorrebbe un esperto e pochi in Italia sono in grado di capire questi messaggi. Ma indubbiamente sembra un messaggio in codice. Probabilmente c’è un significato anche nel fatto che sia morto a San Valentino, giorno in cui tradizionalmente si regalano rose alla fidanzata. Qualcuno ipotizza che abbia un senso anche la data della sua morte: 14/02/2004, data la cui somma fa 13, che nelle carte dei tarocchi non a caso è la carta della morte. Nonostante non sia in grado di decodificare tutti i particolari è evidente però che Pantani fu in qualche modo costretto ad andare in quel preciso albergo affinchè poi il delitto fosse firmato. Ovviamente dire che dietro un delitto c’è la Rosa Rossa significa poco. Essendo la Rosa Rossa un’organizzazione internazionale, e contando centinaia di affiliati in Italia, è come dire che si tratta di un delitto di mafia o di camorra. Cioè significa affermare una cosa talmente generica da essere pressocchè inutile a fini investigativi, e tuttavia dovrebbe essere un buon indizio perlomeno per non archiviare la cosa come suicidio. D’altronde che gli attacchi a Pantani provenissero da ambienti massonici risulta evidente dal fatto che qualche anno prima ebbe un incidente anomalo nella discesa di Superga. Un auto entrò nella zona vietata al traffico e investì Pantani e altre due persone. Un incidente casuale? Difficile, da pensarsi, perché sulla collina di Superga sorge quella cattedrale omonima, che venne costruita nel 1717, anno in cui venne ufficialmente fondata la massoneria. Una basilica e una collina, insomma, che hanno un particolare significato per la massoneria. Per chi sa anche solo poche cose sulla massoneria si tratta di una firma manifesta, specie alla luce delle stranezze di quell’incidente (inspiegabile ad esempio è come avesse fatto la macchina a inserirsi nella zona vietata, tanto che Pantani fece causa alla città di Torino per questo fatto).

La parola ai testimoni. Per chi conosce le vicende delle stragi italiane gli incidenti stradali per rottura dei freni o dello sterzo, non sono una novità, I testimoni di queste stragi, i personaggi scomodi, muoiono sempre così: non solo impiccati e avvelenati, ma anche in incidenti banali in cui l’auto (o la moto) escono di strada all’improvviso per un malfunzionamento. Qualcuno ogni tanto si salva. Ricordo a memoria – tra gli scampati - il carabiniere Placanica (implicato nei fatti del G8), il giudice Forleo (ma non così fu per i genitori, che morirono in un incidente analogo senza ovviamente che gli inquirenti volessero indagare). Persino il famoso Enrico Berlinguer disse di aver avuto un incidente da cui si era salvato per miracolo, durante un suo viaggio in Bulgaria nel 1973, in cui morirono però altre due persone; disse che l’incidente era voluto, ma nessuno gli credette. Di recente Fabio Piselli, scampato al rogo della sua auto, più volte nominato nei miei articoli. Ma in tanti hanno avuto “incidenti anomali” e non si sono salvati. Ne abbiamo parlato in precedenti articoli e non voglio ripetermi. Voglio invece ricordare alcuni morti del mondo dello sport e dello spettacolo. Ayrton Senna, cui fu montato male lo sterzo della sua formula 1. Per non parlare del Torino Calcio; l’aereo ebbe un guasto imprecisato e si schiantò contro – guarda tu che caso - la collina di Superga. Il cantante Rino Gaetano che ebbe due incidenti identici, con la stessa auto; nel primo incidente si salvò; nel secondo morì, anche perché 5 ospedali si rifiutarono (misteriosamente) di prenderlo in cura. Il cantante morì il 2 giugno 1981 nello stesso identico modo in cui muore il protagonista di una sua canzone, La ballata di Renzo. Statisticamente le probabilità che un cantante descriva la morte di qualcuno perché viene rifiutato da 5 ospedali, e che poi muoia nello stesso identico modo sono…. nulle. E statisticamente, le probabilità che qualcuno svolga veramente delle indagini sono le stesse di questi incidenti: nulle.

Mass Media e delitti. Molta strana è anche la morte del ciclista Valentino Fois, della squadra di Pantani. Anche lui muore per cause da accertare, ma alcuni giornali parlano di overdose. E già questo fa venire qualche sospetto, in quanto probabilmente muore nello stesso modo del suo ex amico. Occorre a questo punto fare una considerazione di ordine generale sui mass media in Italia. In Italia muoiono per omicidio circa 2500 persone all'anno. E altrettante ne muoiono suicide. Giornali e Tv si disinteressano di questi fatti, selezionando accuratamente solo le notizie che piacciono e sono funzionali al sistema. Quando però su un fatto scatta l’attenzione dei media, in genere questo è un segnale che sotto c’è dell’altro. Quindi viene spontanea la domanda. Perché i giornali si interessano alla morte di un ciclista poco conosciuto come Fois? E perché poi, nei pochi secondi che i TG dedicano alla notizia, occorre precisare che era implicato in un furto di portatili? Quand’anche si voglia dar risalto alla morte di un uomo, non c’è alcuna necessità di informare il pubblico che costui – forse – aveva rubato dei PC. In primo luogo perché la notizia è generica e posta in forma dubitativa. In secondo luogo perché non si capisce quale collegamento possa sussistere tra un furto di PC e una morte per overdose. Il sospetto che sia un omicidio, e che la televisione abbia volutamente voluto riportare l’immagine di una persona drogata e dedita al furto, è molto forte. Il messaggio che si vuole trasmettere è questo: è morto un ladro e per giunta drogato e depresso. Ma chi invece ha capito come funziona l’informazione in Italia capisce chiaramente un altro messaggio: probabilmente si tratta di un omicidio e c’è sotto qualcosa. E allora il pensiero corre al fatto che qualche prima avesse rilasciato un intervista alle jene. Aggiungiamo poi una cosa. Chi frequenta a livello professionistico il mondo dello sport sa che il doping è un fenomeno assolutamente diffuso, nel senso che probabilmente non è possibile partecipare a qualsiasi tipo di sport senza doparsi. Nella mia esperienza del passato, per anni ho praticato Body Building e ho seguito corsi per diventare istruttore di questa disciplina. E il doping era una materia di studio assolutamente ufficiale, nel senso che nella preparazione atletica di uno sportivo professionista non si poteva prescindere dal doping. Il problema era solo come eludere i controlli, stare attenti ai tempi di eliminazione della sostanza ecc... C’è quindi il forte sospetto che Fois sia morto in questo modo per aver “tradito”, come Pantani, e che i due abbiano pagato con la vita la loro maggiore pulizia e onestà intellettuale rispetto al resto dell’ambiente in cui vivevano.

Considerazioni finali. C’è anche (non il sospetto ma) la certezza, che la verità non verrà mai a galla. Anzi, a dire queste cose, purtroppo, si rischia di passare per matti o visionari. La cosa che mi dà tristezza, in tutta questa vicenda, non è la gravità delle collusioni istituzionali a tutti i livelli, né la scarsa preparazione di molti inquirenti in materia che si traduce in una mancata tutela del cittadino. Questo ho imparato ad accettarlo, perché viviamo in una democrazia troppo giovane perché sia veramente una democrazia. Le mentalità e i costumi di secoli non possono cambiare in pochi anni. L’oligarchia mascherata in cui viviamo, in fondo, un giorno dovrà finire per dare spazio ad una nuova era. Ciò che mi dà tristezza è pensare che la maggior parte delle famiglie di queste vittime non saprà mai la verità. La maggior parte muore senza che i familiari sospettino un omicidio. Io stesso dopo il primo incidente che mi capitò pensai ad un caso. E dopo il secondo pensavo che ce l’avessero con la mia collega e che avessero manomesso contemporaneamente sia la mia moto che la sua per maggior sicurezza di fare danni a lei. In altre parole; potevo morire senza sapere neanche perché e pochi avrebbero sospettato qualcosa. Solo dopo qualche tempo mi spiegarono chi ce l’aveva come me e perché. Ora, perlomeno, so che mi potrebbe succedere qualcosa e so anche il perché. Ogni volta che prendo l’auto sono consapevole che lo sterzo potrà non funzionare, che un auto che viene in senso inverso all’improvviso potrà sbandare e venire verso di me, o magari che potrò avere un malore nell’anticamera di una procura come è successo al capo dei vigili testimone della Tyssen Krupp. Ma all’epoca dei primi incidenti, non avevo neanche il sospetto di essere stato “condannato a morte”. Perché non ero consapevole di quale colpa avessi commesso e di quale peccato mi fossi macchiato.
Mi domando se Senna sapeva il destino che lo aspettava, se i familiari avranno capito. I familiari del Torino Calcio cosa penseranno di quell’incidente terribile? E i genitori di Fois? E la Forleo, cui scrissi “una lettera aperta” dalle pagine di questo blog… avrà capito esattamente cosa le è successo oppure penserà che il suo incidente d’auto sia stato casuale? I familiari delle vittime di via dei Goergofili, di Ustica, del Moby Prince, hanno capito. Lì sono troppo grosse le collusioni, troppo evidenti gli omicidi e i depistaggi perché qualcuno non capisca. Ma gli altri? I familiari dei testimoni di processi apparentemente normali, come quelli della Tyssen Krupp, o del Mostro di Firenze, che apparentemente sembra un normale caso di un serial Killer? E i familiari di tutte quelle persone che parevano condurre una vita normale, perché il delitto è maturato in un luogo ove nessuno sospetterebbe l’ingerenza così pesante dei cosiddetti poteri occulti, come il mondo sportivo? Ho telefonato ai genitori di Pantani prima di scrivere questo articolo. Dal loro silenzio successivo al mio fax presumo che abbiano pensato che io sia un folle, magari un mitomane in cerca di pubblicità. E’ normale che lo pensino, come è normale che la maggior parte delle persone che leggeranno queste righe le prendano per un delirio. Allora voglio ricordare le parole dell’onorevole Falco Accame, a proposito degli incidenti anomali (come quello capitato ai genitori del giudice Forleo) o dei suicidi dei vari testimoni di processi importanti. Parlavamo dell’incidente capitato al giudice Forleo, e mi disse “inizialmente, quando mi occupai di queste cose, credevo al caso. Non volevo credere che fosse una cosa voluta perché mi pareva fantascienza. Poi, quando mi accorsi che i testimoni morivano tutti, sistematicamente, ho capito… E’ una cosa che è difficile da accettare.” Questo articolo, come il precedente, è scritto per tutti i familiari di persone suicidate, impiccate, morte in incidenti inspiegabili che hanno sempre capito che la versione ufficiale data dagli inquirenti non quadrava, affinchè perlomeno loro sappiano la verità. Oramai sono troppe le vittime sparse per la penisola, perché non si cominci a sospettare. E sono troppi i sopravvissuti perché qualcosa prima o poi non venga fuori. Oramai parlo con tante persone esperte e mi confronto. Molti, tanti, hanno capito. Un mio amico medico legale, a cui ho raccontato le mie “scoperte” mi ha lasciato di stucco quando mi ha detto “si Paolo, lo sapevo. Lo sapevo perché da medico legale mi rendo conto quando ci prendono in giro in TV e sui giornali. Tutti quei suicidi in carcere per soffocamento con buste di plastica sono impossibili dal punto di vista di medico legale. Analizzando alcuni dei più importanti casi dal punto di vista medico legale mi sono accorto che ci prendono in giro. E poi sono un appassionato di esoterismo, e quindi i loro simboli e messaggi io li vedo. Vedi? L’esoterismo è un linguaggio. Se non lo conosci è come camminare per strade di una nazione straniera; vedi la gente, vedi le scritte, ma non ti dicono nulla; in certi casi potrebbero sembrarti innocui disegnini. Ma se invece lo conosci allora riesci a leggere oltre la superficie e capire i messaggi profondi che vengono lanciati e gli innocui disegnino diventano frasi precise. Capisci tutto, ma con la maggior parte delle persone non puoi parlare perché ti prendono per matto. E il problema principale, quando capisci il sistema, è continuare a fare la vita di sempre senza impazzire”. Questo, signori, è il sistema in cui viviamo ma con un po’ di studio e di intuito si può imparare a capirlo. Il paradosso è che non sono mai stato un appassionato né di gialli, né di spionaggio, né di esoterismo; ma credo che neanche la più fervida fantasia di qualsiasi scrittore abbia mai immaginato un sistema del genere. La realtà, per chi la vuole vedere, supera sempre di gran lunga la fantasia. Anche quella di Stephen king, che forse non a caso ha scritto una serie di telefilm che si intitola The Red Rose, e che forse per i suoi libri non si è ispirato alla sua sola fantasia (ad es. nei “Lupi del Calla”, occorre proteggere una sola rosa rossa che sta in una Torre nera; e se la Rosa venisse distrutta per qualche motivo la Torre cadrebbe insieme alla Rosa). Ps finale. Quando facevo il quarto ginnasio rubai tre biscotti (erano dei Ringo per la precisione) al mio miglior amico, Daniele. Voglio precisare, in caso di suicidio da parte mia, che i due fatti non sono collegati, al fine di evitare che i media mi facciano lo scherzo di Fois e che riportino la notizia facendomi passare per un ladro di biscotti. Peraltro confessai il mio crimine a Daniele, il quale dopo 25 anni non manca mai di ricordarmelo.

Pantani, un altro giallo. Un fax cambia l’ora della morte. Il medico legale refertò il decesso alle 11-12.30 Ma lo stesso perito indicò al pm anche le 17, scrive Marco Bonarrigo su “Il Corriere della Sera”. Un fax dimenticato tra carte investigative vecchie di dieci anni colora ancora più di giallo la morte di Marco Pantani, sulla quale la Procura di Rimini, lo scorso agosto, ha riaperto un’indagine con l’ipotesi di omicidio. È un fax partito alle 20.50 del 16 febbraio 2004, 48 ore dopo la scoperta del cadavere del corridore. Mittente il medico legale Giuseppe Fortuni, destinatario il magistrato di Rimini Paolo Gengarelli, che aveva incaricato Fortuni dell’autopsia. Il medico, con la dicitura «riservato e urgente», scrisse: «Al termine dell’esame autoptico sulla salma, la informo che il decesso può datare attorno alle ore 17 del 14 febbraio 2004... Allo stato attuale delle indagini medico-legali, la causa può essere indicata in un collasso cardiocircolatorio terminale». Ma nelle 240 pagine del rapporto definitivo, depositato un mese dopo, la collocazione del decesso cambiò radicalmente: secondo Fortuni, Pantani muore tra le 11.30 e le 12.30, come dimostrato dai dati raccolti da chi per primo ispezionò il cadavere al Residence Le Rose di Rimini (il dottor Francesco Toni) e dalle evidenze dell’autopsia. Orario confermato dalla recente perizia del professor Francesco Maria Avato, consulente della famiglia Pantani, che si limita a posticipare la morte di 15 minuti. Giuseppe Fortuni è un’autorità del settore: sul suo tavolo autoptico sono passati i corpi di Ayrton Senna e Meredith Kercher. Per quale motivo formalizzare un orario di morte incompatibile con le evidenze scientifiche? Ma su quell’orario c’è un altro aspetto inquietante. Quando la polizia scopre il cadavere, al polso di Pantani, ben visibile nel filmato della scientifica che il Corriere della Sera ha visionato per intero, c’è il Rolex Daytona cui Marco era legatissimo. L’orologio è fermo. Segna cinque meno cinque. Un dettaglio che (come le impronte digitali o la cocaina presente su un bicchiere e su una bottiglia a fianco del corpo) viene trascurato. Il Daytona fu restituito alla famiglia che l’ha conservato come un cimelio. Secondo i tecnici (ma adesso il cronografo, mai più utilizzato, è stato avviato a una perizia accurata) un modello così sofisticato, a carica automatica, si ferma solo quando resta immobile per almeno cinquanta ore o subisce un forte colpo. Il colpo l’orologio di Pantani l’ha subito alle 5 meno 5 del 14 febbraio. Alle cinque del mattino Pantani era certamente vivo. Alle 17 era morto da cinque ore secondo la perizia medica legale ufficiale oppure stava morendo secondo il primo rapporto inviato da Fortuni. E qui il giallo vira verso il nero, perché se Pantani è morto attorno alle 12 (come confermano dati oggettivi e incontestabili) bisogna spiegare perché l’orologio si ferma alle 17, la medesima ora indicata nel primo rapporto di Fortuni. Davanti al procuratore capo di Rimini, Paolo Giovagnoli, in questi giorni sfilano vecchi e nuovi testimoni dell’inchiesta. Tra loro almeno due, indicati da Antonio De Rensis, il legale dei Pantani, in grado di smontare uno degli assunti incrollabili degli investigatori: quello che nella stanza B5 del Residence Le Rose di Rimini non sia entrato nessuno da tre giorni prima della morte del Pirata al momento della scoperta del cadavere. In quella stanza entrò sicuramente qualcuno prima della morte e, probabilmente, anche qualcuno dopo. Qualcuno la cui azione potrebbe aver causato il blocco dell’orologio e provocato l’ormai palese messa in scena di una camera «messa a completamente soqquadro in un delirio da cocaina» dove però non venne trovato un solo oggetto danneggiato, compresi specchi e ceramiche, delicatamente appoggiati sul pavimento. Caos organizzato in una morte che di organizzato ormai comincia ad avere un po’ troppo.

Pantani: un video conferma l'inquinamento delle prove, scrive Mirko Nicolino su “Outdoorblog”. Su Marco Pantani, la verità sembra ancora molto lontana. La famiglia dell’ex ciclista non si è mai rassegnata, convinta com’è che loro figlio non si sia suicidato, bensì sia stato ucciso da qualcuno, che poi ha architettato una scena di follia all’interno della camera d’albergo presso la quale il ‘Pirata’ è stato trovato senza vita. Dopo il giallo sull’orario del decesso, con il fax del perito che indica un’ora diversa rispetto a quella assodata inizialmente, ora spunta anche un video inedito che confermerebbe la tesi della famiglia Pantani e del suo legale, secondo cui la scena del crimine sia stata contaminata e non tutte le prove siano state raccolte dagli esperti che sono stati chiamati a fare luce sull’accaduto. Oggi 14 ottobre 2014, l’edizione delle 13 di Sportmediaset ha mandato in onda uno spezzone di un video inedito: in tutto, il filmato consta di 51 minuti, su un totale di tre ore di sopralluogo nella stanza del Residence Le Rose in cui si trovava Pantani al momento del decesso. Già qui c’è qualcosa che non quadra e la Procura di Rimini, che ha aperto un fascicolo per fare luce sulla morte del Pirata, vuole vederci chiaro: se il sopralluogo è realmente stato di tre ore, il video dovrebbe avere la stessa durata, altrimenti si potrebbe pensare che sia stato "tagliato". Perché? Dallo spezzone del video mostrato dal biscione e commentato in studio da Davide De Zan e in collegamento dal generale Garofalo, capo dei Ris di Parma dal 1995 al 2009, emergono dettagli per certi versi inquietanti. Sono passati oltre 10 anni e chiaramente le tecniche per raccogliere le prove sulla scena di un crimine oggi sono più all’avanguardia, ma dal filmato emerge una sostanziale incuria da parte delle persone, dovrebbero essere quattro, che hanno effettuato il primo sopralluogo. Si vedono chiaramente persone che vagano per la stanza senza protezione e toccano un po’ di tutto. Addirittura, qualcuno fa cadere delle posate per terra, che poi non vengono raccolte, ma filmate esattamente così come sono, quasi a voler far sembrare che fossero parte del caos trovato in albergo. L’elemento che desta più scalpore, però, è una bottiglia d’acqua che potrebbe essere stata usata per far ingerire la cocaina a Pantani: il medico legale chiede di poterla toccare, ma gli dicono di lasciarla così dov’è. Fin qui tutto bene, meglio non contaminare anche quella. Peccato, però, che quella bottiglia non sia stata mai presa in esame per individuare oltre alle evidenti tracce di cocaina, eventuali impronte digitali. Incuria e approssimazione, in definitiva, che gettano nuove nubi sulle indagini effettuate a suo tempo.

Pantani e quei tagli nel video della polizia che mostra le ferite del Pirata. Girato dalla scientifica nel residence dove fu trovato il corpo. Il filmato dura 51 minuti, ma ci sono salti temporali. Da alcune immagini pare che il cadavere sia stato trascinato, scrive Marco Bonarrigo su “Il Corriere della Sera”. Sarà che siamo abituati alla gelida efficienza delle serie tv forensi americane, mentre queste immagini sono tremolanti e disordinate. Sarà che quel corpo martoriato riverso sul pavimento non è un attore o un manichino. Ma Marco Pantani. Sarà per questo che si esce sconvolti dalla visione del video girato dalla polizia scientifica nella stanza D5 del Residence Le Rose a Rimini, la sera del 14 febbraio 2004. 51 minuti registrati nell’arco di tre ore, con salti temporali e d’inquadratura che sorprendono il professor Francesco Donato, docente di Tecniche investigative applicate all’Università di Bologna: «Per avere valore - spiega Donato - un video girato sulla scena di un crimine deve essere un continuo d’inquadratura. Il video è stato tagliato? E perché?». Se lo chiede anche la parte civile che ha chiesto una perizia. Il filmato mostra, oltre al sangue e alle ferite sul corpo di Pantani, inspiegabilmente minimizzate dal perito del tribunale, anche le debolezze della tesi che ha orientato l’inchiesta fin da subito: morte da overdose. Il corpo di Pantani è costretto in uno spazio microscopio tra letto e parete, dove è quasi impossibile sia precipitato in seguito a un malore. Le striature allungate di sangue attorno al volto mostrano segni di trascinamento. La cintura dei jeans disegna un’ampia, innaturale asola sul lato destro del corpo, suggerendo in maniera immediata che questa sia servita per trascinarlo. Poi l’obbiettivo si sofferma sul Rolex bloccato sulle 5 meno 5, sul medico legale che indica della polvere bianca sul collo di una bottiglia, mai periziata. Nella stanza, al contrario di medico e operatore, girano senza indumenti di protezione cinque investigatori. E si sentono almeno due volte in sottofondo rumori di posate che cadono sul pavimento. E ci sono, ripresi in maniera incoerente, i dettagli di quel «caos ordinato» su cui punta forte Antonio De Rensis, l’avvocato della famiglia Pantani: si possono divellere uno specchio da un muro o un lavandino da terra, rovesciandoli sul pavimento, senza minimamente danneggiarli e, stando ai vicini di stanza, senza il minimo rumore? «Quando un investigatore entra in una scena del crimine - spiega il professor Donato - dovrebbe osservare e filmare con curiosità ed obiettività, sgombrando la mente da idee preconcette per individuare il maggior numero di elementi utili sia alla ricostruzione dell’evento, sia all’identificazione del suo autore. Altrimenti si rischiano errori enormi». Frammentario e incoerente, il filmato oggi resta prezioso: tra i testimoni che stanno sfilando questi giorni in Procura a Rimini c’è chi - mai ascoltato prima - forse è in grado di dare una motivazione a quel caos fornendo una chiave decisiva alla nuova inchiesta.

Pantani, via agli interrogatori, perizia su video Polizia, scrive  Francesco Ceniti  su “La Gazzetta dello Sport”. I dubbi sulla versione di Mengozzi, l'amico del Pirata. Adesso tocca alla manager Ronchi. Le immagini sono state tagliate?  Entra nel vivo l'inchiesta Pantani. La Procura di Rimini ha iniziato gli interrogatori delle persone informate sui fatti: già sentito Michael Mengozzi, l'amico del Pirata che avrebbe dovuto tenerlo lontano dagli spacciatori, ma che nel dicembre 2003 gli presentò l'escort russa Elena Korovina diventata l'ultima "compagna" del Pirata in una relazione che poco aveva a che fare con l'amore. Ascoltato pure il dottore Giovanni Greco, entrato in scena nella vita di Pantani in modo prepotente nell'ultimo anno e spesso in contatto con Mengozzi. Tra oggi e domani toccherà a Manuela Ronchi, manager del ciclista dal 1999 al febbraio 2004, giorno della tragica scomparsa. Che cosa è emerso da questi primi interrogatori condotti dalla polizia giudiziaria delegata dal procuratore capo Paolo Giovagnoli? Dentro il residence — La presenza di Mengozzi a Rimini nella notte del mistero non era passata inosservata. L'amico (poi non tanto amico, secondo mamma Tonina) piomba al Residence le Rose intorno alle 22.15. Di certo la polizia lo fa passare, facendolo entrare nei luoghi delle indagini, mentre tiene lontano la sorella e la zia di Pantani. Mengozzi avrebbe confermato una certa confidenza con l'ispettore Laghi: è lui a sentirlo la mattina del 15. L'imprenditore di Predappio (gestore di una discoteca) avrebbe detto di essere andato a Rimini una volta appresa la notizia della morte da una amica (informata dalla tv), ma sugli orari forse è necessario un approfondimento. Mengozzi racconta di trovarsi a cena a Milano Marittima: "Ho corso più veloce che potevo", avrebbe riferito. Fatto sta che alle 22.15 è già a colloquio con la polizia, ma le prime agenzie (e quindi i primi rimbalzi in tv) arrivano 15 minuti dopo. Non solo, per raggiungere Rimini da Milano Marittima ci vuole almeno mezz'ora. Domanda: chi a quell'ora era già a conoscenza della morte di Pantani? I 3 giubbini da sci — Il dottor Greco, invece, avrebbe riconfermato quello messo a verbale 10 anni fa: "Pantani aveva un atteggiamento compulsivo nei confronti della cocaina: si isolava per giorni assumendone quantitativi impressionanti, fumandola e inalandola". Nulla di nuovo in sostanza, neppure sul fronte medicinali che lui stesso aveva prescritto al Pirata per evitargli crisi pericolose. Medicinali presi dal romagnolo con puntualità anche la mattina del 14 e che, secondo la perizia del professor Avato, sono incompatibili con i 20 grammi segnalati dall'autopsia. Attesa anche per la deposizione della Ronchi: dovrà spiegare i vari intrecci legati a Mengozzi e Greco, ma soprattutto ricordare a chi consegnò i tre giubbini da sci lasciati da Pantani nel suo appartamento di Milano e trovati misteriosamente dentro la stanza della tragedia. Altra novità: finisce sotto perizia il video girato dalla Polizia nell'hotel la notte del 14 febbraio. Le immagini durano 51', ma il lasso di tempo coperto è di circa 3 ore. Anomalia bella grossa: di solito non sono possibili black out. I periti nominati dall'avvocato Antonio De Rensis, legale della famiglia Pantani, cercheranno di stabilire se il video ha subito dei tagli oppure se la telecamera è stata spenta più volte.

Caso Pantani, il mistero del lavandino spostato, scrive  Francesco Ceniti  su “La Gazzetta dello Sport”. È una testimonianza raccolta all’inizio della settimana a raccontare lo stato dell’appartamento del Pirata. Ma negli atti giudiziari il lavandino è al suo posto. "La scena non potrò mai dimenticarla: appena entrato nell’appartamento occupato da Pantani c’era il lavandino al centro della stanza... Una cosa incredibile, poi ho visto tutto il resto e il povero Marco...". Tenete bene a mente questo verbale: rischia seriamente di portare ai primi indagati della nuova inchiesta sulla morte del Pirata. La scena raccontata non lascia molti margini di manovra. La testimonianza chiave è stata resa a inizio settimana da una persona informata sui fatti. Una delle prime a entrare nell’appartamento D5 del residence Le Rose a Rimini. Siamo intorno alle 20.30, molti minuti prima dell’arrivo di medici e polizia. La presenza del lavandino smontato dal bagno e posizionato in mezzo alla stanza potrebbe essere inquadrato come un’alterazione dei luoghi. Perché il lavandino in tutti gli atti ufficiali è al suo posto. Stessa cosa nel video girato dalla polizia scientifica a partire dalle 23 del 14 febbraio. Insomma, chi ha spostato il lavandino e soprattutto perché? le ipotesi — Certo, qualcuno potrebbe sostenere che il testimone racconti il falso o ricordi male. La prima ipotesi è alquanto poco credibile: quale motivo avrebbe avuto una persona che aveva un alibi di ferro e non è mai stato indagato a esporsi in questo modo? Quanto alla memoria, c’è da raccontare un particolare: nel 2004 questo stesso testimone era stato ascoltato, ma non aveva fatto menzione al lavandino. Come mai? E’ la stessa domanda posta nell’interrogatorio di lunedì (durato 30 minuti) dalla polizia giudiziaria delegata dal procuratore Giovagnoli. La risposta è stata disarmante: "Nessuno me lo aveva chiesto". A chiederlo per primo è stato l’avvocato Antonio De Rensis, legale della famiglia Pantani, nel corso delle indagini difensive svolte nei mesi scorsi. Lì il lavandino è uscito per la prima volta. Uno dei punti forti dell’esposto era proprio questa testimonianza. La Procura ha fatto il resto: chiedendo conferma. E la conferma è arrivata, senza esitazioni: "Il lavandino era al centro della stanza, come si fa a dimenticarlo". Già, come si fa? La stanza di Pantani è stata trovata a soqquadro, con molte cose messe fuori posto. "Un disordine ordinato" lo ha definito il professor Avato nella perizia contenuta nell’esposto. Come a dire: una messinscena per coprire quello che era realmente accaduto nella stanza. Per l’inchiesta del 2004 le cose andarono diversamente: quel caos era stato provocato da Pantani nel delirio da overdose di cocaina che lo avrebbe condotto alla morte. E quindi in preda a questo delirio se la sarebbe presa con qualunque cosa, fino a smontare un lavandino a mani nude senza farsi neppure un graffio! Perché per la versione ufficiale nessuno entra nella stanza del Pirata. E quindi alle 20.30, quando il testimone vede il lavandino, può essere stato solo Pantani a metterlo lì. Poi torna al suo posto, misteriosamente. Come mai? Forse chi è arrivato dopo si è reso conto che non poteva reggere la tesi di un lavandino smontato a mani nude? E allora si rimette in fretta al suo posto prima d’iniziare il sopralluogo ufficiale? La Procura dovrà interrogare varie persone e capire cosa è accaduto. E magari toccherà anche al nuovo perito, il professor Tagliaro, visionare foto e video per verificare il lavandino. Non solo, il testimone afferma un altro fatto: "È stata la polizia a tranciare i materassi". Anche questo negli atti ufficiali del 2004 non risulta. Il registro degli indagati forse è stato già aperto...

Pantani, l’omicidio svelato dall’orologio fermo? Continua Francesco Ceniti. Nuove rivelazioni: era al polso del Pirata e segnava le 17.05: un guasto possibile solo se battuto. Spostavano forse il corpo? E c’è quel fax del perito Fortuni che riporta la stessa ora... L’orologio. Quello al polso di Marco Pantani. Ha scandito le ultime ore del Pirata, come una cronometro. E adesso dopo oltre 10 anni potrebbe segnare una svolta nella nuova inchiesta riaperta a luglio dalla Procura di Rimini con ipotesi omicidio volontario. Tra le tante anomalie delle indagini di 10 anni fa, ne spunta un’altra clamorosa. Antonio De Rensis, legale della famiglia Pantani, presenterà un nuovo documento per evidenziare una serie di fatti inquietanti: il Rolex Daytona del Pirata potrebbe aver registrato l’ora nella quale qualcuno ha spostato il cadavere, entrando nella stanza e forse mettendola a soqquadro per la messinscena finale. E il mistero diventa sempre più fitto: c’è un documento ufficiale mandato dal professor Fortuni al pm di allora Gengarelli che collima alla perfezione con l’orario sospetto: 17.05. Quando la polizia consegna alla famiglia gli effetti personali di Pantani considerati non importanti per l’indagine, c’è pure il Rolex. E’ al polso di Marco ormai cadavere, ma nessuno prende le impronte o ordina una perizia (cosa che potrebbe accadere ora se il professor Tagliaro, incaricato da Rimini per una nuova consulenza, chiederà di esaminarlo). L’orologio è fermo alle 17.05 del 14 febbraio. Non è un problema di carica: si è rotto un meccanismo come scopre mamma Tonina quando lo porta in un negozio di Rimini. Può il Rolex aver continuato a camminare per ore, bloccandosi poi per fine carica? Non può, perché quel modello una volta indossato e mosso anche solo per pochi minuti va avanti per almeno 12 ore. Può essersi rotto parzialmente nella caduta del Pirata per poi fermarsi alle 17 e 5? Non può, perché qualunque guasto meccanico blocca le lancette quasi istantaneamente. E allora qual è l’ipotesi? Presto detta: qualcuno può aver fatto sbattere il polso di Pantani (contro il pavimento, un mobile o la scala) mentre spostava il cadavere. Tesi confortata da altri due aspetti. Il primo: il professor Avato dopo aver esaminato le foto dell’autopsia segnala una ferita al polso compatibile con una forte botta o una compressione. Il secondo: sempre Avato evidenzia tracce di trascinamento del cadavere osservando il sangue intorno al Pirata, tracce lasciate tra le 15 e le 18 del 14 febbraio. Dopo non sarebbe stato possibile: il liquido ematico era diventato cemento. E arriviamo al fax di Fortuni. Il 16 febbraio 2004 il professore dopo l’autopsia manda un fax urgente al pm Gengarelli: «La informo che il decesso di Pantani può datarsi intorno alle 17». Guarda caso proprio l’ora indicata dall’orologio. Magari è una coincidenza, ma resta l’errore (singolare, a quei livelli) di un professore universitario che sbaglia di parecchio l’ora della morte che lo stesso Fortuni correggerà nei giorni successivi, portandola tra le 11.30 e le 12.30. Nel frattempo l’orologio è già sparito dall’inchiesta. Anzi, non c’è mai entrato...

MARCO PANTANI. ASPETTANDO GIUSTIZIA.

La solitudine, il residence e la coca. Quegli ultimi giorni del Pirata, scrive Alessandra Nanni su “Quotidiano Nazionale”. La  morte di Marco Pantani comincia il 9 febbraio del 2004, quando arriva a Rimini a bordo di un taxi. Sta scappando da Milano, dopo una lite furibonda con i genitori. Sarà l’ultima volta che vedranno quel figlio in fuga da se stesso, dal campione che era stato e di cui lui per primo non vede più che l’ombra. È l’inchiesta che ha portato al processo, a ricostruire i suoi ultimi giorni di vita. Il Pirata è sprofondato nella cocaina, e mentre il suo corpo tiene ancora il colpo di 15 grammi al giorno, il suo cuore batte di una rabbia smisurata. Come quando correva è di nuovo irraggiungibile, ma la sua ‘vetta’ ora è solo la coca, e in riviera c’è il suo fidato fornitore, Fabio Miradossa. Al processo riminese, testimoni, investigatori e imputati hanno messo insieme i pezzi di quei cinque giorni. Pantani si fa scaricare dall’autista lungo il viale, e va dritto a casa degli amici che ospitano lo spacciatore. Ma Miradossa non c’è, mamma Tonina ha minacciato di farlo arrestare se avesse continuato a vendere droga al figlio. Si è spaventato ed è tornato di corsa a Napoli. Per lui, per tutti, il campione è diventato un cliente che scotta. Ma Pantani non accetta un rifiuto, pianta una grana: devono trovare il napoletano. Capiscono che non mollerà, e fanno pressione su Miradossa: liberaci di Pantani. Lo spacciatore cede e incarica il suo galoppino di accontentare il campione. È Ciro Veneruso, quella stessa sera, a consegnare a Pantani i 30 grammi di cocaina che lo uccideranno il 14 febbraio.  Appartamento 5D, al quinto piano del residence Le Rose. Il Pirata ci arriva a mezzogiorno di quel lunedì, e da allora lo vedranno di rado. Racconteranno di un uomo rinchiuso in un mondo immaginario, frasi sconnesse, insofferenza. Scende solo a fare colazione, qualche incursione al bar per una pizzetta. Non mangia altro e tollera a malapena la donna delle pulizie. Come un animale braccato che si lecca le ferite dell’ingiustizia, sceglie il buio. Le tapparelle della stanza sono abbassate come in una grotta, sta macinando migliaia di chilometri solo con se stesso. «Si lamentava del rumore — racconteranno i clienti — bastava un passo per fargli spalancare la porta». «Chiamate i carabinieri» urla in un delirio che riempie di pena chi è testimone di tutto quel dolore. Alle 11,30 di sabato, Pantani chiama la portineria e chiede di non essere disturbato più, non gli interessa che la camera venga rifatta. Sono le 19, quando il portiere suona alla porta del 5D. Nessuna risposta, scende in cortile per cercare una luce al quinto piano, ma non riesce a vedere e il telefono della stanza dà sempre occupato. È preoccupato, decide di entrare con una pila di asciugamani. Usa il passepartout, ma la porta si apre solo di uno spiraglio, il mobile della tv e del telefono sono rovesciati. Dentro l’appartamento il caos, come un uragano. «Poi sono salito nel soppalco, era a terra adagiato su un fianco, non respirava più». Fine della corsa.

CHI HA UCCISO PANTANI ? A DIECI ANNI DALLA SUA MORTE, IL CASO RIAPRE E SI INDAGA...........

PANTANI, CASO RIAPERTO DOPO 10 ANNI: “FU UCCISO? DOBBIAMO APPROFONDIRE”, scrive Guglielmo Buccheri per “la Stampa”. Cinquemila pagine fotocopiate, decine di testimonianze e immagini. L’esposto voluto dalla famiglia di Marco Pantani è finito sul tavolo del procuratore di Rimini Paolo Giovagnoli ed ora l’indagine è aperta come riporta la Gazzetta dello Sport. «Non fu suicidio volontario, ma Pantani fu ucciso...», sostengono i familiari del campione romagnolo e, da ieri, è l’ipotesi a cui lavoreranno gli inquirenti. «Nessun commento, dobbiamo approfondire. Bisognerà fare delle valutazioni anche alla luce del risultato del processo che ci fu a suo tempo.  Quando - precisa il procuratore Giovagnoli - arriva un esposto-denuncia per omicidio volontario è sempre un atto dovuto aprire un’indagine...».  La svolta, clamorosa, è sul tavolo. E, in un attimo, i fatti della notte del 14 febbraio di dieci anni fa tornano sotto i riflettori. La procura di Rimini si metterà al lavoro, lo farà dopo l’estate e l’indagine appena aperta durerà almeno un anno prima di arrivare alle sue conclusioni.  La famiglia del Pirata, da sempre, ha sostenuto come non fossi possibile che il loro Marco avesse deciso di chiudersi nella stanza della pensione sul lungomare per dire basta. Ora, dopo un decennio di dubbi e perplessità, ecco il primo passo: l’esposto presentato in procura dall’avvocato Antonio De Rensis, e accompagnato da una perizia accurata, è stato giudicato fondato, ma dire oggi quale potrebbe essere il punto di arrivo è fin troppo prematuro. «Non fu suicidio, ma Pantani fu ucciso...», sostengono nella loro dettagliata ricostruzione i familiari del Pirata. «Ora esca la verità...», così gli ex colleghi, ma, soprattutto, amici del romagnolo, Claudio Chiappucci e Davide Cassani. «Non capisco perchè ci sia stato tutto questo ritardo, è giusto che si vada a fondo sulla tragica morte di Marco...», sottolinea Chiappucci. «Forse - così Cassani - si sono date per scontate troppe cose che non lo erano. Chi ha voluto bene a Marco vuole capire cosa realmente sia accaduto quella notte...». Il lavoro della procura di Rimini non sarà facile. Come detto dal procuratore Giovagnoli occorrerà ripartire nell’inchiesta tenendo conto degli sviluppi che hanno portato alle conclusioni del processo già celebrato. Da tempo la famiglia Pantani non perdeva occasione per chiedere la riapertura del caso che, adesso, riaccendere l’attenzione sugli attimi di vita del campione delle due ruote. Per presentare l’esposto c’è voluto un faticoso impegno, fra difficoltà nel reperire il materiale e riuscire nella visione di documenti e faldoni datati quasi dieci anni. Dopo l’estate, i pm si metteranno in azione.

AVEVA CHIESTO AIUTO E FORSE NON ERA SOLO NELLA STANZA MALEDETTA, scrive Giorgio Viberti per “la Stampa”.

Domande e risposte sui misteri di quella notte.

Perché Marco Pantani è uno dei campioni più amati e insieme discussi nella storia dello sport e non solo nel ciclismo?

«Perché si dimostrò pressoché imbattibile sulle montagne, dove fece entusiasmare i tifosi quasi come ai tempi di Bartali e Coppi, ma subì poi una sospensione dalle corse molto discussa e morì ancora giovane, a 34 anni, in circostanze quasi misteriose».

Per molti Pantani non fu soprattutto il simbolo di un ciclismo diventato ostaggio del doping?

«In quegli anni tanti corridori usarono farmaci vietati e alcuni in seguito lo confessarono, eppure Pantani in 12 anni di professionismo non risultò mai positivo all’antidoping».

Ma non morì per un eccesso di cocaina?

«È quanto asserì l’inchiesta dopo la sua morte, avvenuta il 14 febbraio 2004. E paradossalmente fu quella l’unica volta in cui Pantani risultò positivo a una sostanza dopante».

Pantani assumeva cocaina anche quando correva?

«Non venne mai rilevata nei tanti test ai quali si sottopose da corridore, ma è probabile che Pantani abbia cominciato ad assumere cocaina dopo lo choc per l’esclusione dal Giro d’Italia 1999, che aveva ormai quasi vinto, a due tappe dalla fine per ematocrito alto, cioè perché aveva il sangue troppo denso».

Perché si torna a indagare sulla morte del Pirata dopo dieci anni dalla sua morte?

«La mamma Tonina e il papà Paolo non hanno mai accettato la tesi del suicidio involontario per overdose di cocaina. Insieme con i loro legali hanno raccolto una serie di dati e testimonianze che hanno convinto i giudici a riaprire l’inchiesta».

Ma è lecito pensare che la prima inchiesta non sia riuscita a fare piena luce sulle cause della morte?

«Secondo molti ci sarebbero tante incongruenze e contraddizioni che quantomeno lascerebbero molti dubbi sulle conclusioni delle indagini di dieci anni fa. Di sicuro, se è stata riaperta l’inchiesta, devono essere emersi elementi nuovi e importanti di valutazione».

Per esempio?

«C’è l’ipotesi che Pantani non fosse solo nella stanza del residence in cui fu trovato senza vita. Lo farebbero pensare alcuni abiti che non dovevano essere lì, del cibo che il Pirata non amava e non avrebbe mai mangiato, il disordine troppo «ordinato» della stanza, una doppia ma vana richiesta di aiuto che il Pirata fece alla reception, l’enorme quantità di cocaina trovata nel suo organismo come se fosse stato costretto a ingerirla, le escoriazioni sul suo corpo, i segni sul pavimento come se il cadavere fosse stato trascinato... Incredibile poi che l’hotel nel quale morì Pantani sia stato ristrutturato pochissimo tempo dopo, come se fosse urgente cancellare ogni prova residua».

Chi è riuscito, dopo tanto tempo, a trovare tanti nuovi indizi?

«L’avvocato Antonio De Rensis, per conto dei signori Pantani, ha studiato i faldoni sia delle indagini di allora, sia quelli relativi al successivo processo. Ma non basta, perché sono stati sentiti di nuovo alcuni testimoni chiave di quella vicenda. È stata poi molto preziosa una perizia medico-legale eseguita dal professor Francesco Maria Avato, che ha aggiunto tantissimi elementi nuovi».

Ma perché queste cose non emersero subito?

«È quanto eventualmente stabilirà questa seconda inchiesta. Di sicuro la prima autopsia sul corpo di Pantani sbagliò a indicare l’ora presunta della morte e si rivelò molto superficiale anche nel valutare alcuni dati di medicina legale che avrebbero potuto aiutare a fare chiarezza sul caso».

Chi avrebbe avuto interesse a falsificare l’esito dell’inchiesta?

«Difficile dirlo, di sicuro Pantani era finito in un giro di droga che magari coinvolgeva anche persone molto importanti. Avrebbe potuto parlare e fare dei nomi».

Per questo potrebbe essere stato ucciso?

«È questa la tesi sostenuta dai legali dei genitori di Marco. Ed è quanto dovrà appurare questa seconda inchiesta. L’ipotesi di reato è addirittura di omicidio volontario a carico di ignoti e alterazione del cadavere e dei luoghi. Il procuratore capo di Rimini, Paolo Giovagnoli, ha affidato il fascicolo a Elisa Milocco, giovane sostituto procuratore. Toccherà a lei far luce su quanto avvenne quel giorno».

«LO SCRISSI GIÀ ALLORA: TROPPI PUNTI OSCURI», scrive ancora Giorgio Vibereti per “la Stampa”. Philippe Brunel, giornalista francese e inviato speciale del quotidiano parigino L’Équipe, l’aveva già scritto nel suo libro «Gli ultimi giorni di Marco Pantani»: la morte del Pirata ha molti lati oscuri.

Brunel, che ne pensa di questa nuova inchiesta?

«L’avevo già detto dieci anni fa. Nella morte di Pantani ci sono troppe incongruenze, troppi episodi inspiegabili per poter accreditare la tesi del suicidio involontario».

È quanto però emerse dalla prima inchiesta...

«Mi interesso da molti anni di ciclismo, soprattutto italiano, e fui incaricato da L’Équipe di indagare, cercare di capire, raccogliere testimonianze e prove sulla morte di Pantani. E le cose non quadravano».

Che cosa soprattutto la lasciò perplesso?

«Tante cose. Marco era una persona precisa, quadrata e amabile. Impossibile che si sia messo a urlare e spaccare tutto nella sua stanza d’albergo, come dissero invece gli inquirenti della prima inchiesta».

Tutto qui?

«No, certo. Nella camera del residence Le Rose era stato portato del cibo che Marco odiava e non avrebbe mai mangiato, e poi le escoriazioni sul suo corpo, la bottiglia d’acqua mai analizzata, certi indumenti che non avrebbero dovuto essere lì, quel disordine troppo ordinato, il mancato rilevamento delle impronte...».

Per lei Pantani non era solo in quella stanza, vero?

«Ne sono sicuro. In quel residence si poteva entrare anche dal parcheggio sul retro, di sicuro Marco è stato raggiunto dal suo pusher ma credo anche da altre persone. Incredibile poi che quell’albergo, cioè la scena della morte di Pantani, sia stato completamente ristrutturato dopo pochissimo tempo, cancellando di fatto anche le eventuali possibili prove rimaste».

Ma chi e perché avrebbe voluto la morte di Pantani?

«Temo ci fossero sotto interessi molto grossi, che magari coinvolgevano anche persone importanti. Una storia di droga e prostituzione. Pantani era diventato un tossicodipendente, che frequentava gente senza scrupoli. A un certo punto non ha più saputo controllare la situazione, e ci ha rimesso la vita. Una morte oscura e irrisolta, però, come quelle di Tenco o Pasolini».

Brunel, che cosa si augura ora dalla nuova inchiesta?

«Marco era una persona sensibile e generosa che spesso si spingeva fino agli estremi, come faceva in bici. Per lui il ciclismo era finito e si sentiva smarrito, perduto. Ma era un uomo sincero e molto intelligente, che diceva sempre ciò che pensava e che sarebbe potuto diventare scomodo. Non può essere morto come un disperato, per un’overdose, da solo in una stanza d’albergo. Non è andata così. Marco merita giustizia».

«Verità lontana dagli atti ufficiali». Da una parte gli atti di un processo che non ha mai convinto fino in fondo. Dall’altra le indagini fatte dall’avvocato Antonio De Rensis. Sono questi i tasselli utilizzati dal professor Francesco..., scrive “Il Tempo”. Da una parte gli atti di un processo che non ha mai convinto fino in fondo. Dall’altra le indagini fatte dall’avvocato Antonio De Rensis. Sono questi i tasselli utilizzati dal professor Francesco Maria Avato per la sua perizia, il cuore dell’esposto che ha fatto riaprire il caso Pantani con l’ipotesi di reato, per ora a carico di ignoti, di omicidio volontario. Il medico legale - perito, tra l’altro, del caso Bergamini - per definirsi usa lessico da ciclista: «Ho solo aggiunto un tassello da umile gregario al lavoro del legale», commenta. «La mia esperienza mi ha portato a conclusioni diverse sulla morte di Marco Pantani. Si è trattato di rivedere gli atti di causa e non solo, ma anche informazioni recuperate dalle indagini difensive mettendo insieme i frammenti come in un puzzle. È stato un lavoro di equipe con De Rensis». Il lavoro del professor Avato si è basato sull’autopsia del campione morto a Rimini il 14 febbraio 2004 e sull’analisi di foto e video delle indagini, giungendo a conclusioni differenti rispetto alla prima perizia e all’esame autoptico effettuato quasi 48 ore dopo il ritrovamento del cadavere di Marco Pantani. «Sono questioni di pertinenza dell’autorità giudiziaria - aggiunge il medico legale - non posso esprimermi al di là del fatto che il quantitativo di cocaina rinvenuta suggeriva modalità di assunzione diverse da quelle classiche. Sono indagini molto delicate e complesse. Non vogliamo creare confusione o disagio». La parola adesso è ai magistrati. «Il mio lavoro finito? - risponde Avato - Dipende dalle informazioni ulteriori che possono giungere, tutto è perfettibile nella vita».

«Pantani non è stato ucciso». Parla Fortuni, il medico della prima perizia sulla morte del campione. «Overdose al termine di un delirio da cocaina. Lo provano i suoi scritti», scrive Davide Di Santo su “Il Tempo”. «Non ci sono veri nuovi elementi oggettivi» che facciano pensare a «una overdose "omicidiaria"». A parlare è Giuseppe Fortuni, il medico legale nominato dalla Procura di Rimini per eseguire la perizia sul corpo di Marco Pantani ai tempi del processo ai suoi pusher. È l’uomo «famoso» per essersi portato il cuore del Pirata a casa, dopo l’autopsia terminata nella notte del 16 febbraio 2004. Pensava di essere seguito da auto sospette - più tardi si apprese che si trattava di giornalisti - mentre tornava al laboratorio per depositare i tessuti. Le sue conclusioni di allora sono messe oggi in discussione dall’esposto presentato dal nuovo legale della famiglia Pantani, Antonio De Rensis, secondo il quale il campione cesenate, quel giorno di San Valentino di dieci anni fa, nel residence Le Rose di Rimini nel quale si era barricato, in realtà sarebbe stato ucciso. La ricostruzione si basa sulle indagini del legale e sulla nuova perizia di parte del professor Francesco Maria Avato. Pantani avrebbe ricevuto la visita di uno o più uomini che dopo un diverbio lo avrebbero aggredito e immobilizzato, costringendolo a bere un cocktail letale di acqua e cocaina. Per Fortuni, però, il Pirata è morto da solo e in preda ad allucinazioni. «Nessuno parla degli scritti deliranti di Pantani che furono ritrovati nel residence - le sue parole - prova certa del suo delirio e in alcun modo causabili da un overdose "omicidiaria" ma solo da un uso continuo e crescente della cocaina». Il riferimento è a quanto scritto dal campione nelle sue ultime ore. Pensieri affidati a fogli e quaderni, ma anche scritti sul muri del bagno del bilocale riminese. Si va da accuse inquietanti, cariche di astio («Hanno voluto colpire solo me», forse un riferimento alla vicenda del doping) alle composizioni nonsense («Colori, uno su tutti rosa arancio come contenta, le rose sono rosa e la rosa rossa è la più contata». E ancora: «Con tutti Marte e Venere segnano per sentire»). Prove certe di un «delirio da cocaina», per il perito della Procura. Eppure molti amici di Marco sostengono che anche quando era lucido il campione scrivera poesiole e pensieri dello stesso tipo. La madre, la signora Tonina, conserva ancora fogli e quaderni con quelle strane poesie. L’altro elemento sottolineato nella prima perizia è la morte sopraggiunta dopo l’assunzione prolungata di droga, circostanza che si scontra con l’ingestione coatta, in un solo atto. Nell’organismo c’era una quantità sei volte superiore a quella considerata la dose letale minima, ma nel sangue «periferico» la concentrazione era addirittura tredici volte più alta, mentre l’esame del midollo ha mostrato una compatibilità con un uso cronico della sostanza. Il tutto in un quadro in cui omissioni e incongruenze sono superiori alle certezze.

Morte Pantani, professor Avato: “Provinciale l’approccio alle indagini”. "Ogni ricostruzione di un delitto dovrebbe partire dalla medicina legale" afferma il professor Francesco Maria Avato sul caso Pantani. La sua perizia ha contribuito all'indagine sulla morte del Pirata. "Un cold case è sempre il segno di una primitiva sconfitta", scrive Alessandro Mastroluca su “Fan Page”. Pantani è stato costretto ad assumere un enorme quantitativo di droga. È questa la conclusione principale della nuova perizia medica completata dal professor Francesco Maria Avato, incaricato dalla famiglia del Pirata e dall’avvocato De Rensis. Il suo esame, insieme ai risultati delle prime indagini di De Rensis, ha convinto Paolo Giovagnoli a riaprire il caso per omicidio. Avato, coordinatore della sezione di Medicina Legale e delle Assicurazioni dell’Università di Ferrara, ha eseguito la prima autopsia sul corpo di Denis Bergamini, il “calciatore suicidato”. È il perito incaricato dalla difesa di Alberto Stasi, accusato di aver ucciso la fidanzata, Chiara Poggi, a Garlasco. Nel febbraio 2011, poi, insieme a Giuseppe Micieli della Neurologia dell’Università di Pavia e a Francesco Montorsi dell’Urologia del San Raffaele di Milano, incontra Bernardo Provenzano, per valutarne i problemi di salute che lo avevano indotto a chiedere il permesso di poter uscire dal supercarcere di Novara. Il suo esame sul corpo di Pantani si è basato sull’autopsia del professor Fortuni e sull’analisi di quasi 200 foto a colori e del video della Scientifica, ed è giunto a conclusioni diverse dal primo esame autoptico effettuato quasi 2 giorni dopo il ritrovamento del cadavere. Avato accerta la presenza nel corpo di un quantitativo di cocaina sei volte superiore alla dose letale. La droga, ci spiega il professor Avato che abbiamo raggiunto telefonicamente, “era in quantità tale da lasciar intuire un’assunzione in forme diverse da quella classica. Il conteggio però è complicato, eviterei le semplificazioni”, aggiunge. “Se poi l’abbia bevuta disciolta nell’acqua o l’abbia mangiata, attiene alla ricostruzione di competenza dell’autorità giudiziaria”. Fatto sta che nella stanza D5 del residence Le Rose c’erano molliche di pane rigurgitate, con presenza di polvere bianca, e una bottiglietta d’acqua mai esaminata dalla scientifica. Avato sposta l’ora della morte tra le 10.45 e le 11.45 della mattina di San Valentino del 2004 e conclude che il cadavere sia stato spostato, probabilmente nel pomeriggio, perché anche nel video della polizia si notano segni di trascinamento spiegabili solo se il sangue fuoruscito non si era ancora rappreso. “Il corpo era poggiato sul fianco sinistro” sottolinea Avato, “con la parte destra più alta. Rimanendo così per molte ore, a causa dell’emorragia il sangue sarebbe defluito maggiormente nel polmone sinistro”. Invece è il destro a pesare di più, circa 200 grammi. Come nel caso della morte di Denis Bergamini, anche la gestione delle prime ore dopo il ritrovamento del cadavere “aprirebbe un discorso davvero molto ampio sulle indagini investigative, sulle modalità di approccio al delitto che definirei un po’ ‘provinciale‘” spiega Avato. “La medicina legale dovrebbe essere la genitrice prima di ogni ricostruzione. Noi avevamo un sistema di indagine che è stato un modello per tutto il mondo, ma l’abbiamo trascurato e abbiamo sviluppato un approccio inglese, alla Scotland Yard, che è antico”. Ogni vicenda delittuosa, prosegue Avato, “ogni episodio che richieda competenze medico-legali è sempre diverso”. Nelle inchieste sulla morte di Bergamini e di Pantani, tuttavia, c’è uno schema ricorrente: un’indagine frettolosa, una tesi accettata dal primo momento come vera, sopralluoghi tutt’altro che da manuale sulla scena. “Qui si tratterebbe di considerare dall’inizio tutti i passaggi, le decisioni che hanno portato alla formulazione iniziale. Il punto sostanziale è che le competenze richieste in situazioni del genere devono sempre essere intese come competenze di altissimo livello”. Ma così non è stato, come dimostra lo stesso video della Scientifica in cui si vedono addetti che perlustrano la stanza senza protezioni, senza guanti e non prendono le impronte digitali. Per questo, conclude Avato, “il cold case non va inteso come un’occasione per mettere in rilievo le capacità tecniche. Possiamo discutere se l’insufficienza originaria dipenda da un’impostazione organizzativa o da altre cause. Ma la riapertura di un cold case è sempre il marchio di una primitiva sconfitta”.

Marco Pantani non aveva più controllo sul proprio patrimonio economico e immobiliare, scrive “Il Tempo”. È quanto filtra da ambienti investigativi di polizia, secondo cui il Pirata di fatto aveva un vitalizio che gestiva con la carta di credito trovatagli nel portafoglio messo sotto sequestro l'altro ieri, come tutta la stanza del residence Le Rose dove ha trovato la morte nel giorno di San Valentino. Questo spiegherebbe anche i rapporti tesi con la famiglia, di cui si è parlato nelle ultime ore, e l' allontanamento del campione da Cesenatico, dove non si faceva vedere da parecchio tempo. Non ci sarebbero però accuse ai parenti fra i biglietti trovati nella stanza del residence, affermano fonti investigative. Le stesse fonti smentiscono categoricamente le indiscrezioni sul contenuto dei foglietti riportate da alcuni giornali, in realtà una sorta di testamento di una persona molto provata psicologicamente che si è sfogata devastando la camera dell'albergo dove aveva preso alloggio e affidando i propri pensieri a parole e frasi sconnesse, non riconducibili una all'altra, di interpretazione impossibile. L'unico riferimento al mondo del ciclismo che Pantani avrebbe fatto su un pezzo di carta dell'albergo è quello alla sua bicicletta, una sconclusionata dichiarazione d'amore. Il ciclista nella sua carriera aveva accumulato una fortuna: si parla di sei milioni di euro che erano stati investiti in varie società, soprattutto immobiliari a Cesenatico e in Romagna. Di queste società il campionissimo risultava essere l'amministratore unico. Amministratore unico insieme al padre Ferdinando. Questo già nel 2003, e forse da prima. Dopo il ciclone Marco continuava a seguire le vicende delle sue aziende partecipando alle assemblee ordinarie. Lo testimonierebbe, ad esempio, il verbale dell'assemblea della società immobiliare «Sotero» del 30 maggio 2003 che aveva come ordine del giorno la presentazione del bilancio 2002. All'incontro erano presenti Marco Pantani e Ferdinando Pantani in qualità di amministratore unico. La precaria situazione psicofisica del figlio aveva spinto il genitore a subentrargli nelle vicende finanziarie. Marco avrebbe reagito male. In un momento delicato della sua vita, segnata dalla fine della carriera sportiva, dallo scandalo mal digerito e dall'accentuarsi dei problemi psicologici, forse l'ingerenza del padre è suonata come una prova ulteriore del suo fallimento. È anche vero che negli ultimi tempi la deresponsabilizzazione di Marco era diventata un fardello pesante.
Vita notturna sfrenata, serate in discoteca che si prolungavano fino all'alba, amicizie discutibili. Quelle vecchie che appartenevano a un mondo passato, cancellate. «Non mi cercate più» aveva detto a tutti quelli che avevano cercato di ributtarlo nel mondo delle due ruote. Poi quel lungo viaggio a Cuba in novembre. Una fuga, la precisa volontà di allontanarsi dalla famiglia, da casa. La rottura coi genitori, nella quale ha un peso determinante anche la molla economica, sembrerebbe pure il motivo per cui Pantani a un certo punto era andato a vivere nella casa di un amico a Predappio. Michel, l'amico che lo ha ospitato e che non ha nulla a che fare con il mondo del ciclismo, in questo momento è chiuso nel suo dolore e non vuole parlare. Sembra però che durante un colloquio informale si sia lasciato andare affermando che nella scelta di Marco di allontanarsi dalla famiglia c'era pure il suo zampino.

La morte di Pantani è iniziata a Campiglio, scrive Xavier Jacobelli su “La Provincia di Varese”. Marco era un ragazzo generoso, trasparente. Gli hanno teso un tranello perché dava fastidio. La gente era tutta per lui e per il ciclismo; il calcio e la Formula Uno perdevano seguito e milioni di euro: per questo lo hanno fatto fuori». Col du Galibier, 2.301 metri di altitudine, Alta Savoia, Francia, 19 giugno 2011. Paolo Pantani ha gli occhi lucidi. Come Tonina, sua moglie. Lui e lei hanno appena assistito all’inaugurazione del monumento dedicato a Marco, voluto con tutte le proprie forze da Sergio Piumetto, piemontese di Cherasco trapiantato a Les Deux Alpes dove il 27 luglio 1998 il Pirata firmò una delle imprese più memorabili della sua straordinaria carriera. Quella che lo lanciò al trionfo nel Tour, due mesi dopo avere vinto il Giro. Quel giorno di giugno sono sul Galibier, accanto a Paolo e a Tonina. Dirigo quotidiano.net, l’edizione on line dei giornali della Poligrafici Editoriale (Il Resto del Carlino, La Nazione, il Giorno, Quotidiano Nazionale). Piumetto era venuto a trovarmi un anno prima, a Bologna, per raccontarmi il suo sogno. Erigere un monumento al Pirata lassù, sulle montagne francesi. E siccome chi sogna non si arrende mai, sino a quando la vita che s’immagina diventa realtà, noi di quotidiano.net avevano deciso di accompagnare passo dopo passo la costruzione di quel sogno. Le parole di Paolo Pantani mi sono tornate alla memoria in queste ore in cui ha fatto il giro del mondo la notizia della riapertura delle indagini sulla fine di Marco, trovato morto nel bilocale D5 del residence Le Rose di Rimini. L’ipotesi di reato è: «omicidio e alterazione di cadavere e dei luoghi». La magistratura si è mossa dopo avere ricevuto l’esposto dall’avvocato Antonio De Rensis, legale dei Pantani. Né Paolo né Tonina hanno mai accettato la tesi che Marco fosse morto per overdose lui spontaneamente assunta. Mai. Ecco perché, adesso, Tonina ripete le parole che aveva pronunciato quel giorno sul Galibier, che i due genitori hanno pronunciato sempre da quando Marco se n’è andato: «Da una parte sono contenta, finalmente non sto più urlando al vento. Ma dentro di me c’è anche rabbia, rabbia e ancora rabbia: perché tutto questo tempo? Perché nel 2004 diverse cose non erano al loro posto e nessuno ha fatto nulla per darmi delle risposte?». Tonina e Paolo hanno sempre difeso strenuamente la memoria di Marco. E lo avevano sempre difeso anche prima della notte di San Valentino in cui se ne andò. Lo avevano difeso dalle accuse di doping, lui che non era mai stato positivo a un controllo; avevano chiesto invano di sapere che cosa fosse esattamente successo a Campiglio, quando il 5 giugno del ’99, mentre stava vincendo il Giro, venne squalificato per un valore dell’ematocrito alterato di un punto. Ai cialtroni e ai mentecatti che da quel giorno hanno sputato solo veleno addosso a Marco, spingendolo nel tunnel senza ritorno della depressione, bisogna ricordare le parole del campione: «Ero già stato controllato due volte, avevo già la maglia rosa e il mio ematocrito era del 46 per cento. Ora invece mi sveglio con questa sorpresa: c’è qualcosa di strano». Pantani lascia Madonna di Campiglio alle 13.05. A Imola, nel pomeriggio, si sottopone a un esame del sangue in un laboratorio accreditato dall’Uci: nei due test il suo ematocrito risulta pari a 47,8 e 48,1. Regolare. Ma dal Giro l’hanno fatto fuori per sempre. La mattina di Campiglio un giornale aveva titolato: Marco pedala nella leggenda. Il giorno dopo l’ha scaricato come un pacco postale. Paolo e Tonina non hanno mai dimenticato. Ora hanno il diritto di sapere la verità anche su Campiglio. Mentre le jene sono andate a nascondersi.

Pantani, un uomo sempre solo quando vinceva e quando sbandava. Non era un angelo né un diavolo: arrivava da un ciclismo antico, parlava una lingua diversa, sulla canna della sua bici c’era l’Italia. Dieci anni fa la morte misteriosa, scrive Gianni Mura su “La Repubblica”. Dieci anni, di già. Ma siete ancora qui a esaltare un drogato? Oppure: ma non avete ancora capito che era l’agnello sacrificale? Dieci anni dopo la morte, Marco Pantani continua a dividere, come dieci giorni dopo. Solo quando correva e vinceva tutti lo sentivano loro. Io non mi riconosco in nessuna delle due fazioni, quella del diavolo e quella dell’angelo. Troppo estreme, in un certo senso troppo comode. Sarebbe meglio conciliare: anche i diavoli hanno slanci positivi, anche gli angeli non resistono alle tentazioni. E, comunque, Pantani era un uomo. Un uomo solo al comando quando staccava tutti in salita. Un uomo solo allo sbando dopo Madonna di Campiglio. La lunga, sofferta discesa in fondo alla quale non sapeva più distinguere gli amici veri dai finti, quelli che si preoccupano della tua infelicità e quelli che la rivestono di polveri bianche e donne a pagamento. Mi riconosco pure in un libro appena uscito: «Pantani era un dio». L’ha scritto Marco Pastonesi, collega della Gazzetta che ha per primo amore il rugby ma che nel ciclismo tiene bene la ruota dei grandi suiveurs sui fogli rosa. È uno che sa osservare e sa ascoltare, Pastonesi. E anche onesto. Prime righe della prefazione: «Pantani non era uno dei miei. Nessun campione, nessun capitano, nessun vincitore né vincente né vittorioso è uno dei miei. I miei sono i corridori che, da professionisti, non ne hanno vinta neanche una». Dunque non Pantani. In questi dieci anni sono usciti molti libri sulla vita e la morte di Pantani, scritti da giornalisti italiani e stranieri, dalla manager, dalla madre Tonina. Più un film per la tv e un lungo, doloroso e umanissimo spettacolo del Teatro delle Albe di Ravenna (romagnoli come lui) e una decina di canzoni, dai Nomadi ai Litfiba, da Lolli agli Stadio. Più le processioni: sui blog, al cimitero di Cesenatico, sulle salite di Pantani. Quelle domestiche, l’amato Carpegna, il Centoforche, il Fumaiolo. Quelle più famose. Mortirolo, Alpe d’Huez, Galibier, Ventoux. Per come correva, posso dire che tutte le salite erano di Pantani. Erano il suo pascolo naturale, il suo mare verticale, erano croce e delizia. La croce era quella che chiamava agonia, la fatica più dura. La delizia era quel suo attaccarle stando in coda al gruppo e poi un po’ alla volta sorpassare tutti gli altri guardandoli in faccia. Lo faceva apposta, non era un caso. Non era un caso l’alleggerirsi in vista dell’attacco, era un segnale per gli avversari, un avvertimento, come il drin di un campanello: tra un po’ comincio a darci dentro, mi venga dietro chi può. Non a caso, ancora, Pastonesi dilata il quadro, dà voce a tutti i gregari di Pantani, a chi s’è allenato con lui e ha corso con lui, anzi per lui, perché la Mercatone Uno prevedeva un solo capitano, Pantani, e tutti gli altri al servizio della causa, Se vinceva lui, vincevano tutti. E se perdeva, tutti perdevano. Nella dilatazione del quadro ci sono i grandi ciclisti romagnoli del passato, e i grandi scalatori come Gaul, Bahamontes, Massignan. Come il primo dei grandi scalatori, René Pottier, vincitore del Tour 1906, che s’impiccò a una trave delle officine Peugeot il 25 gennaio del 1907. Delusione d’amore, dissero ai tempi. Nessun biglietto lasciato, un’altra morte misteriosa. Come quella di Pantani. Che ha due grandi punti interrogativi su due stanze d’albergo. Una è quella di Madonna di Campiglio, 5 giugno 1999, l’inizio della fine. Come mai, trattandosi di una visita annunciata, non a sorpresa, il sangue di Pantani presentava un ematocrito a 52? E cosa accadde veramente nella stanza D5 del residence Le Rose, a Rimini, la fine della fine? Un libro di Philippe Brunel dell’Equipe ha documentato quante smagliature e lacune ci fossero nell’inchiesta. I dubbi restano e quel residence non c’è più, è stato demolito in tempi brevi, sorprendenti per la burocrazia nostrana. I dubbi non restano in chi parla di Pantani solo come di un drogato, in bici e giù dalla bici, o solo come di un angelo innocente tirato giù dal cielo. Rivivere quegli anni, tra la fine degli ’80 e poco oltre il 2000, è come seguire le piste dell’Epo. Pantani ne ha fatto uso? Sì, come tutti. In che misura? Pastonesi cita livelli alquanto alti. Avrebbe vinto ugualmente? Sì, a parità di carburante. Ma, a Pantani morto, è saltato fuori che su qualcuno (Armstrong) l’Uci teneva aperto un larghissimo ombrello. Per onestà, come Pastonesi ha scritto che Pantani non era uno dei suoi, devo scrivere che Pantani è stato uno dei miei. Perché, come i vecchi ciclisti, in corsa faceva di testa sua, non usava il cardiofrequenzimetro e quando s’allenava dalle sue parti beveva alle fontane e mangiava pane e pecorino. Perché, più ancora delle vittorie, ricordo l’attesa delle vittorie, o comunque dell’attacco in salita. E l’entusiasmo della gente, come un ascensore sonoro fra tornante e tornante. E l’Italia sulla canna di quella bicicletta, e i francesi che s’incazzavano, ma neanche tanto. Perché gli piaceva ascoltare Charlie Parker. Perché dipingeva. Perché era piccolino. Perché parlava una lingua diversa. Pontani (Aligi, quasi un omonimo) mi chiamò dalla redazione quel 14 febbraio 2004. Ero in ferie, stavo cenando a Firenze. È morto Pantani. Non si sa di preciso, in un residence. Serve un coccodrillo, di corsa. Taxi, albergo, speciale Tg, dettare. Trovo ancora lettori che mi dicono che quel pezzo a caldo, in morte di Pantani, è tra i più belli che ho scritto. Non avrei mai voluto scriverlo e non l’ho scritto, è venuto fuori così. Come aprire un rubinetto, o una vena.

Pantani, dopo quella morte speculazione infinita, scrive Eugenio Capodacqua su “La Repubblica”. Avevo fatto un patto con me stesso, in nome dell’amicizia che mi ha legato per  breve tempo a Marco Pantani, e cioè che non avrei più scritto un rigo su di lui e sulle sue tragiche vicende. Pur conoscendo la sua storia nei minimi particolari non ritenevo di dover puntualizzare fatti e situazioni; proprio per rispetto di un uomo che ha comunque pagato il prezzo più alto. Ma evidentemente non c ‘è pace sotto gli ulivi. E, con la riapertura d’ufficio dell’inchiesta sulla morte, riecco Pantani pronto ad essere di nuovo  immolato sull’altare della cronaca. Quella più bieca e nera che allunga un triste velo di grigio sull’ immagine dell’uomo e dell’atleta, comunque rimasto profondamente nel cuore di molti appassionati e tifosi. Un atto dovuto da parte dei magistrati dopo l’esposto dei genitori e l’accurata perizia dell’avvocato di parte che ipotizza l’omicidio. Diciamo subito che se ci sono dubbi (e ce ne sono) sulle circostanze di questa tragedia è doveroso andare fino in fondo. Anche se il cammino delle indagini, a dieci anni di distanza dai fatti, risulta piuttosto difficile. Ma, più in generale, sembra arrivato il momento di fare un minimo di chiarezza. Per lunghissimi dieci anni l’informazione (specie la tv di stato) ha contribuito a mistificare un dramma che è e resta umano prima ancora che sportivo. Pantani trasformato in un eroe. Pantani campione, esempio da seguire e imitare. Pantani vittima di chissà quale complotto. Pantani “capro espiatorio” di una realtà che invece tutti conosciamo, purtroppo. E cioè la realtà di un ciclismo all’epoca stradopato che ha tradito la passione degli spettatori propinando uno “spettacolo” al di fuori e al di sopra di ogni umana credibilità. Pantani faceva sognare e del sogno in questa dannata società c’è fame come dell’aria, dell’acqua, del pane. Lui incarnava l’attacco, il successo, la botta vincente. Quello che tanti “travet” covano nell’intimo. Il “come” poco importava. Quanti erano in grado di capire, o volevano capire il “come”? E forse poco importa, adesso. Da questo punto di vista Pantani è stato un grande. Ha toccato nel più profondo l’animo degli appassionati.  Ancorché alle prese con un problema esistenziale che tormenta spesso, troppo spesso, la vita di tanti protagonisti. Un problema che Madonna di Campiglio ha acuito e fatto esplodere. Mettendo in risalto tutta la fragilità dell’uomo, ma anche l’insensibilità, l’egoismo e l’ignoranza di qualcuno che gli è stato accanto. Vediamo di ragionare con un minimo di freddezza. Pantani è stato un eccellente ciclista. Un eccellente scalatore che, doping o meno, probabilmente avrebbe inebriato ugualmente le folle con le sue gesta in salita, con il suo carattere e la sua personalità. Perché comunque il ciclismo si fa e si esalta in salita. Ma che facesse come tutti gli altri lo ammette anche la stessa madre che – è comprensibile: è la mamma – continua una sua battaglia infinita. La capisco: la mia, di mamma, è andata fuori di testa alla morte del figlio 25enne in un incidente aereo di cui non si è mai data ragione. E comunque si vuole restituire dignità. Ma quale dignità? Quella del “così fan (hanno fatto) tutti”? Ben magra consolazione…  Perché che facesse come tutti i ciclisti della sua epoca è ormai chiarissimo. E adesso, dopo l’indagine del Senato francese sul Tour 1998, è addirittura comprovato al di là di ogni sospetto. Niente da aggiungere. Niente da chiedere al mondo ipocrita del ciclismo. La dignità  a Pantani la si restituisce non arzigogolando attorno a presunti complotti, ma spiegando come la vita possa mettere trappole mortali anche sulla strada degli uomini di più grande successo. Insegnando a diffidare della notorietà, della gloria effimera (un giorno sugli altari, il giorno dopo nella polvere); ad essere guardinghi e mai esagerati. La breve vita del Pirata è un paradigma dove c’è tutto: dall’esaltazione nel momento della gloria, alla più profonda depressione quando un mondo costruito con cura crolla davanti al test di Campiglio. Pantani come gli altri. Tanti altri. L’osservatore un minimo distaccato tocca con mano la profondità del baratro quando si finisce nei meandri della droga. Vede come sia facile scivolare, cadere definitivamente. Eppure cosa era è successo, in fondo, a Madonna di Campiglio? Nient’altro che quello che è successo a decine di altri corridori. Uno stop (di soli 15 giorni, neppure una squalifica…) per essere fuori dalle regole stabilite in quel momento. Scontata quella pena che all’epoca non aveva neppure il marchio del doping (“sospensione a tutela della salute”) tutto era finito. Ma paradossalmente  è stata proprio la sensibilità particolarissima dell’uomo, la coscienza e il sentimento di vergogna per essere stato scoperto e messo a nudo, a perderlo. Non ha retto, dicono, e si è rifugiato nella droga, trascinato in un mondo che gli turbinava attorno da tempo. In un mondo di cinici si è comportato come l’ultimo dei romantici. Ciò che lo rende umano, umanissimo. Tutt’altro che un dio: umanissimo uomo. Per questo ancora più apprezzabile. Per questo, a me non danno fastidio le celebrazioni e i ricordi. Men che meno che si scavi per chiarire i dubbi sulla morte. Mi da fastidio il sentimento peloso che trasuda interesse economico attorno a tutta la vicenda. Mi da fastidio chi su quella morte ci ha guadagnato e continua a guadagnarci, speculando sull’emozione. Pantani è stato un business milionario da vivo e ancora di più da morto. I libri basati sulla sua tragica epopea sono andati a ruba. Al ritmo di 25-27 mila copie vendute. Fra il 2003 e il 2005, raggranellando cifre di gadget, dvd, bandane, donazioni, libri, poster, foto e tutto il merchandising connesso sono arrivato a calcolare quasi un milione di euro. Una cifra che si può tranquillamente moltiplicare per 3, per 5 arrivando ai nostri giorni. Chiaro che a questo mercato serva l’eroe. Anche se eroe non è. Pace all’anima sua. Il sistema che in qualche modo lo ha messo in un angolo, continua a succhiarne la linfa. Come? Raccontando la favola dell’eroe tragico. Della vittima predestinata. Del campione che suscita invidia e viene eliminato. Emozione, sentimento, partecipazione. Sul piano umano è tutto più che comprensibile, dopo la grande tragedia. Ma se vogliamo dare un esempio ai giovani non possiamo continuare a proporre tesi senza fondamento. Complotto? E chi mai avrebbe avuto interesse a complottare contro il Pirata? La Fiat perché lui aveva scelto la Citroen come sponsor? Ma, andiamo! Chi lo voleva in squadra ottenendo il rifiuto? E come si sarebbe realizzato il complotto? Corrompendo i medici prelevatori? Quello che si è letto negli anni e di recente appare chiaramente strumentale. E a mio avviso infondato. Oggi c’è di mezzo la giustizia ordinaria e un’indagine ufficiale, ma se ne sono viste e lette in passato… Soprattutto per assecondare la tesi della trappola. Qualcuno ha tirato fuori perfino la provetta di quel tragico prelievo ematico a Campiglio che sarebbe stata scaldata per alzare l’ematocrito. Ma – è addirittura banale – scaldando il sangue si scalda e aumenta di volume anche la parte liquida non solo quella corpuscolare e il rapporto in percentuale dell’ematocrito resta inalterato. Insostenibile scientificamente, eppure c’è chi ne ha fatto un elemento saliente della tesi complottistica. E poi: chi l’avrebbe scaldata? Il medico prelevatore? I medici dell’ospedale di Parma che nella serata di quel 5 giugno 1999 hanno ripetuto i test su ordine del pm di Trento Giardina trovando gli stessi valori dei medici Uci? Si può sostenere un’accusa così grave, che sfiora la calunnia, in modo così generico? Chi fa riferimento al complotto deve anche spiegare chi, come e dove può aver complottato. Per questo dico che sono solo speculazioni per suscitare emotività e vendere copie (o altro) al tifoso. Pantani era la gallina dalle uova d’oro per il ciclismo di quel tempo. E non solo. L’atleta che era riuscito a riportare milioni di tifosi sulle strade del Giro e con loro gli sponsor, cioè il potere economico. Cioè il dio denaro. Tanto e disponibile per tanti. Su Campiglio ha indagato la Procura di Trento. Il verdetto è stato univoco: nessuna truffa, nessuna sostituzione di provette (il sangue era di Pantani, come hanno provato i test del DNA), nessun complotto, nessuna manomissione. Resta solo l’ombra delle scommesse. Ma le indagini fin qui fatte non hanno portato a nulla. E ad anni di distanza il nome di quell’ “amico” di Vallanzasca che gli avrebbe consigliato di non scommettere su Pantani perché non sarebbe arrivato a Milano nonostante la maglia rosa sulle spalle e la classifica ormai blindata dai risultati, ancora non viene fuori. Su Pantani si specula. Come definire altrimenti il sottolineare l’irregolarità della procedura punto centrale in una delle ultime pubblicazioni? La provetta sarebbe stata scelta da uno dei medici prelevatori e non dall’atleta come vuole il regolamento. Un vizio di forma ininfluente ai fini del test. A meno di non chiamare in causa la stessa ditta produttrice delle provette, che sono sigillate e sottovuoto. Tutte. E anche qui senza prove si sfiora la calunnia. Ma a cosa può servire tirare fuori un vizio di forma di fronte al quale oggi non si può fare nulla se non instillare senza motivo il dubbio generico che qualcosa di irregolare sia accaduto? Facile rispondere: è una mossa furba per accalappiare ancora di più il tifoso. Ma dire, 14 anni dopo, che si sarebbe potuto fare ricorso contro le modalità di quel test, non toglie nulla alla realtà storica: l’ematocrito fuori norma per le regole del tempo. Controllato otto volte sul sangue del Pirata. Valori fiori norma. Non per la prima volta, come del resto provano i dati emersi nel processo Conconi alle cui cure Pantani si era affidato già dal ‘94. E baggianate come “il prelevatore ha messo la provetta in tasca alzando la temperatura, ecc. ecc.” dicono sopratutto dell’ignoranza se non della malafede di chi sostiene tale ridicola tesi. Basta pensare alla temperatura corporea: 38 gradi circa. Ci sono 38 gradi in una tasca? Difficile. Dunque caso mai la provetta si sarà raffreddata non riscaldata. Ma tant’è. Lo dico chiaro: queste “spiegazioni postume” non mi convincono. Come quella che la macchina da analisi (Coulter Act) avrebbe “visto” un ematocrito alto per via del raggrumarsi delle piastrine. Ma gli esperti sono chiarissimi: “E’ impossibile – sostiene Benedetto Ronci ematologo di fama dell’Ospedale San Giovanni Addolorata di Roma, consulente dei pm nella inchieste doping più clamorose – anche se le piastrine hanno tendenza ad aggregarsi non incidono  sul volume corpuscolare; non possono modificare in alcun modo l’ematocrito”. Piuttosto al medico che avrebbe fatto l’ematocrito a tutta la squadra in quei giorni andrebbe posta una semplice domanda. Perché? Si sa che con lo sforzo prolungato per settimane l’ematocrito cala. Che bisogno c’era di controllare? Altro discorso è la morte nel residence. Ma qui la scelta è ancora più netta. O si sposa la tesi dell’esagerata ingestione di cocaina (sette volte la dose mortale), overdose accidentale, come dice il referto di morte e dunque si spiega così il delirio la gran baraonda trovata in quella tristissima camera n.5 del Residence Le Rose, che è poi la tesi ufficiale di chi ha indagato. Oppure si allineano una serie di elementi di dubbio. Particolari incerti che dall’ora della morte, al cibo cinese (odiato dal Pirata), trovato in camera, alle ferite sul corpo, ai boxer che farebbero sospettare un trascinamento, al particolare del cuore portato via dal medico che eseguì l’autopsia timoroso che venisse rubato (da chi?); alimentano dubbi concreti. Cui dovrà rispondere l’indagine. Si continua a confondere il piano umano che merita il massimo della comprensione per una morte assurda con quello sportivo sfruttando la mozione degli affetti. Cosa dobbiamo fare? Giustificare tutto in nome della tragedia? E cosa raccontiamo ai nostri figli? Segui quell’esempio e sarai felice?

Protagonisti e comparse. Ecco il dizionario del mistero Pantani. Chi poteva volere morto il campione? L'inchiesta della Procura di Rimini parte da nomi e ruoli dei personaggi dell'affaire, scrive Pier Augusto Stagi su “Il Giornale”. «Pantani è stato ucciso». Questo è il titolo del «romanzo noir» di questa estate italiana poco assolata e calda. A gridarlo da anni mamma Tonina. A raccogliere il suo grido di dolore e le prove per presentare un fascicolo presso la Procura di Rimini che ha competenza sull'accaduto è l'avvocato De Rensis. La richiesta: riaprire il caso sulla base dei molti fatti nuovi contenuti nelle pagine (120) dell'istanza. Un romanzo che ha una storia buia, molti protagonisti e qualche comparsa. Ecco un dizionario per orientarsi, mentre la Procura rinvia a settembre la decisione su chi assegnare la delega a indagare, carabinieri o polizia.

A come avvocato. Antonio De Rensis è l'avvocato della famiglia Pantani, che in nove mesi di lavoro ha raccolto una serie impressionante di contraddizioni e anomalie. È a lui che si deve l'esposto per la riapertura del caso.

D come dubbi. Il lavoro del professor Avato si discosta di molto dalle conclusioni prospettate all'epoca dal collega Giuseppe Fortuni, che aveva eseguito l'autopsia su incarico della Procura. Quali sono i rilievi di Avato? Molti. A partire dall'ora della morte: posizionata tra le 10.45 e le 11.45. La quantità di droga trovata su Pantani equivarrebbe a diverse decine di grammi, tale da essere paragonabile ai pacchetti ingeriti dai corrieri per eludere i controlli. Impossibile per qualunque persona mangiare o inalare una dose simile. L'unico modo per farlo è diluirla nell'acqua e farla bere a forza (la bottiglia trovata nella stanza, non viene nemmeno analizzata). Le numerose ferite sul corpo di Pantani sono compatibili con opera di terzi, con evidenti segni di trascinamento del cadavere. Il corpo di Pantani è poggiato sul fianco sinistro ma per Avato è il polmone destro a pesare 200 grammi di più: quindi, il corpo di Marco è stato spostato dalla posizione originaria della morte. E poi c'è la stanza, con il suo «disordine ordinato». L'ipotesi è fin troppo chiara: far passare Pantani in preda al delirio per celare altro. Nessuna impronta fu presa e non sarà più possibile farlo neppure 10 anni dopo.

E come esperto. Francesco Maria Avato è il perito di parte, il medico-legale (lo stesso che ha contribuito a far riaprire dopo 23 anni il caso Bergamini, il calciatore «suicidato») che ha fornito un contributo fondamentale per completare e avvalorare l'esposto preparato da De Rensis.

I come imputati. Dieci anni fa l'indagine sulla morte di Pantani viene svolta dal sostituto procuratore romagnolo Paolo Gengarelli, con la Squadra mobile di Rimini e la Polizia di Napoli. Tre mesi dopo la morte del Pirata, il 14 maggio 2004 vengono arrestati Fabio Miradossa (il fornitore napoletano di cocaina del romagnolo già dal dicembre 2003), Elena Korovina (la cubista russa che ebbe una relazione con il corridore), Fabio Carlino (leccese, titolare di un'agenzia di immagine) e Ciro Veneruso (il corriere napoletano che portò la dose letale a Pantani). Viene rinviato a giudizio anche il barista peruviano Alfonso Ramirez Cueva. Il processo di primo grado inizia il 12 aprile 2005 davanti al Gup di Rimini. Vengono in seguito accettati i patteggiamenti di Miradossa (4 anni e 10 mesi) e di Veneruso (3 anni e 10 mesi) e Cueva (1 anno e 11 mesi). Gli altri accettano di affrontare il dibattimento. La russa viene assolta. Fabio Carlino viene condannato in primo grado e in appello, ma poi prosciolto in Cassazione.

M come manager. Manuela Ronchi è la manager del campione romagnolo. La sua è una figura non marginale in tutta questa vicenda, anche perché è una delle ultime a vedere Marco vivo. Doveva andare a sciare con suo marito, per questo Marco passa il 26 gennaio da Cesenatico per prendere tre giacconi che porta su a Milano. Il 31 gennaio Marco ha una lite con la manager davanti agli occhi di mamma Tonina e papà Paolo, chiamati per l'occasione dalla Ronchi. Il 9 febbrario Marco decide di andare a Rimini. La Ronchi gli fa recapitare una «sportina» di effetti personali (non ha valige) ad un hotel in piazza della Repubblica. Marco qualche giorno dopo parte per Rimini. Uno dei grandi misteri di questa vicenda è: come ci sono arrivati i tre giubbotti al residence Le Rose?

P come procuratore. Paolo Giovagnoli è il procuratore capo di Rimini al quale è stato consegnato il fascicolo, il quale a sua volta l'ha assegnato ad Elisa Milocco, giovane sostituto procuratore, arrivato a Rimini da pochi mesi. Toccherà a lei far sul luce su quella sera del 14 febbraio 2004.

Pantani, il legale accusa: "Inchiesta piena di buchi". Nove mesi di indagini private e una perizia medica hanno messo in forse la tesi del suicidio. L'avvocato di famiglia contro il pm che archiviò: "Troppi silenzi", scrive Pier Augusto Stagi su “Il Giornale”. Quando facciamo suonare il suo cellulare l'avvocato Antonio De Rensis è alla buca 18. Cerca, dopo mesi duri e difficili, di rilassarsi un po', di liberare la mente dalle tossine accumulate durante la preparazione di un'indagine difensiva molto delicata. «In verità forse mi conveniva restare a casa, perché sono riuscito a giocare pochissimo». Per dirla con un linguaggio molto caro al nostro presidente del Consiglio, l'avvocato De Rensis per certi versi assomiglia a un «rottamatore»: non vuole mandare a casa nessuno ma smontare teorie e ricostruzioni fatte dieci anni fa, quello sì. E grazie ai suoi nove mesi di lavoro, di indagini e alla perizia di parte effettuata dal medico-legale, il professor Francesco Maria Avato, la ricostruzione originaria sulla fine tragica di Marco Pantani è stata smontata pezzo per pezzo. Ci vorranno mesi, per arrivare ad una nuova fase di questa storia che in dieci anni non ha finora trovato la vera parola fine. E una verità. Al momento il bandolo della matassa è nelle mani del procuratore Capo di Rimini Paolo Giovagnoli e in quelle della pm Elisa Milocco. «È esattamente così - spiega l'avvocato De Rensis -, ci vorranno mesi di lavoro, anche perché ovviamente sono tantissime le cose che la dottoressa Milocco dovrà esaminare. Bisognerà solo avere pazienza». Si parte dalle accuse di mamma Tonina, che non ha mai creduto al suicidio del figlio, ai nove mesi di indagini condotte dall'avvocato Rensis, trascorsi a recuperare carte e materiale di ogni tipo e studiandole successivamente con assoluta minuzia e passione. «Il tutto è concentrato in centodieci pagine, dense di dati e osservazioni», puntualizza il legale. Lui, però, non se la sente di stilare una graduatoria tra le tante incongruenze che nella sua inchiesta ha portato alla luce. «Mi creda, non voglio apparire per quello che vuole eludere ad una legittima curiosità o a una domanda, ma si fa fatica a dire quali di queste incongruenze possa essere più decisiva rispetto ad altre. Vedrà, sono e saranno tutte decisive perché concatenate l'una all'altra». Paolo Gengarelli, il pubblico ministero della prima inchiesta, non si è soffermato molto su questo nuovo capitolo della storia tragica di Marco Pantani, limitandosi a dire stizzito che «non sono abituato a commentare le notizie, come del resto dovrebbero fare in tanti». L'avvocato De Rensis, non esita a rispondergli: «Anche noi cerchiamo di parlare con i fatti. Anche noi cerchiamo di rispettare le indagini. Ma soprattutto noi vogliamo raccontare che all'epoca dei fatti non sono state prese le impronte digitali; che il video dei carabinieri dura 51 minuti mentre il girato è di due ore e cinquantasei minuti e via elencando. Non mi sembra di parlare di atti dell'indagine. Mi sembra solo di evidenziare cosa è stato fatto o meglio, non è stato fatto all'epoca. Anche noi staremo zitti nel momento in cui si tratterà di affrontare le cose da fare, ma queste sono fatti accaduti in passato ed è giusto portarli alla luce. Se il silenzio è luminoso ha un senso, i silenzi con le ombre a me non piacciono neanche un po'». L'avvocato De Rensis è capace di attaccare, ma si dimostra abile anche in fase difensiva. Quando gli chi chiede se ha un'idea di chi abbia ucciso Marco, si chiude a riccio. «Se sia stata una persona o più persone che fanno sempre parte del giro dei pusher? Se si tratta di persone fuori da questi giri? La prego, non mi chieda nulla. Sui nomi non mi esprimo. Non posso e non voglio». Più morbido all'ultima domanda: ma se la pm Milocco, alla fine dovesse decidere di chiudere il tutto con un nulla di fatto, quale sarebbe la sua reazione. Si griderebbe al complotto? «È una eventualità che non voglio nemmeno prendere in considerazione. Ho grande fiducia nel procuratore Capo Paolo Giovagnoli e nella dottoressa Elisa Milocco. Il procuratore capo è un galantuomo e la dottoressa Milocco - che ho conosciuto da poco - mi ha dato l'idea di essere una persona molto rigorosa. Quindi...».

Pantani, l’avvocato di famiglia: «Leggendo le carte la strada s’illuminerà da sola», scrive “Giornalettismo”. Antonio De Renzis, legale della famiglia del Pirata, parla della perizia che potrebbe far emergere una nuova verità sulla morte del ciclista romagnolo. Intanto, il ristoratore che consegnò l'ultima cena ricorda: «Non aveva la faccia di uno che volesse suicidarsi». Ufficialmente per la giustizia italiana Marco Pantani, trovato morto in una stanza d’albergo il 14 febbraio del 2004, è deceduto «come conseguenza accidentale di overdose». Per la famiglia del campione romagnolo, invece, la verità è un altra. Il Pirata sarebbe stato ucciso da una o più persone che lo avrebbero raggiunto quella sera al Residence Le Rose di Rimini, forse dopo essere stato costretto a bere cocaina disciolta nell’acqua. A parlare dopo la riapertura del caso è innnanzitutto la mamma di Pantani, Tonina Belletti, che ha provveduto a presentare un esposto-denuncia per omicidio volontario in Procura. Ma ad esporsi è anche l’avvocato della famiglia del ciclista, Antonio De Renzis, che alle telecamere di Sky racconta oggi di «mancanze», «lacune», «incongruenze», «anomalie», «accertamenti non fatti», che avrebbero condizionato la prima inchiesta sulla morte del Pirata che risale a 10 anni fa e che fu chiusa a tempo di record, in soli 55 giorni. Il legale, descrivendo la segnalazione alla Procura, parla di «rilettura» di quegli «atti d’indagine e processuali» che avrebbero determinato una verità giudiziaria a suo parere lontana dalla realtà, di una rilettura che contiene «elementi che convergono e vanno in una direzione precisa» e opposta rispetto a quanto emerso finora. Secondo De Renzis, in sostanza, la tesi seguita poche ore dopo la scoperta del corpo di Pantani, e «mai più abbandonata», andrebbe dunque «assolutamente rivisitata», ed è possibile che fancendo luce sulle «mancanze» della prima inchiesta emergerà un’altra verità. «Le carte e il video parlano molto», ha detto l’avvocato parlando della «corposa e approfondita consulenza» (perizia medico-legale) realizzata da professor Francesco Maria Avato. E ha aggiunto: «Credo che leggendo bene le carte sia possibile colmare queste lacune», «la strada si illuminerà da sola». Molto chiara è stata la signora Tonina, la prima ad annunciare, su Facebook, la riapertura del caso Pantani. «Me l’hanno ammazzato. La mia sensazione, sin da subito, è che avesse scoperto qualcosa e gli abbiano tappato la bocca», ha dichiarato nei giorni scorsi la madre del Pirata. «Non vedo altre ragioni – ha spiegato a TgCom24 -. Non mi sono mai sbagliata su Marco. Così come non credo siano stati gli spacciatori». «Sono dieci anni – ha aggiunto – che lotto e non mollerò, fino alla fine. Voglio la verità, voglio sapere cosa è successo a mio figlio. Da subito ho detto che me l’hanno ammazzato e, infatti, me l’hanno ammazzato». La signora Tonina ha poi parlato anche di una richiesta di aiuto del Pirata nelle ultime ore di vita: «Ha chiamato i carabinieri, parlando di ‘persone che gli davano fastidio’». E infine: «Marco aveva pestato i piedi a qualcuno, perché lui quello che pensava diceva: parlava di doping, diceva che il doping esiste».

Morte di Marco Pantani, legale: “Realtà è molto diversa da quella ufficiale”. Per l'avvocato Antonio De Rensis le indagini che vennero condotte dieci anni fa "presentano lacune e contraddizioni". Il legale ha ottenuto la riapertura delle indagini da parte della procura di Rimini che indaga per "omicidio volontario a carico di ignoti". La tesi della famiglia e della difesa è che il campione non morì di overdose ma venne ucciso, scrive  “Il Fatto Quotidiano”. La realtà che emerse dieci anni fa sulla morte di Marco Pantani è “molto diversa” da quello che è accaduto realmente la mattina del 14 febbraio 2004, nel bilocale del residence Le Rose di Rimini. Ne è convinto l’avvocato dei familiari del Pirata, Antonio De Rensis, che spinto dalla tenacia della madre del campione, Tonina, ha riletto e analizzato migliaia di pagine che compongono le indagini e il processo. Per il legale le conclusioni a cui gli inquirenti giunsero dieci anni fa sono piene di “lacune e contraddizioni”. Pantani non morì per un’overdose, ma venne ucciso da una o più persone che il campione romagnolo conosceva e a cui lui stesso aprì la porta. Nella stanza scoppiò una lite. Il Pirata ebbe la peggio. L’aggressore (o gli aggressori) fecero bere al ciclista una dose letale di cocaina diluita in acqua. In sostanza, gli investigatori condussero le indagini su una messa in scena. Quelle certezze sono state messe nero su bianco dall’avvocato De Rensis che ha presentato un esposto alla procura di Rimini. “Accolto”. Il fascicolo accantonato per dieci anni è stato riaperto per “omicidio volontario a carico di ignoti”. “Mi limito a dire – ha dichiarato all’Ansa il legale – che è già importante comprendere tutti che la realtà fattuale è molto diversa. E già questo è tanto, perché porta poi in direzioni molto precise. Intanto facciamo emergere le enormi lacune e contraddizioni, facciamo emergere ciò che si poteva comprendere facilmente all’epoca e poi partiamo tutti insieme da qui per arrivare a ristabilire una verità. È un’indagine nuova che si apre con una ipotesi di reato grave. Sarà un’indagine che durerà molto, perché comunque è complessa. Gli elementi che dovrà valutare la procura sono tantissimi, però il nostro intendimento è di evidenziare in modo chiaro che la verità ufficiale è piuttosto lontano da quella fattuale”. De Rensis, avvocato del foro di Bologna, è un legale abituato alle battaglie che legano lo sport alla giustizia: ha assistito Antonio Conte nella vicenda del calcio scommesse. Il lavoro dell’avvocato su carte e riscontri investigativi è suffragato dalla perizia medico scientifica del prof. Francesco Maria Avato, che con un suo lavoro aveva portato alla riapertura del caso di Denis Bergamini, il calciatore del Cosenza morto il 18 novembre 1989 a Roseto Capo Spulico (Cosenza). Un caso che per anni è stato considerato un suicidio poi è stato riaperto per omicidio. “Un lavoro faticoso e impegnativo – dice De Rensis – anche di rilettura. Gli atti non è stato nemmeno semplice acquisirli. Questi faldoni sono negli archivi, sono migliaia e migliaia di pagine che sono state analizzate, sezionate, studiate, confrontate. Poi il lavoro scientifico del prof. Avato, che si è andato a confrontare e intrecciare continuativamente con le analisi degli atti di indagine e processuali, a confronto reciproco e intreccio reciproco. Quindi le indagini difensive che sicuramente, seppure assolutamente riservate, hanno evidenziato elementi importantissimi”. “Io nutro un grande rispetto per la magistratura – precisa De Rensis – Noi abbiamo lavorato pensando che dovevamo aprire una pagina nuova sulla base di enormi lacune e enormi contraddizioni“. “Queste lacune e incongruenze per noi possono essere colmate – conclude – possono essere riviste e credo che questo sia un dovere morale, oltre che giudiziario, da parte di tutti. Dobbiamo lavorare insieme per riscrivere la pagina di quella dolorosissima vicenda il più possibile vicino alla realtà”. Un ricordo di Pantani lo offre in queste ore anche Oliver Laghi, il ristoratore di Rimini che in albergo consegnò al campione romagnolo la sua ultima cena, un’omelette di prosciutto e formaggio. Il Piarata appariva stanco , ma sereno. «Ricordo – ha detto Laghi al Corriere della Sera – come ieri il volto di Marco: stanco, le occhiaie profonde, la barba un po’ lunga, ma ho pensato che fosse colpa del viaggio e che una bella dormita avrebbe rimesso tutto a posto, tanto che prima di andarmene gli chiesi se potevo tornare il giorno dopo con mio figlio piccolo per un autografo e lui mi rispose con un sorriso timido e una pacca sulla spalla: ‘Va bene, a domani’». E ancora: «Il Marco con cui ho parlato quella sera non aveva la faccia di uno che volesse suicidarsi». Ora gli occhi sono tutti puntati sulla procura di Rimini che dovrà esprimersi sulla perizia del dottor Aveta (secondo la quale le ferite presenti sul corpo di Pantani «non sono autoprocurate, ma opera di terzi») e che dovrà esprimersi relativamente alla nuova ipotesi«omicidio con alterazione del cadavere e dei luoghi». Il lavoro spetta innanzitutto al pm Elisa Milocco, cui è stato affidato il fascicolo dell’indagine bis, e comincia senza che alcuna persona risulti indagata. Va ricordato che tre anni fa la corte di Cassazione aveva assolto il presunto pusher di Pantani, accusato di aver provocato la morte del campione vendendogli cocaina purissima, «perché il fatto non costituisce reato».

Il timer fissa la durata del girato in due ore e 56 minuti, ma ne restano solo 51. Caso Pantani, un buco di 125 minuti nel video della polizia scientifica. Per i pm cinque nuovi testimoni che potrebbero raccontare una verità diversa sulla morte del Pirata. Tutti i punti oscuri del caso, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Un «buco» di 125 minuti nel video della Polizia scientifica e almeno cinque nuovi testimoni che potrebbero raccontare una diversa verità sulla morte di Marco Pantani. Riparte da qui la nuova indagine avviata dalla procura di Rimini e si concentra su almeno sei anomalie denunciate dalla famiglia del «Pirata» con l’esposto presentato dall’avvocato Antonio De Rensis. Ricomincia da un’imputazione di omicidio volontario che non sarà facile dimostrare a oltre dieci anni di distanza da quel San Valentino che il ciclista trascorse nell’appartamento D5 del Residence «Le Rose». Anche perché la struttura alberghiera è stata completamente modificata, ma soprattutto perché l’ipotesi più probabile è che se davvero qualcuno è entrato in quel bilocale e ha picchiato Pantani, è possibile che lo abbia fatto per fargli pagare uno «sgarro», non per ucciderlo. E che la situazione gli sia poi sfuggita di mano. Il campione era un uomo disperato, preda dei suoi demoni e della sua totale dipendenza dalla droga. Ma - questo dicono alcune nuove testimonianze - non sembrava affatto «fuori di testa» come qualcuno ha voluto far credere. «L’ho trovato stanco ma lucido - ha raccontato Oliver Laghi, il ristoratore che la sera del 13 febbraio 2004 gli portò un’omelette al prosciutto e formaggio -, mi disse di tornare il giorno dopo con mio figlio che voleva l’autografo». Secondo l’inchiesta svolta dieci anni fa e chiusa avvalorando la tesi del suicidio, Laghi è stato l’ultimo a vedere Pantani vivo. Il procuratore Paolo Giovagnoli e il sostituto Elisa Milocco dovranno stabilire se è davvero così. Ma la convinzione è che qualcuno sia comunque entrato in quella stanza prima delle 20,30 del 14 febbraio, quando i soccorritori accertarono che per Pantani non c’era ormai più nulla da fare. Agli atti del processo contro i due spacciatori Fabio Miradossa e Ciro Veneruso - hanno patteggiato condanne rispettivamente a 4 anni e 10 mesi e 3 anni e 10 mesi - c’è un video girato dai poliziotti della Scientifica che comincia alle 22,45 del 14 febbraio e termina all’1.01 del 15 febbraio. Il timer fissa dunque la durata in due ore e 56 minuti ma il «girato» è di soli 51 minuti e termina prima dalla fine dell’ispezione. Chi ha effettuato i «tagli»? Perché ci sono dei «salti» tra una scena e l’altra? Eppure è proprio il filmato a fornire le tracce più evidenti di una ricostruzione diversa da quella ufficiale mostrando indizi evidenti per accreditare l’ipotesi che, almeno in un certo lasso di tempo di quel giorno, Pantani non sia stato da solo. Ma anche per dimostrare quelle che appaiono alcune «lacune» nelle indagini. L’avvocato della famiglia ha infatti denunciato come nel fascicolo processuale non risulta la rilevazione di alcuna impronta digitale durante il lungo sopralluogo. E questo nonostante ci fossero molti mobili spostati, alcuni rotti, un filo dell’antenna tv legato come un cappio e pendente dal soppalco, una confusione pressoché totale. Lo stesso filmato mostra svariate dosi di cocaina. Secondo quanto accertato al processo, Pantani aveva acquistato 20 grammi di droga. La nuova relazione medico-legale, firmata dal professor Francesco Maria Avato e basata sulla rilettura delle analisi effettuate dieci anni fa, assicura invece che Pantani aveva assunto cocaina in quantità sei volte maggiore di quanto una persona possa sopportare e altra sia rimasta inutilizzata. Proprio questo accredita l’ipotesi che qualcuno l’abbia portata durante la giornata. Nella denuncia si parla di «costrizione a bere cocaina sciolta nell’acqua», una circostanza difficile da dimostrare e che probabilmente costituirà uno dei punti più controversi della nuova inchiesta. Strano anche quanto accertato riguardo ai pasti consumati da Pantani. Secondo la versione ufficiale l’ultimo cibo ingerito è l’omelette portata da Laghi. Per l’autopsia Pantani ha invece fatto colazione, i resti vengono rinvenuti nello stomaco. I dipendenti del residence hanno sempre dichiarato che il Pirata non ha mai lasciato l’appartamento e che nessuno è entrato. E allora come ha fatto a procurarsela? In realtà rileggendo quanto verbalizzato all’epoca, il legale ha scoperto il racconto di un custode che ha spiegato come fino alle 21 fosse «possibile entrare passando dal garage». E dunque potrebbe essere proprio questa la strada percorsa da chi voleva incontrare il campione senza essere visto. E che potrebbe aver lasciato almeno due indizi: nel bilocale non c’era il frigobar, ma è stata trovata la carta di un cornetto Algida; Pantani era arrivato con un piccolissimo bagaglio, «una sporta», ma lì c’erano tre giubbotti pesanti. Un quadro indiziario nuovo, lo definiscono gli stessi inquirenti che prima di riaprire il fascicolo, sia pur come «atto dovuto», hanno avuto un lungo incontro con il legale della famiglia. E adesso dovranno concentrarsi sulla visione del filmato incrociata con la relazione medico-legale che evidenzia due punti: il corpo trascinato sulle tracce di sangue e dunque spostato dopo il decesso; lesioni ed ecchimosi incompatibili con l’autolesionismo, sia pure in una persona completamente stravolta dalla cocaina.

Caso Pantani, depistaggi e buchi nell'indagine. "Quando lo trovammo non c'era sangue". I racconti dei primi soccorritori contraddicono la perizia fatta all'epoca dal medico legale. E le testimonianze di chi lo vide nelle sue ultime ore si smentiscono a vicenda, scrivono Marco Mensurati e Matteo Pinci su La Repubblica”. Testimonianze stridenti, perizie divergenti e protagonisti dimenticati s'intrecciano intorno alle ultime ore di vita di Marco Pantani. E con il passare dei giorni i dettagli inquietanti sembrano quasi sommarsi, alimentarsi uno con l'altro, accentuando i depistaggi, le lacune nella versione ufficiale, ma anche nei racconti di chi per primo intervenne sul corpo dell'atleta, fino a quelli dei testimoni della primissima ora. "Non c'erano tracce di sangue". Così lo raccontano i medici del 118, i primi a intervenire dopo la segnalazione del portiere del residence Le Rose. Eppure, i filmati della polizia dimostrano come Pantani sia stato trovato riverso a terra in una pozza di sangue, il viso una maschera rossa. La lettura dell'esame autoptico rivela poi anche una serie di ferite sul corpo, sulla fronte, sul naso, intorno al capo. Eppure, chi arriva per primo nella stanza D5 di viale Regina Elena, a Rimini, proprio non riesce a ricordarle: "Marco non aveva alcuna ferita sul viso". Incongruenze curiose, come le divergenze sulle macchie di sangue presenti nella stanza. Quegli schizzi secondo la perizia del professor Avato allegata alle indagini condotte dal legale della famiglia, Antonio De Rensis, non possono essere frutto della caduta. Non la pensava così però il dottor Fortuni, il medico legale che condusse l'autopsia, seppur 48 ore dopo il ritrovamento del corpo: volevano lui, anche a costo di doverlo aspettare due giorni. E pensare che Fortuni e Avato hanno sostenuto tesi opposte anche sul caso Aldrovandi, controverso almeno quanto la morte del Pirata: il primo consulente della difesa dei poliziotti sotto accusa, l'altro per la famiglia del giovane. Ma incollato come un'ombra al nome di Fortuni è rimasto soprattutto il dettaglio macabro del cuore del Pirata portato via dal laboratorio e custodito in casa per una notte, per evitare furti. Un pezzo del cuore del campione di Cesenatico che rappresentava "un corpo di reato, sotto la mia custodia in qualità di perito, che ovviamente non poteva andare né perso né distrutto". Procedura non inconsueta, eppure oggetto di attenzioni quasi morbose. Il cuore di un uomo farneticante: così almeno lo raccontavano le indagini dell'epoca. Un ritratto che nasce dalle dichiarazioni notturne di tre ragazzi, giovani, 27 anni appena: si presentano spontaneamente alle 23.30 della notte di San Valentino per consegnare la loro verità sul campione scomparso a un ispettore mentre nella stanza D5 del residence Le Rose si muovono ancora inquirenti al lavoro e civili, filmati impietosamente dall'occhio delle telecamere della polizia. Avevano incontrato Pantani, dicono, la sera prima, sul pianerottolo, intorno alle 22.15. Avevano impiegato un po' a riconoscerlo, poco curato, una barba sciatta. Lo avevano sentito dire cose surreali, lo avevano salutato con un generico "a domani", salvo sorprendersi nel sentirlo rispondere in dialetto "non so se ci sarà un domani per me". Visibilmente turbato, poco lucido e tragicamente inquieto, quasi consapevole del proprio destino irreversibile. Testimonianza ritenuta credibile al punto da essere inserita nella consulenza medico legale. Quella testimonianza diventa l'elemento per dare coerenza alla tesi di un Pantani in preda al delirio, quello che avrebbe potuto demolire la stanza del residence o barricarsi in camera e drogarsi fino a morire. Apparentemente affermazioni utili a raccontare lo sviluppo delle ultime ore del campione caduto. Eppure, nessuno sentirà la necessità di ascoltarli ancora: né durante le indagini, né durante il procedimento giudiziario. Curioso, almeno. Viene da chiedersi perché, al contrario, durante la pur fugace indagine non sia venuto in mente a nessuno di ascoltare se avesse qualcosa dire l'ultima persona che, con certezza, ebbe occasione di incontrare Pantani vivo. Eppure era proprio lì, a pochi metri dalle stanze ormai demolite e rivoluzionate del Le Rose. Oliver Laghi è il ristoratore a cui viene ordinata l'ultima cena del Pirata, un'omelette prosciutto e formaggio, qualche succo di frutta che prende dal concierge dove scopre che il cliente da servire, stavolta, è il suo idolo. Tra le 21 e le 21.30, Pantani gli apre la porta: se qualcuno lo avesse sentito all'epoca, Laghi avrebbe detto quello che dice soltanto ora. "Non aveva la faccia di chi voleva suicidarsi", dice. Racconta che emozionato per quell'incontro inatteso gli chiese di poter tornare con il figlio, che sarebbe impazzito per un suo autografo. Marco gli diede una pacca sulla spalla e rispose "va bene, ci vediamo domani". L'esatto opposto di quello che solo un'ora dopo, un Pantani sconvolto e delirante avrebbe detto ai tre ragazzi. Almeno stridente, se non inquietante. In un'ora scarsa, Pantani avrebbe dovuto mangiare la cena ricevuta per poi imbottirsi di cocaina e uscire dalla stanza per apparire instabile, in preda a manie persecutorie, perso in discorsi surreali ai giovani che lo incontrano sul pianerottolo. Rimini parla, racconta, aspetta. La pm Elisa Milocco dalle vacanze genovesi inizia a cercare risposte.

Pantani, il giallo dei pusher. Contatti frenetici al telefono mentre Marco era già morto. L'indagine per omicidio: cellulari impazziti tra le 13 e le 20. Il gelo del magistrato che archiviò: per me parlano gli atti. Si riparte da zero: il fascicolo affidato a una giovane pm, l'ultima arrivata nella procura. Dall'esame dei tabulati l'ultimo mistero sulla fine del Pirata nel motel Le Rose di Rimini.Il legale della famiglia: "Possibile colmare le lacune", scrivono Marco Mensurati e Matteo Pinci su “La Repubblica”. La nuova indagine sulla morte del Pirata ripartirà da una serie di tabulati telefonici. Numeri che si incrociano in maniera convulsa nelle ore immediatamente successive all'omicidio di Marco Pantani, in quel tragico pomeriggio del 14 febbraio 2004, e che disegnano una strana, fittissima triangolazione tra Fabio Miradossa, Ciro Veneruso - vale a dire il fornitore e lo spacciatore del ciclista (successivamente per questo condannati) - e altri numeri per il momento non meglio identificati. Cosa c'era all'origine di quel febbrile giro di chiamate rimbalzato nell'etere tra le 13 e le 20 di quel giorno? Chi sapeva cosa? Per quale motivo, di punto in bianco, due "pesci piccoli" dello spaccio in Riviera cominciano ad agitarsi in maniera scomposta? Ci vorranno mesi per saperlo. Le indagini penali, si sa, hanno tempi lunghi, specialmente quando diventano tecniche. Ma ormai la macchina si è messa in moto, e comunque vada, alla fine, una risposta definitiva sulla morte di uno dei campioni più amati di sempre dovrà pur venire fuori. Almeno questo è l'intento del procuratore di Rimini Paolo Giovagnoli. "Abbiamo appena ricevuto le carte presentate dai familiari e aperto un'indagine. È un atto dovuto quando arriva un esposto-denuncia per omicidio volontario. Leggeremo le carte, se ci sarà l'esigenza di indagini chiederemo al giudice". Le carte, in realtà, Giovagnoli le aveva già lette la scorsa settimana facendo in tempo ad aprire il fascicolo "contro ignoti" e ad affidare l'inchiesta a una giovane fidata collega, il pm Elisa Milocco. In procura - dove tutti si nascondono dietro il più assoluto segreto istruttorio - nessuno sottovaluta la difficoltà di un cold case del genere, con una vittima tanto famosa e amata, uno scenario alternativo così suggestivo, e con dieci anni di distanza a rendere tutto, se possibile, ancor più complicato. Basti pensare che il luogo del delitto, semplicemente, non c'è più: il residence Le Rose, nella cui stanza D5 venne ritrovato, il 14 febbraio 2004, il cadavere di Marco Pantani, è stato demolito. E non è un dettaglio da poco. Molto, nella ricostruzione originaria, quella fatta a pezzi dalle indagini difensive condotte dall'avvocato Antonio De Rensis, ruotava attorno al fatto che nessuno fosse entrato o uscito in quei giorni dalla stanza di Pantani, visto che nessuno era passato per la portineria chiedendo di lui. In realtà, si è scoperto, quella stanza, così come tutte le altre in quel residence, poteva essere raggiunta comodamente e con la massima discrezione dal garage (non c'era nemmeno una telecamera di controllo). Insomma, in quei giorni chiunque potrebbe essere entrato e uscito dalla stanza di Pantani, spacciatori, vecchi amici del posto, gente venuta da Milano. Chiunque, insomma, oltre allo stesso Pantani e ai suoi eventuali assassini. Purtroppo però non sarà possibile effettuare alcun sopralluogo. Ciononostante la voglia di fare luce su un caso che da anni avvelena le acque di questa piccola procura è tanta. Ancora ieri Paolo Gengarelli, il pm della prima inchiesta, quella oggi sotto tiro ha rilasciato una dichiarazione non proprio amichevole: "Io non commento la notizia, sono un magistrato con l'abitudine di non parlare come dovrebbero fare in tanti, lascio che siano gli atti a farlo". La scelta di affidare l'incartamento a un magistrato "nuovo" dell'ambiente, lontano per definizione da ogni possibile pressione locale non appare casuale. La strada dell'indagine a questo punto è abbastanza scontata. La dottoressa Milocco al ritorno dalle vacanze (ha chiuso ieri l'ufficio portando con sé il fascicolo) avvierà i primi accertamenti, delegando la polizia giudiziaria. Poi disporrà una nuova perizia. Il cuore delle accurate indagini effettuate da De Rensis e il suo staff è infatti la perizia medico legale del professor Francesco Maria Avato che ha parlato di "ferite non autoprodotte, ma inferte da terzi" sul corpo di Pantani, di "evidenti segni di trascinamento del cadavere", e della "probabile ingestione della cocaina da una bottiglia di acqua" ritrovata sulla scena e "mai repertata". Elementi che, se confermati, non lascerebbero più dubbi sull'omicidio di Pantani. Resterebbe a quel punto da rispondere alle altre domande: chi e perché ha ucciso Pantani, e chi e perché ha coperto l'assassino? Nell'istanza presentata da Rensis ci sono numerosi altri elementi che potrebbero aiutare a rispondere anche a queste domande. E i tabulati telefonici sono uno di questi. "Quando i genitori di Marco mi hanno contattato, mi sono riservato prima di capire perchè non volevo creare false illusioni ma non c'è voluto molto per comprendere che c'era molto lavoro da fare - racconta l'avvocato De Rensis ai microfoni di Sky -. La stessa consulenza scientifica è stata inizialmente un percorso esplorativo ma abbiamo capito subito che dovevamo buttarci a capofitto con una rilettura della vicenda. Sono stati mesi molto faticosi, dolorosi, pieni di tensione e speranza. Adesso sappiamo che abbiamo molto lavoro da fare insieme e mi concentro sul fatto che inizia un nuovo percorso faticoso, lungo, ma che affronteremo con determinazione massima. La prima indagine? Penso al passato soltanto in proiezione futura, sono molto concentrato su quello che dobbiamo fare". L'esposto presentato, spiega De Rensis, "è una rilettura, un esame degli atti di indagine e processuali, c'è una corposa e approfondita consulenza scientifica, tutti elementi che convergono verso una direzione molto precisa. Ci sono state molte mancanze, molte lacune, accertamenti non fatti e una tesi seguita poche ore dopo la scoperta del corpo di Marco mai più abbandonata e che credo vada invece assolutamente rivisitata". Ancora nessuna pronuncia su possibili sospetti: "Iniziando a fare luce sulle mancanze, sulle lacune, sulle incongruenze, sulle anomalie, credo che la strada si illuminerà da sola, il percorso sarà molto chiaro e preciso. Il perchè certe cose sono venute meno non lo devo dire io, chi fa le indagini avrà molti punti da chiarificare e credo che questo sia assolutamente possibile. Colmare le lacune credo sia possibile, le carte parlano molto, il video parla molto, leggendo le carte nel modo giusto, leggendo il video e altri dati credo che sia possibile colmare queste lacune". "Credo che adesso inizierà un'indagine molto faticosa - conclude De Rensis - ma il procuratore capo di Rimini è un galantuomo, la dottoressa Milocco mi ha dato l'impressione di una persona molto rigorosa. C'è grandissima fiducia nell'opera della magistratura e daremo il nostro piccolo supporto perchè i fatti vengano chiarificati e la verità fattuale prevalga su quella ufficiale che penso sia molto lontana dalla verità dei fatti".

PRESUNTE COLPEVOLI. SABRINA MISSERI E COSIMA SERRANO.

SABRINA MISSERI, NESSUN PERMESSO PREMIO. "Non riconosciuti i 45 giorni ogni 6 mesi". Omicidio Sarah Scazzi, Sabrina Misseri e il ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo. L'avvocato Franco Coppi: “Ha superato la prima fase, siamo fiduciosi”, scrive Silvana Palazzolo il 9 ottobre 2018 su "Il Sussidiario". Al centro dell'intervista all'avvocato Franco Coppi, difensore di Sabrina Misseri, all'ergastolo insieme alla madre Cosima Serrano per il delitto della piccola Sarah Scazzi, anche i presunti permessi premio di cui potrebbe usufruire la sua assistita. Evenienza smentita dal legale che proprio nel corso del suo intervento alla trasmissione di Rai1 ha spiegato come la giovane non abbia ancora maturato gli anni sufficienti per poter usufruire sia di un possibile sconto di pena che di un permesso premio. "I permessi premio non arriveranno. Non sono maturati ancora i dieci anni", ha dichiarato l'avvocato Coppi che ha quindi spiegato come funziona tecnicamente questo aspetto importante. "Alla Misseri non sono stati ancora riconosciuti quei famosi sconti di 45 giorni ogni 6 mesi e quindi, allo stato, non è nelle condizioni di poter usufruire di alcun permesso", ha chiarito. Nel frattempo la Corte Europea dei Diritti Umani ha giudicato ammissibile il ricorso presentato dalla cugina della giovane vittima uccisa ad Avetrana nell'agosto 2010. Coppi ha chiarito ancora che nel caso in cui Strasburgo dovesse riconoscere eventuali violazioni dei diritti della difesa, potrebbe accadere la riapertura di un procedimento, al quale chiaramente la stessa difesa punta. (Aggiornamento di Emanuela Longo)

L'AVVOCATO: “PUNTIAMO A RIAPERTURA PROCESSO”. Chi ha ucciso Sarah Scazzi? In tre gradi di giudizio la responsabilità dell’omicidio è stata attribuita a Sabrina Misseri e Cosima Serrano, rispettivamente cugina e zia della ragazzina di Avetrana. Ma loro sostengono che sia stato Michele Misseri, il quale dal canto suo ha cambiato spesso versione. «Non prova risentimento per il padre, ma pietà e compassione. Potete capire lo stato d'animo di fronte ad un padre che l'ha accusata ingiustamente», ha dichiarato il legale di Sabrina Misseri, l’avvocato Fausto Coppi, a Storie Italiane. Non ha dubbi invece il legale di Concetta Serrano, la madre della vittima: «C’è stata la condanna all'ergastolo per tre gradi di giudizio. Questo processo resterà nella storia della giurisprudenza perché abbiamo 2800 pagine di motivazioni». Anche la criminologa Roberta Bruzzone è intervenuta per commentare le dichiarazioni di Coppi: «Definire questo un processo ingiusto è ingeneroso nei confronti di quello è successo». Ma il legale di Sabrina Misseri tira dritto: «Se la Corte di Strasburgo dovesse riconoscere che sono state consumate violazioni dei diritti della difesa, si porrà in Italia il problema della riapertura del processo, e noi puntiamo a questo». (agg. di Silvana Palazzo).

“SUO PADRE MICHELE È L'ASSASSINO DI SARAH SCAZZI”. Nel corso del suo intervento a Storie Italiane, l'avvocato di Sabrina Misseri ha riversato su Michele Misseri la responsabilità dell'omicidio di Sarah Scazzi. «Ha dichiarato di essere l'assassino. Se Sabrina fosse stata coinvolta avrebbe fatto sparire il telefonino, invece lei ha chiamato i carabinieri», ha dichiarato l'avvocato Fausto Coppi. E poi ha contestato il fatto che lo zio della vittima non sia stato ritenuto credibile perché ha cambiato continuamente versione: «Ma i cambiamenti non sono gratuiti e non credibili. Vera o falsa che sia la motivazione, ha sempre cercato di spiegare i suoi cambiamenti. Ad esempio ha dichiarato di essere stato indirizzato dall'avvocato Galloppa». Quest'ultimo, primo difensore di Michele Misseri, ha spiegato nello studio di Eleonora Daniele: «Mi accusò di avergli suggerito la versione che ha dato nel primo incidente probatorio. Dichiarò di aver subito pressioni da me e Roberta Bruzzone». E per questo Michele Misseri è accusato di calunnia. A tal proposito è intervenuta telefonicamente la criminologa Roberta Bruzzone, arrabbiata perché in studio si è detto che lei e Galloppa sono stati “cacciati” come team difensivo: «Ci tengo a precisare che io e Galoppa non siamo stati cacciati. Non mi ha cacciato nessuno. Michele Misseri è accusato di calunnia nei nostri confronti. Definire questo un processo ingiusto è ingeneroso nei confronti di quello è successo». (agg. di Silvana Palazzo).

OMICIDIO AVETRANA, SABRINA MISSERI E IL RICORSO A STRASBURGO. Sabrina Misseri fuori dal carcere grazie a permessi premio? Ve ne abbiamo parlato nelle scorse settimane, ma ora interviene l'avvocato Franco Coppi per smentire le voci che sono circolate in merito alla cugina di Sarah Scazzi, che il 26 agosto 2010 scomparve da Avetrana per poi essere ritrovata morta. «Non ci sarà alcun permesso premio, perché non sono ancora maturati i dieci anni visto che non sono stati riconosciuti sconti», ha chiarito il legale di Sabrina Misseri a Storie Italiane. Ma ha anche confermato di aver registrato segnali positivi in merito al ricorso presentato alla Corte europea dei diritti dell'uomo: «Abbiamo presentato ricorso a Strasburgo perché riteniamo che abbia subito un processo ingiusto. Ha superato il primo esame di ammissibilità, ma non è decisivo. Ci sono altri esami da affrontare, ma è confortante constatare che si sia concluso positivamente». L'avvocato Coppi ha aggiunto che ora resta in attesa, del resto anche i tempi della giustizia di Strasburgo sono molto lunghi.

“RICORSO MOLTO MOTIVATO”. Nella vicenda del ricorso presentato dalla difesa di Sabrina Misseri alla Corte europea dei diritti dell'uomo si inserisce quella di un fioraio, Giovanni Buccolieri, che dichiarò di aver visto Cosima Serrano e la figlia Sabrina Misseri trascinare il corpo di Sarah Scazzi in auto il pomeriggio della sua scomparsa. Una dichiarazione che poi ritrattò, finendo per essere accusato di falsa testimonianza. Questa vicenda non è arrivata nel processo che ha portato alla condanna delle due donne, e proprio questa vicenda è finita all'interno del ricorso. Lo ha spiegato l'avvocato Franco Coppi a Storie Italiane: «Abbiamo presentato un ricorso molto motivato. Sabrina è stata condannata sulla base di prove non riscontrate, come le dichiarazioni di un fioraio che non è stato esaminato nel processo. Ci sono violazioni di diritti che riguardano la difesa. Non abbiamo esaminato la vicenda del fioraio, quindi ci sono state sottratte delle prove, il problema è questo».

INTERVISTA A FRANCO COPPI.

Franco Coppi: «I tribunali? Gabbie di matti. Ho difeso la Juve con la cravatta romanista». L’avvocato: parlo con il mio cane, me l’ha regalato Ghedini. Da ragazzo credevo di poter contribuire alle sorti dell’arte. Poi non ho più preso in mano un pennello, non potevo permettermi la tentazione di distrarmi, scrive Giusi Fasano il 3 dicembre 2017 su "Il Corriere della Sera". Franco Coppi, 79 anni, con il golden retriever Rocky avuto in regalo dall’avvocato Niccolò Ghedini.

«Buongiorno professore». «Ossequi». «Carissimo prof, permette un saluto?». «I miei omaggi, avvocato». Più che un’intervista è uno slalom fra ammiratori. Franco Coppi, fra i più stimati e autorevoli avvocati italiani, è a casa sua, in Cassazione, e qui non c’è collega, giudice, cancelliere, usciere che non lo conosca. Anche perché dei suoi 79 anni ha passato più tempo in questo palazzo che in qualsiasi altro posto. E oggi è il re dei cassazionisti. Un’istituzione.

Prof, non le danno tregua con le riverenze. Come fa a dar retta a tutti?

«Io sono un noto chiacchierone e poi sarebbe disonesto dire che non fa piacere sentirsi apprezzati o vedere che i colleghi ti dimostrano considerazione e simpatia. Anche se, le confesso, avrei una voglia di smettere...»

Non dica così o farà venire un infarto ai suoi assistiti.

«Ma sì, invece. In questi ultimi anni ho sentito sulla mia pelle l’ingiustizia di alcune decisioni che sono diventate un peso insopportabile».

Neanche glielo chiedo. So che sta parlando di Sabrina Misseri e del suo ergastolo per l’omicidio di Avetrana.

«Esatto, non mi stancherò mai di ripetere che la sua è una pena ingiusta, mostruosa. Sapere di non essere riuscito a dimostrare la sua innocenza non mi fa dormire la notte».

Sta criticando una sentenza definitiva.

«E perché no? Chi lo dice che non si debba fare? Se la ritengo non giusta posso criticarla eccome! Quella condanna mi ha segnato così profondamente che ho pensato davvero di abbandonare la professione».

Cosa le ha fatto cambiare idea?

«Il senso di responsabilità verso i colleghi dello studio e le cause che sto seguendo. E poi una persona che stimo molto mi ha detto: in futuro quella ragazza potrebbe avere ancora bisogno di te, se te ne vai non la potrai più aiutare. È vero, e io spero ancora di esserle utile. Nel frattempo ci scriviamo. Lei sa del mio amore per gli animali e assieme alle lettere mi manda disegni di animali bellissimi che fa con le sue mani».

Ha detto animali ma lo sanno tutti: il suo amore più grande è per i cani.

«È vero ma ho avuto anche gatti e perfino una gazza ladra».

Era arrivata da lei come imputata? 

Ride. «No. Era venuta perché le piaceva il mio terrazzo, forse. Le abbiamo costruito una gabbia il più grande possibile ma spesso era libera, veniva a mangiare nel piatto e faceva il bagno nel lavello della cucina. È morta di vecchiaia. Ma nella mia vita ho sempre avuto accanto un cane, fin da piccolissimo».

Ne ha uno anche adesso?

«Sì. Dopo la morte del nostro Bruce io e mia moglie eravamo molto indecisi. Siamo anziani, sa com’è...E invece a Natale di due anni fa si presentò a casa mia con un cucciolo irresistibile di golden retriever l’avvocato Ghedini (con Coppi si occupò del caso Ruby in cui Berlusconi fu assolto, ndr)».

Un regalo post-assoluzione del Cavaliere?

«Era un regalo di Ghedini, graditissimo. Aveva già un nome, Rocco, che io ho cambiato in Rocky e poi gli ho dato anche un cognome».

Che sarebbe?

«Ghedini».

Chissà come sarà contento l’avvocato...

«È una persona intelligente, sono certo che capirà che non è un’offesa. Anzi, per me è un onore. Io e Rocky Ghedini ci facciamo passeggiate lunghissime, ci capiamo al volo con un’occhiata. Ogni tanto gli parlo, un giorno o l’altro mi risponderà».

Ancora passeggiate chilometriche anche dopo la caduta e la frattura alla spalla?

«Ora confesso una cosa: lì non stavo passeggiando. Correvo. Ho visto tutti quei ragazzi correre al parco e mi sono detto: ci provo anch’io. Ricordo che quando sono tornato in aula il presidente mi chiese “avvocato, cosa le è successo”? Gli ho risposto: se le dico com’è andata mi caccia per manifesta stupidità».

Torniamo alla sua professione. C’è il nome di Coppi nel caso Andreotti, nello scandalo Lockheed, nel Golpe Borghese, nelle difese di grandi gruppi industriali e in quelle di Niccolò Pollari, Antonio Fazio, Gianni De Gennaro, Berlusconi... Però lei ha sempre detto che la sua Corte preferita è quella d’Assise. Cosa ci trova di così appassionante in un omicidio?

«Ma scherza? I cosiddetti casi “di cronaca” consentono di vedere le sfaccettature della vita, capisci molto della natura umana, entri nei moventi dell’agire degli individui, scopri i meccanismi di giustificazione che le persone cercano per i propri comportamenti. È affascinante, ogni volta è quasi una lezione di psicologia».

Non starà esagerando?

«Beh, lo dico con il dovuto rispetto: i luoghi della giustizia spesso sono gabbie di matti. Lei sa, vero, che Eduardo De Filippo in molte delle sue commedie ha preso spunto dalla realtà nelle aule dei tribunali? Nella vita ho assistito a difese diciamo bizzarre, per usare un eufemismo».

Per esempio?

«Per esempio ricordo tanti anni fa l’arringa straordinaria di un collega che cercò di convincere tutti con un discorso aulico: “La vita di questo povero ragazzo è stata già messa duramente alla prova” disse indicando il suo assistito. E poi cose tipo: “Vivrà il resto dei suoi giorni senza avere più accanto i suoi genitori”. Erano parole accorate».

E cosa c’era di bizzarro in quella difesa?

«C’era che il presidente a un certo punto disse: ma avvocato, i genitori di ha ammazzati lui! E la risposta fu: “E che c’entra? Rimane pur sempre orfano”. Indimenticabile».

Rientra nel capitolo bizzarrie anche la sua cravatta giallorossa durante il processo in difesa della Juventus?

«Lì ho agito per chiarezza. Per evitare l’accusa di tradimento io, romanista, ho messo in chiaro le cose con la cravatta più adeguata».

A proposito, è vero che di cravatte ne ha un numero imbarazzante?

«Temo di sì»

Quante? Cento, duecento, di più?

«Non le ho mai contate ma credo di più...».

Tempo fa parlò di un segreto per il figlio di Borsellino. Gliel’ha poi svelato?

«Non l’ho mai incontrato. Più che un segreto era un ricordo di parole che mi disse suo padre. Eravamo a Roma, io camminavo accanto a lui e più avanti c’era Falcone. Borsellino indicò Falcone e mi disse: “Vede quell’uomo? Gli devo tutto, mi ha ridato la fiducia e il coraggio che stavo perdendo e ogni volta che sono accanto a mio figlio sento che gli posso trasmettere tutto il bene che Falcone mi ha passato”. Mi sono commosso, non ho mai dimenticato quelle parole».

Lei è nato in Libia per puro caso, giusto?

«Giusto. Mio padre Filippo, che ho perso quand’ero ragazzino, era un dirigente Fiat che andò lì a lavorare e mia madre, che era una casalinga, lo seguì. Così io e mia sorella Cecilia siamo nati laggiù. Avevo quattro anni quando scappammo da Tripoli con i magazzini in fiamme e i tedeschi che davano ordini alle auto in coda. Ricordo tutto come fosse qui, adesso. Non ci sono mai tornato».

Come ha conosciuto sua moglie?

«Fu mentre ero in vacanza a Capri, dove Anna Maria lavorava. Mi è piaciuta subito».

Corteggiamento?

«Una cosa semplice. Abbiamo cominciato a frequentarci e a un certo punto le ho detto: che ne diresti se ci sposassimo?»

Tutto qui?

«Beh, proprio tutto no».

Avete avuto tre figlie.

«Sì. Francesca fa l’avvocato nel mio studio, Alessandra è ingegnere e Giuliana è consigliere parlamentare. Ho avuto e ho una vita familiare felice. Sono fortunato».

E la vita da docente universitario?

«Ho cominciato nel ‘68 a Teramo e ho finito sei anni fa alla Sapienza. Insegnavo Diritto penale, un’esperienza bellissima di cui conservo molti ricordi».

C’è qualcosa nei suoi 79 anni che avrebbe voluto fare e non ha fatto?

«Adesso, da anziano, penso ai libri non letti, ai musei non visti, ai viaggi non fatti, assorbito com’ero dalla mia professione. Ma non sono rimpianti, solo malinconie postume».

E quel vecchio amore per la pittura? Nessun rimpianto neanche per quello?

«Da ragazzetto, a forza di girare per chiese e musei romani con mio padre, mi ero innamorato del bello e credevo di poter contribuire alle sorti dell’arte. Avevo frequentato corsi, l’avevo presa sul serio. Quando ho deciso di smettere non ho più guardato un pennello, non potevo permettermi tentazioni. Dalle tentazioni bisogna avere il coraggio di allontanarsi sennò chissà quanti motivi d’appello avrei lasciato scadere per dipingere i miei paesaggi...».

A fine intervista ce lo può svelare: erano eleganti le cene a casa Berlusconi?

«Anche. Non mi faccia aggiungere altro».

PRESUNTI COLPEVOLI. OLINDO ROMANO E ROSA BAZZI.

LA STRAGE DI ERBA. Strage di Erba, Olindo Romano "Siamo innocenti". Video intervista Le Iene: “scambiati per ciò che non eravamo”. Strage di Erba, video intervista Iene a Olindo Romano. Famiglia Castagna attacca: “Vendete menzogne”. Antonino Monteleone in carcere per incontrare l'autore con Rosa Bazzi del pluriomicidio, scrive il 29 ottobre 2018 Silvana Palazzolo su "Il Sussidiario". Strage di Erba, intervista Le Iene a Olindo Romano. Dopo 12 anni, Olindo Romano, condannato all'ergastolo insieme alla moglie Rosa Bazzi nei tre gradi di giudizio in quanto ritenuti i soli responsabili della strage di Erba, ha deciso di rompere il silenzio concedendo una intervista in esclusiva alla trasmissione Le Iene. Olindo ha raccontato la sua "verità", giurando sulla cosa che ha di più caro, "mia moglie". Per tutta Italia è lui lo spietato assassino che avrebbe sterminato un'intera famiglia, madre, figlia e nipotino di appena 2 anni, nonché una vicina di casa. Alla domanda di Antonino Monteleone sul perchè sia in carcere, Romano ha replicato: "Non lo so nemmeno io. Forse ci hanno scambiati per quello che non eravamo, ci han scambiati sicuramente". "I fatti non coincidono con quanto accaduto e con quelle mezze confessioni", ha poi aggiunto Olindo. "Non sono stato io ad uccidere quelle persone", ha proseguito, sostenendo ancora una volta la sua innocenza. Poi, ritenendo di essere stato accusato ingiustamente, ha evidenziato i suoi dubbi: "Pensavo fosse stato il marito", ha spiegato, riferendosi ad Azouz Marzouk, padre del bimbo di due anni e marito di una delle donne uccise nella strage. (Aggiornamento di Emanuela Longo)

Olindo Romano rompe il silenzio e lo fa con un'intervista a “Le Iene”. È veramente lui il mostro di Erba? Se lo chiede Antonino Monteleone, che ha firmato il ciclo di servizi sulla strage. «Io non faccio mai interviste, per la tv è la prima volta», dichiara l'ex netturbino prima di rispondere alle domande del giornalista. «Il tempo è passato alla svelta, dodici anni sono tanto tempo», prosegue prima di entrare nel merito del pluriomicidio. E lo fa giurando su sua moglie Rosa Bazzi. «Non so nemmeno io perché sono in carcere, qualcuno ci ha scambiati sicuramente. I fatti non coincidono con tutto quello che è successo. No, non sono stato io ad ucciderli». All'epoca Olindo si fece un'idea su chi poteva essere il responsabile: «Quando vieni accusato ingiustamente, ti guardi bene dal puntare il dito contro qualcuno se non sei più che certo, è questo il discorso». Poi ammette: «Noi pensavamo che era stato il marito (Azouz Marzouk, ndr). Loro litigavano, una volta siamo andati su a dividerli, un'altra sono arrivati i carabinieri. Sicuramente erano professionisti». Il marito di Raffaella Castagna ora sostiene che Olindo e Rosa possano essere innocenti: «So che lo ha sempre pensato, ma i primi tempi non lo ha detto perché doveva trovare il modo di uscire dal carcere, poi avrebbe detto quello che ha sempre pensato». Nell'intervista Antonino Monteleone affronta il tema relativo al movente, quindi alle continue liti della coppia con le vittime. «Lei sul tardi faceva delle feste e non ci lasciava dormire. Siamo arrivati anche ad insultarci. Come si faceva a sopportarli? Eravamo sempre a litigare, ma mica ammazzi uno perché non lo sopporti». La domanda delle domande però è un'altra: perché hanno confessato? «Ci siamo ritrovati in un contesto che portava a quello. Ci ritrovammo da casa nostra al carcere nel giro di poco tempo. Quando ci siamo rivisti non sapevamo neppure perché eravamo lì. Dopo due giorni due carabinieri ci hanno detto che eravamo messi male. Ci dissero che confessare sarebbe stato “il minore dei mali”». Qualcuno gli ha suggerito di confessare? «Abbiamo cercato di resistere, ma quando mi hanno detto che non avrei rivisto mia moglie... Anche quello ha influito. Se volevo vedere mia moglie dovevo dirgli qualcosa, e io li ho seguiti». Per Olindo Romano i magistrati hanno fatto leva sui loro sentimenti per spingerli a confessare. «Noi inizialmente abbiamo detto che non c'entravamo nulla». Eppure hanno cominciato a rivelare dettagli che solo gli assassini potevano sapere: «Ce li hanno mostrati loro. Alcuni dettagli gli abbiamo visti su un mucchio di fotografie che ci hanno messo sul tavolo». Olindo Romano spiega che la premeditazione è stata confessata a causa di una strategia concordata con l'avvocato di ufficio. «Ci aveva detto di essere convincenti». E questo legale avrebbe consigliato a Rosa Bazzi di denunciare di aver subito una violenza sessuale da Azouz Marzouk: «Mi sa che non è vera...». Olindo Romano vorrebbe che la vicenda giudiziaria venisse riaperta: «Vorrei la revisione del processo, un giudice onesto valuti le cose per quello che sono, ma dopo questo chi si prende la patata bollente? Ma non siamo arrivati alla fine». (agg. di Silvana Palazzo)

Il programma “Le Iene” continua ad occuparsi della strage di Erba, dove l'11 dicembre 2006 vennero uccisi Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini, mentre il marito di quest'ultima - Mario Frigerio - fu gravemente ferito. Per il pluriomicidio sono stati condannati all'ergastolo i vicini di casa delle vittime, i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi. Sono poche le anticipazioni fornite dalla trasmissione sull'intervista che andrà in onda stasera. «Ci diamo del tu?», chiede Antonino Monteleone a Olindo Romano quando lo incontra in carcere. «Diamoci del tu poi se ci scappa qualche lei ci sta», risponde Olindo, come mostra il video di anticipazione del servizio. Dopo 12 anni di silenzi, l'assassino ha deciso di parlare con un giornalista. Sono tanti, secondo “Le Iene”, i dubbi sul caso che - è bene precisarlo - è stato chiuso dopo i tre gradi di giudizio. Il programma ha quindi espresso il desiderio di intervistare entrambi i condannati, e il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha precisato che non ci sono ostacoli, quindi “Le Iene” ha ottenuto l'intervista con Olindo Romano in carcere. L'inchiesta de “Le Iene” è partita dai dubbi di Azouz Marzouk, che nella strage di Erba ha perso moglie e figlio, e di molti esperti e giornalisti. Poi è stata analizzata la testimonianza dell'unico superstite, Mario Frigerio, quindi Antonino Monteleone si è concentrato su una prova, la macchio di sangue trovata sull'auto dei due. Il dubbio della Iena è che ci sia stato un inquinamento delle prove. Nel quarto servizio è stata trattata la morte di Valeria Cherubini con una ricostruzione alternativa a quella stabilita dalle sentenze. Nell'ultimo servizio andato in onda, invece, “Le Iene” si interroga sul motivo che ha spinto Olindo e Rosa a confessare. L'inchiesta de “Le Iene” sulla strage di Erba ha diviso l'opinione pubblica e provocato la dura reazione di Pietro e Beppe Castagna, fratelli di Raffaella, secondo cui il programma vende «menzogne spacciandole per verità». In un post su Facebook nei giorni scorsi hanno criticato quanti stanno mettendo in dubbio la verità emersa dai processi. «Non sta a noi né difendere la procura né gli inquirenti né il loro operato, consentiteci di difendere però la verità, che per noi è solo una, consentiteci di essere indignati e increduli nel sentire gente che definisce i colpevoli come innocenti vittime di una giustizia sommaria e faziosa, definiti addirittura come "un gigante buono e una gracile signora"». Ma Olindo Romano e Rosa Mazzi «hanno ucciso brutalmente nostra madre, nostra sorella, nostro nipotino, la signora Valeria, hanno tentato di uccidere il signor Mario, spezzando pochi anni dopo la sua vita e pochi mesi fa la vita di nostro padre, facendo vivere a me e a Beppe, a Elena e Andrea Frigerio un incubo continuo».

Strage di Erba, Olindo Romano: "Siamo innocenti", scrivono il 29 ottobre 2018 Le Iene. Olindo Romano, condannato con la moglie Rosa Bazzi all’ergastolo per la strage di Erba, parla per la prima volta in tv. Lo fa dal carcere con il nostro Antonino Monteleone, nel sesto appuntamento dell’inchiesta di Marco Occhipinti e Monteleone sui quattro omicidi del 2006. “Non siamo stati noi”, “non sono stato io a uccidere quelle persone”. Olindo Romano, condannato all’ergastolo assieme alla moglie Rosa Bazzi per la strage di Erba (Como), continua a professare l’innocenza sua e della moglie. Lo fa in carcere nella sua prima intervista rilasciata in tv, dopo 12 anni di silenzi, al nostro Antonino Monteleone. Nella strage dell’11 dicembre 2006 vennero uccisi Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Rosa e Olindo, secondo la sentenza ormai definitiva, li hanno uccisi per le continue liti condominiali. Per Le Iene questa intervista esclusiva è il sesto appuntamento dell’inchiesta di Marco Occhipinti e Antonino Monteleone, che hanno messo in dubbio molti elementi delle indagini. "Forse ci hanno scambiati per quello che non eravamo, i fatti non coincidono con tutto quello che è successo, comprese quelle mezze confessioni, non sono stato io a uccidere quelle persone”, dice Olindo. “Quando vieni accusato ingiustamente, poi ti guardi bene dal puntare il dito a qualcuno se non sei più che certo”, è per questo che dice di non volere fare nomi su chi possa avere commesso la strage. “Litigavamo con loro per le solite liti condominiali. Il motivo della prima era su una festa. Avevo la camera da letto sotto il soggiorno, andavano avanti fino alle quattro del mattino. E io mi dovevo svegliare alle cinque”, continua Olindo. “Non ho mai visto spacciare, però il vai e vieni c'era. Ci arrivava di tutto. Si capiva che c'era qualcos'altro, oltre alle feste. Ammazzi uno perché non lo sopporti? Litigare sì”. “Gli assassini erano dei professionisti, non hanno lasciato in giro niente”, sostiene. Olindo entra in molti particolari dell’inchiesta. Una delle tante domande che viene spontanea è per tutti: perché allora hanno confessato (e poi ritrattato) una strage mai commessa? “Ci siamo ritrovati in un contesto che ci portava a quello. Ci siamo trovati da casa nostra al carcere, nel giro di un'ora e mezza. In carcere non sapevamo neanche perché eravamo lì. Aspettavo qualcuno che venisse a dirmi qualcosa. Dopo due giorni sono arrivati due carabinieri. Ci hanno detto che eravamo messi male, e in poche parole ci hanno prospettato una via d'uscita. Era il minore dei mali confessare, una cosa così. Il mio primo pensiero era riuscire a vedere mia moglie, perché da quando eravamo entrati in carcere non l'avevo più vista. Noi abbiamo cercato di resistere. Però ti dicono: se non confessi non vedi più tua moglie... Anche quello ha influito. E quando sono arrivati i magistrati io mia moglie l'ho vista. Io il mio scopo l'avevo raggiunto, ma loro il loro no. Hanno fatto leva sui nostri sentimenti. All'inizio ai magistrati che volevano farci confessare l'avevamo detto che non c'entravamo niente. Ma loro hanno continuato a insistere. E non so neanch'io come sia successo, ma è saltata fuori tutta questa storia”. E i dettagli che solo chi era stato sul luogo della strage poteva sapere? “Ce li hanno fatti vedere loro! I magistrati, ci coinvolgevano loro! E alcuni dettagli li abbiamo visti su un mucchio di fotografie degli omicidi che ci hanno messo sul tavolo. Avevamo ammesso la premeditazione per avvalorare la strategia difensiva decisa con l'avvocato precedente. Se tornassi al 2006 sicuramente non rifarei la confessione”.  “Oggi mi sono iscritto a Biologia, va benino, riesco a cavarmela. Mezza giornata la passo in cucina, il tempo che rimane faccio un po' di pulizie...”, dice Olindo. “Vedo Rosa una volta al mese per un'ora e ci parlo al telefono una volta a settimana”. La revisione del processo? “Siamo passati da 26 giudici: vorrei trovare un giudice onesto. Ma dopo tutto questo chi è che si prende la patata bollente? Penso che la vicenda giudiziaria non sia conclusa perché se non siamo stati noi, è stato qualcun altro. Male che vada, quando arriviamo a Strasburgo qualcosa cambia. Sul piano giudiziario ci daranno ragione per forza. Ci vorrà un po' di tempo ma arriverà”. La nostra inchiesta è partita nel primo servizio dai dubbi di Azouz Marzouk, che nella strage ha perso la moglie Raffaella e il figlio Youssef, e di molti esperti e giornalisti. Abbiamo analizzato poi la testimonianza dell’unico superstite, Mario Frigerio, marito di Valeria Cherubini, che ha riconosciuto Olindo come colpevole. In realtà, nelle sue prime parole al risveglio avrebbe parlato di un’altra persona, di carnagione olivastra, che non aveva mai visto prima e non del posto. Ci siamo soffermati successivamente su un’altra prova: la macchia di sangue trovata sull’auto dei due. I dubbi aumentano, sia sul modo del reperimento della prova sia sul suo possibile inquinamento. Nel quarto servizio abbiamo parlato della morte di Valeria Cherubini. Una ricostruzione alternativa a quella stabilita dalle sentenze sul suo decesso potrebbe scagionare Rosa e Olindo. Anche il generale Luciano Garofalo, ex comandante del Ris dei Carabinieri, proprio sulla base di questa e altre ricostruzioni, sostiene che “è lecito avere dei dubbi sulla strage di Erba”. Nel quinto servizio, andato in onda martedì 23 ottobre, ci chiediamo perché Olindo e Rosa hanno confessato? Dalle intercettazioni emerge come Olindo decide di confessare sperando di ottenere benefici di pena e non l’ergastolo e di lasciare la moglie in libertà. Rosa però non ci sta: confessa per prima. Olindo prova allora a scagionare lei, sostenendo di aver fatto lui tutto da solo. Hanno confessato potendo vedere le foto della strage e conoscendo man mano le dichiarazioni dell’altro. In tutto Olindo colleziona 243 errori nella sua ricostruzione, uno ogni 30 secondi. Gli errori di Rosa sono incalcolabili.

Olindo: "Le nostre confessioni? Parte della strategia difensiva". Romano, condannato all'ergastolo insieme alla moglie: "Siamo innocenti, speriamo che ci sia un giudice onesto", scrive Felice Manti, Lunedì 29/10/2018, su "Il Giornale". «Le nostre confessioni facevano parte di una strategia difensiva che non ha funzionato. Ma io e mia moglie siamo innocenti. Speriamo che in Italia ci sia un giudice onesto». È un Olindo Romano sorridente e impacciato a parlare alla Iena Antonino Monteleone ieri sera durante la sesta puntata della trasmissione di Italia Uno che ha rilanciato i dubbi sull'inchiesta e sul processo che ha portato alla condanna all'ergastolo per Olindo e la moglie Rosa Bazzi, colpevoli secondo 26 giudici di aver ucciso Raffaella Castagna e suo figlio di due anni Youssef Marzouk, Paola Galli la nonna del bambino, e Valeria Cherubini, la vicina del piano di sopra, e di aver ferito mortalmente il marito della Cherubini, Mario Frigerio, che a processo riconoscerà la coppia come autori della mattanza che l'11 dicembre 2006 in via Diaz sconvolse per sempre la tranquillità e la fama di Erba. Per la legge e l'opinione pubblica sono stati riconosciuti da un testimone («Ma io con Frigerio non ce l'ho mai avuta, lo hanno manipolato e girato come una patata», dice Olindo), incastrati da una traccia di sangue trovata sull'auto e inchiodati da una confessione. Prove che la trasmissione ha smontato, una a una, basandosi su riscontri di periti, documenti in parte già usciti come sul Giornale nei mesi precedenti e successivi alle fasi del processo e da testimonianze inedite. Ieri il colpo di scena finale: chi si aspettava un Olindo pentito, rancoroso, cinico, è rimasto deluso. Ma le sue accuse contro l'ex legale, i pm e i carabinieri sono pesanti. Si parte dalle confessioni, arrivate, dice Monteleone, «dopo due giorni di isolamento, l'ergastolo prospettato come una certezza, la promessa di benefici di pena in caso di confessione e l'ingenua speranza di Olindo di poter ottenere una cella matrimoniale». «I carabinieri ci hanno detto che eravamo messi male, se non confessi non vedi più tua moglie... anche quello ha influito racconta Olindo Romano - Hanno fatto leva sui nostri sentimenti, e lì è saltato tutto». E i dettagli che solo gli assassini potevano conoscere? «Quando abbiamo confessato i pm ci hanno mostrato delle foto, ce li hanno fatti vedere loro...», ammette candidamente «dove non riuscivamo ad arrivare ci correggevano un po' loro... e alcuni dettagli noi li abbiamo praticamente visti su un mucchio di fotografie sul tavolo». Poi si passa al racconto sui rapporti con le vittime e sull'odio come movente. Olindo racconta le feste a casa Castagna-Marzouk fino «alle due, le tre di mattina... io mi dovevo svegliare alle cinque...» e delle liti continue «ma dalla Raffaella siamo saliti anche a prendere il caffè!», racconta. Senza dirsi stupito che Azouz Marzouk, il tunisino espulso per spaccio di droga che nella strage ha perso moglie e figlio, lo consideri innocente: «Io penso che lo abbia sempre pensato. Non l'ha mai detto prima perché era nei casini». Chi sono i veri assassini? Gli chiede Monteleone. «Sicuramente professionisti, se non han lasciato in giro niente. Sto pagando al posto loro. Ma quando vieni accusato ingiustamente ti guardi bene da puntare il dito contro qualcuno se non sei più che certo». Un po' di freddezza la riserva solo nei confronti di Carlo Castagna («Come ha fatto a perdonarci? Non saprei...»). E sul video in cui Rosa Bazzi racconta la mattanza in maniera delirante e poi denuncia di essere stata stuprata da Azouz rivela: «Da quello che so io, questa denuncia qui, è stata suggerita dall'avvocato (Pietro Troiano, nominato d'ufficio, ndr) che avevamo, perché aveva quella sua strategia lì. Ci aveva detto di esser convincenti». Ma secondo Olindo chi ascoltava la confessione (il perito della difesa Massimo Picozzi, ndr) avrebbe dovuto capire che erano tutte balle («Essendo un professore riuscirà a capire che c'è qualcosa che non va. Invece no...»). Una strategia difensiva che, se fosse vera, si è dimostrata catastrofica. Ma Romano non ce l'ha con il suo ex legale: «Ha sbagliato, però è stato travolto anche lui eh. Noi non eravamo all'altezza della situazione per dire, no? Ma lui era messo come noi».

Strage di Erba, Olindo Romano alle Iene: “Ho confessato per proteggere Rosa e lei me”, scrive Blitz Quotidiano il 29 ottobre 2018. “Ho confessato per proteggere Rosa e lei ha confessato per proteggere me”. Risponde così Olindo Romano alle domande di Antonino Monteleone. Il sesto appuntamento dell’inchiesta delle Iene dedicata alla strage di Erba si svolge nel carcere milanese di Opera, dove Olindo è rinchiuso da 12 anni. La moglie Rosa Bazzi, condannata insieme a lui all’ergastolo, è invece reclusa nel carcere di Bollate. Era l’11 dicembre del 2006 quando Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini con il suo cane furono uccisi a colpi di coltello e spranga in una palazzina a Erba, provincia di Como. “Ho di fronte il mostro che ha preso a sprangate e sgozzato 4 persone o un povero cristo finito in carcere per un orrendo delitto che non ha mai commesso?”, si domanda Monteleone mentre microfoni e telecamere vengono sistemati nella stanza. E’ la prima volta di Olindo in tv, dopo 12 anni di silenzi. L’inchiesta delle Iene era partita dai dubbi di Azouz Marzouk, che nella strage ha perso la moglie Raffaella e il figlioletto di appena 2 anni Youssef. Poi la testimonianza dell’unico superstite, Mario Frigerio, marito di Valeria Cherubini, risparmiato dagli assalitori perché creduto morto e che ha riconosciuto Olindo come colpevole. In realtà, nelle sue prime parole al risveglio avrebbe parlato di un’altra persona, di carnagione olivastra, che non aveva mai visto prima e non del posto. Alle Iene Olindo Romano continua a professare la sua innocenza. “Forse ci hanno scambiati per quello che non eravamo, i fatti non coincidono con tutto quello che è successo, comprese quelle mezze confessioni, non sono stato io a uccidere quelle persone”, dice. Ma non vuole fare nomi su chi possa aver compiuto la strage. “Quando vieni accusato ingiustamente – spiega – poi ti guardi bene dal puntare il dito a qualcuno se non sei più che certo”. Secondo la sentenza, passata in giudicato, Olindo e Rosa ammazzarono i vicini di casa per le continue liti condominiali. “Litigavamo con loro per le solite liti condominiali – spiega alle Iene Olindo – Il motivo della prima era su una festa. Avevo la camera da letto sotto il soggiorno, andavano avanti fino alle quattro del mattino. E io mi dovevo svegliare alle cinque”. “Non ho mai visto spacciare, però il vai e vieni c’era – prosegue – Ci arrivava di tutto. Si capiva che c’era qualcos’altro, oltre alle feste. Ammazzi uno perché non lo sopporti? Litigare sì”. “Gli assassini erano dei professionisti, non hanno lasciato in giro niente”, aggiunge. E a quel punto la domanda sorge spontanea: “Perché ha confessato?” “Ci siamo ritrovati in un contesto che ci portava a quello. Ci siamo trovati da casa nostra al carcere, nel giro di un’ora e mezza. In carcere non sapevamo neanche perché eravamo lì. Aspettavo qualcuno che venisse a dirmi qualcosa. Dopo due giorni sono arrivati due carabinieri. Ci hanno detto che eravamo messi male, e in poche parole ci hanno prospettato una via d’uscita. Era il minore dei mali confessare, una cosa così. Il mio primo pensiero era riuscire a vedere mia moglie, perché da quando eravamo entrati in carcere non l’avevo più vista. Noi abbiamo cercato di resistere. Però ti dicono: se non confessi non vedi più tua moglie… Anche quello ha influito. E quando sono arrivati i magistrati io mia moglie l’ho vista. Io il mio scopo l’avevo raggiunto, ma loro il loro no. Hanno fatto leva sui nostri sentimenti. All’inizio ai magistrati che volevano farci confessare l’avevamo detto che non c’entravamo niente. Ma loro hanno continuato a insistere. E non so neanch’io come sia successo, ma è saltata fuori tutta questa storia”. Già nel quinto episodio dell’inchiesta le Iene si erano soffermate sulle confessioni. Dalle intercettazioni emergerebbe che Olindo decise di confessare sperando di evitare l’ergastolo e di lasciare libera la moglie. Rosa Bazzi però non ci sta e confessa per prima. Olindo poi prova a scagionarla, sostenendo di aver fatto tutto da solo. Monteleone gli domanda come facesse allora a conoscere dettagli che solo chi era stato sul luogo della strage poteva sapere? “Ce li hanno fatti vedere loro! I magistrati, ci coinvolgevano loro! E alcuni dettagli li abbiamo visti su un mucchio di fotografie degli omicidi che ci hanno messo sul tavolo. Avevamo ammesso la premeditazione per avvalorare la strategia difensiva decisa con l’avvocato precedente. Se tornassi al 2006 sicuramente non rifarei la confessione”.  L’intervista vira poi sulla vita di Olindo in carcere: “Oggi mi sono iscritto a Biologia, va benino, riesco a cavarmela. Mezza giornata la passo in cucina, il tempo che rimane faccio un po’ di pulizie…”, racconta. “Vedo Rosa una volta al mese per un’ora e ci parlo al telefono una volta a settimana”. Sulla revisione del processo Olindo Romano afferma: “Siamo passati da 26 giudici: vorrei trovare un giudice onesto. Ma dopo tutto questo chi è che si prende la patata bollente? Penso che la vicenda giudiziaria non sia conclusa perché se non siamo stati noi, è stato qualcun altro. Male che vada, quando arriviamo a Strasburgo qualcosa cambia. Sul piano giudiziario ci daranno ragione per forza. Ci vorrà un po’ di tempo ma arriverà”.

Strage di Erba: Le Iene intervistano Olindo Romano. Domenica 28 ottobre, in prima serata, su Italia 1, scrive Antonio Galluzzo su Spettacolo news. Oggi, domenica 28 ottobre, in prima serata su Italia 1, a “Le Iene Show”, Antonino Monteleone torna a occuparsi del processo per la Strage di Erba con un’intervista esclusiva a Olindo Romano, uno dei due condannati all’ergastolo per ilpluriomicidio avvenuto l’11 dicembre 2006. Quella sera, nella cittadina in provincia di Como, vennero uccisi Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli, la vicina di casa Valeria Cherubini e fu gravemente ferito il marito di quest’ultima Mario Frigerio. Assieme a Romano, è stata condannata in via definitiva al carcere a vita anche sua moglie Rosa Bazzi: i due erano vicini di casa delle vittime. Si tratta della prima intervista rilasciata da Romano dopo la condanna. È stata realizzata all’interno del carcere di Opera (Milano). 

Iena: Buongiorno, Antonino Monteleone.

Olindo: Sì, la conosco tramite la tv.

Iena: Come va?

Olindo: Eh insomma, andiamo avanti.

Iena: È più nervoso l’avvocato…

Olindo: Sì mi sa di sì, mi sa di sì. Anche se io di interviste non ne faccio mai però…

Iena: La prima volta?

Olindo: Eh penso di sì.

Iena: Per la tv è la prima volta.

Olindo: Sì penso proprio di sì, per la tv è la prima volta, per la tv.

Iena: Ci diamo del tu o del lei?

Olindo: Ci diamo del tu, poi se ci scappa qualche lei vabbè ci sta.

Iena: Intanto grazie per aver accettato.

Olindo: Sono io che ringrazio voi...

Iena: Quando ci hai scritto hai detto le Iene di Canale 5…

Olindo: Ah beh, mi sono sbagliato, allora mi sono sbagliato.

Iena: Li hai visti i nostri servizi?

Olindo: Sì sì sì, li ho visti.

Iena: Ma quando ti rivedi 12 anni fa e pensi a tutto il tempo che è passato, che pensi?

Olindo: Che è passato alla svelta, che quasi 12 anni sono passati alla svelta, tanto tempo…

Iena: Noi possiamo chiederti qualsiasi cosa?

Olindo: Sì…

Iena: Va bene. Olindo, questa per te è un’occasione unica quindi tutta la verità, nient’altro che la verità…

Olindo: Come sono andate le cose. 

Iena: Lo giuri?

Olindo: Sì sì.

Iena: Qual è la cosa più cara che ha Olindo Romano, su cui tu puoi giurare?

Olindo: Eh, mia moglie… 

Iena: Tua moglie, cioè tu giuri su tua moglie Rosa?

Olindo: Sì sì… sì sì lo giuro.

Iena: Per 26 giudici, 3 sentenze, quindi 3 tribunali, tu sei un assassino.

Olindo: Sì.

Iena: Hai ammazzato un bambino di due anni, la madre, la nonna. Hai ferito a morte un vicino e ne hai ucciso la moglie, Valeria Cherubini. Youssef Marzouk, Raffaella Castagna, Paola Galli.

Olindo: Sì… me li ricordo.

Iena: Per tutta Italia tu sei l’assassino spietato che li ha fatti fuori. Perché sei in carcere?

Olindo: Eh, non lo so nemmeno io, forse… perché ci han scambiati per… per quello che non eravamo. Ci han scambiati, sicuramente.

Iena: Gli italiani che ti guardano in questo momento, perché dovrebbero crederti?

Olindo: Ehhhh, perché, come dire, i fatti non coincidono. 

Iena: Non coincidono con cosa?

Olindo: Con tutto quello che è successo, con quelle mezze confessioni comprese.

Iena: È la prima volta che entro in un carcere ed è la prima volta che intervisto un detenuto. Capisci se mi vedi un po’ nervoso… io però vedo anche te che sei un po’ teso…

Olindo: Eh, eh… un po’ agitato sì, per forza…

Iena: Ci guardiamo negli occhi adesso, solo la verità rende liberi, sei stato tu ad uccidere 4 persone la sera dell’11 dicembre 2006?

Olindo: No.

Iena: Nonostante tutti i dubbi di questa indagine, io un pochino devo sperare che tu sia veramente il colpevole. Sai perché?

Olindo: No.

Iena: Perché se tu non fossi il colpevole, avremmo un grossissimo problema in Italia, che riguarda la giustizia. Ma soprattutto avremmo gli assassini di quattro persone a piede libero oggi in Italia. 

Olindo: Eh, beh… sì. Per forza.

Iena: Questa cosa mi angoscia.

Olindo: Questo per forza.

Iena: È più comodo per me pensare che tu sia il colpevole, quindi un pochino io ti guardo e dico “Ma possiamo permetterci che non sia stato Olindo?” Al mio posto ti faresti questa domanda?

Olindo: Eh penso di sì, penso di sì.

Iena: Tu a un certo punto prima di finire in galera, si sospetta di questi famosi vicini di casa…

Olindo: Sì, però non pensavamo di essere noi. Quello è il discorso.

Iena: E chi pensavate che fosse?

Olindo: Beh sinceramente non pensavamo di essere noi, potevamo pensare di qualcun altro per dire, però non… va beh lasciamo stare che non è il caso, non è il caso di…

Iena: In questo momento, è il caso di dire tutto quello che ti passa per la testa.

Olindo: Sì sì, però non… non lo so, di sicuro non pensavamo di essere noi… quello di sicuro, dopo poi di cose se ne possono dire, però a livello come dire, di pettegolezzi…

Iena: Io per primo mi preoccuperei se nel mio condominio sgozzassero quattro persone.

Olindo: Eh lo so, però ehh, cosa devi fare, sei lì…

Iena: Tu prima mi hai detto “Si possono dire tante cose ma preferisco di no…”. Qual era questa cosa che preferisci non dire?

Olindo: Eh… 

Iena: Tanto qua puoi dire tutto quello che vuoi, perché più dell’ergastolo non ti possono dare.

Olindo: No, lo so… 

Iena: Al massimo ti vengo a fare compagnia io dopo, perché portano anche me con te quindi…

Olindo: No però non nella mia cella, io ci sto da solo eh… Come dire, nel senso che: quando vieni accusato ingiustamente e finisci in carcere eccetera eccetera, poi ti guardi bene dal puntare il dito contro qualcuno se non sei più che certo. Allora è meglio lasciar perdere… è quello il discorso.

Iena: Dovevi fare il giudice popolare allora.

Olindo: No no lasciamo stare.

Iena: Non puntare il dito, ma svelami questo segreto.

Olindo: No, ma non è neanche un segreto, però sai, che so io: se mi metto a parlare male di te e lo sente lui, può farsi un’idea sbagliata…

Iena: Dai Olindo!

Olindo: No no lasciamo stare… non è giusto! No non è giusto, non è neanche bello.

Iena: Sei all’ergastolo Olindo… 

Olindo: Eh lo so, però non è…

Iena: E’ giusto che sei all’ergastolo?

Olindo: No, però vabbè non è neanche giusto che vado a sparlare che so io, di qualcuno.

Iena: Ma non voglio che sparli, voglio solo che mi dici il tuo pensiero, dell’epoca, non ti sto chiedendo di dirmi una cattiveria gratuita.

Olindo: Eh lo so, però…

Iena: Quello che ti è venuto in mente.

Olindo: Pensavo che era stato il marito. Ho pensato, però…

Iena: L’ha pensato tutta Italia!

Olindo: Eh lo so.

Iena: Che effetto ti fa sapere che Azouz Marzouk pensa che tu e Rosa siate innocenti?

Olindo: È una cosa buona, ma io penso che lo abbia sempre pensato. Solo che i primi tempi non l’ha mai detto, perché era nei casini anche lui, si trovava in carcere anche lui no? Quindi doveva trovare il modo prima di uscire dal carcere e poi dopo magari avrebbe detto quello che magari ha sempre pensato… 

Iena: Ma quando tu dici “Effettivamente noi pensavamo che era stato il marito”, lo pensavi perché ti risultava che litigassero?

Olindo: Sì! Che litigavano sì, vabbè… una volta siamo andati su anche noi a, come dire, a dividerli…

Iena: Su a casa di Raffaella?

Olindo: Sì sì… una volta… una volta o due sono arrivati anche i carabinieri… sì… 

Iena: Per dividerli.

Olindo: Sì.

Iena: Ma tu hai mai visto Azouz spacciare nella corte di via Diaz?

Olindo: Eh qualcuno, beh sì, di gente ne arrivava, però io non è che… come dire, io non ho mai visto spacciare diciamo, però con il vai e vieni, diciamo ci arrivava di tutto… sì poi, si capiva che c’era anche qualcos’altro oltre alle feste che faceva, però non è che vai a ficcarci il naso.

Iena: Cosa pensi degli assassini che hanno fatto quella strage?

Olindo: Beh… sicuramente erano professionisti, se non han lasciato in giro niente. 

Iena: Se io fossi innocente per prima cosa penserei che sto pagando al posto loro.

Olindo: Sì però… è vero sto pagando al posto loro però…

Iena: Perché litigavate spesso con Azouz Marzouk e Raffaella?

Olindo: Le solite liti condominiali…

Iena: E quand’è che litigate la prima volta?

Olindo: Beh la prima volta, penso dopo un paio di anni…

Iena: Un paio d’anni.

Olindo: Più o meno.

Iena: Però ti ricordi il motivo della prima litigata?

Olindo: Sì, in pratica lei la sera, sul tardi, faceva come delle feste in casa sua. Dove invitava un sacco di gente e praticamente non ti lasciava dormire.

Iena: Perché tu avevi la camera da letto sotto al… 

Olindo: Sotto al soggiorno.

Iena: Che ore erano?

Olindo: Eh andavano avanti fino alle due, le tre e anche le quattro di mattina… io dovevo alzarmi alle cinque. Le prime volte litigavamo, glielo andavo a dire il giorno dopo… poi dopo si arrivava anche a battere con la scopa sul soffitto. E poi siamo arrivati anche a insultarci…

Iena: Con Rosa qualche volta se le sono proprio date, si sono date due schiaffi.

Olindo: No, beh… proprio date date no. 

Iena: Qualche spintone?

Olindo: No, eh no, lo spintone se non sbaglio si riferisce allo stendibiancheria…

Iena: Cioè?

Olindo: Mia moglie aveva messo lo stendibiancheria fuori di casa, poi non so se aveva litigato con la Raffaella, una cosa del genere. Lei è arrivata giù e ha buttato per aria tutto.

Iena: Lei Raffaella?

Olindo: Raffaella… solo che nell’andarsene o nel fare questo movimento è scivolata da sola e lì mi pare che c’aveva fatto la denuncia, che era stata spinta, ma in realtà aveva fatto tutto da sola.

Iena: Che tutti si convincono, sono stati Olindo e Rosa perché? Perché litigavano da tanti anni, ci sarebbe stata da lì a pochi giorni un’udienza in tribunale e…

Olindo: Sì, sì sì sì… 

Iena: Olindo e Rosa sarebbero probabilmente stati condannati…

Olindo: No... 

Iena: Il movente diciamo che erano queste liti, che voi non li sopportavate più.

Olindo: Eh beh come fai a sopportarli? Logicamente dopo non li sopporti più. Dopo, come dire, sei sempre dietro a litigare, sei sempre dietro… però l’avvocato che avevamo per quella causa lì, ci aveva detto che non c’era niente da preoccuparsi perché avevamo tutte le ragioni, ci aveva detto… quindi non…

Iena: A un certo punto però, posso dirti che secondo me l’avete fatta grossa sai quando? Il giorno in cui voi seguite in macchina Raffaella Castagna che è a bordo del treno. Lei se ne accorge, chiama la polizia e vengono i vigili urbani a fermarvi.

Olindo: Ah la polizia locale, sì sì… 

Iena: Cioè perché avete fatto questa cosa? L’avete fatta proprio grossa, dice lei che vi vede dal finestrino del treno.

Olindo: Sì, ma l’abbiamo vista anche noi. 

Iena: Eh ma perché… 

Olindo: Anche io l’avevo vista.

Iena: La stavate seguendo?

Olindo: Nooo, allora… lì così, stavamo facendo quella strada lì perché mia moglie aveva trovato un lavoro… ehh… in una zona lì a Canzo e ci sarebbe dovuta andare a lavorare a breve diciamo. Praticamente eravamo andati a vedere che strada… siccome lei non aveva la patente della macchina no, se era meglio prendere il treno, cioè prendere a Erba e andare su con il treno e poi farsi l’ultimo pezzettino a piedi… in poche parole siamo andati a vedere la strada che avrebbe dovuto fare per andare a lavorare lì.

Iena: Coincidenza c’era…

Olindo: Coincidenza eh… e l’abbiamo fatta, l’abbiamo ripetuta due o tre volte quella strada lì, la Castagna ci ha visto, avrà pensato male e ha chiamato i vigili, ha chiamato…

Iena: Eh però se lei non guida, non fai la strada in macchina. Prendete la corriera.

Olindo: Sì però bisogna vedere anche gli orari del treno, perché c’era il treno, o gli orari del pullman.

Iena: E alla fine che cosa conveniva fare, il pullman o il treno?

Olindo: Alla fine si è messa d’accordo ed è andata a lavorare di pomeriggio e ce la portavo io, alla fine.

Iena: Un fatto che insospettirebbe chiunque, dice questi ce l’avevano talmente in odio che la seguono, la pedinano…

Olindo: No, era per questo motivo, non era per… non era per quello… poi dopo…

Iena: Però che non vi sopportavate me l’hai detto pure tu.

Olindo: Sì sì… quello ci stava… 

Iena: E li avete ammazzati! 

Olindo: No eh, e che vai ad ammazzare uno perché non lo sopporti? Non penso proprio, litigare sì. Litigare ci stava…

Carlo Verdelli per ''la Repubblica'' del 9 settembre 2014. “Meglio l’erba dei vicini dei vicini di Erba”. Cioè, Rosa e Olindo, basta il nome. Oltre al doppio ergastolo, cementato da tre gradi di giudizio; oltre all’iscrizione perpetua tra i mostri della porta accanto; oltre ad essere diventati una specie di marchio d’infamia per etichettare coppie odiabili, Rosa e Olindo sono stati anche lapidati dal sarcasmo popolare. Niente conta che abbiano più volte ritrattato le loro confessioni, attribuendole alle pressioni ricevute in quei giorni funesti. Otto anni dopo la mattanza, resta la scia malata di un ricordo inumano, e una foto incompatibile: Olindo che a un processo, dietro le sbarre, dice qualcosa teneramente a Rosa e lei ride come una bambina felice. Sulla pietra tombale calata su questi sventurati, si è da poco aperta una breccia. Fine dell’isolamento diurno, che tra una cosa e l’altra (pena accessoria, più la necessità di proteggerli dagli altri detenuti, vista l’infamità del crimine) durava da quando la coppia più schifata d’Italia è entrata in un carcere, 8 gennaio 2007, per non uscirne più. Oggi stanno in due prigioni del milanese, lei a Bollate, lui a Opera, si vedono tre venerdì al mese per due ore, che passano tenendosi la mano. Olindo Romano, 52 anni, nome ereditato da uno zio alpino scomparso in Russia nel 1943, è più che ingrassato (ha toccato i 119 chili per un metro e 66), cura un orto da caserma ingentilito da una pianta di rose, si tormenta perché gli sta scadendo la patente, come se davvero un giorno potesse tornare a guidare il suo Eurocargo della spazzatura. Dicono che “non è più in sagoma”, che si fissa sulle cose, che è convinto che prima o poi il signor Frigerio, cioè il testimone che l’ha inchiodato, si ricorderà meglio e lo scagionerà. E poi pensa incessantemente a Rosa, la sua metà, e non è un modo di dire: non ci fosse ancora lei, argine al suicidio, non ci sarebbe più lui. Una simbiosi quasi patologica che include loro e esclude il resto. Rosa Bazzi, 51 anni, mancina (particolare non secondario, visto che alcune delle vittime riportano ferite inferte da una mano sinistra), petulante, bisbetica, con una ossessione per l’ordine tanto apprezzata dalle signore erbesi che serviva a ore, si è adattata al carcere meglio del marito. Non legge niente e non risponde alle lettere, come invece fa lui, perché non sa leggere né scrivere, nonostante una remota licenza elementare. In compenso frequenta la sartoria, dove ha cucito un paio di tendine per la cella di Olindo, che resta la sua preoccupazione centrale. Lei, leader della coppia? Di sicuro è Rosa che con le sfuriate e gli insulti (per altro ricambiati) a Raffaella Castagna e al marito Azouz Marzouk ha cominciato a scavare l’abisso dove sono poi precipitate tante vite, compresa la sua. L’abisso si spalanca lunedì 11 dicembre 2006. Verso le otto di sera, Rosa e Olindo lasciano la loro casetta a pianoterra, scala B, di una ex cascina ristrutturata, venti famiglie affacciate su un cortile chiuso. Hanno un progetto, che poi Olindo spiegherà così: “Non volevamo ammazzarli, solo riempirli di botte”. Fanno una quindicina di metri a sinistra verso il portone accanto, salgono a viso scoperto un piano di scale e in una ventina di minuti sterminano con una sbarra di ferro e due coltelli quattro persone, quasi cinque. Nell’ordine di esecuzione: Raffaella Castagna, 31 anni, figlia inquieta di una delle famiglie bene della città; Paola Galli, 57 anni, madre di Raffaella e nonna di Youssef, 2 anni e tre mesi, trafitto sul divano della sala con due colpi alla gola. Dopo aver appiccato un incendio nelle due camere da letto, i killer trovano sul pianerottolo i coniugi Frigerio, richiamati dal fumo. Li fanno fuori entrambi, solo che lui si salva grazie a una malformazione alla carotide, lei invece, Valeria Cherubini, 55 anni, finisce straziata, con il suo cagnolino Martina asfissiato ai suoi piedi. In tutto, una sessantina di colpi, tra coltellate e sprangate, con schizzi di sangue che arrivano fino al metro e sessanta. Completata la spedizione punitiva, siamo intorno alle 20 e 25, mentre la corte di via Diaz 25 si riempie di pompieri, ambulanze, curiosi, Rosa e Olindo tornano nella loro tana (per raggiungerla devono percorrere a ritroso quei 15 metri allo scoperto, ma nessuno li vede), stipano armi e vestiti insanguinati in tre sacchi neri della pattumiera, li infilano (sempre non visti) sulla loro Seat Arosa grigia, scaricano i sacchi in tre diversi cassonetti e poi vanno a mangiare gamberi e bacon a un McDonald’s di Como. Otto euro e 25 il conto. Timbro dello scontrino: 21.37, un’ora e qualcosa dopo l’ultimo omicidio. Anche se parecchio stretti (mezz’ora di auto, 10 minuti per attraversare la zona pedonale di Como, più il tempo minimo per la cena), gli orari potrebbero forse tornare. O forse no. Nell’incertezza, inquirenti e giurie passano oltre, come su altre incongruenze, dalla sparizione delle armi usate per i delitti al fatto che i Ris di Parma non trovano tracce di Rosa e Olindo né nell’appartamento della strage né sui corpi o tra le unghie delle vittime (qualcuna di loro, Raffaella per esempio, che era una donna piuttosto imponente, deve aver sicuramente lottato prima di soccombere) e nemmeno nella casa degli assassini; in compenso, dalla Castagna, rilevano impronte non appartenenti ad alcuna delle persone presenti sulla scena del crimine, impronte che però non vengono esaminate e quindi restano “non attribuibili”. Persino il luogotenente Luciano Gallorini, capo di lungo corso dei carabinieri di Erba, ha un momento di incertezza. Il primo giorno in carcere, Rosa nega tutto davanti a tutti. Poi chiede di lui, gli si butta tra le braccia e singhiozzando implora: mi aiuti, mi aiuti! “Me lo chiese con così tanta passione”, dirà Gallorini, “che per un attimo ho pensato: magari stiamo sbagliando”. Un attimo fuggente. “La più atroce impresa criminale della storia della Repubblica”, secondo il pubblico ministero Massimo Astori. A commetterla, sempre secondo Astori, oltre a tre Corti della Repubblica, un netturbino corpulento e una minuscola domestica. Sintesi ancora di Astori: “Quei due sono molto più di una coppia. Sono un quadrupede”. Movente dello scatenarsi del quadrupede: sei anni di liti da ballatoio, con i Romano sempre più intolleranti verso la famiglia di sopra, composta da Raffaella, Azouz, il figlio Youssef, più gli amici, stranieri e no, spacciatori di droga e no, che andavano e venivano a tutte le ore.  Troppo chiasso, troppo disordine, troppo. Esasperati, Rosa e Olindo hanno fatto pulizia, che è in fondo il mestiere di entrambi, sperando poi di farla franca con la storia del McDonald’s. Ma il signor Frigerio, quando si è ripreso dal trauma, li ha riconosciuti, prima lui poi anche lei, loro hanno confessato e in 28 giorni il caso si è chiuso. Il 10 gennaio 2007, dalla ricca e devota Erba, gioiello della Brianza alta tra Milano e Como, 7 parrocchie per 17 mila abitanti e 23 sportelli bancari (il doppio della media nazionale), si leva un sospiro di sollievo che si estende come un’eco all’intero Paese. Poi, rapidamente, si fa largo un altro sentimento, almeno tra gli erbesi: il disgusto per la vicenda che ha sporcato la reputazione della città. Quando pochi mesi dopo la tragedia, Pino Corrias va lì a presentare il suo documentato e dolente libro-inchiesta “Vicini da morire” (Mondadori, ottobre 2007), a differenza che in molte altre piazze, trova ad accoglierlo una sala vuota. “Io vengo da Reggio Calabria e là c’è omertà perché la gente ha paura. Qui lo stesso, ma perché non vuole fastidi”. Fabio Schembri, 47 anni, avvocato (senza cravatta, capellone, gran fumatore), è una mosca bianca e forse avventata. Si aggira tra via Diaz e la vicina piazza Mercato, da dove secondo lui potrebbero essere passati i veri killer, con una frustrazione che il tempo non attenua. Insieme alla collega Luisa Bordeaux, è tra i pochissimi ad essere convinti che Rosa e Olindo siano innocenti. “Erano i tonti del villaggio, non avrebbero avuto né la testa né la forza per combinare quel disastro. Il problema è che le altre piste possibili sono state archiviate in fretta, neanche battute in verità, una voragine investigativa. Ma un colpevole bisognava trovarlo. E quei poveri cristi, senza parenti né amici, indifesi e indifendibili, erano perfetti. Pensi che il giorno dell’arresto è Olindo che telefona ai carabinieri perché la corte è piena di giornalisti e lui teme che possano danneggiargli il camper parcheggiato davanti alla lavanderia, e Rosa chiama la signora dove doveva andare a servizio profondendosi in scuse perché era costretta a saltare l’impegno. I carabinieri, che già li stavano andando a prelevare, li scaricano davanti al Bassone di Como. Olindo li guarda stupito: in carcere? Io e la Rosa? Ma perché? Risposta: buona fortuna”. Schembri è il secondo avvocato di Rosa e Olindo, quello che li ha accompagnati in tutti i processi, perdendoli. Gratis, comunque, visto che il poco che i due avevano, compresa la casa valutata 70 mila euro, è stato venduto per risarcire le parti civili. Quanto al primo avvocato (assegnato d’ufficio), Pietro Troiano, dura sei mesi, punta sulla perizia psichiatrica e sul rito abbreviato “data la sovrabbondanza di prove”.  La prima non la otterrà, né lui né il suo successore, ed è abbastanza sconcertante, visto il caso. Il secondo nemmeno, perché nel frattempo i suoi assistiti cominciano a maturare il sospetto di essere stati incastrati e cambiano strategia. Ma incastrati da chi? Anche se è un calcolo senza senso, le persone che nell’inferno brianzolo hanno perso di più sono Carlo Castagna (figlia, moglie, nipotino) e Azouz (moglie e figlio). Due uomini agli antipodi. Il primo, 70 anni, è un mobiliere superlativo in tutto: soldi, fede, filantropia. Vox populi: a Erba non si muove foglia che il signor Carlo non voglia. Sposato dal 1968 con Paola, donna altrettanto perfetta e pia, hanno tre figli, due maschi (Pietro e Giuseppe) di 44 e 40 anni, impegnati a seguire le orme di tanto padre, e la più piccola, Raffaella, “una che vuole salvare il mondo”, frequenta centri sociali e immigrati, diventa amica di “quelli che vendono le zebre al mercato”. A 23 anni esce di casa, papà gli compra la casa di via Diaz, poi le cose si complicano quando non solo si innamora di Azouz, un tunisino che vive ai margini della legalità e oltre, ma lo sposa pure e ci fa un figlio, nato il 6 settembre 2004. E’ Youssef, così descritto dallo zio Pietro nel libro di Corrias: “Era una specie di cartone animato, bellissimo, allegro”. Un piccolo ponte fragile, destinato magari nel tempo a sanare la rottura tra l’erede ribelle e la parte maschile dei Castagna, rottura che invece di rimarginarsi si dilata: Azouz spesso picchia e maltratta Raffaella, finisce anche in carcere per spaccio di droga (sconta solo 16 mesi grazie a un indulto) ma lei annuncia lo stesso alla famiglia che vuole trasferirsi presto in Tunisia, e con la parte di patrimonio che le spetta. Nel periodo della strage, il ponte prova comunque a farlo nonna Paola, che prende il nipotino quando la figlia è al lavoro (un part time pomeridiano in una casa per anziani disabili a Magreglio), gli prepara la cena, poi lo riporta a sera dalla figlia. Così anche “quella” sera, solo che stranamente Paola lascia a casa borsetta e telefonino, guida in ciabatte e dimentica la porta della Lancia K aperta nel cortile di via Diaz. Dove sta correndo? Il marito di Raffaella ne ha combinata un’altra? Azouz Marzouk ha 26 anni all’epoca. Viene da una buona famiglia tunisina di Zaghouan, 30 chilometri dal mare di Hammamet. Emigra sognando la Germania, finisce in Brianza dove già sta il fratello Salem, che gli somiglia come un gemello. Incontra i giri della droga e Raffaella, non separandoli. Visto il tipo, i precedenti penali, la risaputa violenza di lui verso la moglie, il procuratore capo di Como Alessandro Mario Lodolini, a botta calda, annuncia: “Sospettiamo che l’autore dei delitti sia il marito”. Peccato che “il marito” sia da una settimana in Tunisia dai genitori. Una partenza disastrosa delle indagini che metterà ansia e fretta a chi investiga. Si ipotizzano tre piste: rapina, vendetta trasversale nel mondo dello spaccio, faida familiare. Muoiono tutte sul nascere quando Carlo Castagna, dopo aver commosso l’Italia ai funerali (“Perdono chi ha ucciso, lo devo a Dio e ai miei morti”), butta lì al luogotenente Gallorini il nome di Olindo: “La sera del fatto ebbi modo di vederlo tra la gente e da allora ho un cruccio che mi fa pensare a lui”. Il cruccio diventa molto più pesante quando Mario Frigerio, oggi settantenne, ripete quel nome: Olindo. In realtà non ci arriva subito. Appena si riprende in ospedale, il 15 dicembre, dice di non conoscere chi l’ha colpito e fornisce un identikit che porta altrove: tanti capelli corti neri, occhi scuri, carnagione olivastra (Olindo ha pochi capelli radi, occhi verdi, pelle bianco latte). Dieci giorni dopo, però, la memoria cambia: “E’ stato un vicino, l’Olindo. Non volevo crederci ma adesso mi è chiaro”.  Fatalità vuole che proprio lo stesso giorno, il 26 dicembre, venga rinvenuta una macchiolina sul predellino della Seat dei Romano: il dna è di Valeria Cherubini. Con tutto il sangue colato in cortile dopo i getti d’acqua dei pompieri, e con tutto il sangue che gli assassini, per quanto “ripuliti”, devono essersi portati in auto, sembra persino poco che sia resistita solo quella traccia. Comunque, solo quella. A chiusura del cerchio, nel febbraio 2008, quando si sta istruendo a Como il processo di primo grado, sempre Frigerio aggiungerà di aver visto, quella sera, “una seconda persona, una donna, quasi sicuramente Rosa Bazzi”. Nel maggio 2011, pur confermando gli ergastoli, la Cassazione alza un sopracciglio su queste parole, definendole “oggettivamente vischiose”, e più in generale sull’intera inchiesta: “Numerosi sono i dubbi e le aporie che si addensano sul caso”. A spazzarli via tutti, dovrebbe bastare, ed è bastata in giudizio, la doppia confessione del “quadrupede” Romano, datata 10 gennaio, 2 giorni dopo l’arresto, un mese dalla strage. Ma anche lì qualcosa stona. Il prima, innanzitutto. Olindo ha appena avanzato alle autorità che l’attorniano richieste insensate: una cella matrimoniale, poi la scarcerazione di Rosa, quindi il suo breve trasferimento in un ospedale psichiatrico, quindi tutti a casa. Il tragico è che deve aver ricevuto qualche tipo di rassicurazione.

Olindo: Ciccia, ho parlato col magistrato. Mi ha detto che se vogliamo fare finire questa storia qui… Di dire la verità.

Rosa: Ma non c’è niente da dire, niente. Olli, hanno fatto tutto loro.

Olindo: Loro mi hanno spiegato un po’ la situazione in termini pratici...

Rosa: Olli, non siamo stati noi.

Olindo: Lo so, aspetta, è per tagliare le gambe al toro. Io becco le attenuanti e finisce tutta la storia.

E così Olli taglia il toro. A modo suo, con una ricostruzione che contiene 243 buchi, tra “non ricordo”, errori nel posizionamento delle vittime, nel numero dei colpi, assenze sui punti più insopportabili (“Perché il bambino? Non lo so”). A rileggerla per intero, o siamo davanti a un attore formidabile, e quindi l’ergastolo è ancora poco, oppure un po’ di aporia postuma è giustificabile. Ne è venuta anche ad Azouz, che intanto si è risposato con una ragazza di Lecco, con cui ha avuto una bambina, e vive da espulso in Tunisia: “Prima pensavo diverso ma mi sono convinto che Rosa e Olindo stanno solo pagando per la loro ingenuità. Prego il signor Frigerio di dire la verità”.  Quale altra verità, per esempio? Il sostituto procuratore di Como Massimo Astori, che all’epoca condusse indagini e accusa, è serenissimo: “Mai avuto un’incertezza. Una tribù ha invaso lo spazio di un’altra, che ha reagito con una vendetta primordiale, conclusa col fuoco. L’unico rammarico è di non aver fatto filmare la Bazzi mentre raccontava come ha sgozzato il bambino, il gesto che ha fatto. Mi creda, da brividi”. Comprensibilmente, l’avvocato Schembri immagina una scena diversa, che però non è andata in aula. Qualcuno toglie la luce alla casa di Raffaella verso le 18. Una coppia di siriani che abita sotto di lei, sente dei passi leggeri dalle 18.30 alle 20. Se così fosse, essendo la serratura intatta, vuol dire che chi è entrato dalla signora Castagna aveva le chiavi, ha frugato per cercare qualcosa e poi nel buio ha aspettato il suo rientro. Intorno alle 20, i siriani avvertono un altro sonoro: mobili spostati, urla, lamenti. Sei-sette minuti e di nuovo tace tutto. Poi il fumo dell’incendio, il chiasso sul pianerottolo, che coincide con l’assalto ai Frigerio. Intanto, dall’esterno, l’abitante di un palazzo di via Diaz affacciato alla finestra e un algerino che sta in Piazza Mercato notano la stessa cosa: due extracomunitari fermi tra la via e la piazza, raggiunti a incendio in corso da un uomo con il cappotto lungo fino alle ginocchia e una berretta scura. All’algerino sembra di riconoscerlo, forse è italiano, certo non l’Olindo, ma al momento del processo non si presenta a dirlo. Era in carcere per droga a Modena, ma nessuno l’ha cercato e quindi è risultato irreperibile. E poi, francamente, la credibilità di uno spacciatore non è altissima. Su tutta la vicenda pende da due anni un ricorso alla Corte di Strasburgo e, a breve, una richiesta di revisione a Brescia. Intanto Olindo Romano, nella sua cella di Opera, ha studiato una dama rivoluzionaria dove si gioca in tre o anche in quattro. Improbabile, anzi impossibile, come il sì di Strasburgo o di Brescia. Ma per la metà di un “quadrupede”, abituato a pensare sempre e solo per due, un indiscutibile passo avanti. 

 “C’è gente che ha visto gli assassini di mia moglie e di mio figlio. E non si trattava di Olindo e Rosa. Nel commando della strage di Erba erano tutti italiani”. Uomini bene addestrati che massacrarono quattro persone e ne ferirono una quinta nel giro di appena 20 minuti. Appiccando, nello stesso lasso di tempo, un incendio per fare sparire le tracce. Torna a parlare della strage di Erba, Azouz, ma stavolta aggiunge nuovi dettagli a Nicoletta Appignani su “La Notizia: i suoi contatti con alcuni testimoni oculari, le sue indagini, perfino di conoscere la descrizione precisa di uno dei presunti assassini. Ora si trova in Tunisia, il marito e padre di due delle vittime, espulso dall’Italia per reati legati alla droga ed estradato nel suo paese. Sostiene l’innocenza dei Romano, al punto da essersi rivolto all’avvocato Luca D’Auria per depositare un ricorso a Strasburgo. Raggiunto telefonicamente, ora Marzouk spiega finalmente a La Notizia quali siano le ragioni che l’hanno spinto a dubitare dei risultati dei processi. “È tutto nelle carte – racconta – l’insieme di elementi che potrebbero condurre ai veri killer. Comprese le impronte mai analizzate. Ci sono troppi dettagli che non tornano: gli assassini sono entrati in casa nostra senza rompere nulla, i vicini hanno iniziato a sentire rumori nel nostro appartamento già dalle 18.30 del pomeriggio. Ed è tutto nei verbali. Basterebbe leggerli senza pregiudizi. Invece si sono sempre basati su prove dubbie: una microtraccia di sangue nella macchina di Olindo e Rosa, che potrebbe essere finita lì in mille modi e che non è neanche stata fotografata al momento del rilievo”.

Però c’è un testimone. Mario Frigerio, l’unico sopravvissuto. Perché il suo appello a “dire la verità”?

“Per le contraddizioni. Una persona riconosce subito l’aggressore nel suo vicino di casa. Invece Frigerio prima ha dichiarato di non conoscerlo, che non era neanche della zona. Ha dato una descrizione che non corrispondeva minimamente a Olindo. Poi invece ha detto che si trattava di lui”.

Sua madre ha ricevuto una strana visita in Tunisia. Cosa le disse?

“Mi avvertì che qualcuno si era presentato a casa dicendo che i Romano con la strage di Erba non c’entravano. E poco prima che la Corte di Assise di Como si riunisse in camera di consiglio, chiesi di testimoniare. Volevo dire di svolgere altre indagini. Poi però mi sono tirato indietro su consiglio del mio legale. Diceva che non sarei stato preso sul serio. Solo in seguito ho deciso di prendere una posizione, ho cambiato avvocato e con il mio attuale legale, Luca D’Auria, ho depositato il ricorso a Strasburgo. Sono davvero convinto che Olindo e Rosa siano innocenti”.

Ha sospetti su chi possa essere stato a commettere la strage?

Appena ho potuto sono andato a cercare le persone che avevano parlato con mia madre, per saperne di più. E loro mi hanno riferito che la sera della strage videro alcune persone allontanarsi dal cortile e dirigersi verso piazza del Mercato. Erano italiani e uno l’hanno visto bene. Allora ho cercato di convincerli a testimoniare, ma non hanno voluto, dicono che hanno paura della giustizia italiana, soprattutto perché sono extracomunitari.

Lei non ha mai provato a cercare le persone di cui le hanno parlato?

“Sì ma poi sono stato espulso. E comunque non era compito mio. Sarebbe bastato visionare i nastri delle telecamere che si trovavano nella piazza. C’erano. Eppure nessuno li ha mai guardati, come per i video del Mc Donald’s di Como, dove si trovavano Olindo e Rosa quella sera”.

Ha mai pensato che gli omicidi potessero essere una ritorsione nei suoi confronti?

“Questa è un’accusa che mi hanno mosso molte persone. Ma io non ho mai avuto problemi o denunce. Né ho mai fatto finire qualcuno nei guai. Le persone dovrebbero credere in quello che dico: non ho nulla da nascondere. Non ho mai spacciato, anche se sono stato arrestato. C’è anche chi crede che a causa di problemi in carcere possano avermi preso di mira, ma in prigione esiste un codice: donne e bambini non si toccano. Quindi sarebbero venuti a cercare direttamente me, non la mia famiglia. E non cerco di passare da santo, a differenza di molte altre persone che in questa storia ci hanno provato. Io sono una vittima: ho perso mia moglie e mio figlio, un bambino di due anni, tre mesi e due giorni. A questo punto io cerco solo la verità”.

Non si arrendono i sostenitori dell’innocenza di Olindo Romano e della moglie Rosa Bazzi, definitivamente condannati all’ergastolo come autori della strage di Erba, l’11 dicembre del 2006. La notizia, rimbalzata via internet, riguarda la costituzione di un "Comitato Rosa - Olindo:”giustizia giusta", fondato dall'avvocato Diego Soddu e dai giornalisti Paola Pagliari e Cristiana Cimmino, quest'ultima già autrice di una pubblicazione, "Finché morte non ci separi", che raccoglie le lettere di Rosa e Olindo dal carcere. Secondo i sostenitori dell'innocenza della coppia, «il Comitato ha come scopo principale quello di promuovere le iniziative e le attività che ritiene idonee al fine di dimostrare l'ingiusta condanna di Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano, attualmente condannati all'ergastolo. Sono campi di intervento del Comitato tutti quelli in cui si può impegnare in una lotta civile contro le forme di ignoranza, intolleranza, preconcetti, emarginazione e discriminazione nei confronti di Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano». Tra i propositi ci sono quelli di organizzare convegni, dibattiti, riunioni, di lanciare petizioni, raccolte pubbliche di adesioni, fondi e firme. I due coniugi erbesi, lo ricordiamo, furono riconosciuti, dopo tre gradi di giudizio, colpevoli di una delle più orrende stragi dell'Italia del Dopoguerra. Persero la vita una giovane mamma, Raffaella Castagna, all'epoca 30 anni, disoccupata, volontaria in una comunità di assistenza a persone disabili, colpita con una spranga e da dodici coltellate; Paola Galli, 60 anni, casalinga, madre di Raffaella, lei pure uccisa a colpi di coltello, e la vicina di casa Valeria Cherubini, 55 anni, commessa, accorsa per prestare aiuto. Con un unico colpa alla gola, Rosa Bazzi assassinò il piccolo Youssef Marzouk, un bambino di due anni e tre mesi, figlio di Raffaella. Il marito della Cherubini, Mario Frigerio, 63 anni, si salvò per un miracolo. La sua testimonianza si rivelò fondamentale per la condanna degli assassini.

Sono ormai passati più di sei anni da uno dei delitti più efferati, la strage di Erba, ma nonostante la confessione dei due colpevoli, i coniugi Olindo e Rosa Romano che abitavano nello stesso palazzo in cui sono avvenuti i fatti, c'è chi li difende e ha deciso di fondare anche un comitato a loro sostegno. E' sempre difficile riuscire a dimenticare un caso di cronaca particolarmente grave nonostante il passare degli anni e il delitto di Erba è certamente uno di questi proprio perchè a causa di alcune liti di condominio due coniugi, Olindo e Rosa Romano, che sono ora stati condannati all'ergastolo, hanno deciso di agire con grande crudeltà attraverso coltellate e spranghe uccidendo quattro persone, tra cui anche il piccolo Youssef, che al tempo aveva solo due anni e mezzo e senza mostrare alcun tipo di pentimento. A distanza di qualche anno Carlo Castagna, che con questo delitto ha perso moglie, figlia e nipotino, ha trovato la forza di perdonare comunque gli assassini, anche se ben diversa è la reazione di Azouz Marzouk, il suo ex genero, che non solo si è ricostruito una famiglia, ma clamorosamente è arrivato addirittura a ipotizzare che i colpevoli non siano Rosa e Olindo. Il parere de tunisino, pur essendo sorprendente, non è però l'unico e lo dimostra anche la nascita di un comitato nato in loro dfesa chiamato appunto "Comitato Rosa - Olindo: giustizia giusta", che si pone proprio l'obiettivo quello di promuovere una serie di iniziative e attività volte a dimostrare l'ingiusta condanna della coppia. Si tratta comunque di un progetto apolitico e apartitico nato dall'iniziativa dell'avvocato Diego Soddu e delle giornaliste Paola Pagliari e Cristiana Cimmino, autrice del libro "Finchè morte non ci separi", che raccoglie proprio le lettere che i due si son scambiati da quando sono rinchiusi in carcere a dimostrazione che il loro legame, per quanto li abbia portati a compiere un atto tanto grave, non ha scalfito minimamente il loro amore. Da qui in avanti si proverà quindi a lottare contro ogni forma di ignoranza, intolleranza, preconcetti, emarginazione e discriminazione nei confronti di Rosa Angela Bazzi e Olindo Romano. Chi lo vorrà potrà quindi aderire a questa iniziativa attraverso la partecipazione a dibattiti, convegni, riunioni o raccolte fondi che saranno organizzati nei prossimi mesi.

Azouz Marzouk scagiona Olindo e Rosa: "Non hanno ucciso loro Youssef e Raffaella". Una rivelazione che può riaprire il processo. Il marocchino pensa che i due assassini della moglie e del figlio non sono i vicini di casa.

Parole che fanno discutere. I colpevoli non sono più colpevoli. Una rivelazione che può ribaltare una sentenza. Azouz Marzouk torna a parlare sulla strage di Erba. La sua dichiarazione lascia molte ombre su quello che è successo in quelle sera quando morirono il figlio Youssef, di 2 anni e la moglie Raffaella Castagna, e la suocera. Per l'omicidio sono stati condannati Olindo Romano e Rosa Bazzi, che per discussioni condominiali avevano deciso di fare fuori un'intera famiglia. Ora Marzouk parla e mette in dubbio la colpevolezza di Olindo e Rosa: "Loro non sono i colpevoli, sono solo dei poveretti che stanno pagando la loro ingenuità. Credo che giustizia non sia stata fatta – spiega al quotidiano “Il Giorno” a firma di Gabriele Moroni -. Ogni volta che ci penso, mi vengono in mente particolari che mi convincono che a ucciderli non siano stati i Romano”. Azouz vorrebbe la riapertura del procedimento per dimostrare che i due vicini non hanno compiuto la strage. “Ci sono dei colpevoli in giro e degli innocenti in galera. Prima o poi farò uscire la verità”. Su Erba il sipario non cala mai. «Olindo e Rosa sono innocenti. Mi batterò perché la loro innocenza venga a galla». Azouz Marzouk sei anni dopo. A sei anni dalla strage di Erba, quell’11 dicembre di orrore infinito, nella casa di ringhiera, grande come un falansterio, in via Diaz 25/C. Il giovane tunisino, marito, padre e genero di tre delle quattro vittime, parla da Zaghouan, la cittadina dove vive. E va oltre. La Cassazione si preparava a confermare l’ergastolo ai coniugi Romano, i vicini di casa che si erano autoproclamati giustizieri, e già Azouz auspicava una rilettura dell’inchiesta. Oggi Marzouk compie un passo in più. «Credo - dice scandendo le parole nell’italiano corretto di sempre - che giustizia non sia stata fatta. Ogni volta che ci penso, mi vengono in mente in mente particolari sia del processo sia della vita passata di mia moglie e di mio figlio che mi convincono che a ucciderli non sono stati loro, i Romano. Vedremo per un nuovo processo». Lancia quella che suona come una sfida. «Non ho mollato il processo. Chi pensa che mi sia fatto da parte si sbaglia. Prima o poi farò uscire la verità». L’ex netturbino di Erba e la moglie, la colf maniaca di ordine e pulizia, sono allora due innocenti murati nel carcere a vita? Azouz denuncia il suo parere assolutorio: «Sono dei poveretti che stanno pagando la loro ingenuità. Ci sono dei colpevoli in giro e degli innocenti in galera. Lo so perché ho passato anch’io il carcere da innocente, sottolineo da innocente». Una nuova moglie conosciuta a Lecco, una bambina, la proprietà di un minimarket nella sua città. Quanto pesa il passato sulla vita che ha ricominciato? «Porto nel cuore la breve vita che abbiamo passato insieme, io, Raffa, nostro figlio. La ripercorro almeno una volta la settimana per non dire tutti i giorni. L’amore per loro non lo può cancellare nessuno. L’uomo non è un computer a cui è possibile cancellare la memoria». Quella sera acqua mista e sangue lungo le scale, ristagnava nell’ampio cortile. Nell’appartamento al primo piano i corpi massacrati di Raffaella Castagna, della madre Paola Galli, del piccolo Youssef, due anni, sgozzato, riverso su un divano. Valeria Cherubini, la premurosa vicina, era vissuta giusto il tempo di risalire le scale, nove gradini, un pianerottolo, un’altra rampa e altri nove gradini, inseguita dal coltello assassino, per andare morire nella sua mansarda. Un uomo contemplava il massacro della sua famiglia: Carlo Castagna, il marito di Paola, il padre di Raffaella, il nonno di Youssef. Uomo di lavoro e di fede. Lì affonda la sua serenità, la stessa che usa per commentare le affermazioni di Azouz: «Non ho parole. Rispetto la sua posizione, anche se non riesco a capire cosa lo abbia indotto a prenderla. Mi pare incredibile, dopo tre gradi di giudizio. Come mi pare incredibile il ricorso della difesa a Strasburgo, come se non si avesse fiducia nella magistratura italiana. Vado avanti. Vivo nel ricordo di quelli che ho perduto, nella speranza e nell’attesa di raggiungerli. Nella vita ho messo il fieno in cascina con mia moglie Paola. Tanto fieno. Mi ha aiutato a passare questi inverni gelidi». Il coltello che gli trapassa la gola e recide una corda vocale. Nelle orecchie le invocazioni di aiuto della moglie. Mario Frigerio, il marito di Valeria Cherubini, è l’unico sopravvissuto. Ha lasciato Erba, vive in una paese vicino (ancora in via Diaz), a pochi passi dalla casa di Elena, la figlia dolce e forte. «Il nostro dolore - dice Elena - lo teniamo tutto dentro. La sofferenza è ancora tanta, tanto grande che è difficile esprimerla a parole». La truce saga di Erba forse non è ancora conclusa. Il difensori di Olindo e Rosa tenteranno di ottenere un nuovo processo. «Stiamo lavorando - dice l’avvocato Fabio Schembri - per la revisione. Abbiamo raccolto elementi interessanti, nuove dichiarazioni».

Azouz Marzouk: "Rosa e Olindo innocenti, il vero assassino è libero", scrive di Francesco Borgonovo il 21 luglio 2016 su “Libero Quotidiano”. In quel teatro degli orrori conosciuto alle cronache come la «Strage di Erba», Azouz Marzouk è uno dei personaggi più disturbanti. Ambiguo, opaco, dotato di una carica negativa e ammantato di una luce nera. Una vittima, certo. Ma non solo. Senz' altro un protagonista, anche perché ha voluto a tutti i costi stare sotto i riflettori, a un certo punto ha provato anche a trarre profitto dalla sua condizione, e questo non ha giovato alla sua immagine. L'11 dicembre del 2006 - il giorno del sangue - era in Tunisia, dove è nato nel 1980, per far visita alla sua famiglia. Dunque, non è colpevole. Ma forse sa più di quel che dice, o forse millanta di sapere quello che non sa: decifrarlo non è semplice. Resta che le sue affermazioni aprono sempre voragini, spalancano interrogativi senza risposta. Nel maledetto giorno di dicembre di dieci anni fa Azouz non era in Italia. Intanto, nella corte di via Diaz a Erba, si manifestava uno scampolo di inferno. Quella sera, Azouz perse la sua compagna Raffaella Castagna e suo figlio, il piccolo Youssef, di appena due anni. Furono ammazzati a sprangate e coltellate, con furia bestiale. Assieme a loro, morirono anche Paola Galli, madre di Raffaella e suocera di Azouz, e Valeria Cherubini, una vicina di casa. Il tempo passa, i mesi si sommano ai mesi, e su quella carneficina gravano ancora tanti dubbi, in primis quello riguardante l'identità dei veri colpevoli. Già, perché i tribunali hanno indicato in Rosa Bazzi e Olindo Romano gli autori del massacro, eppure le sentenze non hanno illuminato tutti i luoghi oscuri. Ad Azouz, nel frattempo, ne sono successe di tutti i colori. Sono emersi i particolari torbidi del suo passato. Storie di droga e criminalità, l'espulsione dall'Italia, i tentativi raccapriccianti di procacciarsi un po' di celebrità sfruttando la mattanza dei suoi cari. Infine il matrimonio, nel 2009, con l'italiana Michela Lovo. Ora Azouz vive in Tunisia, per sbarcare il lunario, dice, fa il fotografo ai matrimoni. Sorte beffarda, per lui che voleva vedere stampate le sue, di foto, sui giornali di gossip. Non potendo mettere piede qui, si fa raggiungere dalla moglie appena possibile. Sono una famigliola felice, pare. Hanno due figlie, una terza in arrivo. Ma qualcosa turba Azouz: i mostri del passato. Le macchie che non riesce a lavare via tornano a perseguitarlo, e gli fanno temere per la sua sorte e per quella dei suoi cari. Il tunisino, dopo mesi di silenzio, ha deciso di parlare con i cronisti di Telelombardia. Lo ha fatto via Skype, e la sua intervista integrale andrà in onda questa sera nel corso della trasmissione Iceberg Lombardia condotta da Marco Oliva. Libero è in grado di anticipare i dettagli della conversazione, per molti versi inquietanti. Marzouk, infatti, da tempo si dice convinto che sulla strage di Erba non sia emersa la verità. Secondo lui, insomma, i colpevoli non sono Rosa e Olindo. Non solo non lo convince il romanzo horror dei vicini di casa assassini del profondo Nord. «Non sono convinto di tutto il processo», spiega. «Ancora ho dei dubbi, secondo me gli assassini sono ancora fuori». Poi sospira: «La mia vita è iniziata in salita ed è rimasta in salita». I mostri sono ancora lì, incubi che non se ne vogliono andare. Dal suo Paese Natale, Azouz esibisce il suo italiano non proprio perfetto, e parla di indagini e processi. «Ci sono dei punti che non sono chiari, quindi a uno gli viene il dubbio. Io vorrei togliermi questi dubbi», dichiara. Già, i dubbi. Per esempio quelli sulla confessione di Olindo e Rosa. Per Marzouk, non regge alla prova dei fatti, contiene troppi «non lo so o boh o non ricordo». Poi c' è la questione della vicina di casa. I soccorritori hanno detto di aver udito i suoi lamenti, quell' 11 dicembre. Ma forse qualcosa non torna. Secondo Azouz, il punto da chiarire riguarda «la testimonianza dei Vigili del fuoco». «Sentivano Valeria Cherubini che gridava "aiuto! aiuto!"», ricostruisce, «e il medico legale dice che il taglio che ha sulla gola non le permette nemmeno di parlare. Quindi c' è qualcosa che non va anche lì». Ma, soprattutto, al tunisino non va giù che non siano «stati analizzati gli indumenti di Youssef». Quella è stata «una sciocchezza», dice. Sui vestitini del suo bimbo che non c' è più potrebbe esserci la chiave di volta di tutta la vicenda, almeno di questo è convinto Azouz. «Sento che c' è qualcuno che ci sta ostacolando», racconta ai microfoni di Telelombardia. E aggiunge parole sibilline: «Se uno veramente si sente onesto, di aver fatto il suo lavoro bene, non gli cambia niente nel fare gli esami sui vestiti di Youssef, su quel famoso pelo che è stato trovato. Potrebbe essere dell'assassino». Ma chi è questo assassino che ancora si muove «la fuori»? Da dove viene? Marzouk non lo dice. Fa capire, però, di essere terrorizzato. «Temo sicuramente per la mia nuova famiglia», spiega. Racconta di provare terrore ogni volta che non è assieme alla moglie e alle sue bambine. «Ho paura», ripete. Forse non vorrebbe aggiungere altro, ma il cronista lo incalza, e lui si lascia sfuggire un'altra dichiarazione strana. «Ho paura che magari succede ancora quello che era successo nel 2006». Ha paura che accada di nuovo, Azouz. Teme che qualcuno possa accanirsi sulla sua compagna e le sue piccole. «Piuttosto di fargli del male prima devono eliminare me», ruggisce. Prima di chiudere il collegamento via Skype, Azouz afferma di essere disposto «a depositare la mia testimonianza». Altro non aggiunge. Ma i suoi timori parlano per lui. La luce ancora non illumina i luoghi oscuri di Erba.

Strage di Erba, Rosa e Olindo sono innocenti? Verso la revisione del processo scrive il 23 aprile 2017 Roberto Ragone su osservatoreitalia.eu. E’ la sera dell’11 dicembre 2006, all’incirca 20 minuti dopo le 20, al numero 25 di via Diaz, a Erba, in provincia di Como. La vecchia corte ristrutturata è composta da alcune palazzine, ed è nota come Condominio del Ghiaccio. All’improvviso da una delle finestre si alza una densa colonna di fumo. Due vicini di casa, uno dei quali pompiere volontario, intervengono, ed entrano nella palazzina. L’incendio è al primo piano. A ridosso del primo piano trovano un uomo ferito, Mario Frigerio. Ha la testa nell’appartamento, e il corpo fuori, è prono, e lo trascinano al di fuori dell’appartamento in fiamme.

Subito all’interno dell’appartamento brucia il corpo di una donna: è Raffaella Castagna. I soccorritori trascinano anche lei lontano dall’incendio, sul pianerottolo, spegnendo le fiamme che lo avvolgono. Dal piano superiore odono la voce di una donna che ripetutamente e disperatamente chiede aiuto. È Valeria Cherubini, la moglie di Mario Frigerio, il quale, senza poter parlare perché ferito alla gola, indica ai due che un’altra persona si trova di sopra. Le fiamme sono alte, il fumo sempre più denso, e i due devono abbandonare l’impresa. Solo all’arrivo dei Vigili del Fuoco vengono scoperti in totale quattro cadaveri e un ferito grave, Mario Frigerio, che viene trasportato all’ospedale Sant’Anna di Como. Sottoposto a diversi interventi, si risveglia dall’anestesia dopo due giorni. Raffaella Castagna, la donna il cui corpo era in fiamme, 30 anni, moglie di Azouz Marzouk, è stata colpita al capo con una spranga di ferro, accoltellata dodici volte e poi sgozzata. È morta per la frattura del cranio.

La madre di Raffaella, Paola Galli, 60 anni, viene trovata all’interno dell’appartamento, anche lei colpita a sprangate e accoltellata. Il decesso è avvenuto per frattura del cranio. Il piccolo Youssef Marzouk, figlio di Raffaella Castagna e di Azouz Marzouk, due anni e tre mesi è morto dissanguato sul divano, dopo aver ricevuto un’unica coltellata che gli ha reciso la carotide. Al piano di sopra, nel sottotetto, giace il corpo di Valeria Cherubini, 55 anni, moglie di Mario Frigerio. Nonostante la violenta colluttazione con il suo aggressore, ha subito 8 colpi di spranga e 34 coltellate, una delle quali le ha reciso la lingua. All’arrivo dei soccorsi, la donna aveva gridato più volte chiedendo aiuto, e si era trascinata lungo le scale lasciando una impressionante scia di sangue, è morta per asfissia da ossido di carbonio, prima che la morte intervenisse per la gravissime ferite riportate. Morto per asfissia da monossido di carbonio anche il cane di casa.

Mario Frigerio, colpito più volte con una spranga e accoltellato, è sopravvissuto grazie ad una malformazione congenita della carotide, che ne ha impedito il dissanguamento.

I rilievi evidenziarono che l’aggressione era stata opera di due persone, una delle quali mancina, armate di spranga e di coltelli a lama lunga e corta. Date le modalità islamiche delle esecuzioni, la prima persona sospettata è il marito di Raffaelle Castagna, Azouz Marzouk, 26 anni, tunisino, pregiudicato per spaccio di droga, da poco uscito dal carcere per indulto.

Le successive indagini dimostrano che Marzouk era all’estero, in Tunisia da alcuni giorni, in visita ai genitori, per un viaggio programmato da tempo. Gli investigatori incominciano a pensare ad una vendetta nei suoi confronti. Nell’appartamento situato sotto a quello della strage abitano due coniugi senza figli, di mezz’età. Lei, Rosa Bazzi, ha 42 anni e lui, Olindo Romano, 44. Rosa lavora come donna delle pulizie, lui è dipendente di una ditta di raccolta e smaltimento rifiuti. È una coppia particolare, che vive in simbiosi. Hanno un camper, con il quale ogni tanto fanno dei piccoli viaggi. Non hanno amici, non hanno parenti, non hanno figli.

Il loro regno è la loro casa, insieme, sempre insieme. Il Pubblico Ministero Massimo Astori, li definirà “Un quadrupede”. Una coppia tranquilla, che da sempre soffre la presenza di una famiglia ‘rumorosa’ come quella che abita al piano di sopra, e con cui più volte ha avuto delle liti. Per il 13 dicembre, due giorni dopo l’eccidio, è fissata l’udienza per la causa civile con Raffaella Castagna, che ha denunciato la coppia per ingiurie e lesioni in seguito ad una lite avvenuta il giorno di Capodanno 2005.  Il loro comportamento, per alcune piccole cose, appare sospetto agli inquirenti, come ad esempio il fatto che Rosa, la sera del fatto omicidiario, abbia azionato la lavatrice più tardi del solito, lei che era abituata a farlo sempre non più tardi delle 18, come dimostrano i controlli eseguiti presso l'azienda elettrica. Un'abitudine che aveva da tre anni, costantemente.

Perchè proprio quella sera Rosa ha cambiato orario? E' una domanda legittima, ma il motivo può anche essere irrilevante. Rosa e Olindo hanno un alibi: la sera dell’incendio sono stati al Mc Donald’s a Como, e hanno ancora lo scontrino. Il quale dimostra però che sono stati al fast food due ore dopo la strage, e quindi in tempo per compierla. Il loro torto è quello di averlo mostrato senza che fosse loro richiesto, quasi a voler presentare un alibi non necessario. L’attenzione delle indagini si concentra su di loro, e ogni ragione è buona per sospettare del loro comportamento, anche quando Rosa, intercettata, dice al marito: “Adesso sì che possiamo dormire.” Successivamente vengono trovate piccole tracce di sangue femminile sugli indumenti dei Romano e una macchiolina di sangue del signor Frigerio sul tappetino della loro auto. Ciò che non viene trovato non viene considerato, cioè indumenti insanguinati, armi del delitto, e grandi quantità di sangue di cinque vittime. Si sa che gli accoltellamenti, e soprattutto gli sgozzamenti ne producono in quantità incontrollabile, soprattutto sulle scarpe degli assassini, nè vengono considerate le dichiarazioni di due testimoni oculari che riferiscono di aver visto fuggire due persone di colore, forse tre, dal terrazzino del primo piano dopo l'incendio. Nè si considera che Olindo non può aver ucciso la Cherubini, che ancora gridava aiuto all'accorrere dei primi soccorritori, e che è stata trovata con la lingua recisa da una coltellata, quindi uccisa da qualcuno che era al piano di sopra mentre sotto si apprestavano le prime cure alle vittime e si cercava di spegnere l'incendio. Nè si considera che nessuno ha visto Rosa e Olindo nella corte, in quella circostanza. I coniugi vengono messi sotto torchio.

La loro unica paura è quella di non poter più vivere l'uno per l'altra, come sempre; il loro rapporto viene definito di “succubanza reciproca”. Basta che un investigatore prospetti a Olindo la possibilità d'essere divisi per sempre per farlo crollare, e decidere di addossarsi la responsabilità della strage, con la promessa di pochi anni di carcere e la possibilità di tener fuori Rosa. Ma Rosa non è d'accordo a rimanere fuori, e il 10 gennaio 2007 Rosa e Olindo confessano. All’inizio lui cerca di scagionarla, dicendo di ‘aver fatto tutto da solo’, ma Rosa confessa anche lei. “Il bambino l’ho fatto io” dice al PM “La mamma l’ho fatta io e glie ne ho date tantissime, anche alla Raffaella.” Il PM le chiede: “Di coltellate?”  “Sì, di coltellate.” Il 29 gennaio 2008 inizia il processo. Rosa Bazzi e Olindo Romano vengono condannati all’ergastolo, con isolamento diurno per tre anni. La loro unica mira è che non li si separi, e chiedono una cella matrimoniale.

L’appello presso il Tribunale di Brescia conferma la sentenza, come la Cassazione. Mario Frigerio, il supertestimone, colui che aveva sempre accusato Olindo di essere lui quello che lo aveva colpito la sera dell’11 dicembre 2006, è morto il 16 settembre del 2014, otto anni dopo la strage. Il camper e la casa dei Romano sono stati venduti all’asta, per risarcire le vittime. La casa, dopo che le prime due sedute erano andate deserte, è stata venduta per 69mila euro. Attualmente sono detenuti in due carceri diverse, lui a Opera, lei a Bollate, e si vedono tre volte al mese per due ore. Sono passati dieci anni, e Olindo spera in un permesso premio. «Continuo a vedere Rosa tre volte al mese e questa è la cosa più importante. Spero che prima o poi io e Rosa possiamo avere i permessi premio così potremmo vederci tranquillamente e in santa pace come facevamo prima. Sarebbe bello avere un permesso premio da soli con Rosa per farci un giro in camper e fermarci a mangiare una pizza lungo il lago. Il problema è che il camper ce l’hanno venduto. Chissà se il magistrato di sorveglianza ci darà l’ok. Mi ricordo il giorno della strage e fino a sera è stato un giorno normale: lavoro, casa, Rosa, McDonald’s… È da dieci anni che dura questo incubo, ma aspettiamo fiduciosi la revisione del processo. Sono innocente». In fondo alla lettera l’ennesima dichiarazione d’amore per la moglie: «Quello tra me e Rosa è un amore che nessuno può dividere».

Olindo e Rosa, quasi si svegliassero da un brutto sogno, una volta in carcere hanno provato a ritrattare, ma non sono stati creduti. Ora si apre uno spiraglio, nell’interminabilità della loro detenzione, la possibilità di una revisione del processo. Gli avvocati di Olindo e Rosa, Nico D’Ascola, Fabio Schembri e Luisa Bordeaux, intervenuti nella loro difesa sei mesi dopo l’arresto, dopo il difensore d’ufficio, hanno presentato un’istanza per riesaminare alcuni reperti la cui amplificazione era stata negata ai tempi del processo, e che consistono in: alcune ciocche di di capelli, un accendino, un mazzo di chiavi, due giubbetti, alcuni margini ungueali, un cellulare, una tenda, una macchia di sangue mai analizzata ed altri reperti. In merito a questa istanza, rimbalzata più volte da Como a Brescia, abbiamo parlato con uno degli avvocati della difesa, l’avvocato Fabio Schembri. 

Cristiana Lodi per “Libero Quotidiano” il 31 gennaio 2018. Non resta che ricorrere alla corte Suprema. Nell' attesa, Rosa e Olindo della strage di Erba del 2006, dovranno restare all' ergastolo che già scontano da undici anni. I giudici d' Appello di Brescia hanno infatti respinto al mittente (la difesa) la richiesta di analizzare e cristallizzare con un «incidente probatorio», alcuni reperti raccolti nella palazzina dove ci furono i morti (quattro), un ferito e il fuoco. Reperti che all' epoca non erano stati analizzati, perché gli indagati avevano confessato la strage. Salvo ritrattare subito dopo. «Le nuove analisi richieste dai difensori dei condannati» sostengono i magistrati bresciani, «non sarebbero in grado di ribaltare la sentenza e tantomeno il giudizio di colpevolezza». Una marcia indietro improvvisa, dato che a pronunciarsi in questo senso sono gli stessi identici giudici d' Appello che, a novembre scorso, avevano al contrario acconsentito all' analisi dei reperti in questione. Aprendo uno spiraglio alla revisione del processo e una speranza per i coniugi Romani. Olindo e Rosa avevano cominciato a crederci, anche perché erano già state celebrate due udienze per decidere le modalità con cui procedere agli accertamenti sui fatidici reperti. Ora il cambio di orientamento, con la dichiarazione di «inammissibilità» da parte degli stessi giudici. Nel freddo linguaggio giurisprudenziale, i magistrati dei due pareri opposti, spiegano che le richieste avanzate dalla difesa sono «generiche», e quindi «meramente esplorative e inidonee a superare il vaglio di ammissibilità richiesto dal codice», secondo il quale gli elementi indispensabili per chiedere la revisione devono «essere tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto». La revisione è (sempre stando ai giudici) un fatto «eccezionale» e non «un quarto grado di giudizio»; la richiesta dei legali dei Romano non è invece in grado di «scardinare le prove già acquisite». A cominciare dalle confessioni (poi ritrattate) di Olindo Romano e di sua moglie Rosa Bazzi. La richiesta della difesa, dunque, «non presenta nemmeno un'astratta potenzialità distruttiva del giudicato con il quale si deve in qualche modo confrontare». Insomma, qualsiasi esito una eventuale analisi sui reperti potesse dare, esso non sarebbe comunque sufficiente a dimostrare che Olindo e Rosa sono innocenti. Dunque niente test. Per i giudici i condannati sono colpevoli comunque e a prescindere da qualsiasi perizia o altro esame. Non entreranno dunque in laboratorio per essere analizzati «alla luce dei progressi della scienza», come chiedevano gli avvocati Fabio Schembri, Luisa Bordeaux e Nico D' Ascola, una serie di oggetti e sostanze biologiche. Per esempio «alcune formazioni pilifere» trovate sulla felpa del piccolo Youssef, figlio di Raffaella Castagna e nipote di Paola Galli, ucciso con una coltellata alla gola (secondo la Corte da Rosa). Aveva due anni, Youssef. Poi i cosiddetti «i margini ungueali delle vittime», e ancora «un accendino trovato sul pianerottolo della famiglia Castagna», e «una traccia di sangue rinvenuta sul terrazzino della casa, tre giacconi appartenuti a Raffaella Castagna, Valeria Cherubini e Paola Galli, un mazzo di chiavi, la tenda dell'appartamento di Valeria Cherubini alla quale la donna si aggrappò, dopo essere stata aggredita al piano di sotto». Nulla di tutto questo sarà analizzato. Per Manuel Gabrielli, difensore della famiglia Frigerio (i vicini dei Castagna morti nella strage), la decisione dei giudici bresciani «risparmia ulteriore dolore ai famigliari delle persone che sono morte». Secondo Fabio Schembri, avvocato dei Romano, invece «il provvedimento smentisce una precedente decisione dei giudici stessi», e perfino la «Cassazione che aveva annullato una precedente pronuncia contraria dei giudici bresciani». Lo stesso avvocato annuncia ricorso alla Suprema Corte. E cita (testuali) le parole del presidente dei giudici d' Appello, Enrico Fischetti, pronunciate nella prima udienza: «lo dico chiaro» disse il magistrato, «noi faremo un'ordinanza di ammissione, sentiremo le parti, vi diamo poi la data, la data di conferimento dell'incarico sarà, credo, a metà gennaio...». Invece il 30 gennaio si fa macchina indietro.

Strage di Erba: Olindo e Rosa sono innocenti? Tutti i dubbi sulla condanna. Un documentario su Nove mette in luce elementi finora sconosciuti al grande pubblico. Ecco perché potrebbero non essere i due coniugi gli autori della strage, scrive l'1 Ottobre 2018 TPI. L’11 dicembre 2006, in un piccolo paese in provincia di Como, 4 persone vengono barbaramente uccise a coltellate e sprangate. Gli assassini, subito dopo, danno fuoco all’appartamento. È la strage di Erba, uno dei delitti più efferati della storia italiana, un caso di cronaca che avrà immediatamente un enorme risalto mediatico e a cui seguirà un processo che si concluderà nel 2011. Le vittime della strage sono Raffaella Castagna, 30enne disoccupata e volontaria in una comunità di assistenza ai disabili, suo figlio Youssef Marzouk, la madre della donna, Paola Galli, e Valeria Cherubini, una vicina di casa che era intervenuta per prestare soccorso. Il marito di Valeria Cherubini, Mario Frigerio, viene aggredito ma riesce a sopravvivere. Per il delitto vengono condannati in via definitiva due vicini di casa di Raffaella Castagna, i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi. Si tratta di una vicenda su cui il giudizio di colpevolezza, dei giudici come dell’opinione pubblica, è stato pressoché unanime per anni. Di recente, però alcune presunte certezze sono state rimesse in discussione.

Martedì 10 aprile 2018, sul canale Nove, è andato in onda un reportage intitolato “Tutta la verità”: una ricostruzione minuziosa della strage, in cui vengono presentati elementi finora sconosciuti al grande pubblico, e che ha fatto sorgere non pochi dubbi sulla reale colpevolezza dei coniugi Romano. Proprio negli ultimi mesi, inoltre, la difesa dei Romano ha presentato una richiesta di incidente probatorio su nuovi reperti. L’obiettivo finale dei legali di Olindo e Rosa è quello di arrivare alla revisione del processo. La richiesta è stata rigettata dalla Corte di Appello di Brescia, ma gli avvocati dei Romano hanno presentato ricorso in Cassazione. Se l’incidente probatorio fosse ammesso, potrebbero aprirsi scenari impensabili fino a qualche mese fa.

La strage di Erba: i fatti. Intorno alle 20 dell’11 dicembre 2006, un incendio divampa in un appartamento situato in via Diaz, a Erba. Ad appiccarlo sono le stesse persone che poco prima avevano ucciso a coltellate e sprangate Raffaella Castagna, Paola Galli e il piccolo Youssef Marzouk. La vicina di casa Valeria Cherubini muore invece all’interno della propria abitazione. Secondo quanto emerso dalle ricostruzioni fatte dagli inquirenti, sarebbe andata in soccorso della famiglia Castagna, attirata dal fumo che usciva dal loro appartamento, ma sarebbe stata aggredita sulle scale dagli assassini, per poi morire dissanguata. Assieme a lei c’era il marito Mario Frigerio: anche lui accoltellato alla gola, riesce a sopravvivere grazie a una malformazione alla carotide, che gli permette di non morire dissanguato.

I primi sospetti sul marito di Raffaella Castagna. Inizialmente gli inquirenti concentrano le loro attenzioni su Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna e padre del piccolo Youssef. Azouz, tunisino, aveva dei precedenti penali per spaccio di droga ed era già stato in carcere. Tuttavia, come si apprenderà pochi giorni dopo il delitto, Azouz in quel periodo si trovava in Tunisia, in visita ai parenti. Il suo alibi è di ferro, e le accuse contro di lui cadono immediatamente. Resta in piedi una pista che riconduce indirettamente al marito di Raffaella Castagna: quando era in cella, aveva avuto pesanti screzi con degli esponenti della ‘ndrangheta. Per evitare che la situazione potesse degenerare, era stato addirittura trasferito in un altro penitenziario. La strage di Erba è quindi una vendetta trasversale contro il tunisino?

La svolta: vengono indagati Rosa Bazzi e Olindo Romano. L’ipotesi della vendetta contro Azouz non trova seguito. Questo anche perché i sospetti degli inquirenti si orientano molto presto verso due vicini di casa di Raffaella Castagna, Olindo Romano e Rosa Bazzi. Il 26 dicembre vengono disposti degli accertamenti sulla loro macchina. Viene rinvenuta, sul battiporta dello sportello del guidatore, una traccia di sangue di Valeria Cherubini, una delle vittime. I due coniugi vengono arrestati, e dopo alcuni interrogatori in cui negano di essere gli autori della strage, l’11 gennaio 2017 confessano davanti ai pubblici ministeri. La confessione avviene separatamente: ciascuno dei due coniugi rivela ai magistrati come si sarebbero svolti i fatti. Tuttavia, il 10 ottobre 2007, davanti al Giudice per l’udienza preliminare che deve decidere se rinviare i coniugi a giudizio, Olindo e Rosa ritrattano, affermando che la confessione gli è stata estorta dietro la promessa di ricevere sconti di pena e di poter condividere la cella. Il Gup li rinvia a giudizio. Durante il processo di primo grado, all’impianto accusatorio si aggiunge un altro elemento che peserà come un macigno sulla successiva condanna. Mario Frigerio, l’unico sopravvissuto alla strage, riconosce come suo aggressore in aula Olindo Romano, confermando così quanto già aveva detto ai pubblici ministeri in fase di interrogatorio. Sulla base di queste tre, pesantissime prove (la macchia di sangue nell’auto, la prima confessione e il riconoscimento del testimone oculare), il 26 novembre 2008 i coniugi Romani vengono condannati all’ergastolo, sentenza confermata in appello e resa definitiva, il 3 maggio 2011, dalla Corte di Cassazione.

Perché Rosa e Olindo potrebbero in realtà essere innocenti. Proprio per la consistenza delle prove portate dall’accusa, i media si sono sostanzialmente uniformati nel fornire una ricostruzione che individua nei Romano i colpevoli certi della strage. In pochi hanno avuto dubbi sulle effettive responsabilità di Rosa e Olindo. Del resto, con una traccia ematica, una confessione e un testimone oculare, la loro colpevolezza sembra poter essere provata, come vorrebbe la legge, al di là di ogni ragionevole dubbio. Ma è proprio così? Il documentario trasmesso su Nove martedì 10 aprile evidenzia una serie di elementi finora poco noti, per non dire del tutto sconosciuti, all’opinione pubblica. Elementi che non solo intaccano in maniera significativa le prove a carico dei Romano, ma che suggeriscono anche delle piste alternative scartate forse troppo frettolosamente da inquirenti e magistrati.

La macchia di sangue sul battiporta dell’auto. Va innanzitutto sottolineato come le numerose perquisizioni nell’abitazione dei Romano e sul luogo del delitto non abbiano portato al rilevamento del benché minimo elemento riconducibile a Rosa e Olindo. In altre parole, ad eccezione di quella macchiolina di sangue sul battiporta della macchina, della presenza dei Romano sulla scena del delitto non c’è traccia. Possibile che i due coniugi siano riusciti a ripulire in maniera così certosina auto, abitazione e appartamento della strage, nonostante quest’ultimo fosse già in fiamme pochi minuti dopo l’aggressione (e dunque ben difficilmente accessibile e “ripulibile”)? È quantomeno ipotizzabile che quell’unica traccia di sangue trovata nella macchina fosse il risultato di una contaminazione (ovviamente non volontaria). Nel documentario su Nove, viene evidenziato come già la sera della strage, quando Olindo e Rosa vennero convocati in caserma in quanto vicini di casa, la loro auto fu perquisita, anche con lo scopo di inserirvi delle cimici. Uno dei carabinieri che effettuarono l’ispezione, come risulta dal verbale, nell’immediatezza dei fatti era andato sulla scena del crimine. La perquisizione della macchina avvenne solo poche ore dopo. Potrebbe quindi essere stato proprio quel carabiniere a trasportare involontariamente una traccia ematica dall’abitazione all’auto. Inoltre, viene rilevato come la presenza della macchia di sangue sia attestata dagli inquirenti sulla base di una semplice fotografia effettuata senza il luminol, un composto chimico utilizzato dalla polizia scientifica per evidenziare macchie di sangue. “In quale versione della scienza si accetterebbe un principio scientifico invisibile, quello di una macchia che nessuno ha visto?”, si chiede nel documentario Luca D’Auria, avvocato di Azouz Marzouk, il marito di Raffaella Castagna.

La confessione di Rosa e Olindo. Durante un primo interrogatorio, che si svolge l’8 gennaio 2007, Olindo Romano e Rosa Bazzi, interrogati separatamente, negano entrambi di aver commesso il delitto. In una telefonata intercettata tra i due coniugi subito dopo gli interrogatori, emerge chiaramente la loro preoccupazione di poter restare separati per il resto della vita, reclusi in due diverse celle. In un successivo interrogatorio uno dei procuratori, sapendo di poter far leva sul fortissimo legame tra i due coniugi, dice a Romano: “Sua moglie ora la trasferiamo di carcere, e lei non la vede più”. Lo stesso giorno, nell’interrogatorio di Rosa Bazzi, quest’ultima dice agli inquirenti: “Lo so che mio marito non ce la fa a stare qua dentro, e io così lo perdo per sempre”. I due coniugi parlano nuovamente tra loro dopo questa sessione di interrogatori, e Romano prospetta alla moglie la possibilità di prendersi tutta la colpa “per far finire questa storia”. La moglie protesta contestandogli che non hanno nulla da confessare perché nulla hanno fatto. Ma il 10 gennaio, temendo che il marito possa auto-incriminarsi, Rosa Bazzi va dai magistrati e confessa di essere lei l’unica autrice del delitto, scagionando il marito. Poco dopo, Olindo Romano fa la stessa cosa, invertendo i ruoli: sarebbe stato lui a salire, da solo, in casa di Raffaella Castagna, e a commettere la strage senza che la moglie fosse minimamente coinvolta. In una telefonata intercettata poco prima che i due coniugi decidano di confessare, Olindo dice a Rosa che, così facendo, sarebbero potuti tornare entrambi a casa in tempi brevi, mettendo fine a quella insopportabile separazione, e che avrebbero inoltre goduto di notevoli benefici. Ci sono quindi seri dubbi sul fatto che la confessione sia arrivata sulla base della falsa convinzione, verosimilmente indotta dall’esterno, di ricevere un trattamento di favore, una pena mite nonché di poter condividere la cella. Diversamente, Olindo e Rosa erano convinti che non si sarebbero mai più rivisti. Oltre a questo, va rimarcato come la ricostruzione fatta dai due coniugi sulle modalità con cui sarebbe stato commesso il delitto risulti del tutto incompatibile con molte circostanze poi accertate dagli inquirenti. Tra i tanti esempi che si possono fare: Olindo e Rosa non sapevano che gli assassini avevano staccato la luce in casa Castagna attorno alle 18.30 (per poi verosimilmente commettere il delitto, che si consumerà alle 20, dopo aver aspettato le vittime all’interno dell’appartamento). Inizialmente non menzionano la circostanza. Quando gli viene segnalato che la luce era stata staccata, affermano di averlo fatto alle 20, cosa assolutamente impossibile secondo quanto rilevato dagli inquirenti.

E ancora: viene accertato che gli assassini, per dare fuoco alla casa, hanno usato del liquido infiammabile. Olindo e Rosa invece, nelle loro confessioni, affermano di aver fatto tutto con un semplice accendino. Sono solo alcune delle numerosissime contraddizioni rilevabili in quegli interrogatori. Persino la sentenza di secondo grado stabilirà come la ricostruzione fatta da Olindo e Rosa durante le loro prime confessioni non fosse sovrapponibile con il reale svolgimento dei fatti, affermando però che si sarebbe trattato di una strategia deliberata dei due coniugi volta a lasciarsi aperto uno spiraglio per una futura ritrattazione.

Il testimone oculare: Mario Frigerio. L’ultima decisiva prova è quella relativa alla testimonianza di Mario Frigerio, l’unico sopravvissuto alla strage. Frigerio, durante il processo, riconosce in aula Olindo Romano come suo aggressore. Tuttavia, nell’immediatezza della strage, quando aveva ripreso conoscenza in ospedale, Frigerio aveva dichiarato (in conversazioni registrate) di non essere minimamente in grado di identificare il suo aggressore. Poco dopo affermerà di avere qualche vago ricordo di una persona “di carnagione olivastra, comunque non del posto”. Ripetutamente imbeccato in questo senso dai pm, dopo numerosi colloqui, Frigerio arriverà all’identificazione di Olindo Romano. Come viene mostrato nel documentario su Nove, inoltre, nelle settimane successive al delitto, a causa del trauma subito, le capacità cognitive di Frigerio erano sensibilmente compromesse. Visitato da un neuropsichiatra, Frigerio mostrerà di non riuscire a svolgere nemmeno calcoli estremamente banali come 100-7.

Le piste alternative. Come visto, quindi, tutti gli indizi che hanno portato alla sentenza di colpevolezza per Olindo Romano e Rosa Bazzi sono molto meno solidi di quello che si potrebbe pensare sulla base di una conoscenza superficiale della vicenda. Ma se non fossero stati loro a commettere la strage, chi potrebbero essere i veri colpevoli? La pista sulla ‘ndrangheta e sui compagni di cella di Azouz Marzouk, il marito di Raffaella Castagna, viene vagliata dagli inquirenti almeno in una prima fase, ma non porta a nulla di concreto. Il documentario di Nove fa invece luce su un’altra pista, forse troppo frettolosamente scartata in fase di indagini. Secondo quanto riferisce Azouz Marzouk, Raffaella Castagna, due mesi prima del delitto, aveva chiesto ai genitori un anticipo di eredità. I fratelli di Raffaella, Pietro e Beppe, avevano visto dietro questa richiesta una manovra di Azouz, accusandolo così la sorella di volergli sottrarre il patrimonio per darlo al marito tunisino. Da quel momento, sempre secondo Azouz, i rapporti tra Raffaella e i suoi fratelli si erano interrotti del tutto. In una telefonata tra Pietro Castagna e un suo amico, effettuata pochi giorni dopo il delitto e intercettata, si sente il fratello di Raffaella ridere di gusto sulla strage, facendo ironia sugli sforzi degli inquirenti di trovare i colpevoli a abbandonandosi a frasi come “sarà stata la Franzoni”. Carlo Castagna, il padre di Raffaella, afferma che la sera della strage era preoccupato perché non aveva visto rientrare la moglie, la quale generalmente effettuava i suoi spostamenti con un Fiat Panda, che invece non veniva utilizzata dal marito. Carlo Castagna dirà poi che sempre la sera della strage, aveva visto proprio quella Fiat Panda rientrare nel suo garage attorno alle 22.30, con a bordo una persona diversa da sua moglie. La circostanza inquietante, e mai del tutto chiarita dagli inquirenti, è che i Castagna, nell’immediatezza del delitto, hanno provato (riuscendoci) a liberarsi di questa Fiat Panda. Nello specifico, l’auto viene donata a un convento di suore, come verrà confermato dalle stesse religiose. Come viene fatto vedere nel documentario, le suore rivelano addirittura come i Castagna (padre e due fratelli) si fossero recati in convento due o tre giorni dopo il delitto per lasciare in dono la macchina. Questa circostanza verrà però scoperta solo alcuni anni dopo il delitto grazie a delle intercettazioni telefoniche. Nonostante questo, gli inquirenti non riterranno di dover fare alcun tipo di accertamento sulla Panda “per rispetto del dolore dei familiari”, come dice nel documentario Luciano Gallorini, comandante dei carabinieri di Erba. “Io mi domando, ma stiamo scherzando? Se si fossero voluti accertare davvero i fatti, la prima cosa da fare era sequestrare quella Panda per fare le opportune analisi”, sono le parole di Azouz Marzouk. Come rivela lo stesso Azouz, inoltre, pochi giorni dopo la strage un suo amico tunisino, anche lui residente a Erba, gli racconta che quella sera si trovava nel cortile del condominio di via Diaz, e che aveva visto tre persone confabulare indicando l’ingresso di casa Castagna. Anche un altro testimone, Fabrizio Manzeni, sosterrà di aver visto quella sera alcune persone nella corte del condominio, riconoscendo poi una di queste persone in Beppe Castagna, uno dei fratelli di Raffaella Castagna. Infine, la porta dell’appartamento non presentava segni di effrazione, lasciando presumere, o quantomeno ipotizzare, che gli esecutori del delitto fossero in possesso delle chiavi.

Conclusioni. Al di là di quello che deciderà la Corte di Cassazione sulla richiesta di incidente probatorio presentata dai legali di Olindo Romano e Rosa Bazzi, il documentario trasmesso su Nove solleva non pochi dubbi sulla colpevolezza dei due coniugi. Viene evidenziato come inquirenti e pubblici ministeri, nei giorni successivi alla strage, si siano forse troppo frettolosamente convinti della colpevolezza dei due vicini di Raffaella Castagna, non indagando abbastanza a fondo sulle altre possibili piste. Lo stesso Azouz Marzouk, marito e padre di due delle vittime, inizialmente convinto della colpevolezza dei Romano, ha poi cambiato idea: “Olindo e Rosa sono innocenti. Mi batterò perché la loro innocenza venga a galla. Credo che giustizia non sia stata fatta. Ogni volta che ci penso, mi vengono in mente particolari sia del processo sia della vita passata di mia moglie e di mio figlio che mi convincono che a ucciderli non sono stati loro, i Romano. Sono dei poveretti che stanno pagando la loro ingenuità”.

N.B.: Per completezza d’informazione, pubblichiamo a questo link la lettera scritta da Beppe Castagna – “fratello, zio e figlio” di tre delle quattro vittime del delitto di Erba – e indirizzata alla redazione del programma di Nove “Tutta la verità”.  

La lettera scritta da Beppe Castagna "fratello, zio e figlio" di tre delle quattro vittime del delitto di Erba, pubblicata su TPI il 20 Aprile. 2018. Giovedì 19 aprile 2018 abbiamo pubblicato un articolo che ricostruiva le tesi presentate nel documentario del programma “Tutta la verità” andato in onda su Nove, di Discovery Italia, sulla strage di Erba.

Per completezza d’informazione, pubblichiamo la lettera scritta da Beppe Castagna – “fratello, zio e figlio” di tre delle quattro vittime del delitto di Erba – e indirizzata alla redazione del programma “Tutta la verità”.

“Buongiorno, ci avete fatto passare un paio di giorni d’inferno, mio fratello non si è ancora del tutto ripreso, ma abbiamo la pelle dura e supereremo anche questo. Ma veramente credete di aver fatto un buon lavoro? Avete spacciato per verità delle tesi innocentiste che non hanno mai avuto valore in nessuno dei gradi di giudizio. Non contenti avete buttato fango su di noi… ma avete un’idea di quello che abbiamo vissuto e sopportato? di quanto è stato difficile andare avanti? Ci avete messi alla gogna, insinuando dubbi e sospetti su di noi, utilizzando addirittura il nostro diniego ad una vostra intervista come rafforzativo. Avete fatto ascoltare un’intercettazione di mio fratello, ulteriore rafforzativo per creare un mostro, ma guardate che anche dopo aver subito un lutto plurimo la vita continua, fra le lacrime si continua a mangiare, a sentire amici e magari a fare battute ciniche… P.S.: la risata era dell’amico. Ma, non avete fatto ascoltare le intercettazioni di Azouz, tipo: “è il periodo più bello della mia vita” o: “mi pagano anche per fare sesso” o addirittura: “cosa me ne frega a me delle bare” …Avete riportato solo e soltanto il materiale che vi è stato suggerito da Panza, Montolli e Schembri, tralasciando le montagne di materiale che certifica la colpevolezza dei coniugi Romano. Avete montato in modo strumentale le interviste a Gabrielli e Gallorini. Avete permesso a Montolli di dire una serie di inesattezze strumentali, come ad esempio il verbale che ci riguarda: Verso le ore 22.00, non riuscendo ancora a contattare mia moglie, ho informato mio figlio Giuseppe che la mamma non era ancora rientrata. Mio figlio mi informava che aveva sentito una macchina e quindi mi diceva di controllare in quanto la mamma poteva essere in cortile o in giro per casa. Io facevo un controllo ed accertavo che la macchina arrivata era sì quella di mia moglie, ma con un’altra persona sopra, tralasciando quello che c’era dopo la virgola: in quanto come detto, mia moglie aveva preso la mia LANCIA K e non la sua. L’utilizzo della mia infatti avveniva da una settimana, in quanto la sua la utilizzava mio figlio che a sua volta aveva la sua in auto officina. Vorrei tralasciare tutto il discorso della Panda perché è veramente ridicolo… quel fenomeno di Candian l’ha “trovata” non grazie al suo fiuto, ma perché lo dissi al direttore Brindani, durante uno scambio di messaggi e poco dopo l’investigatore arrivò dalle suore. Perché l’abbiamo regalata così frettolosamente? Perché mio padre stava male nel vederla parcheggiata in cortile, solo per questo…Non avete detto che Chencoum, il tunisino, egiziano o marocchino che ha detto di aver visto mio fratello con un cappello mentre parlava in arabo con due tunisini, solo questo dovrebbe far capire tanto, era un tossico cliente fisso della famiglia Marzouk, bastava andare a leggere i giornali di quel periodo per capire l’odio che i Marzouk nutrivano nei nostri confronti, bastava ascoltare le loro intercettazioni agli atti per capire che loro vivevano la strage come un ostacolo ai loro traffici e si sentivano il fiato sul collo, quindi avevano bisogno di qualcuno che indicasse altri, inoltre nel secondo grado a Milano venne letta una lettera di un compagno di cella del Chencoum che raccontava le ammissioni di falsa testimonianza…Non avete riportato le intercettazioni dei due assassini che raccontano un’altra storia rispetto alla vostra: “guarda che non sono cattivi .. No, no no … no veramente io ho trovato delle brave persone … Infatti anche io non sapevo come comportarmi perché non sapeva come finiva, Poi quello che c’era lì mi ha spiegato tutto e allora … Forse stiamo meglio adesso … DOPO AVER FATTO QUELLO CHE ABBIAMO FATTO.” – Non avete parlato del colloquio di Olindo con Picozzi, il video è ben custodito dalla difesa ma il testo è questo: «Mi ricordo che abbiamo anche pensato: avremo rimorsi. E invece non ne ho neanche uno. Ecco tutto. E siccome l’abbiamo fatto insieme io dico che ci devono mettere insieme. Dividerci no. Non è giusto». «Così, appena entrato nella casa gli ho dato una stangata secca. Madre, idem. Mia moglie è andata di là e ha sgozzato il bambino. Poi abbiamo dato fuoco e poi abbiamo chiuso la porta per non danneggiare il resto della casa. A quel punto ho visto la signora Valeria con il cagnolino. Siamo rientrati nel soggiorno ma non si poteva più respirare. Abbiamo aspettato qualche minuto. Quando siamo usciti ce li siamo ritrovati davanti. Io l’unica cosa che mi ricordo è che sono saltato addosso a lui. Poi basta, siamo scesi in lavanderia e ci siamo cambiati. Io non avevo tutto il sangue che dicono, un po’ in faccia, un po’ sui pantaloni. E poi belli tranquilli a Como. Dove ci siamo guardati le nostre vetrine. Ci siamo mangiati uno spuntino e siamo tornati. Tranquilli che erano morti tutti. Invece appena arrivati sentiamo che il Frigerio non è morto. Allora ci siamo detti: speriamo che muoia anche questo. Non che dobbiamo per forza pregare, però insomma speriamo che muore anche lui. Invece non è morto. Io dico che se lui moriva noi la facevamo franca, perché non c’erano tante cose contro di noi. Sapevamo che dovevamo stare tranquilli e soprattutto che dovevamo stare attenti con Gallorini. Siamo stati interrogati una sola volta, poi basta. Per un mese si stava bene, andavamo a dormire alle nove, eravamo tornati a fare una vita normale». Non avete parlato dei “pizzini” di Olindo sulla sua Bibbia, ulteriore confessione scritta: “Oggi a colloquio con Rosa mi ha raccontato che sono alcune notti che vede Raffaella davanti alla branda come quella sera col sangue che le scende sul volto ed i colpi che gli ho inferto quando la uccidemmo” – “accogli nel tuo regno il piccolo Youssef, la sua mamma Raffaella, sua nonna Paola e Cherubini Valeria a cui noi abbiamo tolto la vita...” – “i Frigerio dovevano farsi i cazzi suoi” …Fino a quando conoscono i nuovi difensori e sulla Bibbia di Olindo qualcosa cambia (26/7/2007): “mi hanno chiesto di dare una logica alle coltellate che nella confessione ho detto di avere dato alla Valeria in testa …” – “SEMINARE DUBBI, INCERTEZZE, CAOS nella stampa che ci è contro ed agli imbecilli colpevolisti” dopo l ‘udienza preliminare dell’ ottobre 2007:“i nostri legali hanno presentato le loro istanze di annullamento per le nostre confessioni precedenti. Il giudice ha preso nota e si è ritirato per deliberare. DOPO TRE ORE HA ACCOLTO L’ ANNULLAMENTO DELLE NOSTRE CONFESSIONI PER VIZIO DI FORMA…ABBIAMO PRESO TUTTI IN CONTROPIEDE, NON SI ASPETTAVANO UNA STRATEGIA COSI’ SEMPLICE”

Non avete parlato del movente, anzi dei moventi che i due coniugi avevano, non ultimo la comparsa davanti al giudice 2 giorni dopo per una denuncia di lesioni che mia sorella aveva loro fatto. Non avete parlato di un sacco di cose, ma solo di quello che vi hanno dettato…Avrei delle domande da porvi, visto che dovreste esservi documentati: secondo le tesi difensive gli assassini si trovavano già all’ interno dell’appartamento all’arrivo delle loro vittime. Come mai le vittime hanno comunque il tempo per: mia mamma maneggiare un accendino, cercando di fare luce, prendere un cartone del latte dal frigorifero e appoggiarlo sul piano della cucina, togliere berretto e piumino al piccolo, mia sorella togliersi berretto, appoggiarlo sul cassettone dietro al divano vicino a quello di Jouseff togliersi le scarpe e infilare le ciabatte, prima di riuscire per riaccendere il contatore? secondo le tesi difensive la signora Valeria ricevette il colpo di grazia all’ interno del suo appartamento.

-Come mai la signora Valeria dopo essere stata assalita sul pianerottolo insieme a suo marito, non scappa nel suo appartamento ma lo raggiunge lentamente, come se ne deduce dalla forma dalle macchie di sangue sui gradini e dalle impronte delle sue mani sul muro?

-come mai gli assalitori le danno anche il tempo di togliersi il giubbotto?

-come mai viene trovata inginocchiata sotto all’ abbaino, davanti la sua finestra con il volto rivolto al pavimento appoggiato alle sue mani, come se cercasse di respirare l’aria più pulita, che come tutti sanno, durante un incendio si trova proprio in basso?

secondo le tesi difensive gli assassini scapparono dal terrazzo di Raffaella.

-Come mai non vengono trovate tracce sul parapetto e sul canale pluviale dello stesso?

-Gli inquirenti dicono di aver cercato tracce ematiche anche lì, se così non fosse, come mai gli avvocati difensori, con l’aiuto dei loro consulenti, Candian e Bruzzone, non le hanno cercate anche loro, vista l’importanza per loro di dimostrare quella via di fuga?

-Come mai la grossa pianta di Olia Fragrans nel vaso montato su ruote che occupava tutto lo spazio davanti al parapetto non risulta essere stata spostata o danneggiata?

-Come mai la maniglia interna del portoncino di ingresso della palazzina viene trovata imbrattata di sangue con impronte lasciate da guanti del tutto simili a quelli che Olindo ha detto di aver utilizzato?

secondo le tesi difensive vengono trovate all’ interno dell’ appartamento di Raffaella delle impronte digitali e palmari su un muro e all’ interno dell’ appartamento Frigerio un’ impronta di scarpa che non appartengono nè ai Romano nè a nessuno dei soccorritori.

-come fanno a dire che non appartengono a nessuno dei soccorritori se le uniche impronte prese dagli inquirenti furono quelle dei Romano e del primo soccorritore Bartesaghi, tralasciando le decine di altre persone che andarono e venirono dalla scena del crimine quella sera e i giorni successivi, fra pompieri, medici legali, carabinieri, Ris e personale del 118?

come fa Olindo a confessare di aver dato delle pugnalate con il suo coltellino a scatto sulla testa di Valeria, ferite di cui il medico legale non si era accorto e che quindi non erano a conoscenza degli inquirenti, ma confermate, autogol, dal perito di parte durante il processo ?

Potrei continuare elencando quello che non avete detto, ma in fondo la cosa più grave è che non avete fatto il vostro lavoro, anzi, l’avete fatto, a mio parere, in modo disonesto. Beppe Castagna, figlio, fratello e zio.”

STRAGE DI ERBA, PIETRO CASTAGNA: “ASSALTO” DE LE IENE. Azouz Marzouk difende Rosa e Olindo. Pietro Castagna, parente di tre vittime della strage di Erba: intervista-assalto de Le Iene. “Rosa e Olindo innocenti”: la tesi del programma di Italia 1, scrive il 30 settembre 2018 Emanuela Longo su "Il Sussidiario". Antonino Monteleone torna a parlare della strage di Erba alle Iene, con un servizio che vuole approfondire il caso, aprendo a nuovi scenari sconvolgenti. "Nell'immaginario collettivo Rosa e Olindo sono colpevoli, anche a causa delle sentenze, eppure Azouz Marzouk, marito della vittima Raffaella Castagna e padre del piccolo Youssef, sembra dubitare della sentenza su Rosa e Olindo". Azouz infatti non crede siano loro i veri colpevoli, nonostante le confessioni, forte delle teorie di alcuni giornalisti investigativi che chiedono la riapertura del caso. Durante il servizio, la iena ha intervistato diversi esperti e contattato una psicologa, la quale, a sorpresa, sembra sostenere l'innocenza di Rosa Bazzi e Olindo Romano. Il giornalista investigativo Montolli va nella stessa direzione: "Non risulta alcuna traccia di Olindo e Rosa nel palazzo della strage". E Azouz, parente delle vittime, continua a non essere convinto delle sentenze dei giudici: "Prima o poi verranno fuori i veri colpevoli". (Aggiornamento Jacopo D'Antuono)

LA STRAGE DI ERBA 12 ANNI DOPO. Sono passati quasi 12 anni dalla terribile strage di Erba dell'11 dicembre 2006, nella quale rimasero uccise 4 persone tra cui un bambino di appena due anni. A perdere la vita furono Raffaella Castagna, il figlioletto Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Tra le vittime anche il cane di quest'ultima. Per l'assurdo duplice omicidio furono accusati e condannati in via definitiva alla pena dell'ergastolo i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi. Di recente, nei loro confronti la Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dai legali della coppia contro la decisione dell'Appello di Brescia di negare l'incidente probatorio su presunti nuovi reperti, confermando così a loro carico l'ergastolo definitivo. Sono in tanti, però, negli anni, ad aver messo in dubbio la colpevolezza dei coniugi Romano, a partire da Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna e padre del piccolo Youssef, il quale aveva commentato ai microfoni della produzione Tutta la verità sul Nove, asserendo: "Hanno confessato perché non avevano nessuno, vivevano uno per l'altra, punto e basta". Voci di presunti complotti hanno messo in dubbio la vera colpevolezza di Rosa e Olindo e proprio su questo aspetto punterà la trasmissione Le Iene, in un servizio che andrà in onda questa sera, nel corso dell'esordio della nuova stagione.

LE IENE, INTERVISTA-ASSALTO A PIETRO CASTAGNA. Stando a quanto reso noto da La Provincia di Como, le telecamere della trasmissione di Italia 1 hanno raggiunto Pietro Castagna, che nella strage di 11 anni fa ha perso la madre, la sorella e il nipotino ed ora protagonista di quella che è stata definita una vera e propria intervista-assalto. Contro di lui, come spiega il quotidiano, domande provocatorie del calibro di "Sa che ci sono due innocenti in carcere?" ed ancora "Come mai avete fatto sparire subito la Panda di sua madre?", "Perché ha cambiato versione su dov’era quella sera?". Il tono, dunque, è stato quello inquisitorio con il quale si è quasi voluto mettere sul banco degli imputati l'uomo, parente delle vittime, additato negli anni come possibile “pista alternativa” rispetto a quella dei coniugi all'ergastolo in via definitiva. Stando alle domande fatte a Castagna, dunque, pare che Le Iene abbiano sposato la tesi innocentista e che vedrebbe in prima fila anche lo stesso Azouz Marzouk. Quest'ultimo da convinto colpevolista aveva poi cambiato rotta alla vigilia della Cassazione. Decisione che ha fece molto discutere.

Strage di Erba: un caso veramente chiuso? Scrivono "Le Iene" il 30 settembre 2018. Azouz Marzouk, che nella strage ha perso moglie e figlio, parlando con Antonino Monteleone, dice di non credere alla verità processuale. Come lui, alcuni esperti nutrono forti dubbi sulla colpevolezza di Olindo Romano e Rosa Bazzi. “Voglio far riaprire il caso, Rosa e Olindo non c’entrano niente”. A parlare è Azouz Marzouk, che ha perso la moglie Raffaella Castagna e il figlio Youssef, uccisi assieme alla suocera e a una vicina di casa, nella strage di Erba (Como) dell’11 dicembre 2006, per la quale sono stati condannati in via definitiva all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi. Si tratta dei vicini di casa che avrebbero compiuti il massacro per continue liti condominiali. Marzouk, parlando con il nostro Antonino Monteleone, dice di non essere convinto di questa ricostruzione. Ritorniamo quindi a parlare delle prime piste su cui si è indagato: le liti precedenti di Marzouk in carcere con un uomo legato alla ‘Ndrangheta, quella dei contrasti per il traffico di droga. Un’altra pista è quella familiare: Marzouk conferma “freddezza” con i Castagna, i familiari della moglie. Rosa Bazzi e Olindo Romano, dopo l’arresto, hanno confessato, seppure con versioni differenti e con punti da chiarire. Poi hanno ritrattato e si sono detti innocenti. Fondamentale è anche la testimonianza di Mario Frigerio, sopravvissuto alla strage nonostante le ferite. Non solo Marzouk non è convinto. Anche alcuni giornalisti non lo sono. E come lui, anche la psicologa del carcere di Como. Ad aumentare i dubbi ci sono le indagini del Ris di Parma: non ci sono tracce biologiche delle vittime nella casa di Rosa e Olindo (dove dopo la strage sarebbero tornati a cambiarsi) né dei due nella “casa del massacro”. Ci sarebbero poi elementi non analizzati, tra cui un accendino, un telefono, un mazzo di chiavi e tracce di persone, finiti poi quasi tutti stranamente distrutti. E non è finita qui: dopo questa prima tappa, continueremo nella nostra inchiesta sul caso.

Secondo appuntamento domenicale con Le Iene Show del 7 ottobre 2018. Condotto da Nadia Toffa, Filippo Roma e Matteo Viviani, scrive Irene Verrocchio Domenica, 7 Ottobre 2018 su maridacaterini.it. E’ andata in onda in prima serata, alle 21.15 su Italia1, la seconda puntata domenicale de Le iene Show. Condotto da Nadia Toffa, Filippo Roma e Matteo Viviani. Al rientro della pubblicità tornano sul caso di Olindo e Rosa (la Strage di Erba), i quali avrebbero sterminato una famiglia nel 2006. Mandano in onda un’intercettazione ambientale del 2 gennaio 2007 di Mario Frigerio (superstite) e le iene ascoltano i pareri di alcuni giornalisti. C’è chi è colpevolista e chi pensa invece che i coniugi siano innocenti. Solo l’unico superstite potrebbe dire la verità, Mario Frigerio. Inizialmente accusa come aggressore un uomo dalla pelle olivastra poi la colpa la fa ricadere su Olindo. Cambia quindi versione. Nell’intercettazione del 2007, invece, Frigerio confessava che l’aggressore era un uomo straniero dalla pelle scura. I dubbi, quindi, sono sempre di più. Il nome di Olindo viene fatto per la prima volta dal maresciallo Gallorini, il quale durante un interrogatorio avrebbe fatto il nome di Olindo per ben 9 volte. Si tratterebbe di manipolazione della memoria e dei ricordi. Le intercettazioni poi sarebbero sparite e mai messe agli atti. Mario Frigerio purtroppo è deceduto nel 2014. Ci sarebbero anche degli audio modificati al fine di incolpare Olindo.

Strage di Erba: due innocenti all'ergastolo? Scrivono "Le Iene" il 7 ottobre 2018. Seconda puntata dell'inchiesta di Marco Occhipinti e Antonino Monteleone sul massacro di 4 persone del 2006. Che mostra come le prime parole al risveglio del testimone chiave, l'unico sopravvissuto, vanno in senso opposto alle condanne. Seconda puntata dell’inchiesta di Marco Occhipinti e Antonino Monteleone sulla “Strage di Erba” (Como) dell’11 dicembre 2006, per la quale sono stati condannati in via definitiva all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi, i vicini di casa che avrebbero compiuti il massacro per le continue liti condominiali. Il primo a dubitare della colpevolezza della coppia, come vi abbiamo raccontato una settimana fa, è Azouz Marzouk, che ha perso nella strage la moglie Raffaella Castagna e il figlio Youssef, uccisi assieme alla suocera e a una vicina di casa. Ci sono poi quelli di giornalisti, psicologi e la mancanza di prove secondo le analisi del Ris di Parma e la distruzione di alcuni elementi eventualmente utili. L’unico superstite, Mario Frigerio ha riconosciuto Olindo come colpevole. Frigerio però, nelle sue prime parole al risveglio avrebbe parlato di una persona di carnagione olivastra e più grosso di lui (tutto il contrario di Olindo Romano). Il nostro Antonino Monteleone ci fa sentire anche le registrazioni del primo colloquio con i magistrati di Frigerio, che vanno in questo senso. L'inchiesta ovviamente continua.

Strage di Erba: la macchia di sangue incastra veramente Olindo? Scrivono Le Iene il 14 ottobre 2018. Antonino Monteleone continua a indagare sulla strage di Erba, per cui sono finiti all'ergastolo Rosa Bazzi e Olindo Romano. Il ministro della Giustizia Bonafede promette: "Verificherò perché sono sparite le intercettazioni". Sul giallo delle intercettazioni sparite della strage di Erba, che ha portato all’ergastolo i coniugi Rosa Bazzi e Olindo Romano, il ministro della Giustizia promette a Le Iene: “Verificherò perché sono sparite le intercettazioni. Voglio che la giustizia sia credibile agli occhi dei cittadini”. Antonino Monteleone racconta di come non si ritrovino più alcune delle intercettazioni dell’unico sopravvissuto e super testimone Mario Frigerio, che nella sua prima versione dei fatti disse di ricordare che l’uomo che aveva ucciso Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini era di carnagione scura e non era della zona. Sei giorni dopo cambia la sua versione, e dice di ricordarsi chiaramente che si trattava di Olindo Romano. Mancano all’appello, inoltre, le intercettazioni ambientali registrate nella casa dei coniugi Rosa Bazzi e Olindo Romano tra il 12 dicembre e il 16 dicembre. E i giudici hanno valutato che il fatto che i due non avessero parlato della strage come un elemento in più che ha portato poi a dichiarare la colpevolezza dei due. La Iena è riuscita a ottenere una clamorosa rivelazione sulla macchia di sangue di Valeria Cherubini trovata sulla macchina di Olindo Romano, l’unica prova scientifica che inchioda i coniugi alle loro responsabilità. Carlo Fadda, il brigadiere oggi in pensione che fece la fotografia alla macchia di sangue, ammette che il sangue potrebbe essere stato frutto della contaminazione dai carabinieri che erano stati sul luogo della strage.

Strage di Erba: Olindo e Rosa, innocenti all'ergastolo? Video Iene: “Una traccia potrebbe essere stata inquinata”. Video Iene: il caso delle intercettazioni sparite, Antonino Monteleone chiede al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede di trovarle, scrive il 14 ottobre 2018 Silvana Palazzolo su "Il Sussidiario". Strage di Erba: Olindo e Rosa, innocenti all'ergastolo? Il nuovo servizio de Le Iene sulla strage di Erba non si è concentrata solo sul giallo delle intercettazioni, ma soprattutto sulla macchia di sangue che ha inchiodato Olindo Romano, quella sul battitacco dell’auto dell’uomo. Antonino Monteleone si è allora recato dal brigadiere Carlo Fadda, del nucleo operativo di Como, che trovò la macchina di sangue nei rilievi che fece. Si parte dalla presenza di un uomo nella foto che fece all’auto: «Quell’uomo era lì ma non faceva i rilievi». Non è stata neppure evidenziata la luminescenza: «Ci voleva la macchina fotografica più adeguata per fare quella foto». Quando Monteleone gli chiede se si può trattare di inquinamento, cominciano le rivelazioni: «Non posso sapere chi è entrato in macchina, se la macchina è stata lasciata da un collega». E quando pensa di non essere ripreso si sbilancia: «Gli avvocati potevano puntare sull’inquinamento di quella traccia. Perché non hanno combattuto su quello? Quella macchia non li avrebbe mai mandati all’ergastolo. L’auto comunque non è mai stata oggetto di analisi accurata». (agg. di Silvana Palazzo)

Strage di Erba: dov'è morta veramente la vicina Valeria Cherubini? Scrivono "Le Iene" il 17 ottobre 2018. Nuovo appuntamento con l'inchiesta sul massacro di 4 persone del 2006 per cui sono stati condannati Olindo Romano e Rosa Bazzi. Dopo i dubbi sulla testimonianza dell'unico superstite e sull'unica prova scientifica. Quarto appuntamento dell’inchiesta di Marco Occhipinti e della Iena Antonino Monteleone sulla strage di Erba. Siamo partiti dai dubbi di Azouz Marzouk (e di molti esperti e giornalisti) che ha perso la moglie Raffaella Castagna e il figlio Youssef, uccisi assieme alla suocera, Paola Galli, e a una vicina di casa, Valeria Cherubini, nella sua casa l’11 dicembre 2006. Per gli omicidi sono stati condannati in via definitiva all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi, i vicini di casa che avrebbero compiuto il massacro per le continue liti condominiali. Abbiamo analizzato poi la testimonianza dell’unico superstite, Mario Frigerio, marito di Valeria Cherubini, che ha riconosciuto Olindo come colpevole e che, in realtà, nelle sue prime parole al risveglio avrebbe parlato di un’altra persona, di carnagione olivastra, più grosso di lui e non del posto. Ci siamo soffermati poi su un’altra prova contro i condannati: la macchia di sangue trovata sull’auto dei due. I dubbi aumentano, sia sul modo del reperimento della prova sia sul suo possibile inquinamento. Oggi ci concentriamo sulla morte di Valeria Cherubini. Quando arrivano i soccorsi, l’11 dicembre 2006, la vicina chiedeva ancora “aiuto” dal secondo piano della palazzina del massacro. Secondo tre gradi di giudizio sarebbe salita al secondo piano in condizioni già devastate dalle coltellate. L’altra ipotesi è che sia stata uccisa con l’ultimo colpo al secondo piano, dopo aver chiesto aiuto ai soccorritori. Gli aggressori sarebbero poi scappati da casa casa Castagna, con un salto che non sarebbe alla portata dei due condannati. In quella zona sarebbero state viste scappare invece tre altre persone. I dubbi sono alimentati anche dalla testimonianza del generale Luciano Garofalo, ex comandante del Ris dei Carabinieri che, proprio sulla base di questa e altre ricostruzioni, sostiene: “È lecito avere dei dubbi sulla strage di Erba”.

Strage di Erba, dov’è morta veramente Valeria Cherubini? Il servizio de Le Iene, scrive la Redazione di"Blitz Quotidiano" il 18 ottobre 2018. Continua l’inchiesta de Le Iene con l’inviato Monteleone che, dopo il primo servizio, si interroga su dove è stata aggredita e poi colpita a morte Valeria Cherubini, la moglie del super testimone del processo della strage di Erba Mario Frigerio. Scoprire come è morta la Cherubini infatti può svelare come si sono mossi gli assassini, ovvero se hanno lasciato la palazzina scendendo le scale o attraverso una via alternativa come affermato dalla difesa. Il giornalista Edoardo Montolli ha commentato: “Viene trovata morta sotto la tenda della mansarda, con le mani a protezione del capo: sia Frigerio che i soccorritori la sentono chiedere aiuto. Loro provano a salire ma non ci riescono e tornando indietro”. E il primo soccorritore Glauco Bartesaghi ha confermato che la Cherubini urlava “aiuto”. Il volontario, che si trovava al pianerottolo del primo piano e sentì gridare la Cherubini, è sicuro che lei si trovasse all’interno della sua abitazione al secondo piano: quello che sarebbe fondamentale scoprire è se la Cherubini era da sola ferita a morte con gli assassini in fuga oppure se insieme a lei c’era ancora il suo assassino pronto a infliggerle il colpo di grazia. “Il problema nasce dal fatto che se lei è stata uccisa lì, gli assassini non potevano scendere le scale facendo quel percorso, per la presenza dei soccorritori: a quel punto Olindo e Rosa sarebbero innocenti”, sottolinea Montolli, anche se secondo i giudici, la Cherubini avrebbe risalito le scale e chiesto aiuto ai soccorritori dopo essere già stata aggredita dai killer, con la gola squarciata e la lingua tagliata. Luciano Garofalo, ex comandante del Ris, ha ammesso: “Noi abbiamo fatto tanti tentativi se ci fossero presenze delle vittime o viceversa, ma il risultato è stato negativo. Non so il perché, ma è normale che ai cittadini vengano dei dubbi. Effettivamente per il modo in cui sono state aggredite le vittime, non potevano non sporcarsi per il sangue versato”. 

Strage di Erba, dov’è morta Valeria Cherubini? Video Le Iene, l'ex comandante dei Ris Luciano Garofalo rivela: "dubbi su Rosa e Olindo condannati", scrive Carmine Massimo Balsamo il 17 ottobre 2018 su "Il Sussidiario". Strage di Erba, dov’è morta Valeria Cherubini? Continua l’inchiesta de Le Iene con l’inviato Monteleone che, dopo il primo servizio, si interroga su dove è stata aggredita e poi colpita a morte la Cherubini, la moglie del super testimone Frigerio. Scoprire come è morta lei infatti può svelare come si sono mossi gli assassini, ovvero se hanno lasciato la palazzina scendendo le scale o attraverso una via alternativa come affermato dalla difesa. Il giornalista investigativo Edoardo Montolli ha commentato: “Viene trovata morta sotto la tenda della mansarda, con le mani a protezione del capo: sia Frigerio che i soccorritori la sentono chiedere aiuto. Loro provano a salire ma non ci riescono e tornando indietro”. E il primo soccorritore Glauco Bartesaghi ha confermato che la Cherubini urlava “aiuto”.

IL COMMENTO DI LUCIANO GAROFALO. Quando il volontario che si trova al pianerottolo del primo piano sente gridare la Cherubini, è sicuro che lei si trovasse all’interno della sua abitazione al secondo piano: quello che sarebbe fondamentale scoprire è se la Cherubini era da sola ferita a morte con gli assassini in fuga oppure se insieme a lei c’era ancora il suo assassino pronto a infliggerle il colpo di grazia. “Il problema nasce dal fatto che se lei è stata uccisa lì, gli assassini non potevano scendere le scale facendo quel percorso, per la presenza dei soccorritori: a quel punto Olindo e Rosa sarebbero innocenti”, sottolinea Montolli, anche se secondo i giudici, la Cherubini avrebbe risalito le scale e chiesto aiuto ai soccorritori dopo essere già stata aggredita dai killer, con la gola squarciata e la lingua tagliata. Luciano Garofalo, ex comandante del Ris, ha ammesso: “Noi abbiamo fatto tanti tentativi se ci fossero presenze delle vittime o viceversa, ma il risultato è stato negativo. Non so il perché, ma è normale che ai cittadini vengano dei dubbi. Effettivamente per il modo in cui sono state aggredite le vittime, non potevano non sporcarsi per il sangue versato”. Clicca qui per vedere il video de Le Iene.

INTERCETTAZIONI SPARITE: LE IENE DAL MINISTRO BONAFEDE. Prosegue l’inchiesta de Le Iene sulla strage di Erba, per la quale Olindo Romano e Rosa Bazzi sono stati condannati all’ergastolo. Antonino Monteleone, convinto che il caso non sia veramente chiuso, ha chiamato in causa il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, chiedendogli di trovare le intercettazioni ambientali che sono misteriosamente sparite. Mancano sei giorni interi, in cui Mario Frigerio ha ricevuto la visita del neurologo che doveva testare i suoi ricordi della strage. Il giallo delle intercettazioni sparite non finisce qui: mancano le registrazioni dei colloqui di Olindo e Rosa dopo la strage. Interpellato da Le Iene, il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede: «Il ministero può fare delle verifiche, nelle valutazioni del magistrato non posso entrare. Mi riservo di verificare. Non snobbo le segnalazioni. Questo è un caso molto grave, io voglio che la giustizia sia credibile agli occhi dei cittadini».

LE IENE E I DUBBI SULLA TESTIMONIANZA DI FRIGERIO. Rosa e Olindo Romano potrebbero non essere gli autori della terribile strage di Erba: questo è il dubbio che ha lanciato il programma Le Iene, che per la nuova stagione ha deciso di occuparsi della strage del 2006. Nel servizio della scorsa settimana il mirino è stato puntato su Mario Frigerio, colui che indicò il nome di Olindo Romano come autore della mattanza in cui morirono quattro persone: Raffaella Castagna, il piccolo Youssef, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Nonostante tre gradi di giudizio abbiano condannato in via definitiva i due coniugi all’ergastolo, la trasmissione approfondisce un caso che continua a dividere l’opinione pubblica. La vicenda è stata ripercorsa fino a mettere in dubbio la testimonianza chiave dell’unico sopravvissuto a quella strage, Mario Frigerio. A far vacillare le certezze alcuni file audio registrati durante le indagini, in cui emerge come Mario Frigerio al suo risveglio in ospedale dopo l’aggressione non ricordi Olindo Romano ma un’altra persona. A fomentare i dubbi de Le Iene sarebbero infine anche alcune registrazioni audio “scomparse”, come rilevato dal giornalista investigativo Edoardo Montolli, autore di alcuni libri sulla strage di Erba. Clicca qui per il video del secondo servizio.

LA PRIMA TAPPA DELL'INCHIESTA DE LE IENE. L’inchiesta de Le Iene sulla strage di Erba si è aperta con l’intervista ad Azouz Marzouk, che perse moglie e figlio. Parlando con Antonino Monteleone raccontò di non credere alla verità processuale, confessando di avere quindi dubbi sulla colpevolezza di Olindo Romano e Rosa Bazzi. «Voglio far riaprire il caso, Rosa e Olindo non c’entrano niente», confida l’uomo. La ricostruzione di quella strage dell’11 dicembre 2006 non lo convince. Rosa Bazzi e Olindo Romano dopo l’arresto hanno confessato, ma con versioni differenti, poi hanno ritrattato e si sono detti innocenti. Decisiva è stata la testimonianza di Mario Frigerio, sopravvissuto alla strage nonostante le ferite. Ma Azouz Marzouk non è convinto, e non è l’unico. Le indagini del Ris di Parma non trovano tracce biologiche delle vittime nella casa dei coniugi, dove sarebbero tornati a cambiarsi al termine della mattanza, né della coppia nelle abitazioni delle vittime. Ci sarebbero poi elementi non analizzati, tra cui un accendino, un telefono, un mazzo di chiavi e tracce di persone, finiti poi quasi tutti stranamente distrutti. Clicca qui per il video del primo servizio.

Strage di Erba: Le Iene ritornano sul caso, scrive Luana Geria, Autore della news (Curata da Valentina) il 10/10/2018 Blasting News. I dubbi sulla confessione di Rosa e Olindo e le incongruenze sul caso messe in evidenza da Azouz Marzouk, marito e padre delle vittime. A dieci anni dalla Strage di Erba, Le Iene indagano sui veri colpevoli. A distanza di 12 anni dalla condanna all'ergastolo attribuita ai coniugi Rosa Bazzi e Olindo Romano accusati nell'anno 2006 di esser stati i fautori della strage di Erba, il programma condotto da Nadia Toffa e trasmesso su rete Mediaset Le Iene indaga sulla veridicità della condanna, ponendo un quesito che attualmente sembrerebbe essere quasi irrisolto: Rosa e Olindo sono realmente gli autori della strage in cui morirono brutalmente tre adulti e un bambino? Domenica 7 ottobre, in prima serata è andata in onda la seconda puntata del format televisivo Le Iene che con un servizio della durata di circa mezz'ora ha risollevato le questioni riguardanti uno dei casi più cruenti della cronaca italiana: la strage di Erba. L’intero servizio è stato dedicato sia alle dichiarazioni rilasciate dal testimone della strage unico sopravvissuto, Mario Frigerio, che interrogato direttamente in ospedale e successivamente in aula indicò Rosa e Olindo come fautori della strage, sia ad alcuni dettagli del caso non presi in considerazione finora.

Rosa e Olindo sono innocenti?

A decidere di far riaprire il caso secondo quanto mandato in onda durante la puntata è stato proprio Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna e padre di Youssef, vittime della mattanza. L’uomo, durante un’intervista svolta da Antonino Monteleone, giornalista del format televisivo, ha spiegato di essere convinto dell’innocenza di Rosa e Olindo, di non credere alla ricostruzione dell’omicidio fatta dagli inquirenti e alle testimonianze di Mario Frigerio, incongruenti nelle diverse fasi degli interrogatori alla quale l’uomo, attualmente deceduto, si è sottoposto.

Ripercorrendo e analizzando i dettagli del caso e il racconto del testimone chiave, sia la psicologa del carcere di Como dove i coniugi sono detenuti, sia molti giornalisti che si sono occupati del caso in maniera dettagliata sembrano non essere convinti né della confessione di Rosa e Olindo né del racconto del sopravvissuto Mario Frigerio che durante una prima confessione, parlando dell’assassino aveva dichiarato: "Si tratta di un uomo più alto di me di almeno di 10 cm, carnagione olivastra e probabilmente di nazionalità araba”. Secondo quanto mostrato durante il servizio, Frigerio sia in tribunale durante il processo, sia durante gli interrogatori successivi svolti durante la sua permanenza in ospedale, aveva ritrattato il profilo dell’assassino da lui dichiarato e additato il vicino di casa Olindo e la moglie come unici colpevoli della strage.

Confessioni ritrattate e dettagli mancanti. A incrementare i dubbi sulla colpevolezza dei coniugi, secondo quanto dichiarato al termine delle indagini condotte dal Ris di Parma, sarebbe inoltre l’assenza di tracce biologiche delle vittime all'interno dell’abitazione di Rosa e Olindo. Secondo quanto dichiarato dalla coppia durante la prima confessione dove si dichiarano colpevoli, entrambi dopo aver commesso la mattanza sarebbero tornati a cambiarsi all'interno del proprio appartamento, quindi in base a quanto sottolineato dai giornalisti, da Marzouk e dalla polizia scientifica sembrerebbe quasi impossibile non aver rilevato alcuna traccia delle vittime. Durante le indagini, oltre all'assenza di tracce biologiche sopracitate sembrerebbero essere emersi alcuni dettagli fondamentali mai presi in considerazione in maniera approfondita: non sarebbero mai stati analizzati alcuni elementi che potrebbero essere di fondamentale importanza, come un accendino, un mazzo di chiavi ed un telefono, finiti in maniera inspiegabile distrutti. Tra le incongruenze del caso, sottolinea il giornalista, vi sarebbe la confessione di Rosa e Olindo successivamente ritrattata, le motivazioni dell’omicidio e il racconto dettagliato di come si sarebbe svolto, incongruente per alcuni versi con quanto dichiarato dalle forze dell’ordine e dal personale sanitario intervenuto sul luogo del delitto.

Strage di Erba, gli audio mai entrati a processo a Le Iene e l’imbarazzante impreparazione dei giornalisti, scrive Edoardo Montolli l'8 ottobre 2018 su Fronte del Blog. Sui social si scatenano le reazioni dei colpevolisti. Tra loro anche la giornalista del Corriere della Sera che seguì il caso, più Selvaggia Lucarelli e Salvo Sottile. Il risultato? Imbarazzante. Leggere per credere. Domenica Le Iene mandano in onda la seconda puntata sulla strage di Erba. Vengono analizzate le dichiarazioni e le intercettazioni di Mario Frigerio, il superstite della strage che accuserà Olindo Romano di essere l’aggressore dopo aver detto per dieci giorni che a colpirlo era stato un olivastro sconosciuto. Tra le prime a reagire c’è Selvaggia Lucarelli, che sui social ha un brillante seguito. E cosa scrive su Twitter? Questo: "I giudici hanno già valutato la questione delle primissime dichiarazioni di Frigerio e spiegano la cosa nelle varie sentenze, basta leggere. È storia vecchia care #leiene. E pure stracciando la confessione di Frigerio, rosa e olindo restano colpevoli. Basta fuffa. Basta". Già. Basta leggere. Come abbiamo visto, Selvaggia Lucarelli invita gli altri a leggere, ma lei non lo fa. Non si spiegherebbe altrimenti il fatto che sulla vicenda le notizie le inventi letteralmente, come ha fatto per il testimone della strage Chencoum. Anche questa volta si ripete. Infatti gli audio mandati in onda da Le Ienedel 22 dicembre, del 24 dicembre e del 26 dicembre in cui Frigerio parla rispettivamente con il suo avvocato, con i figli e di nuovo con il suo avvocato, non sono MAI entrati a processo. MAI riportati nelle sentenze. Nemmeno MAI trascritti. Come dice Selvaggia, basta leggere. Attività che evidentemente le riesce davvero male. E che compensa inventando anche questa volta una notizia. Ma perché sono importanti questi audio? Perché Mario Frigerio disse in aula che da quando il comandante dei carabinieri Luciano Gallorini gli fece il nome di Olindo il 20 dicembre, lui fu sicuro su chi fosse il suo aggressore. Così come confermò il figlio Andrea. Ma gli audio del 22 dicembre, del 24 dicembre e del 26 dicembre col suo avvocato lo smentiscono, dato che in quelle circostanze sembrava non ricordare proprio nulla. Per essere molto chiari, sempre a beneficio della Lucarelli e del suo “basta leggere” nemmeno l’audio del 20 dicembre tra Gallorini e Frigerio mandato in onda da Le Iene fu MAI fatto ascoltare in aula a Como, dove invece venne fatto ascoltare un audio del 15 dicembre in cui Frigerio diceva “è stato Olindo”. E il processo di primo grado si chiuse lì. Peccato che i giudici avessero fatto ascoltare un audio involontariamente modificato, come è scritto nella sentenza d’appello (basta leggere!) con il programma Cool Edit 2000, che cambiò la frase “stavano uscendo” con “è stato Olindo”. Lasciamo da parte le elucubrazioni e i problemi di lettura della giudice di ballo per concentrarci ora su chi ha seguito la strage fin dall’inizio. Perché la Lucarelli ritwitta un messaggio di Giusi Fasano del Corriere della Sera: "L'avvocato non ha avuto bisogno di dire granchè. L'«hanno arrestato», ha tagliato corto, Mario Frigerio ha chiuso gli occhi: «Bene, avvocato. Per me è una conferma». «C'è un'altra cosa, è in carcere anche lei» ha aggiunto il legale, Manuel Gabrielli. Sapeva che questa seconda informazione l'avrebbe stupito e così è stato. Ma lo stupore di Frigerio, il sopravvissuto della strage di Erba, non è durato che un attimo. I pensieri, ieri, erano tutti per la sua Valeria, la moglie uccisa nella carneficina dell'11 dicembre assieme a Raffaella Castagna, al suo piccolo Youssef e a sua madre, Paola Galli. Per il massacro di quella sera sono in carcere da due giorno Olindo Romano e Rosa Bazzi, i coniugi vicini di casa di Frigerio. Lui accusato di omicidio plurimo aggravato, lei di concorso in omicidio. «I Romano ed i Castagna si odiavano. Ma noi cosa c'entriamo? - si dispera Frigerio in lacrime - non abbiamo fatto niente...Io ho aiutato la procura. Adesso chiedo che mi ridiano mia moglie»".   La preparatissima cronista del Corriere della Sera scrive polemicamente rispetto alla trasmissione de Le Iene: “Così. Per saperne un po’ di più… @stanzaselvaggia #Erba” E allega un suo articolo del gennaio 2007. Prima ancora, forte della sua preparazione in materia, twittava: "Un assassino crede sgozzato un uomo che invece rimane vivo per una malformazione alla carotide. Lui si salva (sua moglie e il cane no) e diventa il testimone-chiave, ovvio. Ergastolo. Sentenza definitiva Eppure c’è sempre qualche genio che “io la so meglio” @stanzaselvaggia #Erba". Eh già. Basta leggerlo l’articolo di Giusi Fasano. La seconda parte. Perché, all’epoca, Giusi Fasano scriveva questo: "«indicazioni confuse», come ripetono gli inquirenti. Ha raccontato tutto in dettaglio ai magistrati, precisando ogni volta di più. E l'ultima volta è stato il 2 gennaio. IL VERBALE - «La porta si è aperta all'inizio piano piano, poi di colpo. Ho visto lui, il mio vicino Olindo. Sembrava un indemoniato». Il supertestimone racconta che Olindo non ha detto una parola, descrive l'espressione rabbiosa del suo volto. «Mi ha sollevato di peso e mi ha sbattuto a terra - ricorda. Poi si è chinato e lo ha riempito di pugni e calci. - Sentivo Valeria che gridava, lui continuava a colpirmi». Frigerio si ritrova in faccia in giù, incassa botte in testa, sulla schiena, sul collo. «Poi si è messo a cavalcioni sulla schiena, non potevo muovermi». Il superstite, sottile di statura, rivive in ogni deposizione l'immobilità e il senso di impotenza di quei momenti. Ricorda che un peso enorme lo teneva schiacciato a terra. Sente l amano di quell'uomo, che a lui sembra quella di un gigante, mentre gli afferra la testa e gliela tira indietro. Descrive un gesto simile a quello visto nei video dei terroristi islamici che sgozzano l'ostaggio. Ecco «Mi ha sollevato la testa e ho sentito una lama che mi ha tagliato la gola». Frigerio spiega le sensazioni di quel taglio, il sangue, sua moglie che urla più forte e che probabilmente lo salva, perchè a quel punto, mentre lui è a faccia a terra, la furia cieca dell'assassino si sposta sulla moglie Valeria. Lei scappa, su, per le scale. Lui la rincorre e la uccide. Le ultime parole che Frigerio sente sono «Mario aiutami». Ma lui non può muoversi. Resta lì, davanti alla porta di Raffaella Castagna, mentre il «demonio» scappa e il fuoco appiccato dall'assassino si avvicina sempre più. Frigerio (che ha anche ustioni al viso) adesso sta meglio. Ci vorrà molto tempo per rimettersi fisicamente. Non basterà tutto il tempo che..."

Concentriamoci qui: "Frigerio spiega le sensazioni di quel taglio, il sangue, sua moglie che urla più forte e che probabilmente lo salva. Perché a quel punto, mentre lui è faccia a terra, la furia cieca dell’assassino si sposta sulla moglie Valeria. Lei scappa, su, per le scale. Lui la rincorre e la uccide. Le ultime parole che Frigerio sente sono «Mario aiutami». Ma lui non può muoversi". Giusi Fasano non si rende conto, o forse non lo sa pur essendo tutto agli atti, che se questa fosse la versione delle sentenze, non staremmo qui a scrivere da anni che Olindo e Rosa sono innocenti. Per spiegarlo anche all’autrice dell’articolo, questa ricostruzione sull’assassino che insegue Valeria Cherubini e la uccide nel suo appartamento dopo che la donna ha gridato aiuto, è purtroppo per lei quella che la difesa dei Romano ha sempre sostenuto. Ma i giudici hanno detto tutt’altro: hanno infatti scritto che Valeria Cherubini, con il cranio fracassato da otto colpi e una quarantina di ferite su tutto il corpo, fu colpita SOLTANTO all’altezza del pianerottolo di Raffaella Castagna. Poi salì in casa, senza deglutire sangue, senza respirarlo (non c’è sangue nello stomaco né nei polmoni) e senza perdere che minuscole gocce di sangue sulle scale. Infine arrivò sotto la tenda della sua mansarda e lì, con la gola già squarciata e la lingua già tagliata al piano di sotto, gridò “aiuto” prima di morire. Come si può credere che sia possibile una cosa simile in natura? Com’è possibile gridare aiuto con lingua tagliata, gola squarciata e cranio fracassato? Eppure, i giudici furono costretti a sostenere questa tesi per condannare Olindo e Rosa, perché se Valeria Cherubini fosse stata uccisa in mansarda come logica impone (compresa quella del vecchio articolo di Giusi Fasano), la coppia sarebbe innocente. Il motivo è semplice: dopo che Valeria Cherubini gridò “aiuto”, la coppia non poteva più scendere da lì e andare in casa a cambiarsi, perché di sotto c’erano già i soccorsi. Ma Giusi Fasano questo evidentemente non lo sa. Tanto che scrive «Sentenza definitiva Eppure c’è sempre qualche genio che “io la so meglio”» e allega un suo articolo che per contro scagionava i Romano. Davvero imbarazzante, perché fa capire quale sia il livello di conoscenza dei fatti di chi scrisse della strage per il maggiore quotidiano italiano. Ma il top lo raggiunge Salvo Sottile. Il brillante giornalista e conduttore televisivo twitta: "Ad @a_monteleone ho detto tante altre cose che spero trasmetterà prima o poi. Capisco che non ero funzionale a questa sua parte di racconto ma ascoltando i giornalisti ‘investigativi’ non capisco ancora perché avrebbero dovuto incastrare Olindo e Rosa #erba". E, soprattutto, aggiunge, con l’aria di chi la sa lunga: "La difesa di Olindo e Rosa poteva controinterrogare Frigerio negli anni e non l’ha fatto, poteva chiedere un incidente probatorio sulle tracce di sangue trovate dai Ris e non l’ha fatto. Poteva cercare altre prove, altre testimonianze…che mancano dov’è il complotto? Cos’è che poteva fare la difesa negli anni?! “Controinterrogare” Frigerio negli anni successivi?! Ma da dove l’ha dedotta questa cosa?! La seconda frase è anche migliore: “poteva chiedere un incidente probatorio sulle tracce di sangue trovate dai Ris e non l’ha fatto”. Ora, non lo so come segua Salvo Sottile le vicende, ma sono anni che la difesa chiede di fare gli incidenti probatori sulle tracce di sangue trovate dai Ris e all’epoca giudicate “scientificamente non interpretabili”: lo hanno scritto pure nei bollettini parrocchiali. Anche perchè, com’è noto anche a chiunque, i Ris NON hanno trovato alcuna traccia di Olindo e Rosa nel palazzo della strage e NEMMENO tracce delle vittime in casa loro. Non voglio neppure ipotizzare che Salvo Sottile si riferisca, quanto a incidente probatorio, alla macchia di sangue rinvenuta sull’auto di Olindo. Perchè, in quel caso, anche i muli sanno che non fu trovata dai Ris, ma dal Rono di Como. Infine Sottile, argutamente, dice che la difesa poteva cercare altre prove e altre testimonianze. Ma vah? Però se almeno chi informa sapesse di ciò che parla, potrebbe essere utile a fare chiarezza. O no? Edoardo Montolli

P.S.: Sui social scrivono che è troppo facile tirar fuori gli audio di Frigerio mai entrati a processo solo ora che il testimone è morto. Ma quando la difesa mi mise a disposizione le intercettazioni non trascritte eravamo nel 2010 e nel 2011. Uscirono gli articoli sul settimanale Oggi che ne rivelavano il contenuto e vennero fatti i lanci alle agenzie. Mario Frigerio era ancora vivo. Ma tutti finsero che quegli audio non esistessero.

La strage di Erba e l’imbarazzante articolo di Selvaggia Lucarelli: quando le fantasie diventano notizie, scrive Edoardo Montolli il 30 settembre su Fronte del Blog. Dare giudizi sulle persone che ballano le riesce benissimo. Ma quando si tratta di cose serie, come la vita delle persone, Selvaggia Lucarelli che fa? Inventa di sana pianta le notizie, come se fosse al bar. Così come fa sulla strage di Erba. A distanza di quasi dodici anni dalla strage di Erba, non pensavo che potessero uscire ancora articoli completamente disinformati sulla vicenda. Invece, e con grande stupore su Il Fatto Quotidiano, ci riesce benissimo Selvaggia Lucarelli. Che, rispetto ad allora, quando tantissimi negavano l’esistenza di alcuni atti, riesce pure ad inventarsi notizie di sana pianta e a dare, sulla base delle sue invenzioni, lezioni morali, come se stesse giudicando una gara di ballo o si trovasse al bar a discutere con le amiche davanti ad un gelato. Il titolo dell’articolo è Strage di Erba, i fan di Rosa & Olindo contro i sopravvissuti. E all’interno se la prende con il documentario Tutta la verità, andato in onda sul Nove, spiegando che «con i social pronti all’indignazione a comando e l’orda di programmi a tema cronaca nera, riaprire mediaticamente casi archiviati e lavorare sulle suggestioni è facile». Già, è facile. Non si capacita, Selvaggia Lucarelli, del perché il documentario focalizzi l’attenzione su Pietro Castagna, fratello di Raffaella, figlio di Paola Galli e zio del piccolo Youssef Marzouk, tre delle vittime, domandandosi cosa ci fosse contro di lui. Ma questo dovrebbe chiederlo ai carabinieri di Erba, che – come confermato in aula dal luogotenente Luciano Gallorini – lo sospettarono fin da subito. Salvo non far emergere le macroscopiche contraddizioni tra le dichiarazioni tra padre e figlio e far sparire dalle indagini da subito l’auto utilizzata da Pietro, la Panda nera della madre, che infatti non sarà mai messa sotto intercettazione né cercata. La cosa comica è che Selvaggia Lucarelli, nel riprendere l’articolo sulla propria pagina Facebook, sostiene di aver letto gli atti dell’inchiesta. Se così fosse, dovremmo concludere che abbia patologici problemi di comprensione. Perché nell’articolo su Il Fatto quotidiano si inventa di sana pianta un particolare piuttosto rilevante su un testimone che vide una persona verbalizzata come “il fratello della morta” sul luogo della strage: "Quindi si sottolinea che tale Chencoum, tossicodipendente cliente di Azouz, dichiarò di aver visto un tizio con la barba rossiccia qualche giorno prima della strage parlare con due arabi proprio davanti alla corte. Lo stesso testimone poi sparisce nel nulla". Ho inizialmente pensato ad un, per quanto ingiustificabile, refuso. Invece no. Perché Selvaggia Lucarelli, che dice di aver letto gli atti, lo ribadisce su Facebook aggiungendo un altro dettaglio. E cioè che Chencoum addirittura ritrattò. Nientemeno. Se le cose stessero così, non si capisce in effetti perché parlare di Chencoum. Ma ovviamente le cose non stanno affatto così ed è di tutta evidenza che la Lucarelli non sappia di cosa stia parlando. E figuriamoci dunque se ha letto gli atti. Dunque, Ben Brahim Chencoum era un senza fissa dimora che si presentò in caserma il 16 dicembre del 2006, a distanza di circa un’ora da quando andò lì a rilasciare sommarie informazioni Pietro Castagna. Sostenne di aver visto qualcosa fuori dalla corte esattamente all’ora della strage (non due giorni prima). La sua versione era piuttosto interessante perché la descrizione combaciava con quanto narrato da un dirimpettaio, Fabrizio Manzeni. Ma non basta. Il 25 dicembre Chencoum tornò dai carabinieri, fece stavolta un racconto molto dettagliato e aggiunse che la persona che aveva visto fuori dalla corte era la stessa incrociata in caserma il 16, e che fu insolitamente verbalizzata come “il fratello della morta”, senza cioè alcun nome. Naturalmente Chencoum poteva essersi sbagliato. Ma qual è l’aspetto inquietante di tutto questo? È che il 16 e soprattutto il 25 dicembre non c’erano ancora indagati per la strage (Olindo sarà riconosciuto da Frigerio davanti ai pm solo il 26). Ma il comandante dei carabinieri di Erba – che pure sospettava di Pietro Castagna – tenne inspiegabilmente questa testimonianza a Erba, inviandola in Procura soltanto il 15 gennaio, dopo le confessioni dei coniugi Romano. Perché, non si sa. Ovviamente Chencoum non ha mai ritrattato, è un’altra invenzione da bar della Lucarelli. Al processo venne dichiarato irreperibile quando invece era in prigione e lo si poteva rintracciare benissimo. Ulteriore dettaglio curioso è che il comandante Gallorini disse in aula di aver svolto dei lavori sulla testimonianza di Chencoum. Ma agli atti non esiste alcun verbale in proposito. Le invenzioni dell’articolo su Il Fatto Quotidiano, proseguono. E la Lucarelli le utilizza ancora per dare giudizi morali. Ad esempio:

"Azouz. Che tra le altre cose, solo dalla Cassazione in poi, è diventato improvvisamente innocentista". Qui non c’era nemmeno bisogno di leggere gli atti. Alla Lucarelli sarebbe bastato seguire il processo di primo grado (anche banalmente guardando i giornali) per sapere che Azouz aveva fin da subito avuto dubbi sulla colpevolezza dei coniugi. La polizia penitenziaria di Vigevano inviò una relazione in tribunale con questi dubbi espressi mentre era detenuto e Azouz, prima che la Corte si ritirasse per la sentenza, fu ascoltato. Ma stranamente lì il tunisino negò tutto. Alla vigilia della Cassazione decise infine di smettere di fingere di credere alla colpevolezza di Olindo e Rosa. Perché lo negò nel 2008, bisogna che Selvaggia Lucarelli lo chieda a lui. Potrei esercitarmi ancora a lungo sulle ulteriori sciocchezze messe nero su bianco da Selvaggia Lucarelli nell’articolo, ma dopo aver scritto due libri sul caso e innumerevoli articoli prima su Il Giornale e poi, soprattutto su Oggi, già molti anni fa pubblicai sul sito del settimanale uno speciale con i documenti originali dell’inchiesta. Per quanti volessero verificare le fesserie allora raccontate dalla gran parte dei media. È tuttora online. Selvaggia Lucarelli potrebbe così scoprirle da sola – trovando pure i verbali sulla Panda e su Chencoum – anche se so che non lo farà, essendo più comodo giocare a fare il giudice e a prendere like. Mi preme tuttavia sottolineare un suo commento su Facebook, perché denota quale sia stata l’unica sua fonte per scriverlo. E cioè, con l’aria di chi la sa lunga e conosce i segreti delle redazioni, sciorina ai suoi fan, ottenendo un gran successo di like, la seguente frase: Dove fosse finita la Panda, l’ha poi detto Beppe Castagna al direttore di Oggi Brindani, pensa che gran segreto. Pensa che incredibile coincidenza. Gli articoli su Oggi li scrivevo io: dove fosse la Panda era scritto nei brogliacci delle intercettazioni. E lo sapevamo da subito: è la conversazione tra Carlo Castagna e un’impiegata del 21 dicembre 2006, delle ore 9,20. Lo dico a beneficio della preparatissima opinionista. Secondo Selvaggia Lucarelli, che dunque non ha letto gli atti e non ha manco seguito il processo sui giornali – e neppure ha letto libri e articoli a proposito di ciò di cui si occupa – c’erano tuttavia così tante prove che i Romano sarebbero stati condannati anche «con 34 gradi di giudizio». Addirittura. Deve essere per questo che la Cassazione, nel chiudere la vicenda, scrisse che sul caso si addensavano numerosi dubbi e aporie. Ossia domande senza risposta. Avrebbero potuto chiedere a lei. Se ne sarebbe senz’altro inventata una. Edoardo Montolli

I veri numeri della giustizia in Italia: i dati allarmanti di Strasburgo, scrive Edoardo Montolli il 31 agosto su Fronte del Blog. Quali sono i veri dati sulla giustizia in Italia? Davvero la giustizia funziona perfettamente e ha solo la (notevole) pecca della lentezza processuale? Ho raccontato in questo intervento su Onda Libera, condotto da Giulio Cainarca su Radio Padania, quali sono i veri dati sulla giustizia in Italia, che ci inquadrano, quanto a rispetto del diritto dei cittadini, in un fazzoletto di “patrie” della democrazia come Russia, Turchia, Ucraina e Romania. Ovvero lontanissimi dagli Stati occidentali dell’Europa. Si tratta di dati della Corte di Strasburgo, che riporta tutte le condanne dei paesi europei per la violazione del Trattato dei diritti dell’Uomo dal 1959 al 2017. L’Italia “eccelle” non solo nella lentezza processuale, ma anche, di gran lunga, nella violazione dei diritti della difesa, nell’intrusione illecita nella vita famigliare (in cui si contano notevoli sentenze sanzionate a Strasburgo per sottrazione illecita di minori) e nella proprietà privata.

Strage di Erba: perché Rosa e Olindo hanno confessato? Scrivono il 23 ottobre 2018 Le Iene. Quinto appuntamento con l'inchiesta di Marco Occhipinti e Antonino Monteleone sul massacro di 4 persone del 2006 per cui sono stati condannati Olindo Romano e Rosa Bazzi: ecco perché la loro confessione potrebbe non essere una prova decisiva. Eccoci di fronte alla prova ritenuta più importante che ha portato alla condanna definitiva all’ergastolo di Rosa Bazzi e Olindo Romano per la Strage di Erba, ovvero la loro confessione dell’uccisione della vicina di casa Raffaella Castagna e il figlio Youssef, assieme alla suocera, Paola Galli, e a un’altra vicina di casa, Valeria Cherubini, l’11 dicembre 2006 a Erba (Como). Il motivo: le continue liti condominiali. Siamo al quinto appuntamento dell’inchiesta di Marco Occhipinti e della Iena Antonino Monteleone sulla strage di Erba. Siamo partiti dai dubbi di Azouz Marzouk, che nella strage ha perso la moglie Raffaella e il figlio Youssef, e di molti esperti e giornalisti. Abbiamo analizzato poi la testimonianza dell’unico superstite, Mario Frigerio, marito di Valeria Cherubini, che ha riconosciuto Olindo come colpevole. In realtà, nelle sue prime parole al risveglio avrebbe parlato di un’altra persona, di carnagione olivastra, più grosso di lui e non del posto. Ci siamo soffermati successivamente su un’altra prova: la macchia di sangue trovata sull’auto dei due. I dubbi aumentano, sia sul modo del reperimento della prova sia sul suo possibile inquinamento. Nel quarto servizio abbiamo parlato della morte di Valeria Cherubini. Una ricostruzione alternativa a quella stabilita dalle sentenze sul suo decesso potrebbe scagionare Rosa e Olindo. Anche il generale Luciano Garofalo, ex comandante del Ris dei Carabinieri, proprio sulla base di questa e altre ricostruzioni, sostiene: “È lecito avere dei dubbi sulla strage di Erba”. Dalle intercettazioni, in questo nuovo servizio, emerge come Olindo decide di confessare sperando di ottenere benefici di pena e non l’ergastolo e di lasciare la moglie in libertà. Rosa però non ci sta: confessa per prima. Olindo prova allora a scagionare lei, sostenendo di aver fatto lui tutto da solo. Hanno confessato potendo vedere le foto della strage e conoscendo man mano le dichiarazioni dell’altro. Le versioni con il tempo “si aggiustano”. Olindo a un certo punto dice al pm: “Metta quello che vuole”. Rosa chiede continuamente: “È giusto, così?”. Nonostante tutto questo, gli errori delle due versioni restano. Quella di Rosa sembra surreale, quella di Olindo contiene inesattezze clamorose da quando avrebbe staccato la luce al semplice accendino con cui avrebbe appiccato il fuoco alla casa (cosa impossibile), dai numeri dei colpi (da 2 a 43 coltellate a Valeria Cherubini) alle armi del delitto, “una stanghetta e un coltellino svizzero”. In tutto colleziona 243 errori, uno ogni 30 secondi. Gli errori di Rosa sono incalcolabili. “Il fenomeno delle false confessioni è più che frequente: mediamente una confessione su quattro è falsa”, dice un esperto di neuroscienze forense, Sartori, che dubita delle confessioni di Rosa Bazzi e Olindo Romano. I dubbi ormai sono molti. Vorremmo porre le domande a entrambi i condannati. Il ministro della Giuistizia, Alfonso Bonafede, dice che non ci sono ostacoli. Abbiamo ottenuto l’intervista con Olindo Romano in carcere: in conclusione di questo servizio ne vedete l’esordio, domenica prossima ne manderemo in onda la versione integrale in esclusiva assoluta.

Strage di Erba, perchè Rosa e Olindo hanno confessato? Ultime notizie, le due versioni zeppe di errori: le anomalie sui coniugi Romano, la ricostruzione de Le Iene, scrive il 23 ottobre 2018 Carmine Massimo Balsamo su "Il Sussiadiario". Strage di Erba, perchè Rosa e Olindo hanno confessato? Dopo la sparizione delle intercettazioni e i dubbi sul luogo della morte di Valeria Cherubini, una nuova puntata dell’inchiesta de Le Iene sulla tragedia di Erba. Il focus è su cosa hanno spinto i coniugi Romano a confessare la strage: riascoltando le prime intercettazioni dopo il fermo, i due non sembrano due spietati assassini, faticano a capire perché sono finiti in carcere, “tant’è che la moglie piange” come evidenzia l’inviato Monteleone. Interrogato dai pm, Olindo spiega: “Il fatto di essere stati riconosciuti dal Frigerio e le tracce di sangue delle vittime trovate sull’auto di Olindo Romano”. Ricordiamo che, sebbene ritrattata prima del rinvio a giudizio, la confessione ha convinto i giudici della loro colpevolezza. Ma ancora prima dell’ammissione, dopo il primo incontro con i magistrati, queste erano le parole dei Romano: “Non è da noi fare quelle cose lì, abbiamo litigato ma non da arrivare a quel livello lì”.

PERCHE’ OLINDO E ROSA HANNO CONFESSATO? Olindo Romano ha perseverato: “Io non l’ho mica fatto eh. Frigerio può dire quello che vuole, che ci posso fare io”. Il 10 gennaio seguente Olindo chiede di incontrare i magistrati con l’unico scopo di vedere la moglie: “Era l’unico modo per vederla”, confessa ai pm. I magistrati insistono per cercare di strappare la confessione e, dopo due giorni in isolamento e la minaccia di non vederla più, i pm gli permettono un incontro con Rosa. Olindo arriva a capire che con le prove che hanno in mano rischia l’ergastolo, mentre con il rito abbreviato ci sarebbe uno sconto: “Ma cosa c’è da confessare, non siamo stati noi”, sottolinea Rosa, “Non è vero niente Olli, sai che non è vero niente di questa cosa”. Olindo replica: “Se facciamo così prendiamo anche dei benefici, te ne vai a casa”. Subito dopo la svolta: dai magistrati entra Rosa prima di Olindo e inizia racconto delirante, cercando di prendersi le colpe per scagionare il marito. “Ho preso il coltello e sono partita… Niente, Olindo è entrato e gli ha dato il colpo. Lei, la mamma è caduta, si è accasciata a terra, lei invece si è alzata subito: mi ha sputato in faccia, si è messa a ridere e abbiamo lottato insieme. Più picchiavo, più la accoltellavo e più mi sentivo sollevata”, lo straziante racconto della donna. Il giornalista investigativo Edoardo Montolli sottolinea che “le confessioni non tornano quasi mai con i fatti, non erano dettagliatissime”. E l’avvocato Schembri conferma: circa un errore ogni 30 secondi in testimonianze considerate dettagliate e sovrapponibili nella sentenza di primo grado.

LA STRAGE DI ERBA, L’AVVOCATO DI OLINDO E ROSA: “NON CREDO AI COMPLOTTI MA E’ EVIDENTE CHE QUALCUNO HA OSTACOLATO E FORSE INDIRIZZATO LE INDAGINI.” Scrive la Redazione di TAG24 il 22 Ottobre 2018. Nuovo clamoroso capitolo della strage di Erba avvenuta l’11 dicembre del 2006 e per la quale sono stati condannati all’ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi, ritenuti responsabili dell’uccisione del piccolo Youssef Marzouk, di Raffaella Castagna, Paola Galli e Valeria Cherubini. A Radio Cusano Campus è andato in onda lo sfogo dell’avvocato Fabio Schembri, legali di Olindo Romano e Rosa Bazzi, intervistato per “La Storia Oscura” da Fabio Camillacci.

C’è stata la distruzione della gran parte dei reperti utili a far riaprire le indagini.  “E’ successo e sta succedendo un po’ di tutto. Verbali sbagliati, intercettazioni ambientali scomparse, altre non messe agli atti, presunta manipolazione della memoria dell’unico superstite della strage di Erba, Mario Frigerio, dubbi sulla repertazione che ha portato a rilevare una piccola traccia di sangue trovata nella macchina di Olindo Romano, estenuanti rimpalli tra Procure. Ma la cosa più grave e più recente è la distruzione della gran parte dei reperti utili a far riaprire le indagini. Questi contenevano le tracce dei veri assassini: reperti distrutti nell’inceneritore di Como prima che la Cassazione decidesse di dire no alla revisione del processo.

Nemmeno nella casa dei coniugi Romano sono state rinvenute tracce di sangue delle vittime. Questo nonostante i provvedimenti delle Procure di Brescia e di Como che avevano sospeso la distruzione di quei reperti. Tutto ciò non solo è incredibile ma è inammissibile in uno Stato di diritto. Credo che una cosa del genere non sia mai accaduta nella storia della nostra Repubblica. Fortunatamente - ha aggiunto l’avvocato Schembri - ci sono altri reperti che siamo riusciti a far conservare presso l’università di Pavia e ora infatti chiederemo un accertamento tecnico su questi reperti rimasti. Ovviamente, ci auguriamo anche che tramite il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede si possa fare chiarezza su questo. E anche su altri strani episodi che si sono verificati come la scomparsa di importanti intercettazioni ambientali. Oltre a questo abbiamo a disposizione altri elementi nuovi utili per dimostrare che Olindo e Rosa sono innocenti. Voglio infatti ricordare - ha concluso il legale di Olindo e Rosa - che i Ris di Parma hanno accertato che sulla scena del crimine non ci sono tracce di Olindo e Rosa. Nemmeno nella casa dei coniugi Romano sono state rinvenute tracce di sangue delle vittime. Si dice, ‘però Rosa e Olindo hanno confessato’. Ma la loro confessione è stata clamorosamente smentita dal dato scientifico che acquista maggior rigore soprattutto se c’è stata una confessione. Non credo ai complotti ma qualcuno ha ostacolato e indirizzato le indagini”.

Strage di Erba. Ecco Olindo privatissimo: gli incubi, la cella. E su Bossetti..., scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano” del 14 dicembre 2015. «Tra me e Rosa non è cambiato nulla, ma vorrei passare più tempo insieme a lei. È la cosa che mi manca». Olindo Romano è ancora innamorato di sua moglie Rosa Bazzi, nonostante si possano vedere solo tre volte al mese. Sei ore in tutto. Lui, classe 1962, faceva lo spazzino. Ora è rinchiuso nel carcere di Opera. Lei, di un anno più giovane, era una donna delle pulizie. È in cella a Bollate. Sono stati condannati all'ergastolo per aver ucciso quattro persone - ferendone gravemente un'altra - a Erba, l'11 dicembre 2006. Secondo le sentenze, dopo anni di liti condominiali hanno stroncato con coltelli e spranga la loro vicina Raffaella Castagna (30 anni), suo figlio Youssef Marzouk di 2, sua madre Paola Galli di 60 e un'altra residente del palazzo: Valeria Cherubini, 55. Mario Frigerio, 65 primavere, è riuscito a sopravvivere per miracolo (poi è morto per malattia). Ora gli avvocati di Olindo e Rosa (Fabio Schembri, Luisa Bordeaux, Nico D' Ascola) sperano di poter riaprire il processo. Facendo analizzare del «materiale pilifero», probabilmente capelli, trovato sul corpo del piccolo Youssef. Olindo - ciabatte, pantaloni della tuta blu e maglietta azzurra - crede di poter essere scagionato. Lo confida in una lettera, dove risponde a delle domande di Libero.

Signor Romano, come sta?

«Come salute sto abbastanza bene, mentalmente sono provato ma guardo avanti. A tempi migliori».

Ci descriva la sua giornata tipo.

«Mi sveglio verso le 8, faccio colazione e terapie per la pressione. Dalle 9 alle 11 lavoro. Tengo pulito fuori dal fabbricato dove mi trovo: strada, parcheggio e giardino».

Poi?

«Verso le 13 pranzo, con un'ora per andare nel locale cucina se voglio prepararmi qualcosa. Poi a volte vado all' ora d' aria con gli altri, mi occupo del giardino, taglio l'erba, se mi avanza tempo mi occupo dell'orto. Dalle 16 alle 19 faccio doccia e bucato».

E si arriva all' ora di cena.

«Non mi perdo mai Il segreto! (Una soap opera spagnola, ndr). Ma nei fine settimana non c' è, quindi vado in una saletta a giocare a carte, poi ceno. Mi piace preparare piatti veloci: spaghetti col sugo, carni, cibi surgelati. Alle 23 vado a dormire, magari sbrigo le faccende domestiche e rispondo alla corrispondenza».

Chiuda gli occhi. Che profumo c'è in carcere?

«C' è un po' di odore di fumo, nel bagno di Lysoform con il detersivo che uso per il bucato».

Com' è la sua cella?

«Entrando a destra, c' è un mobiletto con le ruote dove tengo le scarpe e sul ripiano le cose di cartoleria. Alle pareti ho tre calendari compreso quello di frate Indovino».

E che se ne fa di tre calendari?

«Sono indispensabili per non dimenticarmi cosa ho da fare!».

Diceva della cella.

«C' è un vecchio letto da ospedale con materasso e cuscino da campeggio che ho acquistato un paio di anni fa. Lì vicino ho il campanello per le emergenze e una lampadina che mi permette di scrivere. Ho una finestra, sulla sinistra c' è un piccolo bagno con lavabo, wc e una vaschetta attaccati insieme in acciaio, con i rubinetti da giardino. Poi ho un armadietto in metallo e un tavolino dove tengo quello che mi serve per cucinare. Tutto è tinteggiato di arancione col soffitto bianco».

Ha mai diviso la cella con qualcuno?

«No».

Può leggere i giornali e navigare in Internet?

«Leggo un po' di tutto, la tv la guardo poco, a Internet non si può accedere».

È interessato anche alla cronaca nera?

«Non la seguo molto».

Si è fatto un'idea di Massimo Bossetti, il muratore accusato di aver ucciso Yara Gambirasio?

«Anche su Bossetti hanno fatto un grande pasticcio, non ho idea di come andrà a finire».

Riceve molte lettere?

«Sì, se fossero di più farei fatica a rispondere perché non ne avrei il tempo. Ho degli amici di penna che per qualche ora mi aiutano a dimenticare questo brutto luogo».

Lei è considerato un mostro.

«Mi sento come un pesce di lago finito in una palude».

E come la trattano gli altri detenuti?

«C' è chi mi parla e chi no e io mi comporto di conseguenza, non ho mai avuto grossi problemi».

C' è qualcosa che le ha dato particolarmente fastidio?

«Il modo, o la maniera, con cui tanti giornalisti della carta stampata e della tv, estrapolando da atti e documenti, sono stati colpevolisti a prescindere perché non hanno guardato tutto il contesto. Evidentemente non faceva notizia. Così hanno rovinato tanta gente, influenzando chi è chiamato a giudicare».

Qual è il momento più bello e più brutto che ha avuto in carcere?

«Diciamo che i momenti, belli o brutti, qui hanno un sapore diverso. Anche perché non mi manca qualcosa in particolare, qui mi manca sempre tutto!».

E in particolare le manca sua moglie Rosa...

«Il nostro rapporto non è cambiato, ma si è ridotto alle poche ore che abbiamo a disposizione».

Ha più sentito qualcuno della famiglia Castagna, per esempio il signor Carlo che nella strage ha perso figlia, moglie e nipote?

«Non ho più sentito nessuno, se poi loro considerano esaurienti i processi e sono convinti di aver ottenuto nel suo insieme un giusto processo al di là di ogni ragionevole dubbio, be' non c' è niente da dirgli».

E cosa pensa di Azouz, il marito di Raffaella Castagna e del piccolo Youssef?

«Azuz ha capito che le cose non tornavano, ma ormai è andata così. Guardiamo avanti. C' è ancora Strasburgo (la corte di giustizia europea che dovrà stabilire se i Romano hanno avuto un giusto processo, ndr) e la revisione del processo».

Ha incubi?

«No, dato che vivo un incubo. Quando mi sveglio non ricordo cosa ho sognato».

Lei e sua moglie prima vi siete autoaccusati e poi vi siete professati innocenti. Perché avete confessato, se non avete commesso la strage?

«È successo il 10 gennaio (2007, ndr), quando un carabiniere della scientifica di Como è venuto per prendermi delle impronte. Con lui ce n' era un altro, che non doveva essere lì e mi chiedo: chi l'ha mandato?».

E cos'è successo?

«Soprattutto lui, con insistenza, mi ha prospettato la migliore via d' uscita dalla mia situazione, e a Rosa hanno detto la stessa cosa».

Scusi, signor Romano: lei e sua moglie Rosa eravate accusati di reati gravissimi. Come potevate credere che la migliore via d' uscita fosse confessare un crimine mai commesso?

«Sul momento mi è sembrato il minore dei mali, non avevo capito che ero finito in qualcosa di più grande di me. Chiamatela come volete: manipolazione, trappola psicologica… L'avvocato d' ufficio è stato travolto pure lui».

Poi avete cambiato idea.

«Grazie a persone che ci erano vicine abbiamo capito che stavamo sbagliando e abbiamo ritrattato, ma quando sono arrivati gli avvocati che abbiamo tuttora il disastro era già stato fatto. Il giudice non ci ha ascoltati».

Cosa ricorda della sera della strage, quando siete tornati da Como e avete trovato la vostra palazzina zeppa di carabinieri, pompieri, giornalisti e curiosi?

«Ricordo quasi tutto, ma sono ricordi poco piacevoli e sfuocati dal tempo trascorso».

Ma se non siete stati lei e Rosa, chi ha ammazzato quelle persone?

«Non saprei».

Si sente una vittima?

«Vittima o capro espiatorio, la differenza è poca».

Cosa pensa della giustizia italiana?

«Va cambiata, lo sanno e lo dicono quasi tutti, il problema è che non lo fa mai nessuno. Per il momento».

Nei momenti difficili cosa l'ha aiutata?

«La speranza. E tante brave persone che ci hanno sostenuto a partire dai nostri legali e da altri che non conosco ma che a suo modo ci hanno aiutato».

Va a messa?

«Posso andarci ogni quindici giorni, Dio è sempre di conforto come lo sono i cappellani che ci sono nelle carceri».

S' immagini fuori di qui.

«La prima cosa che farei è abbracciare Rosa!».

Le capita di pensare alla vostra vecchia casa di Erba?

«Qualche volta, anche se non è più nostra».

Non si distrae col calcio?

«Non lo seguo».

Ascolta musica?

«Sì ma non ho preferenze: ogni cantante o gruppo ha dei brani che mi piacciono. Italiani e non».

Segue la politica?

«Non mi pongo il problema: mi hanno tolto il diritto di voto».

Ultima domanda: crede davvero di poter tornare libero, dimostrando la sua innocenza?

«Certo che ci credo, e non sono il solo a crederci».

«Abbiamo sbagliato a confessare» Olindo e Rosa, l’ultima battaglia. Carcere di Opera, l’ex netturbino all’ergastolo dopo la sentenza definitiva della Cassazione punta alla revisione: speriamo di uscirne, scrive Gabriele Moroni su “Il Giorno” il 28 giugno 2015 - La voce di Olindo Romano dal carcere di Opera. Appesa alla speranza che il lavoro dei difensori riesca a riannodare il filo esilissimo che conduce alla revisione e un nuovo processo. Le sentenze sono state inequivocabili, grevi come macigni. La condanna all’ergastolo è stata resa definitiva dal pronunciamento della Cassazione: l’ex netturbino e la moglie Rosa Bazzi sono i carnefici della strage di Erba, la notte degli orrori dell’11 dicembre del 2006, quando, in un condominio di via Diaz grande come un falansterio, vennero trucidati Raffaella Castagna, il suo bambino Youssef, di due anni, la madre Paola Galli, la vicina Valeria Cherubini, mentre il marito di quest’ultima, Mario Frigerio, si salvò solo perché una malformazione della carotide deviò il coltello dell’assassino che gli trapassava la gola.

Signor Romano, spera nella revisione?

«La nostra difesa sta lavorando bene alla revisione del processo. Certamente, dopo tutto speriamo che si giunga a rimediare all’errore giudiziario fatto nei nostri confronti».

Tutti si chiedono perché, dopo avere confessato, avete ritrattato. Perché?

«Ho ritrattato semplicemente perché non avendo detto la verità, ho deciso di dirla. Cioè che non eravamo noi gli autori della strage. Inizialmente, sbagliando, ho pensato che fosse il minore dei mali (confessare - ndr), visto il quadro che ci era stato prospettato. La stessa cosa ha pensato Rosa e siamo finiti nei guai».

Come vive oggi? Come trascorre le sue giornate?

«Oggi vivo male, guardando avanti, in attesa che le cose cambino. Intanto passo tre ore come giardiniere, un’ora all’aria, due nell’orto, un’altra in saletta a giocare a carte. Dopo cena qualche lavoretto domestico, la corrispondenza ed è passata la giornata».

Tempo fa i giornali hanno pubblicato che ha ideato una particolare scacchiera per il gioco della dama.

«Dama da una parte e scacchiera dall’altra, ideata quando non avevo niente da fare. Ci si può giocare in due, tre e in quattro. Per un po’ ci giocavo da solo, poi l’ho messa nel cassetto».

Sua moglie. Vivevate in assoluta simbiosi. Come sono, oggi, i vostri colloqui?

«I nostri colloqui, tre ogni mese, sempre al venerdì, punto di riferimento in attesa che ci mettano nello stesso “collegio”, se non altro».

Cosa vorrebbe dire alla famiglia Castagna? Carlo Castagna, padre, marito e nonno di tre delle vittime, ha espresso il desiderio di incontrarvi per quello che dovrebbe essere un momento di raccoglimento.

«Al signor Castagna non saprei cosa dire, visto che ci ritiene responsabili della perdita dei suoi familiari. Senza essere polemico, trovo strana questa sua insistenza nel volere venire a trovarci, come il fatto, diciamo così, di pubblicizzare il suo perdono. Penso che i momenti di raccoglimento devono essere personali e privati, come il perdono che si raggiunge non nell’immediatezza, ma con il tempo».

Azouz Marzouk, il tunisino marito di Raffaella Castagna e padre di Youssef, si è schierato in vostra difesa. Questo l’ha stupita? Le ha fatto piacere?

«Azouz non mi ha stupito, mi ha fatto piacere. Penso che già da molto tempo aveva capito che non c’entravamo, arrivando poi alla conclusione che conosciamo».

Riesce a vedere un futuro davanti a sé?

«Un futuro lo vedo, come sarà non posso saperlo. Questo grazie alle tante persone che ci sono vicine e ci aiutano. Li ringraziamo tutti di cuore. Concludendo, nella vita ci sono cose che ti cerchi e altre che purtroppo ti vengono a cercare. Speriamo in bene».

“Chi la visto?” su Rai tre ripercorre le tappe di una vicenda tutta da chiarire.

ROSA: “Ma che cosa c’è da confessare… non siamo stati noi…” OLINDO: “Lo so aspetta… Per tagliare le gambe al toro… Metti che sono stato io…” ROSA: “Ma quando sei andato su?” OLINDO: “Non lo so.” (Intercettazione ambientale del 10 Gennaio 2007 nel carcere di Bassone, Como).

IL GRANDE ABBAGLIO. Due innocenti verso l’ergastolo? di Felice Manti e Edoardo Montolli. Aliberti editore.

La verità è che questa storia è ancora tutta da raccontare.

Controinchiesta sulla strage di Erba. Il problema vero è che in questa vicenda non torna niente. Non tornano le perizie, non torna il riconoscimento che Marco Frigerio ha fatto di Olindo, non torna la macchia di sangue sull’auto, non torna niente…

“Quando abbiamo iniziato a occuparci del caso, esattamente come immaginerà il lettore, abbiamo pensato che si trattasse di un’idea folle. Poi, sfogliando le carte, scoprimmo che ogni cosa non tornava.

Non tornava la perizia del Ris, depositata ben dieci mesi più tardi, che non aveva trovato tracce dei vicini di Erba sul luogo della strage, né delle vittime in casa loro o in garage. Eppure le avevano cercate la sera stessa del massacro, non mesi, né settimane, né giorni dopo.

Non tornavano le intercettazioni ambientali in cui i coniugi, ignari di essere ascoltati, si mettevano d’accordo per confessare il falso perché spiazzati dalle prove a loro carico.

Non tornavano le confessioni, rilasciate, annotava il gup Vittorio Anghileri, con violazione dei diritti della difesa. E ancora non tornava quell’unica macchia di sangue trovata sul battitacco dell’auto di Olindo Romano e Rosa Bazzi e il singolare riconoscimento dell’unico sopravvissuto, Mario Frigerio. Che, dopo aver detto che l’aggressore era un gigante di colore e dai capelli rasati, nove giorni dopo la strage accusava un vicino di casa che conosceva bene da tempo.

E soprattutto non tornavano, questi dettagli, perché nessuno li aveva mai scritti. Di ogni cosa era stato riportato l’esatto contrario di quanto era nelle carte. Scavando e indagando, il dubbio ha preso sempre più piede, fino ad accorgerci che le cose potevano essere andate, dati alla mano, in tutt’altra maniera”.

Felice Manti ed Edoardo Montolli hanno così iniziato a scrivere dalle colonne del “Giornale”. Poi il materiale era così tanto e così da approfondire, da decidere di farne un libro.

Un libro sconvolgente e appassionato, che contiene anche testimonianze inedite e una lettera inviata da Olindo Romano e Rosa Bazzi, scritta in carcere, nella solitudine della cella.

STRAGE DI ERBA: "Montagne di dubbi sulla colpevolezza di Olindo e Rosa" (Edoardo Montolli).

E se la strage di Erba non fosse stata compiuta da Rosa Bazzi e Olindo Romano? Sembrava fantascienza, un’ipotesi del genere: poi Edoardo Montolli e Felice Manti si sono letti le carte del processo, e hanno scoperto che qualcosa non tornava. Ci hanno scritto un libro, Il grande abbaglio, inizialmente ignorato. Loro due? Pazzi, figurati: a Erba, sono stati i vicini diabolici, la questione è chiusa. Ora sembra che le cose stiano cambiando. Gabriele Ferraresi ne ha parlato con Edoardo Montolli:

— intervista —

Sembra che chi dava dei pazzi a te e Felice Manti si stia ricredendo. Una bella rivincita, no?

«E’ presto per dirlo. Di certo gli inviati speciali del Tg1 e del Tg2, dopo aver visto le carte, si sono resi conto che ci sono diversi dubbi. Così come se n’è accorto il direttore di Oggi, che oggi fa uscire in edicola il mio ultimo libro, “L’enigma di Erba”.»

Che cosa non vi ha convinto, nelle carte del processo di Erba?

«Niente. C’è un testimone che racconta che il suo aggressore era olivastro. Arrivano i carabinieri e gli chiedono se “la figura nera che aveva di fronte” potesse invece essere Olindo. Glielo chiedono un sacco di volte e lui alla fine dice sì, potrebbe essere Olindo. Un brigadiere trova una macchia di dna, della moglie del testimone sull’auto dei Romano. Per passarla in diverse parti prima con il crimescope e poi con il luminol ci mette sette minuti. Solo che la macchia sull’auto non si vede: non c’è una foto buia dove si vede il blu del luminol. C’è una foto normale con sopra un cerchietto in cui il brigadiere sostiene ci fosse la macchia. Sarà senz’altro così. Però non sa molto di altro il brigadiere di quella sera: non sa nemmeno che l’orario di inizio del verbale è sballato rispetto a quando iniziarono gli accertamenti. Non sa nemmeno che non era da solo, come dichiarò in aula, a fare accertamenti: da una foto scattata da lui, ho scoperto che, alzando la luminosità, appariva sullo sfondo un uomo con il volto coperto e lo spruzzino del luminol in mano. Chi, è Olindo? E’ Olindo che faceva gli accertamenti per mandarsi all’ergastolo? E poi le strabilianti confessioni che ho provato siano state fatte guardando le foto della strage, recuperando un vecchio verbale del 6 giugno 2007. E sono pure gli unici dettagli, quelli visti nelle foto, i dettagli che tornano nelle confessioni. Infatti Rosa la prima volta disse addirittura di aver ammazzato Raffaella Castagna da sola. E che dopo 20 minuti arrivarono Paola Galli e il bambino, che invece arrivarono e furono uccisi insieme. Disse sempre di aver tentato di accoltellare Frigerio, che mai lo ha ammesso. Non sapeva nemmeno che non ci fosse la luce in casa di Raffaella Castagna. E sostenne che Frigerio fosse stato preso a sprangate, quando invece fu trascinato nell’appartamento e sgozzato, secondo lo stesso Frigerio. Ma in aula a Como, questi dettagli preferirono non farli sentire. Era più ad effetto il video rilasciato al criminologo Massimo Picozzi, quello che poi passò in tv. Anche se nessuno, davanti alla tv, poteva sapere se ciò che diceva la donna corrispondesse al vero. E questo, per essere chiari, è solo l’inizio della montagna di dubbi che sorgono sulla colpevolezza dei coniugi.»

Crollano le certezze: se ci pensi, Alberto Stasi, altra icona della “nera” degli ultimi anni, è stato un assassino per mesi, poi l’assoluzione, poi una puntata a Matrix ed è tutto ribaltato, ora è un povero ragazzo cui “qualcuno” ha ucciso la ragazza, Chiara Poggi. Prevedi che qualcosa del genere possa accadere anche con Olindo e Rosa? Ma soprattutto: funziona maluccio la giustizia in Italia, se le cose stanno in questa maniera…

«Il caso Stasi non l’ho seguito. Quanto a Erba io spero solo che sia consentito di riaprire il dibattimento, chiarendo a Milano ciò che a Como non fu fatto, visto che alla difesa furono tagliati 64 testimoni e che il processo con quell’audio mandato in aula in cui si sentiva “per me è stato Olindo”, una frase che Frigerio non sapeva di aver detto visto che accusava nello stesso momento un uomo di colore. Quell’audio, analizzato dalla difesa, risulta trattato con un programma per l’amplificazione e l’elaborazione del suono, Cool Edit 2000. Per ciò che riguarda la giustizia, siamo il Paese più condannato per ingiuste detenzioni. Ma pure quanto a errori giudiziari non scherziamo: negli ultimi due anni sono usciti dalla galera due innocenti che si sono fatti rispettivamente 15 e 30 anni di prigione ingiustamente.»

Puoi spiegare ai nostri lettori perché a compiere la Strage di Erba potrebbero non essere stati Olindo Romano e Rosa Bazzi?

«Non c’è il sangue delle vittime, sangue di cui sarebbero dovuti essere lordi, in casa loro. Si parla di microtracce, eppure non ci sono. E su questo non si trovano precedenti nella nera. Perché, com’è noto, il sangue anche quando è lavato o su cui addirittura sia stata passata sopra vernice, si trova. Invece non c’è nulla. Ed è curioso. Di più. Rosa aveva un cerotto sul dito: e non c’è sopra il dna delle vittime. Non c’è neppure il sangue degli imputati nel palazzo e nelle case delle vittime, dove pure ci sono impronte di scarpe mai identificate e perfino un’impronta palmare che, confrontata con tutti quelli entrati nel palazzo, non si sa di chi sia. Le confessioni sono quelle che sono. Sul resto mi pare di aver già risposto prima.»

Strage di Erba. I dubbi di “Oggi”. Dalle prime udienze del processo d’appello di Erba si conferma quello che Oggi ha messo in luce. Sulla strage dell’11 dicembre 2006, sull’omicidio di Raffaella Castagna, di suo figlio Youssef, di sua madre Paola Galli e della vicina di casa Valeria Cherubini troppi sono i punti oscuri, i vuoti investigativi, i dubbi. E se Rosa e Olindo, condannati all’ergastolo, fossero innocenti? Sulla loro colpevolezza si è cristallizzata una convinzione generale. Ma dalle carte emergono circostanze, interrogatori, indizi che dovrebbero suggerire qualche cautela. Soprattutto se si rileggono gli atti in cui il 10 gennaio 2007 Olindo Romano e Rosa Bazzi confessano (e poi ritrattano) nella convinzione di ottenere una cella matrimoniale; in cui il riconoscimento di Mario Frigerio, unico sopravvissuto, arriva solo dopo che il nome di Olindo glielo fanno a lungo i carabinieri; in cui si ammanta di mistero perfino l’unica prova concreta trovata contro la coppia: la macchia di sangue individuata sull’auto di Olindo.

L’UOMO SENZA VOLTO

Il 26 dicembre 2006 è la giornata cruciale. Frigerio, sopravvissuto allo sgozzamento per una malformazione della carotide, è ancora in ospedale. Dopo la strage, per due volte ha descritto un aggressore sconosciuto e olivastro, ma alle 13.10 del 26 davanti al pm che lo interroga conferma il dubbio avuto coi carabinieri e cioè che l’aggressore è Olindo. Ma è ancora un po’ confuso: dice che Olindo è olivastro, quando in realtà è bianco cadaverico. La testimonianza però non trova riscontri: negli «stracci» sequestrati ai coniugi Romano la notte della strage il Ris non ha trovato tracce di sangue. Non ne troverà nemmeno in casa loro e nulla di riconducibile a loro verrà scoperto nell’appartamento della strage. Dopo il fragile riconoscimento di Frigerio ai pm, la sera stessa la sorte va in aiuto degli inquirenti e fornisce la prova che inchioda Olindo. Lo spazzino viene invitato a presentarsi in caserma a Como con la sua Seat Arosa. «Accertamenti urgenti», dicono i carabinieri. Anche se li verbalizzeranno due giorni dopo. Se ne occupa il brigadiere Carlo Fadda. Ha i reagenti per il sangue. Prima passa il mini crimescope, invano. Poi il luminol, che dà l’effetto di luminescenza sul battitacco lato guida. Il brigadiere passa la carta filtro e preleva il campione in cui sarà trovato il dna di Valeria Cherubini, moglie di Frigerio. Verso le 23 Fadda comincia gli accertamenti e scatta 12 foto. Al primo processo gli avvocati dei Romano, Luisa Bordeaux e Fabio Schembri, gli chiederanno: «Si è occupato solo lei di questo accertamento?». «Sì», risponderà il brigadiere, «ho fatto tutto io». E precisa: è lui che ha spruzzato il luminol, ed è sempre lui che ha scattato le foto. Al presidente, Fadda aggiungerà che era presente anche Olindo. Dunque c’erano Fadda, Olindo e basta. Come da verbale. La foto decisiva è la numero 11: è quella del battitacco su cui c’era il sangue della Cherubini. La prova per l’ergastolo. La prima cosa da chiarire è che non si vede l’effetto del luminol, che in presenza di una traccia brilla. No, è una foto normale su cui è disegnato un cerchietto: sul verbale c’è scritto che la traccia era lì dentro. Bisogna fidarsi del verbale, dunque. E allora è interessante tornare a leggerlo. C’è una frase curiosa: «Gli operanti decidevano di repertare…». Perché «operanti» se l’operante è uno, Fadda? Forse è meglio guardare con più attenzione le foto originali. Guardando bene la foto 3, presa alle 23.29, si intravede un uomo. Si copre il volto con qualcosa e ha lo spruzzino del luminol nella mano sinistra. Chi è? Le immagini scattate con una reflex digitale, una Fujifilm Finepix S7000, vengono registrate nella memoria con data e ora di scatto. La foto precedente è stata scattata 11 secondi prima, dal retro della vettura. Non c’è alcuna possibilità che l’uomo senza volto sia lo stesso che ha fatto la foto. Non c’è nemmeno il tempo fisico per l’autoscatto, tanto che il cavalletto appare proprio in disparte. E nemmeno ci sarebbe motivo per fare un autoscatto e mettersi dietro la vettura con uno straccio sul volto. E allora chi è l’uomo? È forse Olindo? E cosa ci fa Olindo con lo spruzzino del luminol in mano? Quello che appare nell’immagine sembra anche molto più snello di Olindo. Allora, l’uomo che si copre il volto è Fadda ed è Olindo la persona che scatta la foto? Assurdo. Ma se così fosse e si prendesse in considerazione l’ipotesi più inverosimile del mondo, e cioè che il colpevole della strage abbia aiutato il brigadiere Fadda a fare gli accertamenti sulla sua auto per spedire se stesso all’ergastolo, perché Fadda, in aula, non l’ha detto? Ma se quello non è Olindo, chi è? Perché non lo ha messo a verbale e non ne ha nemmeno parlato in aula? Oppure c’è un uomo di cui nessuno sa nulla, né volto, né ruolo, né addirittura se si tratti di un carabiniere, nel momento in cui viene trovata la prova decisiva per un ergastolo? Ma se davvero c’è lì un altro uomo di cui Fadda tace se c’è un uomo ignoto nel momento in cui si reperta la prova per un ergastolo, ma per quale ragione ci si deve allora fidare di una foto normale con sopra un cerchietto, scattata otto minuti dopo dallo stesso Fadda, alle 23.37, nella quale il brigadiere, senza altri testimoni se non l’inattendibile Olindo, sostiene che ci fosse la macchia con il dna della vittima senza che la macchia si veda? Chi è l’uomo senza volto?

LA PANDA NERA

Nelle ore successive alla strage gli inquirenti tengono d’occhio tutti. Anche i Castagna, il padre Carlo e i figli Giuseppe e Pietro. Ascoltati dai carabinieri Carlo e Pietro Castagna cadono inizialmente in contraddizione. Le versioni agli atti sono almeno tre. La prima in cui Pietro sostiene di aver dormito tutto il pomeriggio. La seconda in cui il padre afferma che Pietro è invece uscito e rientrato verso le 22. La terza, che li accorda in aula, sostiene che Pietro è uscito e rientrato tra le 20 e le 20.20, certamente prima delle 21. Nel memoriale consegnato a Oggi la settimana scorsa, Giuseppe ha poi fissato l’orario di rientro di Pietro tra le 20.00 e le 20.05. Tre anni fa, però, nessuno degli inquirenti ha approfondito. Nemmeno quando il 25 dicembre il tunisino Ben Brahim Chemcoum, che poi sparirà, mette a verbale di aver riconosciuto il «fratello della morta» che aveva già notato in caserma il giorno 16 nelle vicinanze di via Diaz, in orario compatibile con quello della strage. E il 16 in caserma c’era Pietro. L’unica cosa certa sulla sera della strage riguardo ai Castagna è che Pietro va e viene da casa su una Panda nera. È l’auto di Paola Galli, moglie di Carlo, madre di Beppe e Pietro, che quel giorno ha usato la Lancia K del marito. I Castagna vengono sottoposti a intercettazioni telefoniche e ambientali: tranne che sulla Panda. Il 19 dicembre Carlo spiega a un interlocutore che, così come gli hanno detto, i telefoni possono essere sotto controllo. Due ore dopo, parla col figlio Beppe di una macchina. Il giovane propone al padre di regalarla alla Croce Rossa. «Sei meraviglioso», risponde il padre. Due giorni più tardi, a nove giorni dal massacro della sua famiglia, Carlo chiama in ditta spiegando che la Panda della defunta moglie, con un solo anno di vita, verrà regalata alle suore di Albese. E che si trova in carrozzeria per qualche ritocchino e per una “pulizia interna”: per i carabinieri, all’epoca, si tratta di conversazioni “non utili”. Nel novembre 2008 Carlo Castagna dirà all’inviato del Corriere della Sera d’aver consegnato la macchina a una suora amica di famiglia nel gennaio 2007. Nell’indifferenza degli inquirenti, l’auto sparisce da Erba, anche se continua a figurare sui registri del Pra, sempre intestata a Paola Galli. L’auto, in effetti, è là dove doveva essere: sotto un portico, all’istituto delle suore di Albese, dove l’hanno trovata la settimana scorsa i cronisti di Oggi. Giuseppe ha spiegato a Oggi i motivi per cui l’auto fu data alle suore, e ha dichiarato che la Panda fu portata ad Albese «una decina giorni dopo», non a gennaio. Le monache dicono che Castagna portò loro la Panda il giorno dopo la strage. «Al massimo», aggiungono, «due o tre giorni dopo». Probabilmente non c’è nulla di strano, a distanza di tanto tempo i ricordi possono essere confusi. Ma, visto che Oggi può documentare la presenza dell’auto, perché gli inquirenti non vanno sul posto a verificare l’esistenza di un mezzo ripetutamente citato nei verbali ma ignorato dai controlli?

La svolta di Azouz Marzouk Appare per certi aspetti indecifrabile l’atteggiamento del tunisino Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna, padre del piccolo Youssef e genero di Paola Galli. Nelle fasi iniziali dell’inchiesta era stato indicato dalla procura di Como come l’autore della strage. Bufala colossale. Azouz era dai suoi familiari in Tunisia. È rientrato in Italia nei giorni scorsi per seguire il processo d’appello in cui è parte civile, contro i Romano. Fuori dall’aula, prende la parola e reagisce ai proclami di innocenza dei due imputati: «Vogliono giustizia, no?», dice Azouz. «L’avranno. È già tutto scritto, giustizia è già stata fatta una volta e sarà fatta anche la seconda con la conferma dell’ergastolo. Da subito ho riconosciuto lo sguardo di chi ha sterminato la mia famiglia e non lo dimenticherò mai». Da subito mica tanto. A caldo Azouz si esprimeva in modo completamente diverso. Fu lui a convincere il connazionale Ben Brahim Chemcoum a presentarsi dai carabinieri per dire che la sera dell’11 dicembre aveva visto il «fratello della morta» nei pressi di via Diaz. Fu sempre lui che, detenuto a Vigevano per spaccio, confidò i suoi sospetti sulla famiglia della moglie, tanto da spingere la direzione del penitenziario a scrivere un’informativa al presidente della Corte d’assise di Como. E non poteva che essere stato lui a orientare la madre Souad, che al telefono dalla Tunisia confidava al figlio il suo terribile sospetto: «Vedrai che con il tempo troveranno che è stato suo fratello [di Raffaella, ndr] dietro tutto questo… Il mio cuore non mi mente, te lo dico io, Azouz». Cosa intendesse, non si sa: in aula lei non verrà. Ma oggi anche Souad è parte civile contro Olindo e Rosa, accusati di aver ammazzato il nipote Youssef.

PRESUNTO COLPEVOLE. MASSIMO BOSSETTI.

Massimo Bossetti... come ti faccio credere di aver condannato un assassino, scrivono Massimo Prati e Gilberto Migliorini sabato 13 ottobre 2018 su Albatros Volando Controvento. Molto probabilmente non ci sarebbero stati nessun arresto e nessun processo se Massimo Bossetti fosse vissuto fuori dai confini italici. Purtroppo per lui è un cittadino italiano che vive in Italia... e in Italia da quando esistono i processi indiziari, la cultura giudiziaria invece che progredire è regredita tornando all'epoca di Alessandro Manzoni quando nel Incipit della “Storia della Colonna Infame” scriveva: “Ai giudici che, in Milano, nel 1630, condannarono a supplizi atrocissimi alcuni accusati d'aver propagata la peste con certi ritrovati sciocchi non men che orribili, parve d'aver fatto una cosa talmente degna di memoria, che, nella sentenza medesima, dopo aver decretata, in aggiunta de' supplizi, la demolizione della casa d'uno di quegli sventurati, decretarono di più, che in quello spazio s'innalzasse una colonna, la quale dovesse chiamarsi infame, con un'iscrizione che tramandasse ai posteri la notizia dell'attentato e della pena. E in ciò non s'ingannarono: quel giudizio fu veramente memorabile.” Da ieri sera Massimo Bossetti per la giustizia italiana è colpevole. Non ci strapperemo le vesti. Sappiamo aspettare, siamo fiduciosi che la verità verrà a galla, magari fra troppi anni come capitato ad altri condannati innocenti. Ciò che è accaduto è oramai la "normalità giudiziaria". Per un perverso meccanismo psicologico si è finiti per credere a qualcosa diventato talmente di dominio pubblico, così lapalissiano e corroborato mediaticamente, da non aver altra necessità di conferma se non quella della voce che corre. La voce si presenta come la spiegazione ideale degli indizi che essa stessa ha immaginato. La voce è un dato ‘oggettivo’: i membri di un gruppo, sia mediatico che popolare che investigativo che peritale che istituzionale che giudiziario, ‘parlano e riparlano’ dando origine a un racconto, a un’ipotesi accusatoria che facilmente può essere convalidata da indizi double face che si adatterebbero a chiunque venisse arrestato. Perché, in un altro eventuale "caso Yara", migliaia di persone potrebbero adattarsi a una qualsiasi ricostruzione accusatoria... ah già, ma nel caso in questione c'è il famoso mezzo dna di ignoto uno che accusa! Il fatto a dir poco sorprendente è che si asserisca giudiziariamente che Massimo Bossetti è figlio di Giuseppe Guerinoni senza che sia mai stato fatto un confronto diretto fra i due Dna originali padre e figlio, che nello stesso tempo si dichiari che Massimo Bossetti non è figlio di Giovanni Bossetti senza che esista agli atti il documento di analisi del Dna che lo proverebbe. Si è andati per induzione con un ragionamento del tipo: un mezzo dna ci dice che ignoto uno è figlio di Guerinoni, quel mezzo dna ha una parte maggioritaria compatibile con quello di Massimo Bossetti e, pertanto, Massimo Bossetti è figlio di Guerinoni... quindi è ignoto uno, ergo è l'assassino. Motivo per cui non c'è motivo per fare un'analisi diretta che dimostri questa ormai assunta verità. Questo ragionamento induttivo lo si è fatto senza considerare che prima di rovinare una famiglia e far marcire in galera un uomo incensurato, visti i migliaia di casi in cui l'errore ha mandato a morire in carcere persone innocenti, sarebbe d'uopo fare anche quelle verifiche che pur sembrando inutili servono da prova del nove per la verità...Parlare di anomalie è riduttivo. Prendiamo quanto pare accertato mediaticamente e analizziamolo in maniera seria senza trascendere nei soliti pettegolezzi. La dottoressa Gino dice a processo che c'è stata una analisi fatta dalla famiglia a Torino e che Massimo è figlio di un altro padre, non sa però se Guerinoni o chi altri visto che il confronto diretto fra dna originali non c'è stato. Ammettiamo pure che il documento in quel di Torino esista e che dica in sintesi che Massimo non è figlio di Giovanni. Va tutto bene così? No. Primo, non sappiamo chi ha firmato il documento e, secondo, sappiamo che l'analisi non è stata ripetuta in un altro laboratorio... eppure non è certo la prima volta che un test successivo ribalti gli esiti di un test precedente. Un errore è sempre possibile. I test si rifanno anche per gli atleti che non ammettono di essersi dopati... perché non ripeterli per chi rischia l'ergastolo? I documenti nella pratica scientifica vengono pubblicati proprio perché possano essere ricontrollati da altri (riproducibilità e ripetizione). Peraltro, in questo caso non sappiamo neppure con quali modalità e su quali reperti è stato effettuato il test e non si conoscono i risultati analitici (la dettagliata relazione tecnica comprensiva di cromatogrammi e analisi statistica dei risultati, e i "dati grezzi" provenienti dalle apparecchiature di analisi, utili per le verifiche). Un nuovo test di verifica in un nuovo laboratorio sarebbe stato obbligatorio e lo doveva ordinare il giudice a processo per essere certo di non incorrere, per superficialità, in un errore grossolano ma enorme. Eppure nemmeno la cassazione ha deciso di effettuarlo. Tutti certi, per induzione, sia che l'assassino di Yara sia il proprietario del dna monco rimasto miracolosamente intatto su un lembo degli slip dopo tre mesi di neve pioggia e sole, senza considerare i liquidi organici che spazzano via qualunque cosa e gli animali attirati dal cadavere, sia che ignoto uno si chiami Massimo Bossetti nonostante non ci sia mai stata una comparazione diretta. L'imputato può chiedere al giudice che deve tutelare anche il suo diritto alla difesa che le sue ragioni vengano ascoltate, che si faccia una perizia in più per stabilire se mente o dice il vero. E quel giudice ha l'obbligo giuridico di accogliere tale richiesta... se è un giudice che applica la legge usando il buonsenso del padre di famiglia. Se poi oltre che al buonsenso è dotato anche di un buon spirito critico, a maggior ragione quel giudice deve accordare la perizia perché non può fare a meno di chiedersi il motivo per cui l'accusa si opponga a tale richiesta. Se le induzioni della procura sono giuste cosa può temere un procuratore da una analisi che non farebbe altro che confermare la sua tesi accusatoria? Forse può temere di aver sbagliato qualcosa e non può uscire dal seminato perché la condanna dell'imputato sarebbe a rischio? Forse sa qualcosa che né noi né i giudici sappiamo? Cosa sarebbe accaduto se una nuova perizia avesse dimostrato un grossolano errore di laboratorio? Se avesse dimostrato che il dna di Massimo Bossetti nulla c'entrava con l'omicidio? Un tale scenario, ora più che mai puramente ipotetico, avrebbe aperto, proprio come nel testo manzoniano “La storia della colonna infame”, molti interrogativi su come venga amministrata la giustizia italiana. Mettiamo per ipotesi che la cassazione abbia accordato la perizia sul dna. Mettiamo per ipotesi che si sia fatta oggi e che smentisca la procura... cosa accadrebbe? Accadrebbe che sul banco degli imputati non ci sarebbe più Massimo Bossetti ma tutto un sistema che pervicacemente si è rifiutato per anni di ricontrollare gli esiti delle sue conclusioni e l’affidabilità di sentenze di condanna dove di ragionevoli dubbi ce n’erano a bizzeffe, come evidenziato dalla difesa del muratore, a cominciare da un Dna (low copy number) che sopravvive intatto per mesi di ottima qualità in un campo su un corpo a contatto con la terra, insetti e animali di tutti i tipi (nella letteratura biologica non esiste nessun caso simile). E questo, si direbbe ora in ogni media, non è solo un unicum ma è un evento impossibile. Una eventuale dimostrazione che Massimo Bossetti non ha nulla a che fare con Guerinoni ma è proprio figlio del padre legale sarebbe un colpo durissimo per il sistema giustizia del nostro Paese, ben più destabilizzante del caso Tortora e di Unabomber, e dimostrerebbe come l’esistenza di più gradi di giudizio non metta al riparo da sentenze fotocopia dove - rispetto al garantismo per l’imputato con una rigorosa verifica del già sentenziato - prevale (salvo lodevoli eccezioni) la fiducia incondizionata nei giudici dei precedenti gradi di giudizio... specialmente se questi sono capaci di scrivere bene le motivazioni (e se non ne sono capaci di certo le fanno scrivere a chi ne è capace). Insomma, da decenni vediamo un sistema giudiziario che non garantisce più l'equo processo all'imputato, vediamo un sistema giudiziario che non guarda più con occhio critico sia quanto porta la Difesa che quanto porta chi accusa, vediamo un sistema giudiziario che preferisce appiattirsi alle tesi accusatorie e puntare tutto sulla affidabilità di chi ha già deciso in precedenza. Come detto, invece di evolversi la giustizia italiana è regredita. E' del tutto evidente che il caso Bossetti riveste un’importanza che travalica il cold case, che sono implicate considerazioni più generali sul funzionamento della giustizia dovuta ad automatismi che vengono da lontano e che autori come Verri e Manzoni hanno saputo rappresentare sul piano civile e con intenti epistemologici di rilievo. In particolare l’opera manzoniana conserva intatta tutta la sua attualità nonostante sia stata pubblicata nel lontano 1840 e si riferisca alle vicende legate alla peste del 1630. Il caso Bossetti, per tutto quello che è stato rilevato da più parti, dimostra che la forma mentis del sistema giustizia del Bel Paese non è poi cambiata di molto rispetto a quanto il Manzoni ha denunciato nella sua opera. Quella lentezza della storia della quale ha parlato uno storico del calibro di Jacques Le Goff è dimostrata dai meccanismi psico-sociali che si possono riassumere in quell'immagine tratta dalla psicologia sociale definita effetto Pigmalione o profezia che si autoadempie. Paradossalmente i rilievi epistemologici più pregnanti sono stati fatti non a livello filosofico ma letterario. Un autore come il Manzoni ha saputo come nessun altro mettere in risalto quali sono gli automatismi che agiscono surrettiziamente. Le voci che corrono sono in grado di influenzare non solo il vasto pubblico ma a tutti i livelli anche chi dovrebbe essere immune dal pregiudizio e dall'influenza della suggestione che agisce sotterraneamente in tutti i contesti. Nemmeno la cultura mette al riparo da certi meccanismi di influenza sociale. Proprio come nella pubblicità-propaganda quando un fattoide entra a far par parte delle credenze collettive subentrano poi meccanismi di conferma acritici, la suggestione è talmente coinvolgente che si dà per scontata una cosa anche se non ne esiste prova... o meglio, la prova diviene proprio quella voce che corre, ormai considerata così evidente e così cogente da non aver più bisogno di ulteriori verifiche. Il caso degli untori oggi potrebbe far sorridere, salvo poi l’evidenza che, non nel 1600 ma ai giorni nostri, alcuni bambini non vaccinati sono stati lasciati soli in un’aula perché considerati pericolosi... e da questo si capisce che la paura degli untori è attuale. La realtà è che il concetto di untore è commisurato a un contesto storico e geografico, a una modalità di esclusione e di condanna aggiornato a nuove realtà socio-economiche e ideologiche. La cecità dell’effetto Pigmalione riguarda quella influenza collettiva per la quale si confonde la suggestione con il risultato di prove tangibili. Il sistema dell’informazione dà fiato e sostanza alle minime voci che poi amplificate divengono colpi di cannone! Da un lato c'è il giudice istruttore che crede di sapere tutto del crimine e deve mantenere il segreto istruttorio, dall'altro ci sono i giornalisti che dicono tutto anche quando non sanno niente. Quando non dicono ciò che gli chiedono di dire. Queste due rappresentazioni fanno sì che si assista a una strana compenetrazione dove le voci che corrono si influenzano su vari piani in un crescendo che si rinforza e compenetra proprio come nell'opera rossiniana. Nel caso Bossetti esiste un’unica prova chiamata regina. Pochi nanogrammi di materiale genetico. Se li togliamo dal processo non rimane più nulla... o meglio rimane l’effetto Pigmalione. Vediamo nel dettaglio che cosa si intende per "effetto pigmalione" e come il caso Bossetti diverrebbe se si dimostrasse che lui è proprio figlio di Giovanni. Il cold case diverrebbe una telenovela partorita da una fervida immaginazione. L'effetto Pigmalione, o effetto Rosenthal, deriva dagli studi classici sulla “profezia che si autoadempie”: in pratica l’opinione che ci siamo fatti su qualcuno influenza il nostro giudizio, quante volte vi è capitato, anche se non esiste nulla a riprova della veridicità della nostra opinione. Questo vale in tutti i rapporti in cui è implicata una qualche forma di valutazione influenzata da una premessa pregiudiziale. Nel mito, Pigmalione è il re di Cipro che si innamora della statua di Afrodite al punto di crederla vera e immaginare di potersi congiungere ad essa. In Ovidio, Pigmalione è uno scultore che si innamora della sua statua e implora Afrodite di trasformarla in una donna in carne ed ossa. In sostanza le nostre credenze di partenza influenzano i nostri giudizi. Quante volte avete pensato di essere di fronte a uno/a stronzo/a o, viceversa, a una persona affascinante dall'animo gentile? Quante volte avete scoperto che vi sbagliavate? Tutti sappiamo che sono tantissime, visti i divorzi e i femminicidi. Rosenthal aveva prodotto un test di intelligenza con alcuni alunni (definiti come molto intelligenti) coi risultati volutamente fittizi e lo aveva fornito agli insegnanti. Quando tornò in quella scuola constatò, come aveva previsto, che proprio quegli alunni che erano stati definiti come molto intelligenti mediante un test fasullo erano diventati i migliori della classe. Gli insegnanti erano stati influenzati da quel giudizio preliminare e avevano trattato di conseguenza quegli alunni, con un occhio di riguardo e forse anche con valutazioni errate. In questi casi accade che la suggestione elimina tutto quello che non conferma (nel nostro caso il brillante test di intelligenza) e dà conferma a tutto quello che in qualche modo potrebbe fare da supporto, convalidando emotivamente il dato iniziale, l’input di partenza fasullo. D’altro canto il pregiudizio, positivo o negativo, non si qualifica mai come tale. Grazie all'inferenza deduttiva, assume l’aspetto esteriore della razionalità anche quando sono la suggestione e l’emozione che costituiscono l’ossatura di un giudizio. Il caso Bossetti è il prodotto di una gigantesca profezia che si autoadempie, a partire dal suo arresto in pompa magna per arrivare alla prova di paternità che negli atti non esiste ma è riuscita ad orientare tutta l'indagine e tutte le sentenze. Solo le verifiche potrebbero dimostrare che il caso Bossetti non sia solo la classica profezia che si autoadempie o effetto Pigmalione. Ma le verifiche chi opera per la giustizia italiana non le ha volute fare. Per cui, al momento e nonostante la condanna definitiva, l'assassino di Yara non si sa davvero chi sia e la trama basata sul dna scritta dall'accusa e accettata dai giudici, a tutti gli effetti è, e rimarrà fin quando non sarà corroborata da una nuova perizia a conferma, uno sceneggiato di fantasia da quattro soldi che può attecchire solo in chi è stato suggestionato dai media e portato a credere che chi accusa e condanna Bossetti è intelligente a prescindere... come gli alunni di Rosenthal agli occhi degli insegnanti dopo il test fasullo.

PRESUNTO COLPEVOLE. CATENO DE LUCA.

"Scateno", antenato degli impresentabili fra strip e processi, scrive il 09/11/2017 Mario Barresi su "La Sicilia". Dai domiciliari si difende su Facebook «Vittima dei massoni, il caso fa ridere» Poi ai fan sotto casa cita Luther King e giura: «Avanti senza se e senza ma». Un «delinquente». Ma anche «un benefattore». E poi «il miglior sindaco della storia», anche perché ha portato a mille anime «200 milioni di opere pubbliche» compreso «un centro benessere». Ma anche uno «che se noi sei con lui ti mette nella lista dei nemici e sei finito per sempre». Mentre i messinesi, nel 1674, si rivoltavano contro i dominatori spagnoli, Fiumedinisi fu uno dei pochi comuni a restare fedele alla Corona ispanica. E così, corsi e ricorsi, è oggi per «u’ sinnucu». Criticato sottovoce e difeso a testa alta. Cateno Roberto De Luca, qui in carica dal 2003 al 2011, ma anche sindaco di Santa Teresa di Riva (dove ha lasciato il suo delfino Danilo Lo Giudice) e aspirante primo cittadino di Messina con campagna elettorale già avviata con pecora al seguito. Quarantacinque anni, in politica da quand’era quindicenne, candidato a tutto. Anche a presidente della Regione, nel 2012, quando lanciò la sua corsa solitaria con una kermesse scintillante e uno slogan chiarissimo: «Io rivoluziono la Sicilia. Scateno De Luca». Prese l’1,2%, ma da lì in poi diventò “Scateno”. Per tutti. Impresentabile prima che esistessero gli impresentabili, De Luca ha un curriculum pieno di guai giudiziari, proteste clamorose e citazioni indelebili. Cinque anni fa, dopo essere stato deputato regionale del Mpa, si ribella al suo mentore: «Lombardo agisce con metodi politico-mafiosi. Se ne vada affanculo una volta per tutte, lui e i suoi compagni di merende». All’Ars i commessi lo ricordano atterriti quando, per protestare per la mancata nomina in commissione Bilancio, restò in mutande, con una bibbia, un Pinocchio e la bandiera della Trinacria ad avvolgere le nudità. Rieletto all’Ars nel 2008, dopo un fugace ritorno con Lombardo, inizia un breve flirt politico con Gianfranco Micciché. Dura poco. Perché lui, “Scateno”, è un individualista. Da leader di Sicilia Vera chiede e ottiene ospitalità nella lista dell’Udc per le ultime Regionali: è il più votato, eletto con 5.418 preferenze. Alle quali bisogna aggiungere i 4.298 del suo seguace, Lo Giudice. Rieletto nonostante la lettera scarlatta di “impresentabile” cucitagli addosso dai grillini. «Pupi nelle mani del puparo di Genova», secondo De Luca, condannato dalla corte dei conti a 13mila euro per le “spese pazze” dei gruppi all’Ars. Ma soprattutto sotto processo per il “sacco di Fiumedinisi”, il quindicesimo dei «14 procedimenti penali chiusi a mio favore». Arrestato per abuso d’ufficio e concussione, il pm ha chiesto per lui 5 anni di pena. Ma “Scateno” si difende sempre contrattaccando. In tarda mattinata si diffonde la notizia dei suoi domiciliari. E sotto casa sua c’è chi è già certo: «Anche stavolta ne combinerà una delle sue». Infatti, violando le restrizioni degli arresti domiciliari, imposta la sua autodifesa su Facebook. Prima con un post, corredato dalla foto del «caffè del galeotto», in cui chiede: «Pregate per me e per la mia famiglia e per gli altri indagati che nulla c'entrano in questa storia». Molto più esplicito, poco dopo, in un video-selfie in pigiama. «La vicenda fa ridere», esordisce. Quindi racconta: «Io sono sereno perché già venerdì sera a piazza Cairoli sono stato avvicinato da un noto personaggio della politica siciliana e anche ritengo della massoneria nonché un parente molto stretto di magistrati, il quale mi ha fatto i complimenti per la campagna elettorale e mi ha detto: “Lo sai che è tutto inutile quello che hai fatto”. Questo stesso personaggio lunedì - prosegue - ha telefonato a un nostro amico nonché suo collaboratore dicendogli che era inutile l’elezione di Cateno perché sarebbe stato arrestato e sarebbe subentrato il primo dei non eletti, Danilo Lo Giudice. Sapevo di scontrarmi definitivamente con i poteri forti di Messina, massoneria e altri ambienti che non vogliono che io faccia il sindaco». E chissà cosa avrebbe detto ancora, se il suo avvocato Tommaso Micalizzi non l’avesse bloccato: «Basta social, sei ai domiciliari». E se a mezzogiorno sceglie una frase del Vangelo, la sera vira su Martin Luther King. «Un giorno la paura bussò alla porta. Il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno». Lui, Cateno, di porta ha aperto quella del suo balcone e ha trovato un centinaio di fan capeggiati da Lo Giudice, amministratori e “fenapini”, che si sono radunati sotto casa sua. Alle nove della sera. Doveva essere una fiaccolata, diventa un semplice tributo di De Luca. Legge compiaciuto lo striscione (“Cateno siamo con te senza se e senza ma”) e appare come un pontefice dopo la fumata bianca. Un breve saluto. Poi l’irrinunciabile post su Facebook. «Grazie di cuore per la splendida manifestazione di solidarietà, mi avete veramente commosso. Si va avanti senza se e senza ma». Silenzio surreale, si riflette. «Non ci sono i presupposti perché stia agli arresti» mormora qualcuno all’avvocato Micalizzi. Che studierà come tirarlo fuori dai guai. Per la sedicesima volta.

Sicilia, dall’allevamento di conigli all’arresto: chi è Cateno De Luca, il Masaniello che si spogliava all’Ars. Rieletto a Palazzo dei Normanni lunedì pomeriggio, è finito ai domiciliari per evasione fiscale mercoledì mattina: battuto probabilmente ogni record registrato sul fronte dei rapporti tra la politica e le ordinanze di custodia cautelare. Prima, invece, aveva fatto parlare di sé perché si era denudato a Palazzo dei Normanni. O perché era riuscito a controllare il sindaco, la maggioranza ma anche l'opposizione nel suo piccolo comune, scrive Giuseppe Pipitone l'8 novembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Quando lo esclusero dalla commissione Bilancio dell’Assemblea regionale siciliana ci rimase davvero male. Talmente tanto che mise in scena la più ridicola delle proteste: si presentò in mutande nella sala stampa del Parlamento regionale. Per poi coprirsi soltanto con la Trinacria. Un chiodo fisso quello di Cateno De Luca per la bandiera della Sicilia, ricamata persino sulla cravatta d’ordinanza fornita agli esponenti di Sicilia Vera, il movimento da lui fondato dopo un incessante pellegrinare da partito in partito. “Il colore che ho scelto è rosso-aranciato, quello della bandiera della Sicilia. Il rosso mi piace molti sostengono che io sia uno di sinistra che fa politiche di destra, forse un po’ è vero”, si autoincensava il deputato regionale, che con quel movimento si è pure candidato a governatore nel 2012. Sissignore: in Sicilia succede anche questo. Che un consigliere regionale noto per essersi denudato in pubblico, dopo aver conosciuto persino la galera, decida non di ritirarsi a vita privata ma di rilanciare: “Il presidente lo faccio io”. Prese l’1,2%, ma non si diede per vinto. E cinque anni dopo ci ha riprovato. Rieletto a Palazzo dei Normanni lunedì pomeriggio, è finito ai domiciliari per evasione fiscale mercoledì mattina: battuto probabilmente ogni record registrato sul fronte dei rapporti tra la politica e le ordinanze di custodia cautelare. Caf e sacchi edilizi – Per i giudici De Luca è “il dominus di una serie di società ed enti”, utilizzati per sottrarre al fisco 1,7 milioni di euro. Sono i vari Caf di un ente che si chiama Fenapi, acronimo di Federazione nazionale autonoma piccoli imprenditori, di cui risulta essere il “direttore generale nazionale”. Il presidente, invece, è tale Carmelo Satta, arrestato con lui stamattina. E con lui coinvolto nell’inchiesta sul “sacco di Fiumedinisi”, il minuscolo paesino in provincia di Messina di cui De Luca era sindaco. E in cui, per i pm, avrebbe voluto realizzare una gigantesca speculazione edilizia con l’immancabile mega albergo dotato di centro benessere. Purtroppo lo arrestarono prima con l’accusa di tentata concussione e abuso d’ufficio, insieme al fratello Tindaro: in famiglia evidentemente non piacciono i soliti Giuseppe e Francesco. La Cassazione definì “ingiusta” la sua detenzione, ma il processo è andato avanti: e sul capo del politico messinese pende ancora una richiesta di condanna a 5 anni di carcere. Il caffè del galeotto del Masaniello di provincia – Nel frattempo si è ricandidato: a questo giro ha scelto l’Udc e Nello Musumeci. Ha preso 5mila voti ed è stato rieletto nonostante i problemi giudiziari, che in campagna elettorale lo avevano fatto finire di diritto tra i candidati impresentabili. “Ho avuto 15 procedimenti, 14 si sono conclusi con l’archiviazione”, sosteneva lui, promettendo querele e chiedendo un immotivato confronto pubblico col direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. Lo stesso stile con cui ha commentato l’ultimo arresto. Ristretto ai domiciliari, ha accesso il computer senza neanche togliersi il pigiama: “Vi offro il caffè del galeotto”, ha scritto su facebook. Poi, non contento, ha pubblicato un video per spiegare di avere saputo in anteprima dell’arresto. “Me l’ha detto un parente di magistrati e di massoni”, è la sua versione. “Dedico questa ulteriore battaglia ai perseguitati dell’ingiustizia”, è invece il modo in cui dipinge la sua situazione giudiziaria. Sì perché questo piccolo ras delle preferenze di provincia crede davvero di essere un Masaniello del duemila. O almeno è quello che vuole fare credere ai suoi elettori.

Dai conigli all’Ars – Sul suo personalissimo sito racconta gli albori della sua carriera. “Da adolescente ho allevato conigli e raccoglievo origano, noci e castagne che poi vendevo alle putie (letterale, cioè negozi ndr) di Fiumedinisi sotto la severa vigilanza della mia mamma; quando frequentavo la scuola media durante le estati facevo il muratore con mio padre; mentre frequentavo il liceo passavo le mie estati a lavorare nei bar ed in inverno frequentavo uno studio legale messinese che si occupava di diritto previdenziale e sindacale”, scrive nella sua biografia. Chissà dove trovava il tempo per studiare, verrebbe da chiedersi. Di sicuro è col diritto previdenziale amministrato nei Caf della Fenapo che De Luca comincia a coltivare quel reticolo di rapporti sociali, poi trasformati in voti ad ogni tornata elettorale. Esordisce adolescente come attacchino della Dc, poi comincia la scalata: consigliere comunale, presidente del consiglio, sindaco della sua piccola città. Incarico che lascia dopo l’arresto nel 2011. E che non può più ottenere l’anno dopo, perché nel frattempo si è fatto eleggere sindaco nel vicino comune di Santa Teresa Riva. Sindaco e opposizione sono roba sua – È a quel punto che il Masaniello peloritano si trasforma in Archimede Pitagorico della politica locale: candida due aspiranti primi cittadini, entrambi sostenuti dalle sue liste. Poi manda una lettera agli elettori, chiedendo di votare uno dei due candidati sindaco, ma optando per i consiglieri comunali del suo avversario: in pratica istituzionalizza il voto disgiunto. “È un chiaro e forte gesto di ribellione”, dice, ma non si capisce verso che cosa si dovrebbero ribellare i cittadini visto che nei precedenti due mandati il sindaco era sempre lui. Gli elettori, però, non ci fanno caso e votano in massa come dice De Luca: che quindi è riuscito nell’impresa di controllare il sindaco, la maggioranza, ma anche l’opposizione. “Con questi metodi da Repubblica delle banane si vuole fare del comune, invece che una casa di vetro, il cortile della propria abitazione”, si lamentava all’epoca il deputato Pd Filippo Panarello. Opinione minoritaria, evidentemente, visto che nella zona De Luca lo hanno sempre votato in massa: il vassallo delle preferenze, inscalfibile neanche dopo indagini e arresti. “Demoliamo la Regione” – All’Ars entra per la prima volta con il Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo. Poi passa con Grande Sud, la formazione autonomista di Gianfranco Micciché. Quindi opta per la Democrazia cristiana di Gianfranco Rotondi, fino al 2011, anno in cui cambia per sei volte gruppo parlamentare: in quello del Pdl arriva a “sostare” per tre ore e mezza, giusto il tempo di far saltare gli equilibri in una delicata conferenza dei capigruppo. Qualche anno prima, invece, riesce a riunire 12 deputati di destra, sinistra e centro e crea un bellicoso gruppo bipartisan che chiede di indire un referendum: la carica di parlamentare con quella di sindaco- sostengono – devono essere incompatibili. E peccato che in quel momento De Luca fosse nello stesso momento sindaco di Fiumedinisi e deputato regionale. “Sono un battitore libero”, ripete spesso di se stesso. Durante una delle lussuose kermesse del suo movimento, invece, si è presentato sotto il simbolo di un enorme piccone e lo slogan: “Demoliamo la Regione siciliana”. Non si capiva se fosse una promessa o una minaccia. In ogni caso, per il momento, dovrà posticiparla.

Cateno De Luca annuncia querela contro Il Fatto Quotidiano. In un articolo del giornale diretto da Marco Travaglio, il candidato alle regionali è indicato come condannato a 5 anni per concussione ed abuso d'ufficio: "ciò è ovviamente falso, ennesimo attacco alla mia onorabilità", spiega l'ex sindaco di Santa Teresa, scrive "Letteraemme" l'8 ottobre, 2017. “Ho appreso con stupore dall’articolo apparso sul giornale Il Fatto Quotidiano che io sarei stato condannato a 5 anni per concussione ed abuso d’ufficio unitamente a mio fratello Tindaro, e ciò è ovviamente falso, e rappresenta l’ennesimo attacco alla mia onorabilità ed al mio modo di fare politica radicalmente contro il vecchio sistema e le solite logiche politiche parassitarie e farabutte”. Lo afferma Cateno De Luca, leader di Sicilia Vera e capolista nel collegio di Messina della lista Udc- Sicilia Vera. “Preciso – aggiunge De Luca – che ho avuto 15 procedimenti penali di cui 14 già chiusi a mio favore con assoluzioni perché il fatto non sussiste ed archiviazioni per al’ inconsistenza delle accuse. Per quanto riguarda l’ultimo processo ancora pendente, è stata richiesta dal pubblico ministero la condanna a cinque anni per tentata concussione (e non concussione) ed abuso d’ufficio, ed ancora questo processo è pendente perché la procura generale della Suprema Corte di Cassazione ha aperto un procedimento nei confronti di un componente del collegio giudicante per presunta violazione dell’obbligo di astensione causando, con molta probabilità, l’annullamento di tutte le attività dibattimentali (in essere da oltre 6 anni) e l’avvio di un nuovo processo con un collegio diverso”. “Solo per onore di verità – aggiunge De Luca – è corretta la notizia in merito ad una condanna di circa 13 mila euro che ho avuto dalla corte dei conti per le spese effettuate nella qualità di capogruppo al parlamento siciliano ma sono stato assolto in sede penale a differenza della stragrande maggioranza dei parlamentari siciliani ed ho già pagato queste 13 mila euro (altri parlamentari non lo hanno ancora fatto) pur avendo fatto ricorso alla suprema corte di cassazione per violazione di legge perché non è logica l’assoluzione in sede penale e la condanna in sede contabile per la medesima fattispecie di reato”.

Sicilia, De Luca posta un video dai domiciliari: “Parente di magistrati sapeva dell’arresto e mi aveva avvisato”, scrive "Il Fatto Quotidiano". Un video sulla sua pagina Facebook, girato in pigiama davanti a una libreria con i simboli di Sicilia vera.  Lo ha pubblicato il neodeputato Cateno De Luca, finito agli arresti domiciliari due giorni dopo l’elezione per evasione fiscale. Nel video il politico racconta quelli che, a suo parere, sono i retroscena della vicenda. De Luca ribadisce in parte quanto scritto sempre su Facebook poche ore fa, ossia che già nei giorni scorsi era a conoscenza del suo possibile arresto. “Sono sereno, già venerdì sera in piazza Cairoli sono stato avvicinato da un noto personaggio della politica siciliana, e anche ritengo della massoneria nonché parente molto stretto di magistrati, il quale mi ha fatto i complimenti per la campagna elettorale e mi ha detto: ‘lo sai che è tutto inutile quello che hai fatto’. Questo stesso personaggio, il lunedì, ha telefonato a un nostro amico nonché suo collaboratore e gli ha detto, che era inutile l’elezione di Cateno (parla di sé in terza persona ndr) perché sarebbe stato arrestato e sarebbe subentrato il primo dei non eletti Danilo Lo Giudice”. E poi prosegue, soffermandosi sull’accusa di evasione fiscale. Per gli inquirenti, De Luca insieme agli altri indagati aveva organizzato un sistema di false fatture. “La vicenda che riguarda il mio arresto fa ridere vengo accusato di essere il regista di un’evasione fiscale di un ente collettivo, il Caf Fenav, che non è mio. Originariamente questo era uno dei 15 procedimenti penali aperti a mio carico: per 14 sono stato assolto o archiviato. Questo prevedeva peculato, appropriazione indebita e evasione fiscale”.

Messina, il Grande Oriente d’Italia contro Accorinti e De Luca. Il gran maestro dell'obbedienza massonica si scaglia contro le dichiarazioni del sindaco ("estrema debolezza di un politico che cianfrusaglia solo per darsi un tono") e del deputato regionale finito ieri ai domiciliari. E avverte: "Attenti alla pericolosità sociale delle dichiarazioni", scrive il 9 novembre, 2017 "Letteraemme". Nuova puntata dell’ormai quinquennale battaglia tra il sindaco di Messina Renato Accorinti ed il Grande Oriente d’Italia, la più grande obbedienza massonica dello stivale. Oggetto delle rimostranze del gran maestro Stefano Bisi, un’altra volta, sono le dichiarazioni di Accorinti dopo le regionali, in cui paventava scenari di influenza massonica. “A Messina a quanto pare va sempre più di moda attaccare la massoneria per deresponsabilizzarsi da politiche fallimentari e da gravi situazioni giudiziarie personali – attacca Bisi –  Il sindaco di Messina, non nuovo a dichiarazioni generiche e stucchevoli sulla Libera Muratoria, la vede ad ogni angolo della città – che non è più il gioiello di un tempo e mostra evidenti crepe che  tutti i cittadini possono constatare – anzi probabilmente la sogna pure di notte e la utilizza forse per allontanare da se’ tutte le problematiche non risolte dalla sua amministrazione. Le recenti sue comparse post elezioni regionali – continua il gran maestro del Goi – sono, a nostro avviso, solo il segno di estrema debolezza di un politico che cianfrusaglia di Massoneria solo per darsi un tono e sparare nel mucchio. Non è sparandola grossa e addossando le colpe a un’Istituzione antica e ricca di valori e principi per l’elevazione dell’Uomo e dell’Umanità che si fa il bene della collettività.  Il primo cittadino dovrebbe stare anche molto attento alla pericolosità sociale di certe sue dichiarazioni che possono scatenare gesti inconsulti – avverte ancora Bisi – Appena qualche giorno fa a Roma, a Palazzo Giustiniani, abbiamo ricordato la figura di Achille Ballori, Sovrano Gran Commendatore del Rito Scozzese Antico Ed Accettato e futuro Gran Maestro, il quale venne ucciso a colpi di pistola nel 1917 da un folle che credeva che tutti i suoi mali provenissero dalla massoneria. Credo che ciò dovrebbe fare riflettere il sindaco sulla pesantezza di certe parole”. Non è solo Renato Accorinti il destinatario degli strali del numero uno dei grembiulini italiani: c’è anche Cateno De Luca, che dopo l’arresto di ieri, dai domiciliari di Fiumedinisi ha diffuso un video in cui sosteneva di aver ricevuto “avvertimento” sull’arresto imminente da un importante esponente della politica e della massoneria isolana. “Ci hanno lasciati esterrefatti le dichiarazioni affidate a un videomessaggio del deputato messinese neoeletto all’Ars e finito a urne chiuse al centro di un’inchiesta  giudiziaria che ha fatto scattare nei suoi confronti la detenzione ai domiciliari – dichiara Bisi – Anche quest’ultimo, genericamente, ha utilizzato il termine “massoneria” e fatto riferimento a un “noto personaggio della politica siciliana, probabilmente facente parte della massoneria” che lo avrebbe preavvertito di quanto gli sarebbe accaduto dopo l’elezione. Affermazioni proseguite con il solito ritornello dei poteri forti – massoneria ovviamente in testa – che non avrebbero gradito la sua eventuale candidatura a sindaco di Messina. Dichiarazioni roboanti da indirizzare all’opinione pubblica e rese da un soggetto privato della libertà – affonda il gran maestro – Noi auguriamo a questo politico di dimostrare la sua estraneità ai fatti contestatigli ma lo Invitiamo a non lasciarsi andare a manifestazioni di pensiero arbitrarie se non supportate da fatti che andrebbero comunque denunciati agli organi competenti. Voglio rivolgermi ai cittadini messinesi – conclude Stefano Bisi – per ribadire che la libera muratoria del Grande Oriente d’Italia non si occupa di politica e non vuole essere strumentalizzata in vicende che non la riguardano. Siamo tolleranti per principio ma adesso basta col parlare a sproposito di massoneria”.

Potere, affari, massoneria. Viaggio nell'immutabile Messina, scrive Salvo Toscano Mercoledì 4 Ottobre 2017 su "Live Sicilia”. Raccontano che quando l'ingegnere palermitano Antonio Zanca realizzò il celebre Palazzo che porta il suo nome e ospita il municipio di Messina, incontrò grosse difficoltà a farsi pagare. E questo malgrado le ripetute rassicurazioni. Fu così che l'estroso progettista decise di abbellire la facciata con i pesci dalla bocca larga, che sullo Stretto si chiamano “buddaci”, raccontando con quella trovata una caratteristica della città dove non sempre i fatti seguono alle parole. Basti pensare, per farsene un'idea, alla chimera del Ponte. Il nostro giro della Sicilia sulle tracce del potere comincia lì dove comincia l'Isola. A Messina, città archetipo di quell'immutabilità siciliana che resiste come una condanna senza appello. Un luogo in cui, almeno apparentemente, ogni cosa resta o cerca di restare com'è. Malgrado tutto. Uno scossone agli assetti parve assestarla quattro anni fa la sorprendente elezione di Renato Accorinti. Il sindaco in t-shirt e sandali scardinò alle urne i blocchi di potere che saldamente tenevano in mano la città, proponendosi come antagonista dei poteri forti. Da allora, tra gli alti e i bassi della sua sindacatura, i poteri forti però sembrano rimasti ben saldi. Le cronache di questi giorni, con la sfida delle Regionali dietro l'angolo, hanno riportato la città dello Stretto all'attenzione dei giornali. Merito, se di merito si tratta, della candidatura di Luigi Genovese, giovanissimo figlio di Francantonio, già sindaco, già parlamentare, già segretario del Pd, socio della famiglia Franza nel grande business dei traghetti, ma anche colosso della formazione professionale, dettaglio quest'ultimo che gli è costato in primo grado una condanna a undici anni per una serie di reati legati proprio ai “corsi d'oro”. Un processo che ha riservato dispiaceri anche alla consorte di Genovese, alla sorella di lei e al marito di quest'ultima, il deputato regionale uscente Franco Rinaldi. Tutti condannati, condanna non definitiva è bene ricordare, a vario titolo. Ora tocca al giovane Luigi, la cui segreteria politica in centro città in questi giorni è sempre affollatissima, come affollata è stata la convention per il lancio della sua candidatura in Forza Italia benedetta dal commissario Gianfranco Miccichè. Una prova di forza per riaffermare un'esistenza in vita, dicono da queste parti.Dove ci si attende un grande risultato dal rampollo della potente famiglia che già prima del Luigi ventunenne ebbe un altro Luigi, il padre di Francantonio, parlamentare e una punta di diamante come lo zio di Francantonio, Nino Gullotti, sei volte ministro e signore delle tessere Dc. La famiglia è una cosa importante, da queste parti più che altrove. In una città che non ha più industrie da un pezzo, il potere si concentra in pochi, pochissimi luoghi, ed è per l'appunto spesso un affare di famiglia. O di fratellanza, ma questa è un'altra storia. Sì, perché oltre ai grandi centri di potere, che poi sono quelli del business dei traghetti, dell'editoria e della sanità, e infine dell'università, c'è poi sempre lo stesso fantasma, che si agita in tutti i racconti, con un alone di leggenda. E cioè la massoneria, che qui a Messina ha una lunghissima tradizione. Quanto contano ancora le logge? Nessuno sa dirlo con certezza, ma tutti ne parlano. Di massoni illustri la storia di Messina è ricca. Anche oggi qualcuno ha avuto i suoi momenti di gloria. Come Carlo Vermiglio, avvocato e assessore regionale uscente ai Beni culturali, massone in sonno. In giunta lo piazzarono gli alfaniani, per la precisione Nino Germanà, che in zona Cesarini è tornato in Forza Italia a sostegno di Nello Musumeci, insieme a una ricca compagnia di convertiti dell'ultima ora. Il suo comitato elettorale è giusto di fronte a quello di Beppe Picciolo, uscente di Sicilia Futura. Tentano di restare all'Ars come gli altri uscenti, da Giovanni Ardizzone, presidente dell'Ars, a Santi Formica. Ma i riflettori in questa campagna sono tutti per Genovese jr. Il figlio di “Franzantonio”, come da queste parti chiamano ancora il padre, gode del sostegno di ben undici consiglieri comunali di Forza Italia. Tra loro Emilia Barrile, presidente del consiglio comunale: “C'è un grande consenso di persone che gli vogliono bene. Stiamo chiedendo il consenso per Luigi, non per il figlio di Francantonio”, dice lei. I traghetti del socio Pietro Franza, oggi meno forte di ieri dopo il salasso del Messina calcio, i corsi di formazione e la politica di famiglia sono stati gli ingredienti del potere di Genovese. Un forziere elettorale per la famiglia. Che adesso vuole dimostrare che quel forziere non si è svuotato. La sfida è aperta con tutti i candidati in corsa nelle diverse liste all'opera per contendersi i voti nei quartieri popolari (e popolosi), come Giostra e Mangialupi. Le stanze del potere stanno altrove. Un bel pezzo si concentra da sempre all'Università, luogo dalla storia tormentata. Nelle stanze dei baroni si è tornato ad annusare l'odore dello scandalo con l'inchiesta fiorentina che ha coinvolto i docenti di diritto tributario e che ha lambito anche Messina. Poca cosa, certo, rispetto ai tempi andati. L'ateneo messinese ha una lunga “tradizione” di scandali alle spalle, dalla clamorosa parentopoli alle inchieste sugli esami truccati, con tanto dell'ombra della 'ndrangheta, i cui rampolli hanno spesso frequentato le aule dell'università messinese. Quella stessa università che diciannove anni fa fu sconvolta dall'omicidio di Matteo Bottari, professore e genero dell'ex rettore ucciso in un agguato rimasto impunito. Erano gli anni rimasti alla storia come quelli del “verminaio” Messina. Oggi l'ateneo messinese è retto da Pietro Navarra, che non era ancora nato quando lo zio Michele, boss di Corleone, fu assassinato. La sua è tutt'altra storia, che lo ha portato a diventare il più giovane Magnifico d'Italia con un brillante curriculum accademico. Navarra è ritenuto vicino a Matteo Renzi e in queste elezioni l'ateneo è mobilitato a sostegno della candidatura di Franco De Domenico, direttore generale dell'Università, candidato del Pd. L'ateneo, in una città dall'economia asfittica, rimane un baluardo di potere. Per il resto a Messina, al netto di traghetti (dove accanto al gruppo Caronte dei Matacena e a Tourist della famiglia Franza, ormai uniti, da qualche tempo si sono inseriti anche gli aliscafi del gruppo Morace), editoria e sanità, resta poco o nulla. “La provincia è ancora vivace, ci sono importanti realtà di manifatturiero soprattutto sui Nebrodi, c'è Milazzo con le sue industrie. La città no – racconta Ivo Blandina, presidente della Camera di commercio -. Una quarantina di anni fa in città ci fu lo spostamento del capitale dall'investimento alla rendita”. Ne è seguita una decadenza che ha visto col tempo privare Messina anche di altri fiori all'occhiello, dal Comando marittimo della Sicilia all'Autorità portuale, con la città dello Stretto che finirà ora sotto l'orbita di Gioia Tauro. Cosa resta in città? C'è la sanità, che qui come altrove rappresenta anche un importante bacino elettorale. L'Asp è commissariata (come la ex Provincia, oggi Città metropolitana), con al timone Gaetano Sirna. Accanto a gruppi privati di un certo peso, spicca il Centro Neurolesi Bonino Pulejo, struttura ad alta specializzazione che ha visto approdare ai vertici Angelo Aliquò, già direttore della Seus. Ma il centro, che lega la sua storia già nel nome a quello della famiglia della Gazzetta del Sud, ha come faro indiscusso il professor Placido Bramanti, direttore scientifico con due pagine di cariche nel curriculum, una delle figure di maggior rilievo della città. Di poche settimane fa è la notizia di uno stanziamento ministeriale da 91 milioni di euro in favore del centro messinese, una cifra che già da sola basta a inquadrarne il peso negli equilibri di potere cittadini. E poi c'è appunto la Gazzetta del Sud. Edita dalla Ses, in mano alla Fondazione Bonino Pulejo. Il giornale-ponte, che ha unito la Sicilia e la Calabria conquistando lettori soprattutto al di là dello Stretto. Ma anche il “giornale del Ponte” ai tempi di Nino Calarco, quando in città c'era persino un centro informazioni sull'infrastruttura che non vide mai la luce. Oggi al timone c'è il manager Lino Morgante, protagonista dell'operazione che ha portato nell'orbita messinese il Giornale di Sicilia, rilevato dalla famiglia Ardizzone. Un'operazione che rafforza ulteriormente il peso della testata messinese, tradizionalmente filo-governativa, che ha un altro punto di forza nella sua rotativa. Altra voce dell'editoria cittadina è quella piccola ma agguerrita di Centonove, settimanale lontano dal Palazzo, diretto da Enzo Basso. Che di recente ha fatto le pulci all'affare Giornale di Sicilia con una succulenta inchiesta ricca di retroscena. Qualcosa si muove, insomma, sullo Stretto. Ma gli attori restano sempre gli stessi. Anche nell'era dell'anti-sistema Accorinti. La pensano così dalle parti di Rifondazione comunista, che prima sostenne l'ascesa del sindaco pacifista, salvo poi prenderne le distanze. “Per me non c'è stata assolutamente rottura col passato – commenta Antonio Mazzeo, giornalista e attivista comunista -. Prova ne sono il piano di riequilibrio del bilancio, che ha giovato ai grandi creditori del Comune, o le operazioni immobiliari sempre con gli stessi personaggi. La borghesia imprenditrice esce impunita dagli errori del passato”. Non sono piaciute a sinistra ad esempio le sponsorizzazioni del gruppo Franza a eventi organizzati dall'amministrazione, ma soprattutto il piano che nel nome dell'ambientalismo si propone di spostare le cubature dalle colline alla zona Sud, un'operazione che, secondo l'inchiesta “Beta” della Dda messinese avrebbe solleticato gli appetiti anche di organizzazioni criminali interessate a speculazioni edilizie. Già, la mafia. Che a Messina non ha una storia militare ma piuttosto di infiltrazione negli affari. Con incroci pericolosi di Cosa nostra palermitana, mafia catanese, il clan Santapaola in particolare, e 'ndranghetisti. Ma il tema in questi giorni di campagna elettorale latita, proprio come quei latitanti eccellenti che da queste parti trovarono rifugio negli anni d'oro di Cosa nostra. In una città dove il Palazzo di Giustizia è stato per lunghi anni un luogo di ombre e veleni, in quella che veniva chiamata “provincia babba”. Oggi la procura, che negli ultimi anni ha dato segnali di vitalità, è passata nelle mani di un magistrato esperto come Maurizio De Lucia, grande conoscitore del fenomeno mafioso con trascorsi alla Dna. Il suo biglietto da visita la settimana scorsa con l'indagine che ha portato a un maxi-sequestro ai Cuzzocrea, imprenditori della sanità, fratelli dell'ex rettore dell'università messinese sulla base di accuse che la difesa degli indagati respinge con forza. Questo il quadro di una città che si prepara a una raffica di elezioni. Le Regionali alle porte, con un buon vento nelle vele di Nello Musumeci, poi le Politiche e infine le amministrative. Dove Accorinti secondo diversi osservatori potrebbe strappare un secondo mandato perché a pochi mesi dal voto non si profila ancora un'alternativa. Sarà la volta buona per tentare la strada del cambiamento o alla fine la maledizione dei “buddaci” di Zanca avrà la meglio sull'immutabile città?

De Luca: "L'arresto? Lo sapevo. Vi offro il caffè del galeotto", scrive Accursio Sabella l'8 novembre 2017 su "Live Sicilia". "Non mi vogliono come sindaco di Messina, un parente di un magistrato sapeva del mio arresto". "Sapevo che mi avrebbero arrestato, perché già certi ambienti mi avevano avvertito". Cateno De Luca parla attraverso il suo profilo di Facebook e lo fa in calce a una foto che lo immortala mentre sorseggia un caffè: "Il caffè del galeotto", scherza rivolgendosi ai suoi elettori. "Oggi più di ieri - continua De Luca - vi dico che anche questo procedimento finirà come gli altri quattordici: archiviati o con sentenza di assoluzione. Nei prossimi giorni saprete il perché non vogliono che io faccia il sindaco di Messina. Ringrazio i militari che stamattina alle ore 7:25 hanno suonato alla mia porta per arrestarmi in quanto sono stati un esempio di professionalità, gentilezza e riservatezza". E De Luca fa intendere che l'arresto era ampiamente previsto: "Io - dice infatti - li aspettavo da qualche giorno. Io sto bene, ora sono agli arresti domiciliari a Fiumedinisi e penso solo a preservare mia moglie, i miei figli, la mia famiglia dall'ulteriore calvario giudiziario che li attende". Poi un pensiero a chi ha votato per lui il 5 novembre, consentendogli di conquistare l'elezione a Sala d'Ercole: "Chiedo scusa ai miei sostenitori ed elettori per ciò che subiranno nei prossimi giorni - dice De Luca -  Posso solo dirvi - prosegue - che i fatti contestati risalgono al periodo 2007 - 2012 per i quali risulta pendente presso la commissione tributaria regionale un procedimento: mi contestano che io avrei agevolato il Caf Fenapi ad evadere il fisco e quindi non sarei io l'evasione ma il Caf Fenapi di proprietà della Fenapi che ha oltre 300 mila soci". Insomma, De Luca non fa fatica a definirsi un perseguitato: "Dedico questa ulteriore battaglia - scrive infatti - ai perseguitati dell'ingiustizia che non hanno avuto la forza ed i mezzi per ottenere giustizia. State sereni io non mollo. Preservate il nostro meritatissimo ed onestissimo successo elettorale dagli attacchi dei medesimi ambienti che già sapevano del mio arresto. Tale richiesta - prosegue - risale al 10 gennaio 2017 ed il Gip per motivi a noi non troppo ignoti ha firmato l'ordinanza di arresto il 3 novembre 2017". E il motivo, fa intendere De Luca, sarebbe legato a questioni di natura politica. "Io - prosegue infatti - avevo annunciato la mia candidatura a sindaco di Messina nel comizio del primo gennaio 2017 in Piazza Municipio a Santa Teresa di Riva. A dicembre 2016 avevamo depositato l'ennesima denunzia nei confronti di una parte della magistratura di Messina ed alcuni organi inquirenti che avevano commesso troppi "errori" nei procedimenti penali aperti a carico di Cateno De Luca: ben 15 procedimenti penali di cui già chiusi 14 con sentenze di assoluzione perché il fatto non sussiste e varie archiviazioni per l'inconsistenza delle accuse. Pregate per me - conclude - e per la mia famiglia e per gli altri indagati che nulla c'entrano in questa storia". C'è spazio anche per una citazione evangelica: "'Beati i perseguitati a causa della giustizia - dice - perché di essi è il regno dei cieli'". Conclude poi con un appello agli elettori: "Condividete se potete il presente post. Vi saluto offrendovi virtualmente il caffè del galeotto". "Sono sereno, già venerdì sera in piazza Cairoli sono stato avvicinato da un noto personaggio della politica siciliana, e anche ritengo della massoneria nonché parente molto stretto di magistrati, il quale mi ha fatto i complimenti per la campagna elettorale e mi ha detto: 'lo sai che è tutto inutile quello che hai fatto. Questo stesso personaggio, il lunedì, ha telefonato a un nostro amico nonché suo collaboratore e gli ha detto, che era inutile l'elezione di Cateno perché sarebbe stato arrestato e sarebbe subentrato il primo dei non eletti Danilo Lo Giudice". Così in un video su Fb, il deputato regionale appena eletto Cateno De Luca, da stamani ai domiciliari con l'accusa di evasione fiscale.

“Riabilitiamo Messina” torna dopo l’assoluzione di De Luca. Il fondatore, Antonio Briguglio, aveva chiuso il gruppo Facebook mercoledi, dopo l'arresto del deputato regionale, e lo ha riaperto oggi, dopo la sua assoluzione nel processo per i fatti di Fiumedinisi. De Luca lo ha indicato come assessore designato qualora diventasse sindaco, scrive il 10 novembre 2017 "Letteraemme". Da “Il gruppo è stato archiviato” a “Antonio Briguglio ha annullato l’archiviazione del gruppo”. Il suo creatore ha chiuso il gruppo Facebook Riabilitiamo Messina mercoledì e lo ha riaperto venerdì: quarantotto ore di oblio, coincise con la carcerazione ai domiciliari di Cateno De Luca come misura cautelare nell’inchiesta per evasione fiscale nella galassia Fenapi di due giorni fa, e l’assoluzione per due reati su tre (in uno è intervenuta la prescrizione) nel processo su opere di urbanizzazione realizzate a Fiumedinisi. Il motivo del ritorno lo ha spiegato lo stesso Briguglio, in un post in cui annuncia la riapertura del gruppo che conta diecimila iscritti e si presenta come “un’ottica apolitica per sensibilizzare le amministrazioni e i cittadini tutti alla cura ed al senso civico nei confronti della nostra città, Messina!”. “Ho chiuso il gruppo per qualche giorno per evitare che gente ignobile, gretta e meschina potesse macellare una persona e una famiglia”. Non lo nomina direttamente, ma il riferimento è a Cateno De Luca. Perchè Antonio Briguglio da De Luca è stato indicato come assessore designato della sua giunta qualora riuscisse a diventare sindaco di Messina, il prossimo giugno. Briguglio è stato presentato alla platea lo scorso 21 ottobre quando, sul palco con lui De Luca c’era anche Carlo Taormina, il legale che ha difeso l’ex sindaco di Fiumedinisi dalle accuse nel processo, facendolo assolvere. “Da buon cristiano penso che solo Dio può giudicare sulle nostre scelte, dispiace che molta gente aspetta gli errori di altri per distruggerne la dignità – continua Briguglio nel post in cui annuncia la riapertura – Facebook, come alcuni giornali e giornalisti politicizzati sono il cancro della nostra società. Riapro Riabilitiamo Messina con l’augurio che non diventi più una macelleria social, che nessuno si permetta più di inveire contro le disgrazie altrui in questo gruppo”, ha concluso Briguglio.

Felice Cavallaro per il Corriere della Sera del 10 novembre 2017. Ribalta l'accusa Cateno De Luca, il deputato regionale di Messina eletto a arrestato a tempo di record. Ma lo fa nel primo processo sul quale pende la richiesta di condanna a 5 anni. Non nell' ultima inchiesta per evasione fiscale. Ribalta il sospetto di avere pilotato appalti nel suo paesino, Fiumedinisi. Sostenendo di essere vittima di una estorsione. Questa la verità del vulcanico leader del partitino fatto in casa, «Sicilia Vera». Tesi declamata ai giudici che emetteranno il verdetto oggi e ai quali si è presentato da detenuto perché ai «domiciliari» per l'altro procedimento, il quattordicesimo, legato ai pasticci della Fenami, una federazione di imprenditori costruita a sua misura, seppur benedetta lo scorso aprile dal «cappellano di Sua Santità e direttore Ufficio per la Pastorale universitaria», monsignor Lorenzo Leuzzi, chiamato a parlare di «etica del lavoro». È loquace su Facebook, certo di non commettere reato, nonostante la detenzione e i consigli dei legali. E lascia trapelare cosa accadrà domani, quando il gip che lo ha fatto arrestare lo interrogherà, come ha fatto sapere ai fedelissimi: «Sapevo della cattura e rivelerò il nome di chi me l'ha detto, il parente di un magistrato». L' attesa del possibile annuncio già inquieta Messina dove De Luca indossa i panni della vittima di un presunto complotto descritto come una faida interna al centrodestra. Un riferimento emerso fra le pieghe del processo di ieri quando i carabinieri l'hanno scortato da casa al tribunale. Il «sacco» di Fiumedinisi apparirebbe così legato al clamoroso spogliarello inscenato a Palazzo dei Normanni contro l'allora governatore Raffaele Lombardo e contro Gianfranco Miccichè quando lui era alla guida di un consorzio per la metanizzazione dei paesini della costa ionica. «Volevano un altro». Per scalzarlo i suoi avversari avrebbero fatto scattare «una manovra politica e giudiziaria». Cauto il suo avvocato, Carlo Taormina, su una tesi che oggi potrebbe essere negata dal verdetto. Ma è difficoltoso placare l'esuberanza di questo imputato eccellente che deborda via Internet, sorprendendo il procuratore della Repubblica Maurizio De Lucia, convinto che «non dovrebbe essere possibile», ma che forse occorrono prescrizioni esplicite per una materia nuova. E, incurante, l'imputato irrompe sui social piazzando video e foto di un centinaio di simpatizzanti che lo incoraggiano a non mollare e cita Martin Luther King: «Un giorno la paura bussò alla porta. Il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno». C' è anche la foto dei genitori caricata lunedì con didascalia: «Mamma e papà mi hanno detto di stare sereno». E le foto in chiesa, lui di spalle, la Madonna in primo piano: «Maria Santissima Annunziata proteggici Tu». Ma è sua madre che lo accarezza: «Mi ha visto sciupato e mi ha sbucciato le castagne». Diverso il tono di domenica mattina con gli avversari che cercavano di fare votare altri: «A calci in culo i lacchè davanti ai seggi! Abbiamo fatto intervenire la polizia». Ignaro degli sviluppi. Ancorato ad un accostamento per tanti sacrilego perché il giorno prima delle elezioni «postava» una foto di Falcone e Borsellino con una citazione di quest' ultimo: «Il cambiamento si fa dentro la cabina elettorale...».

Cateno De Luca assolto 15 volte, ma resta dentro, scrive il 10 novembre 2017 l'Adnkronos e il Dubbio. Il neo deputato Udc arrestato per una presunta evasione fiscale da 1,7 milioni di euro. Ora aspetta il 16esimo processo: «Anche stavolta dimostrerò la mia innocenza». Cateno De Luca, il neo deputato Udc arrestato due giorni fa per una evasione fiscale da 1,7 milioni di euro è stato assolto poco fa dal Tribunale di Messina dall’accusa di tentata concussione e falso in atto pubblico. I reati contestati, per cui il parlamentare finì anche in cella, sono relativi a un periodo compreso tra il 2004 e il 2010, quando De Luca era sindaco di Fiumedinisi. Secondo l’inchiesta della Procura messinese, l’ex sindaco avrebbe stravolto il programma per favorire imprese edilizie della sua famiglia. Cateno De Luca è stato assolto perché il fatto non sussiste. Alla lettura della sentenza hanno assistito decine di persone, alcune delle quali al momento dell’assoluzione hanno a lungo applaudito. Il procedimento per cui era sotto processo De Luca cominciò per presunti reati commessi tra il 2004 e il 2010 all’interno di un programma di opere di riqualificazione urbanistica e incentivazione dell’occupazione a Fiumedinisi (Me), Comune di cui era sindaco. De Luca venne arrestato nel giugno 2011. Intanto si terrà domani mattina l’interrogatorio di De Luca per l’arresto per evasione fiscale. Sospiro di sollievo per De Luca: “Ringrazio il collegio che ha avuto il coraggio, nonostante le pressioni, di assolvermi sulla maggior parte dei casi. Su alcuni è stata sollevata la prescrizione e questo mi dispiace molto. Devo decidere cosa fare perché non escludo di rinunciare alla prescrizione di alcuni capi d’imputazione e di andare avanti fino in fondo facendo appello”. “In questi sette anni – aggiunge – ho subito 15 procedimenti penali e sono stato assolto sempre. Tante accuse sono state archiviate per l’inconsistenza delle stesse e io voglio giustizia ed essere assolto”.

Cateno De Luca: "Ferite che rimarranno, non cerco vendetta ma giustizia". Visibilmente provato, Cateno De Luca dopo la sentenza che lo ha visto assolto ha affidato il suo sfogo ancora una volta a un video messaggio su Facebook, scrive Venerdì 10 Novembre 2017 "Tempo stretto". "In questi sette anni ho subito quindici procedimenti penali, sono stato assolto sempre. Molte accuse sono state archiviate per l'inconsistenza, per altre è stata chiesta la prescrizione ma adesso voglio valutare se rinunciare. Io desidero la giustizia giusta e voglio essere assolto. Non accetto di essere indicato dagli improvvisati grillini come impresentabile, di essere tacciato da quell'ignorante di Salvini che è venuto anche ai nostri convegni della Fenapi e voleva lui che io entrassi nella Lega. Sfido tutti al confronto sulla buona politica, se sono all'altezza. Io non sono un politico, sono un amministratore, voglio che ci sia giustizia. Oggi è un giorno importante per me, per la mia famiglia e per chi ha creduto in me. Andiamo avanti, sono ancora in uno stato di detenzione ma mi difenderò anche da questa ignobile accusa. Mi auguro che la politica prevalga sull'infamia della calunnia e soprattutto che chi fa politica si misuri e si confronti sui temi politici e la smetta di appioppare patenti di moralità soltanto per nascondere la propria imbecillità politica".

Cateno De Luca dopo l’assoluzione: «Sono più forte, le lobby non mi fermeranno», scrive "Normanno" l'11 novembre 2017. Dopo essere stato assolto da tutti i capiti di imputazione di cui era accusato per il processo conosciuto come “Sacco Fiumedinisi”, il collegio di difesa di Cateno De Luca composto dal prof. Carlo Taormina e dall’avvocato Tommaso Micalizzi, scrive una lettera in cui parla di una vera e propria persecuzione ai danni del neo deputato all’ARS. “La sentenza di oggi mette fine ad un’odissea giudiziaria che aveva come unico obiettivo quello di mettere fuori gioco dalla politica l’on. Cateno De Luca. Chi pensava di raggiungere tale scopo, gettando discredito sull’operato di De Luca e avanzando pseudo ipotesi delittuose – spiega il collegio di difesa – si dovrà ora ricredere. Sono quindici i processi nei quali ha ottenuto un’assoluzione o un’archiviazione ed è ormai chiaro a tutti che si è trattata di una persecuzione per fermare un personaggio scomodo, non controllabile, e che non scende a compromessi.  Tuttavia, questi anni di processi sono serviti ad alcuni detrattori come alibi per alimentare voci in modo tendenzioso e per fomentare odio nei confronti dell’ex sindaco di Fiumedinisi, descritto come un mostro senza cuore e senza valori. Riteniamo che questi anni abbiano costretto l’on De Luca a rallentare il suo percorso politico danneggiandolo oltremodo, ma queste accuse infondate, non sono riuscite ad intaccare la dignità, la serietà e la forza di De Luca che ha lottato in prima linea per far emergere la verità. Riteniamo che anche quest’ultima vicenda relativa all’arresto di qualche giorno fa per evasione fiscale, avvenuta con una tempistica alquanto inusuale, abbia contorni poco chiari che cercheremo di evidenziare, dimostrando anche in questo caso la totale estraneità di De Luca ai fatti contestati. Sembrerebbe, da una prima analisi dei fatti, che ci siano regie occulte e sempre pronte ad agire anche in questo caso solo con lo scopo di danneggiare l’uomo politico nei momenti cruciali.  Uno stato di diritto prevede che sia la giustizia a decidere su queste vicende, ma sin da ora annunciamo che non permetteremo altre speculazioni sulla questione”. Cateno De Luca, che si trova ai domiciliari, ha autorizzato i suoi legali a diffondere queste sue dichiarazioni: «I giustizialisti a tempo, gli ipocriti a comando, gli avvoltoi sempre vicini alla stanza dei bottoni e i leoni da tastiera saranno rimasti delusi anche da questa sentenza, la quindicesima a mio favore. Speravano fossi condannato per poter gridare allo scandalo, ma ora non avranno nemmeno la decenza di chiedere scusa per le tante nefandezze scritte o dette.  Io ho sempre agito per il bene comune, non ho mai pensato di sopraffare nessuno, e volevo solo realizzare delle opere pubbliche utili per il mio territorio. Da parte mia c’è sempre e solo stato il desiderio di servire la mia comunità e di agire per lo sviluppo della mia terra.  Penso che i giudici abbiano compreso le mie vere intenzioni, ed io ho sempre avuto fiducia nella magistratura. Ritengo che questo processo, insieme agli altri nei quali sono stato assolto, siano un esempio per tutti i perseguitati dell’ingiustizia. Bisogna sempre credere che la verità trionferà. E’ stato un periodo difficile per me, per la mia famiglia e per tutti i miei familiari e sostenitori, ma è stata una prova che mi ha ritemprato rendendomi più forte e determinato nella mia lotta contro la cattiva politica, i ladroni autorizzati, gli scansafatiche senza meriti e gli improvvisati da strapazzo. Le lobby e le consorterie non mi fermeranno, come non ci sono riuscite fino ad ora. Sono ottimista anche relativamente a quest’ultima azione giudiziaria avvenuta nei miei confronti, e sono certo che presto tornerò libero e dimostrerò la mia innocenza. Durante questa azione mediatico giudiziaria che mi ha messo al centro dell’attenzione nazionale, ho sentito delle incredibili dichiarazioni false e molto lesive della mia onorabilità e ho dato già mandato ai miei legali di agire di conseguenza querelando chi le ha proferite. Non permetterò che i burattini del teatrino della politica gettino ulteriormente fango su di me, solo per mere opportunità politiche. Mi fa sorridere vedere alcuni personaggi venuti dal Nord che si sono sempre dimenticati del Mezzogiorno, ergersi ora a paladini del Sud e a difensori dell’etica. Prima di parlare di me pensino al loro partito più volte al centro di scandali vergognosi. Così, come non permetterò a qualche trombato dell’ultima ora di sfogare il suo piccolo ego lanciando anatemi contro di me, solo per trovare una giustificazione al motivo per il quale gli elettori hanno pensato bene di non dargli più fiducia dopo che la sua azione politica è stato un fallimento. Sono pronto a sfidare tutti in dibattiti pubblici dove dimostrerò la pochezza delle loro idee e l’assenza della loro moralità che vanno sbandierando ai quattro venti. Tornerò in parlamento portando sempre avanti le mie battaglie contro gli sprechi, contro la corruzione e contro chi ha ridotto la Sicilia in un letamaio. La gente è con me e mi chiede di andare avanti e io non mi fermerò».

Carlo Taormina (legale di De Luca) ai giornalisti: «Poi non vi lamentate delle testate», scrive l'11/11/2017 "La Sicilia”. La frase del difensore del deputato regionale arrestato per evasione fiscale. L'Ordine dei giornalisti di Sicilia: «Frase infelice e fuori luogo». E’ polemica a Messina per alcune frasi dette ai cronisti dall’avvocato Carlo Taormina dopo l'interrogatorio di garanzia di Cateno De Luca oggi al tribunale di Messina. Taormina prima di andarsene, rispondendo alle domande dei cronisti sull'operato della Procura nei confronti di De Luca, ha infatti detto: «Giudicate voi se è normale il comportamento della Procura nei confronti di De Luca, valutate voi se è da paese civile. Poi vi lamentate se vi danno le testate. Cercate di operare nell’interesse dei cittadini». «Una frase infelice e fuori luogo quella dell’avvocato Taormina, - replica il presidente dell’ordine dei giornalisti di Sicilia Giulio Francese - che non si capisce perché tiri in ballo l’episodio della testata inferta a un giornalista a Ostia. Bisognerebbe avere più rispetto per i cronisti e non alimentare con certe dichiarazioni un clima d’odio che poi rischia di degenerare in episodi violenti come è successo a Ostia. Per tornare a un clima più sereno ognuno deve fare il proprio lavoro nel rispetto di tutti. Basta allusioni e accuse gratuite».

Morta l'antimafia se ne fa un'altra. Arrivano i santissimi sputtanatori, scrive Giuseppe Sottile Giovedì 9 Novembre 2017 su "Live Sicilia". Il mascariamento non finisce mai. Lo dimostra la campagna d'odio sugli "impresentabili", targata M5S. (Dal Foglio). Diciamolo pure con un certo sconforto, ma diciamolo: l'antimafia, quella che un tempo spaccava le ossa e garantiva trionfi e carriere, non tira più. E per averne conferma basta guardare tra le pieghe delle elezioni siciliane. Rosario Crocetta, che cinque anni fa era diventato governatore grazie alle sue furbesche intemerate contro gli invisibili spettri di criminalità e malaffare, è finito nella polvere con tutto l'armamentario delle imposture spacciate come verità nel teatrino di Massimo Giletti. Leoluca Orlando, altro campione dell'antimafia chiodata, ha tentano il salto dal comune di Palermo alla Regione, ma le sue liste non hanno superato la soglia di sbarramento e sono miseramente naufragate, come quelle di Angelino Alfano, nel grande mare dell'irrilevanza. Stesso destino per Claudio Fava, che pure è testimone di un impegno serio e rispettabile: la sua fatica con quel che resta della sinistra non è andata oltre il 6 per cento dei voti e ha conquistato appena un seggio a Sala d'Ercole. La disfatta, com'era prevedibile, ha travolto anche le comparse del vecchio cinema antimafia, con tutti i loro attrezzi di scena. Valeria Grasso – un'improbabile eroina del cerchio magico di Crocetta, elevata dal ministero dell'Interno al ruolo di testimone di giustizia – ha creduto che fosse finalmente arrivato il momento di salire sul palcoscenico elettorale per riscuotere gli applausi. E per meglio commuovere gli spettatori ha raccontato la storiellina, ovviamente “misteriosa e inquietante”, di un furto in casa. Un furto “strano”, va da sé. Un'esperienza “traumatica e brutale”, naturalmente, proprio perchè i ladri si sarebbero limitati, guarda un po', a rubare la foto di Valeria ritratta con i figli. E nulla più. La storiellina, finita sui giornali a pochi giorni dal voto, avrebbe dovuto quantomeno suscitare consensi e solidarietà, trepidi abbracci e infiocchettati attestati di stima. Ma le masse, chiamiamole ancora così, non hanno risposto all'appello e Valeria Grasso ha raccolto nelle urne appena 501 voti. Gli elettori hanno mostrato verso la sua antimafia la più assoluta e sincera indifferenza. Si è schiantato contro un muro di gomma anche la sublime architettura messa in piedi per condizionare il voto dalla cosiddetta Confraternita della Trattativa, una sorta di setta conventicolare secondo la quale nessun magistrato, tranne Nino Di Matteo, riuscirà mai a scoprire le trame oscure e i mandanti occulti che lo Stato-mafia (col trattino piccolo piccolo) puntualmente nasconde tra le pieghe di ogni processo. La Confraternita, alla quale aderiscono santoni e tromboni con tutte le stimmate delle loro immacolate esistenze, ha tentato il colpo grosso. Da cinque mesi vagavano – tra le procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta – i mille e mille discorsi fatti durante l'ora d'aria da Giuseppe Graviano, un boss stragista rinchiuso da 23 anni nel carcere duro di Ascoli Piceno. Graviano, che pure aveva sgamato di avere tutto intorno le cimici sistemate dagli agenti lungo il cortile per intercettare le sue parole, parla a ruota libera e, con la tecnica mafiosissima del dire e del non dire, lascia andare alcune frasi smozzicate che comunque tirano in ballo il bersaglio di sempre: Silvio Berlusconi. Una manna dal cielo per la Confraternita della Trattativa, e per i pochi cronisti che ancora si ostinano a seguire il processo in Corte d'Assise che si celebra nell'aula bunker dell'Ucciardone. E anche se il boss, chiamato dalla Corte a testimoniare, spegne subito gli entusiasmi, avvalendosi della facoltà di non rispondere, la Confraternita che affianca dall'esterno Di Matteo (candidato da Grillo a diventare il ministro di legge e ordine in un futuro governo a cinque stelle) non si arrende e spara il colpo di riserva: l'annuncio che Berlusconi, con Graviano, è stato iscritto a Firenze nel registro degli indagati. La notizia, anche se vecchia e usurata, doveva restare segreta. Ma la Confraternita ha i suoi incappucciati sparsi un po' in tutti i sottoscala delle procure. E la notizia è stata opportunamente veicolata, si dice così, sui due principali quotidiani: Repubblica e Corriere della Sera. Teoricamente, avrebbe dovuto fare sfracelli. Ma le elezioni siciliane hanno ratificato anche il fallimento di quella particolare specie di antimafia che, giocando di sponda con i magistrati politicamente più sensibili e più disponibili, si è trasformata da tempo in una autonoma forza sbirresca. L'elettorato, messo di fronte all'ennesima scempiaggine, non ha abboccato. La criminalizzazione di Berlusconi non ha funzionato. Anzi, a giudicare di come sono andate le cose, c'è da pensare che la manovra degli incappucciati abbia portato al centrodestra più consensi che dissensi, più simpatie che antipatie. Ciò non significa tuttavia che il tracollo dei professionisti dell'antimafia abbia restituito alla politica, soprattutto a quella siciliana, la cultura della libertà e dello stato di diritto. No. Perché morta un'antimafia se ne fa un'altra. E per rendersene conto basta guardare alla scomposta – forsennata, si stava per dire – campagna condotta dal Movimento cinque stelle contro i cosiddetti “impresentabili”: una categoria molto vaga di impuri sui quali si sono scatenati in quest'ultimo mese i puri e duri di Beppe Grillo. Giancarlo Cancelleri, che nella corsa alla presidenza della Regione ha raccolto oltre il 34 per cento dei voti, non ha accettato la vittoria di Nello Musumeci e ha platealmente respinto l'invito a stringergli la mano: “La sua elezione si deve agli impresentabili di cui erano piene le liste di centrodestra”, ha sentenziato. E mascariando e sputtanando, ha cominciato a criminalizzare non solo il figlio di Francantonio Genovese, che fu ras a Messina prima del Pd e poi di Forza Italia e che ha sulle spalle un condanna in primo grado a 11 anni di carcere per avere abbondantemente lucrato sui corsi di formazione della Regione; ma anche i candidati che malauguratamente si ritrovano un indagato tra gli ascendenti o i discendenti, tra i nonni o gli zii, tra i parenti vicini o i parenti lontani. Certo, uno scheletro negli armadi può capitare a chiunque: ieri, a ventiquattr'ore dall'elezione, è finito agli arresti domiciliari per evasione fiscale Cateno De Luca, un guitto della politica reclutato dall'Udc di Lorenzo Cesa ma la scuola grillina pretende che l'impresentabile appartenga sempre e comunque alla sponda opposta. Perché se finisce sotto indagine un esponente del Movimento, come è successo al sindaco di Bagheria o ai deputati rinviati a giudizio per le firme false, la macchia giudiziaria diventa un semplice incidente di percorso al quale ovviare, se proprio se ne avverte il bisogno, con una semplice autosospensione. La questione degli impresentabili è diventata dunque non solo la nuova bandiera di moralisti e moralizzatori. Ma anche e soprattutto il nuovo strumento di lotta politica che il M5s impugna o per delegittimare l'avversario, esattamente come avveniva con l'antimafia, o per sfuggire al dibattito in particolar modo quando il dibattito pone la necessità di approntare risposte concrete a domande che non si possono più eludere o rinviare. Sarà pure un caso, ma la scatola con dentro il giochino dell'impresentabilità è stata regalata ai grillini proprio dalla Commissione parlamentare antimafia che, non avendo più alte indagini da fare per mantenersi a galla, promette a ogni vigilia elettorale di rivelare urbi et orbi chi sono gli impresentabili veri o presunti nascosti dentro le liste. Poi puntualmente non ci riesce e l'operetta immorale diventa automaticamente patrimonio esclusivo di chiunque voglia fare politica con gli insulti, di chiunque pensi di annientare il nemico con uno sfregio e con una diffamazione, di chiunque voglia tenere ancora viva in questo paese la devastante cultura del sospetto. “Il sospetto è l'anticamera della verità”, teorizzava trenta e passa anni fa Leoluca Orlando, ancora sindaco di Palermo, quando spadroneggiava tra i circoli antimafia con una arroganza che lo spingeva a insultare un giudice come Giovanni Falcone o uno scrittore come Leonardo Sciascia. Oggi la sua stella si è appannata e la sua antimafia non brilla più. S'avanzano i nuovi odiatori: da Cancelleri a Gigino Di Maio, da Alessandro Di Battista al poco conosciuto Angelo Parisi che, appena designato da Cancelleri tra gli assessori dell'immaginario governo grillino, si è guadagnato gli onori, si fa per dire, della cronaca lanciando la nobile proposta di mandare al rogo Ettore Rosato, il capogruppo del Pd colpevole di avere proposto la legge elettorale poi approvata dai due rami del Parlamento. Ebbene, diciamolo pure con un pizzico di cinismo, ma diciamolo: meglio che la Sicilia sia finita nelle mani dell'onesto Nello Musumeci, anche se eletto con i voti di Cateno De Luca e di altri tre o quattro candidati impresentabili, che non in quelle di Cancelleri e dei suoi professionisti del rancore. Abbiamo visto i guai e le nefandezze dell'antimafia forcaiola, che Dio ci liberi dai guai e dalle nefandezze dei santissimi sputtanatori.

Il caso De Luca e la categoria pre-giuridica dell'“impresentabilità”. Appena eletto all’Assemblea Regionale Siciliana il deputato dell'Udc è stato arrestato e posto ai domiciliari. Ma la novità risiede nel riconoscimento preventivo e, de facto, dell’indegnità di una persona, scrive Fabio Cammalleri l'8 Novembre 2017 su "Il Foglio". Cateno De Luca, appena eletto per il centro-destra, con l’UDC, all’Assemblea Regionale Siciliana, è stato sottoposto a custodia cautelare nel domicilio, su richiesta della Procura della Repubblica di Messina. A suo modo, è vicenda di perfetta esemplarità. Chiarisce il nuovo statuto delle libertà politiche e civili in Italia; e il valore fondativo della categoria che ne è alla base: “impresentabilità”. Eletto con poco più di cinquemila voti, era stato incluso nell’omonima “lista degli impresentabili”, sciorinata, nel corso della campagna elettorale, dal candidato del M5S, Cancelleri. Ma il nuovo conio integra ormai la “grammatica politica” comune. Poche le eccezioni. Lo stesso Musumeci, a chi gli contestava, mediante le liste di coalizione, il sostegno di “impresentabili” (come De Luca), ha risposto, semplicemente, che “gli impresentabili” non hanno votato per lui. Ma il lessico obliquo non è stato discusso. Si procede anche nei confronti di altre otto persone, per associazione per delinquere ed evasione fiscale. De Luca avrebbe conseguito, attraverso la sua società CAF ENAPI S.r.l., illegittimi “risparmi d’imposta per circa 1.750.00 Euro”. Dove si discuta di flussi finanziari, il sostrato probatorio è, per definizione, documentale, ed è stato già acquisito. Anche per questa ragione, le misure cautelari personali non sono molto frequenti per titoli di questa specie. Nel giugno del 2011, lo stesso De Luca era stato ristretto per la prima volta: allora finendo addirittura in carcere, accusato di tentata concussione e abuso d’ufficio. La corte di Cassazione aveva ritenuto illegittima la misura cautelare, perchè non c’erano esigenze cautelari. Per quella prima vicenda, alla fine del dibattimento in primo grado, il PM ha chiesto al Tribunale una condanna a cinque anni di reclusione. Per novembre è attesa la sentenza. De Luca, di recente, aveva precisato di essere già stato sottoposto ad indagine o a processo quindici volte. A parte il processo che si deciderà a novembre (e il sedicesimo, di oggi), ricevendo finora quattordici, fra assoluzioni o archiviazioni. La Procura ha osservato di non voler commentare in alcun modo: se non per far rilevare che non si può parlare di arresto ad orologeria. Vediamo. Il punto è la selezione delle classi dirigenti elettive, e il suo intersecarsi con una valutazione, di estrazione ma non di competenza giudiziaria: che tende a determinare l’esautoramento, quasi formale, dell’elezione stessa. Come? Con l’introduzione di quella nuova categoria: “impresentabili”; indefinita, nebulosa e, soprattutto pre-giuridica: tratta dal discorso comune e dalla sua allusività morale. Il caso della “impresentabilità”, però, è diverso dalla ormai “classica” anticipazione impropria del giudizio; quella, per intenderci, che, con “l’avviso di garanzia”, “bruciava” l’accertamento definitivo di non-colpevolezza/colpevolezza: ma il “contenuto giudiziario” non agiva sulle libertà politiche (chi vota e chi è votato), se non indirettamente. Per trarre “le conseguenze politiche”, come le potrebbe qualificare un Borrelli d’Antàn, erano necessari atti ulteriori, di varia specie (dimissioni o rinunce, più o meno spontanee, e, a rincalzo, connesse “sollecitazioni” del Servizio Propaganda). Né si tratta di “incandidabilità” o di “decadenza”: che, rispettivamente, incidono sull’elettorato passivo, prima del suo concretarsi o dopo, ma derivando da una valutazione formale. No. Qui lo scopo (e la novità) risiede nel riconoscimento preventivo e, de facto, dell’indegnità di una persona che, secondo le leggi vigenti, gode ancora della sua libertà politica. Ma venendo, al contempo, “istituzionalmente indotta”, per effetto di quella aleggiante qualificazione, di estrazione ma non di competenza giudiziaria, alla “opportunità” di rinunciarvi. Per questo, la faccenda della tempestività di un provvedimento giudiziario, rispetto al piano politico-elettivo, oggi si pone in termini inediti. Ad un’osservazione smagata, sembrerebbe che il “dispositivo”, essendo abbastanza nuovo, debba ancora affermarsi: la mera “opportunità”, rischiava perciò di essere inefficace. Occorreva provvederla di una più vivida credibilità. Mutando “l’opportunità” in temibilità. Riguardato in questo modo l’insieme, da un arresto maturato a 48 ore dalle elezioni, scocca allora una tempestività, magari “riflessa”, ma certo di rimarchevole incisività. Non si interviene sulla formazione del voto, durante la sua espressione; ma, “prima” che si esprima, viene “indotto” nella comunità una sorta di orientamento autorevole, e non ancora autoritario: vale a dire, che il voto possa esprimersi solo su destinatari selezionati secondo certi criteri. Criteri, la cui posizione dipende, esclusivamente, da due Autorità: ciascuna, in astratto, indipendente dall’altra: Autorità Giudiziaria e Commissione Antimafia. Ma dal loro agire combinato, che si compone di, rispettive, “mezze competenze” (l’autorità giudiziaria non pronuncia dichiarazioni di voto, la commissione d’inchiesta non si occupa di reati), finisce col prendere corpo una sorta di terza entità: “la Commissione commissaria”. Se, rispetto al processo penale strettamente inteso, nell’Anno XXV dell’Era Mani Pulite, si era già conclamato il “non esistono presunti innocenti”, da oggi, per “trarre le conseguenze politiche”, direttamente dai materiali giudiziari ancora in formazione, si è costruita questa categoria nuova, “l’impresentabilità”: la “terra promessa” paranormativa dei primi, timidi, auspici del dottor Borrelli. L’onorevole Bindi ha dichiarato: “è un fatto gravissimo”. Ma non si riferiva all’accusa penale in sè: “così si droga il risultato elettorale”, ha proseguito, (De Luca) era “segnalato dalla Procura e dalla Prefettura”. Si riferiva alla concatenazione: l’avevamo detto, è mancata l’obbedienza; e si deve sapere che “gravissimo” è il disobbedire al “si induce”, non meno che al “si comanda”. Sicilia, insula feracissima.

Ardizzone: "Arresto De Luca non mi sorprende. La mafia è tornata all'Ars". Per il presidente uscente dell'Assemblea regionale siciliana, che non è stato rieletto, i partiti avevano il dovere di dire no agli impresentabili e Musumeci deve avere il coraggio di tenere la mafia fuori dal palazzo, scrive Mercoledì 8 Novembre 2017 "Tempo Stretto". "La notizia dell'arresto del primo deputato eletto non mi meraviglia, purtroppo avevo chiesto, inutilmente, che i partiti verificassero gli impresentabili, gente nota all'opinione pubblica che non risparmia nessun partito. I partiti avevano questo dovere, ma i candidati presidenti dovevano avere la forza e il coraggio di imporre ciò nella formazione delle liste". E' quanto denuncia all'Adnkronos Giovanni Ardizzone, Presidente uscente dell'Assemblea regionale siciliana, commentando l'arresto di Cateno De Luca. "In questi anni, ho tenuto lontana dal palazzo la mafia, che c'è e resiste e, purtroppo, è tornata. Perchè la corruzione è mafia. Mi auguro che Musumeci, che ne ha le qualità, sappia resistere alle sollecitazioni che gli impresentabili sicuramente gli faranno. Se, per necessità, Musumeci si è fatto carico in queste elezioni del loro voto, una volta eletto, dovrà avere il coraggio, che non gli manca, di tenerli fuori", ha aggiunto.

Sicilia, impresentabili e liste specchiate: arrestato anche un grillino, scacco matto al giustizialismo a cinque stelle. Con oggi ogni schieramento all’Ars ha il suo impresentabile, segno che il terremoto giudiziario e politico che si sta abbattendo in Sicilia non risparmia nessuno degli eletti e dei candidati a Palazzo d’Orleans, scrive il 14 novembre 2017 Serena Guzzone su "Stetto Web". “Il M5s mi chiede di scusarmi per la vicenda che ha coinvolto il neo deputato Cateno De Luca? Loro farebbero bene a guardare all’interno delle loro liste”. Così giorni fa Musumeci replicava alle accuse mosse dai Cinquestelle dopo l’arresto del neo deputato De Luca e mai parole furono più vere, dal momento che con oggi viene a galla che anche le liste del M5s in Sicilia non erano poi così specchiate. Sale a tre il numero degli arresti “eccellenti” della compagine politica siciliana e stavolta nel mirino ci è finito un grillino. La macchina della giustizia non fa sconti, neanche nei confronti di chi, come i pentastellati, hanno giocato tutta la campagna elettorale a colpi bassi, ergendosi a paladini della legalità, additando gli impresentabili delle altre liste. Stamane La Squadra mobile di Agrigento ha infatti tratto in arresto con l’accusa di estorsione Fabrizio La Gaipa, imprenditore di 42 anni, primo dei non eletti della lista M5s nella provincia di Agrigento alle elezioni regionali siciliane.  Con oggi ogni schieramento all’Ars ha il suo impresentabile, segno che il terremoto giudiziario e politico che si sta abbattendo in Sicilia non risparmia nessuno degli eletti e dei candidati a Palazzo d’Orleans. Con La Gaipa sono quindi tre ad oggi gli impresentabili eletti o solo candidati all’Ars tratti in arresto, ecco di chi si tratta: 

Cateno De Luca, il leader di Sicilia Vera, ha sostenuto la campagna elettorale del neo presidente della Regione Nello Musumeci ed è stato arrestato a 48 ore dallo spoglio con la pesante accusa di associazione per delinquere finalizzata all’evasione fiscale, per un totale di circa un milione e 750mila euro di tasse evase. De Luca è stato rieletto dopo cinque anni con 5.400 voti.

Grane con la giustizia anche per Edy Tamajo, neo deputato di Sicilia futura indagato dai pm di Palermo per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione elettorale. Il “mister preferenze” di Trapani è stato eletto nella coalizione di centro/sinistra e supportava la candidatura a governatore di Micari: è accusato di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione elettorale. Il 41enne eletto all’Ars è il candidato che appoggiava Fabrizio Micari, all’interno della lista dell’ex ministro Cardinale. Ha totalizzato esattamente 13.984 preferenze, 8.038 delle quali a Palermo. Secondo l’accusa avrebbe comprato i voti del 5 novembre in Sicilia al prezzo di 25 euro a preferenza.

Il grillino La Gaipa sarebbe accusato da dipendenti dello stesso imprenditore che gestisce un albergo ad Agrigento. Con oltre quattromila voti il 5 novembre è stato il primo dei non eletti subito dopo Matteo Mangiacavallo (14 mila voti) e Giovanni Di Caro (5.900 voti).

“Musumeci stamattina in un’intervista ha detto che gli impresentabili sono un problema di tutti. Mente nuovamente!” diceva Cancelleri qualche giorno fa, aggiungendo che “sono un suo problema, visto che non solo li ha portati in Parlamento, ma uno glielo hanno pure già arrestato. I condannati ce li ha lui nella sua maggioranza. Uno glielo hanno arrestato e per gli altri è conto alla rovescia. A Musumeci dico che per porre fine agli impresentabili non servono codicicchi etici che puntualmente poi non rispettano, come quello scritto proprio da Musumeci quando era presidente della commissione antimafia e che neanche lui ha rispettato. Sia serio, se riesce a esserlo, e la finisca di mentire ai siciliani”.

Parlano gli avvocati Carlo Taormina e Tommaso Micalizzi: "L'obiettivo era metterlo fuori dalla politica". Cateno De Luca: "Contro di me le lobby, ma non mi arrendo", scrive Venerdì 10 Novembre 2017 "Tempo Stretto". “La sentenza di oggi mette fine ad un'odissea giudiziaria che aveva come unico obiettivo quello di mettere fuori gioco dalla politica un uomo di talento e di grande spessore umano come l'on. Cateno De Luca". A dirlo il collegio di difesa del neo deputato regionale dell'Udc-Sicilia Vera composto dal professor Carlo Taormina e dall'avvocato Tommaso Micalizzi, dopo la sentenza del tribunale di Messina che ha assolto De Luca nel processo nato su una presunta speculazione edilizia a Fiumedinisi. "Sono quindici i processi nei quali ha ottenuto un'assoluzione o un'archiviazione, ed è chiaro che si è trattata di una persecuzione per fermare un personaggio scomodo, non controllabile. Tuttavia, questi anni di processi sono serviti ad alcuni detrattori come alibi per fomentare odio nei confronti dell'ex sindaco di Fiumedinisi. Riteniamo che questi anni abbiano costretto l'on De Luca a rallentare il suo percorso politico danneggiandolo oltremodo, ma non sarà più permesso a nessuno di creare ad hoc altre infamie contro un amministratore capace, onesto e sempre al servizio della comunità. Anche l’ultima vicenda relativa all'arresto per evasione fiscale, avvenuta con una tempistica alquanto inusuale abbia contorni poco chiari che cercheremo di evidenziare, dimostrando anche in questo caso la totale estraneità ai fatti contestati di De Luca. Sembrerebbe che ci siano regie occulte anche in questo caso solo con lo scopo di danneggiare l'uomo politico nei momenti cruciali.  Uno stato di diritto prevede che sia la giustizia a decidere su queste vicende, ma sin da ora annunciamo che non permetteremo altre speculazioni sulla questione". Il neo deputato dell'Udc che si trova ai domiciliari, ha autorizzato i suoi legali a diffondere queste sue dichiarazioni: "I giustizialisti a tempo, gli ipocriti a comando, gli avvoltoi sempre vicini alla stanza dei bottoni e i leoni da tastiera saranno rimasti delusi anche da questa sentenza, la quindicesima a mio favore in cinque anni. Speravano fossi condannato per poter gridare allo scandalo, ma ora non avranno nemmeno la decenza di chiedere scusa per le tante nefandezze scritte o dette.  Io ho sempre agito per il bene comune e volevo solo realizzare delle opere pubbliche utili per il mio territorio. Da parte mia c'è sempre e solo stato il desiderio di servire la mia comunità e di agire per lo sviluppo della mia terra.  Penso che i giudici abbiano compreso le mie vere intenzioni, ed io ho sempre avuto fiducia nella magistratura. Ritengo che questo processo, insieme agli altri nei quali stato assolto, rappresenti un esempio per tutti i perseguitati dell'ingiustizia. E' stato un periodo difficile per me, per la mia famiglia e per i miei sostenitori ma le lobby, le consorterie non mi fermeranno, come non ci sono riuscite fino ad ora”. De Luca si è detto ottimista anche relativamente alla nuova vicenda giudiziaria che domani lo vedrà interrogato dal giudice e che definisce “arresto ad orologeria”. Annuncia inoltre di aver dato mandato ai legali per agire nei confronti di quanti “Durante questa azione mediatico giudiziaria che mi ha messo al centro dell'attenzione nazionale, hanno fatto dichiarazioni false e molto lesive della mia onorabilità. Non permetterò che i burattini del teatrino della politica gettino ulteriormente fango su di me. Mi fa sorridere vedere alcuni personaggi venuti dal Nord ergersi ora a paladini del Sud e a difensori dell'etica. Prima di parlare di me pensino al loro partito più volte al centro di scandali vergognosi. Così, come non permetterò a qualche trombato dell'ultima ora di sfogare il suo piccolo ego lanciando anatemi contro di me, solo per trovare una giustificazione al motivo per il quale gli elettori hanno pensato bene di non dargli più fiducia dopo che la sua azione politica è stata un fallimento”. Cateno De Luca conclude dicendosi pronto a “sfidare” chiunque in un dibattito pubblico sui temi dell’isola e si dichiara pronto a tornare all’Ars per continuare le sue battaglie contro gli sprechi avviate in questi anni.

Cateno De Luca dilaga su Facebook: e il gip lo censura, scrive il 14/11/2017 "Il Giornale D’Italia". Il deputato agli arresti domiciliari ha esultato “troppo” sul social network per l’assoluzione da un precedente provvedimento. Troppo smodato nei commenti. E la tagliola della magistratura si abbatte sul profilo Facebook dell’imputato eccellente. Con la variante del social network, quindi, un nuovo caso per far dividere gli italiani tra chi ritiene censurabile l’arroganza dei politici, chi lo strapotere dei magistrati e chi, forse la maggioranza, entrambi. Fatto sta che Cateno De Luca, ha esultato per l'assoluzione dal processo per concussione, abuso d'ufficio e falso in atto pubblico, per il cosiddetto "sacco di Fiumedinisi" (il Comune di cui era stato sindaco anni fa), non è passata inosservata. La procura non ha gradito e il gip, accogliendo l’istanza dei pm, ha inasprito la misura cautelare degli arresti domiciliari disposta nei suoi confronti vietandogli ogni rapporto (anche telematico) con l’esterno. ll gip deve ancora pronunciarsi sulla richiesta di revoca della misura cautelare dei domiciliari, che sabato scorso i legali di De Luca hanno presentato. Intanto, però, un'altra tegola si è abbattuta sul deputato siciliano. Pare che i suoi avvocati gli avessero consigliato cautela, evitando di esporsi troppo. Ma De Luca non ha sentito ragioni e si è scatenato sui social, rivolgendosi pure direttamente al presidente della Regione siciliana, Nello Musumeci: "La smetta di inseguire l’antimafia di facciata - afferma, non digerendo la presa di distanza del neo governatore - non invada anche lei il campo della magistratura con codici etici. Non sono diventato improvvisamente rognoso. Se lei oggi è presidente, lo deve anche al presentabile De Luca che a luglio scorso, mentre nel centrodestra la stavano scaricando, io l’ho pubblicamente sostenuta. Aspetto di confrontarmi con lei in parlamento sulle questioni vere". De Luca ha già fatto il nome del suo assessore per la giunta Musumeci: "Ho chiesto a Lorenzo Cesa di avanzare il nome del messinese Giuseppe Lombardo". De Luca, come si ricorderà, si trova agli arresti domiciliari per associazione a delinquere finalizzata all'evasione fiscale: il provvedimento è scattato poche ore dopo le elezioni regionali.

Accusato di evasione fiscale Sicilia, revocati domiciliari per neo eletto Cateno De Luca, scrive Rai news il 20 novembre 2017. Lui su Facebook: "Ora denuncio tutti" Per il giudice sussistono i gravi indizi di colpevolezza ma si sarebbero affievolite le esigenze cautelari Tweet Cateno De Luca assolto da falso e abuso d'ufficio. Prescritta la tentata concussione Sicilia, bufera politica dopo l'arresto di De Luca Evasione fiscale, arrestato neo deputato regione Sicilia De Luca. Lui: verrò assolto o archivieranno 20 novembre 2017 Il gip di Messina ha disposto la revoca degli arresti domiciliari per il neo deputato regionale Cateno de Luca, accusato di evasione fiscale sostituendo la misura con quella interdittiva del divieto di esercizio di posizioni apicali negli enti coinvolti nell'inchiesta.  Per il giudice sussistono i gravi indizi di colpevolezza di De Luca ma si sarebbero affievolite le esigenze cautelari. La settimana scorsa, dopo le continue esternazioni sui social del deputato il gip aveva disposto il divieto di comunicazione con l'esterno. De luca su Facebook: e ora denuncio tutti" "Libero !". Così sbotta su Facebook il neo deputato regionale Udc Cateno De Luca, dopo la decisione del Gip di Messina di revocare gli arresti domiciliari cui era sottoposto dal 7 novembre. Peraltro gli era stato interdetto l'uso dei social dopo il suo massiccio utilizzo sin dall'applicazione della misura cautelare. "E vaff...  a tutte le forme di mafia compresa quella giudiziaria. Stiamo - avverte - denunziano tutti!".

Cateno De Luca libero: “Adesso denuncio tutti”, scrive il 20 novembre 2017 "Articolo tre". "Sono un uomo libero. State tranquilli. Il gip ha revocato l'arresto, il sequestro, ha sconfessato tutte le porcherie che noi abbiamo subito in questi giorni". Così il neo deputato regionale Cateno De Luca, con un video pubblicato sul suo profilo Facebook, annuncia la decisione di revoca degli arresti domiciliari. Il Gip del Tribunale di Messina ha revocato i domiciliari per il deputato Udc e Carmelo Satta, arrestati due settimane fa per associazione per delinquere finalizzata all'evasione fiscale. Il gip ha applicato nei loro confronti la misura interdittiva del divieto di esercizio di uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese. In merito al sequestro, sono stati liberati dal vincolo i beni personali degli indagati. In sostanza, il Giudice ritiene che non sussistano ragioni cautelari tali da far permanere i due in vinculis, poiché entrambi - allo stato - non ricoprono cariche sociali negli enti Fenapi e i reati fine sono cristallizzati in atto, non vi è dunque pericolo d'inquinamento probatorio. L'esigenza di applicare il divieto di esercizio degli uffici direttivi nasce per "limitare la probabilità che possano ricostituire una nuova associazione". "Ho bisogno di due tre giorni per completare le denunce che stiamo presentando perché - afferma De Luca su FB - stiamo depositando tutto, per falso in atti giudiziari, per infedele patrocinio, per calunnia. Ce n'è per tutti. Ho bisogno di stare concentrato con i miei avvocati per un paio di giorni, poi faremo una bella conferenza stampa e ricominciamo la nostra attività politica". "Abbiamo un conto aperto - sottolinea - con alcuni personaggi nel tribunale di Messina e noi non stiamo assolutamente col capo chino: denunciamo qualunque tipo di mafia, anche quella giudiziaria. Andrò avanti con forza. Vi ringrazio, siete stati grandiosi, non mi è mancato il vostro calore".

Messina: revocati i domiciliari a Cateno De Luca, lui attacca i giudici su Fb. Per il deputato resta il divieto a ricoprire ruoli apicali negli enti coinvolti nell'inchiesta per evasione fiscale, scrive Manuela Modica il 20 novembre 2017 su "La Repubblica". "Guardate che sono un uomo libero", annuncia così la revoca dei domiciliari, su Facebook, Cateno De Luca, il deputato Udc arrestato lo scorso 8 novembre per evasione fiscale. Il gip Carmine De Rose ha accolto la richiesta di revoca avanzata dal difensore di De Luca, Carlo Taormina, durante l’interrogatorio di garanzia. Il gip ha però riconosciuto la fondatezza delle accuse disponendo la misura interdittiva a ricoprire ruoli apicali negli enti coinvolti nell'inchiesta per evasione fiscale. Le esigenze cautelari erano venute meno da quando Carmelo Satta, arrestato anche lui nell'inchiesta, si era dimesso dalla Fenapi, l'ente principale dell'inchiesta. E De Luca torna a sfogarsi sul social network dopo che martedì, 14 novembre, il gip aveva ristretto i limiti della misura cautelare dell’ex sindaco di Fiumedinisi impedendo la comunicazione con l’esterno e l’utilizzo dei social network. "Due giorni, datemi due giorni", chiede De Luca nel video sul suo profilo, per raccogliere documenti e preparare denunce, avverte, mentre non risparmia ancora una volta la magistratura di Messina, che definisce addirittura "mafiosa": "Un conto aperto con alcuni personaggi della magistratura di Messina - ha detto esattamente De Luca -, noi denunceremo qualunque tipo di mafia anche quella giudiziaria". Anche dopo l’arresto De Luca aveva lanciato messaggi di fuoco contro massoneria e giudici tramite il suo profilo Facebook, aveva postato video e immagini, alcuni ritraevano anche la manifestazione in suo supporto dei fedelissimi sotto la sua abitazione a Fiumedinisi. A proposito delle dichiarazioni del neodeputato dell’Ars si è espressa in una nota Magistratura indipendente: «Esprimiamo solidarietà e vicinanza a tutti i magistrati del distretto di Corte d’Appello di Messina di recente destinatari di attacchi violenti volti a mettere in discussione l’onestà di tutta la categoria tacciata come corrotta», così esordisce la nota. «In particolare - prosegue la nota del gruppo di magistrati guidato da Antonello Racanelli e Giovanna Napoletano - è inaccettabile che un neoeletto rappresentante delle istituzioni siciliane, in costanza di detenzione domiciliare, ponga in essere, sia a mezzo social network sia all’interno di un Tribunale al termine di un processo a suo carico, condotte fortemente delegittimanti nei confronti della magistratura messinese definita "verminaio" e massonica». «Chiediamo che la Giunta esecutiva centrale dell’Anm intervenga e prenda posizione a tutela della magistratura messinese in luogo della Giunta esecutiva sezionale, il cui intervento potrebbe prestare il fianco a strumentalizzazioni e soprattutto potrebbe pregiudicare l’immagine di terzietà di coloro che sono e potrebbero essere chiamati a pronunziarsi sulla condotta contestata al deputato», conclude la nota di Mi.

De Luca torna in libertà e si scatena: "Ora denuncio la mafia giudiziaria". L'attacco del deputato Udc: «Certi magistrati infangano la toga», scrive Mariateresa Conti, Martedì 21/11/2017, su "Il Giornale".  «Scateno De Luca», diceva un suo manifesto elettorale di qualche anno fa, giocando sul suo nome. E si è scatenato davvero, ieri, su Facebook, Cateno De Luca, il deputato regionale siciliano arrestato per evasione fiscale appena chiuse le urne che il 5 novembre scorso lo avevano rieletto, nelle file dell'Udc, con una valanga di preferenze. Eh sì, perché ieri il Gip di Messina, accogliendo le richieste della difesa, ha revocato il suo arresto rimettendolo immediatamente in libertà al termine dell'interrogatorio di garanzia. Una vittoria che arriva a pochi giorni da un'altra importante sentenza, quella che ha assolto lo stesso De Luca in primo grado dall'accusa di abuso d'ufficio per il sacco edilizio di Fiumedinisi, il comune del Messinese di cui è stato sindaco. Di qui il suo grido liberatorio, su Facebook: «Libero!... E aff... tutte le forme di mafia compreso quella giudiziaria!». Un post accompagnato da un video in cui annuncia che nel giro di pochi giorni denuncerà investigatori e magistrati messinesi, gli artefici, a suo dire, della persecuzione giudiziaria nei suoi confronti: «Giudicate voi, in 7 anni 15 procedimenti penali tutto archiviato, assoluzioni, per le prescrizioni faremo appello». Un attacco durissimo, quello di De Luca, che sin dall'inizio, sino a quando i giudici non gliene hanno inibito l'uso durante la detenzione, si è difeso sui social protestando la sua assoluta innocenza. «Le mafie dei palazzi - si è sfogato uscendo dal Palazzo di giustizia - non si possono accettare supinamente. Io presenterò il terzo esposto nei confronti di determinati personaggi che continuano a sporcare questo palazzo. Faremo nomi e cognomi, si tratta di magistrati, qualche pubblico ministero, organi inquirenti che hanno infangato, falsificato in atti giudiziari tante cose. Stiamo completando le denunce». Sulle accuse ai magistrati è intervenuta con una nota Magistratura indipendente, che ha espresso solidarietà ai colleghi chiedendo l'intervento della giunta esecutiva centrale del sindacato delle toghe: «È inaccettabile che un neoeletto rappresentante delle istituzioni siciliane ponga in essere, sia a mezzo social network sia all'interno di un Tribunale al termine di un processo a suo carico, condotte fortemente delegittimanti nei confronti della magistratura messinese definita verminaio e massonica». In attesa delle ulteriori denunce, caduti gli arresti domiciliari, De Luca potrà insediarsi all'Assemblea regionale siciliana alla prima seduta utile. E intanto va anche oltre, visto che ha manifestato l'intenzione di candidarsi a sindaco di Messina, dove si voterà nel 2018. A De Luca era stato contestato di avere sottratto al fisco circa 1 milione e 750mila euro. Il difensore del deputato, l'avvocato Carlo Taormina, ha chiesto l'incidente probatorio.

Sicilia, scarcerato Cateno De Luca: «Ora denuncio la mafia giudiziaria». Il gip del tribunale di Messina ha deciso di revocare gli arresti domiciliari al deputato siciliano che fuori dal palazzo di giustizia attacca al magistratura: «Noi denunciamo qualsiasi tipo di mafia anche quella giudiziaria», scrive il 20 novembre 2017 "Lettera 43". Cateno De Luca si è scatenato, dopo che il gip gli ha revocato i domiciliari a 12 giorni dall'arresto per evasione fiscale e a 10 giorni dall'assoluzione in primo grado per il sacco di Fiumedinisi, davanti alle colonne del tribunale messinese ha accusato «un sistema in cui ai magistrati non si può dire che hanno fatto una minchiata» e quei pm che «infangano e falsificano la giustizia». «Abbiamo un conto aperto con alcuni personaggi del tribunale di Messina», ha detto ancora il deputato regionale del Centrodestra, «Noi non stiamo col capo chino, noi denunciamo qualsiasi tipo di mafia anche quella giudiziaria. Il Gip ha sconfessato porcherie che abbiamo subito».

PER IL GIP GLI INDIZZI DI COLPEVOLEZZA RESTANO GRAVI. Il giudice Carmine De Rose ha annullato i domiciliari e imposto la misura interdittiva del divieto di esercizio di posizioni apicali negli enti coinvolti nell'inchiesta sull'evasione fiscale, di cui De Luca è direttore generale. Per il giudice sussistono i gravi indizi di colpevolezza ma si sarebbero affievolite le esigenze cautelari. De Luca si è poi scagliato contro «i geometri improvvisati che non hanno mai versato un contributo Inps e stilano liste di impresentabili». «Faccio la politica del 'fare', non mi piacciono i fannulloni che prendono lo stipendio e si ricandidano». Il deputato siciliano ha annunciato l'intenzione di andare avanti nel progetto per la sindacatura a Messina: «Se la città mi vuole io ci sono. È il simbolo della battaglia politica». «Ho fatto due esposti e il 21 ne farò un terzo: falso in atti giudiziari, calunnia, infedele patrocinio», ha spiegato, «Denuncio chi sporca il Palazzo di giustizia, chi si vendica perchè gli si dice che ha sbagliato. Chiedetelo al pm Vincenzo Barbaro, l'abbiamo denunciato. Domani mi arrestano di nuovo? Ci siamo abituati, la valigia per la cella è già pronta». «È possibile», ha continuato, «che mi hanno abbiano fatto sei indagini e quattro verifiche in sette anni sulle carte finanziarie?» si è chiesto il deputato regionale che ora potrà sedere all'Assemblea regionale siciliana non appena verrà convocata dal presidente della Regione Nello Musumeci.

DOMICILIARI REVOCATI ANCHE A SATTA. De Luca dopo la notizia della revoca dei domiciliari, disposta anche per Carmelo Satta, ex presidente della Federazione nazionale autonoma piccoli imprenditori, su cui ruota l'inchiesta per evasione fiscale, ha partecipato all'udienza del tribunale della libertà cui è stato chiesto di togliere anche la misura interdittiva e di dissequestrare i beni immobili della Fenapi: il gip ha già dissequestrato i conti correnti della federazione e di De Luca. L'avvocato Carlo Taormina, uno dei legali del politico ha detto: «Noi non siamo ancora soddisfatti perché l'ordinanza del giudice è un pochino confusa ed evidentemente preoccupata di raggiungere quello che era il suo obiettivo cioè scagionare totalmente De Luca e quindi ci sono incertezze che vogliamo fare eliminare». Rivolgendosi ai giornalisti Taormina ha anche detto: «Sono sorpreso che una stampa attenta non capisca cosa è accaduto. Se sei anni fa De Luca è stato arrestato riciclando un processo nel quale era stato tutto archiviato e ora dopo sei anni viene fatta la stessa operazione rispetto a processi di carattere fiscale nei quale c'era già stata la sentenza di non doversi procedere del gup di Messina, tutto ciò non vi lascia perplessi?».

TAORMINA: «OPERAZIONE GUIDATA DA QUALCUNO». «Se poi l'arresto dopo le elezioni non vi dice ancora nulla», ha concluso, «dubito del vostro equilibro. È chiaro che nei confronti di De Luca c'è un'operazione guidata da qualcuno che abbiamo già individuato. Vi rendete conto che rispetto al sacco di Fiumedinisi è stato deciso che il fatto non sussiste e un gip dopo un interrogatorio di garanzia giunge alla conclusione di revocare i domiciliari? Contro di lui c'e' killeraggio».

De Luca libero attacca i Pm. Il parlamentare finito ai domiciliari per «evasione fi scale» è stato scarcerato dal Gip. «Se la città mi vuole mi candido a sindaco, andrò all’Ars per insediarmi», scrive Nuccio Anselmo il 21/11/2017 su "Gazzetta del Sud". Niente più arresti domiciliari nella sua casa di Fiumedinisi per l’on. Cateno De Luca, che da ieri mattina è tornato libero perché «... il quadro indiziario pur non risultando del tutto caducato nella sua complessiva gravità e consistenza... appare meno schiacciante e più sfumato». A tredici giorni dal suo clamoroso arresto per evasione scale della “galassia Fenapi”, il 7 novembre scorso, appena due giorni dopo essere stato eletto all’Ars, il parlamentare regionale è tornato in libertà su decisione del gip Carmine De Rose, che ieri mattina ha depositato su questa vicenda un lungo provvedimento di tredici pagine per spiegare i motivi delle sue decisione. Il gip ha sostituito i domiciliari con una misura meno afflittiva, il “divieto di esercizio di uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese”, ovvero una misura interdittiva. Identica sorte giudiziaria il gip ha deciso per l’altro indagato dell’inchiesta che era finito ai domiciliari il 7 novembre scorso come presidente della Fenapi nazionale ed ex sindaco di Alì, Carmelo Satta, che nel frattempo si è dimesso dalla carica. Anche per lui quindi, fine dei domiciliari e misura interdittiva. Un altro aspetto importante del provvedimento è legato al cosiddetto “sequestro per equivalente” disposto contestualmente all’arresto dei due, per oltre un milione e 700 mila euro, la somma cioè che si presume sia stata evasa al fisco dalla “galassia Fenapi”. Il gip De Rose ha accolto le richieste dei legali di De Luca e Satta, formulate in sede di interrogatorio di garanzia, ed ha in pratica “spostato” il sequestro, indirizzandolo non più sui beni personali e sui conti correnti dei due indagati e sui beni economici del “Caf  Fenapi srl”, come era stato deciso in un primo momento, ma sugli strumenti finanziari in attivo e soprattutto sul patrimonio immobiliare dello stesso “Caf Fenapi srl”, «... già stimato per un valore di oltre due milioni di euro...». Nelle sue tredici pagine il gip De Rose passa in rassegna tutta la vicenda, a cominciare dalle ipotesi d’accusa formulate dal sostituto procuratore Antonio Carchietti, e le struttura in cinque punti: l’illecito risparmio d’imposta; l’associazione a delinquere; le tre società di servizi come “complici” dell’evasione scale (Dioniso srl, Sviluppo Sociale srl, Delnisi srl); l’emissione “a supporto” dell’evasione di fatture per operazioni inesistenti; il presunto “ostacolo” alle indagini con atti «... inconferenti e avulsi». Rispetto all’associazione a delinquere ipotizzata, premettendo che De Luca è innegabile che «... abbia sempre rappresentato il referente apicale...», spiega poi che a suo avviso «... l’apporto degli ipotizzati singoli associati ai fini perseguiti ed ancor prima alle dinamiche illecite associative, deve considerarsi blando e sfumato... ai limiti del concorso»; in relazione poi alla «attualità del vincolo associativo» afferma che «... è ad oggi poco apprezzabile». Il “nocciolo” del provvedimento è legato poi ai reati fiscali contestati. Il gip scrive infatti che «... anche in termini di esiti di vaglio tecnico ad opera di terzi Organi Giudiziari Tributari... ci si trova di fronte ad un compendio indiziario che si reputa non del tutto granitico, dirimente ed indiscutibile». Il riferimento è alla produzione difensiva «... segnatamente da parte della difesa del Satta», sul ricorso che pende alla Commissione tributaria su questi fatti, organo che ha emesso «... un provvedimento di sospensione dell’esecutività degli avvisi di accertamento». Un fatto che «... è indubbio» produca un effetto «... se non altro, riconducibile ad una plausibilità di fondatezza del ricorso».

"98zero" intervista l’Avvocato Taormina: “De Luca deve fare il presidente della Commissione Antimafia Regionale”, scrive Enzo Cartaregia il 22 novembre 2017. Le rabbiose urla di Cateno De Luca squarciano le prime pagine della stampa nazionale. Sulla soglia del tribunale di Messina, il deputato regionale eletto ed arrestato nel giro di poche ore non perde tempo ad aprire una nuova fase del proprio conflitto con le toghe. Ed appena rimesso in libertà, De Luca rompe le attese: parla en tranchant di “mafia giudiziaria”, incassato in appena dodici giorni il dietrofront sugli arresti domiciliari legati all’inchiesta Fenapi. E’ tutto un record, nella storia di De Luca: assolto quattordici volte in altrettanti processi, l’onorevole eletto nelle liste dell’UDC riverserà oggi negli uffici della procura di Reggio Calabria una valanga di documenti e denunce all’indirizzo di alcuni magistrati messinesi. E la sua vicenda è già un caso nazionale, se a confermarlo corrono anche le parole del capo del suo collegio difensivo, il prof. Carlo Taormina. Il celebre penalista, ai microfoni di 98zero.com, ha delineato i tratti del braccio di ferro tra la magistratura ed il proprio assistito, soffermandosi sul rilievo dell’inchiesta anche a livello nazionale e sul futuro in politica di Cateno De Luca.

Professor Taormina, ha definiti quelli di De Luca degli “arresti da Uganda”. Il GIP fa retromarcia perché si configura un abuso della custodia cautelare?

“E’ la dinamica dei fatti a dimostrare che ciò è stato. Abbiamo subito stigmatizzato il comportamento dell’autorità giudiziaria. Meno male che ci sono dei meccanismi correttivi all’interno della sua stessa struttura. Nello stesso interrogatorio di garanzia non potevamo dire molto di nuovo: sta però di fatto che un giudice ha ritenuto che il suo collega avesse commesso un errore. Aldilà di questo, suscitano forti perplessità le circostanze in cui l’arresto è stato fatto”.

Cosa non la convince, aldilà del merito dell’inchiesta?

“Credo sia la prima volta nella storia della Repubblica che un cittadino che viene eletto deputato, seppure regionale, venga arrestato dopo due giorni. Anzi, fossi nell’autorità giudiziaria io lo arresterei prima. Non sarebbe molto più logico, per impedire che venga eletto?”.

La legislatura non è ancora cominciata. E se non fosse stata disposta la scarcerazione?

“Così facendo è stata messa a rischio la costituzione della stessa Assemblea Regionale. La legge dice che sono settanta, i deputati e che entrano in Sala d’Ercole tutti insieme. L’arresto di De Luca non avrebbe comportato lo scorrimento al primo dei non eletti, ma la semplice impossibilità del parlamento di insediarsi. E’ gravissimo”.

Quattordici processi, nessuna condanna. Eppure nell’ordinanza di custodia cautelare è scritto che De Luca possiede “spregiudicatezza e pervicacia criminale”. Motivazioni e casellario giudiziario collidono?

“Queste parole dimostrano la pervicacia dell’autorità giudiziaria. Il suo operato è stato chiaramente smentito ed è questo l’unico punto fermo di questa vicenda. Per di più inserire nelle carte delle valutazioni di questo genere dimostra come ci sia una sorta di risentimento, fino all’iniziativa persecutoria nei confronti di una persona della quale nulla era possibile dire, come i fatti hanno dimostrato”.

De Luca ha urlato che smonterete l’impianto accusatorio pezzo per pezzo. In altri processi valutate la rinuncia alla prescrizione.

“La precedente inchiesta ha visto – salvo alcuni particolari su cui lavoreremo in appello – la totale assoluzione dell’on. De Luca. Per i fatti contestati in questi giorni è evidente che la scarcerazione disposta dal GIP passa addirittura dall’esclusione dell’esistenza degli indizi di colpevolezza. Se non è questo fumus persecutionis, non ci sarebbe possibilità di trovarne altro esempio…”

L’ennesimo capitolo del conflitto tra eletti e procure. Ma teme che la rilevanza mediatica assunta dal caso possa forzare gli equilibri nelle aule del palazzo di giustizia?

“Mi auguro che De Luca sia fermo nell’iniziativa che ha intrapreso e nella volontà che ha manifestato. L’onorevole vuole partire dalla sua vicenda per dimostrare il marciume della giustizia italiana. Come dal punto di vista politico la Sicilia vorrebbe essere, dopo queste elezioni, la fonte della rinascita per il nostro paese, così tutto quello che sta accadendo attorno alla persona di Cateno De Luca si vorrebbe che fosse l’inizio di un percorso che abbatta questa giustizia politicizzata, fatta di rancori, di iniziative personali, di magistrati che si sovrappongono ad altri magistrati e li obbligano ad assumere certi azioni”.

Le regionali in Sicilia hanno inaugurato, nel linguaggio politico, la stagione degli “impresentabili”. Da insigne espero del diritto non crede che, nei termini di legge, sia un dibattito sgrammaticato? 

“Giuridicamente l’unico impresentabile è quello che, per legge, non può essere nemmeno candidato. Servono sentenze passate in giudicato per definire un cittadino così, o al massimo situazioni come quelle previste dalla legge Severino. Una legge, tra l’altro, che è certamente incostituzionale. Si è quindi trattato di un linguaggio inaugurato dalla Commissione Antimafia, che naturalmente ha preso il sopravvento in un mondo politico vuoto di potere, vuoto di autorevolezza. Quest’organismo parlamentare è diventato uno strumento di battaglia politica per escludere chi non è gradito, o comunque è un pericoloso avversario”.

E De Luca lo è?

“E’ certamente un uomo pericoloso. Non dimentichiamo che il 5 novembre ha portato circa 10.000 voti alla coalizione di quel presidente Musumeci che oggi lo schiaffeggia. Quegli stessi voti che probabilmente sono stati determinanti per la sua vittoria. Ha dimostrato nella sua storia di saper mettere in crisi la regione siciliana, avendo tallonato prima Cuffaro e poi Lombardo, riducendoli alla necessità di abbandonare il terreno”.

Più che la regione, però, al suo assistito interessa la città di Messina.

“Ed è infatti quella stessa persona che ha fatto battaglie antimafia a non finire nella città di Messina ed oltre, schierandosi contro i poteri forti ad iniziare la massoneria. Pare naturale che nel momento in cui ha annunciato la volontà di candidarsi a sindaco della città dello Stretto ha scatenato il caos all’interno di questi corpi”.

Come spiega la ripresa della vicenda giudiziaria riguardante la Fenapi?

“Dobbiamo essere consapevoli che proprio la magistratura si è fatta braccio esecutivo, nell’attacco dei poteri forti. Credo non a caso che quel Palazzo di Giustizia abbia bisogno di essere ben visitato, perché i tanti magistrati onesti e competenti che lo abitano vengono sporcati da alcuni che perseguono invece obiettivi diversi”.

Cateno De Luca continua quindi la corsa a Palazzo Zanca?

“La carriera politica di De Luca ha ormai bisogno un respiro ben più ampio. Personalmente gli ho sempre consigliato di iniziare a pensare ad una collocazione nel parlamento nazionale, invece che di passare da Messina. Lui fa dell’amministrazione la politica, seppure si faccia sempre l’inverso. E’ questo il suo tratto distintivo e naturalmente i territori sono il luogo privilegiato della sua azione. Credo allora che non riuscirò a sottrarlo all’iniziativa di correre per la poltrona di sindaco di Messina. Mi auguro che ci riesca”.

Con dicembre parte la nuova legislatura in regione. E Musumeci lavora alla giunta. De Luca si insedia, ma come gli ha consigliato di muoversi?

“Intanto gli ho raccomandato di rifuggire dall’assunzione di responsabilità di governo. Seppure queste gli spettano, per il consenso popolare che ha totalizzato, l’ho consigliato di non farlo né di indicare persone di fiducia al suo posto. Ciò che deve fare Cateno De Luca è un’altra cosa”.

Ovvero?

“L’onorevole De Luca deve andare a fare il presidente della Commissione Antimafia di Palazzo dei Normanni. E’ quello il suo posto. Da lì potrà dimostrare come si comporta un cittadino onesto che ha deciso di dare le sue forze alla politica”.

Cateno De Luca si difende: "La sentenza mi dà ragione". Scrive "Live Sicilia" martedì 21 novembre 2017. "Mi è arrivata in questo momento la sentenza della commissione tributaria provinciale che attendevamo da tempo: ha stabilito che non c'è evasione né raggiri né “tracchigi” come aveva ipotizzato il pubblico ministero che mi ha fatto arrestare. L'altra cosa importante è che oltre il 50% dei costi la commissione provinciale tributaria provinciale li ha riconosciuti inerenti cioè legittimi". Lo dice in un video su Facebook il deputato regionale dell'Udc Cateno De Luca, indagato con l'accusa di evasione fiscale. Ieri il Gip di Messina ha disposto la revoca dei domiciliari sostituendoli col divieto di esercizio di posizioni apicali negli enti coinvolti nell'inchiesta. "Aspettiamo un'altra sentenza - prosegue-, però ci tenevo a dirvi che l'organo tecnico, deputato a fare queste valutazioni, è la commissione tributaria e ieri ha depositato questa sentenza; il che significa che più di qualcuno dovrebbe essere ricoverato in qualche manicomio psichiatrico". (ANSA). Con una sentenza depositata lo scorso 16 novembre, la Commissione tributaria di Messina ha accolto parzialmente il ricorso presentato dalla Fenapi il 15 gennaio 2016, contro l'Agenzia delle entrate e riguardante alcuni avvisi di accertamento per l'attività dell'ente di formazione Fenapi (di cui il deputato regionale Cateno De Luca, uscito ieri dagli arresti domiciliari, era presidente) negli anni che vanno dal 2007 al 2010. Secondo gli accertamenti compiuti dalla Guardia di finanza, la Fenapi non avrebbe potuto operare la deducibilità fiscale di alcuni costi. Gli imponibili, nei quattro anni, ammontano a oltre 1,7 milioni di euro. La Commissione, nell'accogliere in parte il ricorso, ha stabilito il ricalcolo degli importi soggetti a tassazione. (ANSA).

Giustizia a orologeria “ma non mi farò macinare dal fango”, scrive mercoledì 15 novembre 2017 Adriano Todaro su "Giro di vite". Cateno? Ma che nome è Cateno? Come si fa uno a chiamarsi Cateno? Non era meglio Alfio o Filippo? Oppure Giovanni, oppure Ignazio? Eh no, troppo semplice. Così ho fatto delle ricerche e ho appreso che Cateno è un bel nome, di sapore antico, che ha una storia che risale, nientemeno, al terzo secolo prima di Cristo. Erano definiti così gli schiavi che stavano in cima e in fondo alla fila degli incatenati. E così i siciliani, che sono esperti, ogni tanto, come buon auspicio, chiamano così il figlio nato alla fine o all’inizio dell’anno. Allora ricapitoliamo: Cateno De Luca, detto confidenzialmente Scateno, è nato il 18 marzo del 1972. Mese sbarazzino e ventoso, terzo mese dell’anno e ha, quindi, tutto il diritto di chiamarsi Cateno. Fin qua ci siamo. Bisogna poi dire che tutti noi quando nasciamo, abbiamo già una strada tracciata e un carattere che si forma già dopo i primi mesi di vita. Cateno, così ha deciso il fato, in tutta la vita dovrà sempre svolgere il ruolo di cireneo, quello che ha aiutato Cristo a portare la croce. Fin dalle elementari che frequentava in via Roma, a Fiumedinisi in provincia di Messina, si era fatto notare per la precoce intelligenza e per la bontà insita nel suo animo. I compagni, però, ne approfittavano di questa sua mitezza e si facevano fare da lui i compiti. Cateno assolveva questa incombenza con spirito di missione, di sacrificio così come ha fatto, anni dopo, come sindaco proprio di Fiumedinisi e consigliere regionale. Diventato adulto, dopo essersi laureato in Giurisprudenza, ha cominciato a interessarsi di politica. Quando però sei cireneo, cireneo rimani e così ha portato al fascista gentile, Musumeci, ben 93 mila e 232 voti. Invece di essere ringraziato, Cateno si è trovato con le catene ai polsi. E questo non è giusto. Altro che giustizia a orologeria; in questo caso l’orologio si è fermato al 1992 quando si arrestavano i politici. Un secolo fa. Ora siamo in una fase nuova, siamo moderni e ottimisti anche nel rubare. E poi, dai, arrestare un politico all’indomani di una vittoria elettorale non è neppure fine. E perché l’hanno arrestato? E’ accusato, figuriamoci, di essere tra i promotori di un’associazione per delinquere finalizzata a una rilevante evasione fiscale, quantificata in circa 1.750.000 euro. Bazzecole, quisquilie, pinzillacchere. Chi non evade in Italia? Lo faccio anch’io quando posso e do anche un aiutino. Ad esempio quando non chiedo lo scontrino al mio panettiere. Cateno ha anche un’altra particolarità: è uomo di pensieri profondi, di elaborazione scientifica, una vera testa in lega leggera. E così ha capito perché è stato mazzolato. In un video se la prende con i Pm, i poteri forti e la massoneria, e avverte parlando in terza persona: "Cateno De Luca non si farà macinare dal fango. Fino a quando avrà l’ultimo respiro, si difenderà in tutti i luoghi". Fa bene anche perché lui parla chiaro. Il suo slogan, infatti, era: “Su di me parlano i fatti”. Appunto. Uomo di profonde letture, nella sua pagina Facebook ci sono alcune massime cui lui ama. Una così recita: “Senza soddi non si canta a missa”. E così ha chiarito a tutti del perché dell’evasione. L’ha fatto per poter cantare "a missa". Lui, che proviene dalla Dc, sa bene che la messa importante è quella cantata e per questo ci voglio i “soddi”. Uno dei film più amati di Cateno è “Uccelli di rovo”. Padre Ralph è un ribelle ambizioso prete irlandese. Ribelle e ambizioso come Cateno perché, oltre a tutti gli incarichi che ha, voleva diventare anche sindaco di Messina, dopo aver costruito cinque piani di un Centro benessere, 16 villette e la realizzazione di un muro di contenimento del torrente Fiumedinisi, tutte opere che, secondo l’accusa, avrebbero favorito la società dell’allora sindaco Cateno. Tutto questo lo aveva fatto a fin di bene. Come padre Ralph. E, poi, pochi giorni fa, per questa speculazione, è stato assolto dall’abuso d’ufficio e prescritto per falso in atto pubblico e tentata concussione. Per fortuna il suo partito, l’Udc (che non è l’acronimo di Unione dei carcerati) lo difende dall’ultima accusa di evasione fiscale perché “convinti che De Luca sarà in grado di chiarire i fatti e di dimostrare la sua innocenza…”. Ne siamo convinti anche noi perché sarebbe un peccato non avere più nel Parlamento siciliano uno come Cateno che un giorno ha slegato non la catena ma la cravatta, si è tolta la giacca, la camicia, i pantaloni, per protestare contro l’allora presidente dell’Ars Gianfranco Micciché, rimanendo in mutande, per poi coprirsi con la bandiera della Sicilia, la Trinacria. Mizzeca che ciriveddru! (Sarebbe il cervello siciliano-Ndr). Uno così non lo trovate più, cari siciliani. Non fatevelo scappare. Manifestate per la sua libertà. Un màsculu unico nella sua specie. A proposito: il suo movimento si chiama “Sicilia Vera”. Pensate un po’. Se questa è la Sicilia vera, figuriamoci quella falsa.

Fascismi giudiziari e aggravanti televisive, scrive Vittorio Sgarbi, Martedì 21/11/2017, su "Il Giornale". Assistiamo da anni a una aggressione giudiziaria, di stampo fascista. Penso agli insensati scioglimenti di Comuni per mafia, all'arresto plateale (seguito dall'incongrua liberazione) di Cateno De Luca, ai processi illegittimi come quello a Contrada, alle condanne arbitrarie di Dell'Utri e di Cuffaro, alle indagini su Berlusconi, e alla farsa degli alimenti a Veronica, conclusa con un risarcimento di lei a lui (in un impressionante squilibrio dei collegi giudicanti), al processo infondato per Mafia capitale, all'arbitrario arresto, fino a farlo morire, dell'innocente sindaco di Campobello di Mazara, Ciro Caravà, all'inverosimile metodo Woodcock, all'abuso di Cantone su Carla Raineri. Una lunga serie di veri e propri errori, per ignoranza o malafede. Fino all'arresto di Spada, per «testata» con l'aggravante di mafia, in un carcere di massima sicurezza. «Ha sbagliato, ma non ci scordiamo che Sgarbi schiaffeggiò la Mussolini in diretta televisiva», ricorda il cugino di Spada. Ricorda male. Fu lei a farmi cadere gli occhiali, e io le dissi semplicemente: «Fascista». Vero invece, e più pertinente al caso Spada, che io spaccai il tapiro in testa a Staffelli. Certo un cattivo esempio. Il cugino osserva: «Ma dove sta questa mafia? La mafia ve la state inventando voi». Ha evidentemente ragione. Roberto Spada, nella sua aggressione era solo, e la mafia prevede una associazione. La sola aggravante è quella televisiva.

Brizzi, De Luca, Tavecchio: i tre volti della gogna, scrive Piero Sansonetti il 21 Novembre 2017, su "Il Dubbio". Il regista, il politico, il capo del calcio italiano, tre vicende diverse, ma il linciaggio mediatico è sempre lo stesso. Sono tre storie diverse, e riguardano tre personaggi diversissimi tra loro, ma tutte e tre hanno in comune un elemento: la voglia di gogna, di linciaggio, di ricerca del capro espiatorio e poi di realizzazione della cerimonia dello scannamento. Le storie di Carlo, Cateno e Fausto. Chi sono lo capite dalle fotografie: Carlo è Carlo Tavecchio, presidente della Figc (cioè della federazione italiana gioco calcio) fino a ieri verso mezzogiorno, quando si è dimesso, travolto dalla sconfitta della nazionale con la Svezia e dalla furia dei giornali e dell’opinione pubblica. Cateno (nome singolarissimo) è Cateno De Luca, consigliere regionale siciliano appena eletto, arrestato per motivi francamente misteriosi due giorni dopo la vittoria elettorale, e ieri finalmente scarcerato dopo essere stato trattato dai giornali come un criminale conclamato. Fausto, infine, è il regista Fausto Brizzi, annientato da giornali e Tv, dipinto come un maniaco sessuale e uno stupratore, demolito nell’immagine e nel morale ma, forse, innocente. Le dimissioni di Tavecchio, diciamolo pure, erano doverose e scontate. Perché dopo una grande sconfitta sportiva è vecchia usanza che l’allenatore e il capo della federazione siano sostituiti. Successe così nel 1958, dopo la mancata qualificazione ai mondiali di Svezia, e successe così anche nel 1966, dopo l’eliminazione ai gironi per mano della nazionale della piccola Corea del Nord (gol di un dentista, calciatore dilettante) che allora era governata dal nonno del terribile Kim Yong (anche il nonno, Kim Il Sung, era parecchio spietato). Doverose le dimissioni ma non era doveroso il linciaggio. Tavecchio non è un personaggio simpaticissimo, il suo mandato in Figc è stato costellato di gaffe ed errori diplomatici. Tuttavia non è stato il peggio dei peggio. È lui che nel 2015 riuscì a reclutare Antonio Conte, uno degli allenatori più forti del mondo. E riuscì a trovare gli sponsor che permettessero di pagare il suo stipendio altissimo senza prosciugare le casse della federazione (e Conte ottenne ottimi risultati con una nazionale modesta); è lui che ha introdotto la Var nel campionato (sarebbe la moviola Tv in campo: clamorosa innovazione); è lui che ha messo in ordine i conti della Figc (l’Italia è quasi l’unica federazione calcistica coi conti in ordine). Forse, prima di mandarlo via, potevamo dirgli grazie, invece di coprirlo di sputi. Ha sbagliato a prendere Ventura quando Conte ha lasciato? Non c’era di molto meglio sul mercato degli allenatori. E poi, Ventura, prima del pasticcio svedese era stato un discreto allenatore e aveva avuto diversi successi. Su Brizzi non voglio sbilanciarmi. Non conosco i fatti. Se ha molestato, se ha stuprato, se ha commesso dei reati, che a me paiono gravissimi, deve essere processato. Però mi sembra che nessuno lo abbia denunciato, e quindi che è impossibile processarlo. Allora forse l’uso vigliacco della potenza dell’informazione (senza certezze, senza riscontri, senza prove, con pochi indizi) non è uno strumento di avanzamento della trasparenza ma piuttosto di una idea giustizialista che sfiora il totalitarismo. Poi c’è Cateno, che ieri finalmente è stato scarcerato e ha rilasciato dichiarazioni dure. Questo Cateno è stato processato negli anni scorsi 14 volte e sempre assolto. Quindi, tecnicamente, è un perseguitato. Quando l’altro giorno l’hanno messo in mezzo di nuovo, e arrestato, i mass media si sono scatenati (scusate il gioco di parole) contro di lui. Impresentabile, corrotto, mafioso. Quando due giorni dopo è arrivata la quindicesima assoluzione, silenzio. Nemmeno un accenno di scuse. Anzi, Il Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo di Massimo Fini che chiedeva che gli fossero tolti i domiciliari e fosse sbattuto il cella. Crucifige, Crucifige. Era il verso ripetuto di una famosa poesia del duecento, di Jacopone da Todi. A lui era chiaro che il giustizialismo era un’infamia. Quasi mille anni fa. Oggi invece torna, il giustizialismo, e torna sempre più tronfio, spietato, altezzoso. Sulle ali del grillismo. Su twitter, ieri (per fortuna) ho letto un twitt di Enzo Bianchi, teologo e monaco piuttosto noto nel mondo cristiano. C’era scritto così: «Ancora oggi ci sono persone rigide e legaliste che passano la vita a spiare i peccati degli altri e a scovare le presunte eresie degli altri: dopo una tale fatica, incattiviti, hanno la faccia che si meritano». E di seguito al twitt don Enzo – che oltre ad essere un teologo è anche molto spiritoso – ha pubblicato la faccia che viene ai giustizialisti. È quella che vedete in questa pagina, sotto il titolo.

L’arrestocrazia e il potere del “Coro antimafia”, scrive Piero Sansonetti l'11 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Dal caso De Luca al caso Spada, quando l’arresto mediatico e a furor di popolo conta più le regole del diritto. E chi dissente è considerato un complice dei farabutti. Ieri pomeriggio Cateno De Luca è stato assolto per la quattrodicesima volta. Niente concussione, nessun reato. A casa? No, resta agli arresti perché dopo 15 accuse, 15 processi e 15 assoluzioni, martedì scorso era arrivata la 16ima accusa. E ci vorrà ancora un po’ prima che sia assolto di nuovo. Stavolta l’accusa è evasione fiscale. Non sua, della sua azienda. Cateno De Luca è un deputato regionale siciliano. Era stato eletto martedì. Lo hanno ammanettato 24 ore dopo. L’altro ieri sera invece era stato fermato Roberto Spada. Stiamo aspettando la conferma del suo arresto. Lui è in una cella a Regina Coeli. Roberto Spada è quel signore di Ostia che martedì ha colpito con una testata – fratturandogli il naso – un giornalista della Rai che gli stava facendo delle domande che a lui sembravano inopportune e fastidiose. È giusto arrestare Spada? È stato giusto arrestare Cateno De Luca? A favore dell’arresto ci sono i giornalisti, gran parte delle forze politiche, una bella fetta di opinione pubblica. Diciamo: il “Coro”. Più precisamente il celebre “Coro antimafia”. Che ama la retorica più del diritto. Contro l’arresto c’è la legge e la tradizione consolidate. Prendiamo il caso di Spada. La legge dice che è ammesso l’arresto preventivo di una persona solo se il reato per il quale è accusata è punibile con una pena massima superiore ai cinque anni. Spada è accusato di lesioni lievi (perché la prognosi per il giornalista è di 20 giorni) e la pena massima è di un anno e mezzo. Dunque mancano le condizioni per la custodia cautelare. Siccome però il “Coro” la pretende, si sta studiando uno stratagemma per aggirare l’ostacolo. Pare che lo stratagemma sarà quello di dare l’aggravante della modalità mafiosa. E così scopriremo che c’è testata e testata. Ci sono le testate mafiose e le testate semplici. Poi verrà il concorso in testata mafiosa e il concorso esterno in testata mafiosa. Mercoledì invece, dopo l’arresto di Cateno De Luca, non c’erano state grandi discussioni. Tutti – quasi tutti – contenti. Sebbene l’arresto per evasione fiscale sia rarissimo. Ci sono tanti nomi famosi che sono stati accusati in questi anni di evasione fiscale per milioni di euro. Alcuni poi sono stati condannati, alcuni assolti. Da Valentino Rossi, a Tomba, a Pavarotti a Dolce e Gabbana, a Raul Bova e tantissimi altri. Di nessuno però è stato chiesto, ovviamente, l’arresto preventivo. Perché? Perché nessuno di loro era stato eletto deputato e dunque non c’era nessun bisogno di arrestarlo. L’arresto, molto spesso, specie nei casi che più fanno notizia sui giornali, dipende ormai esclusivamente da ragioni politiche. E il povero Cateno ha pagato cara l’elezione. I Pm non hanno resistito alla tentazione di saltare sulla ribalta della politica siciliana. Comunque qui in Italia ogni volta che qualcuno finisce dentro c’è un gran tripudio. L’idea che ormai si sta affermando, a sinistra e a destra, è che l’atto salvifico, in politica, sia l’arresto. Mi pare che più che in democrazia viviamo ormai in una sorta di “Arresto- Crazia”. E che la nuova aristocrazia che governa l’arresto-crazia sia costituita da magistrati e giornalisti. Classe eletta. Casta suprema.  Gli altri sono colpevoli in attesa di punizione. Poi magari ci si lamenta un po’ quando arrestano i tuoi. Ma non è niente quel lamento in confronto alla gioia per l’arresto di un avversario. Il centrodestra per esempio un po’ ha protestato per l’arresto pretestuoso di Cateno De Luca. Il giorno prima però aveva chiesto che fosse sospesa una fiction in Rai perché parlava di un sindaco di sinistra raggiunto da avviso di garanzia per favoreggiamento dell’immigrazione. Il garantismo moderno è così. Fuori gli amici ed ergastolo per gli avversari. Del resto la sinistra che aveva difeso il sindaco dei migranti ha battuto le mani per l’arresto di Cateno. L’altro ieri intanto è stato minacciato l’avvocato che difende il ragazzo rom accusato di avere stuprato due ragazzini. L’idea è quella: “se difendi un presunto stupratore sei un mascalzone. Il diritto di difesa è una trovata farabutta. Se uno è uno stupratore è uno stupratore e non serve nessun avvocato e nessunissima prova: condanna, galera, pena certa, buttare la chiave”. Giorni fa, a Pisa, era stato aggredito l’avvocato di una ragazza accusata di omicidio colposo (poi, per fortuna, gli aggressori hanno chiesto scusa). Il clima è questo, nell’opinione pubblica, perché questo clima è stato creato dai politici, che sperano di lucrare qualche voto, e dai giornali che un po’ pensano di lucrare qualche copia, un po’, purtroppo, sono scritti da giornalisti con doti intellettuali non eccezionali. E se provi a dire queste cose ti dicono che sei un complice anche tu, che stai con quelli che evadono le tasse, che stai con quelli che danno le testate. Il fatto che magari stai semplicemente col diritto, anche perché il diritto aiuta i deboli mentre il clima di linciaggio, il forcaiolismo, la ricerca continua di punizione e gogna aiutano solo il potere, beh, questa non è nemmeno presa inconsiderazione come ipotesi. Tempo fa abbiamo pubblicato su questo giornale “La Colonna Infame” di Manzoni. Scritta circa due secoli fa. Due secoli fa? Beh, sembra ieri…

P. S. Ho letto che Saviano ha detto che Ostia ormai è come Corleone. Corleone è la capitale della mafia. A Corleone operavano personaggi del calibro di Luciano Liggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano. Corleone è stato il punto di partenza almeno di un migliaio di omicidi. Tra le vittime magistrati, poliziotti, leader politici, sindacalisti, avvocati. Paragonare Ostia a Corleone è sintono o di discreta ignoranza o di poca buonafede. Ed è un po’ offensivo per le vittime di mafia. P. S. 2. Il giornalista Piervincenzi, quello colpito con la testata da Spada, ha rilasciato una intervista davvero bella. Nella quale tra l’altro, spiega di non essere stato affatto contento nel sapere dell’arresto di Spada. Dice che lui in genere non è contento quando arrestano la gente. Davvero complimenti a Piervincenzi. Io credo che se ci fossero in giro almeno una cinquantina di giornalisti con la sua onestà intellettuale e con la sua sensibilità, il giornalismo italiano sarebbe una cosa sera. Purtroppo non ce ne sono.

Gli abitanti di Corleone ora attaccano Saviano: "Diffama il nostro paese". A denunciarlo è il Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento Antimafia di Corleone che attacca lo scrittore Roberto Saviano, che ieri, parlando dell'aggressione di Roberto Spada ai danni di un giornalista Rai ad Ostia aveva paragonato il quartiere romano a "Corleone o Scampia", scrive Luca Romano, Giovedì 09/11/2017, su "Il Giornale". "Per l'ennesima volta, vergognosamente, l'immagine di Corleone e dei suoi cittadini onesti viene diffamata e additata". A denunciarlo è il Centro Internazionale di Documentazione sulla Mafia e del Movimento Antimafia di Corleone che attacca lo scrittore Roberto Saviano, che ieri, parlando dell'aggressione di Roberto Spada ai danni di un giornalista Rai ad Ostia aveva paragonato il quartiere romano a "Corleone o Scampia". "Il risveglio di stamattina ci lascia un po' l'amaro in bocca. Ci dispiace constatare che la nomea di Corleone città della mafia non riguarda solo persone andate avanti a pane e Padrino ma anche Roberto Saviano che da anni "combatte" contro la camorra e incontra quotidianamente persone che a causa della camorra hanno perso parenti, sorrisi e speranza - dicono i ragazzi del Museo sulla mafia di Corleone - L' avevamo invitato a venire: se solo avesse accolto l'invito, si sarebbe reso conto che Corleone sì, ha da raccontare storie di lupare e dolore, ma oggi può raccontare storie di grandi lotte e di riscatto". "Grazie Roberto Saviano per l'ennesima spinta indietro che ci costringi a fare - dicono - Noi barcolliamo un po', ma non perdiamo l'equilibrio e andiamo avanti camminando sulle idee dei giudici Falcone e Borsellino. La legalità ci ha insegnato e ci insegna ancora a splendere di luce propria...non riflessa "caro Saviano". Buona giornata da chi ogni giorno lotta per sentire il fresco profumo di libertà che non ha colore politico". Anche sui social c'è stata una rivolta contro le parole di Saviano. "Che delusione - scrive Patrizia Gariffo su Facebook - Dare un giudizio così netto e senza appelli, senza neanche essere venuto a Corleone. Prima di parlare, è bene pensare un po’, mentre lo storico Pasquale Hamel bolla Saviano come "un presuntuoso che ha speculato per creare il proprio personaggio". Dino Paternostro, storico attivista per i diritti di Corleone invita lo scrittore in città: "Roberto Saviano, vieni a visitare Corleone. Sarai mio ospite. Poi, solo poi, potrai dare un giudizio fondato sulla nostra città".

SONO INNOCENTE.

In libreria: INNOCENTI. Il nuovo libro di Alberto Matano, scrive l'1 aprile 2018 "Da Sapere". “L’errore umano esiste in ogni campo, ma dobbiamo ricordarcelo, prima di puntare il dito su chiunque venga anche solo indagato, figuriamoci se viene arrestato. Potrebbe capitare anche a noi. La realtà è complessa, il sistema giudiziario affaticato, la giustizia, parola meravigliosa, a volte sembra un’utopia. Non per questo dobbiamo smettere di crederci e di pretenderla”.

Dalla Prefazione di Daria Bignardi. Gridare la propria innocenza e restare inascoltati. Trovarsi all’improvviso a fare i conti con un marchio indelebile. È l’incubo che ciascuno di noi potrebbe trovarsi a vivere, con le foto segnaletiche, le impronte digitali, i processi, gli sguardi della gente e i titoli sui giornali, l’esperienza atroce del carcere tra pericoli e privazioni. Un inferno, e in mezzo a tutto questo sei innocente. È una ferita che rimane aperta, anche a distanza di anni, nonostante le assoluzioni e – non sempre – le compensazioni economiche. Lo sanno e lo raccontano i protagonisti di questo libro, presunti colpevoli, riconosciuti innocenti. Maria Andò, accusata di una rapina e di un tentato omicidio avvenuti in una città in cui non è mai stata. Giuseppe Gulotta, la cui odissea di processi e detenzioni in seguito a un clamoroso errore giudiziario dura quarant’anni, di cui ventidue in carcere. Diego Olivieri, onesto commerciante che finisce in carcere per una storia di droga, per colpa di un’intercettazione male interpretata. E gli altri protagonisti di queste pagine, che raccontano le loro esperienze e i loro incontri, i loro traumi e la loro ostinata volontà di rinascita. Alberto Matano costruisce in questo libro una narrazione intensa e cruda, in cui ogni singola vicenda è un capitolo avvincente di una storia più grande, quella dell’ordinaria ingiustizia che accade accanto a ognuno di noi, senza che la vediamo. Un invito a esercitare la nostra attenzione e la nostra umanità, ogni giorno. “Quando finisci in carcere e dici di essere innocente non ti crede nessuno, lì sono tutti innocenti”. Immaginatevi, soltanto per qualche secondo, di trovarvi in questa situazione, di finire dietro le sbarre, senza neanche capire perché, e con la consapevolezza di non aver fatto nulla. Gridare la propria innocenza, e restare inascoltati. Trovarsi all’improvviso a fare i conti con quel marchio indelebile, anche a distanza di anni quando tutto è finito, quando la giustizia, che ha sbagliato, alla fine è giusta. È l’incubo che ciascuno di noi può trovarsi a vivere e di cui sappiamo spesso troppo poco.

Alberto Matano, giornalista, conduttore del Tg1 delle 20, dal 2017 è autore e conduttore della trasmissione di Rai3 “Sono Innocente”, giunta alla sua seconda edizione.

L’8 aprile torna, su Rai3, “Sono Innocente”. Alberto Matano racconta le novità della nuova edizione, scrive il 31.03. 2018 Renato Franco su Il Corriere della Sera. L’impersonalità della legge e la fallibilità dell’uomo, la giustizia che diventa ingiusta, persone innocenti la cui vita si trasforma in incubo. È in questo perimetro narrativo in cui si muove «Sono innocente», il programma condotto da Alberto Matano che torna da domenica 8 aprile in prima serata su Rai3. «Raccontiamo storie di gente come noi, persone comuni, che all’improvviso si ritrovano in una prospettiva di vita ribaltata — spiega il giornalista —. Persone che senza sapere bene perché finiscono ingiustamente in carcere». In questa nuova stagione il racconto si dividerà in tre momenti, con tre storie differenti tra loro: le vicende di persone comuni; quelle di persone famose; quelle a tinte più oscure che trattano di pedofilia, satanismo e omicidi efferati. Cosa c’è alla radice di questi clamorosi errori giudiziari? «Indagini frettolose e fatte male, la necessità di trovare un colpevole, in molti casi uno scambio di persona, spesso il pregiudizio: sulla famiglia di origine, sulle frequentazioni, sul luogo dove si vive, come è successo a due ragazzi — uno di Scampia e l’altro di Casal di Principe — che sono stati accusati e condannati per il solo motivo di abitare nel luogo sbagliato. L’errore è umano, ma quando si può influire così tanto sulla vita delle persone, un supplemento di responsabilità e rigore è necessario». Sulla storia più dura Matano non ha dubbi: «La vicenda di Aldo Scardella, lo studente universitario di Cagliari, ingiustamente accusato di omicidio e morto suicida in carcere». «Sono innocente» rievoca anche quei casi di ingiustizia di rilevanza nazionale che hanno segnato il vissuto collettivo: da Enzo Tortora, con la presenza in studio della figlia Gaia, al delitto di Meredith Kercher, con la testimonianza di Patrick Lumumba. Anche lo chef Filippo La Mantia finì in carcere negli anni 80 per un delitto di mafia: «All’epoca faceva il fotoreporter a Palermo e fu accusato di favoreggiamento nell’ambito delle indagini sull’omicidio Cassarà. La Mantia racconta che nelle cucine del carcere sviluppò quell’attenzione al gusto che è poi è diventata la passione della sua vita». Il risarcimento però è una magra consolazione. Chi baratterebbe 22 anni di carcere con 6 milioni di euro quando esci a 60 anni? «Tutti gli innocenti ingiustamente condannati dicono la stessa cosa, nessun risarcimento ti darà indietro quello che hai vissuto, quello che hai provato, quello che hai perso». Anche la riabilitazione sociale non ha lo stesso impatto che hanno avuto le condanne sulla vita delle persone: «Quando la giustizia rimette le cose a posto, l’eco è decisamente minore rispetto al clamore precedente. Vito Gamberale, il dirigente pubblico arrestato con l’accusa di abuso d’ufficio e concussione, mostrerà la rassegna stampa che lo riguarda: centinaia di pagine sulla sua condanna, appena tre fogli sull’assoluzione con formula piena».

Vite distrutte dalla (mala) giustizia. Troppi innocenti all’angolo. Arresti mai commessi, accuse inesistenti, risarcimenti dopo 30 anni per negligenze di giudici e avvocati: già oltre 7mila segnalazioni all’Associazione che li segue, scrive Paola D’Amico il 15 settembre 2018 su "Il Corriere della Sera". Stordite, incapaci di reagire, risucchiate in un labirinto senza uscita. Così le vittime di malagiustizia raccontano di essersi sentite il giorno in cui si sono trovate coinvolte in una vicenda giudiziaria di cui erano totalmente all’oscuro. Chi ha dovuto affrontare un giudice fallimentare senza sapere perché, chi è stato portato in carcere per reati mai commessi, chi s’è trovato il decreto di sequestro preventivo sulla casa. Choc destinato a perpetuarsi nel tempo: riavere la fedina penale immacolata può richiedere decenni. Mentre la vittima invischiata in un’oscura vicenda giudiziaria viene trascinata in basso, i risarcimenti (spesso) restano un miraggio. Infine, può suonare come una beffa il fatto che, quand’anche una Corte avrà dettato l’agognata formula («assolto perché il fatto non sussiste»), non ci sarà tribunale disposto a portare sul banco degli imputati l’autore/autori dell’errore.

Tunnel senza uscita. Questa è la storia di Michele Tedesco, imprenditore di Bari assolto con formula piena nove anni dopo l’arresto per traffico internazionale di stupefacenti: nove anni che gli hanno distrutto la vita. Che dire, poi, della vicenda del piccolo Angelo, morto a 3 anni, investito da un pirata della strada: era il maggio 1984. Il risarcimento ai genitori è arrivato 33 anni dopo. E ancora Luca, bollato come delinquente abituale per uno scambio di persona: gli fu vietato di far ritorno nella frazione di Frosinone dove lavorava. Fu riabilitato dopo un’istanza al Ministero dell’Interno. La direzione centrale della Polizia Criminale cancellò i dati erronei. Ma lui ne fu informato solo due anni dopo. Chi entra in questa spirale - spiega Mario Caizzone, che ha fondato nel 2012 l’Associazione italiana vittime di malagiustizia (Aivm)- viene triturato dal sistema». Ne è testimone diretto. Nel ‘92, nel clima rovente di Mani Pulite, fu arrestato per colpe non sue: «Sono trascorsi 22 anni per poter riavere la fedina penale immacolata». Per dieci non ha potuto svolgere l’attività di commercialista: «Mi ha salvato la mia famiglia. Ho sempre detto che se ne uscivo vivo - aggiunge - avrei fatto qualcosa per gli altri. Ero benestante, sono finito sul lastrico». Le vittime, dice, sono i «nuovi poveri». Come loro, «all’epoca fui sopraffatto dal panico, incapace di reagire». Nell’ufficio milanese che s’affaccia sulla Stazione Centrale, in piazza Luigi di Savoia 22, ogni giorno s’alternano 4/5 volontari: Valentina, Carlo, Nicola e Tea, che ricorda il caso di un’anziana «alla quale l’amministratore di sostegno sottrasse 40 mila euro». Molti sono laureandi in giurisprudenza o esperti di marketing e comunicazione. Alle spalle hanno un pool di consulenti. Il supporto alle «vittime» di malagiustizia è totalmente gratuito. Il telefono squilla con insistenza. È una donna: «Non so cosa devo fare», dice. Da due mesi scrive all’avvocato di fiducia per sapere com’è finita la transazione con l’ex socio. L’udienza in tribunale è imminente. «Chieda al giudice un rinvio, intanto prendiamo in mano il caso», risponde Caizzone, che precisa: «Non rappresentiamo in giudizio queste persone ma le aiutiamo a sbrogliare la matassa, le facciamo uscire dall’angolo».

Segnalazioni. In sei anni Aivm ha raccolto la segnalazioni di 7 mila persone. Uomini, donne, giovanissimi e pensionati, oltre la metà nei guai con la giustizia penale, altri a causa di banali querelle familiari divenute per incanto tragedie apocalittiche. «Non di rado a monte di tutto c’è la negligenza di un avvocato - aggiunge Caizzone - che perde la causa, perché non fa le giuste contestazioni o non presenta il ricorso nei tempi corretti». L’associazione, su invito della Commissione Giustizia della Camera ha proposto la revisione della carcerazione preventiva: «Non ha senso, distrugge la persona». Ha poi chiesto «la creazione di un intergruppo parlamentare per ridiscutere il gratuito patrocinio a spese dello Stato». Attualmente, per come è strutturato, «non dà garanzia. Chi controlla l’operato dell’avvocato d’ufficio?». Infine, Aivm sottolinea un aspetto cruciale: «I nomi degli imputati non devono essere divulgati fino all’udienza preliminare o al rinvio a giudizio, per dare la possibilità agli imputati stessi di difendersi». Il tema al centro è, innanzi tutto, la professionalità di avvocati e magistrati. «La giustizia arranca». Serve una sorta di «tribunale del malato, una Corte di giustizia - conclude Caizzone - che, oltre a dare supporto a chi si sente abbandonato, possa entrare nel merito del loro operato».

Dentro il call center che ascolta le vittime della malagiustizia. Innocenti in carcere e sentenze scandalose. L'Aivm ha raccolto un dossier con 5mila casi, scrive Nino Materi, Lunedì 09/04/2018, su "Il Giornale". C'è chi giura di aver visto l'ombra di Marco Rivasi entrare nel portone in piazza Luigi di Savoia 22, a Milano, proprio difronte alla stazione Centrale. Qui, al quarto piano, c'è la sede dell'Associazione italiana vittime di malagiustizia (Aivm). Marco Rivasi non esiste in carne ed ossa; lui è solo il personaggio letterario protagonista di Malanni di stagione (Cairo Editore): riflessivo romanzo fresco di stampa del giornalista Rai, Oreste Lo Pomo, imperniato appunto su un caso di malagiustizia. Vicenda immaginaria, ma con trama terribilmente verosimile. Marco Rivasi viene arrestato dopo che un imprenditore ha ammesso di aver corrotto politici e funzionari per ottenere le autorizzazioni necessarie alla propria azienda. «È solo un equivoco e presto verrà chiarito», ripete Davide, l'amico che fa il cronista di giudiziaria. Ad affiorare è invece il nervo scoperto di un sistema malato, capace di infettare chi si ritrova con corpo e anima maciullati nel tritacarne dei tribunali. Un'esperienza dolorosa che Mario Caizzone, presidente dell'Aivm, conosce bene per averla patita direttamente. Caizzone infatti - a differenza del Mario Rivasi uscito dalla penna di Lo Pomo - della malagiustizia è stato una vittima reale, e proprio da questa sventura nel 2011 nacque l'idea di fondare l'Aivm. In sei anni di attività l'associazione ha seguito circa 5 mila casi di persone che si sono trovati a combattere contro il moloc di una scritta falsamente rassicurante: «La Legge è uguale per tutti». «La legge non è uguale per tutti, ma - ciò che è più grave - la legge non sempre è giusta - dice Caizzone, portandoci in una stanza dove due studentesse di Giurisprudenza si dividono tra computer e telefono -. Il nostro è un osservatorio e un centro di ascolto unico nel suo genere. In Italia non c'è nulla di simile, perché non interessa a nessuno aiutare gratuitamente chi si perde nei labirinti dei codici o delle aule giudiziarie». E questo in un Paese considerato la culla del diritto. Un diritto che spesso rischia di essere inghiottito nelle sabbie mobili dei tempi lunghi, dimenticando che - come ripeteva Indro Montanelli - una giustizia che arriva dopo anni di attesa è sempre una giustizia negata, anche (e soprattutto) in caso di assoluzione. In galera, da innocenti; vite distrutte, da innocenti; esistenze segnate, da innocenti. In questa sorta di «call center della malagiustizia» che è l'Aivm, di storie simili ne passano decine ogni settimana. «Un'esperienza umana e professionale coinvolgente che vale più di tante lezioni universitarie», ci dicono le «giuriste» volontarie dell'Associazione. «Voi giornalisti non avete il coraggio di raccontare certe vicende - ci sfida Caizzone -. Come quella di un avvocato che, pur sapendo che i termini per il ricorso in Cassazione erano scaduti, lo ha presentato ugualmente e - cosa ancor più grave - si è fatto pagare la parcella: denaro, tra l'altro, incassato senza rilasciare alcuna fattura. Il suo cliente lo ha denunciato, ma non è riuscito a trovare nessun avvocato disposto a difenderlo. E sa il motivo? Perché il legale denunciato è il presidente dell'Ordine degli avvocati della sua regione. Abbiamo segnalato il caso in procura, ma il risultato è che abbiamo trovato in foto quello stesso avvocato insieme con il magistrato che avrebbe dovuto dare corso alla nostra denuncia». Sul sito dell'Aivm scorrono le vicende di Luca, «cui è stato vietato di far ritorno nel suo paese, per reati che non ha mai commesso»; di Michele che «è rimasto vittima di un errore giudiziario che gli ha stravolto la vita»; di Giuseppe «titolare di un'attività di alimentari truffato dal suo legale di fiducia». Odissee che ricordano i drammi trattati da Sono innocente la trasmissione di Rai3 di Alberto Matano che, proprio da quel programma, ha ora tratto un libro: «Non sarebbe male se i soldi guadagnati col libro fossero destinati alla nostra associazione - scherza Caizzone -. Nella sua trasmissione Matano ha trattato un caso seguito dall'Aivm, ma la parte in cui il protagonista ci ringraziava non l'ha mandata in onda. Inoltre perché Matano non cita mai i nomi dei giudici? Cosa fa, in concreto, Matano per le vittime del sistema giudiziario? Pubblicizzare in tv le loro storie può rivelarsi più dannoso che utile, riaprendo vecchie ferite». Sarà d'accordo anche Marco Rivasi?

Sono Innocente: Alberto Matano torna su Rai3 con nuovi casi di «giustizia ingiusta», scrive domenica 8 aprile 2018 Marco Leardi su "Davide Maggio".  Se, da una parte, i nuovi programmi di Rai3 faticano a decollare negli ascolti (Cyranosta addirittura cadendo in picchiata), dall’altra il canale diretto da Stefano Coletta può contare su un ritorno che, in tal senso, fa almeno nutrire qualche speranza. Ci riferiamo al debutto della seconda edizione di Sono Innocente, il programma condotto da Alberto Matano e dedicato ai casi di “giustizia ingiusta”. La trasmissione ripartirà stasera in prime time con un ciclo di sei nuove puntate. Al centro del racconto, guidato dall’anchorman del Tg1 approdato a Rai3 sotto la direzione di Daria Bignardi, ci saranno ancora storie di errori giudiziari, di innocenti condannati ingiustamente, detenuti, poi scarcerati e risarciti dallo Stato. Veri e propri drammi consumatisi nelle aule di tribunale, ma anche vicende di riscatto presentate attraverso la voce dei loro protagonisti e delle persone che le hanno condivise. Le testimonianze saranno supportate da dettagliate ricostruzioni. In questa nuova stagione, il racconto si dividerà in tre momenti distinti, con tre storie differenti tra loro, ma con lo stesso denominatore: la “giustizia ingiusta”. La prima puntata si aprirà con la storia di Elaine Silva, una ballerina di origini brasiliane giunta in Italia all’età di 23 anni per lavorare come barista e animatrice nei parchi acquatici della riviera romagnola. La sua vita cambia quando viene arrestata per traffico di droga. Nell’appartamento che condivide con un’amica, una sera, a sua insaputa, si ferma a dormire uno spacciatore internazionale. Il giorno successivo si trova coinvolta in una retata effettuata all’interno dell’abitazione. Elaine viene così portata via e rinchiusa in carcere. Passeranno 9 mesi prima che possa essere riconosciuta innocente. Il secondo caso è considerato l’errore giudiziario più clamoroso dei nostri tempi. La notte del 17 giugno del 1983 avviene il blitz anticamorra più spettacolare della storia. Vengono arrestati camorristi, assassini, ergastolani e spacciatori. Fra di loro spicca però un uomo insospettabile: Enzo Tortora. L’accusa è di partecipazione alla Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Sono dei pentiti ad accusarlo di essere un affiliato alla NCO, nonché un trafficante di droga. Il carcere, l’umiliazione delle manette, la gogna mediatica. Per diversi mesi Enzo Tortora è il mostro da sbattere in prima pagina. Dopo sette mesi in prigione, gli vengono concessi gli arresti domiciliari; si candida alle elezioni europee con i radicali per poter portare il suo caso in Europa. E’ il giugno del 1984 quando viene eletto, pochi mesi prima della condanna in I° grado: 10 anni per spaccio di droga. In appello, dopo una potente arringa di 20 minuti contro i suoi accusatori, viene assolto. Muore nel 1988 dopo una lunga malattia. Alberto Matano ne parlerà in studio con la figlia Gaia Tortora. Lorena Morselli, protagonista dell’ultima vicenda, è stata accusata del crimine peggiore che si possa immaginare: aver abusato dei propri figli e di altri bambini con la complicità di un gruppo di adulti. A puntare il dito contro di lei, suo marito e altre 18 persone, tutte residenti nella provincia di Modena, sono gli stessi bambini, che tra il 1997 e il 1998, ascoltati da un’assistente sociale dell’Asl di Mirandola, raccontano di abusi sessuali, messe nere e riti satanici con sacrifici umani. Uno scenario da film horror che, dopo quasi vent’anni di processi, si rivelerà essere uno dei più gravi errori giudiziari del nostro Paese.

SONO INNOCENTE. ELAINE ARAUCO DA SILVA.

La ballerina di Rimini e Riccione condannata, poi assolta, stasera su Rai 3, scrive l'8 aprile 2018 romagnauno.it. Alberto Matano torna questa sera, domenica 8 aprile, con la nuova stagione di Sono innocente, in onda su Rai3 a partire dalle 21.25. Apre la serie Eliana, la ballerina brasiliana di Rimini e Riccione, condannata per traffico di droga ingiustamente e scarcerata dopo un anno di galera. Elaine, una ballerina di origini brasiliane che si esibiva nei locali tra Rimini e Riccione: è stata accusata di traffico di droga. Nella stessa casa dove era ospite aveva dormito uno spacciatore e tanto è bastato a inguaiarla. Ma lei non lo conosceva neppure. La ragazza, bellissima, si era semplicemente trovata al posto sbagliato al momento sbagliato. Fidandosi degli amici connazionali, aveva accettato la loro ospitalità. Mai avrebbe immaginato che quella sera sarebbe giunto dall’Olanda un uomo imbottito di droga, che aveva ingoiato decine e decine di ovuli colorati pieni zeppi di cocaina. E mai avrebbe pensato che quel trafficante internazionale alloggiava proprio lì, a casa degli amici che le avevano offerto ospitalità per qualche tempo. Quando il giorno dopo aveva aperto allibita ai carabinieri di La Spezia che senza tanti complimenti le avevano infilato le manette ai polsi, lei aveva urlato la sua innocenza a più non posso.  E così Elaine Arauco Da Silva, questo il suo nome, si è trovata carcere dove è rimasta per un anno. Il 10 novembre del 2009 è stata pronunciata la parola fine sul quell’incubo. Un incubo che per lei è stato ancora più brutto perché le ha spazzato via un sogno, quello di sposare il suo bel Emin Boztepe, campione di arti marzali di origine turca, diventato poi divo di Hollywood. L’uomo era volato dalla California a Rimini per testimoniare davanti ai giudici e spiegare che la ragazza con quell’affare di droga non poteva centrare nulla, visto che i due avevano altri progetti, tra cui i fiori d’arancio. Ma poi, chiusa la parentesi, il bel giovane aveva rotto il fidanzamento, forse temendo un coinvolgimento che avrebbe potuto danneggiare la sua immagine di divo. Stasera in Tv parla Eliana.

Elaine Arauco Da Silva. La ballerina brasiliana assolta dopo 1 anno di galera: ma perde tutto (Sono innocente). Il caso di Elaine Arauco Da Silva, ballerina brasiliana assolta dopo un anno di galera, sarà al centro della prima puntata di "Sono innocente" in onda su Rai, scrive l'8 Aprile 2018 Morgan k. Barraco su "Il Sussidiario". L'incubo di Elaine Arauco Da Silva è ormai finito anni fa, in seguito all'accusa per droga e al successivo arresto. A causa di quella vicenda tuttavia la ballerina brasiliana ha perso tutto, amici, connazionali e persino l'uomo che avrebbe voluto sposare. Tutto inizia nella notte del 2008, quando un uomo imbottito di droga, Gabriel Arcangel Sanchez Guerrero, viene arrestato in seguito all'arrivo in Italia dall'Olanda e durante un soggiorno a casa di alcuni amici della donna. Il caso di Elaine Arauco Da Silva verrà approfondito nella puntata di Sono Innocente di questa sera, domenica 8 aprile 2018, grazie al programma di Rai 3. Nessuno all'epoca decide di credere alla donna, che viene fermata dai carabinieri di La Spezia e trasportata in carcere. A nulla serve che sottolinei la propria innocenza: nessuno vuole crederle. Rimarrà quindi in carcere per un anno, sottolinea Romagna Noi, e la sua vicenda giudiziaria si concluderà solo sei mesi più tardi. Il mancato matrimonio con il campione di arti marziali, il turco Emin Boztepe, è solo una delle conseguenze di quel giorno: l'uomo verrà convocato a Rimini per testimoniare a favore dell'imputata, ma deciderà comunque di rompere il loro fidanzamento. 

Le accuse e la fine del fidanzamento. La sua colpa è stata di trovarsi al momento sbagliato nel posto sbagliato: Elaine Arauco Da Silva pagherà caro l'ospitalità richiesta ad alcuni amici di Rimini, alcuni giorni prima dell'arresto di un Olandese ritrovato con un forte carico di droga nel corpo. La ballerina brasiliana in quei giorni crede di trovarsi in vacanza, mentre il fidanzato Emin Boztepe la aspetta in California. I due stanno organizzando il loro matrimonio imminente, frutto di un fidanzamento pieno di passione. Eppure quel giorno tutto è destinato a cambiare: i Carabinieri si presenteranno alla porta di quell'appartamento in cui Elaine si trova da pochi giorni e l'arrestano. L'uomo arrestato è stato infatti trovato con decine e decine di ovuli di cocaina che ha ingoiato prima del suo viaggio che dall'Olanda lo ha portato fino in Italia. A nulla serviranno le parole della donna, che si dichiarerà subito innocente. Ed a nulla servirà la testimonianza del fidanzato, che confermerà di fronte ai giudici come i loro progetti in comune non prevedano di certo il traffico internazionale di droga. Elaine verrà rilasciata solo diverso tempo dopo e perderà la possibilità di sposare il divo californiano, che ha deciso di lasciarla sola al suo destino. Elaine non è la sola ad essere stata arrestata quel giorno: tutte le altre persone che in quel giorno si trovano nello stesso appartamento verranno tradotte in carcere. Fra queste, sottolinea Errori Giudiziari, anche la madre anziana di una delle inquiline. In seguito i giudici stabiliranno come la colpa fosse solo di Sanchez Guerrero, condannato a 8 anni per traffico di droga. Grazie all'aiuto del legale, l'avvocato Piero Venturi, Elaine verrà infine riconosciuta come innocente e chiederà allo Stato Italiano un risarcimento che comprenda i danni morali per via del matrimonio mancato, oltre che per la detenzione ingiusta. Sembra che un anno dopo abbia ritrovato l'amore grazie all'incontro con un altro uomo, riuscendo a coronare il suo sogno di diventare madre. La tragedia vissuta tuttavia rimarrà sul suo corpo come una cicatrice indelebile.

I motivi dell’arresto. Perché le autorità italiane hanno deciso di prolungare il carcere di Elaine Arauco Da Silva, la ballerina brasiliana che nel 2008 è stata accusata di traffico internazionale di droga? Tutto parte dalle indagini dei Carabinieri di La Spezia su Gabriel Arcangel Sanchez Guerrero, che al fianco di altre undici persone verrà individuato come spacciatore di un cartello che comprende diverse regioni e Paesi. Dall'Emilia Romagna fino all'Olanda e dalla Spagna fino alla Toscana. Il gruppo di criminali opera su diversi territori grazie allo spaccio di cocaina ed eroina. Guerrero, all'epoca dei fatti 34enne, viene individuato come parte dell'anello di congiunzione fra l'estero e Rimini, dove operava al fianco della madre Olinda Santiago Ogando, di 70 anni, e la sorella Matilde. Quest'ultima avrebbe coinvolto, secondo quanto sottolinea Il Secolo XIX, l'amica e ballerina Elaine Arauco Da Silva. In quegli anni appena 30enne, la ragazza infatti soggiornava nell'appartamento della famiglia Sanchez Guerrero proprio nei giorni in cui vengono effettuati i primi arresti all'interno del cartello. In seguito al fermo di Francisca Gomez, una connazionale e corriere di droga, Guerrero avrebbe infatti deciso di ritirare di persona il carico in Olanda.

SONO INNOCENTE. ENZO TORTORA.

Enzo Tortora. Dopo 30 anni le scuse del pm che fece arrestare il giornalista (Sono Innocente). Il caso di Enzo Tortora, giornalista accusato di essere colluso con la camorra, sarà trattato nella prima puntata di "Sono innocente", in onda questa sera su Rai, scrive l'8 Aprile 2018 Morgan k. Barraco su "Il Sussidiario". A distanza di trent'anni dalla sua morte, Enzo Tortora rimane il simbolo dell'ingiustizia giudiziaria. Il giornalista è stato infatti al centro di un'oscura vicenda che lo ha portato dietro le sbarre da innocente, anche se riconosciuto come tale solo diversi anni dopo il suo arresto. Il caso di Enzo Tortora verrà discusso nella puntata di Sono Innocente di questa sera, domenica 8 aprile 2018, grazie alla prima puntata del programma di Rai 3. Rimangono nella storia le lettere che il conduttore di Portobello scrisse all'epoca a Francesca Scopelliti, la sua compagna, in seguito a quella retata che lo confinò in carcere con l'accusa di collusione con la Camorra. Sono recenti invece le scuse del Magistrato Diego Marmo, che durante il maxi processo di Raffaele Cutolo fu fra i più grandi accusatori di Tortora. "Dopo trent'anni è arrivato il momento. Mi sono portato dietro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto", ha detto Marmo a Rai News nel 2014. Parole che l'ex magistrato, oggi in pensione, ha pronunciato tra l'altro per la prima volta in seguito alle critiche ricevute riguardo alla sua entrata in politica. 

Le lettere a Francesca. Il caso di Enzo Tortora verrà sempre associato all'ingiustizia giudiziaria. Il giornalista, negli anni Ottanta fra i più in vista della tv italiana, viene accusato nel giugno dell'83 in base ad alcune parole di un pentito della Camorra. L'arresto è immediato: è qui che inizia il calvario di Tortora, che lo spingerà a impegnarsi in modo attivo nella difesa dei diritti umani. La sua assoluzione arriva solo quattro anni più tardi grazie a una sentenza della Cassazione, ma ormai il suo caso è diventato simbolo del malfunzionamento delle ruote della giustizia italiana. Di quegli anni trascorsi dietro le sbarre rimangono come documento storico le lettere che a pochi giorni dal suo arresto invia alla compagna Francesca Scopelliti. Dalla sua cella 16 bis di Regina Coeli, Tortora spedisce una lettera in cui denuncia il proprio dolore per via di quelle accuse che lo vedono come trafficante di droga al soldo della camorra. Sarà il primo di 45 testi che in seguito formeranno il libro edito da Pacini e dal titolo “Lettere a Francesca”, come sottolinea La Repubblica. Nei suoi scritti Enzo Tortora sottolinea come sia rimasto colpito dall'arresto, avvenuto grazie ad una maxi retata che porterà in manette 856 persone. Nelle sue parole il dramma di quel momento, soprattutto per le condizioni in cui è costretto a vivere e per l'impossibilità di avere un confronto diretto con chi lo ha accusato. 

Enzo Tortora e l’arresto nel 1983. L'arresto di Enzo Tortora viene effettuato nel giugno del 1983, grazie all'intervento dei Carabinieri di Roma che bussano alla sua porta alle quattro del mattino. Le accuse di traffico di droga e associazione a organizzazione di stampo mafioso sono dovute alle rivelazioni di Giovanni Melluso, Giovanni Pandico e Pasquale Barra, pentiti mafiosi che al fianco di altri otto imputati, indicheranno nel giornalista uno dei conniventi della camorra. Il tutto viene avvalorato grazie a un'agendina ritrovata nell'abitazione del camorrista Giuseppe Puca, in cui è presente il nome del giornalista. Un elemento che in seguito venne attribuito a un errore calligrafico, in cui la lettera “r” del cognome di Tortora era stata scambiata per la “n” del nome scritto in realtà fra quelle pagine. Emergono nei giorni seguenti altri particolari, fra cui alcuni centrini che Giovanni Pandico invia al conduttore perché li vendesse all'asta grazie al programma di cui è a guida, Portobello. In seguito allo smarrimento degli oggetti, Tortora scrive infatti una lettera di scuse al camorrista, allegando un assegno di rimborso. 

Il sostegno di Indro Montanelli e Enzo Biagi. Da non sottovalutare l'impatto mediatico ed emotivo che ha avuto sulla popolazione l'arresto di Enzo Tortora. All'epoca infatti il caso crea un grande scandalo nazionale, tanto che tv e stampa continuano a pubblicare e trasmettere le immagini che inquadrano il giornalista in manette, in occasione del suo arresto. Tortora viene tra l'altro attaccato anche in ambiente giornalistico, soprattutto per via di quella fuga di notizie avvenuta pochi giorni prima il suo arresto, e tale da permettere a diversi colleghi di affondare il colpo. Dalla parte di Tortora si schierano invece grandi firme, come quella di Indro Montanelli e Enzo Biagi. Soprattutto quest'ultimo decide di andare contro corrente e scrivere una lettera al presidente Sandro Pertini, pubblicandola su La Repubblica nell'agosto del 1983 e con cui chiede che possa intervenire nel caso di Enzo Tortora. Biagi in particolare non riesce a spiegarsi come mai 200 arrestati in quella stessa maxi retata erano riusciti a ritornare in libertà, mentre il collega continuava a rimanere in carcere, senza alcuna possibilità di difendersi.

Enzo Tortora chi? Trent’anni dopo il gioco a far finta di niente. Il giornalista liberale perseguitato dalla magistratura e dai giornalisti e difeso solo dai radicali moriva ucciso da un cancro maturato durante la detenzione ingiusta, scrive Piero Sansonetti il 18 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Trent’anni fa moriva Enzo Tortora. Il 18 maggio del 1988. Era un grande giornalista, conservatore e liberale. Aveva subìto una persecuzione giudiziaria feroce e assolutamente irragionevole. Tortora è stato il testimone di come la giustizia possa esercitare il suo enorme potere in modo malvagio e in spregio del diritto. Assecondata e applaudita dal giornalismo. Fu arrestato all’alba del 17 giugno del 1983, a Roma, trascinato in manette in una caserma dei carabinieri e poi, in manette, mostrato ai giornalisti e ai fotografi e infine, a sera, chiuso in cella per sette mesi. Più molti altri mesi di arresti domiciliari. Era accusato di essere un camorrista, uno spacciatore di droga e un mercante di morte. Era del tutto, del tutto, del tutto innocente. Qualche giorno dopo il suo arresto Camilla Cederna, giornalista ultra- liberal, di sinistra, indipendente, spregiudicata, cronista di inchiesta e di prima linea, prestigiosissima, scrisse: «Mi pare che ci siano gli elementi per trovarlo colpevole: non si va ad ammanettare uno del cuore della notte se non ci sono buone ragioni. Il personaggio non mi è mai piaciuto». C’è tutto in questa breve frase. C’è il cuore del colpevolismo cieco (” se lo hanno arrestato vuol dire che qualcosa l’ha fatta”: pare che sia la stessa frase che fu ripetuta migliaia di volte in Argentina, dopo il golpe di Videla e gli arresti di massa degli oppositori). C’è l’idea che l’accusa è essa stessa dimostrazione della colpa. C’è l’infallibilità dei giudici. C’è l’antipatia personale come prova a carico. C’è il principio dell’intoccabilità rovesciata, e cioè la convinzione che il prestigio personale, o la fama, o il potere di una persona, presunta intoccabile, siano in realtà evidenze certe di reato. Tortora era innocentissimo ma l’intera stampa italiana si schierò contro di lui e lo riempì di fango, tranne pochissime eccezioni: Biagi, Montanelli. E l’intera magistratura diede totale copertura prima al giudice istruttore che lo aveva fatto incarcerare senza prove e senza indizi, e poi ai pubblici ministeri che – senza prove e senza indizi – lo fecero condannare a 10 anni di carcere. La magistratura poi si riscattò, con la sentenza di appello, che fu di piena assoluzione e di furiosa e appassionata condanna del lavoro sciatto e indegno svolto dai magistrati che lo avevano condannato. Tortora fu condannato sulla semplice testimonianza di alcuni pentiti, del tutto inaffidabili, e teleguidati – che ottennero in cambio sconti di pena – senza la possibilità del minimo riscontro. In appello gli indizi e le testimonianze furono smontati uno ad uno, in modo inconfutabile, ma erano stati già smontati nel primo grado e in istruttoria, però i giudici del primo grado e dell’istruttoria se ne erano infischiati delle prove a difesa. La magistratura si riscattò con la sentenza d’appello. Il giornalismo non si riscattò mai. Anche la politica ebbe in gran parte un atteggiamento infame sul caso Tortora. Più o meno tutto il mondo politico, eccetto, naturalmente, i radicali (che si batterono al suo fianco in modo eroico, subissati dalle critiche e dagli scherni), e i socialisti. E’ stato il caso più famoso di errore giudiziario. Voluto, cercato, difeso con arroganza dal potere. Il più famoso: non l’unico, tranquilli, non l’unico. Dal caso Tortora nacque il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, vinto dai radicali, ma poi smantellato dal governo. E dal caso Tortora nacquero le prime battaglie garantiste, che piano piano ottennero dei risultati: gracili, sparuti, ma non inesistenti. Oggi il trentesimo anniversario della morte di Tortora, ucciso da un cancro che aveva maturato in carcere, coincide con la presentazione del programma del nuovo governo. E in questo programma ci sono delle proposte di riforma della macchina giudiziaria che fanno tremare le vene e i polsi. Più intercettazioni (oggi siamo il paese con più intercettazioni al mondo, ne abbiamo cento volte cento – più della Gran Bretagna), riduzione o cancellazione della prescrizione, aumento delle pene per i reati contro il patrimonio e per la corruzione, fine delle conquiste di politica carceraria ottenute dagli anni ottanta (riforma Gozzini) in poi dalle forze democratiche, introduzione degli agenti provocatori che si affiancherebbero ai pentiti in una logica vicinissima a quella che guidò i Pm del caso Tortora ( i quali Pm, salvo uno, non hanno mai chiesto scusa). E’ molto triste questa coincidenza. È anche molto preoccupante. Per fortuna un programma di governo non è legge. Va portato in Parlamento, va discusso, deve superare il vaglio della Corte Costituzionale. Esistono in Parlamento le forze liberali in grado di opporsi a questa svolta di ispirazione autoritaria, che non ha precedenti nella storia della Repubblica? Avranno, queste forze, la capacità e il coraggio per battersi e per fermare questa svolta? Dipenderà anche dai giornali, dalle Tv. Dall’atteggiamento che assumeranno nei confronti del programma di governo. A leggere i giornali di questi giorni si ha l’impressione che l’intellettualità italiana, e il giornalismo, non siano molto preoccupati per il futuro della giustizia. Li indigna, forse giustamente, l’organo di garanzia previsto dal “contratto” e probabilmente incostituzionale, ma nessuno è indignato, o colpito, anzi nessuno si occupa, della proposta di mettere in prigione i bambini. E questo non è di buon auspicio. Possibile che il giornalismo italiano sia rimasto quello delle frasi tremende di Camilla Cederna?

Enzo Tortora, la pagina più nera per il giornalismo e la magistratura. Trent’anni fa moriva il giornalista, stroncato da un tumore dopo aver subito anni di persecuzione giudiziaria e mediatica volontaria e in malafede, scrive Valter Vecellio il 18 Maggio 2018 su "Il Dubbio". Riavvolgere il nastro del ricordo, perché il caso Tortora non scolorisca nella memoria collettiva e individuale; e perché tanti sono quelli che possiamo definire “gli eroi della sesta giornata”: coloro che ora si “esibiscono” nel tentativo di accaparrarsi dei meriti che non hanno, ben altro è stato a suo tempo il comportamento tenuto; ben altre le posizioni assunte. Il 18 maggio 1988 Enzo Tortora ci lasciava, stroncato da un tumore, conseguenza – si può fondatamente ritenere – anche del lungo e ingiusto calvario patito. Anni dopo, Carlo Verdelli (non l’ho mai fatto, me ne dolgo, lo ringrazio ora), su “Repubblica”, scrive: “Non fosse stato per i radicali (da Pannella a Bonino, da Giuseppe Rippa a Valter Vecellio) che lo elessero simbolo della giustizia ingiusta e lo fecero eleggere a Strasburgo. Non fosse stato per Enzo Biagi che a sette giorni da un arresto che, dopo gli stupori, stava conquistando travolgenti favori nell’opinione pubblica, entrò duro sui frettolosi censori della prima ora con un editoriale controcorrente: “E se Tortora fosse innocente?”. Non fosse stato per l’amore e la fiducia incrollabile delle figlie e delle compagne (da Pasqualina a Miranda, prima e seconda moglie, fino a Francesca, la convivente di quell’ultimo periodo). Non fosse stato per i suoi avvocati, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall’Ora, che si batterono per lui con una vicinanza e un ardore ben al di là del dovere professionale. Non fosse stato per persone come queste, i 1.768 giorni che separano l’inizio del calvario di Enzo Tortora (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all’hotel Plaza di Roma) dalla fine della sua esistenza (18 maggio 1988, cancro ai polmoni), sarebbero stati di meno, nel senso che avrebbe ceduto prima”. Tortora è arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata: lo si fa uscire solo quando si è ben sicuri che televisioni e giornalisti sono accorsi per poterlo mostrare in manette. La prima di una infinita serie di mascalzonate. Con Enzo nasce una solida amicizia; conservo parecchie sue lettere, scritte dal carcere, a rileggerle ancora oggi, trascorsi tanti anni, corre un brivido.

16 settembre 1983: “Da tempo volevo dirti grazie… Hai “scommesso” su di me, subito: con una purezza e un entusiasmo civile che mi commossero immensamente. Vincerai, naturalmente, la tua “puntata”. Ma a prezzo di mie sofferenze inutili e infinite. Io sono stato il primo a dire che il “caso Tortora è il caso Italia”. Non intendo avere trattamenti di favore, o fruire di scorciatoie non “onorevoli”. Se dal mio male può venire un po’ di bene per la muta, dolente popolazione dei 40mila sepolti vivi nei lager della democrazia, e va bene, mi consolerà questo”.

2 maggio 1984: “… Che si faccia strame della libertà di un uomo, della sua salute, della sua vita, come può esser sentito come offesa alla libertà, alla vita, alla salute di tutti in un Paese che non ha assolutamente il senso sacro, della propria dignità e delle libertà civili? Non è vero che l’Italia “ha abolito la pena di morte”. Abbiamo un boja in esercizio quotidiano, atroce, instancabile. Ma non vogliamo vederlo. La sua scure si abbatte, ogni minuto, sul corpo di uomini e di donne, e li squarta vivi, in “attesa” di un giudizio che non arriva mai. L’uomo qui è niente, ricordatevelo. L’uomo qui può, anzi deve attendere. L’uomo qui è una “pratica” che va “evasa” con i tempi, ignobili, della crudeltà nazionale…”.

15 luglio 1985: “… In questa gara, tra chi pianta più in fretta i chiodi, come al luna park dell’obbrobrio giudiziario, e i pochi che si ribellano, sta tutta la mostruosa partita. Vedere a che lurido livello s’è ridotta la dignità di questo Paese è cosa che mi annienta più d’ogni altra. So che sei coi pochi. Da sempre. Te ne ringrazio, fraternamente”.

7 ottobre 1985: “… Sono stato condannato e processato dalla N. G. O., Nuova Giustizia Organizzata. Io spero che questa fogna, che ormai nessun tombino può contenere, trabocchi e travolga chi lo merita…”.

2 aprile 1986: “… Diffamatori è poco: sapevano quel che facevano. Ma per pura voluttà scandalistica, per pura, stolida ferocia, qui si getta fango sino all’estremo. Ho paura di questi cannibali. Ho soprattutto vergogna di essere italiano…”.

17 agosto 1987: “… Siamo molti… ma troppo pochi per spezzare la crosta di ottusa indifferenza che copre e fascia la rendita di alcuni farabutti mascherati da Magistrati. Tanto più importante e notevole il vostro impegno. Tenteremo, sul caso Melluso, quel che si potrà. Ho inviato al ministro Vassalli l’incredibile servizio, gli ho anche detto che i responsabili hanno nome e cognome: Felice Di Persia, Lucio Di Pietro, Giorgio Fontana, Achille Farina, Carlo Spirito… Sono ancora lì, al loro posto… Staremo a vedere…”.

Manca, tuttavia, a distanza di tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: “Perché?”. Alla ricerca di una soddisfacente risposta, si affonda in uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania, il democristiano Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo.

Il cuore della vicenda è qui. Sono le 21.45 del 27 aprile 1981 quando le Brigate Rosse sequestrano Cirillo. Segue una frenetica, spasmodica trattativa condotta da esponenti politici della DC, Cuto- lo, uomini dei servizi segreti per “riscattarlo”. Viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro viene trovato. Durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post- terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati, da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice che ebbe un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, “mai più ritrovato”. Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post- terremoto? Ripercorriamoli qui i termini di una questione che ancora “brucia”. Cominciamo col dire che: Tortora era un uomo perbene, vittima di un mostruoso errore giudiziario. Che il suo arresto costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. “Cinico mercante di morte”, lo definisce il Pubblico Ministero Diego Marmo; e aggiunge: “Più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza”. Le “prove” erano la parola di Giovanni Pandico, un camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un camorrista. Pasquale Barra detto ‘ o nimale: in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia l’intestino… Con le loro dichiarazioni, Pandico e Barra danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricorda-no di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Arriviamo ora al nostro “perché?” e al “contesto”. A legare il riscatto per Cirillo raccolto dai costruttori – compensati poi con gli appalti – e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione Antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti- cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. E’ in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”: 850 mandati di cattura, e tra loro decine di arrestati colpevoli di omonimia, gli errori di persona. Nel solo processo di primo grado gli assolti sono ben 104… Documenti ufficiali, non congetture. Come un documento di straordinaria e inquietante efficacia, l’intervista fatta per il “TG2” con Silvia, la figlia di Enzo.

Quando suo padre fu arrestato, oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra cosa c’era?

“Nulla”.

Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista?

“No, mai”.

Intercettazioni telefoniche?

“Nessuna”.

Ispezioni patrimoniali, bancarie?

“Nessuna”.

Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre?

“Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. E’ risultato che erano di altri”.

Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove?

“Nessuna”.

Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. Su che prove?

Nessuna. Chi lo ha scritto è stato poi condannato”.

Qualcuno le ha mai chiesto scusa per quello che è accaduto?

“No”. Candidato al Parlamento Europeo nelle liste radicali, eletto, chiede sia concessa l’autorizzazione a procedere, che invece all’unanimità viene negata. A questo punto, Tortora si dimette e si consegna all’autorità, finendo agli arresti domiciliari. Diventa presidente del Partito Radicale e i temi della giustizia e del carcere diventano la “sua” ossessione. Ora tutti lo evocano, quando ci si vuole accreditare come perseguitati della giustizia. La cosa che si fa, si è fatta, viene fatta, è occultare con cura il Tortora politico, che si impegna a fianco di Marco Pannella e dei radicali per la giustizia giusta. Che il suo arresto costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è cosa ormai assodata. Nessuno dei “pentiti” che lo ha accusato è stato chiamato a rispondere delle sue calunnie. I magistrati dell’inchiesta hanno tutti fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame”, di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”.

Tortora, storia di un perseguitato senza pace. Trent'anni fa veniva scarcerato Tortora. Ma il suo incubo prosegue ancora oggi. Tra giudici che rifiutano di pentirsi e mascalzoni che si paragonano a lui, scrive Massimo Del Papa il 15 Settembre 2016 su "Lettera 43". Enzo Tortora, stella di prima grandezza del giornalismo e dell'intrattenimento televisivo, diventa di colpo un criminale mafioso per la giustizia e per l'opinione pubblica: la sua storia impossibile (guarda le foto) diventerà un modo di dire, usurpato da fior di mascalzoni che, appena inchiodati, puntualmente proclamano: «Sono come Tortora, il mio è un nuovo caso Tortora». Non è quello che avrebbe voluto la vittima del «più grande esempio di macelleria giudiziaria all'ingrosso del nostro Paese», come lo definì uno dei suoi rari sostenitori, Giorgio Bocca. Poche grandi firme – lo stesso Bocca, Biagi, Montanelli pur tra qualche caduta di stile - proveranno a non perdere la testa di fronte ai furori di una opinione pubblica che invoca il crucifige, col solo Partito radicale di Marco Pannella coinvolto in una durissima battaglia per opporsi alla marea montante di una magistratura i cui protagonisti, lungi dal pagare in alcun modo, faranno tutti clamorosi balzi in carriera, fino a conquistare i massimi ermellini oppure nella pubblica amministrazione. Dal canto loro, i pentiti menzogneri avranno sorte altrettanto benevola, uno addirittura insignito del “premio della libertà”. Era una buona compagnia: dare addosso a Tortora è facile, la stampa si scatena, moltissimi opinionisti, come la radical chic Camilla Cederna, dimostreranno carognesca superficialità: «Se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto». E sono gli stessi che non credono per princìpio alla magistratura e alle istituzioni, che firmano appelli contro lo Stato e i suoi 'commissari torturatori'. È difficile, in quella temperie, considerare Tortora innocente, e scriverlo. Si rischia di venire contagiati dalle accuse che lo travolgono. Il calvario: 1.768 giorni dall'arresto alla morte. Il conduttore ha due avvocati di prestigio, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall'Ora, che nel difenderlo si identificano nel dramma del loro assistito oltre i limiti del mandato professionale: quando Tortora verrà riabilitato, saranno visti piangere come lui, insieme a lui. Il calvario di Enzo Tortora dura 1.768 giorni, dal quello dell'arresto (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all'Hotel Plaza di Roma) alla fine della sua vita (18 maggio 1988, cancro ai polmoni, nella sua casa milanese di via Piatti 8). Gli italiani scopriranno che possono venire svegliati in qualsiasi momento da un battere alla porta in piena notte, come nei regimi di polizia e portati via, in un incubo senza fondo dove le spirali della vergogna e dell'impotenza sembrano non avere mai fine. Alla vigilia dell'arresto di Tortora, circola tra i cronisti di nera la voce di una retata imminente, con tanto di nome forte, uno della televisione. Uno grosso. Chi? «Uno che sta nelle ultime lettere dell'alfabeto». Quella giusta è la “T”. Rintracciano “mister T.”, lo avvertono: lui ironizza, ci ride sopra, attacca e non ci pensa più. Lo andranno a prendere poche ore dopo. È tutto predisposto, giornalisti e fotografi sono stati avvertiti. Gli mettono le manette, ad effetto; ma ne fa di più la sua faccia stupefatta e sfatta. Fioccano i “pentiti” che lo azzannano in un delirio di accuse folli: ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell'Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari. Titola il Messaggero: «Tortora ha confessato». Quando, dove? L'accusa: una partita di droga che il presentatore si sarebbe intascato. Nessuno difende Tortora, specie a sinistra: è considerato un reazionario, un rompicoglioni moralista. Un antipatico. Più avanti si sarebbe detto: un nazionapopolare, col suo Portobello strappalacrime e stracciapalle. Scriveva su la Nazione del petroliere Attilio Monti in odor di fascismo, ce n'è abbastanza per scordarsi il garantismo, che con gli amici si osserva, coi nemici si cancella. Quando la madre Silvia si reca in chiesa, trova sempre lo stesso bigliettino, grondante carità cristiana: «Tuo figlio spaccia la droga». E dire che tutto nasce da una meschinità infantile, come si racconta nel bel libro di Vittorio Pizzuto Applausi e sputi. Un detenuto del carcere di Porto Azzurro, Domenico Barbaro, spedisce alcuni centrini alla redazione di Portobello nella speranza di venderli. Non li vede mai e allora comincia a perseguitare il presentatore con letteracce scritte dal killer Pandico, perché lui è analfabeta. Un bel giorno Tortora si scoccia: «Se lei continua ad insistere», risponde, «passerò la faccenda all'ufficio legale della Rai». I centrini non si trovano, il detenuto riceve dalla Rai un assegno di 800 mila lire più per pietà che per altro. Barbaro e Pandico si “sdebiteranno” raccontando ai giudici, per bocca del secondo, che i centrini erano un nome in codice per indicare una partita di coca da 80 milioni che il presentatore si sarebbe intascato imbrogliando i compari. Sarebbe la prima prova d'accusa: i legali a difesa producono le lettere minatorie del galeotto, ma per i magistrati «a scrivere è un altro Barbaro», un omonimo. Altra prova considerata definitiva: si trova il nome di Tortora nell'agendina di Giuseppe Puca, detto "o Giappone", sicario tra i preferiti di Cutolo. Ma l'agendina è della donna di Puca, il nome, scarabocchiato a mano è "Tortosa" non "Tortora", e corrisponde al proprietario di un deposito di bibite di Caserta, amico della signora. Il prefisso è 0823, «Provate a chiamà, dottore...». Cinque mesi ci mettono, i giudici, a "provare". Gli accusatori: da un serial killer all'altro. Chi sono gli accusatori di Tortora? Il principale è il citato Giovanni Pandico, killer di professione, segretario di Cutolo, il capo della camorra: ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ha tentato senza successo di annientare i parenti: padre, madre e fidanzata. «Schizoide e paranoico» per i medici, bocca della verità per i giudici. È il primo, il più meschino, quello che eccita e contagia altri degni compari. Dal 2012 torna libero cittadino. Non migliore è Pasquale Barra, detto 'o "animale", serial killer delle galere, 67 omicidi in carriera tra cui lo squartamento di Francis Turatello al quale mangia pezzi di cuore: è morto in carcere, sotto regime privilegiato, con uno speciale programma di protezione. Il più appariscente però è Gianni Melluso, detto "il bello" o "cha cha cha", aspetto di cialtronesca, volgare ricercatezza, da cantante da crociera. Già libero, è tornato in galera qualche anno fa per sfruttamento della prostituzione. Da accusatore di Tortora, in carcere viveva come un pascià, amava quando voleva la fidanzata, puntualmente messa incinta e sposata con due giornalisti come testimoni e un meraviglioso completo sartoriale di Valentino. Dirà Melluso, ma solo nel 2010, in una intervista all'Espresso: «Lui non c'entrava nulla, di nulla, di nulla, l'ho distrutto a malincuore, dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l'unica via per salvarmi la pelle. Ora mi inginocchio davanti alle figlie». Replicherà Gaia, la terzogenita: «Resti pure in piedi». Un altro che lo accusa di spacciare negli studi di Antenna 3 Lombardia è il pittore fallito Giuseppe Margutti: anche lui, a giochi fatti, ammetterà di essersi inventato tutto per mitomania finalizzata a raccogliere qualche soldo. Il primo grado: condanna a 10 anni e 50 milioni di multa. Tortora passa per sodale del boss dei boss Raffaele Cutolo. Accusa risibile, che infatti suscita ironia allo stesso supercriminale: nel carcere dell'Asinara, dove sconta l'ergastolo, don Rafaé incontra il presunto colpevole Tortora, nel frattempo diventato europarlamentare. Il breve dialogo che ne consegue, è surreale: «Dunque, io sarei il suo luogotenente». Poi porge la destra: «Sono onorato di stringere la mano a un innocente». La cosa non turba i magistrati, che non si scomodano a disporre alcun controllo, verifica, riscontro bancario (cosa che Tortora li invita espressamente a fare), appostamento, pedinamento, intercettazione (non sono ancora di moda), e, inchiodati alle versioni dei pentiti, tutte tra l'altro discordanti fra loro, costruiscono il loro castello accusatorio. I sostituti procuratori titolari delle indagini a Napoli sono Lucio Di Pietro, definito il Maradona del diritto, e Felice Di Persia. Ottengono dal giudice istruttore Giorgio Fontana 857 ordini di cattura, con 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine saranno solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (in appello, le assoluzioni saranno 114 su 191). Il processo di primo grado, sempre a Napoli, si apre nel febbraio 1985, un anno e otto mesi dopo l'arresto di Tortora, e si conclude il 17 settembre 1985 con il conduttore condannato a 10 anni e 50 milioni di multa, ma nel frattempo divenuto deputato radicale al Parlamento europeo. Il presidente Luigi Sansone scrive una omerica sentenza di 2 mila pagine, in sei tomi, uno dei quali appositamente su Tortora, per il quale ribalta ogni logica di diritto: «L'imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui», quanto a dire l'inversione dell'onere della prova. Da parte sua, il pubblico ministero Diego Marmo definisce Tortora «un uomo della notte, ben diverso da come appariva a Portobello»; poi insinua che sia stato votato dai camorristi. Ma ammette: «Lo sappiamo tutti, purtroppo, che se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l'istruttoria». L'appello: la Corte di Napoli smonta il castello accusatorio. Non sia mai: Tortora riceve una condanna inevitabile. Già eletto a Strasburgo per i Radicali, prontamente si dimette da eurodeputato, rinuncia all'immunità e torna in Italia per farsi arrestare. Nel frattempo è cambiato, ha maturato una consapevolezza nuova, l'impegno totale in favore dei carcerati: «Ero liberale perché ho studiato, sono radicale perché ho capito». Passa ai domiciliari, ricorre in appello, non smette di combattere, fino alla fine. «Io sono innocente», dice ai giudici. «Spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi». Gli credono, finalmente. Il 15 settembre 1986 la Corte d'Appello di Napoli sfascia mattone per mattone il castello accusatorio del primo grado, ma lui è già minato. Torna davanti agli italiani venerdì 20 febbraio 1987, con quelle pochissime, memorabili parole, «Dove eravamo rimasti?». Ma non è più lui, la voce è incrinata, il volto segnato, le lacrime sempre in agguato: salgono dagli incubi che, la notte, lo scaricano ancora in cella. Lo hanno spezzato. Racconterà la figlia Silvia: «Ricordo che Manganelli, il capo della Polizia, incontrandomi mi disse: quella di tuo padre è stata la merda più gigantesca della storia. Hanno fatto una commissione parlamentare su tutto, persino su Mitrokhin: su Tortora no». I giudici coinvolti: «Ma di cosa ci dovremmo vergognare?» Già malato terminale, Tortora aveva presentato una citazione per danni: 100 miliardi di lire. Il Csm archivia. Archiviato anche il referendum del 1987, nato sulle ceneri del caso Tortora, sulla responsabilità civile dei magistrati: vota il 65%, i sì sono l'80%, arriva la legge Vassalli e lo disinnesca. Nel frattempo la Cassazione ha confermato l'assoluzione in appello, il 13 giugno 1987, quattro anni dopo la notte delle manette. L'ultima intervista, al programma Il Testimone di Giuliano Ferrara (che poi rimedierà una querela da tre giudici), è atroce. Tortora, rantolando, ansimando, rinfaccia al magistrato Alessandro Olivares la condotta processuale: «Mi disse allora: "Ma sììì, facciamo sei anni. Da dieci facciamone sei...". E io dissi: 'Guardi che non siamo al mobilificio Aiazzone. Lei ha una mentalità da barcaiolo giuridico veramente ripugnante. Lei ha una mentalità da barcaiolo...'». Poi non riesce più a parlare, stava già morendo. «Ma di che cosa ci dovremmo scusare, noi?», ha ringhiato ancora di recente uno dei giudici coinvolti - e premiati - in questo splatter giudiziario. «CHE NON SIA UN'ILLUSIONE». Restano le lettere di Tortora, strazianti, alla compagna Francesca Scopelliti, che recentemente le ha raccolte in un libro di cui si è stati molto attenti a non parlare. Resta l'impegno di Tortora per i detenuti, per condizioni carcerarie umane, impegno che non è sopravvissuto né a lui, né al suo più grande sostegno, Pannella. Se volete andare a trovare Tortora, sta al cimitero Monumentale di Milano, dentro una colonna di marmo. Qualcuno ha infilato l'immaginetta di un Cristo in croce con la scritta: «Uno che ti chiede scusa». Sotto l'urna, che dietro il vetro sembra ricordare a tutti un uomo ridotto in cenere prima ancora di morire, una frase urla la sua muta disperazione: «Che non sia un'illusione».

Tortora dalla prigione: «L'uomo qui è niente, ricordatevelo», scrive Valter Vecellio il 14 set 2016 su "Il Dubbio". Il presentatore viene arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri. Lo fanno uscire solo quando si era ben sicuri della presenza di tv e giornali. Muore il 18 maggio del 1988, stroncato da un tumore. Dopo sette mesi di ingiusto carcere e arresti domiciliari Enzo Tortora viene definitivamente assolto dalle accuse di associazione di stampo camorristico e traffico di stupefacenti. È il 15 settembre di trent'anni fa. Un calvario che lo segna in modo indelebile. Il 18 maggio del 1988 muore, stroncato da un tumore, conseguenza - non è arbitrario sostenerlo - anche del lungo e ingiusto calvario patito. Chi scrive fu tra i primi a denunciare che in quell'operazione che aveva portato Enzo in carcere assieme a centinaia di altre persone, c'era molto che non andava; e fin dalle prime ore. Tortora viene arrestato nel cuore della notte e trattenuto nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata. Lo fanno uscire solo quando si era ben sicuri che televisioni e giornalisti fossero accorsi per poterlo mostrare in manette. Sarebbe interessante sapere chi dà quell'ordine che porta alla prima di una infinita serie di mascalzonate. Rileggo ancora con emozione, indignazione, sgomento le lettere che Enzo mi invia dal carcere; e ancora corre un brivido lungo la schiena. Credo sia utile, necessarie, rileggerle, in giorni in cui tanti, mostrano di aver smarrito la memoria di quello che è stato.

16 settembre 1983 «Da tempo volevo dirti grazie? Hai "scommesso" su di me, subito: con una purezza e un entusiasmo civile che mi commossero immensamente. Vincerai, naturalmente, la tua "puntata". Ma a prezzo di mie sofferenze inutili e infinite. Io sono stato il primo a dire che il "caso Tortora è il caso Italia". Non intendo avere trattamenti di favore, o fruire di scorciatoie non "onorevoli"? Se dal mio male può venire un po' di bene per la muta, dolente popolazione dei 40mila sepolti vivi nei lager della democrazia, e va bene, mi consolerà questo».

2 maggio 1984 «Che si faccia strame della libertà di un uomo, della sua salute, della sua vita, come può esser sentito come offesa alla libertà, alla vita, alla salute di tutti in un Paese che non ha assolutamente il senso sacro, della propria dignità e delle libertà civili? Non è vero che l'Italia "ha abolito la pena di morte". Abbiamo un boia in esercizio quotidiano, atroce, instancabile. Ma non vogliamo vederlo. La sua scure si abbatte, ogni minuto, sul corpo di uomini e di donne, e li squarta vivi, in "attesa" di un giudizio che non arriva mai. L'uomo qui è niente, ricordatevelo. L'uomo qui può, anzi deve attendere. L'uomo qui è una "pratica" che va "evasa" con i tempi, ignobili, della crudeltà nazionale?».

15 luglio 1985 «In questa gara, tra chi pianta più in fretta i chiodi, come al luna park dell'obbrobrio giudiziario, e i pochi che si ribellano, sta tutta la mostruosa partita. Vedere a che lurido livello s'è ridotta la dignità di questo Paese è cosa che mi annienta più d'ogni altra. So che sei coi pochi. Da sempre. Te ne ringrazio, fraternamente».

7 ottobre 1985 «Sono stato condannato e processato dalla Ngo, Nuova giustizia organizzata. Io spero che questa fogna, che ormai nessun tombino può contenere, trabocchi e travolga chi lo merita?».

2 aprile 1986 «Diffamatori è poco: sapevano quel che facevano. Ma per pura voluttà scandalistica, per pura, stolida ferocia, qui si getta fango sino all'estremo. Ho paura di questi cannibali. Ho soprattutto vergogna di essere italiano?».

17 agosto 1987 «Siamo molti? Ma troppo pochi per spezzare la crosta di ottusa indifferenza che copre e fascia la rendita di alcuni farabutti mascherati da Magistrati. Tanto più importante e notevole il vostro impegno. Tenteremo, sul caso Melluso, quel che si potrà. Ho inviato al ministro Vassalli l'incredibile servizio, gli ho anche detto che i responsabili hanno nome e cognome: Felice Di Persia, Lucio Di Pietro, Giorgio Fontana, Achille Farina, Carlo Spirito? Sono ancora lì, al loro posto? Staremo a vedere?».

Manca, tuttavia, a distanza di tanti anni da quei fatti, la risposta alla quinta delle classiche domande anglosassoni che dovrebbero essere alla base di un articolo: perché? Alla ricerca di una soddisfacente risposta, si affonda in uno dei periodi più oscuri e melmosi dell'Italia di questi anni: il rapimento dell'assessore all'urbanistica della Regione Campania, il democristiano Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo.

Il cuore della vicenda è qui. Sono le 21.45 del 27 aprile 1981 quando le Brigate Rosse sequestrano Cirillo. Segue una frenetica, spasmodica trattativa condotta da esponenti politici della Dc, Cutolo, uomini dei servizi segreti per "riscattarlo". Viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova. Durante la strada parte è "stornato", non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c'è chi si prende la "stecca". A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c'è un "ritorno". Il "ritorno" si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta era costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo: sono tutti morti ammazzati, da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice che ebbe un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, «mai più ritrovato». Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli qui i termini di una questione che ancora "brucia". Cominciamo col dire che: Tortora era un uomo perbene, vittima di un mostruoso errore giudiziario. Che il suo arresto costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. «Cinico mercante di morte», lo definisce il Pubblico Ministero Diego Marmo; e aggiunge: «Più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza». Le "prove" erano la parola di Giovanni Pandico, un camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un camorrista. Pasquale Barra detto 'o nimale: in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia l'intestino? Con le loro dichiarazioni, Pandico e Barra danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti "pentiti": curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. Arriviamo ora al nostro "perché? " e al "contesto". A legare il riscatto per Cirillo raccolto ai costruttori, compensati poi con gli appalti e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, fatta anni fa, della Direzione antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati "pentiti a orologeria"; per distogliere l'attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. E' in questo contesto che nasce "il venerdì nero della camorra", che in realtà si rivelerà il "venerdì nero della giustizia": 850 mandati di cattura, e tra loro decine di arrestati colpevoli di omonimia, gli errori di persona. Nel solo processo di primo grado gli assolti sono ben 104? Documenti ufficiali, non congetture. Candidato al Parlamento europeo nelle liste radicali, eletto, chiede sia concessa l'autorizzazione a procedere, che invece all'unanimità viene negata. A questo punto, Tortora si dimette e si consegna all'autorità, finendo agli arresti domiciliari. Diventa presidente del Partito Radicale e i temi della giustizia e del carcere diventano la "sua" ossessione. Nessuno dei "pentiti" che lo accusa è chiamato a rispondere delle sue calunnie. I magistrati dell'inchiesta fanno tutti carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Un errore, ed insieme un orrore, l'affaire Tortora. Un orrore per quello che è stato, che implica, fa intuire; e definirlo un errore è forse troppo semplice, perfino assolutorio; che quella patita da Tortora è stata un'ingiustizia che, manzonianamente, poteva essere veduta da quelli stessi che la commettevano, «un trasgredir le regole ammesso anche da loro». E si torna al punto di partenza: perché è accaduto, perché si è voluto accadesse. Né si possono assolvere dicendo che non sapevano quello che facevano: se davvero non sapevano è perché decisero consapevolmente, di non sapere. Insomma, una colpa, se possibile, ancora più grave. Ora tutti riconoscono che l'intero castello accusatorio era più fragile di un castello di sabbia; e che Tortora era una persona perbene. Enzo diceva sempre che non era, il "suo" il "caso Tortora", ma "il caso Italia"; che resta, rimane, a cominciare dalla situazione delle carceri, e dall'irragionevole durata dei processi. Lo avevano ben compreso Marco Pannella, suo amico di sempre, che per lui si batte come un leone; e Leonardo Sciascia, che fin da subito si dichiara certo della sua innocenza? Sarà per questo che assistiamo a tante celebrazioni post mortem e alla memoria, molte certo in buona fede (altre se ne però lecitamente dubitare), senza che i radicali vengano mai invitati, tacitati, esclusi?

Enzo Tortora, trentatré anni fa l’arresto a “orologeria”, scrive Valter Vecellio il 16 giugno 2016 su “Il Dubbio”. Ventotto anni fa, stroncato da un tumore che forse ci sarebbe stato ugualmente, ma che certamente è esploso per via del calvario patito, Enzo Tortora ci lasciava. Tortora lo incrocio a Bologna, quando ancora pasticcio di giornalismo, e divido il mio tempo tra esami di legge e in quello che ancora oggi credo sia chiamato angòl di cretén o cantàn d’inbezéll a raccogliere firme per referendum radicali che i bolognesi sottoscrivono a migliaia, in barba al Pci di allora che li boicotta. Tra i giornali, allora come ora, Il Resto del Carlino e per un po’ Il Foglio, che non è quello di Giuliano Ferrara, ma lo sfortunato tentativo editoriale di Luigi Pedrazzi ed Ermanno Gorrieri, per rompere appunto il monopolio del Carlino; e contemporaneamente nasce Il Nuovo Quotidiano, anch’esso effimero; e diretto appunto da Tortora. Un periodo di schermaglie e polemiche, perché Il Nuovo Quotidiano è addirittura più conservatore del Carlino. Poi altre storie ed esperienze, fino al giorno dell’arresto, con quelle accuse infamanti: affiliazione alla camorra, spaccio di cocaina. Di quell’“affaire” mi sono occupato fin dal primo momento; e fin dal primo momento, senza dubbi ed esitazioni, innocentista, con pochissimi altri: Piero Angela, Giacomo Ascheri, Massimo Fini… “Affaire Tortora”, ma non solo: che in realtà si tratta di centinaia di persone arrestate (il “venerdì nero della camorra”, siamo nel giugno del 1983), per poi scoprire che sono finite in carcere per omonimia o altro tipo di “errore” facilmente rilevabile prima di commetterlo; ma no: si è voluto dare credito, senza cercare alcun tipo di riscontro, a personaggi come Giovanni Pandico, Pasquale Barra ‘o animale, Gianni Melluso. Ho visto decine e decine di volte le immagini di quel maxi-processo, per “montare” i miei servizi per il Tg2, e decine e decine di volte quella convinta requisitoria del Pubblico Ministero che a un certo punto pone una retorica domanda: «…Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, più emergevano elementi di colpevolezza?». E quali gli elementi di colpevolezza che emergevano durante il paziente lavoro di ricerca delle prove di innocenza? N-E-S-S-U-N-O. E per capirci: nessuno significa nessuno. Che fosse qualcosa di simile allo scespiriano regno di Danimarca lo si capisce fin dalle prime ore: lo arrestano nel cuore della notte, lo trattengono nel comando dei carabinieri di via Inselci a Roma, fino a tarda mattinata, lo fanno uscire solo quando sono ben sicuri che televisioni e giornalisti sono accorsi per poterlo mostrare in manette. Già quel modo di fare è sufficiente per insinuare qualche dubbio, qualche perplessità. Ancora oggi non sappiamo chi diede quell’ordine che porta alla prima di una infinita serie di mascalzonate.  E veniamo al perché tutto ciò è accaduto, si è voluto accadesse. Forse una possibile risposta sono riuscito a trovarla, e a suo tempo, sempre per il Tg2, riuscii a realizzare dei servizi che non sono mai stati smentiti, e ci riportano a uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani, e la conseguente, vera, trattativa tra Stato, terroristi e camorra di Raffaele Cutolo. Per la vita di Cirillo viene chiesto un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova, anche se durante la strada una parte viene trattenuta non si è mai ben capito da chi. Anche in situazioni come quelle c’è chi si prende la “stecca”. A quanto ammonta il riscatto? Si parla di circa cinque miliardi. Da dove viene quel denaro? Raccolto da costruttori amici. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi c’è un “ritorno”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, i colossali affari che si possono fare; la commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta è costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato, molti che potrebbero spiegare qualcosa, non sono più in condizione di farlo, sono tutti morti ammazzati: da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo, a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice, che ha un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo; e, tra gli altri, Antonio Ammaturo, il poliziotto che aveva ricostruito il caso Cirillo in un dossier spedito al Viminale, mai più ritrovato. Questo il contesto. Ma quali sono i fili che legano Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto? Ripercorriamoli. Che l’arresto di Tortora costituisca per la magistratura e il giornalismo italiano una delle pagine più nere e vergognose della loro storia, è assodato. Lo si sia fatto in buona o meno buona fede, cambia poco. Le “prove”, per esempio, erano la parola di Giovanni Pandico, camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Cutolo: lo interrogano diciotto volte, solo al quinto si ricorda che Tortora è un cumpariello; e Pasquale Barra: un tipo che in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia per sfregio l’intestino. Con le loro dichiarazioni danno il via a una valanga di altre accuse da parte di altri quindici sedicenti “pentiti”: curiosamente, si ricordano di Tortora solo dopo che la notizia del suo arresto è diffusa da televisioni e giornali. C’è poi un numero di telefono trovato in un’agendina di una convivente di un capo clan. Sotto la T, leggono Tortora; in realtà quel nome corrisponde a Tortona, riscontrarlo è facile, basta comporre il numero. Non lo fa nessuno. C’è poi un documento importante che rivela come vennero fatte le indagini, ed è nelle parole di Silvia Tortora, la figlia. Le chiedo di rispondere con un sì o con un no alle mie domande. Quando suo padre viene arrestato oltre alle dichiarazioni di Pandico e Barra c’era altro? «No». Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista? «No, mai». Intercettazioni telefoniche? «Nessuna». Ispezioni patrimoniali, bancarie? «Nessuna». Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre? «Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. E’ risultato che erano di altri». Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove? «Nessuna». Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia, con che prove? «Nessuna». Chi lo ha scritto è stato poi condannato? Qualcuno ha chiesto scusa per quello che è accaduto? «No». A legare il riscatto raccolto per Cirillo, i costruttori, compensati poi con gli appalti, e la vicenda Tortora, non è un giornalista malato di dietrologia e con galoppante fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della direzione antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Fino a quando non si decide che bisogna reagire, fare qualcosa, occorre dare un segnale. È in questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”. Nessuno dei “pentiti” che ha accusato Tortora è stato chiamato a rispondere per calunnia. I magistrati dell’inchiesta hanno fatto carriera. Solo tre o quattro giornalisti hanno chiesto scusa per le infamanti cronache scritte e pubblicate. Anni dopo il pubblico ministero accusatore di Tortora dice di aver agito in buona fede e chiede scusa. Diamo pure credito alla “buona fede”, anche se subito viene in mente quella terrificante figura di magistrato magistralmente descritta da Leonardo Sciascia in Una storia semplice; forse, quel pubblico ministero è ferrato in italiano come il magistrato di Sciascia. La questione, comunque, va ben al di là della buona fede di un singolo. Stroncato dal tumore, Enzo ha voluto essere sepolto con una copia della Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni. Sulla tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”. Sta a noi fare in modo che non lo sia.

Pezzuto: «Enzo, la condanna e quel giorno nero che non è mai finito», scrive Errico Novi il 16 set 2016 su "Il Dubbio". Parla il biografo di Tortora: «Il 17 settembre 1985 il Tribunale pronunciò la sentenza di primo grado: dieci anni di carcere. Da allora altri 25mila italiani innocenti sono finiti in galera. E a pagare sono stati, in tutto, 7 magistrati» «Quel 17 settembre nero della giustizia non finisce mai». Quel giorno di 31 anni fa il Tribunale di Napoli condannò Enzo Tortora in primo grado a dieci anni di carcere. È una data che fa parte di una tragica cronologia cabalistica ricostruita dal giornalista Vittorio Pezzuto nel suo Applausi e sputi, per diversi anni l'unico libro ad aver esplorato la mostruosa vicenda giudiziaria che travolse il presentatore».

Pezzuto, perché l'ingiustizia di quel giorno non è mai finita?

«Dal '92 a oggi si sono contati altri 25mila casi Tortora: è il numero dei cittadini innocenti sbattuti in carcere, per i quali hanno pagato solo sette magistrati, quelli per i quali si sono chiuse azioni di responsabilità civile. Vicende come quella di Tortora si verificano ancora e nel frattempo si è ridotta di molto la cultura garantista».

Davvero quel processo non ha cambiato nulla nella giustizia italiana?

«Se qualcosa è cambiato, rispetto all'idea di giustizia prevalente nel Paese, è cambiato in peggio. Davvero possiamo dire che la maggioranza degli italiani crede nella presunzione di non colpevolezza? Non scherziamo. Oggi l'opinione pubblica che finge di commuoversi per la vicenda Tortora considera sicuro colpevole chi ha ricevuto un avviso di garanzia. Ed è evidente come riflessi di questo atteggiamento si irradino anche sulle scelte normative».

A cosa si riferisce?

«Al fatto che chi mormora 'ah, povero Tortora' spesso poi approva l'ipotesi di allungare i tempi della prescrizione. Senza rendersi conto che così facendo si condannerebbero decine di migliaia di imputati a una sorta di limbo giudiziario in cui dopo un eventuale condanna in primo grado devi aspettare anni prima di una sentenza definitiva».

Probabilmente nemmeno all'epoca delle deliranti tesi accusatorie contro Tortora c'era il furore giustizialista di oggi.

«Tortora condannato in primo grado per associazione mafiosa e spaccio di droga oggi sarebbe massacrato sul web con decine di migliaia di insulti e con decine di articoli che istigherebbero a insultare ancora».

Perché i pentiti scelsero Tortora?

«A dare l'innesco è una scintilla di follia. I primi due camorristi a fare il nome di Tortora sono Pasquale Barra e Giovanni Pandico, entrambi noti per gli impressionanti risultati delle perizie psichiatriche effettuate a loro carico. Il primo aveva addentato le viscere ancora calde del boss milanese Francis Turatello dopo averlo ucciso, il secondo aveva ammazzato tre impiegati del comune di Nola perché tardavano a rilasciargli un certificato. Entrambi fanno il nome di Tortora come affiliato alla Nuova camorra, ma collocandolo nelle retrovie».

Da lì l'ordine di arresto.

«Quella è la parte della mostruosa vicenda che ancora può essere rubricata come clamoroso errore professionale e non, come è invece doveroso per le fasi successive, sotto la voce dolo e colpa grave. Il punto di svolta è nella cosiddetta prova, il numero telefonico di Tortora trovato nell'agendina di un camorrista ucciso, Salvatore Puca. Si scopre che era di un certo Enzo Tortona. È lì che Tortora commenta: non sono vittima di un errore giudiziario, sono un refuso».

Sarebbe dovuta finire lì.

«Il presidente del Tribunale prova a non arrendersi all'evidenza. A questo Tortona, che è in Aula, dice: 'E dov'è la prova che il numero appartiene proprio a lei? '. E quello risponde: 'Facite 'o nummero... '. Gli inquirenti nemmeno avevano verificato con una semplice telefonata se davvero quell'utenza fosse di Tortora».

Da lì si scivola nel dolo.

«Da lì inizia il il tiro a Tortora, agevolato da alcuni, diciamo così, accorgimenti. Diversi camorristi si rendono conto che chiamare in causa il presentatore significa essere trasferiti dal carcere alla caserma Pastrengo di Napoli, dove si può avere vitto migliore, donnine compiacenti, e la sera ci si può riunire per meglio concordare le dichiarazioni da rendere al processo».

Che si chiude appunto con una sentenza di condanna pronunciata il 17 settembre 1985.

«La tesi accusatoria accolta dal Tribunale ha un carattere quantitativo: ci si richiama non alla consistenza delle accuse ma al numero di persone da cui le accuse provengono. Che è appunto elevatissimo. Quella data, quel numero non irrilevante nella smorfia napoletana, il 17, non risuonò solo alla condanna di primo grado».

A cosa si riferisce?

«Il 17 è la data che ha segnato le tappe più importanti di quella che in Applausi e sputi definisco la seconda vita di Enzo Tortora. Il 17 giugno 1983 c'è l'arresto. Il 17 gennaio 1984 la concessione molto faticosa e a lungo ostacolata degli arresti domiciliari. Il 17 giugno 1984 l'elezione al Parlamento europeo con il Partito radicale. Il 17 luglio 1984 il deposito dell'ordinanza di rinvio a giudizio. Fino appunto alla condanna in primo grado, emessa alle ore 17 del 17 settembre 1985».

Perché i giudici non si fermarono?

«Perché Tortora era diventato il simbolo del maxiblitz contro la Nco, e il sacco delle accuse che ogni volta veniva svuotato dai suoi avvocati doveva essere necessariamente riempito con nuove incredibili altre accuse. Se cadeva l'imputazione contro Tortora crollava tutta l'impalcatura processuale».

E perché la sua posizione divenne così determinante?

«Nello stesso giorno in cui arrestarono Tortora finirono in manette 856 persone. Di queste, 117 finirono dentro per omonimia. L'impalcatura scricchiolava fin dall'inizio, tanto che alla fine dei tre gradi di giudizio gran parte degli imputati venne riconosciuta innocente. I magistrati si resero conto presto che l'unica era puntare tutto sul clamore assicurato dalle accuse a Tortora».

Pensa ci sia chi crede in quelle accuse ancora oggi?

«No. Il caso Tortora serve oggi ad alcuni come pretesto per dire che quella vicenda è stata unica e irripetibile. E per negare così la verità: ovvero che continua a esserci strage di giustizia e ancora nuovi Enzo Tortora».

E l’accusatore di Tortora disse: anche il Califfo è un camorrista, scrive Valter Vecellio il 2 agosto 2016 su "Il Duggio”. Una villetta a Primavalle a Roma, lui in giardino passeggia e gesticola. Parla a un telefono cellulare, con la mano fa cenno di entrare… Con qualcuno parla di canzoni, di un disco da fare, di come farlo; e intanto fa cenno di entrare in casa. C’è un salone, divani immacolati, poltrone, su un lungo tavolo riviste, giornali; alle pareti quadri astratti, dischi d’oro incorniciati, fotografie in abbondanza, piante ben curate. «Scusate, ma era una telefonata di lavoro, bisogna pur campare, non si vive d’aria…». Indica il cellulare, e ride: «Pensa che coglioni. Sono agli arresti domiciliari, e va bene; non posso uscire, al massimo passeggio in giardino, e va bene; una volta al giorno passa la polizia per un controllo, sempre alla stessa ora. Mi hanno disattivato il telefono, perché non devo avere contatti con l’esterno, vai a capire che pericolo pensano sia, e va bene anche questo. E poi mi lasciano il cellulare? ». Eccolo, Franco Califano. Fino a qualche mese fa, solo un cantante e a volte un attore con qualche disavventura giudiziaria, anche il carcere, per uscirne comunque sempre assolto, pulito. Alla radio ascolti le sue canzoni, sui giornali dei suoi tanti amori… Poi arriva uno che dice di essere un pentito di camorra, che lo accusa di essere un “cumpariello”. Lo arrestano, un filone della stessa mega-inchiesta napoletana definita “il venerdì nero della camorra”, che ha già portato in carcere Enzo Tortora, e con lui centinaia di altre persone (tantissime poi dichiarate innocenti, arrestati per omonimia o assolti per non aver commesso il fatto imputato). Quando è in carcere, prima a Poggioreale a Napoli, poi a Rebibbia a Roma, gli scrivo per capire meglio in che pasticcio si è venuto a trovare. In quelle lettere si sfoga con amara ironia; a volte inveisce, e puntiglioso spiega che sì, in passato ha consumato cocaina, non l’ha mai nascosto; non ha neppure ha mai nascosto la sua amicizia con il gangster milanese Francis Turatello, ma che con la camorra non ha niente a che fare… «Vuoi bere qualcosa?». Coca Cola. «Astemio?». Birra e pochissimo vino, balbetto. «E allora meglio la birra; che poi la Coca Cola non ce l’ho neppure…Io mi faccio un caffè, stanotte voglio lavorare sui testi di alcune canzoni». Lo osservo mentre traffica in cucina con la moka, spiega che è sua madre ad avergli insegnato come farlo. La madre che lo ha fatto nascere per caso a Tripoli di Libia: incinta, era partita da Johannesburg per Roma, «ma le acque si sono rotte prima, atterraggio d’emergenza, così nasco a Tripoli. Ma a me della Libia non me ne importa nulla». Mi blocco: stavo per dirgli che anch’io faccio parte dei “tripolini”. Parla come se ci si conosca da sempre; al contrario, è la prima volta che ci si vede: «Sai, non sono tanti ad aver avuto il coraggio di difendermi, non sono cose che si dimenticano…». Ti sei fatta un’idea di come sei finito in questo tritacarne? «Secondo me hanno fatto una specie di cambio: hanno cominciato con Tortora, però più andavano avanti, più si infognavano, si rendevano conto che il teorema non reggeva, e allora mettono in mezzo me. Come colpevole sono molto più credibile. Altrimenti non si spiega perché vengo arrestato dopo un anno dall’apertura dell’istruttoria. Ma ti pare che questi pentiti si ricordano di me dopo un anno? Ahò, non sono mica Mario Rossi… Franco Califano camorrista te lo ricordi dopo un anno, e non lo dici subito? Dopo un anno mi hanno tirato in ballo…». Mentre parla, penso che c’è una logica: il Tortora alle vette del suo successo professionale, ascolti record con il suo Portobello, è l’immagine dell’Italia “buona” e “per bene”, “l’insospettabile”; e c’è chi comincia a chiedersi con troppa insistenza che Tortora non sia il “mostro” che si dice sia. In tanti cominciano a domandarsi perplessi: «E se fosse innocente?». Così entra in scena “il Califfo”: lui ha quella che si dice la faccia del colpevole; lui sì, in quel giro di “cumparielli” ci può stare; Califano insomma può rendere credibile il teorema che comincia a traballare. Fantasie da inguaribile sospettoso che non si fida neppure della sua ombra e ogni volta che un magistrato o un poliziotto ti fa un “favore” si chiede: qual è il suo guadagno? Chissà. Restiamo ai fatti…L’imputazione è grave: associazione per delinquere di stampo camorristico, traffico di droga; già che ci sono ci mettono anche detenzione di armi. Ride amaro: «Mi trovo dichiarato camorrista da un giorno all’altro. Una follia. Non conosco nessuno dei miei coimputati o accusatori. Ho fatto spettacoli ovunque, non posso escludere di averne fatto uno anche per dei camorristi. Vai a capire con quali prestanome, magari in qualche locale di proprietà di camorristi, ma come pensi che lo possa sapere? Io bado soltanto ai contratti, ai soldi, e canto». Che mi dici delle accuse di Gianni Melluso che dopo aver calunniato Tortora racconta di vostri mirabolanti incontri… «Questo Melluso che mi accusa l’ho visto per la prima volta quando hanno organizzato un confronto. Io lo guardo e dico: “Ma chi è questo, che vuole?”, e lui: “Franchino, dì la verità, che è meglio…”. Franchino a me… Dice di avermi consegnato non so quanti chili di “roba” a casa mia, a corso Francia, nel sottoscala del numero 84. Io a corso Francia non ci ho mai abitato, e all’84 non esiste alcun sottoscala. Ma vuoi fare una verifica, prima di mettere uno in galera? Vuoi vedere le carte? Tre pagine di istruttoria, che non stanno né in cielo né in terra. Almeno a Tortora hanno riservato centocinquanta pagine…». Non avertene a male, l’hai detto anche tu: come colpevole di queste cose ci stai tutto: amico di Turatello…la droga che non hai mai negato di aver usato, i precedenti arresti… «I precedenti arresti si sono conclusi con proscioglimenti. La cocaina l’ho usata. Ma farsi di cocaina non significa spacciarla, significa che parte dei miei soldi li ho buttati via in quel modo lì, come tanti altri li ho usato per beneficenza; chiedi alla gente di questa borgata, che mi vuole bene e te lo può raccontare. Di Turatello e della nostra amicizia si sa tutto da sempre, sai certo che suo figlio l’ho messo nella copertina di un mio disco, “Tutto il resto è noia”». Come nasce questa tua amicizia con Turatello? «A Milano. Ero stato in carcere, mi ero comportato da uomo, senza rompe li cojoni, non mi lamentavo. Mi stimava per questo, diventiamo amici. Voleva aprire una società di produzione cinematografica intestata proprio al figlio e a me, ma poi morì e nun se ne fece nulla. Lo sai, vero, chi ha ucciso Turatello in carcere?». Pasquale Barra, detto ‘o animale. Per sfregio gli ha addentato le viscere… «Quello era un camorrista. E ti pare che io posso essere affiliato personaggi come quella bestia?». Dillo ai magistrati, non a me… «Uno schifo di paese, quello in cui ti puoi trovare in queste macellerie… Davvero è incredibile che possano aver creduto a uno come Melluso». E in carcere? «Se non dai fastidio, ti lasciano in pace. Vivi e lascia vivere. Poi certo, io sono sempre “il Califfo”…». C’è chi ne è uscito schiantato: Lelio Luttazzi, hai voglia a dirgli dopo che ci si è sbagliati, intanto il mondo ti crolla addosso… «Ognuno reagisce a modo suo. Io la mia rabbia e la mia amarezza l’ho trasferita in alcune canzoni per un nuovo disco, si intitola “Impronte digitali”». Prende la chitarra, la voce è quella roca di sempre, impasto di whisky e mille sigarette fumate; canta e strimpella: «Impronte digitali sulla stessa carta. / E il cuore ricucito un po’ così così, trapasso quella porta. / M’hanno stracciato i pensieri. / Non certo uomini seri. / Sono solo da tempo e la mia vita mi costa tanto. / Ma non rallento il passo, continuo la salita. /Vedo innocenze ferite con le lacrime agli occhi. / Che tristezza la vita. /Io cerco amore da sempre, vendo solo canzoni. / Non spaccio altro e in ciò che vendo non trovi che emozioni / difficile spiegare che sei uno pulito / quelli che non sanno bene come hai sempre vissuto / se la legano al dito. / Il cuore mio sta pagando chi l’ha colpito nell’ombra. / Vorrei portarlo più in alto / e certe leggi sbagliate scavalcare in un salto. / Io volto pagina e cammino. / E anche se alle volte sono andato contromano. / Non ho ferito mai nessuno. / Voglio anch’io una donna che mi sappia amare / e con i miei amici andare a farmi un avvenire. / Io volto pagina e cammino. / Cosa devo fare non vedere più nessuno / andare sempre più lontano. / Sono ancora solo con il mio destino / vado sempre dritto / ma questo sembra sia un delitto. / Impronte digitali, foto contro il muro. / Un numero sul petto ed i colori addio, diventa tutto nero. / Quando comincia è finita, si paga tutta la vita. / Sei in alto mare e non hai niente nemmeno un salvagente. / Io volto pagina e cammino / e anche se alle volte sono andato contromano / non ho ferito mai nessuno. / Voglio anch’io una donna che mi sappia amare / e con i miei amici andare a farmi un avvenire. / Io volto pagina e cammino. / Cosa devo fare non vedere più nessuno / Andare sempre più lontano / sono ancora solo con il mio destino. / Vado sempre dritto / Ma questo sembra sia un delitto…». Quando finalmente si celebra il processo, come Tortora, come tanti altri, anche Califano viene assolto: si riconosce che è assolutamente estraneo ai fatti che gli sono stati addebitati. Esce a testa alta dal carcere, è vero. Il problema è che ci entri a testa bassa, e passano settimane, mesi, prima che riconoscano di essersi sbagliati… E dopo averlo fatto, come il magistrato di Detenuto in attesa di giudizio, il vecchio film di Nanni Loy con Alberto Sordi, ti guardano aspettandosi che gli dici «grazie». Grazie per aver riconosciuto che si sono sbagliati…Finora mi sono limitato a trascrivere “in bella” frettolosi appunti presi su taccuini ingialliti dal tempo. Il ricordo però è ben vivo. Fummo davvero in pochi, all’epoca, a osservare che anche per quel che riguardava “il Califfo” i conti non tornavano. Il primo è Gino Paoli: scrive un accorato appello al presidente della Repubblica, per richiamare l’attenzione su Califano, detenuto da mesi, e malato. Scrivo i primi articoli nei quali esprimo qualche dubbio, qualche perplessità; convinco un deputato del Partito Radicale ad accompagnarmi nel carcere di Rebibbia in visita. La consegna, ferrea, è guardare, ma non parlare con nessuno. L’unica cosa che si può fare è lasciare un recapito per chi eventualmente ci vuole scrivere. Qualche giorno dopo arriva una lettera di Califano: «Sono frastornato e distrutto, perché un uomo non è un diamante, non ha il dovere di essere infrangibile… Ho in testa brutte cose…venitemi a salvare, sono innocente, e non è giusto che muoia, che mi spenga così…». Califano racconta che le accuse vengono soprattutto da due “pentiti”, Pasquale D’Amico e Melluso. D’Amico poi ritratta. Melluso rincara le accuse. Una fantasia galoppante: Califano, in compagnia di camorristi avrebbe effettuato un viaggio da Castellammare fino al casello di Napoli, a bordo di una Citroen, ma forse era una Maserati, comunque era di sua proprietà. Peccato che Califano in vita sua non abbia mai avuto una Citroen, e neppure una Maserati. Per accertarlo non bisogna essere Sherlock Holmes o Hercule Poirot, ma nessuno si prende la briga di farlo. Queste le indagini; per come state condotte non poteva che finire in una assoluzione piena: per Tortora, per Califano, per tanti altri. Ma a prezzo di sofferenze indicibili e irrisarcibili. Furono pochi a vedere per tempo quello che poteva essere visto da tutti; magra consolazione aver fatto parte di quei “pochi”.

Il Pm accusatore di Tortora perseguita un altro innocente, scrive Errico Novi il 5 ago 2016 su “Il Dubbio”. È il 25 febbraio dell'anno scorso. «Sono innocente signor giudice, sono finito in un incubo da quattro anni, mi accusano di spaccio di droga ma io non ho mai commesso un reato, tutto per l'assurda interpretazione data ad alcune cose che ho detto al telefono». Francesco Raiola quel giorno ha 34 anni. È nel tunnel dal 21 settembre 2011, giorno dell'arresto per spaccio di droga. Parla con passione, si difende davanti al gup di Nocera Inferiore senza che i suoi avvocati aprano bocca. Dice una cosa forse decisiva nell'indurre il magistrato a credergli: «Finalmente ho l'onore di parlare con un giudice che abbia effettiva competenza sul mio caso». Fino a quel momento coincidenze, carambole e difetti di giurisdizione lo hanno trascinato in una gimkana di sostituti e interrogatori a vuoto. Alla fine dell'esame in udienza Francesco legge negli occhi del gup e dei cancellieri «il rammarico di chi crede alla mia innocenza e vede la tortura che ho passato». L'avvocato Andrea Castaldo lo guarda e gli dice: «Come hai fatto a non piangere?». Non lo sa nemmeno lui. Verrà prosciolto a poco più di un mese di distanza «perché il fatto non sussiste». «Le mie parole hanno suscitato l'attenzione del giudice, quel mio incipit gli ha spalancato gli occhi». Peccato non sia avvenuto lo stesso quattro anni prima, con la Procura di Torre Annunziata. Da lì è partita l'indagine, operazione su un traffico di stupefacenti denominata "Alieno". Al vertice dell'ufficio inquirente di Torre Annunziata non c'è un magistrato qualsiasi: il procuratore della Repubblica è Diego Marmo. Sì, proprio lui, l'accusatore di Tortora. La toga che diede a Enzo del «cinico mercante di morte». E che trent'anni dopo si sarebbe cosparso il capo di cenere in un'intervista a Francesco Lo Dico sul Garantista: «Chiedo scusa ai familiari di Tortora», disse. Tre anni prima di quell'ammissione Marmo non si era accorto del caso di Francesco Raiola. Da capo della Procura di Torre Annunziata non si era reso conto che nelle maglie dell'indagine affidata ai suoi sostituti era finito anche questo caporal maggiore dell'esercito, allora 30enne, originario di Scafati, provincia di Salerno, e di stanza a Barletta. Una ragazzo di valore: due missioni in Kossovo, una in Afghanistan con l'82esimo reggimento fanteria. Pilota di mezzi corazzati e, quando ancora non aveva ottenuto l'arruolamento definitivo nelle forze armate, già esperto nella guida dei carrarmati di ultima generazione. Prima della folle vicenda giudiziaria Francesco seguiva la specializzazione per i Vbm, i mezzi per i quali la Difesa aveva speso decine di milioni di euro e che si era deciso di sperimentare proprio nell'area di crisi afghana. Un uomo forte, integro, con la passione per la vita militare, accusato - forse giustamente in questo caso - dalla moglie di «aver sacrificato troppo per le forze armate», tanto da rinviare tre volte la data delle nozze pur di rispondere alla chiamata per le missioni. Tutto precipita per una telefonata in cui Francesco parla di televisioni. «Allora non preoccuparti, te la porto io in caserma, la prendo dalle mie parti». Si tratta di una tv full hd che Filippo, l'interlocutore, commilitone della stessa caserma a Barletta, non troverebbe dalle sue parti. Non a un prezzo competitivo: ad Altamura non ci sono grossi centri commerciali. A Scafati sì e si risparmia. Ma invece che di hi-tech, i carabinieri incaricati dalla Procura di Torre pensano che Francesco parli di carichi di droga. E che faccia da intermediario con i trafficanti campani finiti nell'inchiesta per portare grosse quantità di stupefacenti in Puglia, dove svolge l'attività di militare. In una delle conversazioni il caporal maggiore parla di una «partita». È quella che l'amico vorrebbe vedere su uno schermo piatto con inserimento diretto della scheda pay tv. I carabinieri che trascrivono i brogliacci pensano che la «partita» sia una partita di droga: cocaina e marijuana. Ci sarebbe da ridere se non fosse una tragedia. Arriva l'alba del 21 settembre, l'arresto per spaccio. Francesco viene prelevato a Barletta, direttamente in caserma. Tre settimane in carcere a Santa Maria Capua Vetere, in isolamento, poi gli arresti domiciliari, revocati dal gip di Napoli oltre quattro mesi dopo. L'avvocato Guido Sciacca comincia ad andare in processione periodica dal pm di Torre a cui Marmo ha chiesto di condurre le indagini. L'errore è chiaro. Le certezze del magistrato trascolorano in dubbi. Ma né lui né il suo capo, Diego Marmo, hanno il coraggio di confutare il teorema dei carabinieri. Ci vorrà un'istanza per incompetenza territoriale e il passaggio del procedimento al Tribunale di Nocera Inferiore. C'è un'altra Procura, un altro gup. In mezzo anche molti rinvii, perché l'inchiesta è grossa, 73 indagati, una sessantina di misure cautelari, e la Dia di Salerno chiede gli atti. Francesco è - parole sue - «in un tritacarne che non finisce mai». Fino a quella mattina davanti al giudice per l'udienza preliminare di Nocera, «allo sfogo in cui ho tirato fuori tutto, anni di sofferenze». Pochi giorni dopo l'udienza e prima della sentenza di proscioglimento, al militare di Scafati viene diagnosticato un melanoma. Operazione d'urgenza al Pascale, mesi con l'incubo delle metastasi. Che per fortuna non ci sono, ma intanto Francesco neppure pensa più alla fine dell'incubo giudiziario, non si scrolla di dosso l'angoscia per la malattia. La moglie, i due figli piccoli, il padre in questi mesi riescono a scuoterlo. A spingerlo ad occuparsi delle istanze per essere reintegrato nell'esercito, che avranno esito forse in autunno. «Sono stati più di cinque anni, cominciati prima dell'arresto, con appostamenti, perquisizioni improvvise, che nemmeno capivo da dove venissero: andavo a comprare giubbotti al mercatino di via Irno, a Salerno, e le gazzelle mi fermavano armi in pugno, con i carabinieri convinti che dentro la borsa nascondessi chili di droga». Verifiche andate tutte a vuoto: neppure questo ha scalfito l'atarassia dei pm e del loro capo Marmo, contagiati da un'ostinazione che ricorda purtroppo quella terribile sfoderata dallo stesso magistrato trent'anni prima contro Enzo Tortora. Il Tribunale di Nocera ha riconosciuto 41mila euro d'indennizzo per errore giudiziario, «ma io ne ho spesi 32mila per gli avvocati e il resto». Il vicepresidente del Copasir Peppe Esposito, senatore campano di lungo corso, ha presentato un'interrogazione ai ministri della Giustizia e della Difesa, oltre che a Renzi. Francesco Raiola, soldato, marito, padre, e uomo ancora in piedi dopo il calvario dice di credere ancora nella giustizia: «Perché ho trovato magistrati che mi hanno ascoltato, creduto e si sono messi a cercare nelle carte riscontri della mia innocenza che io non avevo tirato fuori. Agli innocenti come me dico di non mollare». Altri magistrati sono distratti. Qualcuno che se ne accorge, corregge e fa giustizia, prima o poi arriva.

Enzo Tortora. Errore giudiziario epocale. Fu accusato di gravi reati, ai quali in seguito risultò totalmente estraneo, sulla base di accuse formulate da soggetti provenienti da contesti criminali; fu per questo arrestato e imputato di associazione camorristica e traffico di droga. Dopo 7 mesi di reclusione la sua innocenza fu dimostrata e riconosciuta e venne infine definitivamente assolto. Durante questo periodo, Tortora fu eletto eurodeputato per il Partito Radicale, di cui divenne anche presidente. Tortora morì poco dopo la sentenza che metteva fine al suo calvario.

Lo sfregio dell'ex pm Grasso: negato il Senato per Tortora. Il presidente vieta l'incontro: fuori da fini istituzionali Poi tira fuori la par condicio: la compagna di Tortora è candidata, scrive Patricia Tagliaferri, Sabato, 18/06/2016, su "Il Giornale". La vicenda del protagonista di uno degli errori giudiziari più clamorosi della nostra storia, di un uomo che ha saputo trasformare la sua sofferenza di innocente stritolato da una giustizia ferma al Medioevo e dall'assenza di diritto in una battaglia per una giustizia giusta, «non è collegata alle finalità istituzionali del Senato». Almeno non è lo per chi, da quando non è più magistrato, il Senato lo presiede, Pietro Grasso, il quale non ha concesso alla compagna di Tortora, Francesca Scopelliti, una delle sale di Palazzo Madama per presentare «Lettere a Francesca», il libro che raccoglie una selezione delle struggenti missive scritte in carcere dal conduttore Tv ammanettato nel giugno del 1983 e divenute ora testimonianza della battaglia politica che Tortora ha combattuto fino all'ultimo insieme al partito Radicale per l'affermazione della responsabilità civile dei magistrati, della terzietà del giudice e della separazione delle carriere. A 33 anni dal suo arresto sulla base di false accuse per associazione camorristica e spaccio di droga, Tortora fa ancora discutere. La polemica la solleva la stessa Scopelliti presentando il libro insieme al presidente dell'Unione delle Camere penali, Beniamino Migliucci. Presentazione che dopo l'illustre «sfratto» è avvenuta al Tempio di Adriano, con Emma Bonino e Giuliano Ferrara. È lei a raccontare che l'incontro si sarebbe dovuto tenere nel Palazzo della Minerva, nella biblioteca del Senato, sede che aveva chiesto come ex senatrice e che le era stata concessa, tanto che erano già partiti i primi inviti con quell'indicazione. Mancava solo il sigillo della presidenza. Ma gli uffici di Grasso hanno detto no, anche se ora corrono ai ripari ponendo una questione di par condicio: per il portavoce del presidente la sala è stata negata perché la Scopelliti è candidata al consiglio comunale di Milano e l'evento di ieri era troppo a ridosso del ballottaggio. È del 7 giugno la lettera in cui la coordinatrice della segreteria del presidente Grasso scrive che «la presentazione del libro non è collegata alle finalità istituzionali del Senato». La Scopelliti legge e non riesce a credere che esuli dalle finalità del Senato il racconto di un uomo che ha trasformato l'infamia subita in una battaglia non tanto per dimostrare la sua innocenza ma per parlare del «caso Italia». Un paese dove, come scriveva Tortora, «solo i bimbi, i pazzi e i magistrati non rispondono dei loro crimini» e dove un uomo onesto può diventare «bersaglio» della «miserabile vanità di due Autorevoli che non possono per definizione sbagliare». La risposta della Scopelliti arriva il 16 giugno. In essa elenca i motivi per i quali le lettere avrebbero dovuto avere la giusta attenzione del Senato. «Il libro - spiega a Grasso - parla di un uomo perbene, accusato da alcuni magistrati per male che nonostante questo hanno fatto carriera, denuncia il nostro sistema penale che abbisogna di una riforma non più rinviabile proprio perché non ci siano più innocenti in carcere e il nostro sistema carcerario più volte denunciato dall'Europa». La compagna di Tortora si chiede se tutto questo possa non rispecchiare le finalità istituzionali del Senato. «Spero che la decisione - gli dice - non sia stata dettata più dal suo passato di magistrato che dalla sua attuale veste di seconda carica del Paese». Nel motivare la sua assenza alla presentazione del libro il senatore Giorgio Napolitano parla del caso Tortora come «esemplare di indagini e sanzioni penali non fondate su basi probatorie adeguate né rispettose d garanzie basilari della libertà e dei diritti delle persone». «Problemi di sistema ancora aperti», ammette.

L'Italia umilia ancora Enzo Tortora: sfregio al Senato, scatta la denuncia, scrive di Roberta Catania il 18 giugno 2016 su “Libero Quotidiano”. L'ex procuratore Piero Grasso, nella veste di presidente del Senato, ha valutato il caso di Enzo Tortora «scollegato da finalità istituzionali» e ha negato al comitato organizzativo un'aula di Palazzo Madama per la presentazione di un libro sul presentatore televisivo vittima della magistratura. La vicenda che 33 anni fa portò in carcere il presentatore di Portobello è stata ripercorsa in un volume in cui la sua compagna dell'epoca, Francesca Scopelliti, ha dato voce a Enzo, rendendo note 45 lettere che Tortora le scrisse dal carcere. Missive «spietate», in cui il giornalista scriveva degli inquirenti: «Solo tre categorie di persone (ho scoperto) non rispondono dei loro crimini: i bambini, i pazzi e i magistrati». Dalle lettere viene fuori la rabbia per essere stato tradito dal suo Paese, dagli amici, dai colleghi: «Sto pensando di chiedere il cambio di cittadinanza. Questo Paese non è più il mio», e ancora: «Non mi parlare della Rai, della stampa, del giornalismo italiano. È merda pura». I 33 anni dall' arresto ricorrevano ieri e per allora era stata fissata la presentazione del libro Lettere a Francesca, ma Grasso ha negato il consenso. Eppure il suo via libera avrebbe dovuto essere un semplice proforma. «Tutti gli uffici mi avevano dato la disponibilità», racconta a Libero la Scopelliti, che aggiunge: «Sembrava cosa fatta, tanto che avevo già fatto preparare gli inviti con il logo del Senato. Oltretutto mi avevano concesso l'aula a titolo gratuito per "l'iniziativa meritevole", ma all' ultimo è arrivata la comunicazione del presidente Grasso che bloccava tutto». La presentazione c' è stata comunque, ma altrove: al Tempio di Adriano, nella centralissima piazza di Pietra, dove sono intervenuti - tra gli altri- Giuliano Ferrara e Emma Bonino. La vedova di Tortora non ha però rinunciato, con la stessa schiettezza dell'ex compagno, a rispondere alla lettera con cui Gabriella Persi, la segretaria del presidente del Senato, informava del diniego di Grasso a offrire il palazzo istituzionale come teatro della presentazione. «Il libro denuncia il nostro sistema penale», aveva quindi replicato la Scopelliti, «che abbisogna di una riforma non più rinviabile proprio perché non ci siano più innocenti in carcere, cosa che invece accade ancora. Così come denuncia il nostro sistema carcerario più volte e aspramente denunciato dall' Europa perché non corrispondente ai parametri di civiltà e di rispetto dell'uomo. Il libro parla di un uomo che, a dispetto di chi lo voleva vittima, si è fatto protagonista di una nobile battaglia per la giustizia diventando così un grande leader politico, in Italia e in Europa. Se tutti questi argomenti», ha concluso la donna, «non rispecchiano «le finalità istituzionali del Senato», allora mi deve spiegare quali sono e come giustifica tante altre iniziative che hanno invece ottenuto il «sigillo» senatoriale. Naturalmente rispetto la decisione del Presidente del Senato ma - mi si perdonerà la franchezza - spero non sia stata dettata più dal suo passato di magistrato che dalla attuale veste di seconda carica istituzionale del Paese. Sarebbe un'ulteriore ferita per Enzo Tortora. Una lesione per le nostre povere istituzioni. Un affronto». A cose fatte, la Scopelliti ha scoperto che come ex segretario del Senato avrebbe avuto diritto a fare la presentazione a Palazzo Madama, ma «alla fine sono stata felice di essere stata accolta nel Tempio di Adriano, che fu un grande imperatore».

Caso Tortora trent'anni dopo, Di Persia: “Nessun errore giudiziario”. "Se Marmo è convinto del suo pentimento deve autocancellarsi dalla vita sociale", scrive “Il Velino”. “Vuole sapere cosa penso del caso Tortora? Si legga Il Mattino di mercoledì 8 giugno 1988 quando fui costretto a difendermi in sede disciplinare e dissi Ministro anch’io sono innocente”. A primo impatto risponde così in esclusiva al VELINO Felice Di Persia il magistrato che con Lucio Di Pietro fu titolare dell’inchiesta che mise alla sbarra Enzo Tortora, il popolare conduttore televisivo. Un caso giudiziario che ancora scotta e fa discutere soprattutto alla luce delle dichiarazioni di questi giorni rilasciate al Garantista da colui che sostenne l’accusa in aula contro Tortora, Diego Marmo, oggi nominato tra le polemiche assessore alla Legalità del Comune di Pompei. Ha fatto le sue scusa per aver chiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato. Da anni di Pietro e Di Persia non parlano di quel capitolo della loro storia professionale. Di Persia, contattato dal VELINO ribadisce: “Ci vogliono ore per affrontare il caso Tortora”. Dopo lunghe insistenze Di Persia commenta però le recenti dichiarazioni di Marmo. “Non ho letto quello che ha detto con precisione, ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti (compagna di Tortora, ndr) a dire che si è pentito con trent’anni di ritardo e fa bene a chiedere scusa perché un magistrato non può mai scomporsi, tanto meno in aula. Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna, doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve auto cancellarsi dalla vita sociale. Tra l’altro avrebbe dovuto chiedere scusa anche ai circa 130 imputati del cosiddetto troncone Tortora, assolti con il presentatore". "Di quei 130 liberati, a differenza di Tortora morto in condizioni così tragiche, un numero imponente venne successivamente ammazzato in conflitti a fuoco tra clan di camorra, altri addirittura si pentirono tutti offrendo la prova ulteriore della correttezza della nostra indagine istruttoria che portò alla condanna di ben 480 imputati. Tortora fu assolto - continua Di Persia - e rispetto il dispositivo di quella sentenza perché nella dialettica processuale non ritennero le prove raccolte idonee a una condanna: questo fa parte della fisiologia del processo. Dunque non ci furono errori giudiziari di magistrati che con la loro carriera quarantennale hanno onorato la magistratura”. Di Persia aggiunge: “Nel processo Tortora, Marmo c’entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell’accusa”. L’ex titolare dell’inchiesta non vuole dilungarsi e conclude: “A quanto pare Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana. In questo caso, come fanno i pentiti, dia riscontri chiari alle sue tesi. Perché ha chiesto la condanna di Tortora? Spero lo faccia, ma non rifugiandosi però nel nome di qualcuno che non può smentirlo perché morto”.

Di Persia, un’occasione persa per tacere, scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. Anche lui da molti anni non parlava della condanna inflitta a Enzo Tortora. E che Felice Di Persia abbia voluto rompere il lungo riserbo sulla vicenda, è un dato che andrebbe accolto con favore. Non fosse che l’intervista rilasciata al Velino è un’occasione perduta. Allora titolare, insieme con Lucio Di Pietro, dell’inchiesta che portò Tortora alla sbarra, Di Persia avrebbe potuto fare ammenda per un’inchiesta che portò al più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana. Ferma la buona fede, la toga avrebbe potuto chiarire anche lui perché senza prove di bonifici, controlli bancari, pedinamenti e intercettazioni montò un castello di carte che fece finire in gattabuia il presentatore di Portobello sulla base delle dichiarazioni di pentiti farlocchi che sono costate la vita, a detta di Francesca Scopelliti, ma senza lo stupore di nessuno, a quel galantuomo di Enzo Tortora. Ma l’unico pentito verso il quale l’ex magistrato sembra puntare il dito è invece Diego Marmo. «Ho saputo che si è pentito: di cosa? Di aver apostrofato Tortora in aula come mercante di morte? Allora ha ragione la signora Scopelliti a dire che si è pentito con trent’anni di ritardo», chiosa Di Persia.  Ma nell’intervista che l’ex procuratore di Torre Annunziata ha dato al Garantista, è palese che sono solo ed esclusivamente le scuse ad essere arrivate in ritardo di trent’anni. “Il rammarico – ha spiegato l’ex pm al nostro giornale – c’era da tempo”.  Lucio Di Persia, però, concede a Marmo il lusso di una seconda ipotesi accusatoria. «Se si è pentito invece per aver chiesto la condanna – continua Di Persia – doveva farlo il giorno dopo. Non oggi. E se è convinto del suo pentimento deve autocancellarsi dalla vita sociale”. ”Autocancellarsi dalla vita sociale”, dice Di Persia. Che forse sarebbe a dire chiudersi in qualche eremo a recitare il penitentiagite per dimostrare l’autenticità del rammarico. È proprio in questa sottile e violentissima fatwa, che la magistratura appare incapace di sincero cordoglio e capacità di autoriformarsi. «A quanto pare – commenta Di Persia – Marmo è il primo magistrato pentito della storia italiana. In questo caso, come fanno i pentiti, dia riscontri chiari alle sue tesi. Perché ha chiesto la condanna di Tortora? Spero lo faccia, ma non rifugiandosi però nel nome di qualcuno che non può smentirlo perché morto». Marmo è trattato insomma alla stregua di un pentito che il clan pretende di allontanare dal cerchio magico per vendetta. Marmo è il reprobo dal quale si pretende di estorcere, a dimostrazione di un sincero disagio interiore, la colpa assoluta e annichilente dell’autoesclusione sociale. Non se ne comprende invece il rammarico che chi scrive, insieme a pochi come Ambrogio Crespi, reputa sincero. Di quelle scuse alla famiglia, di quelle poche note che con molta discrezione Marmo ha affidato a Il Garantista a proposito del processo, si sottolinea nient’altro che la perversa intenzione di tirarsi fuori dalla melma. Ma la vera angoscia che forse generano le scuse di Marmo, inammissibili, spiazzanti e meravigliose, è la paura di restare ammollo al sangue innocente di Tortora. Un aspetto che Diego Marmo, ancora avvezzo a decriptare messaggi in codice, non trascura di cogliere nelle dichiarazioni che affida al nostro giornale. «Nella mia intervista a Il Garantista che peraltro Di Persia dice di non aver letto con precisione – ci scrive l’ex procuratore di Torre Annunziata – non ho accusato nessuno. Mi sono limitato soltanto a dire quali erano stati i ruoli dei singoli partecipanti». Le dichiarazioni che Felice Di Persia ha rilasciato a Il Velino, sono la prova inconfutabile che le scuse di Diego Marmo alla famiglia Tortora hanno scavato un solco profondo nella coscienza dei protagonisti di quella storia giudiziaria, e nell’autopercezione che ha di se stessa la magistratura italiana. Intoccabile, unita come un sol uomo, sacerdotale, la casta dei giudici sembra di colpo cominciare a ruzzare dentro la piccola stia dei risentimenti. Le scuse del Grande Inquistore italiano,  dell’ “assassino morale” di Tortora che solo su di sé aveva attratto i fulmini della storia lasciando all’asciutto tutti gli altri carnefici, devono avere mosso qualche disagio negli altri complici della “congiura”. «Le mie scuse sono vere. Se arrivano con ritardo bisogna anche considerare che il tempo fa maturare, in molti casi. Per porgerle, d’altra parte, ci doveva anche essere l’occasione», ci scrive Diego Marmo. Come bene ha detto Ambrogio Crespi su queste colonne, il tempo della rivoluzione è arrivato. E reca in effigie il volto di Torquemada.

«Taci Di Persia, sei solo una soubrette», scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. «Quando Di Persia fu eletto al Csm dopo aver condannato Tortora, l’allora presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, si rifiutò di stringergli la mano. Per Di Persia parla la storia». Raggiunta al telefono da Il Garantista Francesca Scopelliti, compagna di Enzo Tortora nel suo calvario giudiziario prima, e nelle file dei Radicali poi, non riesce a capacitarsi.

L’intervista che Felice Di Persia, il titolare dell’inchiesta che mise alla sbarra Enzo Tortora, ha concesso al Velino a proposito della condanna di Tortora, e delle scuse di Diego Marmo rivolte ai familiari del presentatore dalle nostre colonne, la lascia una volta di più esterrefatta. Dopo Diego Marmo, che ha rotto il lungo silenzio per fare le scuse ai familiari, anche Di Persia ha deciso di parlare. Che cosa ne pensa delle sue dichiarazioni?

«Penso che quanto meno, anche se non posso accettarle perché tardive e insufficienti, Marmo ha fatto le sue scuse. Spero che gli siano utili a pacificarsi con la sua coscienza. Di Persia, visto quello che ha detto, ha perso invece un’ottima occasione per tacere. Sarebbe stato più dignitoso per lui restare in silenzio».

Che cosa l’ha turbata più di tutto delle dichiarazioni di Di Persia?

«Di Persia ha confermato ancora una volta quello che allora apparve evidente a tutti: c’era il progetto di crocifiggere Tortora. C’era un piano, studiato a tavolino per fare di Enzo il condannato eccellente, da dare in pasto all’opinione pubblica in nome della vanità e dell’esibizionismo. Colpisce molto, nell’intervista concessa, la maniera in cui Di Persia commenta la sentenza di assoluzione di Tortora. ”Non ritennero le prove raccolte idonee a una condanna: questo fa parte della fisiologia del processo. Dunque non ci furono errori giudiziari di magistrati che con la loro carriera quarantennale hanno onorato la magistratura”. Sono parole che si commentano da sole. Di Persia non è disposto a tornare indietro, si arrocca nelle posizioni di trent’anni fa e in buona sostanza rivendica l’assurda pretesa di avere avuto ragione a perseguitare un innocente. Una questione di soubrettizzazione».

Che cosa intende di preciso?

«Basterebbe guardare i titoli e i giornali di allora per comprendere quali benefici mediatici si sono assicurati quelli come Di Persia. Si facevano ritrarre in atteggiamenti sportivi, come piccoli eroi da rotocalco o moderne soubrette. Erano diventati personaggi pubblici grazie alla persecuzione di un personaggio pubblico vero, amato, da scagliare nella polvere e umiliare. Di Persia dichiara a un certo punto che “Marmo c’entra come il cavolo a merenda visto che non ha fatto nulla: è andato a giudizio ripetendo meccanicamente ciò che era scritto nei faldoni dell’accusa”. È una chiosa che aggrava ancora di più la sua posizione e che ribadisce quello che ho sempre detto. Mi fa piacere che dopo trent’anni anche Di Persia concordi con me: fa passare il pubblico ministero di quel processo come il commediante di un’enorme farsa. Esattamente quello che ho sempre pensato. Di Persia ha invitato tra l’altro Marmo, a suo dire ”il primo magistrato pentito della storia” ad autocancellarsi dalla vita sociale per dimostrare il suo pentimento. È una frase dal sen sfuggita, del tutto rivelatrice di una mentalità castale che tratta Marmo alla stregua di un pentito da isolare secondo la tipica mentalità del clan. Allora ci fu perfetta concordia tra pm e giudici istruttori. Lucio Di Pietro e Felice Di Persia inchiodarono Tortora. E ora che qualcuno ha fatto un passo indietro, si è rotto il sacro sigillo di quella istruttoria che ancora Di Persia difende senza un briciolo di rimorso. Ha infatti specificato che non ci furono errori giudiziari nella sua inchiesta. E che l’assoluzione di Tortora fa parte della dialettica processuale. Nessun cenno al carcere e alla malattia di Tortora. Ha definito l’assoluzione del presentatore come parte della “fisiologia del processo”. Espressioni di questo genere dicono ancora una volta di quanta demenziale presunzione è nutrito il personaggio di Di Persia. Più delle mie considerazioni, valgono le moltissime pagine che spinsero i giudici dell’appello a spazzare via menzogna dopo menzogna, il castello di carte costruito da Di Persia e Di Pietro. Di Persia rivendica ancora la correttezza del suo operato. Nessun rammarico, sembra. Erano eccitati dal brivido di incastrare un personaggio noto ed amatissimo da 26 milioni di persone. In nome di questo progetto ne sacrificarono sull’altare la sua innocenza per ergersi a giustizieri e prendersi le luci della ribalta. Se non fosse così protervo e arrogante, Di Persia dovrebbe aprire il dispositivo di sentenza e rileggersi parola dopo parola, le prove dell’assurdità delle sue invenzioni. Lo spiega la sentenza d’appello quale fu la qualità del lavoro di Di Persia».

Si riferisce alla famigerata “nazionale dei pentiti”?

«Costruirono un’accusa fondata su calunnie ed infamie, alcune persino ridicole come quelle di Margutti e della valigetta di droga. È la sentenza dell’appello che meglio di me ha espresso quali considerazioni si possono fare sull’operato di Di Persia. Fu un pessimo magistrato che sparò nel mucchio e lavorò all’ammasso: colpevoli e innocenti nello stesso calderone indistinto».

Che cosa le ha raccontato di lui Enzo Tortora?

«Le riferisco soltanto un piccolo particolare. Spesso, al termine di estenuanti interrogatori, Di Persia guardava Enzo negli occhi e gli sibilava: «Buona fortuna». Gli lasciava intendere che l’avrebbe stritolato. Era come mi scriveva Enzo dal carcere: “Questi, per salvarsi la faccia, fottono me”. È quello che fecero. Nell’intervista, Di Persia dà a Marmo del “magistrato pentito”. È come se l’ex procuratore, con le sue scuse, avesse rotto una sacra alleanza. Un gesto umano, che dal resto della casta viene letto come una sorta di tradimento, il primo della storia. La reazione di Di Persia spiega meglio di molti ragionamenti perché è impensabile sperare che i magistrati possano autoriformarsi da soli. Ma allo stesso tempo, come è evidente da anni, è piuttosto ingenuo pensare che la politica possa giungere a un’autentica riforma. Il Parlamento vive sotto ricatto. E l’intervista di Di Persia è l’ennesimo capitolo di una storia di sacro terrore verso un potere assoluto e intoccabile, che si chiama magistratura italiana.»

Il pm Diego Marmo: “Su Tortora ho sbagliato, chiedo scusa alla famiglia, scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”.

«Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato. E adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Agii in perfetta buona fede».

Dopo un lungo corpo a corpo fatto di reciproci pregiudizi, di frasi smozzicate e di estrema diffidenza, Diego Marmo, il pm che inchiodò Enzo Tortora con una dura requisitoria rimasta negli annali, si è finalmente svestito della toga. Ma prima, prima di questo, c’è la foga di chiedere, di giudicare senza appello a nostra volta.

Ci sono state molte polemiche per la sua nomina ad assessore alla Legalità a Pompei. Ma ha dichiarato al Velino che il caso Tortora è un “episodio” della sua carriera. Non le pare di aver liquidato la vicenda con troppa sufficienza?

«A domanda ho risposto. Si parlava della mia nomina ad assessore a Pompei. La storia del mio coinvolgimento sul caso Tortora è tutto un altro capitolo, un capitolo di un’attività professionale lunga 50 anni, che non può essere affrontato in due minuti. La cosa è molto più complessa.»

Eppure lo ha fatto. Ha definito come “episodio” il più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana. É sembrato che stesse dicendo: “Ora faccio l’assessore, e chissenefrega di Tortora”.

«In trent’anni non ho mai pensato o detto “chissenefrega del caso Tortora”. Immaginavo che potessero sorgere polemiche sulla mia nomina. Ma alla fine ho deciso di accettare perché la situazione degli scavi di Pompei mi sta particolarmente a cuore. Esercitando la funzione di procuratore a Torre Annunziata, mi sono convinto dello stato di abbandono nel quale si trova la città antica.»

Verrà pagato per questo incarico?

«Lavorerò a titolo gratuito, mi pagherò anche la benzina. E se la mia presenza dovesse provocare difficoltà al buon funzionamento della giunta, sono pronto a lasciare. Il sindaco mi ha scelto senza conoscermi personalmente perché probabilmente ha apprezzato il mio lavoro da procuratore. Ho accettato perché sono dell’avviso che la legalità non va predicata ma praticata. Ho lasciato la Procura di Torre Annunziata con amarezza.»

A che cosa si riferisce?

«Parlo dell’omicidio di Vero Palumbo. Faceva il meccanico. La notte del 31 dicembre, mentre giocava a scopa, è stato ucciso dai colpi d’arma da fuoco della camorra che festeggiava barbaramente il Capodanno. Ho promesso alla sua famiglia che avrei trovato l’assassino. Non ci sono riuscito. Questa nomina potrebbe aiutarmi a sollecitare il legislatore ad estendere i benefici che riguardano le vittime della camorra anche alla vedova e alla figlia, alle quali questo status non viene riconosciuto.»

Sembra un uomo capace di provare rammarico. Perché per Tortora non ne ha mai provato?

«È quello che ha sempre pensato il circo mediatico. Quello che avete sempre pensato tutti voi. Ma il rammarico c’era da tempo. L’unica difesa che avevo era il silenzio.»

Se provava rammarico, non era meglio manifestarlo? Perché ha taciuto?

«Perché nessuno prima d’ora me lo aveva mai chiesto. Vi siete accaniti contro di me. Mi avete condannato. Venivo sempre aggredito. Ma nessuno ha mai pensato di interpellarmi o ascoltarmi.»

È lei che ha chiesto la condanna di Tortora senza prove. La ascolto volentieri.

«Il mio lavoro si svolse sulla base dell’istruttoria fatta da Di Pietro e Di Persia. Tortora fu rinviato a giudizio da Fontana. Io feci il pubblico ministero al processo. E sulla base degli elementi raccolti, mi convinsi in perfetta buona fede della sua colpevolezza. La richiesta venne accolta dal Tribunale.»

Non avevate niente: nessun controllo bancario, nessun pedinamento, nessuna intercettazione. Solo la “nazionale dei pentiti”. Come ha potuto chiedere 13 anni per il presentatore?

«Mi vuole fare il processo?»

No, voglio delle risposte.

«A ciascuno il suo. Mi faccia rispondere di quello che ho fatto io.  Gli elementi raccolti in fase istruttoria mi sembrarono sufficienti per richiedere una condanna. Ma Tortora non era l’unico imputato di quel processo. Insieme a lui c’erano altri 246 imputati. Io chiesi un terzo di assoluzioni. Si sono dette anche molte menzogne sul mio conto. Tempo fa mio figlio mi chiamò allibito. Mi disse: “Papà, in televisione hanno appena detto che hai fatto arrestare Tortora”.»

Si sente il capro espiatorio?

«Molte anime belle, e anche tanti giornalisti e colleghi, batterono allora la gran cassa contro l’imputato eccellente. Molti sono gli stessi che ancora oggi gridano allo scandalo. Ma in Italia si dimentica in fretta. E pochi sanno che in Procura mi indignai per le sfilate degli uomini in manette davanti alle telecamere. Nei trent’anni successivi di carriera, come in precedenza, non lo permisi mai.»

Incise la pressione mediatica sul processo? Perdere l’imputato eccellente sarebbe stato un duro colpo per il vostro operato?

«Facemmo di tutto per perdere l’imputato eccellente. Era una presenza che avrebbe creato una bufera. La pressione mediatica fu terrificante, lo ammetto. Ma c’era molta più sete di sangue di quanto non sembri oggi. Erano molti, in giro, i “Diego Marmo”. Ma sul banco degli imputati sono rimasto io solo.»

È vero. Ma nell’immaginario è rimasto come il carnefice di Tortora perché lo definì un “cinico mercante di morte”, un “uomo della notte” ben diverso dal bravo presentatore di Portobello. Non giudicò l’imputato, giudicò anche l’uomo. Lei andò oltre, lo ammetta.

«La requisitoria durò circa una settimana, quella nei confronti di Tortora durò alcune ore. La frase venne inserita in un contesto accusatorio. Certamente mi lasciai prendere dal mio temperamento. Ero in buona fede. Ma questo non vuol dire che usai sempre termini appropriati, e che non sia disposto ad ammetterlo. Mi feci prendere dalla foga.»

Come le venne in mente di dire che Tortora era stato eletto con i voti della camorra?

«Non l’ho detto.»

Si, lo ha fatto. Lo abbiamo sentito tutti.

«Non era quello che è stato inteso. Il mio discorso era molto più articolato. Pur precisando che né Tortora né i Radicali avevano chiesto voti alla camorra, feci notare viceversa che la malavita aveva sponsorizzato alcune candidature per trarne vantaggio. Ne ebbi riscontro dalla stampa e dai tabulati che mi consegnarono i carabinieri. Era emerso che al carcere di Poggio Reale, e nel triangolo Bagheria, Altavilla, Casteldaccia, i radicali avevano preso moltissimi voti. Ma sono altre le cose che mi rimprovero.»

Che cosa?

«Tortora si comportò da uomo vero, ma lo capii successivamente.»

Sta dicendo che ha provato ammirazione per Tortora?

«Fu un imputato esemplare. Più passa il tempo e vedo l’Italia che ho intorno, e più mi rendo conto della differenza tra lui e chi lo chiama in causa oggi a sproposito.»

Che cosa intende esattamente?

«Tortora avrebbe potuto appellarsi all’immunità ma non lo fece. Volle farsi la galera pur di difendere la sua innocenza. E mi fanno arrabbiare certi quaquaraquà di oggi che invocano il suo nome per nascondere magagne e miserie e ottenere visibilità.»

Perché chiese la condanna?

«Ripeto. Non fui il solo a reputare Tortora colpevole: la mia richiesta venne accolta. Il rispetto del mio ruolo di magistrato mi impone di non parlare di altri. Dico solo che mi sbagliai. E che dopo le sentenze di assoluzione, mi resi conto dell’innocenza di Tortora e mi inchinai.»

Non aveva mai ammesso di avere sbagliato. Mi sta dicendo che è pentito?

«Non ho mai pensato di raccontare il mio stato d’animo sino ad ora. Ho creduto che ogni mia parola non sarebbe servita a niente. Che tutto mi si sarebbe ritorto contro. Ho preferito mantenere il silenzio. Ero Diego Marmo, l’assassino morale di Tortora. E dovevo tacere.»

Ha parlato di colpa. Una parola forte per uno che ha definito la richiesta di condanna per Tortora come un “episodio” della sua carriera.

«Non ho usato quel termine in senso riduttivo. In 50 anni di lavoro gli “episodi” sono stati tanti. Molti drammatici: processi di terrorismo, camorra, vita blindata per dieci anni con inevitabili disagi per me e soprattutto per la mia famiglia. E tuttavia che cosa crede? Ho richiesto la condanna di un innocente. Porto il peso di quello sbaglio nella mia coscienza. Sono un cattolico osservante. E ho sempre pensato di dovermela vedere con me stesso, e con Dio.»

Poteva vedersela anche con i familiari di Tortora, non pensa?

«Ci ho pensato a lungo. Ma alla fine non l’ho mai fatto. Mi sono detto che non si poteva tornare indietro, e che niente che potessi fare o dire sarebbe servito a qualcosa. “Si, potrei anche provare a incontrarli”, ragionavo tra me e me. Ma temevo che il mio gesto potesse risultare sgradito.»

E forse ha paura di chiedere perdono.

«Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente. Ma adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Posso dire soltanto che l’ho fatto in buona fede.»

Grazie dottor Marmo. A me le sue parole sembrano molto importanti. Le cose che mi ha detto le fanno onore. E sbriciolano i pregiudizi sui pm visti come sceriffi implacabili. Magari avessero tutti il coraggio di ammettere i propri errori. Non l’avrei immaginato. Ci ha dato una lezione. Non come pm, ma come uomo.

Il caso Tortora trent'anni dopo. Nel giugno del 1983 l'arresto del popolare conduttore televisivo. Le accuse dei pentiti, la gogna pubblica, l'assoluzione in Cassazione, la malattia e la morte. Per quello che Giorgio Bocca definì "il più grande esempio di macelleria giudiziaria" nessuno ha mai pagato, scrive Carlo Verdelli su “La Repubblica”. Qualsiasi cosa ci sia dopo, il niente o Dio, è molto probabile che Enzo Tortora non riposi in pace. La vicenda che l'ha spezzato in due, anche se ormai lontana, non lascia in pace neanche la nostra di coscienza. E non solo per l'enormità del sopruso ai danni di un uomo (che fosse famoso, conta parecchio ma importa pochissimo), arrestato e condannato senza prove come spacciatore e sodale di Cutolo. La cosa che rende impossibile archiviare "il più grande esempio di macelleria giudiziaria all'ingrosso del nostro Paese" (Giorgio Bocca) è il fatto che nessuno abbia pagato per quel che è successo. Anzi, i giudici coinvolti hanno fatto un'ottima carriera e i pentiti, i falsi pentiti, si sono garantiti una serena vecchiaia, e uno di loro, il primo untore, persino il premio della libertà. Non fosse stato per i radicali (da Pannella al neo ministro Bonino, da Giuseppe Rippa a Valter Vecellio) che lo elessero simbolo della giustizia ingiusta e lo fecero eleggere a Strasburgo. Non fosse stato per Enzo Biagi che proprio su Repubblica, a sette giorni da un arresto che, dopo gli stupori, stava conquistando travolgenti favori nell'opinione pubblica, entrò duro sui frettolosi censori della prima ora (da Giovanni Arpino, "tempi durissimi per gli strappalacrime", a Camilla Cederna, "se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto") con un editoriale controcorrente: "E se Tortora fosse innocente?". Non fosse stato per l'amore e la fiducia incrollabile delle figlie (tre) e delle compagne (da Pasqualina a Miranda, prima e seconda moglie, fino a Francesca, la convivente di quell'ultimo periodo). Non fosse stato per i suoi avvocati, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall'Ora, che si batterono per lui con una vicinanza e un ardore ben al di là del dovere professionale. Non fosse stato per persone come queste, i 1.768 giorni che separano l'inizio del calvario di Enzo Tortora (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all'Hotel Plaza di Roma) dalla fine della sua esistenza (18 maggio 1988, cancro ai polmoni, nella sua casa milanese di via Piatti 8, tre camere più servizi), sarebbero stati di meno, nel senso che avrebbe ceduto prima. Paradossali i destini dei nomi impressi sulla tenaglia che ha stritolato Tortora, uno dei volti più noti di quando lo schermo era piccolo. Immaginiamo le due ganasce. Su una stanno gli accusatori, almeno i tre principali, tutti galeotti. Il capo cordata è Giovanni Pandico, ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ci ha provato senza successo anche con padre, madre e fidanzata, "schizoide e paranoico " per i medici, diventa lo scrivano di Cutolo ed è lui a mettere nel calderone Tortora e a condizionare con la sua versione e la sua perversione molti altri affiliati: dal 2012 è un libero cittadino. Poi ci sono Pasquale Barra, detto "o 'nimale", killer dei penitenziari, 67 omicidi in carriera tra cui lo sbudellamento di Francis Turatello: è ancora dentro, ma gode di uno speciale programma di protezione. Lo stesso di Gianni Melluso, detto "il bello" o "cha cha cha", uscito di galera e rientrato nel luglio scorso, ma per sfruttamento della prostituzione: durante i beati anni della delazione contro Tortora, usufruì di trattamenti di particolare favore, come gli incontri molto privati con Raffaella, che resterà incinta e diverrà sua moglie in un memorabile matrimonio penitenziario con lo sposo vestito Valentino. Va detto che Melluso fu l'unico di tutta la compagnia, magistrati compresi, a chiedere perdono ai familiari di Tortora, in un'intervista all'Espresso del 2010: "Lui non c'entrava nulla, di nulla, di nulla. L'ho distrutto a malincuore, dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l'unica via per salvarmi la pelle. Ora mi inginocchio davanti alle figlie". Risposta di Gaia, la terzogenita: "Resti pure in piedi". Stupirà, forse, che nel tiro a Tortora non compaia mai il nome di Raffaele Cutolo, il capo di quella Nuova camorra organizzata che aveva messo a ferro e fuoco la Campania per prenderne il controllo e contro cui venne organizzato il grande blitz del 1983. Tempo dopo, i due, Cutolo e Tortora, che intanto era diventato presidente del Partito Radicale, si incontreranno nel carcere dell'Asinara, dove "don Raffaé" albergava all'ergastolo. Il boss fu anche spiritoso: "Dunque, io sarei il suo luogotenente ". Poi allungò la destra: "Sono onorato di stringere la mano a un innocente". E siamo all'altra ganascia della tenaglia, quella di quei magistrati che, senza neanche l'ombra di un controllo bancario, un pedinamento, un'intercettazione telefonica, basandosi solo sulle fonti orali di criminali di mestiere, sono riusciti nell'impresa di mettere in galera Tortora e condannarlo in primo grado a 10 anni di carcere più 50 milioni di multa. I due sostituti procuratori che a Napoli avviano l'impresa si chiamano Lucio Di Pietro, definito "il Maradona del diritto", e Felice Di Persia. Sono loro a considerare Tortora la ciliegiona che da sola cambia l'immagine della torta, loro a convincere il giudice istruttore Giorgio Fontana ad avallare questo e gli altri 855 ordini di cattura, anche se incappano in 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine saranno solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (con l'appello, l'impalcatura accusatoria franerà un altro po', con 114 assoluzioni su 191). Contraccolpi sul piano professionale? A parte il giudice Fontana, che infastidito da un'inchiesta del Csm sul suo operato si dimette sdegnato e ora fa l'avvocato, i due procuratori d'assalto spiccano il volo. Di Pietro (nessuna parentela con l'ex onorevole e onorato Tonino) è procuratore generale di Salerno, dopo aver sostituito Pier Luigi Vigna addirittura come procuratore nazionale antimafia. Non è andata malaccio neanche a Di Persia, oggi in pensione, ieri membro del Csm, l'organo di autocontrollo dei giudici (ma Cossiga presidente pare abbia rifiutato di stringergli la mano durante un plenum). Restano ancora due indimenticabili protagonisti del primo processo di Napoli, che inizia nel febbraio 1985, un anno e otto mesi dopo l'arresto di Tortora, e si conclude il 17 settembre 1985, con il presentatore che subisce la condanna ma già da deputato radicale al Parlamento europeo: il presidente Luigi Sansone, che firma una corposa quanto friabile sentenza di 2 mila pagine, in sei volumi, uno interamente dedicato a Tortora (con questa apoteosi: "L'imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui"), e il pubblico ministero Diego Marmo, arringa leggendaria la sua, con le bretelle rosse sotto la toga e una veemenza tale da fargli scendere la bava all'angolo sinistro della bocca, specie quando dipinge l'imputato come "un uomo della notte ben diverso da come appariva a Portobello" e quando erutta che i voti presi da Tortora alle Europee sono anche voti di camorristi. La conclusione, poi, è da pietra tombale sul diritto: "Lo sappiamo tutti, purtroppo, che se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l'istruttoria". Non cadrà, almeno in quei giorni, come non cadranno Luigi Sansone, che si consolerà con la presidenza della sesta sezione penale di Cassazione, né il focoso Marmo, in pensione dal novembre scorso dopo essere stato, tra l'altro, procuratore capo di Torre Annunziata. Nessuno dei delatori sbugiardati è stato incriminato per calunnia. Quanto ai magistrati, poco prima di morire, Tortora aveva presentato una citazione per danni: 100 miliardi di lire la richiesta. Il Csm ha archiviato, risarcimento zero. Archiviato anche il referendum del 1987, nato proprio sulla spinta del caso Tortora, sulla responsabilità civile dei magistrati: vota il 65 per cento, i sì sono l'80 per cento, poi arriva la legge Vassalli e di fatto ne annulla gli effetti. Quel che resta di Enzo Tortora ("Io non sono innocente. Io sono estraneo", ripeteva come un mantra) non riposa in pace dentro una colonna di marmo con capitello corinzio al cimitero Monumentale di Milano. La colonna è interrotta a metà da un vetro. Infilata dall'esterno, un'immaginetta di un Cristo in croce con la scritta: "Uno che ti chiede scusa". Dietro il vetro, c'è l'urna dorata con le ceneri e due date (1928-1988). Sotto, un'iscrizione abbastanza misteriosa: "Che non sia un'illusione". La spiega Francesca Scopelliti, l'ultima compagna: "Enzo ha voluto farsi cremare insieme ai suoi occhiali, quelli che gli servivano per leggere e che perdeva di continuo, e a una copia della Storia della colonna infame del Manzoni, con la prefazione di Leonardo Sciascia, di cui era amico. Era venuto a trovarlo pochi giorni prima della fine. Ne scrisse subito dopo sul Corriere della sera, confidando parte di quello che Enzo gli aveva detto: speriamo che il mio sacrificio sia servito a questo Paese, e che la mia non sia un'illusione". Venticinque anni dopo quel 18 maggio 1988, dubitare è lecito, specie in un'Italia che sembra avere nel proprio Dna la caccia al mostro quale che sia, proprio come nella cronaca del Manzoni. Siamo nel1630, a Milano c'è la peste, vengono arrestati, sulla base della denuncia di alcune comari, due presunti untori accusati di spargere unguenti che propagano l'epidemia. Condannati sbrigativamente allo squartamento, sulle macerie della bottega di barbiere di uno dei due, incenerita a memento, viene eretta una colonna, a dannazione eterna dell'"infame". L'accusa, all'"infame" di Portobello, piove sulla testa, come un pezzo di marmo caduto da un balcone, venerdì 17 giugno 1983. E da quel giorno, Enzo Claudio Marcello Tortora, figlio di un napoletano che faceva il rappresentante di cotone a Genova, giornalista e presentatore televisivo in gran spolvero, diventa all'improvviso "il caso Tortora". Intanto sta nascendo a Napoli la prima bambina in provetta, la Fiat lancia la Uno, scompare Emanuela Orlandi, Federico Fellini firma la quart'ultima tappa del suo magistero con E la nave va, Vasco Rossi la prima: Vita spericolata. In televisione, spopola su RaiDue appunto Portobello, un mercatino alla londinese di varia umanità, dovesi vendono e si comprano le cose più strane, dove tra le centraliniste, guidate da "sua soavità" Renée Longarini, spuntano le acerbe glorie di Paola Ferrari, Gabriella Carlucci, Eleonora Brigliadori, dove capitano tizi come quello che propone di abbattere il Turchino per risolvere il problema della nebbia in Val Padana, dove la valletta di colore si guadagna il soprannome di "Goccia di caffè" e dove Tortora, al massimo di se stesso, governa la platea come un lord inglese, esibisce un pappagallo che si chiama Portobello, chiude le trattative con una frase entrata nella piccola storia della televisione: "Il Big Ben ha detto stop". Nella storia entrano anche i risultati del programma: 22 milioni di spettatori di media, con punte ineguagliate all'epoca di 28 milioni. "Tutta farina di Enzo. Una domenica, si era messo a leggere gli annunci sul giornale: vendo coccodrillo impagliato eccetera. Aveva cominciato a telefonare e aveva scoperto un mondo dietro quei trafiletti. Poi ci aggiunse il pappagallo, perché, mi diceva, un animale ci vuole, fa tenerezza ai bambini ". A ricordare è Gigliola Barbieri, storica assistente di Tortora, fin dai tempi (1969) della sua Domenica sportiva. Ora la "Barbi", come la chiamava lui, è produttore esecutivo a Mediaset. "La mattina che venne arrestato, il primo che mi chiamò fu Berlusconi: signora, ha saputo? Stava trattando con Enzo il suo passaggio a Retequattro. Dopo i funerali, mi ha ricontattato: signora, se vuole venire a lavorare da noi...". Parla come una vedova, la Barbi, una vedova non consolata. "Enzo aveva tanti di quei difetti che ci metterei giorni a fare l'elenco. Ma con quella cosa non c'entrava. L'hanno rovinato gratis". Il giovedì prima di quel venerdì 17 giugno 1983, che segna l'inizio della fine di Tortora, l'allora direttore del Giorno, Guglielmo Zucconi, chiamò un giovane cronista degli spettacoli, Paolo Martini, egli rivelò di aver ricevuto una soffiata su una maxi retata imminente, che avrebbe riguardato anche un grosso nome dello spettacolo. Chi? "So solo che sta nelle ultime lettere dell'alfabeto". Cominciarono a spulciare l'elenco dal fondo: Vianello, Tortora, Tognazzi. Martini si attaccò al telefono. Trovò Tortora a Roma: "Quando lo avvertii che circolava il suo nome tra i possibili implicati in un blitz di camorra, si mise a ridere. E in effetti, da quella mia chiamata all'arresto la notte successiva, non fece assolutamente niente, non chiamò il suo avvocato né qualche amico del Partito liberale in cui militava né della cerchia di Craxi, acui pure aveva accesso. Tortora era il classico signore borghese di provincia, un bel po' reazionario, lupo solitario assoluto. Non faceva serata, non beveva, aveva orrore per la delinquenza e la droga. L'unica cosa che tirava era un po' di tabacco da fiuto". Ma la soffiata era giusta. All'alba, tre carabinieri irrompono in una stanza dell'Hotel Plaza di Roma, prologo di quel che per le cronache diventerà il "venerdì nero di Cutolo": 856 ordini di cattura. Tra questi, un nome che da solo dà senso e ribalta all'operazione (non a caso battezzata in codice "Portobello"): Enzo Tortora, indicato dal pentito Giovanni Pandico come camorrista ad "honorém" (con l'accento sulla "e", come dirà al primo interrogatorio), numero 60 di una lista che viene consegnata ai magistrati di Napoli e fa scattare la retata. Mentre lo portano via dal Plaza, Tortora è ancora convinto che si tratti di un caso di omonimia e che tutto si risolverà in poche ore. Sbagliato. Aspettando l'ora buona perché si ammassassero troupe televisive e fotografi, il re di Portobello viene fatto uscire dalla caserma dei carabinieri per essere trasferito a Regina Coeli, ammanettato e con la faccia sfatta. Sente i cameraman invocare "i polsi, i polsi!", dalla folla i primi verdetti: "Farabutto, pezzo di merda, ladro". La vendetta sul "famoso" prenderà rapidamente le dimensioni della valanga. L'indimenticato "Tognazzi capo delle Br" brevettato dal Maledi Sparagna&Vincino nel 1978 viene surclassato dalla cronaca: Tortora capo della camorra. I pentiti che l'accusano si moltiplicano come nella parabola dei pani e dei pesci: da uno diventano 19, complice la fresca legge Cossiga del 1982 che, pensata per sconfiggere il terrorismo, introduce sconti di pena per chiunque collabori a qualunque titolo. È una corsa folle a chi la spara e la scrive più grossa: Tortora ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell'Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari. Un tornado inarrestabile, con Il Messaggero che titola: "Tortora ha confessato". Falso. Il garantismo di sinistra? Assente. Portobello è un programma da lista nera, e poi il suo conduttore, oltre ad essere un liberale di destra, è pure antipatico per il suo fare tra il lacrimoso e lo snob, e in più ha un passato da inviato della Nazione del petroliere Attilio Monti, non proprio un sincero democratico, durante il quale si è distinto per una campagna contro Valpreda e l'anarchia milanese quali responsabili della strage di piazza Fontana. Che la madre Silvia, quando andava in chiesa a pregare, trovasse spesso il foglietto lasciato da qualche anima buona con la scritta "tuo figlio spaccia la droga ", era il segno, uno dei tantissimi, che gli argini erano rotti e che poco si opponeva alla marea montante delle calunnie. Ma perché proprio Tortora, e non qualche altra star capace di attrarre la morbosa attenzione da spalti del Colosseo? Per una storia di centrini di seta. Un detenuto del carcere di Porto Azzurro, Domenico Barbaro, ne spedisce alcuni alla redazione di Portobello nella speranza che vengano messi all'incanto. Non vedendoli comparire (la trasmissione riceveva allora 2.500 lettere al giorno), Barbaro comincia a bombardare Tortora di lettere sempre più minacciose: essendo però analfabeta, gliele scrive il compagno di cella Pandico. Alla fine, esasperato, Tortora risponde pure, in tono secco, avvertendo che passerà la pratica all'ufficio legale della Rai (nel frattempo, i centrini sono andati persi), che infatti provvede a rimborsare il detenuto con un assegno di 800 mila lire. Caso chiuso? Al contrario: Pandico decide di vendicarsi di Tortora, spiega ai magistrati che i centrini erano un nome in codice per indicare una partita di coca da 80 milioni, che il presentatore si sarebbe intascato fregando i compari. È la prima prova d'accusa presentata ai legali del presentatore, che la smontano in un secondo esibendo la corrispondenza tra Barbaro e Portobello. Risposta: "Trattasi di altro Barbaro". Ugualmente surreale la seconda prova "schiacciante": trovato il nome di Tortora nell'agendina di Giuseppe Puca, detto "'o giappone", uno dei killer di Cutolo. Ci vorranno cinque mesi perché i magistrati si arrendano all'evidenza: l'agendina è della donna di Puca, il nome scritto a mano è "Tortosa" non "Tortora", e corrisponde al proprietario di un deposito di bibite di Caserta, amico della signora. Il prefisso è 0823, "provate a chiamà, dottore...". Finisce come era impossibile finisse: Tortora condannato per camorra e spaccio. Tortora, prima della sentenza, eletto a Strasburgo con i Radicali ("sono stato liberale perché ho studiato, sono diventato radicale perché ho capito") con 451 mila preferenze (Alberto Moravia, candidato per il Pci, ne prese 130 mila). Tortora che si dimette da eurodeputato, rinuncia all'immunità e torna in Italia per farsi arrestare. Tortora che ricorre in appello, sfida la giuria prima del verdetto ("Io sono innocente, spero con tutto il cuore che lo siate anche voi") e il 15 settembre 1986 viene assolto da entrambe le accuse (dirà laconico il giudice a latere Michele Morello: "Facemmo giustizia "), cosa che si ripeterà in Cassazione. Tortora che, venerdì 20 febbraio 1987, ricompare in tv e apre la nuova edizione di Portobello con la stessa frase che disse Luigi Einaudi quando riprese a collaborare al Corriere della sera dopo il fascismo: "Heri dicebamus". Dove eravamo rimasti. Silvia Tortora, la figlia di mezzo, la prima che Tortora chiama quando l'arrestano ("Silvia, non crederci, non crederci, tu conosci papà"), vive in un borgo antico alle porte di Roma. È giornalista, sposata dal 1990 con il turbolento e fascinoso attore Philippe Leroy, che le ha dedicato una meravigliosa frase d'amore: "Con Silvia sono tranquillo come una capra felice che gira intorno al suo palo". Due i figli: Michelle, 17 anni, e Philippe, 21. Conserva due libri, che Enzo Tortora ha scritto per Mondadori (Cara Italia, ti scrivo, 1984, dove racconta la sua vita da detenuto, e Se questa è Italia, 1987, sulla sua vita da imputato). Dice che non si trovano più. Tra tutte le cose che hanno dedicato a suo padre, strade, piazze, premi, quella che Silvia trova più giusta è una biblioteca, voluta da Walter Veltroni in una strada appena fuori Saxa Rubra. "I libri erano importanti per lui, erano lui, in qualche senso". Rabbia ancora, Silvia? "Ricordo che Manganelli, il capo della Polizia appena morto, incontrandomi mi ha detto: quella di tuo padre è stata la merda più gigantesca della storia. Hanno fatto una commissione parlamentare su tutto, persino su Mitrokhin: su Tortora no. Eppure Portobello, che ai tempi mi sembrava una schifezza di show, rivisto dopo l'ho trovato bellissimo".

L’ultimo smacco a Enzo Tortora, scrive Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Questi sono alcuni estratti testuali della requisitoria del pm Diego Marmo nel luglio 1985:

Enzo Tortora ha sempre accusato la giustizia napoletana di averlo coinvolto in questa vicenda, non capisco bene perché, non è un mistero per nessuno che io sono convinto della responsabilità di Tortora ma non perché ne fossi convinto nel momento in cui ho messo piede in quest’aula ma perché me ne sono convinto leggendo gli atti, valutando il comportamento processuale ed extra processuale dell’imputato che mi serve non al fine di criminalizzare Tizio, Caio, Sempronio o Mevio, assolutamente no, ma mi serve soltanto il comportamento dell’imputato al fine di valutare la personalità dell’imputato”.

“Lo sappiamo tutti purtroppo che se cade la posizione di Enzo Tortora si discredita tutta l’istruttoria, questo lo sa Tortora ma lo sanno anche coloro che mandano i vari compagni a immolarsi su questo altare per potere screditare questa accusa”.

“Di Monaco, interrogato dal giudice istruttore Spirito che cosa dice: “Lo Iaculli mi fece il nome del presentatore Enzo Tortora”. Cioè significa che non ci può essere errore, non ci può essere dubbio, Enzo Tortora è uno solo, è l’uomo di Portobello, è l’uomo di Cipria, è il presentatore della televisione. Però poi si dirà che Enzo Tortora è Enzo Berri, ma io napoletano non lo conosco, non l’ho mai visto, gli auguro di avere la stessa notorietà di Enzo Tortora ma sicuramente non ha la stessa notorietà di Enzo Tortora”.

“Se prima ci poteva essere equivoco, adesso l’equivoco non c’è più. “Ecco il nostro compare”, perché gli altri detenuti sapevano, non si può giustificare diversamente, non si può dire che c’è stato errore di persona. Vuol dire che dietro queste lettere c’è un regista, c’è Enzo Tortora che fa di tutto per salvarsi da questa imputazione, e lo capisco perché lo fanno tutti gli imputati, ma non ha il diritto assolutamente di dire io combatto per voi, no, lui combatte solo per se stesso”.

“Di Enzo Tortora deputato non mi interessa assolutamente niente, e ci tengo a precisare ma non per giustificarmi, perché le istituzioni sono dalla mia parte, perché il fatto che il capo del mio ufficio abbia ribadito la sua fiducia nei miei confronti è un fatto che mi onora profondamente, quando sarò chiamato nelle sedi istituzionali dirò le mie ragioni. Però quando io ho parlato del voto camorrista non intendevo criminalizzare le centinaia di migliaia di persone che hanno votato Tortora, nemmeno mia madre che probabilmente ha votato Enzo Tortora. Però insisto nel dire che il voto del carcere di Poggioreale significa voto camorrista. Io analizzavo solo quella parte del voto, per dire che è un camorrista che ha chiesto l’appoggio degli altri camorristi, il signor Enzo Tortora è un camorrista, io sto qua per scalzare la presunzione di innocenza, é il mio mestiere quando me ne convinco, e ne sono convinto”.

“Questo Enzo Tortora è quello che ha detto sempre: “Io uscirò dal carcere solo se assolto perché sono innocente”, e se così avesse fatto io l’avrei rispettato veramente perché i signori d’onore io li rispetto, il signor Tortora invece ha pensato che il processo fosse uno spettacolo. Si è verificato che ha chiesto quello che tutto sommato chiedono tutti i detenuti, adombrato delle situazioni di salute per poter uscire dal carcere, con questo non voglio dire che un imputato deve morire in carcere, chi è malato deve essere curato, lo Stato deve attrezzarsi per curare i detenuti. Enzo Tortora ci dice che è malato, e che non può stare in carcere, non faccio della facile ironia, e sarebbe facile farlo sul carcere di Bergamo, la perizia conclude in un certo modo, il giudice disattende, il tribunale della sorveglianza concede. Però se andate a rileggere quelle cartelle cliniche, vedete che quell’imputato viene presentato come uno veramente malato. È quello stesso imputato che ha una vita frenetica, io che sono iperteso non riuscirei a fare un decimo di quello che fa questo signore. Allora sei malato o non sei malato, è vero o non è vero. Tortora non fa una vita tranquilla, in questo lo invidio, ben per lui, hai detto che uscirai dal carcere o libero o con i piedi davanti e invece fai di tutto per uscire dal carcere”.

“Sapete perché Tortora è in questo processo? Perché più si cercavano le prove della sua innocenza e più uscivano le prove della sua colpevolezza. Gli accusatori sono tanti e tutti hanno una estrazione diversa, il signor Tortora abbia la dignità di dire ho sbagliato e di chiedere clemenza”.

Cosa è successo da quel lontano 1985 a oggi?

- Ieri 19 giugno 2014 il pm Diego Marmo è stato nominato assessore per la Legalità a Pompei, ma avrà anche la delega alla Difesa del patrimonio archeologico e ambientale.

- Lui, insieme con gli altri giudici istruttori del processo Tortora, non ha subìto alcun procedimento disciplinare.

- I delatori del conduttore tv non sono mai stati incriminati per calunnia.

- La citazione di Tortora nei confronti delle toghe è stata archiviata dal Csm.

- Il referendum a favore della responsabilità civile dei magistrati non ha avuto alcun seguito.

- E naturalmente Tortora non era un camorrista.

C’è da indignarsi o no?

Lui è Diego Marmo, ed è il pubblico ministero del processo a Enzo Tortora, che venne arrestato il 17 giugno 1983 con l'accusa di associazione camorristica e traffico di droga, scrive “Libero Quotidiano”. Una delle più clamorose storie di malagiustizia in Italia, quella di Tortora. Una storia alla quale però non seguirono né scuse né autocritiche da parte del pm che lo accusava. Una storia di cui si ricorda il travaglio dell'innocente Tortora, i suoi problemi di salute, le violente campagne di stampa, la sofferenza del carcere e una carriera professionale completamente distrutta. Una storia che in qualche modo continua anche oggi: Marmo, infatti, è stato scelto dal sindaco di Pompei per diventare assessore. Nando Uliano, il sindaco neoeletto, lo ha chiamato a far parte della sua squadra: l'ex pm sarà uno dei cinque assessori, si occuperò di legalità e sicurezza ma avrà anche la delega alla Difesa del patrimonio archeologico ed ambientale. Marmo è in pensione dopo una lunga carriera, che lo ha visto anche essere procuratore aggiunto di Napoli, prima di assumere la guida della procura di Torre Annunziata. Nel 2012 curò l'inchiesta sui crolli della schola armaturarum e della casa del moralista. Sulla nomina ad assessore ha spiegato al Corriere del Mezzogiorno: "Quando ho sentito della proposta il mio primo impulso è stato dire no. Poi ha prevalso il fascino della parola Pompei. E quindi mi sono detto che non era giusto rifiutare. Ho deciso di metterci la faccia".

Marmo, il pm del caso Tortora ora è assessore alla legalità, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Si chiama Diego Marmo ed è stato nominato assessore alla legalità del Comune di Pompei. Che c’è di strano? Che Diego Marmo è un ex Pm e non è un ex Pm qualunque: è quel Pm che spedì in carcere Enzo Tortora, ce lo tenne mesi e mesi, si fidò di pentiti bugiardi, non gli indizi e definì Tortora un cinico mercante di morte. Va bene difendere coi denti la non-responsabilità civile dei giudici; va bene esaltare i meriti della magistratura; va bene pretendere autonomia indipendenza e insindacabilità. Va bene tutto, ma addirittura divertirsi ad esaltare la figura del pm che perseguitò Enzo Tortora, lo calunniò in modo feroce, cercò di annientarlo, e poi fu censurato da una clamorosa sentenza di assoluzione, diventando il simbolo dei simboli della giustizia ingiusta e della persecuzione, e decidere, proprio nell’anniversario del barbaro arresto del presentatore, di nominare questo ex pm assessore alla legalità del comune di Pompei…beh, è un po’ esagerato. Credo che persino molti magistrati perbene, onesti, seri, considerino offensiva la decisione del sindaco di Pompei che ha stabilito di affidare questo incarico all’ex pm Diego Marmo. Figuratevi se non siamo favorevoli al diritto all’oblio, anche per i giudici che sbagliano clamorosamente un processo. Figuratevi se siamo noi del Garantista a chiedere pene o vendette. Per carità! Però il valore simbolico di certe scelte non può essere negato. E l’ex pm Marmo è stato nominato assessore alla Legalità proprio nell’anniversario (il trentunesimo) dell’arresto di Enzo Tortora e dell’inizio del calvario che lo portò prima al linciaggio morale e al carcere, poi alla malattia e alla morte. Gli eroi non esistono, naturalmente. Però Enzo Tortora è un po’ un eroe del nostro tempo. Ha sopportato con incredibile dignità la persecuzione e non ha mai rinunciato a lottare. E’ riuscito a sgretolare il castello di accuse e a dimostrare la sua innocenza. Non ha mai perso i nervi, neppure quando il pubblico ministero Diego Marmo lo definì , testualmente, «un cinico mercante di morte», e neanche quando lesse il capo di accusa per colpa del quale gli mettevano le manette e lo chiudevano a San Vittore: ”associazione camorristica e traffico di droga”. Il caso-Tortora lo conoscete tutti: è stato un caso giudiziario vergognoso. Tra l’altro, i radicali proposero il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati proprio come risposta a quella incredibile ingiustizia, dovuta alla superficialità dei magistrati dell’accusa. E vinsero il referendum: i cittadini decisero che i giudici avrebbero dovuto rispondere dei loro errori, come tutti gli altri cittadini, ma poi il governo cancellò quella decisione, stravolgendola. Tortora, al processo di appello, prima che la Corte si riunisse per emettere la sentenza, la sfidò pronunciando parole famosissime: «Io sono innocente. Spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi». I giudici che emisero la sentenza, per fortuna, erano innocenti: e assolsero Tortora senza l’ombra di un dubbio. Adesso, senza eccessi di polemiche, vorremmo rivolgerci anche all’Anm. Con una domanda sommessa: non vi sentite, in qualche modo, offesi anche voi da una decisione così sfacciata? Non credete che, ingiustamente, si finisce in questo modo per offuscare la buona reputazione di tanti magistrati forti e seri, dando a un pm che si porta addosso l’immagine e la responsabilità di quel clamoroso errore giudiziario, addirittura l’incarico di vigilare sulla legalità? Che messaggio si vuole trasmettere? Che la legalità si realizza meglio perseguitando un po’ alla cieca?

LA DRAMMATICA LETTERA DI GAIA TORTORA A “IL TEMPO” SULLA GIUSTIZIA ITALIANA.

- Scrive Dimitri Buffa - Uno, dieci, cento, mille e forse persino centomila errori giudiziari come quello che colpì Enzo Tortora caratterizzano la giustizia italiana odierna. Parola di Gaia Tortora, intervenuta oggi con una drammatica lettera a “Il Tempo” (nuova gestione a cura dell’ex inviato del “Giornale”, Gian Marco Chiocci, ndr) che ha aperto il giornale con il titolo “Cinquantamila innocenti in prigione”. Quante volte anche da queste colonne, on line, abbiamo parlato di fabbrica seriale di errori giudiziari. Era intuitivo. Ma “Il Tempo” oggi ha tirato fuori i dati tenuti nascosti da via Arenula sul numero esatto dei poveri Cristi finiti in galera per errori attribuibili ai vari pm d’assalto in Italia dal 1989 a oggi. Cioè dall’entrata in vigore del codice firmato dalla buonanima di Giuliano Vassalli sino ai giorni nostri: e il numero, la quantità, lasciando perdere per un attimo, la “qualità”, dell’errore, fa paura: 50 mila unità. In ventiquattro anni fa la media di duemila errori giudiziari completi ogni anno. Una persona ogni 40mila in Italia, considerando anche neonati e centenari, ogni anno si becca la galera gratis perché magari qualche investigatore deve finire in prima pagina e qualche giornalista amico suo lo pompa. Così il caso Tortora non è servito a niente, ammette desolatamente la figlia dell’ex presentatore che oggi lavora a “La7” e che per anni ha sempre diffidato, giustamente, chicchessia a paragonarsi a suo padre. Ora però, constatato il fallimento verticale, senza sé e senza ma, dell’impresa giustizia nel Bel Paese, i paragoni con enorme onestà intellettuale li fa lei. E cita il caso del povero Giuseppe Gulotta. Che in un libro sulla propria lunga Odissea nelle carceri e nella giustizia italiana sostiene che siccome “Giuseppe Gulotta non è Enzo Tortora nessuno si occupa del suo caso...” Cosa che purtroppo rappresenta altra vergognosa realtà del sistema. Insomma oramai il paragone con Tortora viene sdoganato anche perché in fondo era proprio lui che da vivo si metteva sullo stesso piano di “chi non ha voce”. Per dargliela. E mai come in questo momento il docufilm sulla vicenda umana e giudiziaria di Enzo Tortora, curato da Ambrogio Crespi e prodotto dal Gruppo Datamedia, appare l’iniziativa giusta al momento giusto.

Questa è la prova che mio papà è morto invano. Quante volte mi è stato chiesto un ricordo, un commento, una intervista sulla vicenda di mio padre? Molte. Com’è normale che sia in questi casi. Le stesse volte in cui ho accettato e poi mi sono..., scrive Gaia Tortora su “Il Tempo”. Quante volte mi è stato chiesto un ricordo, un commento, una intervista sulla vicenda di mio padre? Molte. Com’è normale che sia in questi casi. Le stesse volte in cui ho accettato e poi mi sono ritrovata davanti al computer e a tanti ricordi e parole e immagini nella testa. Questa volta però, mentre da «Il Tempo» mi spiegavano come sarebbe uscita l’inchiesta del giornale, la mia mente è tornata a poche settimane fa. Ad un libro. Alla storia di un uomo. Lui si chiama Giuseppe Gulotta. Il suo libro Alkamar - la mia vita in carcere da innocente. È la storia di un uomo che per 36 anni è stato considerato un assassino. È stato costretto a firmare una confessione con le botte e le torture. Oggi ha 55 anni. Ha passato in cella gran parte della sua vita. È un uomo innocente finito in un meccanismo che può stritolare chiunque. Ho letto d’un fiato la sua storia, che pure conoscevo. Ma non così nei dettagli. Mi sembrava in alcune pagine di rivivere l’incubo. Quel senso di impotenza che ti soffoca. Anche in quel caso tutto è cambiato in una notte. Esattamente come per mio padre. E per noi. Dalle 4 del mattino del 17 giugno 1983 l’esistenza di mio padre viene stroncata. Giorgio Bocca lo ha definito «il più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana». Dall’arresto di quella notte alla morte di nostro padre passarono 5 anni. In mezzo, una condanna a 10 anni di carcere, poi la piena assoluzione e infine il cancro ai polmoni che lo ha portato via. Potrei dire molte cose in queste righe che mi è stato chiesto di scrivere. Molte e forse troppe ne ho già dette. Allora, come spesso mi capita quando mi chiedono qualcosa su mio padre, chiudo gli occhi e cerco di riascoltare le sue raccomandazioni. «Date voce a chi voce non ha». Ecco oggi i casi Tortora ci sono ancora. Sono molti e non li conosciamo. Mio padre era un uomo famoso. E nel bene e nel male questo ha avuto un peso. I riflettori si sono inevitabilmente accesi. Cosi riprendo tra le mani il libro di Giuseppe Gulotta e quelle parole a pag 127: «Gli anni 80 sono anni caldi per chi amministra la giustizia. Un referendum promosso dai radicali chiede una legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Troppi errori, dicono i promotori citando il caso Tortora. Ma Giuseppe Gulotta non è Enzo Tortora, nessuno si occupa del suo caso, non c'è una campagna innocentista né un garantista, fra i tanti che si definiscono tali, che parli di lui». È terribilmente vero. Ieri come oggi. I casi Tortora non hanno voce. Ieri come oggi siamo ancora qui a dibattere di riforma della giustizia. A firmare di nuovo referendum per i quali gli italiani si erano già espressi e che poi come spesso accade i nostri politici hanno fatto diventare carta straccia. Mentre infuria la battaglia sulla magistratura i processi vanno avanti. Lentamente. Le persone aspettano. La sete di giustizia in questo Paese è diventata arsura. In molti risvolti delle nostre vite. Il problema non è la magistratura italiana, ma alcuni uomini che ne fanno parte. E che possono sbagliare come tutti. Ma che avendo per le mani la vita di un essere umano dovrebbero avere maggior scrupolo proprio come un chirurgo con il bisturi o un giornalista con la penna. Sulle responsabilità dei magistrati è stato vinto un referendum nel 1987. Non chiedo che vada limitata la loro libertà. Ma i magistrati che sbagliano almeno non dovrebbero essere promossi. Basterebbe un po’ di buonsenso e di coerenza. Invece, nella maggior parte dei casi, non ti chiedono neanche scusa.

SONO INNOCENTE. LORENA MORSELLI.

Lorena Morselli. Assolta col marito dalle accuse di pedofilia non vede i 4 figli da 20 anni (Sono Innocente). Il caso di Lorena Morselli e del marito Delfino Covezzi sarà al centro della prima puntata di "Sono innocenti", in onda domenica 8 aprile su Rai, scrive l'8 Aprile 2018 Morgan k. Barraco su "Il Sussidiario". A quasi vent'anni di distanza dalla sua assoluzione, Lorena Morselli e il marito Delfino Covezzi sono ancora alla ricerca di giustizia. I coniugi di Massa Finalese sono stati accusati infatti alla fine degli anni Novanta di pedofilia, motivo per cui le autorità avevano ordinato un anno prima l'allontanamento dei quatto figli dalla casa di famiglia. Covezzi è morto a causa di un infarto nel 2013 e questo ha spinto Lorena ad assumere da sola il testimone e il fardello che porta sulle sue spalle nonostante l'assoluzione decisa dalla Cassazione nel dicembre del 2014. Il caso di Lorena Morselli verrà approfondito nel corso della puntata di Sono Innocente di questa domenica, 8 aprile 2018. Il calvario dei coniugi Covezzi è durato sedici anni, fra udienze e accuse che si sono dissolte di fronte alla conferma della loro innocenza. Tutto è iniziato nel marzo del 1999, quando Lorena e il marito Delfino ricevono il primo avviso di garanzia: l'inizio di un incubo che non sembra avere una soluzione. 

L’allontanamento dai figli. Anche se dichiarata innocente dell'accusa di pedofilia, Lorena Morselli non è mai riuscita a riabbracciare i quattro figli che le sono stati tolti per via di un errore giudiziario. Alla donna e al marito Delfino Covezzi non è mai stato permesso di poter vedere i figli, come sottolinea a Quotidiano.net, che così hanno finito per credere di essere stati abbandonati. Un particolare che la primogenita aveva riferito alla zia Anna Rosa, la sorella di Lorena, in un'occasione. L'unica che le era stata concessa per vedere i nipoti. Mentre i genitori sono stati incarcerati e sottoposti a diversi processi, i figli sono stati inoltre separati e affidati ad altre famiglie. L'unico figlio che è riuscito a rimanere al fianco della madre Lorena Morselli è il quinto, Stefano, di cui era incinta nel 1999. Oggi la donna vive in Francia, dove ha dato alla luce il suo ultimo figlio e dove ha deciso di mettere radici. Ed è proprio in Provenza che il marito Delfino ha esalato l'ultimo respiro, a causa di un infarto che lo ha spento nell'agosto del 2013. 

La lettera del figlio Stefano. Lorena Morselli non ha mai smesso di cercare giustizia per sé e per il defunto marito Delfino Covezzi. Entrambi assolti dalle accuse di pedofilia, non sono riusciti a poter riabbracciare i quattro figli che le autorità hanno deciso di affidare ad altre famiglie. La donna ha ripercorso il suo calvario durante una puntata de I Fatti Vostri, sottolineando come alla fine anche il figlio Stefano, l'unico che è riuscita a tenere al proprio fianco, è stato privato della possibilità di conoscere i suoi fratelli. Proprio per questo Lorena ha deciso di lanciare un nuovo appello tramite le tv nazionali, non chiedendo di poter essere perdonata dai figli, ma di permettere ai fratelli di poter trovare un punto di incontro. Di recente è intervenuto anche don Erio Castellucci, il Vescovo di Modena che lo scorso febbraio ha deciso di dare il proprio aiuto a Stefano Covezzi. Il figlio di Lorena Morselli aveva infatti scritto una lettera commovente al senatore Giovanardi, chiedendo di poter finalmente chiudere la tragedia che ha colpito tutta la sua famiglia. Lo stesso scritto infatti era stato inviato a don Erio perché Agnese, Paolo, Enrico e Valeria, i suoi fratelli, potessero almeno incontrarlo. 

La lettera ai figli. All'epoca dell'arresto di Lorena Morselli e Delfino Covezzi, i quattro figli avevano solo 11, 9, 8 e 3 anni. Ora più che maggiorenni, i figli della coppia vivrebbero nel Reggiano in quattro famiglie diverse, una decisione che le autorità hanno preso andando contro la richiesta della coppia di poter tenere uniti i fratelli. Secondo le ultime notizie riportate da Il Resto del Carlino e diffuse dalla stessa Lorena, solo la figlia Agnese sarebbe andata a vivere in provincia di Parma. Nel corso degli anni, la donna si è dovuta difendere da pesanti accuse, additata come pedofila e parte di accuse di massa che nello stesso periodo hanno colpito diverse famiglie. Alcune delle vittime hanno confermato una volta maggiorenni gli abusi subiti dagli stessi familiari, come sottolinea La Repubblica, anche se queste accuse non riguardano i figli di Lorena. Quest'ultima invece ha approfittato della riapertura del dibattito in seguito a un'inchiesta del quotidiano nazionale per scrivere una lettera indirizzata ai quattro figli, quelli che non ha potuto crescere e di cui non ha mai avuto notizie. La “mamma dei quattro fratellini di Massa Finalese”, come è stata spesso indicata in seguito allo scandalo, si difende. Nel suo lungo scritto sottolinea di non aver mai accusato i figli di aver mentito, scegliendo di contro di manifestare ancora una volta l'affetto che l'ha sempre legata ai suoi bambini.

Sono Innocente torna in onda domenica 15 aprile 2018 con Alberto Matano: le storie di Domenico Morrone, Stefano Messore e Aldo Scardella al centro della puntata, scrive Stella Di Benedetto il 15 aprile 2018 su "Il Sussidiario". Oggi, domenica 15 aprile, alle 21.20 su Raitre, torna l’appuntamento con Sono Innocente, il programma condotto dal giornalista Alberto Matano che racconta le storie di persone che si sono ritrovati ad essere coinvolti in vicende giudiziarie pur essendo innocenti. Storie di uomini e donne che, da un giorno all’altro, si ritrovano in carcere pur essendo totalmente estranei alla vicenda. Mesi, in alcuni casi anni trascorso dietro le sbarre di una cella non riuscendo a spiegarsi il motivo. In ogni puntata, Alberto Matano racconta tre casi giudiziari diversi e uguali allo stesso tempo.

IL CASO DI DOMENICO MORRONE. Il primo caso della serata è quello di Domenico Morrone, pescatore tarantino di 27 anni, che nel 1991 è stato accusato dell’omicidio di due ragazzini minorenni. Gli inquirenti non hanno dubbi convinti che Morrone abbia agito per vendicarsi di un affronto subito da uno dei ragazzini. L’uomo viene condannato a 21 anni di reclusione. La sua innocenza è stata dimostrata dopo 15 anni unitamente alla testimonianza di due pentiti e a cinque richieste di revisione di processo.

IL CASO DI STEFANO MOSSORE. La seconda storia della puntata odierna di Sono Innocente è quella di Stefano Mossore, ex paracadutista della Folgore, da molti anni impegnato nel volontariato, dopo il terremoto del 2016 che ha distrutto il Centro Italia, decide di andare ad aiutare quelle popolazioni. Affitta così un furgone, lo riempie di cibo, vestiti, giocattoli e con un amico parte per Amatrice. Mossore si impegna per aiutare quelle popolazioni e contribuisce a costruire anche la tendopoli. Il 3 settembre 2016 torna a casa sua dove, ad attenderlo, trova i carabinieri che lo accusano di sciacallaggio. Mossore trascorre cinquanta giorni di carcere e dieci mesi agli arresti ai domiciliari. Prima di essere assolto, Stefano Mossore ha subito anche il dramma di perdere il lavoro.

IL CASO DI ALDO SCARDELLA.

La terza ed ultima storia dell’appuntamento di oggi con Sono Innocente è quella di Aldo Scardella che nel 1985 a soli 25 anni, viene accusato dell’omicidio del titolare di un piccolo market di liquori durante un tentativo di rapina. La banda è formata da tre persone, ma viene arrestato solo Aldo Scardella. Gli inquirenti sono convinti che sia uno dei colpevoli perché nei pressi del palazzo dove abita viene ritrovato uno dei passamontagna usati dai banditi e sulle testimonianze di alcuni, che nei giorni precedenti lo avrebbero visto nei pressi del locale rapinato. Aldo viene arrestato e trascorre quasi sei mesi dietro le sbarre in regime di totale isolamento, senza poter vedere i suoi avvocati e i suoi familiari. Non reggendo il peso della situazione e non potendo dimostrare la sua innocenza, Aldo si impicca nella sua cella il 2 luglio del 1986. Prima di togliersi la vita lascia un biglietto che si conclude con le seguenti parole: "Muoio innocente".

SONO INNOCENTE. DOMENICO MORRONE.

DOMENICO MORRONE. Risarcito dopo 15 anni di carcere: “Ma la libertà non ha prezzo” (Sono innocente). Questa sera, domenica 15 aprile, a Sono innocente sarà raccontata la storia di Domenico Morrone, che ha trascorso 15 anni in carcere prima di essere assolto dall'accusa di duplice omicidio, scrive Morgan k. Barraco il 15 aprile 2018 su "Il Sussidiario". “Sono innocente” ha raccontato nella puntata di oggi la storia di Domenico Morrone, che ha trascorso 15 anni in carcere a causa della condanna definitiva per il duplice omicidio di due studenti minorenni. Era il 1991 e a Taranto era in corso una guerra tra clan. L'unica colpa di Morrone è quella di aver litigato con un ragazzino che è stato poi ucciso. Contro di lui c'è un movente fortissimo: si sarebbe vendicato dell'agguato subito, quindi viene arrestato. Testimoni oculari, un esame dello stub dall'esito incerto e un movente fortissimo: questi sono gli elementi che lo portano in cella. Morrone durante il processo tira in ballo due testimoni che confermano il suo alibi, ma entrambi vengono denunciati per falsa testimonianza. Il caso si tinge di giallo quando dall'ufficio corpi di reato spariscono prove che lo scagionano. Nei 15 anni di carcere ha però conosciuto l'umanità di guardie e operatori carcerari. Dopo nove anni dietro le sbarre ottiene un permesso di tre giorni che decise di trascorrere con sua madre. In due pentiti ripose le sue uniche speranze di scarcerazione. Per i suoi 15 anni trascorsi in carcere da innocente ha ricevuto 4 milioni di euro di risarcimento. A tal proposito ha dichiarato: «La libertà di ogni singolo giorno della nostra vita non ha prezzo». (agg. di Silvana Palazzo)

Oggi 55enne, Domenico Morrone aveva 42 anni quando è stato riconosciuto innocente per l'accusa di duplice omicidio ai danni di due studenti minorenni. Il tarantino dovrà trascorrere infatti 15 anni in carcere a causa della condanna definitiva, prima di poter riavere la propria libertà. Il caso di Domenico Morrone si chiuderà definitivamente nel 2006, quando la Corte d'Appello di Lecce stabilirà grazie al processo di revisione che si è trattato di un errore giudiziario. Quanto accaduto a Domenico Morrone verrà raccontato nella puntata di oggi, domenica 15 aprile 2018, del programma “Sono Innocente”. Si tratta forse del caso più eclatante di errore giudiziario della storia italiana, come ha sottolineato il suo legale, l'avvocato Claudio DeFilippi, pochi giorni prima del rilascio del suo assistito. All'epoca dell'arresto, Morrone è incensurato ed è un pescatore di Taranto dalla fedina impeccabile. Il giorno del suo arresto non perderà tuttavia solo la propria libertà e dignità, ma anche la fidanzata. Ed anche se affermerà fin dalle prime ore di non essere colpevole del duplice delitto dei due studenti, gli inquirenti saranno convinti della sua colpevolezza. A dimostrarlo delle prove inconfondibili per il pm Vincenzo Petrocelli, ricorda Il Corriere della Sera, due testimonianze che affermano di averlo visto sulla scena del crimine. 

Domenico Morrone e l’omicidio di due minorenni. Domenico Morrone verrà considerato per 15 anni il responsabile della morte di Giovanni Battista, all'epoca dei fatti 17enne, e del quindicenne Antonio Sebastio. I due ragazzi infatti sono stati uccisi mentre si trovavano di fronte alla scuola alla periferia di Taranto che frequentavano entrambi. Un delitto brutale, compiuto con una calibro 22 da un sicario che ha sparato diversi colpi verso le due vittime. Secondo gli inquirenti, Morrone ha ucciso i due studenti per via di una lite avvenuta con Battista qualche giorno prima e durante la quale era stato ferito. Alcuni testimoni riferiranno in sede processuale di aver sentito l'imputato minacciare di morte le due vittime, accusandoli di essere legali alla criminalità locale. A nulla sono servite le prove portate all'attenzione dei giudici dal difensore Claudio DeFilippi. Secondo il legale di Morrone, infatti, i due delitti erano da collegare ad uno scippo messo in atto dalle due vittime ai danni di una donna. Eppure la condanna per omicidio verrà confermata, anche se l'imputato fornirà subito un alibi confermato nel corso dell'iter processuale. La Cassazione infatti, ricorda Il Corriere della Sera, non terrà in considerazione il fatto e della conferma dei coniugi Masone, che come la madre di Morrone verranno accusati invece di falsa testimonianza. 

In carcere a 27 anni. Il giorno del suo arresto Domenico Morrone aveva appena 27 anni e riuscirà a uscire dal carcere solo in età adulta. L'esperienza carceraria non impedirà solo all'uomo di poter vivere la sua vita da incensurato, ma provocherà nel suo animo profondi turbamenti. Al momento del rilascio, Morrone infatti mostrerà un fisico stravolto dalla sofferenza, in preda a forti depressioni e malattie virali. Oltre al danno anche la beffa: Morrone perderà a causa della condanna anche la fidanzata, mentre la madre verrà ridotta in povertà. La donna infatti riusciva a sostenersi solo grazie al lavoro di pescatore del figlio e in sua assenza non era più in grado di avere una vita agiata. La madre di Morrone tra l'altro morirà l'anno successivo alla scarcerazione del figlio, dietro le sbarre fin dal 1991. Per l'errore giudiziario subito, l'uomo chiederà infine un risarcimento di 12 milioni allo Stato italiano. Soprattutto alla luce dei due annullamenti avvenuti in Cassazione e delle successive conferme della condanna a 21 anni invece messe in atto dalla Corte d'Assise di Bari. I giudici infatti hanno scelto di non tenere in considerazione dell'alibi di Morrone, confermato dai vicini di casa Masone, dalla madre e da un amico appuntato. Il movente del duplice delitto di Giovanni Battista e Antonio Sebastio era riconducibile ai loro occhi a quella denuncia che l'uomo aveva sporto contro i due ragazzini, per via di una strana attività collegata a dei motorini. Per questo e per le testimonianze di due minorenni, sottolinea La Repubblica, verrà considerato autore della tragedia.

È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso.

Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita.

Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la corte d’appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto.

Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono condannate per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui al Giornale - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’assise d’appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Ora, finalmente, la giustizia si mostra comprensiva con chi è stato vittima di un errore così grave: la corte d’appello di Lecce nota anzitutto che l’Avvocatura dello Stato «non si oppone alla liquidazione» della cifra. La scorsa estate Morrone aveva chiesto allo Stato un risarcimento di 12 milioni di euro; il tempo di condurre una rapida trattativa e il ministero si è detto disponibile a chiudere la pratica a quota 4, 5 milioni di euro. Senza opposizioni e contestazioni. La somma totale di 4,5 milioni è così ripartita: 1 milione e 300mila euro per la privazione della libertà; 1 milione e 700mila euro per i danni non patrimoniali; 1 milione per il danno patrimoniale da mancato guadagno; 500mila euro per le spese legali e per gli onorari del difensore. Un record per l’Italia. E anche un primato di velocità.

Ma non finisce qui. Morrone vuole presentare il conto anche ai magistrati che hanno sbagliato e per questo ricorrerà alla legge sulla responsabilità civile dei giudici. Il pescatore, come impone la norma, si rivolgerà alla Presidenza del consiglio, chiedendo 8 milioni di euro per l’operato di Vincenzo Petrocelli, il magistrato di Taranto che l’aveva messo sotto accusa.

SONO INNOCENTE. STEFANO MESSORE.

“Nonostante l'ingiustizia subita, aiuterei ancora i terremotati” (Sono innocente). Stefano Messore è stato accusato di sciacallaggio dopo il terremoto del 24 agosto 2016. Dopo 50 giorni di galera e 10 mesi di domiciliari è stato assolto. La sua storia a "Sono innocente", scrive Morgan k. Barraco il 15 aprile 2018 su "Il Sussidiario". “Sono innocente” racconta oggi la storia di Stefano Messore, il volontario arrestato per sciacallaggio dopo il terremoto di Amatrice. «Sono solo riuscito a dire: aiuto, mi stanno portando in carcere», ha raccontato in merito al momento dell'arresto. Finito 50 giorni in carcere con l'accusa di sciacallaggio, sente di essersi «ritrovato in una storia surreale». Un racconto doloroso quello di Stefano: «Avevo dato tutto per aiutare i terremotati, ma non rinuncerei mai alla solidarietà». E infatti ha chiesto una cosa alle sue figlie: «Ho detto loro che non dovevano cambiare per quello che mi è successo». E infatti non si è detto pentito di essersi offerto volontario: «Rifarei tutto, nonostante l'ingiustizia subita. Correrei ad aiutare queste popolazioni». L'amarezza però resta: «Chi mi restituirà quei giorni trascorsi in carcere?». Sono innocente ha intervistato anche sua figlia Giada: «La vita è tornata come prima, anche se i miei genitori lavorano di più ora. Ho imparato che, anche se poteva succedere a chiunque, non dobbiamo smettere di aiutare le persone, perché è una cosa bellissima». (agg. di Silvana Palazzo)

Stefano Messore, il volontario arrestato per sciacallaggio. L'incubo di Stefano Messore inizia il 24 agosto del 2016, data che viene ricordata per il terremoto che ha colpito il Centro Italia. Sono stati tanti i cittadini a perdere tutto nel tragico evento, così come molti sono intervenuti in massa per prestare soccorso come volontari. Un'occasione che ha dato modo anche a degli sciacalli di farsi avanti e sottrarre gli aiuti ai disagiati. Messore sarà fra chi cercherà di aiutare i terremotati, ma la sua presenza sul posto lo porterà a finire in galera per 50 giorni. L'accusa è di aver derubato le vittime del terremoto. La storia di Stefano Messore verrà raccontata nella puntata di “Sono Innocente” di oggi, domenica 15 aprile 2018. Originario del quartiere romano Labaro, Messore è un istruttore di arti marziali e gestisce una palestra di sua proprietà. Sposato con tre figlie, non si tirerà indietro di fronte alla possibilità di aiutare quanti hanno perso tutto a causa del terremoto. Il 3 settembre, racconta a Today, stav assistendo le vittime e sta allestendo delle tende ad Acquasanta Terme, quando i Carabinieri lo accusano di aver rubato il materiale che lui stesso ha portato sul posto. Sulle prime Messore crede che si tratti di un equivoco che si risolverà in poco tempo, ma ad attenderlo ci sarà quella cella in cui verrà confinato per oltre un mese.

Stefano Messore, da soccorritore a sciacallo. Stefano Messore è stato etichettato come un criminale nonostante fosse accreditato fra i soccorritori del terremoto del 2016. In quel momento si trovava al fianco di moglie e figlie per aiutare le vittime e gestire i prodotti inviati grazie agli aiuti, gli stessi che poi trasportava con un furgone viaggiando da Labaro fino al Centro Italia. Quel giorno anche Messore si ritroverà a perdere qualcosa. Il primo giorno di scuola di una delle bambine, diversi compleanni e infine anche i clienti della sua palestra. Dopo essere stato rilasciato, Messore infatti dovrà trascorrere dieci mesi agli arresti domiciliari prima di essere riconosciuto innocente delle accuse. Un periodo di tempo che permetterà ai clienti della palestra di disdire le iscrizioni. Una tragedia nella tragedia visto che, come sottolinea a Today, era lui a portare a casa i soldi per sostenere la famiglia, mentre la moglie si dedicava al ruolo di mamma. L'arresto di Messore va comunque visto all'interno di un contesto molto più ampio. Le autorità infatti sospetteranno della sua malafede a causa delle informazioni ricevute sulla malavita presente ad Amatrice per sottrarre gli aiuti destinati ai terremotati. Un'operazione che infine porterà a dieci arresti e diverse denunce. I criminali in questione, ricorda Il Corriere della Sera, si erano fatti accreditare come soccorritori per poter superare i posti di blocco senza problemi. Anche per questo il lasciapassare di Messore non lo aiuterà a dimostrare la propria innocenza.

Arrestato con Massimiliano Pietroletti. Stefano Messore non sarà l'unico accusato di concorso in furto aggravato durante il terremoto di Amatrice del 2016. Quello stesso giorno di settembre, le autorità fermeranno infatti un altro cittadino romano, Massimiliano Pietroletti. Secondo le indagini, entrambi avrebbero approfittato del furgone Doblò che riportava il simbolo della Regione Lazio e della Protezione civile per derubare gli aiuti umanitari, compresi i giocattoli destinati ai bambini. Una volta informate dello sciacallaggio in corso, le forze dell'ordine iniziano a battere a tappeto la zona, aumentando di 20 agenti il contingente già presente sul campo. Vengono controllate le case e le macerie, abitazione inagibili e integre. Fra le dieci persone arrestate non c'è solo un innocente come Stefano Messore, ma anche due pregiudicati con un passato per rapina e di origine romena, oltre ad alcuni soggetti che al momento dell'arresto vengono sorpresi con arnesi da scasso a bordo della propria auto. Lo sciacallaggio verrà visto con estrema gravità soprattutto perché la tragedia ha messo in ginocchio il Centro Italia: la volontà della Polizia è di dare una pena esemplare a chi cerca di approfittarsi di una situazione simile. Anche per questo occorrerà molto tempo prima che Messori venga riconosciuto come innocente. Nemmeno la prima udienza, sottolinea Il Corriere della Sera, in cui l'uomo accuserà Pietroletti di averlo ingannato e di essersi approfittato della sua buona fede per portare via del materiale.

SONO INNOCENTE. ALDO SCARDELLA.

Lo studente sardo che si suicidò dopo dopo 185 giorni in prigione (Sono innocente). Questa sera nella trasmissione “Sono innocente” su Rai3 si parlerà della tragica vicenda dello studente universitario Aldo Scardella, accusato ingiustamente di omicidio nel 1985, scrive Morgan k. Barraco il 15 aprile 2018 su "Il Sussidiario". Il caso Aldo Scardella rimarrà nella storia degli errori giudiziari commessi in Italia. E non solo perché il giovane studente di Cagliari verrà ritenuto responsabile dell'omicidio dell'imprenditore Giovanni Battista Pinna: i 185 giorni che Scardella trascorrerà in carcere lo spingeranno infine verso il suicidio. Le accuse contro il ragazzo riguardano un omicidio avvenuto due giorni prima di Natale, nel 1985. In quel giorno due (o tre) criminali vengono avvistati mentre prendono di mira il titolare di una rivendita di liquori sita a Cagliari, mentre sta preparando la chiusura. Nonostante non ci fosse alcuna prova, sarà l'universitario cagliaritano a essere accusato del delitto e infine rinchiuso in una cella di isolamento del penitenziario di Oristano. La storia di Aldo Scardella verrà raccontata da “Sono Innocente”, il programma di Rai 3, nella puntata di oggi, domenica 15 aprile 2018. Una storia agghiacciante che dimostra come il ragazzo sia stato costretto non solo a subire un'accusa ingiusta, ma anche a rimanere del tutto isolato. Gli inquirenti infatti stabiliranno che nessuno, né la famiglia né il suo difensore, possano avvicinarlo. Da quel carcere, ricorda Il Giornale, Scardella uscirà solo una volta morto, nei primi giorni di luglio del 1986.

Il passamontagna trovato nel giardino di casa Scardella. Perché Aldo Scardella è stato considerato colpevole del delitto di Giovanni Battista Pinna? Tutto ruota attorno a un passamontagna che i killer dell'imprenditore cagliaritano lasceranno nel giardino dello studente, a poche centinaia di metri dalla scena del crimine. Secondo le prime ricostruzioni, l'omicidio di Pinna è avvenuto per la rapina messa in atto dai due killer, intenzionati a derubare il titolare del Bevimarket dell'incasso. Tre giorni dopo l'omicidio, la Squadra Mobile di Cagliari entrerà nella casa di Aldo Scardella per perquisirla e il giovane verrà interrogato. Anche se il 24enne riuscirà a fornire subito un alibi e non verranno riscontrate tracce sul passamontagna, nessuno crederà all'innocenza di Aldo, che verrà quindi trasportato nel penitenziario di Oristano. Eppure il capo d'accusa citerà la presenza di indizi di colpevolezza sufficienti a poterlo indicare come responsabile dell'omicidio Pinna e anche a rinchiuderlo in isolamento forzato per dieci giorni. Il motivo è da ricondurre a quegli indizi, scrive Il Giornale, che anche se non dimostrano con certezza la colpevolezza di Scardella, sono sufficienti per le autorità per metterlo sotto pressione. Un tentativo di farlo crollare tramite torture morali che in seguito alla sua morte verrà messo al vaglio del Parlamento italiano. Solo dieci anni dopo il suicidio di Aldo si riuscirà a scoprire i colpevoli dell'omicidio Pinna, Walter Camba e Adriano Peddio, grazie a un collaboratore di giustizia.

Enzo Tortora si occupò del caso. Il suicidio di Aldo Scardella ha messo l'accento su tanti punti interrogativi. Le lacune sul modus operandi della Procura di Cagliari sono state sottolineate da diverse interrogazioni parlamentari richieste dai cittadini italiani, con cui si sono messi in luce i diversi errori. A partire dal fatto che la famiglia di Aldo è stata informata del carcere in cui si trovava rinchiuso solo diversi giorni dopo il suo arresto. Senza considerare, ricorda Il Giornale, che al ragazzo è stato impedito non solo di avere un contatto con la propria famiglia, ma anche con il difensore. L'avvocato tra l'altro non è riuscito a parlare con lo studente cagliaritano nemmeno nei mesi successivi al suo arresto, mentre la famiglia lo incontrerà 3 volte in tutto. Aldo Scardella tuttavia non è mai stato dimenticato, soprattutto da chi si è ritrovato a condividere con il 24enne, seppur a distanza di tanti anni, lo stesso crudele destino. Rimane nella memoria il desiderio di Enzo Tortora infatti di voler deporre dei fiori sulla tomba del giovane. E non solo, perché per uno scherzo del destino anche il collaboratore di giustizia Antonio Fanni, che dodici anni dopo la tragedia ha scagionato Scardella da ogni accusa, si ucciderà nel carcere di Spoleto. Il pregiudicato era conosciuto come membro della banda Is Mirrionis, ricorda Repubblica, una gang che negli anni Ottanta ha messo in ginocchio Cagliari a causa di furti, rapine, attentati e omicidi.

Sono Innocente su Rai3: casi del 22 aprile 2018, scrive Debora Marighetti su Notizie tv, Rai, Rai3. Stasera, domenica 22 aprile 2018, alle 21.20 circa su Rai3 tornerà Sono Innocente, il programma condotto dal giornalista Alberto Matano che racconta storie di errori giudiziari, di innocenti condannati ingiustamente, detenuti e poi scarcerati e risarciti dallo Stato. Si tratta della terza puntata stagionale.

Si inizierà con la storia di Maria Vittoria Pichi. Ha 27 anni e lavora come dipendente in una farmacia quando, il 17 dicembre del 1981, a Verona, un commando delle Brigate Rosse rapisce il generale della Nato James Lee Dozier. In poche ore la notizia fa il giro del mondo. La risposta delle forze dell’ordine è immediata. Perquisizioni e posti di blocco si alternano senza sosta in ogni angolo della città. A 10 giorni dal rapimento vengono arrestati alcuni giovani: tra loro c’è anche Maria Vittoria che, in quel periodo, fa parte di un movimento studentesco. Con il sequestro lei non ha niente a che fare eppure, prima di dimostrarlo, dovrà trascorrere quasi tre mesi nel carcere della Giudecca a Venezia.

La seconda storia parla di casi giudiziari che hanno avuto una grande risonanza mediatica. In particolare in studio con Alberto Matano ci sarà Patrick Lumumba, accusato del delitto di Meredith Kercher. Arrivato a Perugia per studiare all’Università per Stranieri, conosce una ragazza polacca con la quale mette su famiglia. Abbandona gli studi e apre un piccolo locale frequentato particolarmente da studenti. Conosce Meredith Kercher e Amanda Knox perché lavorano nel suo pub. E’ probabilmente questa la ragione del suo coinvolgimento in uno dei casi di cronaca nera più clamorosi della nostra storia recente: Lumumba viene accusato da Amanda Knox di avere ucciso Meredith. Trascorre due settimane in carcere prima di essere scagionato e prima di vedere Amanda condannata per calunnia. Adesso Patrick vive in Polonia.

L’ultima testimonianza vede protagonista Alberto Ogaristi. A Casal di Principe, nel 2002, è in atto una vera e propria guerra di camorra. A febbraio avviene un omicidio per il quale è condannato un ragazzo del posto di 25 anni, Alberto. Viene identificato da un testimone ma lui, con il fatto di sangue, non c’entra nulla. In quel momento si trovava alla festa di compleanno della nipote. Nessuno gli crede e, dopo vari processi, viene condannato all’ergastolo. Ma la famiglia non si arrende; i suoi parenti si attivano e riescono a scoprire la verità grazie alla testimonianza di un camorrista che aveva partecipato realmente all’omicidio. Le sue parole scagionano Alberto che, dopo un tormentato processo di revisione, viene assolto per non aver commesso il fatto.

SONO INNOCENTE. MARIA VITTORIA PICHI.

Maria Vittoria Pichi. Arrestata per il sequestro di James Lee Dozier: 100 giorni in prigione (Sono Innocente). Il 28 dicembre 1981 Maria Vittoria Pichi viene arrestata nell’ambito delle indagini sul sequestro del generale americano James Lee Dozier, scrive il 22 aprile 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". La storia di Maria Vittoria Pichi, una farmacista delle Marche, inizia nel dicembre del 1981. È in questa data che i Carabinieri arrestano la giovane con l'accusa di sequestro di persona e terrorismo. Un racconto drammatico che la protagonista di quest'incubo ripercorre nel suo libro autobiografico “Come una lama”, edizione Italic. Il suo caso verrà approfondito invece nella puntata di Sono Innocente di questa sera, domenica 22 aprile 2018, grazie alla ricostruzione con i documenti storici di quanto avvenuto in quei giorni. Maria Vittoria Pichi verrà rinchiusa dietro le sbarre per oltre cento giorni, per un crimine che la vedrà alla fine innocente. La sua unica colpevolezza all'epoca sembra il suo interesse politico e una serie di coincidenze che hanno come sfondo gli anni di piombo italiani. Sono anni difficili, in cui la pressione esterna è tale che l'attenzione di autorità e giustizia sembra concentrarsi più sul trovare dei colpevoli ad ogni costo, scrive la Pichi, piuttosto che a dimostrare tramite prove certe che le accuse sono fondate. E sarà proprio quella giovane farmacista, che in quel momento viveva in un paesino distante da Padova pochi km, a finire in una ragnatela da cui sarà difficile uscire.

Il sequestro di James Lee Dozier Arrestata, condannata e innocente. Maria Vittoria Pichi ha vissuto un vero incubo a partire dal 28 dicembre del 1991, ritrovando alla fine se stessa e scoprendo il suo inedito lato da scrittrice proprio grazie agli eventi che ha vissuto. Le indagini delle autorità sul suo conto iniziano per via del sequestro di James Lee Dozier, un generale americano. Le Brigate Rosse si prenderanno subito il merito dell'azione, soprattutto perché il rapimento dell'ufficiale rappresenta un evento importante che riguarda non solo lo Stato italiano, ma anche l'America e persino la NATO. Le pressioni dall'esterno diventano sempre più forti proprio per le origini del Generale. L'America preme e l'Italia inizia a organizzare retate e perquisizioni di massa negli ambienti politici frequentati dai membri della sinistra estrema. In tutto questo si ritroverà coinvolta Maria Vittoria Pichi, che verrà tratta in arresto al fianco del compagno Paolo. Riuscirà a raccontare quanto le è successo, sottolinea Senigallia Notizie, solo 27 anni dopo quei terribili giorni. Il pretesto del suo arresto sembra riconducibile alla presenza di alcuni volantini di organizzazioni para-terroristiche che verranno trovate nell'auto della coppia. Materiale che a detta della Pichi erano facilmente reperibili e distribuiti in tutte le assemblee della sua fazione politica. E la loro diffusione non implicava necessariamente far parte delle Brigate Rosse, motivo per cui sia Maria Vittoria che Paolo verranno prosciolti in seguito da ogni accusa.

Maria Vittoria Pichi, cento giorni in carcere. Anche se Maria Vittoria Pichi verrà considerata innocente agli occhi della giustizia, dopo 100 giorni di carcere ingiusto, il suo paese d'origine la vedrà per lungo tempo come una terrorista. E ancora di più come una raccomandata. L'ex farmacista verrà additata infatti come una finta innocente dai suoi compaesani, per via del presunto intervento del padre. Per Senigallia la Pichi rimarrà sempre una terrorista, sottolinea in un'intervista al giornale locale, soprattutto perché i titoloni altisonanti con cui è stato trattato il suo arresto colpiranno duramente la popolazione. Di contro, nessuno sembrerà ricordare i successivi, quelli che riguarderanno la sua assoluzione piena. Ed è anche il motivo per cui Maria Vittoria ha voluto scrivere il suo libro Come una lama, per ricordare ciò che è stato dimenticato dalla popolazione e per dire la sua in merito a quanto accaduto. Le accuse dirette alla donna coinvolgeranno tuttavia anche la famiglia, dato che i genitori rimarranno a vivere a Senigallia senza curarsi di ciò che stava avvenendo. E immancabilmente vivranno sulla loro pelle l'onta attribuita alla figlia, che riuscirà a togliersi di dosso solo grazie alla propria coscienza. Anche Maria Vittoria del resto è dovuta ritornare nella sua Senigallia a distanza di tanto tempo, molto dopo quei fatti degli anni Ottanta. Ed è lì che vive ancora, dove per molti rimane "la terrorista".

SONO INNOCENTE. PATRIK LUMUNBA.

Patrick Lumumba. Il congolese ingiustamente accusato e incastrato da Amanda Knox (Sono Innocente). Nella puntata di questa sera di "Sono Innocente" si parlerà del delitto di Meredith Kercher, con la testimonianza di Patrick Lumumba che fu ingiustamente accusato, scrive il 22 aprile 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". La vita di Patrick Lumumba verrà segnata in modo inesorabile dal delitto di Meredith Kercher. La studentessa 22enne di Londra viene uccisa nel novembre del 2007 in circostanze che appaiono subito oscure. Al centro delle indagini verranno messi subito tre nomi e non solo quello di Lumumba: Amanda Knox e Raffaele Sollecito. La prima è la coinquilina della vittima, il secondo il ragazzo che Amanda frequenta in quel periodo. E sarà proprio la ragazza a fare il nome di Lumumba dopo diverse pressioni da parte delle autorità. Il caso di Patrick Lumumba verrà trattato nella puntata di Sono Innocente di oggi, domenica 22 aprile 2018, in onda su Rai 3. Qual è il collegamento fra l'uomo e la ragazza di Seattle, oltre che di entrambi con Meredith Kercher? Amanda Knox all'epoca dei fatti lavora come barista nel bar gestito dall'uomo e lo indicherà in tempo record come responsabile del delitto di Meredith. Accuse infondate che le comporteranno una condanna a tre anni per calunnia nei suoi confronti. In un'intervista a La Zanzara, il programma di David Parenzo e Giuseppe Cruciani su Radio24, Lumumba si è dichiarato addolorato della successiva assoluzione della Knox, sicuro che sia in realtà colpevole dell'omicidio della coinquilina: "Sono sicuro che Amanda sa chi ha ucciso la povera Meredith, deve sapere cosa è successo. Sono convinto". Il congolese del resto non ha mai creduto al fatto che la ragazza lo avesse accusato solo per lo stress vissuto durante i molteplici interrogatori. Soprattutto alla luce dei dissapori che i due hanno sempre vissuto durante il loro rapporto di lavoro e che avevano spinto Lumumba a pensare di licenziare la ragazza poco prima dell'orrenda tragedia.

L’accusa di Amanda Knox. Patrick Lumumba verrà accusato dell'omicidio di Meredith Kercher e finirà in carcere per le accuse di una delle sospettate. Alla sua assoluzione verrà risarcito con 8 mila euro per ingiusta detenzione, un trattamento non equo ai suoi occhi. E non solo per quanto riguarda Amanda Knox, colei che lo farà finire in carcere e che volerà nella madre patria America subito dopo l'assoluzione. Anche per quanto riguarda il trattamento che il congolese sente di aver ricevuto dallo Stato italiano. A suo dire la Knox sarebbe inoltre a conoscenza di chi ha davvero compiuto il delitto e sarebbe così abile nel recitare da essere riuscita a farsi beffe persino delle autorità. Come ricorda Il Corriere della Sera, l'omicidio di Meredith verrà attribuito alla fine solo a Rudy Guede, unico dei tre imputati a rimanere dietro le sbarre e a subire la condanna. La Knox e Raffaele Sollecito verranno invece assolti in via definitiva nel corso degli anni successivi. All'epoca dei fatti Lumumba ha solo 37 anni e conosce bene sia la vittima che Amanda Knox. Sarà quest'ultima a indicare il suo nome agli inquirenti, strappandolo alla famiglia. Il congolese trascorrerà infatti due settimane dietro le sbarre prima di essere assolto da ogni accusa. E non per merito della Knox, che intanto non ritratterà mai le sue parole. A dimostrare l'innocenza di Patrick sarà un professore svizzero che testimonierà in suo favore. 

Patrick Lumumba assolto. Il nome di Patrick Lumumba verrà sempre associato all'omicidio di Meredith Kercher, la ragazza di 22 anni che lavorava saltuariamente nel suo bar. Anche in seguito al proscioglimento dalle accuse, il nome del congolese verrà usato spesso negli articoli di stampa a livello internazionale. Il delitto della ragazza americana coinvolge alla fine tre Paesi: il Congo, patria di Lumumba, l'America, che ha dato i natali ad Amanda Knox, amica e coinquilina di Meredith, e l'Italia grazie a Raffaele Sollecito. Non sarà infatti solo le dinamiche orrende con cui verrà compiuto l'omicidio di Meredith ad attirare l'attenzione della stampa internazionale, ma le origini dei tanti volti associati alla vicenda. Ed il nome di Lumumba verrà estratto dal cilindro dei ricordi anche in seguito alla distribuzione del documentario di Amanda Knox distribuito nel 2016 grazie alla piattaforma Netflix. Una carrellata dei fatti visti dal punto di vista di quella che è stata a tutti gli effetti una delle principali indiziate della tragedia. La tesi della ragazza americana negli anni è rimasta la stessa: lei e Sollecito hanno trovato il cadavere di Meredith solo dopo essere rientrati nell'appartamento che la vittima condivideva con altre tre ragazze. Come ricorda il giornale Bustle, Amanda farà leva su un messaggio inviato in risposta a Lumumba per dimostrare di averlo visto in seguito all'omicidio. Sarà materiale di una delle ritrattazioni successive della Knox, che a suo dire sarebbe costretta a parlare di un falso ricordo che la vedeva al fianco del congolese nell'appartamento della Kercher la notte del delitto.

SONO INNOCENTE. ALBERTO OGARISTI.

Alberto Ogaristi. Assolto dopo la latitanza e 5 anni in carcere per un delitto non commesso (Sono Innocente). Nella puntata di questa sera di Sono Innocente si parlerà di Alberto Ogaristi, operaio di Casal di Principe arrestato e condannato all'ergastolo per un delitto che non aveva commesso, scrive il 22 aprile 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". L'arresto di Alberto Ogaristi, avvenuto nel settembre del 2015, ha dato la possibilità alla stampa di additarlo come uno degli ultimi latitanti dei casalesi. Il clan mafioso lo avrebbe visto come uno dei fedelissimi della famiglia Schiavone, ma le autorità erano decise ad acciuffarlo anche per un altro motivo. Ogaristi viene infatti accusato di essere il responsabile dell'omicidio di Antonio Amato, uno degli affiliati della famiglia Tavoletta. Un testimone presente sulla scena del crimine punterà il dito contro l'uomo e spingerà le forze dell'ordine a considerarlo l'unico responsabile, per via della guerra innescata fra il clan della vittima e la famiglia Bidonetti, di cui fa parte l'accusato. Il caso di Alberto Ogaristi verrà trattato nella puntata di Sono Innocente di oggi, domenica 22 aprile 2018, in onda su Rai 3. Diverso tempo dopo l'arresto di Ogaristi, mentre prende piede il suo incubo personale, un pentito inizia a indicare Luigi Grassia come il vero responsabile del delitto Amato. Le sue parole tuttavia non verranno prese in considerazione dai giudici, nemmeno quando alla prima rivelazione, scrive il Corriere del Mezzogiorno, si aggiungeranno le parole di altri due pentiti, Oreste Spagnuolo e Emilio Di Caterino. La Corte d'Appello di Roma indicherà infatti nel verdetto che la revisione del processo non può avere luogo, dato che le dichiarazioni dei pentiti sono da considerarsi inattendibili. 

La latitanza di Alberto Ogaristi. Il caso di Alberto Ogaristi inizia 18 febbraio del 2002, quando Antonio Amato viene ucciso nell'ambito della faida di camorra a Villa Literno. Tutto ruota attorno a un testimone che indica Ogaristi come il killer del mafioso. Il testimone è un uomo di origini albanesi legato alla vittima in quanto cognato, fidanzato della sorella di Amato. Ogaristi verrà subito portato in Caserma per un interrogatorio ed anche se informerà subito le forze dell'ordine di essere innocente, fornendo anche un alibi, la fidanzata dell'epoca non conferma le sue parole per un motivo oscuro. Tempo dopo la ragazza avrà modo di ritrattare tutto in tribunale e Ogaristi verrà rilasciato, ma il suo destino è nelle mani del testimone e del pm. Quest'ultimo infatti richiederà in Appello che il verdetto di assoluzione si trasformi in ergastolo per via della parentela dell'accusato con uno dei boss del clan dei Casalesi. Ogaristi tuttavia decide di non finire in carcere e diventa latitante, mentre le autorità iniziano la sua caccia, fino ad acciuffarlo nel luglio del 2007. Come scrive Il Corriere del Mezzogiorno, famiglia e conoscenti faranno petizioni e manifestazioni, ma cadranno tutte nel vuoto. L'uomo verrà condannato in ergastolo per omicidio volontario grazie ad una sentenza della Cassazione. In questo scenario va però tenuto in considerazione un altro particolare. Nello stesso periodo di tempo il testimone che lo ha indicato come assassino sparirà nel nulla. Il riconoscimento del latitante quindi verrà collegato solo alla sua foto segnaletica. 

L’assoluzione dopo cinque anni di carcere da innocente. Quattro anni di carcere prima che la verità inizi a emergere. Alberto Ogaristi dovrà attendere ben di più per ritrovare la sua libertà. Nel 2008, il pentito Massimo Iovine decide di raccontare la verità sul delitto di Antonio Amato e indica come veri responsabili Gaetano Ziello, Luigi Grassia e Luigi Guida, tre che verranno incarcerati nel giro di poco tempo grazie ai riscontri di Vincenzo Caputo, all'epoca gip di Napoli. L'identificazione dei colpevoli avrebbe dovuto di conseguenza permettere ad Ogaristi di ritornare libero, ma non sarà così. Dovrà attendere in tutto 12 anni di accuse perché la Corte d'Appello di Firenze, scrive Il Mattino, lo assolva dalle accuse. Il più grande rammarico del muratore di Casal di Principe sarà di dimostrare la propria innocenza solo in seguito alla morte del padre, a cui dedicherà la sua assoluzione. Il suo nome tuttavia rimarrà impresso nella stampa italiana come il latitante che è riuscito a sfuggire all'operazione “Spartacus reset” dell'Antimafia e associato in modo indelebile al clan Schiavone di Casal di Principe. La sua colpa, a quanto sembra, è principalmente quella di aver vissuto in quella Gomorra fatta di lotte e faide intestine, non solo fra mafia e Stato ma anche fra le famiglie stesse, i clan locali. 

SONO INNOCENTE. SAVERIO DE SARIO.

Saverio De Sario. Assolto dopo essere stato condannato per abusi sui figli (Sono Innocente). Il caso di Saverio De Sario verrà ripercorso nella puntata di Sono Innocente di domenica 29 aprile 2018, in onda su Rai 3 e condotta da Alberto Matano, scrive il 29 aprile 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Poco più di un anno fa, Saverio De Sario è riuscito finalmente a rivedere la luce dopo un incubo durato 11 anni. Quattro dei quali trascorsi ingiustamente in carcere con una pesante accusa: aver violentato i due figli di 5 e 11 anni e una nipotina. Un'etichetta pesante da digerire, un'infamia che lo ha portato non solo a perdere la libertà per le denunce degli stessi ragazzini, ma a dover combattere per diversi gradi di giudizio prima di essere riconosciuto come innocente. Quanto accaduto a Saverio De Sario verrà ripercorso nella puntata di Sono Innocente di oggi, domenica 29 aprile 2018, a partire da quell'accusa che diventerà un marchio a fuoco fino alla ritrovata libertà grazie agli stessi figli che, una volta adulti, hanno scagionato il genitore. De Sario infatti viene accusato di violenza su minore e condannato per aver abusato i due ragazzini a dieci anni di carcere. Una sentenza diventata definitiva nel 2015 e poi rivista grazie alla Corte d'Appello di Perugia, in seguito a due richieste, una delle quali andata a vuoto. A permettere a Saverio di rivedere la luce del sole e uscire dal suo incubo personale saranno proprio le testimonianze dei figli Gabriele e Michele, scrive La Repubblica, che confermeranno come in realtà quella falsa confessione sia stata strappata loro dalla madre. 

Il rapporto con i figli. Saverio De Sario e i figli avevano perso ogni speranza di poter ottenere finalmente giustizia. La lotta dell'uomo contro l'accusa di violenza sui figli è stata infatti condivisa con i due ragazzi, oggi più che adulti, e che all'epoca dei fatti erano solo dei bambini. I fatti risalgono al 2001, quando il matrimonio fra De Sario e la moglie si inasprisce a causa dell'affidamento dei due ragazzi. Qualche anno più tardi è la moglie Angela ad aprire quella che sarà l'odissea dell'uomo, riuscendo nel frattempo a ottenere l'affidamento dei due figli in via esclusiva. Una verità emersa già otto anni più tardi grazie a un memoriale del figlio maggiore, Gabriele, ampiamente ignorato dagli educatori della comunità di Brescia a cui era stato affidato. In quello scritto emerge una nuova versione dei fatti: sarebbe stata Angela, come riporta una ricostruzione de La Vita in Diretta, a spingere i due figli ad accusare ingiustamente il padre. Il tutto per un motivo di gelosie e vendette dovute alla separazione in corso. Eppure tutto questo non impedirà a De Sario di ritrovarsi in carcere per due volte, in una realtà disagiata e ostile. Nelle notti nascoste in carcere, sottolinea nell'intervista, è riuscito a rimanere in piedi solo grazie alla consapevolezza di essere innocente e alla certezza che la verità sarebbe presto emersa. Senza dimenticare il sostegno dei due figli, che lo hanno supportato con tutte le loro forze. Gabriele all'epoca era già consapevole che la madre cercasse di manipolare lui ed il fratello in ogni modo, ma non riusciva comunque a dire la verità. Non era solo una violenza psicologica, ha riferito, ma anche fisica: la donna infatti avrebbe picchiato i figli per costringerli a portare avanti le false accuse. 

Le responsabilità della moglie di Saverio De Sario. Anche se i figli hanno contribuito a farlo finire in carcere, Saverio De Sario non ha mai avuto alcun risentimento nei confronti di Gabriele e Michele. Fin dalla prima incarcerazione, era sicuro che le accuse che i due ragazzini gli avevano mosso erano dovute all'influenza di una terza persona. Anzi, durante i primi anni di penitenziario De Sario ha cercato comunque di inviare dei regali ai figli, senza mai riuscirci per via del regime carcerario ristretto. Anche se i due figli hanno ritrattato tutto, la versione dell'ex moglie di De Sario è sempre stata diversa. Gabriele nel memoriale depositato agli atti e utile alla scarcerazione del padre, parla anche di come la madre Angela avrebbe abbandonato entrambi i figli. Come ha sottolineato a La Vita in Diretta, il figlio Gabriele in particolare sarebbe stato testimone dei grandi problemi che erano presenti nel matrimonio dei genitori. I due ragazzi avrebbero cercato poi di dimostrare l'innocenza del padre solo per il forte senso di colpa provato per averlo fatto incarcerare. Gabriele invece non crede che potrà mai perdonare la madre per quello che è successo, anche se sia lui che il fratello Michele hanno deciso di guardare avanti e di lasciarsi tutto alle spalle. Secondo il minore dei De Sario l'errore deve invece essere esteso anche alle autorità che non hanno indagato a fondo sulle accuse ed hanno accettato la denuncia senza alcun tipo di approfondimento.

SONO INNOCENTE. FILIPPO LA MANTIA.

Filippo La Mantia. Sei mesi all'Ucciardone per errore: da fotografo a chef (Sono Innocente). Lo chef Filippo La Mantia è stato sei mesi nel carcere dell'Ucciardone di Palermo. Entrato come fotoreporter, è uscito come cuoco. La sua vicenda giudiziaria nella puntata di Sono Innocente, scrive il 29 aprile 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Il nome di Filippo La Mantia, oggi uno degli chef più rinomati d'Italia, è strettamente collegato con Ninni Cassarà. Il vicequestore ucciso da Cosa Nostra nell'agosto del 1985 è stato raggiunto infatti da una raffica di mitra mentre si trovava di sui gradini di casa, la stessa che era stata affittata tempo prima al cuoco. Per questo, in quanto ultimo a risultare inquilino dell'appartamento, La Mantia è stato tradotto in carcere a Palermo, dove ha vissuto sei mesi prima di dimostrare la propria innocenza. La storia di Filippo La Mantia verrà raccontata nella puntata di Sono Innocente di oggi, domenica 29 aprile 2018, ripercorrendo i difficili mesi vissuti dal giovane che all'epoca svolgeva la professione di reporter. L'esperienza in carcere, sottolinea lo chef a Il Corriere della Sera, gli ha permesso alla fine di scoprire la passione per la cucina. È infatti in carcere che inizia a destreggiarsi fra i fornelli, cucinando per 11 detenuti con cui condivideva una cella dell'Ucciardone, il penitenziario di Palermo. È forse l'unico modo per il futuro cuoco di rimanere ancorato a quell'infanzia fatta di profumi e sapori di libertà e di affetti. In quel momento La Mantia inizia a sperare ogni giorno di poter dimostrare di essere innocente, soprattutto perché la casa da cui sono partiti i colpi diretti a Cassarà l'aveva abbandonata diversi mesi prima della tragedia. 

Filippo La Mantia: da fotografo a chef. Filippo La Mantia riuscirà alla fine a dimostrare di essere estraneo alla morte di Ninni Cassarà, ma dietro quelle sbarre non finirà solo il giovane 25enne siciliano. Si chiuderà in qualche modo anche la professione che in quattro anni gli hanno permesso di diventare uno dei fotografi più apprezzati di Palermo. La Mantia ricorda bene quel giorno, l'entrata in carcere, le porte del penitenziario che si chiudono dietro di lui e la sicurezza di aver perso anche il suo futuro professionale. È in quel momento che realizza tutto, anche di poter contare solo sui propri sogni. E non solo per quanto riguarda la libertà da ritrovare, ma anche quella passione che presto gli permetterà di diventare famoso come chef italiano. Il provvedimento di Giovanni Falcone lo rende di nuovo un uomo libero sei mesi dopo il suo arresto, ricorda in un'intervista a Il Corriere della Sera, ma occorreranno molti anni prima di riuscire a ingranare davvero come cuoco. Un sogno diventato realtà grazie al trasferimento a Roma, a una dura gavetta e infine all'apertura del suo primo ristorante, avvenuto quando aveva 54 anni, nella cornice di Milano. Un piccolo passo prima della replica del successo, grazie all'apertura di un nuovo locale e alla scalata come oste e cuoco italiano. Di certo non ha mai ambito a riconoscimenti e stelle, confida, ma a realizzare quell'unico obbiettivo che gli ha permesso di rimettersi in pista ed a trasformare un ostacolo in una grande opportunità. 

Lo chef che cucina senza aglio e cipolla. In carcere per un errore, Filippo La Mantia non è riuscito solo a lasciarsi alle spalle quei brutti mesi che ha trascorso dietro le sbarre dell'Ucciardone di Palermo. E non ha solo trasformato quest'esperienza nel suo futuro successo come oste cuoco, come ama definirsi. Anche nella vita privata La Mantia è riuscito a realizzarsi a tutto tondo, grazie al supporto della compagna Chiara Maci e alla nascita del loro primo figlio. In realtà il successo del palermitano avviene molto prima, quando appena ventenne è uno dei fotoreporter più apprezzati in Sicilia. È stato infatti uno dei primi a raggiungere la scena del crimine in cui è stato ucciso il Generale Dalla Chiesa, ricorda Vanity Fair. Eppure basterà un solo dettaglio perché La Mantia venga etichettato come un affiliato della mafia, per via di quell'appartamento coinvolto nella morte del vicequestore Ninni Cassarà. Una casa che lo chef aveva lasciato otto mesi prima, trasferendosi poi a Mondello. Di quel periodo però non ricorda solo il dolore, la sofferenza, ma anche la famiglia e la tradizione. Due elementi che ha cercato di infondere nei piatti che proponeva ai detenuti, soprattutto grazie all'assenza di aglio e cipolla. Due prodotti che non ama e che ha deciso di togliere del tutto dalle proprie creazioni, sicuro che ogni cuoco che si rispetti debba adeguarsi al gusto delle persone e non viceversa. Facendo questa piccola modifica ha scoperto infatti che tante altre persone non sopportano quei due particolari ingredienti e che molti accettano la loro presenza nei piatti solo perché piegati al volere dello chef.

SONO INNOCENTE. FULVIO PASSANANTI.

Fulvio Passananti. Scambiato per il ladro, nove mesi in carcere (Sono Innocente). Il caso di Fulvio Passananti, scambiato per il responsabile di una rapina all'Oro Trade di Chirignago, scrive il 29 aprile 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Il caso di Fulvio Passananti rientra fra gli errori giudiziari del nostro Paese ed inizia nel 2011, quando l'uomo viene accusato di rapina ai danni dell'Oro Trade di Chirignago, in provincia di Venezia, e di sequestro di persona. In quei momenti infatti avrebbe rinchiuso una commessa del contro/vendo oro per due minuti all'interno di un bagno. La ricostruzione dei fatti risale al 19 gennaio di quell'anno ed il volto di Passananti verrà associato a quello del ladro grazie alla testimonianza dell'addetta alle vendite. Quanto accaduto a Fulvio Passananti verrà ripercorso nella puntata di Sono Innocente di oggi, domenica 29 aprile 2018, a partire dall'alibi che l'uomo esibirà nell'immediato alla pm Carlotta Franceschini. Come riporta La Nuova Venezia, il presunto ladro infatti riferirà subito che al momento della rapina si trovava a 15 km di distanza dal negozio, per sostenere un colloquio in un paese vicino. Una distanza che tuttavia agli occhi degli inquirenti avrebbe potuto comunque compiere per poter mettere in atto il crimine. Ma nella storia di Passananti c'è molto di più: la stessa testimone, poche ore dopo il riconoscimento dell'uomo grazie alla foto segnaletica, avrebbe riferito agli investigatori di essersi sbagliata. Un'affermazione che verrà però ascoltata diversi mesi più tardi, nove per l'esattezza, quando l'imputato verrà considerato innocente e rilasciato per ingiusta detenzione. 

La testimonianza della commessa. Il nome di Fulvio Passananti non è di certo sconosciuto alle autorità quando la commessa di un compro/vendo oro della provincia di Venezia riconoscerà nella sua foto l'uomo che ha rapinato il punto vendita. È la donna l'unica testimone di quanto avvenuto in quei momenti, in quel gennaio del 2011, quando un uomo irrompe nel negozio e la spinge contro il muro, intimandole di consegnargli l'incasso prima di rinchiuderla dentro al bagno del locale. Durante la denuncia, la donna riconoscerà Passananti grazie alle foto segnaletiche: l'uomo infatti ha alle spalle diversi precedenti alle spalle. Alcuni specifici, come sottolinea Il Corriere del Veneto. Eppure alcune ore dopo la donna rivede il vero rapinatore all'esterno del negozio e riferirà agli inquirenti di non essere più sicura del riconoscimento precedente, ma non verrà ascoltata. Anche per questo la Procura di Venezia deciderà alla fine di aprire un fascicolo per indagare meglio su quanto avvenuto, mentre il tribunale dichiarerà Passananti come innocente. Una decisione contraria a quanto proposto dal pm Carlotta Franceschetti, che avrebbe invece richiesto l'assoluzione per insufficienza di prove. La testimonianza della commessa si rivelerà alla fine sufficiente per i giudici per dimostrare l'estraneità dell'uomo ai fatti, così come la ricostruzione dell'avvocato difensore. Il legale infatti ha dimostrato durante l'udienza che pochi minuti prima della rapina il suo cliente si trovava a diversi km di distanza dalla scena del crimine, in una località che aveva raggiunto in bicicletta. Per questo non avrebbe potuto percorrere in un così breve lasso di tempo la distanza necessaria per raggiungere il negozio rapinato. 

La famiglia di Fulvio Passananti. La storia di Fulvio Passananti inizia a Napoli, nel quartiere Vomero, dove viveva con i genitori e i fratelli più grandi. Sono diversi i punti cruciali che lo porteranno a seguire poi le cattive amicizie e a percorrere una strada buia che lo spingeranno poi verso l'arresto, anche se come innocente. Appena 18enne perde infatti la madre in un incidente stradale e l'evento spacca la famiglia, provocando dolore nel padre e nei fratelli. "Erano conosciuti come i fidanzatini", dice Passananti a Siamo Noi, il programma di Tv2000, per indicare quanto la coppia fosse legata e innamorata. Alla morte del padre, l'uomo decide di trasferirsi in Veneto, in una provincia in cui cercherà di rifarsi una vita e allontanarsi dal passato, dai reati penali che gli erano già stati imputati. Il giorno della rapina di Chirignago, vicino Mestre, Passananti ricorda di essersi sentito isolato e di aver iniziato a capire che cosa era successo grazie agli articoli dei giornali. Verrà infatti accusato di aver rapinato un negozio del paese e di aver sequestrato una commessa. Trascorrerà nove mesi in carcere, lasciando a casa tre figli, di cui solo uno maggiorenne. L'evento non travolgerà quindi solo il diretto accusato, ma anche i ragazzi che pagheranno sia in termini economici che morali. I figli infatti saranno costretti ad affrontare numerosi viaggi da Napoli, luogo di residenza, fino a Venezia, dove il padre viene incarcerato. Passananti però riuscirà a vedere per la prima volta la famiglia solo dopo alcuni mesi di detenzione, a causa di un rallentamento burocratico.

SONO INNOCENTE. VITO GAMBERALE.

Vito Gamberale. Le ingiuste accuse di concussione e il racconto della figlia Chiara (Io sono innocente). Vito Gamberale, le ingiuste accuse di concussione e il racconto della figlia Chiara su Rai Tre. La storia dell'uomo arrestato e infine assolto dopo anni, scrive il 6 maggio Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Arrestato e in carcere, poi agli arresti domiciliari e infine assolto: le accuse contro Vito Gamberale, all'epoca amministratore delegato della Sip, riguardavano alcuni favori richiesti ad una società fornitrice della compagnia telefonica italiana. Il suo arresto avviene nell'ottobre del '93, quando Gamberale viene trasportato nel carcere di Poggioreale, in provincia di Napoli, dove trascorrerà 16 giorni. Il caso di Vito Gamberale verrà approfondito da Sono Innocente nella puntata di questa sera, domenica 6 maggio 2018, a partire dai dettagli dell'accusa. Secondo le indagini, l'amministratore delegato della Sip aveva ridotto le commesse della Ipm, società fornitrice, per via di quattro assunzioni non andate a buon fine e raccomandate da Giulio Di Donato, all'epoca vice segretario del Psi. L'arresto di Gamberale precede tuttavia l'interrogatorio di Paolo De Feo, il titolare dell'Ipm che confermerà un'ora dopo le accuse contro il manager. A questo si aggiunge anche il fatto che Carmine Meloro, un testimone contro il manager, ammetterà alcuni giorni dopo ai legali dell'accusato di aver dichiarato il falso solo per ottenere la libertà. Negli anni successivi, ricorda La Repubblica, si era ventilata persino l'idea di realizzare una fiction sull'arresto di Gamberale. Un'ipotesi ostacolata da Giantomaso de Matteis, deciso a rimanere chiuso nel silenzio, e persino da don Luigi Ciotti. Secondo il prete, da sempre vicino agli oppressi, la Rai avrebbe rischiato di banalizzare con il prodotto tutta la vicenda accaduta al manager.

VITO GAMBERALE E L'INGIUSTA DETENZIONE. 290 milioni delle vecchie lire per Vito Gamberale e l'ingiusta detenzione per l'accusa di concussione. Un risarcimento salato per lo Stato Italiano, che ha dovuto riconoscere l'innocenza di un uomo che ad oggi è considerato uno dei big dell'economia italiana. Negli anni successivi alla vicenda giudiziaria infatti, Gamberale diventerà una figura centrale in Telecom Italia, poi in Autostrade Spa ed infine anche nel settore delle energie rinnovabili. Una sfida continua che inizia anche quel giorno in cui si ritrova agli arresti per accuse che attirarono anche l'attenzione di Oscar Luigi Scalfaro. In quei giorni di carcere, riferisce don Ciotti, ha cercato personalmente di incontrare Gamberale, ma la visita gli venne negata. La richiesta era stata mossa da alcuni amici del sacerdote nel Natale del '93, come racconta a La Repubblica, per permettere al manager di poter raccontare la propria verità. L'incontro fra don Ciotti e Gamberale invece avverrà solo in seguito alla scarcerazione dell'uomo, così come con la figlia Chiara, che non ha mai smesso di supportare il genitore e di inviargli lettere piene di dubbi e di speranza.

IL RACCONTO DELL'EX AMMINISTRATORE DELEGATO DELLA SIP E DELLA FIGLIA CHIARA. La storia di Vito Gamberale verrà raccontata a Io sono Innocente dalla viva voce dell'ex amministratore delegato della Sip e della figlia Chiara. Un pilastro della famiglia dell'uomo, duramente colpita per quanto avvenuto negli anni Novanta. Chiara Gamberale, oggi scrittrice e conduttrice, ha confidato alle pagine del suo Una vita sottile, il primo romanzo scritto nel '99, tutto il dolore provato in quei giorni. Le conseguenze dell'arresto del padre si ripercuoteranno infatti sulla figlia 16enne, quasi cancellata da una fragilità che ha cercato di sconfiggere con la forza della determinazione. Vito Gamberale e la figlia Chiara si ritrovano così a vivere la stessa sofferenza sotto due punti di vista. Per il primo l'arresto rappresenta un'ingiustizia da combattere, mentre per la figlia si tratta di confrontarsi con lo spettro della bulimia e dell'anoressia. Sul punto di uccidersi, quanto vissuto in quei giorni la accompagnerà per tutta la vita. In occasione della diffusione del film dal titolo omonimo al romanzo e diretto da Gianfranco Albano, per Chiara Gamberale è stato impossibile non rievocare quei momenti e soffrire per quel punto di rottura, quel cambiamento che l'ha portata poi a riconciliarsi con se stessa. Anche per Gamberale l'impatto con il film è stato forte, come racconta a La Repubblica, soprattutto nel ricordare quanto sia difficile difendersi quando si è innocenti.

SONO INNOCENTE. CARMINE BELLI.

Omicidio Mollicone, i cinque depistaggi che hanno "incastrato" Carmine Belli. Il carrozziere che, in un'intervista a Today.it si definisce 'l'unico str.... di Arce', secondo le attuali indagini, sarebbe stato volutamente scelto da chi, colpevole della morte di Serena, ha compromesso e confuso il vero quadro investigativo Omicidio Mollicone, i cinque depistaggi che hanno "incastrato" Carmine Belli, scrive Angela Nicoletti il 5 novembre 2018 su Frosinone today. Se Carmine Belli avesse visto una foto recente di Serena Mollicone (come questa che pubblichiamo qui in alto ndr) avrebbe evitato dolore, sofferenza e soprattutto l'infamante arresto con l'accusa di aver assassinato la diciottenne di Arce. Ecco, il primo, incredibile, assurdo depistaggio del quale il carrozziere di Rocca d'Arce resterà vittima, sarà proprio la foto della studentessa liceale. Perché i volantini affissi in tutta la provincia di Frosinone e nelle ore immediate la sparizione di Serena, mostreranno un'immagine della ragazza diversa e soprattutto non recente. Belli, una volta appreso dalla sparizione di una giovane donna e una volta vista la foto del volantino quel giorno di giugno di 17 anni fa, dedusse di aver incontrato Serena e da cittadino onesto decise di informare gli investigatori. Per l'uomo, come lui stesso dichiara, 'sarà l'inizio della fine...'

Atti e foto "dimenticate". Non solo aver scambiato una persona per un'altra porterà Belli sulla strada del carcere. Ma anche le dichiarazioni, si scoprirà poi mai rilasciate, della proprietaria del bar 'Le Pocchietelle' situato lungo la Statale Valle del Liri ed a poche centinaia di metri dal luogo dove la diciottenne di Arce viene trovata morta. Per anni si è creduto che la barista avesse riferito ai carabinieri di 'aver visto Carmine Belli con Serena Mollicone nel piazzale antistante il locale'. In realtà la stessa Stefania Bianchi dichiarò sin dai primi interrogatori di non aver visto la giovane scomparsa insieme al carrozziere ma una donna a lei conosciuta e residente a Monte San Giovanni Campano simile per aspetto e abiti a Serena. Qualcuno, volutamente, non prese in considerazione le dichiarazioni della Bianchi e preferì percorrere la strada dell'assurdo.

I tanti interrogatori. Carmine Belli, nei giorni successivi al ritrovamento di Serena Mollicone, verrà interrogato dal maresciallo Mottola ben 18 volte. Nessuno pensò mai, però, di mostrare al carrozziere una fotografia recente della ragazza uccisa. Al carrozziere viene mostrata solo e sempre quella del manifestino dove Serena portava capelli lunghi e ricci ed era più rotonda nei lineamenti del viso. Facendo questo elementare confronto, la vita di Belli sarebbe rimasta quella di sempre e non avrebbe trascorso il resto dei suoi anni a doversi giustificare per una colpa non commessa. Ma chi voleva confondere gli inquirenti e la magistratura ancor prima di Belli, ha provato a gettare 'ombre' sul padre della povera Serena che verrà interrogato per ore. Addirittura prelevato dalla chiesa dove si stavano svolgendo i funerali della ragazza e trattenuto in caserma.

Gli oggetti fantasma. La droga trovata nei cassetti di casa. Il telefono cellulare della ragazzina che scompare e appare. Tutti segni di un chiaro intento di voler confondere le acque di una vicenda che ha dell'incredibile e che ora sembra essere arrivata alle battute finali. Cinque gli indagati, l'ex comandante della stazione dei Carabinieri, la moglie, il figlio - accusati di omicidio volontario ed occulatamento di cadavere - e due carabinieri all'epoca in servizio ad Arce che - ritenuti coinvolti con posizioni minori compresa l'istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi -, entro breve, potrebbero correre il rischio di finire sotto processo.

Carmine Belli. Vittima della giustizia, non un mostro: chi ha ucciso Serena Mollicone? (Io sono Innocente). Carmine Belli, una vittima della giustizia e non un mostro. Chi ha ucciso Serena Mollicone? La trasmissione ripercorre i passi con la ricostruzione dell'accusa, scrive il 6 maggio Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". 17 mesi di carcere prima che Carmine Belli venisse scagionato dall'accusa di aver ucciso Serena Mollicone. Una pagina tragica della cronaca italiana che ferma il tempo a quanto accaduto nel giugno del 2001. A differenza dei sospetti dei familiari, le indagini degli inquirenti si concentrano ad un certo punto sulla figura del carrozziere di Rocca D'Arce, in provincia di Frosinone, per via della mancanza di un alibi che confermasse dove si trovava quella mattina in cui Serena è stata vista entrare nella Caserma di Arce e non uscirne mai più viva. Sono Innocente ripercorrerà la vicenda giudiziaria di Carmine Belli, assolto da ogni accusa grazie al verdetto definitivo della Cassazione, come ricorda La Repubblica, nella puntata di oggi, domenica 6 maggio 2018. Un verdetto che non ha convinto il padre della vittima, Guglielmo Mollicone, sempre più convinto invece della sua colpevolezza. Nel corso del processo, ai suoi occhi Belli avrebbe persino lasciato intendere di aver avuto nei complici. Ed in questo quadro si affianca la richiesta dell'accusa che il carrozziere venisse condannato a 23 anni di detenzione, soprattutto per via di quel famoso bigliettino di proprietà di Serena che è stato ritrovato nell'officina dell'uomo. Un foglietto in cui la ragazza aveva segnato la data e l'orario dell'appuntamento con il dentista.

LA RICOSTRUZIONE DELL'ACCUSA A CARMINE BELLI. La ricostruzione dell'accusa che ha permesso l'incarcerazione di Carmine Belli inizia dall'abitudine di Serena Mollicone di spostarsi grazie all'autostop. Sarebbe in questa occasione che la mattina del giugno del 2001 avrebbe incontrato la ragazza, nell'Isola Liri. Secondo l'accusa il carrozziere avrebbe inoltre fatto delle avances alla ragazza ed al suo rifiuto avrebbe reagito colpendola sul volto con un oggetto. Solo in un secondo momento l'uomo avrebbe ultimato il delitto e si sarebbe sbarazzato del corpo, lasciandolo ormai privo di vita nel boschetto di Anitrella. Una tesi inesistente agli occhi dei legali di Belli, che fin dalle accuse che sono state mosse al loro assistito, hanno evidenziato come non ci fossero prove che confermassero la sua colpevolezza. Una visione che corrisponde con l'assenza di tracce della vittima nell'auto del carrozziere, così come le impronte del Belli sul corpo della ragazza e sui vestiti. A complicare la posizione dell'uomo era stata all'epoca la decisione dell'ex socio di ritirare la propria deposizione. Come ricorda La Repubblica, Pierpaolo Tomaselli aveva infatti inizialmente confermato l'alibi di Belli, indicandolo all'interno dell'officina nell'arco di tempo in cui Serena veniva uccisa.

UNA VITTIMA DELLA GIUSTIZIA, NON UN MOSTRO. Una vittima della giustizia e non un mostro. Si è definito così Carmine Belli in seguito al rilascio atteso per 17 mesi, trascorsi in carcere con l'accusa di essere l'assassino di Serena Mollicone. Il caso della giovane di Arce ha preso nuovo vigore negli ultimi tempi grazie alla determinazione del padre della vittima di non fermarsi e di volere giustizia per la morte della 18enne. Gli inquirenti infatti hanno abbandonato la pista di Belli seguendone un'altra più importante, che accende i riflettori sui Carabinieri presenti nella Caserma di Arce quel triste giorno. Si parla dell'ex Comandante Mottola, del figlio e della moglie, così come di altri due Carabinieri che erano in servizio quel giorno. Anche se il carrozziere è stato assolto, la sua preoccupazione è stata invece cercare di riabilitarsi agli occhi dell'opinione pubblica. Come rivelato a Storie Vere, Belli spera che siano proprio le nuove indagini ad annullare qualsiasi dubbio ancora vivo nella comunità in cui vive. Del giorno del suo arresto, avvenuto nel febbraio del 2003, il carrozziere ricorda la consapevolezza di aver intuito di essere diventato il capro espiatorio per il delitto di Serena Mollicone. I primi sei mesi di carcere sono stati particolarmente duri per Belli, guardato a vista dalle guardie del penitenziario. Solo in seguito la direttrice gli avrebbe offerto un lavoro all'interno della struttura.

Delitto di Arce, la perizia del Ris conferma: "Serena Mollicone uccisa nella caserma dei carabinieri". I militari hanno analizzato i frammenti di legno recuperati nel corso della nuova autopsia sul nastro adesivo con cui erano stati bloccati mani e piedi della diciottenne uccisa nel 2001, scrive Clemente Pistilli il 27 settembre 2018 su "La Repubblica". Serena Mollicone è stata uccisa all'interno della caserma dei carabinieri di Arce. Al principale sospetto dei magistrati di Cassino, impegnati a distanza di 17 anni dall'omicidio a far luce sulla morte della ragazza, è arrivata ora la conferma dai carabinieri del Ris. Gli investigatori in camice bianco hanno ultimato la perizia sui frammenti di legno recuperati, nel corso della nuova autopsia effettuata sulla salma della vittima, sul nastro adesivo con cui erano stati bloccati mani e piedi della diciottenne e si sono convinti che quel materiale provenisse dai locali appunto della caserma. Il 1 giugno 2001 Serena Mollicone, 18enne di Arce, in provincia di Frosinone, uscì di casa per recarsi all'ospedale di Isola Liri e nel primo pomeriggio, rientrata nel suo paese, sparì. Il corpo della giovane studentessa venne trovato due giorni dopo da alcuni volontari della Protezione civile in un boschetto di Anitrella, frazione del vicino Monte San Giovanni Campano, con un sacchetto di plastica sulla testa, e le mani e i piedi legati. Venne presto indagato un carrozziere di Rocca d'Arce, con cui la diciottenne si sospettò avesse un appuntamento, Carmine Belli, ma l’uomo venne prosciolto in via definitiva ed è ora tra quanti invocano giustizia per Serena. Nel 2008 poi si verificò un altro episodio misterioso, il suicidio del carabiniere Santino Tuzi, che era tra i militari presenti in caserma il giorno della scomparsa della 18enne. Un dramma che ha portato gli investigatori a intensificare le nuove indagini intanto aperte per cercare di scoprire i colpevoli dell’omicidio. In Procura a Cassino si sono man mano convinti che la giovane sia stata picchiata a morte, dopo un violento litigio, all'interno della caserma dell'Arma di Arce, dove si era recata forse per denunciare strani traffici in paese, che sia stata portata agonizzante nel boschetto di Anitrella e che, scoperto che respirava ancora, sia stata soffocata. Un omicidio a cui avrebbe fatto seguito una serie di depistaggi. Sono stati così indagati, con le accuse di omicidio volontario e occultamento di cadavere, l'ex comandante della stazione di Arce, il maresciallo Franco Mottola, il figlio Marco e la moglie Anna, il luogotenente Vincenzo Quatrale per concorso morale nell’omicidio e per istigazione al suicidio del brigadiere Tuzi, e l'appuntato Francesco Suprano per favoreggiamento. Le indagini dei carabinieri di Frosinone, consegnata anche la perizia dei Ris, appaiono ormai concluse e a breve il sostituto procuratore Maria Beatrice Siravo dovrebbe tirare le somme. Forse l'ora della verità su uno dei peggiori cold case italiani è giunta.

SONO INNOCENTE. PIETRO MELIS.

Pietro Melis. 18 anni di vita rubata per il rapimento di Vanna Licheri mai commesso (Io sono innocente). Pietro Paolo Melis, 18 anni di vita rubata per il rapimento di Vanna Licheri mai commesso. Su Rai Tre si ripercorrono le tappe di questa storia che ha dell'assurdo, scrive il 6 maggio Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Per 18 anni Pietro Paolo Melis è stato considerato il responsabile del sequestro di Vanna Licheri, la possidente di Abbasanta rapita in Sardegna nel 1995 e mai più tornata a casa. Il ruolo di Melis per gli inquirenti è chiaro: era lui la mente del sequestro e per questo la richiesta dell'accusa era di 30 anni di carcere. Pietro Paolo Melis verrà invece scarcerato nel luglio del 2016 con formula piena e la sua vicenda processuale verrà raccontata a Sono Innocente nella puntata di oggi, domenica 6 maggio 2018. Al centro della scarcerazione immediata richiesta dalla Corte d'Appello di Perugia la contestazione dei consulenti di parte riguardo alla perizia fonica che incastrava Melis. In un'intercettazione ambientale, la voce di un uomo collegato al rapimento della Licheri era stata riconosciuta come quella dell'imputato. Una tesi smontata dai legali dell'uomo, uscito dal carcere a 54 anni d'età, grazie all'uso di software particolari. Come ricorda la Nuova Sardegna, la morte di Vanna Licheri sarebbe avvenuta a pochi mesi dal suo sequestro, nell'ottobre del '95. E' in questo mese infatti che i rapitori hanno interrotto ogni contatto con i familiari della donna.

PIETRO MELIS, 18 ANNI DI VITA RUBATA. Pietro Paolo Melis non potrà più riavere quei 18 anni trascorsi in carcere con l'accusa ingiusta di aver organizzato il rapimento di Vanna Licheri. Nonostante la durezza dell'esperienza in penitenziario, l'uomo non ha mai perso la speranza di poter dimostrare finalmente la propria innocenza, anche se ogni giorno trascorso dietro le sbarre è apparso sempre più lungo di quanto effettivamente fosse. In un'intervista a Quotidiano, Melis ha sottolineato di essere felice della solidarietà e affetto ricevuti da conoscenti e amici in seguito al suo rilascio. Non si aspettava di poter contare ancora su tante persone. Così come non può dimenticare come l'arresto lo abbia privato di un momento importante della sua vita e carriera, dato che in quel periodo stava realizzando dei passi significativi a livello economico e familiare. Gli è stato impedito di creare quella famiglia che sognava da tempo, un sogno spezzato che non ha potuto più inseguire una volta libero. Studia e cura della propria salute sono stati i salvavita di Melis, che ha cercato di dedicare tutto se stesso all'esercizio fisico ed a diplomarsi in tessitura. La speranza invece non l'ha mai persa, anche nei momenti più bui. Anche di fronte alle condanne, una delusione molto forte che è riuscito a affrontare grazie al sostegno della sorella Rita e degli avvocati Maria Antonietta Salis e Alessandro Ricci. Sono loro ad aver lottato al suo fianco per tanti anni perché la verità potesse emergere.

ARRESTATO PER IL RAPIMENTO DI VANNA LICHERI. Allevatore della provincia di Nuoro, Pietro Paolo Melis aveva 38 anni quando il dicembre del '98 viene arrestato con l'accusa di essere l'ideatore del rapimento di Vanna Licheri. La donna era scomparsa da Abbasanta, in provincia di Oristano, nel maggio del '95 ed in seguito considerata morta anche se il suo corpo non venne mai ritrovato. Melis non è stato l'unico a finire dietro le sbarre per il rapimento Licheri: la condanna ha colpito anche Giovanni Gaddone, così come per il fratello Sebastiano Gaddone e Tonino Congiu, questi ultimi due considerati i custodi della donna rapita e Salvatore Carta. Uniti nella condanna così come nella revisione del processo, ricorda La Nuova Sardegna: anche Gaddoni avrebbe potuto ottenere la libertà in seguito alla scarcerazione di Melis, evento che tuttavia non è avvenuto. Melis invece è riuscito a dimostrare di non aver mai conosciuto Vanna Licheri, come affermato fin dall'inizio della sua vicenda giudiziaria. Così come conosceva solo di vista Gaddone, colui che nel settembre del '95 avrebbe avuto quella conversazione in auto che avrebbe incastrato l'allevatore. In un'intervista a Panorama, l'uomo racconta come prima dell'arresto avesse già ricevuto un avviso di garanzia per il rapimento della donna e di aver pensato allora che avrebbe potuto chiarire tutto in Commissariato nell'arco di qualche ora.

Sono innocente. Anticipazioni 13 maggio 2018: Alberto Matano incontra i protagonisti della scorsa stagione. Ultimo appuntamento con Sei Innocente: Alberto Matano conduce una puntata speciale incontrando sei protagonisti della scorsa edizione e ripercorrendo la loro storia, scrive il 13 maggio 2018 Stella Di Benedetto su "Il Sussidiario". Oggi, domenica 13 maggio, a partire dalle 21.25 su Raitre, Alberto Matano conduce l’ultimo appuntamento con “Sono innocente”, il programma che racconta i momenti drammatici vissuti da chi, da innocente, si ritrova ad essere accusato di un reato che non ha mai commesso. In alcuni casi, dopo anni trascorsi in carcere, le vittime della legge riescono a riconquistare la libertà e a riprendersi la propria vita. In altri casi, invece, le vicende si concludono nel peggiore dei modi. Quella di questa sera sarà una puntata speciale. Alberto Matano incontra sei protagonisti della scorsa edizione con cui ripercorrerà i momenti drammatici della loro vicenda svelando quello che è successo nel corso dell’ultimo anno. Nell’ultima puntata di Sono Innocente, il conduttore Alberto Matano incontra Giuseppe Gulotta, accusato dell’omicidio di due carabinieri nel 1976 ad Alcamo in provincia di Trapani. Dopo aver trascorso, da innocente, 22 anni in carcere, ha riacquistato la libertà nel 2012 ottenendo un risarcimento da 6 milioni di euro. Maria Andò, nel 2007, è stata accusata di aver partecipato ad una rapina insieme ad un ragazzo e di aver ridotto in fin di vita un tassista di Catania. All’epoca aveva solo 22 anni ed era una studentessa e ha trascorso in carcere ben nove anni. Alberto Matano, inoltre, incontra Diego Olivieri, Corrado Di Giovanni, Lucia Fiumberti e Francesco Raiola, anche loro vittime di una ingiusta detenzione.

SONO INNOCENTE. GIUSEPPE GULOTTA.

Giuseppe Gulotta. 22 anni in carcere per un tragico errore: a che serve ora il risarcimento? (Sono Innocente). Giuseppe Gulotta, il muratore di Firenze è stato in carcere per 22 anni con l'accusa ingiusta di aver ucciso due Carabinieri. Un risarcimento record e una vita incrinata (Sono Innocente), scrive il 13 maggio 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussiadiario". 6 milioni e mezzo di euro per risarcire Giuseppe Gulotta, il muratore della provincia di Firenze che è stato detenuto per 22 anni con l'ingiusta accusa di aver ucciso due Carabinieri. Era il 1976 quando l'uomo viene costretto a firmare una confessione in cui ammette il duplice delitto. Una tortura che gli è costata alla fine 33 anni di accuse e l'etichetta di assassino, oltre che a tutta la sua giovinezza e parte della vita adulta. La storia di Giuseppe Gulotta verrà raccontata nella puntata di oggi, domenica 13 maggio 2018, da Sono Innocente, il programma di Alberto Matano sugli errori giudiziari del nostro Paese. Ed è proprio di questo che si tratta, un clamoroso errore, uno degli episodi più bui per la Giustizia italiana. Il nome di Gulotta viene associato alla morte di Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, avvenuta in provincia di Trapani a metà degli anni Settanta, come ricorda nel suo libro Alkamar, scritto a due mani con il giornalista Nicola Biondo. Sono anni importanti per la storia del nostro Paese, in cui il clima di paura e violenza vede la Sicilia impegnata in un forte contrasto fra Stato e criminalità. La decisione del colonnello Giuseppe Russo è di ottenere giustizia per i due militari uccisi, anche a costo di torture, finte esecuzioni, pestaggi e molto altro ancora. La macchina da guerra delle autorità si fermerà infine solo quando Giuseppe Gulotta verrà indicato come colpevole, ma non quella di Cosa Nostra, che un anno dopo a quegli eventi, metterà fine alla vita di Russo.

UN PERIODO PARTICOLARE NON SOLO PER IL CARCERE. La vita di Giuseppe Gulotta non finisce solo nel vortice del carcere, in anni in cui lo Stato e la mafia sono divisi da confini sottili. Un periodo in cui perdono la vita importanti icone dell'Antimafia, come il giornalista Mario Francese e molti altri ancora, ma anche in cui i segreti di Stato nascondono eventi che non devono trapelare e sfuggire al clima di silenzio che avvolge la Sicilia. Ed è in questo quadro che Peppino Impastato perde la vita, mentre il Colonnello Russo muove importanti squadroni per torturare chi potrebbe essere in possesso di importanti informazioni. Fra questi c'è anche Giuseppe Gulotta, un ragazzo all'epoca appena 18enne e che non riuscirà a contrastare le torture, le accuse. Come stabilirà la Cassazione diversi decenni dopo, ricorda Il Fatto Quotidiano, le azioni dei Carabinieri non produrranno solo una catena di errori giudiziari, ma vedranno alcuni elementi dell'Arma inventare prove, nascondere altri indizi importanti agli occhi dei giudici. Ed a farne le spese sarà chi, come Gulotta, non avrà i mezzi per smacchiare il proprio nome da accuse così pesanti.

LA STRAGE DI ALCAMO: MARINA E I SUOI COLPEVOLI. La strage di Alcamo Marina vede un crescendo di sospetti che porteranno alla fine all'arresto e la reclusione di Giuseppe Gulotta, al fianco di altri giovani del luogo. Inizialmente si pensa ad un intervento delle Brigate Rosse, sempre più acerbe in quegli anni e forse intenzionate per molti motivi ad uccidere i due Carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. A farne le spese alla fine saranno Gulotta, Giuseppe Vesco, Vincenzo Ferrantelli, Gaetano Santangelo e Giovanni Mandalà. Solo quest'ultimo e Gulotta tuttavia verranno condannati all'ergastolo, nonostante ritratteranno la propria confessione subito dopo. Per parlare di errore giudiziario per il caso Gulotta, sottolinea Oggi, si dovrà però attendere che l'ex brigadiere Renato Olino ammetta che le confessioni sono state estorte grazie a torture che prevedono annegamento simulato, elettroshock e molto altro ancora. Ed anche in quel momento l'allora 18enne sarà fra i pochi a ritrovarsi per decenni dietro le sbarre, visto che Santangelo e Ferrantelli emigreranno in Brasile prima della sentenza definitiva, mentre Mandalà si toglierà la vita in circostanze misteriose nel '98. E forse la beffa non finisce nemmeno quando finalmente le porte del carcere si aprono e Gulotta ritrova quella libertà perduta. La richiesta del difensore, l'avvocato Pardo Cellini, di ottenere 65 milioni di euro per la detenzione ingiusta del suo cliente, verrà accettata solo in minima parte. 6,5 milioni di euro per chi ha perso gran parte della sua vita pur essendo innocente.

Ventuno anni all'ergastolo, era innocente. "Chi mi ridarà la mia vita perduta?". Giuseppe Gulotta aveva 18 anni quando venne prelevato e portato nella caserma dei carabinieri di Alcamo come sospettato dell'omicidio di due militari dell'Arma. Venne picchiato e seviziato per ore finché non confessò quello che non aveva fatto. Poi ritrattò invano. Il processo nel '90 con la condanna a vita. Nel 2007, con il pentimento di uno dei carabinieri che parteciparono all'interrogatorio, il nuovo processo e, oggi, la sentenza: "Non è colpevole. Lo Stato deve restituirgli libertà e dignità". Dopo 21 anni, 2 mesi, 15 giorni e sette ore di carcere, Giuseppe Gulotta, adesso cinquantenne, ha ottenuto giustizia e dignità. Alle ore 17,35 di oggi la Corte d'Appello di Reggio Calabria dove si è celebrato il processo di revisione, ha pronunciato la sentenza. Giuseppe Gulotta è innocente, e da oggi non è più un ergastolano, non è l'assassino che il 26 gennaio del 1976 avrebbe ucciso, assieme ad altri complici, due carabinieri, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, in un attentato alla caserma di Alcamo Marina, un paese al confine tra le province di Palermo e Trapani. "Gulotta non c'entra nulla; abbiamo il dovere di proscioglierlo da ogni accusa e restituirgli la dignità che la giustizia gli ha indebitamente tolto" ha detto oggi la pubblica accusa prima che la corte si riunisse in camera di consiglio per emettere una sentenza di assoluzione che Giuseppe Gulotta attendeva da troppo tempo. Da quando, 35 anni fa, appena diciottenne, fu arrestato, condotto in carcere e, più tardi, dopo la durissima trafila dei diversi gradi processuali, condannato all'ergastolo definitivamente. E con lui gli altri tre suoi presunti complici: due sono ancora latitanti in Brasile; il terzo, Giuseppe Vesco, si suicidò in carcere qualche anno dopo il suo arresto. Ad accusare Gulotta della strage fu appunto Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi - in circostanze non del tutto chiare - nelle carceri di ''San Giuliano'' a Trapani, nell'ottobre del 1976. A provocare la revisione del processo che si è finalmente concluso oggi con l'assoluzione di Gulotta, sono state le dichiarazioni, molto tardive, di un ex ufficiale dei carabinieri Renato Olino che nel 2007 raccontò che le confessioni di Gulotta e degli altri erano state ottenute a seguito di terribili torture da parte dei carabinieri. Olino, che si era dimesso dal'Arma proprio in seguito alla vicenda di Alcamo, non aveva retto al rimorso e aveva deciso di dire la verità. Gli altri carabinieri, oggi quasi tutti molto anziani, hanno fatto qualche ammissione o si sono rifiutati di rispondere. Ma la giustizia ha trovato elementi sufficienti per il processo di revisione e per questa assoluzione che, inevitabilmente, dovrebbe aprire la strada a un congruo risarcimento per gli imputati. Anche per gli altri due condannati, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo, fuggiti all'estero prima che la condanna diventasse esecutiva, ci sarà adesso la revisione. La notte del 27 Gennaio di quell'anno Carmine Apuzzo (19 anni) e l'appuntato Salvatore Falcetta, due militari dell'Arma, furono trucidati da alcuni uomini che avevano fatto irruzione nella piccola caserma di Alcamo Marina. L'attacco suscitò ovviamente forte impressione in Sicilia e in tutta Italia. Si puntò sulla pista politica e finirono nel mirino delle indagini alcuni giovani di sinistra. Pochi giorni dopo venne fermato un giovane alcamese, Giuseppe Vesco, trovato in possesso di una pistola in dotazione ai carabinieri. La sua casa venne perquisita e saltò fuori anche l'arma utilizzata per il delitto. Il giovane, però, si dichiarò estraneo ai fatti affermando soltanto che aveva avuto il compito di consegnare delle armi. In seguito alle pressioni dei carabinieri, Giuseppe Vesco cambiò rapidamente la sua versione: condusse gli inquirenti al luogo in cui erano conservati gli indumenti e gli effetti personali dei due agenti uccisi (in una stalla di proprietà di Giovanni Mandalà, un bottaio di Partinico), dichiarò di aver fatto parte del commando che aveva fatto irruzione nella casermetta e fece il nome dei suoi tre complici: Gulotta, Ferrantelli e Santangelo. Dopo poco tempo Vesco ritrattò tutto e dichiarò che quanto da lui affermato era stato ottenuto in seguito di terribili torture. Nelle sue lettere dal carcere San Giuliano di Trapani descrive minuziosamente il comportamento dei carabinieri e come erano state estorte le confessioni dei fermati. Ma pochi giorni prima di essere nuovamente ascoltato dagli inquirenti, venne trovato impiccato nella sua cella, con una corda legata alle grate della finestra, cosa resa abbastanza difficile dal fatto che a Vesco era stata amputata una mano a causa di un incidente. E proprio a questa vicenda si legano le confessioni del pentito Vincenzo Calcara, che lascia intravedere una verità fino ad ora soltanto accennata, ma resa più concreta anche da alcune rivelazioni in cui si attesta una collaborazione tra mafia e Stato. Calcara avrebbe affermato che gli venne intimato di lasciare da solo in cella Giuseppe Vesco e che lo stesso venne ucciso da un mafioso aiutato da due guardie carcerarie. Anche quanto affermato dal pentito Peppe Ferro libera i quattro dalle gravi accuse: "Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati... Erano solamente delle vittime... pensavamo che era una cosa dei carabinieri, che fosse qualcosa di qualche servizio segreto". Dopo la chiamata di correità di Vesco, Giuseppe Gulotta fu arrestato e massacrato di botte per una notte intera. La mattina, dopo i calci, i pugni, le pistole puntate alla tempia, i colpi ai genitali e le bevute di acqua salata, avrebbe confessato qualunque cosa e firmò un documento in cui affermava di aver partecipato all'attacco alla caserma. Il giorno dopo, davanti al procuratore, Gulotta ritrattò tutto e provò a spiegare quello che gli era successo. Non venne mai creduto, neanche al processo che, nel 1990 lo condannò in via definitiva all'ergastolo. Poi, nel 2007, la confessione di Olino e la revisione chiesta e ottenuta dal suo avvocato Salvatore Lauria. Oggi l'assoluzione. Ma Giuseppe Gulotta ha trascorso gran parte della sua vita in carcere. Durante un breve periodo di soggiorno si è sposato con la donna che lo ha sempre "protetto" e che gli ha dato un figlio. Adesso, completamente libero, andrà a vivere a Certaldo, in Toscana, dove, da quando è in semilibertà, fa il muratore. "Sono felice di essere stato riconosciuto finalmente innocente. Ma chi potrà mai farmi riavere la gioventù che ho passato in carcere, chi potrà mai darmi quegli anni che ho perduto senza potere crescere mio figlio?".

Gulotta, 21 anni all'ergastolo da innocente.

"Ho sempre sostenuto di non avere colpe". Giuseppe Gulotta è stato condannato all'ergastolo per l'uccisione di due militari ad Alcamo, nel 1976. Ha pagato questo reato con la propria libertà. Dal 1990 è in carcere. Negli ultimi mesi del 2007, un ex brigadiere dell'Arma dei Carabinieri, Renato Olino, membro del nucleo anti-terrorismo di Napoli, che partecipò allora alle indagini, ha raccontato la sua verità: "Confessò perché lo torturammo". Assolto dopo aver trascorso ventidue anni di carcere. Giuseppe Gulotta è stato scarcerato dopo la sentenza della Corte d’Appello di Reggio Calabria che l’ha ritenuto estraneo alla strage alla casermetta di Alcamo Marina, in Sicilia, avvenuta il 26 gennaio del 1976. «Aspettavo questo momento da 36 anni» ha detto Gulotta. L’uomo era stato accusato ingiustamente di essere l’autore della strage dove morirono due carabinieri diciottenni, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta.

La vicenda di Giuseppe Gullotta è articolata da una serie di processi. Il primo capitolo l’aveva scritto la Corte d’Assise di Trapani che aveva assolto l’imputato. La Corte d’Assise di Palermo però, ribaltò il verdetto e lo condannò all’ergastolo. I legali ricorsero in Cassazione che annullò quella condanna e trasferì gli atti nuovamente a Palermo, ad altra sezione. Nuova condanna all’ergastolo per Gulotta. Stessa decisione presero successivamente le Corti d’Appello di Caltanissetta e Catania, investite da altri rinvii trasmessi dalla Cassazione. Nel 1990 la sentenza è divenuta definitiva.

L’imputato non si è mai arreso. I suoi difensori Baldassarre Lauria e Pardo Cellini hanno cercato e trovato nuovi elementi per far riaprire il caso. Una prima istanza di revisione del processo presentata a Messina fu annullata. I legali si rivolsero ancora una volta in Cassazione che ha accolto la revisione inviando gli atti alla Corte d’Appello di Reggio Calabria. Al processo i giudici reggini hanno raccolto nuove testimonianze, tra cui quella dell’ex brigadiere Renato Olino, all’epoca in servizio al reparto antiterroristico di Napoli che si occupò dell’inchiesta sulla strage. Il brigadiere ha fatto alcune ammissioni: in particolare ha riferito che ci furono dei «metodi persuasivi eccessivi» per far «cantare» un giovane Giuseppe Vesco, che finì con accusare Gulotta. Il pentito Vincenzo Calcara, poi, sentito in videoconferenza ha dichiarato di aver appreso in carcere dell’estraneità alla strage di Gulotta. Nella sua requisitoria il procuratore generale Danilo Riva ha chiesto l’assoluzione dell’imputato. «Spero che anche per le famiglie dei due carabinieri sia fatta giustizia» ha detto Gulotta, avvicinato dai giornalisti dopo la sentenza.

Ventuno anni all'ergastolo, era innocente.

"Chi mi ridarà la mia vita perduta?".Giuseppe Gulotta aveva 18 anni quando venne prelevato e portato nella caserma dei carabinieri di Alcamo come sospettato dell'omicidio di due militari dell'Arma. Venne picchiato e seviziato per ore finché non confessò quello che non aveva fatto. Poi ritrattò invano. Il processo nel '90 con la condanna a vita. Nel 2007, con il pentimento di uno dei carabinieri che parteciparono all'interrogatorio, il nuovo processo e, oggi, la sentenza: "Non è colpevole. Lo Stato deve restituirgli libertà e dignità". Dopo 21 anni, 2 mesi, 15 giorni e sette ore di carcere, Giuseppe Gulotta, adesso cinquantenne, ha ottenuto giustizia e dignità. Alle ore 17,35 di oggi la Corte d'Appello di Reggio Calabria dove si è celebrato il processo di revisione, ha pronunciato la sentenza. Giuseppe Gulotta è innocente, e da oggi non è più un ergastolano, non è l'assassino che il 26 gennaio del 1976 avrebbe ucciso, assieme ad altri complici, due carabinieri, Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo, in un attentato alla caserma di Alcamo Marina, un paese al confine tra le province di Palermo e Trapani.

"Gulotta non c'entra nulla; abbiamo il dovere di proscioglierlo da ogni accusa e restituirgli la dignità che la giustizia gli ha indebitamente tolto" ha detto oggi la pubblica accusa prima che la corte si riunisse in camera di consiglio per emettere una sentenza di assoluzione che Giuseppe Gulotta attendeva da troppo tempo. Da quando, 35 anni fa, appena diciottenne, fu arrestato, condotto in carcere e, più tardi, dopo la durissima trafila dei diversi gradi processuali, condannato all'ergastolo definitivamente. E con lui gli altri tre suoi presunti complici: due sono ancora latitanti in Brasile; il terzo, Giuseppe Vesco, si suicidò in carcere qualche anno dopo il suo arresto.

Ad accusare Gulotta della strage fu appunto Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi - in circostanze non del tutto chiare - nelle carceri di ''San Giuliano'' a Trapani, nell'ottobre del 1976. A provocare la revisione del processo che si è finalmente concluso oggi con l'assoluzione di Gulotta, sono state le dichiarazioni, molto tardive, di un ex ufficiale dei carabinieri Renato Olino che nel 2007 raccontò che le confessioni di Gulotta e degli altri erano state ottenute a seguito di terribili torture da parte dei carabinieri. Olino, che si era dimesso dal'Arma proprio in seguito alla vicenda di Alcamo, non aveva retto al rimorso e aveva deciso di dire la verità. Gli altri carabinieri, oggi quasi tutti molto anziani, hanno fatto qualche ammissione o si sono rifiutati di rispondere. Ma la giustizia ha trovato elementi sufficienti per il processo di revisione e per questa assoluzione che, inevitabilmente, dovrebbe aprire la strada a un congruo risarcimento per gli imputati. Anche per gli altri due condannati, Vincenzo Ferrantelli e Gaetano Santangelo, fuggiti all'estero prima che la condanna diventasse esecutiva, ci sarà adesso la revisione.

La notte del 27 Gennaio di quell'anno Carmine Apuzzo (19 anni) e l'appuntato Salvatore Falcetta, due militari dell'Arma, furono trucidati da alcuni uomini che avevano fatto irruzione nella piccola caserma di Alcamo Marina. L'attacco suscitò ovviamente forte impressione in Sicilia e in tutta Italia. Si puntò sulla pista politica e finirono nel mirino delle indagini alcuni giovani di sinistra. Pochi giorni dopo venne fermato un giovane alcamese, Giuseppe Vesco, trovato in possesso di una pistola in dotazione ai carabinieri. La sua casa venne perquisita e saltò fuori anche l'arma utilizzata per il delitto. Il giovane, però, si dichiarò estraneo ai fatti affermando soltanto che aveva avuto il compito di consegnare delle armi. In seguito alle pressioni dei carabinieri, Giuseppe Vesco cambiò rapidamente la sua versione: condusse gli inquirenti al luogo in cui erano conservati gli indumenti e gli effetti personali dei due agenti uccisi (in una stalla di proprietà di Giovanni Mandalà, un bottaio di Partinico), dichiarò di aver fatto parte del commando che aveva fatto irruzione nella casermetta e fece il nome dei suoi tre complici: Gulotta, Ferrantelli e Santangelo.

Dopo poco tempo Vesco ritrattò tutto e dichiarò che quanto da lui affermato era stato ottenuto in seguito di terribili torture. Nelle sue lettere dal carcere San Giuliano di Trapani descrive minuziosamente il comportamento dei carabinieri e come erano state estorte le confessioni dei fermati. Ma pochi giorni prima di essere nuovamente ascoltato dagli inquirenti, venne trovato impiccato nella sua cella, con una corda legata alle grate della finestra, cosa resa abbastanza difficile dal fatto che a Vesco era stata amputata una mano a causa di un incidente. E proprio a questa vicenda si legano le confessioni del pentito Vincenzo Calcara, che lascia intravedere una verità fino ad ora soltanto accennata, ma resa più concreta anche da alcune rivelazioni in cui si attesta una collaborazione tra mafia e Stato. Calcara avrebbe affermato che gli venne intimato di lasciare da solo in cella Giuseppe Vesco e che lo stesso venne ucciso da un mafioso aiutato da due guardie carcerarie. Anche quanto affermato dal pentito Peppe Ferro libera i quattro dalle gravi accuse: "Li ho conosciuti in carcere quei ragazzi arrestati... Erano solamente delle vittime... pensavamo che era una cosa dei carabinieri, che fosse qualcosa di qualche servizio segreto".

Dopo la chiamata di correità di Vesco, Giuseppe Gulotta fu arrestato e massacrato di botte per una notte intera. La mattina, dopo i calci, i pugni, le pistole puntate alla tempia, i colpi ai genitali e le bevute di acqua salata, avrebbe confessato qualunque cosa e firmò un documento in cui affermava di aver partecipato all'attacco alla caserma. Il giorno dopo, davanti al procuratore, Gulotta ritrattò tutto e provò a spiegare quello che gli era successo. Non venne mai creduto, neanche al processo che, nel 1990 lo condannò in via definitiva all'ergastolo. Poi, nel 2007, la confessione di Olino e la revisione chiesta e ottenuta dal suo avvocato Salvatore Lauria. Oggi l'assoluzione. Ma Giuseppe Gulotta ha trascorso gran parte della sua vita in carcere. Durante un breve periodo di soggiorno si è sposato con la donna che lo ha sempre "protetto" e che gli ha dato un figlio. Adesso, completamente libero, andrà a vivere a Certaldo, in Toscana, dove, da quando è in semilibertà, fa il muratore. "Sono felice di essere stato riconosciuto finalmente innocente. Ma chi potrà mai farmi riavere la gioventù che ho passato in carcere, chi potrà mai darmi quegli anni che ho perduto senza potere crescere mio figlio?". spettavo questo momento da 36 anni".

Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia. "Non ce l'ho con i carabinieri" - Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". "Fatta giustizia giusta" - Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". La vicenda - Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Venti anni in galera: Gulotta è innocente.

Le rivelazioni di un carabiniere: "Confessò perché lo torturammo". Giuseppe Gulotta è in carcere dal ’90 per l'uccisione di due militari ad Alcamo, avvenuta nel 1976: "Ho sempre detto delle sevizie. Nessuno mi ha mai creduto".

Era poco più che maggiorenne, Giuseppe Gulotta siciliano di Alcamo Marina (Trapani), quando iniziò il suo lungo calvario, che attraverso nove processi lo ha portato dietro le sbarre con l’accusa di duplice omicidio per la strage di Alcamo Marina del gennaio 1976. Condannato all’ergastolo per aver ucciso — in concorso con due complici tuttora latitanti — due carabinieri trucidati in caserma. Condannato ma innocente. Reo confesso, ma sotto tortura. L’ha gridata, la sua innocenza, attraverso 14 anni e 9 processi. Ma inutilmente: l’ergastolo lo sta scontando dal ’90, nel carcere di Ranza di San Gimignano (Siena). Una speranza si è accesa nell’autunno del 2007, quando Renato Olino, brigadiere in congedo dei carabinieri del Nucleo antiterrorismo, che indagò sul duplice omicidio, rivelò al sostituto procuratore di Trapani che la confessione di Gulotta, effettivamente, fu estorta con la violenza. Ci sono voluti tre anni di battaglie legali per ottenere la revisione del processo. Oggi, a distanza di 34 anni dai fatti, la testimonianza di Olino, sarà ascoltata dai giudici della Corte d’assise d’appello di Reggio Calabria (cui è stato affidato il nuovo processo).

Gulotta, che adesso ha 53 anni, in tutto questo tempo si è sempre professato innocente. Per la sua buona condotta gli è stato concesso anche il regime di semilibertà: di giorno lavora come muratore a Poggibonsi, quando smonta raggiunge a Certaldo la sua compagna Michela (dalla quale ha avuto anche un figlio, William di 22 anni), ma a mezzanotte è costretto a tornare in cella.

«Il mio calvario — racconta — cominciò quel maledetto giorno di molti anni fa quando insieme ad altri due giovani alcamesi fummo sospettati di aver ucciso l’appuntato Salvatore Falcetta e il militare Carmine Apuzzo che dormivano in caserma. Gli inquirenti che facevano parte di un commando antiterrorismo di Napoli, mandato apposta per indagare sul caso, ci arrestarono e ci sottoposero ad un terribile interrogatorio dove ci torturarono per farci confessare». I tre giovani, tra l’altro accusati dalla testimonianza di Giuseppe Vesco, un alcamense psicolabile, conosciuto con il nomignolo di «Peppe ‘u pazzu», davanti al magistrato ritrattarono tutto, ma nessuno li credette più. Tutti colpevoli, tutti condannati all’ergastolo. L’unico, però, che ha conosciuto il carcere è stato Gulotta, perché gli altri si sono dati alla latitanza in Brasile, da dove hanno chiesto inutilmente la grazia.

A distanza di anni, però, Renato Olino è pronto a raccontare ai giudici gli sconcertanti retroscena sui metodi utilizzati durante l’interrogatorio di molti anni fa. Rivelazioni che l’ex carabiniere aveva già fatto al sostituto procuratore di Trapani nel 2007 e che hanno permesso agli avvocati, Baldassarre Lauria e Pardo Cellini, di chiedere alla Cassazione la revisione del processo a carico di Gulotta.

Giuseppe Gulotta, condannato per la strage della casermetta di Alcamo Marina del 27 Gennaio 1976, in cui furono uccisi barbaramente nel sonno i due militari Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, e furono rubate, dopo la strage, armi, munizioni e divise.

La svolta sulle indagini avvenne il 13 febbraio. A un posto di blocco fu fermato un giovane alcamese, Giuseppe Vesco, su una Fiat 127 verde con una targa di cartone “Trapani 121”. Questi aveva in mano una pistola (si pensa che fosse scarica dato che il giovane aveva un arto amputato) e dopo una perquisizione ne venne trovata una seconda. Era una Beretta in dotazione ai carabinieri, probabilmente rubata durante l’omicidio della casermetta. Dopo una perquisizione a casa del ragazzo e attente analisi si dimostrò che Vesco era in possesso dell’arma del delitto. Fu dunque interrogato dai carabinieri ma questi negò in modo deciso la sua partecipazione all’agguato dicendo che doveva solo consegnare le armi a qualcuno. Dopo aver negato in tutti i modi la sua partecipazione alla strage improvvisamente il fermato Vesco cambiò versione.

Vesco fece ritrovare armi e divise in una stalla di proprietà di Giovanni Mandalà, un bottaio di Partinico. Vesco confessò di aver partecipato alla strage insieme ad altri tre ragazzi: Gaetano Santangelo, Giuseppe Gulotta e Vincenzo Ferrantelli. I tre ragazzi alcamesi più il partinicese Mandalà furono tutti tratti in arresto per omicidio e costretti a confessare firmando un verbale di riconoscimento di colpevolezza. La versione accertata dei fatti fu la seguente: Giovanni Mandalà, il bottaio di trentotto anni di Partinico, avrebbe forzato la porta della caserma con la fiamma ossidrica e a sparare invece sarebbero stati Giuseppe Gulotta e Gaetano Santangelo, due giovani alcamesi di diciannove e diciassette anni, mentre Vincenzo Ferrantelli, uno studente di sedici anni di Alcamo, avrebbe solo messo a soqquadro le stanze.

30 anni dopo, il colpo di scena. Negli ultimi mesi del 2007, un ex brigadiere dell’Arma dei Carabinieri, Renato Olino, membro del nucleo anti-terrorismo di Napoli, che partecipò allora alle indagini, ha spiegato come si sono svolti veramente i fatti. Dopo 32 anni dall’accaduto l’ex brigadiere Olino ha affermato chiaramente che sia a Vesco che agli altri ragazzi accusati, le confessioni furono estorte con violenza. Vennero messi nelle loro bocche imbuti e versati al loro interno grossi quantitativi di acqua e sale. Gli accusati furono anche picchiati e venne usato anche un “telefono da campo” in grado di produrre scariche elettriche per torturare ulteriormente i fermati. Giuseppe Vesco però aveva dichiarato già nel 1976, dopo aver firmato la sua colpevolezza, di essere stato torturato. Dopo qualche mese da quel tragico gennaio 1976 Vesco aveva provato anche a scagionare i presunti complici, purtroppo senza riuscirci. Ma il 26 ottobre del 1976, pochi giorni prima di essere ascoltato dagli inquirenti: Giuseppe Vesco, nonostante avesse un arto imputato, viene ritrovato impiccato alle sbarre della finestra della sua cella. Gli accusati da Vesco, anche loro torturati, subiscono un’odissea di condanne dopo un iter giudiziario complicato. Ergastolo per il bottaio Giovanni Mandalà, che avrebbe aperto la porta della caserma con la fiamma ossidrica e custodito le armi, ergastolo a Giuseppe Gulotta, che avrebbe sparato, 20 anni a Gaetano Santangelo, che avrebbe sparato anche lui ma allora minorenne, e 20 anni anche a Vincenzo Ferrantelli, che ha rubato armi e divise anche lui minorenne. Mandalà è deceduto di morte naturale dopo essersi fatto diversi anni di carcere, Santangelo e Ferrantelli, tra un appello e l’altro, si sono rifugiati in un paese del Sudamerica che non ha accordi di estradizione con l’Italia.

Il brigadiere Olino s’è presentato spontaneamente nel 2008 davanti al procuratore capo della Procura di Trapani e ha rivelato che furono mandati in galera degli innocenti. Gulotta ha chiesto e ottenuto la revisione del processo. Un collaboratore di giustizia, Leonardo Messina, della famiglia di San Cataldo di Caltanisetta, soltanto recentemente ha illustrato un’altra verità: quando era in carcere a Trapani venne a sapere da altri mafiosi di Alcamo che la strage della casermetta era stato un errore. Era stato stabilito di affidarla ad alcuni affiliati della famiglia di Alcamo ma poi era stato deciso di che non si sarebbe fatta più. Il contro-ordine purtroppo era arrivato troppo tardi e la mafia aveva ugualmente eseguito l’operazione. Perché la mafia doveva eseguire tale strage? Perché Cosa Nostra aveva pianificato una serie di attacchi allo Stato: era stata decisa una vera e propria strategia della tensione. Probabilmente accordi segreti tra mafia e servizi segreti deviati. Un altro mafioso della famiglia di Alcamo, Giuseppe Ferro, conferma che la strage della casermetta non fu eseguita da quei giovani accusati e che la mafia questo lo sapeva bene.

Oggi dopo le rivelazioni di Renato Olino, i magistrati indagano ancora e sono tornati sulle tracce di GLADIO. La presenza di Gladio è documentata a Trapani negli anni 90 (con l’esistenza del misterioso Centro Scorpione) ma le indagini sulla casermetta inducono a ritenere che questa a Trapani ci fosse già da molto tempo prima.

Il 26 gennaio 1976 Apuzzo e Falcetta avrebbero fermato un furgone. Danno l’alt, vogliono vedere cosa trasporta. La scoperta è incredibile: ci sono tantissime casse piene di armi e gladiatori della sede trapanese di Gladio. Tutti vengono portati nella casermetta per il verbale ma Apuzzo e Falcetta vengono uccisi. Un poliziotto del trapanese ha riferito recentemente alla magistratura che una fonte sicura gli riferì nel 1993 la vera storia della strage della casermetta: Il furgone fermato portava armi di Gladio, nella casermetta fu organizzata una messa in scena, forse i carabinieri furono portati altrove e poi riportati morti all’interno della caserma. Dagli armadi probabilmente sparì anche qualcos’altro. E per questo furono uccisi perché non venisse svelata «Gladio» che per vent’anni ancora sarebbe rimasta segreta, ma forse anche per non far svelare qualcos’altro… Le rivelazioni dell’ex brigadiere Olino hanno portato sotto inchiesta i componenti di quel gruppo: Elio Di Bona, Giovanni Provenzano, Giuseppe Scibilia, Fiorino Pignatella. Chiamati a rispondere davanti al pm nonostante la conclamata prescrizione si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Da loro nessuna conferma ma neanche alcuna smentita.

SONO INNOCENTE. MARIA ANDO’.

Maria Andò. Accusata di rapina e tentato omicidio: a salvarla dei testimoni... (Sono Innocente). Maria Andò, i testimoni furono decisivi nel salvarla dal carcere con l'accusa ingiusta per la 22enne di rapina e tentato omicidio. Un incubo difficile da superare. (Sono Innocente), scrive il 13 maggio 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Maria Andò non potrà mai dimenticare quel giorno del febbraio 2008, quando i Carabinieri si presentano alla porta della palermitana 22enne e l'arrestano con l'accusa di rapina e tentato omicidio. Un mercoledì come tanti forse, ma non per quella ragazza che ha appena superato la maggiore età e che di certo non si aspetta di ritrovarsi in una cella del carcere Pagliarelli. Maria Andò è già stata ospite di Sono Innocente, il programma che ritornerà oggi, domenica 13 maggio 2018, con una nuova puntata. A distanza di dieci anni da quei nove giorni che trascorrerà in carcere, la donna ha ancora ben chiaro nella mente come abbia avuto bisogno di 24 ore di tempo prima di realizzare che cosa fosse successo. 'Quelle poche volte che riesci a prendere sonno, il risveglio è terribile', riferisce nella sua intervista, perché è proprio in quel momento che si intuisce come l'incubo sia in realtà una realtà da cui non si può sfuggire. Anche se alcuni giorni dopo la ragazza verrà scagionata dalle accuse, Maria non riuscirà mai a ritornare quella di un tempo. All'interno del penitenziario è finita una persona diversa da quella che poi è stata liberata, perché 'una volta entrata in contatto con quel mondo, non ne esci più'. Uno scambio di persona. Sarà questo il vero motivo che spingerà Maria Andò dietro le sbarre, sei mesi dopo una rapina avvenuta a Catania ai danni di un tassista che rischierà la propria vita. In seguito all'arresto dell'allora 22enne, le autorità riescono a stabilire che in realtà la ragazza è innocente e che a picchiare e derubare il tassista sono in realtà due senzatetto che la vittima conosceva bene. La Andò tuttavia finirà in carcere e in custodia cautelare a causa di quella sim telefonica che la sorella aveva regalato al fidanzato della palermitana, oltre ad una descrizione. L'autrice dell'aggressione fatta al tassista verrà infatti identificata come Maria Andò, nonostante le somiglianze siano davvero esigue, solo il taglio di capelli come ricorderà in seguito la siciliana a Sono Innocente. E la sua fortuna alla fine sono state le testimonianze a suo favore, sottolinea Meridiano News, quella dello zio che era andata a trovare nei momenti in cui a diversi km di distanza avveniva la rapina, una collega dell'università e persino la madre a cui aveva fatto visita quello stesso pomeriggio.

MARIA ANDO', I TESTIMONI LA SALVANO DALL'INCARCERAZIONE. Saranno i testimoni a salvare Maria Andò dall'incarcerazione ingiusta e dalle accuse da cui verrà prosciolta nel 2009, a distanza di quasi due anni dalla rapina che le è stata attribuita. La palermitana alla fine è stata scagionata anche dalla confessione dei due giovani che hanno quasi ucciso il tassista rapinato, lo stesso che li aveva preso a cuore ed a cui ogni tanto dava qualcosa da mangiare. Le indagini alla fine proseguiranno anche mentre la Andò si trova in carcere, sottolinea Il Corriere della Sera, riuscendo alla fine a risalire ad una minorenne senzatetto. E ciò che la palermitana invece non riesce ancora a spiegarsi, oltre allo scambio di persona, è come mai sia stata oggetto di misura cautelare nonostante la rapina fosse avvenuta sei mesi prima del suo arresto. Un arco di tempo in cui avrebbe potuto fuggire, nascondersi e non di certo rimanere nella sua Palermo. Ed a questo si aggiunge anche l'incredulità di aver dovuto pagare come innocente, nonostante fosse incensurata, mentre chi ha promosso un errore giudiziario di quello stampo non abbia dovuto invece pagare per il proprio errore.

UN INCUBO DAL PESO INDICIBILE. Maria Andò entra subito sotto shock quella mattina in cui, aprendo la porta, si ritrova di fronte i Carabinieri. Segue un incubo dal peso indicibile, a causa delle accuse di aver rapinato e quasi ucciso un autista di Catania. La ragazza è incredula di fronte a questo evento, specialmente perché non si è mai sposata da Palermo e non capisce come possano associarla ad un crimine simile. Nello stesso giorno viene inoltre arrestato il ragazzo che in coppia con lei avrebbe commesso lo stesso reato, ma che dirà solo giorni più tardi di aver in realtà collaborato con una minorenne senzatetto. A dirigere gli investigatori verso Maria Andò, ricorda La Repubblica, è una sim card che la sorella Federica aveva regalato due anni prima al fidanzato della palermitana, mentre svolgeva il servizio militare a Catania. In quel periodo, il giovane deve evidentemente aver contattato l'autista, dato che quel numero di telefono verrà ricavato dai tabulati telefonici della vittima di rapina. Ed anche se Maria non assomigliava in tanti punti alla ragazza descritta dal tassista aggredito, i Carabinieri riusciranno ad individuare una vecchia fototessera in cui la sospettata assomiglia vagamente alla rapinatrice. A nulla servirà, ricorda il padre Carlo Andò, che le autorità verifichino che la ragazza è una studentessa regolare di Giurisprudenza e non una clochard, come l'aveva già indicata il tassista.

SONO INNOCENTE. DIEGO OLIVIERI.

Diego Olivieri. In carcere, isolato, in condizioni precarie: 5 anni per essere scagionato! (Sono Innocente). Diego Olivieri, cinque anni da attendere per la giustizia. L'accusa ingiusta di narcotraffico e un incubo iniziato nell'ottobre del 2007 alle 4 di mattino. (Sono Innocente), scrive il 13 maggio 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Diego Olivieri ha dovuto attendere cinque anni prima di essere riconosciuto come innocente dall'accusa di narcotraffico. Un incubo iniziato nell'ottobre del 2007, attorno alle 4 del mattino: è questo l'orario che i Carabinieri di Arzignano, in provincia di Vicenza, scelgono per arrestare il mediatore di pellame. Una famiglia quasi perfetta, una casa creata con la fatica di una vita, una barca per coltivare la sua passione per il mare e figli a dargli tante soddisfazioni. Tutto svanito nel giro di pochi minuti, quando il commerciante diventa da rispettabile ad ex cittadino modello. Il caso di Diego Olivieri verrà raccontato a Sono Innocente nella puntata di oggi, domenica 13 maggio 2018, a partire da quei tragici momenti. Attimi in cui viene accusato di riciclaggio, narcotraffico, associazione mafiosa e insider trading, come ricorda Il Corriere del Veneto. Minuti che diventano ore e un fiume di domande a cui non sa rispondere, come riferirà in seguito alla stampa. A peggiorare la situazione la sua impossibilità a trovare risposte alle domande sempre più incalzanti e che lo spingono a rimanere in silenzio, figurando così persino omertoso. Il tutto si conclude con il trasporto a Rebibbia, dove trascorrerà quattro mesi, e poi al San Pio X per via di quell'accusa fatta da un pentito, che lo indica come il principale attivista in fatto di droga. Un'attività che tra l'altro riuscirebbe a gestire grazie alla facciata di vendita di pellame, in cui nasconderebbe della droga. Per Olivieri, che su consiglio di un amico deciderà infine di fingere con gli altri detenuti che le accuse siano fondate, solo per riuscire ad evitare altri guai.

DIEGO OLIVERI, IL CARCERE NEL CARCERE. Il carcere nel carcere è la sezione a cui viene destinato Diego Olivieri in seguito al suo arresto, un settore angusto, fatto di sporcizia e poca illuminazione. Una situazione indescrivibile in cui al neo detenuto è possibile solo usufruire di quelle due ore d'aria concesse al giorno, nell'impossibilità di usare la palestra o gli altri luoghi comuni. Solo 4 ore al mese per le visite dei familiari e urla continue, che a volte indicano solo la protesta dei carcerati, altri invece precedono quei tentativi di suicidio che 'sono all'ordine del giorno', come sottolinea a Il Corriere della Sera. Diego Olivieri verrà considerato parte integrante del narcotraffico, l'ultimo anello che lo collegherebbe a Nick Rizzuto e Vito Don, per cinque anni in tutto e tre processi durissimi da sostenere. Solo allora i giudici si pronunceranno con un verdetto favorevole, sicuri che sia innocente perché il fatto non sussiste, ma nel frattempo il commerciante ha già vissuto un anno dietro le sbarre. Obbligato a rimettersi in piedi a 65 anni, età che aveva al momento del rilascio, e con l'obbiettivo di usare i soldi di risarcimento per ingiusta detenzione per realizzare un ospedale in Tanzania. Ed oggi che il suo incubo è finalmente finito, può affermare con certezza che l'indulto possa essere utile solo se associato ad una totale rivoluzione del sistema carcerario. Fatto di rieducazione e lavoro perché "anche il criminale più incallito può essere recuperato".

OGGI A ME, DOMANI A CHI? Lo scorso aprile Diego Olivieri ha presentato nella provincia di Cosenza il suo Oggi a me domani a chi?, il libro in cui racconta nei dettagli l'esperienza vissuta in carcere fra il 2007 ed il 2008. Un appuntamento previsto nel programma di Aprile d'autore, una rassegna organizzata con il patrocinio del Comune di Diamante. Un'avventura inverosimile quella del commerciante di pellame, accusato ingiustamente di essere colluso con la mafia e di sfruttare l'azienda per promuovere attività di narcotraffico e riciclaggio, come ricorda Cosenza Post. Un'accusa gravissima, che ha spinto Olivieri a vivere un'esperienza ancora più traumatica, dato il sospetto di affiliazione con i vertici della mafia. Per questo, per le misure di sicurezza, verrà rinchiuso in isolamento per diversi mesi. La libertà gli verrà restituita solo un anno dopo il giorno del suo arresto, con una sentenza che la Cassazione dichiarerà irrevocabile. Ed ora che quella pagina di vita è stata girata per fare spazio ad una nuova esistenza, Diego Olivieri non dimentica il passato e si è attivato per mantenere la promessa di aiutare la popolazione grazie ad un'associazione di solidarietà. Futuro per tutti è infatti la Onlus che lo vede come presidente e che ha finanziato lo scorso aprile la spedizione di letti, materassi, mobilio, ventilatori, divise sanitarie, macchine per la fisioterapia e molti altri strumenti utili per migliorare l'esistenza dei ragazzi del Ghana, per una catena di solidarietà a cui si sono uniti anche diversi istituti pubblici e privati del Trevigiano, come ricorda Treviso Today.

SONO INNOCENTE. CORRADO DI GIOVANNI.

Corrado Di Giovanni. Tradimento dell'amico e tentato omicidio: per due bugie perde la libertà (Sono innocente). Corrado Di Giovanni, il tradimento di un amico e una colpa non commessa. Una tragica storia fatta di bugie e di una scoperta incredibile una volta finito in carcere. (Sono innocente), scrive il 13 maggio 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". La libertà è il prezzo che dovrà pagare Corrado Di Giovanni per una colpa che non ha commesso. Il rappresentante di vernici di 49 anni, residente a Rivarotta di Pasiano, verrà infatti accusato di essere un rapinatore. Un'impronta pesante che lo porterà in poco tempo non solo in carcere, ma anche a perdere il posto di lavoro che con tanta fatica è riuscito a portare avanti con successo. Di Giovanni è considerato una delle punte di diamante dell'azienda per il Nord Est, dove riesce ad ottenere contratti con diversi clienti importanti e benestanti. Corrado Di Giovanni ripercorrerà la propria storia grazie alla puntata di Sono Innocente di oggi, domenica 13 maggio 2018, a distanza di un anno dal suo primo racconto al programma di Alberto Matano. Nelle parole del rappresentante i ricordi di quella bella vita conquistata con successo e fatica e la successiva distruzione, dovuta all'accusa di essere la talpa di una banda di rapinatori che hanno preso di mira le ville di alcuni suoi clienti. Siamo nel 2012, ricorda il programma di Rai 3, quando l'industriale Graziano Zucchetto di Pramaggiore viene rapinato da un gruppo di malviventi. Una rapina sanguinosa, come sottolinea l'imprenditore a Il Gazzettino, in cui rischia di perdere la vita e da cui riesce a salvarsi solo grazie ad un evento fortuito. La pistola si inceppa e Zucchetto riesce a salvarsi dalla furia dei tre albanesi che lo prendono a calci e pugni. Solo in seguito le indagini condurranno fino a due italiani, di cui uno verrà identificato come Di Giovanni, il migliore amico della vittima.

CORRADO DI GIOVANNI, IL TRADIMENTO DI UN AMICO. Tradito da un amico: sarà questo che penserà di Corrado Di Giovanni l'industriale Graziano Zucchetto. Quest'ultimo viene infatti rapinato da un gruppo di criminali e non immagina che nei giorni successivi, gli inquirenti si concentreranno su quel rappresentante di vernici della provincia di Venezia con cui ha stretto da anni un forte legame di amicizia. In quei giorni infatti, Zucchetto non viene informato dello sviluppo delle indagini e scoprirà solo in seguito dell'arresto di Di Giovanni, un evento che lo lascia nel totale stupore. 'Agghiacciante', sottolinea all'epoca a Il Gazzettino, 'una persona che consideravamo di famiglia'. Non sarà tuttavia solo la rapina a Zucchetto a provocare l'arresto ingiusto di Corrado Di Giovanni, ma anche una serie di colpi ai danni di diversi dei suoi clienti più importanti. Al momento dell'incontro con gli investigatori, il rappresentante conferma infatti di conoscere tutti i nomi che gli vengono elencati senza che gli venga spiegato che cosa sta succedendo, mentre i Carabinieri perquisiscono la sua abitazione, setacciano ogni punto, scattano diverse foto. Per Zucchetto invece in seguito non ci saranno dubbi sulla colpevolezza dell'amico, visto che i rapinatori erano a conoscenza di troppi particolari. Sapevano infatti che la cassaforte si trova in un locale isolato dal cemento armato, come riferisce alla stampa la moglie della vittima, Barbara. Ed è anche per quel particolare che la donna non si accorge in quei momenti di quanto sta avvenendo al piano di sotto né che il marito rischia di perdere la vita.

UNA TRAGICA VERITÀ SCOPERTA IN CARCERE. Corrado Di Giovanni impiegherà diversi giorni prima di realizzare quanto siano pesanti le accuse che gli sono state mosse per errore. Il suo nome infatti verrà indicato come capo di una banda di rapinatori, di cui fa parte anche il cugino Massimo Di Giovanni e tre uomini di origini albanesi, ma il diretto interessato lo scoprirà solo una volta rinchiuso in carcere. A compromettere la posizione di Di Giovanni sono i rapporti di lavoro intrecciati con le vittime, fra cui l'amico Graziano Zucchetto, con cui ha cercato per diversi giorni di mettersi in contatto inutilmente. Come ha raccontato a Sono Innocente, in quegli attimi Di Corrado è sicuro che verrà scarcerato nel giro di poche ore, al limite giorni, e sarà invece il suo difensore a renderlo consapevole che le accuse sono davvero tragiche. Dalla rapina al furto fino al tentato omicidio. Per Di Corrado si tratta di una vera e propria doccia fredda e continuerà ad essere così anche nei 14 mesi che trascorrerà in custodia cautelare, a cui si aggiungerà un altro mese agli arresti domiciliari. Solo al processo di primo grado, il rappresentante verrà assolto dalle accuse e la conferma arriverà in Appello nel 2014. Solo in seguito Zucchetto deciderà di parlare a favore dell'amico di un tempo, sottolineando che in realtà il rappresentante è stato nella sua villa due volte in tutto e non molte volte come indicato dagli investigatori nel fascicolo d'accusa. Ed a nulla invece sono servite le testimonianze dei rapinatori, che durante l'interrogatorio affermeranno più volte di non aver mai conosciuto, visto o sentito parlare di Di Giovanni. E infine la beffa: il risarcimento di 516 mila euro richiesti dal difensore dell'ex rappresentante, ormai senza lavoro come il figlio, non è mai stato accordato dallo Stato. Ed è per questo, riporta Il Gazzettino, che Di Giovanni ha presentato ricorso a Roma per riuscire finalmente ad ottenere ciò che è suo di diritto.

SONO INNOCENTE. LUCIA FIUMBERTI.

Lucia Fiumberti. A 28 anni usata e incastrata dai suoi superiori della Provincia di Lodi (Sono Innocente). Lucia Fiumberti, la donna nel 2007 finì in carcere perché usata dai suoi superiori come capro espiatorio di un crimine che non aveva effettivamente commesso. (Sono Innocente), scrive il 13 maggio 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Sono trascorsi 11 anni da quel marzo del 2007 che ha spinto Lucia Fiumberti dietro le sbarre. Di origine comasca ed ex dipendente della provincia di Lodi, la donna verrà ritenuta responsabile a causa delle accuse dei suoi superiori, che decidono di usarla come capro espiatorio. In quei giorni, l'allora 28enne si trovava in ferie dal lavoro e non sospetta che le verrà attribuita dai dirigenti della Provincia una firma che concede l'autorizzazione ad una conceria di rinviare una bonifica da cromo piuttosto costosa. Il caso di Lucia Fiumberti verrà ricordato dal conduttore Alberto Matano all'interno della puntata di Sono Innocente di oggi, domenica 13 maggio 2018. La donna non sa quanto quelle meritate ferie le costeranno la reclusione in carcere per 22 giorni, accuse che rientreranno in un'indagine che la Procura sta facendo su una concessione promossa dalla Provincia di Lodi per cui lavora. Anche se il castello di carte costruito ad arte dai superiori di Lucia verrà demolito in breve tempo, il carcere rimarrà un'esperienza traumatica per la sua giovane vita e provocherà il cambio radicale di settore professionale. Ad oggi, ricorda Il Giorno, Lucia ha infatti messo da parte la laurea con lode ottenuta in Tecnologia farmaceutiche per proseguire la sua carriera nella provincia di Como, in qualità di estetista. Un lavoro che ha deciso di intraprendere subito dopo il licenziamento senza preavviso che ha posto fine al suo lavoro di consulente ambientale per la Provincia di Lodi. E quanto è accaduto, l'errore giudiziario di cui è rimasta vittima, continua ad essere il motore che la spinge a raccontare la sua storia senza sosta. Un riscatto conquistato con fatica e sudore, un calvario che è stato raccontato anche dal regista Francesco Del Grosso nel suo film documentario Non voltarti indietro, così come nel libro che ha scritto grazie all'editore Albatros nel 2010, dal titolo Fuori e dentro.

LUCIA FIUMBERTI, QUEL VOLTO PIENO DI CANDORE

Persino il Carabiniere che l'ha arrestata non ha potuto fare a meno di notare il candore sul volto di Lucia Fiumberti. Quasi 28 anni che avrebbe compiuto pochi giorni dopo il suo arresto ed una pesante accusa che grava già sulle sue spalle. La consulente ambientale viene infatti indicata come la responsabile di una firma finita nell'inchiesta delle autorità ai danni della Provincia di Lodi per cui lavora. E' il 2007 quando Lucia si ritrova di fronte sette Carabinieri alle 4 del mattino, pronti a prelevarla per portarla nel carcere di San Vittore. Un incubo che durerà 22 giorni di detenzione, chiusa in una cella e accusata di aver falsificato una firma importante. Due dirigenti della Provincia a cui fa capo hanno infatti negato la propria responsabilità, preferendo scaricare ogni colpa su quella giovane che collabora con loro da cinque anni. E la storia di Lucia Fiumberti non finisce quando viene finalmente dichiarata innocente perché, come ricorda Unione Sarda, sarà destinata a rivivere tutto quando Claudio Samarati, il suo principale accusatore, riuscirà quasi a sfuggire alle sue responsabilità grazie alla prescrizione.

Per questo che Lucia decide di scrivere ai giornali italiani, convoca Le Iene perché non si dimentichi quanto ha dovuto vivere e soprattutto il colpevole non riesca a farla franca, regalandole un'ingiustizia all'interno di un errore giudiziario. Di quel giorno in cui è finita in manette, virtuali grazie alla decisione di un Carabiniere di lasciarle libere le mani, Lucia ricorda ogni particolare. Da quel sonno che la vede al fianco del compagno alle 4 del mattino fino al brutale risveglio in cui impiega diversi minuti prima di capire che cosa stia accadendo. Il primo pensiero è che si tratti di un errore, mentre scandaglia con la mente qualsiasi tipo di errore possa aver compiuto. La realtà dei fatti le verrà spiegata solo al suo arrivo in caserma, quando le verrà finalmente riferito perché è stata accusata.

SONO INNOCENTE. FRANCESCO RAIOLA.

Francesco Raiola. Arrestato per traffico di stupefacenti: stesso calvario di Enzo Tortora (Sono Innocente). Francesco Raiola, arrestato ingiustamente per traffico di stupefacenti il suo caso somiglia moltissimo a quello che colpì diversi anni prima il giornalista Enzo Tortora. (Sono Innocente), scrive il 13 maggio 2018 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Quanto accaduto a Francesco Raiola è stato considerato negli anni come il nuovo caso Tortora, per via dell'assurdità con cui è stato accusato ed ha dovuto pagare con il carcere e con la vita per un errore che non ha mai commesso. Il soldato Raiola, come viene indicato nel 2011, quando dovrà scontare 21 giorni di carcere per l'accusa di ricettazione e traffico di stupefacenti. Sono Innocente ripercorrerà la storia di Francesco Ragiola grazie alla puntata che andrà in onda questa sera, domenica 11 maggio 2018, partendo da quel fatidico giorno. Perché è lì che il militare subisce un calvario che lo spingerà a stare 4 giorni in cella di isolamento presso il penitenziario di Santa Maria Capua Vetere, ritrovando la libertà solo due settimane più tardi e dimostrando la propria innocenza dopo 4 mesi di arresti domiciliari. Ed anche se verrà scagionato dalle accuse, perderà la possibilità di rientrare in servizio, un reintegro in cui verrà affiancato anche al Movimento 5 Stelle. Il partito produrrà infatti atti parlamentari per ottenere dei risultati concreti, riuscendo a far inserire un articolo nel Decreto legge che prevede la riammissione per tutte le vittime di errori giudiziari.

FRANCESCO RAIOLA E I PUNTI IN COMUNE COL CASO ENZO TORTORA. Il caso di Francesco Raiola ha fin troppi punti in comune con l'errore giudiziario che ha colpito il giornalista Enzo Tortora. A partire dalle calunnie fabbricate ad arte per produrre le accuse che porteranno il militare dietro le sbarre, fino alle intercettazioni che per la procura di Torre Annunziata indicano con chiarezza la sua attività di trafficante di droga. Il militare infatti, come racconta a Il Giornale, parla di kg di mozzarelle che per gli inquirenti si trasformeranno in un preciso quantitativo di droga. Raiola finisce così all'interno dell'inchiesta Alieno ed infine nel carcere per quasi un mese, un incubo da cui riuscirà a fuggire solo quando il giudice di Nocera Inferiore eredità il caso dalla procura di Torre Annunziata e si accorge dell'errore commesso. Il militare non verrà così portato fino al processo, ma rimarrà l'onta delle accuse, almeno per quanto riguarda la sua carriera militare ormai distrutta. Ed ancora. Con Tortora ci sarà in comune anche quel pm che nell'85 vedrà il presentatore al pari di un mercante di morte e che individuerà in Raiola un chiaro criminale. Diego Marmo non sarà solo cruciale nella vita di entrambi gli innocenti, ma rimarrà anche impresso nella memoria della vedova Tortora. Francesca Scopelliti riferirà infatti in un'intervista a Mary Tagliazucchi, di ricordare con chiarezza le bretelle rosse del pm, i toni esasperati.

L'ACCUSA PER TRAFFICO DI STUPEFACENTI. Francesco Raiola riuscirà a dimostrare la propria innocenza dopo essere stato accusato di traffico di stupefacenti e ricettazione di droga. Non riuscirà però a riavere quel lavoro di militare che aveva ottenuto con tanti sacrifici, una porta che rimarrà chiusa a lungo anche di fronte alla conferma che le accuse che gli sono state rivolte sono in realtà un errore giudiziario. Ed è per questo che Raiola non si arrende e decide di rivolgersi persino al Presidente della Repubblica per riuscire a cancellare anche quella conseguenza dell'arresto promosso dal pm Diego Marmo, lo stesso che arrestò diversi decenni prima Enzo Tortora. Il sogno che il militare ha coltivato per una vita, riuscendo a realizzarlo grazie ad un concorso per entrare nell'Esercito italiano, si infrangerà infatti quel giorno in cui i Carabinieri decideranno di arrestarlo. Nella puntata di Sono Innocente in cui ha raccontato la sua storia per la prima volta, il militare ripercorre ogni istante della notte del suo arresto. E' il Maresciallo superiore ad informarlo della presenza dei Carabinieri, ma in quel momento Raiola pensa che sia successo in realtà qualcosa ai familiari. Solo dopo, con in mano 'un faldone di 1200 pagine', inizierà a realizzare che non si tratta di una tragedia avvenuta alla famiglia oppure uno scambio di persona come penserà inizialmente. Lo stesso faldone servirà nella Caserma di Barletta per informarlo dei diversi punti presi in esame nel corso delle indagini di Castellamare di Stabia, in particolar modo le telefonate intercorse fra Raiola ed un vecchio amico. Si tratta di un uomo che conosceva da diverso tempo e con cui poco prima aveva riallacciato i rapporti, non sapendo che le autorità erano già sulle sue tracce con il sospetto di spaccio di droga.

SONO INNOCENTE. GUIDO BERTOLASO.

Bertolaso è innocente, chiedetegli scusa: assolto dopo 8 anni di gogna. Condannati Anemone e l'ex Provveditore Balducci. Per gli appalti super Guido "assolto perché il fatto non sussiste", scrive Augusto Parboni su "Iltempo.it" il 9 Febbraio 2018. «È una corruzione 2.0». Così l’hanno considerata gli stessi magistrati che hanno chiesto e, in parte, ottenuto, la condanna di chi è stato coinvolto nell’inchiesta G8 della Maddalena. A uscire invece indenne dal processo, l’ex capo della Protezione civile Guido Bertolaso «perché il fatto non sussiste». Ma non finisce qui. Nel verdetto dei giudici dell’ottava sezione del tribunale di Roma ci sono state anche prescrizioni del reato. Insomma, quella di ieri è stata una sentenza che ha fatto luce su un presunto sistema corruttivo che ha coinvolto personaggi politici e istituzionali, che a differenza delle posizioni processuali, hanno ottenuto decisioni differenti. I giudici hanno emesso quattro condanne e una dozzina tra assoluzioni e prescrizioni nel processo romano legato agli appalti del G8 della Maddalena.

Riabilitato dopo il fango: Bertolaso assolto per il G8. Completamente scagionato "perché il fatto non sussiste". Ma il processo distrusse la Protezione civile, scrive Patricia Tagliaferri, Venerdì 09/02/2018, su "Il Giornale". Lui, l'uomo delle emergenze, colui che accorreva dove c'era pericolo e risolveva i problemi, ha dovuto convivere per otto anni con l'accusa di essere un corrotto, uno che favoriva gli amici imprenditori negli appalti, talvolta anche solo per un massaggio a luci rosse. Nulla di tutto ciò è mai accaduto. Solo fango. Un calvario contro il quale Guido Bertolaso, un medico prima di essere funzionario di Stato, ha combattuto per la sua dignità e per quella della Protezione civile che ha guidato tanti anni e che dopo di lui non è stata più la stessa. Fino a ieri, quando il Tribunale di Roma lo ha completamente riabilitato assolvendolo con formula piena, «perché il fatto non sussiste», nonostante la Procura di Roma avesse sollecitato la richiesta di prescrizione. «Questo vale come una doppia assoluzione - ha commentato su Facebook - grazie alla mia famiglia e a chi mi è stato vicino in questi anni. Sono innocente, come ho sempre detto. Ora lo hanno dichiarato anche i giudici». L'ex capo della Protezione civile, dunque, non faceva parte della cosiddetta «cricca», per usare le parole del gip Rosario Lupo, composta da un gruppo di imprenditori e pezzi delle istituzioni, che operava «in un sistema gelatinoso» ed era capace di condizionare i maggiori appalti degli ultimi anni, dai Mondiali di nuoto a Roma del 2009 al G8 della Maddalena (poi trasferito a L'Aquila), fino alle celebrazioni per i 150 anni dell'Unità d'Italia. La seconda assoluzione per lui, dopo quella per l'accusa di omicidio colposo nel processo Grandi Rischi bis per il terremoto del 2009. Bertolaso l'ha festeggiata creando un gruppo WhatsApp chiamato «assolto», che ieri in poche ore ha raccolto centinaia di messaggi, congratulazioni e attestati di stima da parte di amici, parenti e collaboratori. «Questa assoluzione certifica che questo processo non doveva neanche cominciare, resta il rammarico che si sono dovuti attendere otto lunghi anni nel corso dei quali si è messa fuori campo una persona che certamente costituisce una risorsa per il Paese», ha commentato il suo avvocato, Filippo Dinacci. Oltre a quella di Bertolaso ci sono state una decina di assoluzioni e prescrizioni, ma anche quattro condanne per associazione a delinquere per i capi della «cricca»: sei anni e sei mesi per l'ex presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici Angelo Balducci, sei anni per il costruttore romano Diego Anemone, quattro anni e sei mesi per l'ex provveditore opere pubbliche della Toscana Fabio De Santis e quattro anni per l'ex generale della Finanza Francesco Pittorru. L'inchiesta è nata alla Procura di Firenze, dalle indagini sulla costruzione della nuova Scuola Marescialli, e poi è stata trasferita prima a Perugia e poi a Roma per competenza. Secondo i magistrati c'erano Balducci ed Anemone, ai quali veniva contestata la corruzione e l'associazione a delinquere, al centro del gruppo che con favori e denaro si aggiudicava gare milionarie. «Una sorta di corruzione 2.0», aveva detto il pm nella requisitoria parlando di una rete fatta di «rapporti illeciti con soggetti di alto profilo istituzionale». Ma non tutto l'impianto accusatorio ha retto. Anche l'ex commissario straordinario ai Mondiali di nuoto Claudio Rinaldi e l'ex funzionaria alla presidenza del Consiglio Maria Pia Forleo sono stati assolti. Prescritta invece la posizione di Daniele Anemone, fratello di Diego. «Soddisfatti» anche gli avvocati di Rinaldi, Nicola Madia e Livia Lo Turco.

Bertolaso assolto dopo anni di sofferenze, perché Mattarella non gli telefona? Mattarella chiami Bertolaso, scrive Pietro Mancini su Affari Italiani Venerdì 9 febbraio 2018. Perchè Sergio Mattarella, 76 anni, che è anche Presidente del Consiglio della Magistratura, non invia un telegramma, o non telefona a Guido Bertolaso, ieri assolto da ogni accusa, dopo aver lavorato, con correttezza ed efficienza, in situazioni drammatiche, per il nostro Paese? E perché qualche giornale, de'lotta dura e de'Procura, non chiede scusa all'ex responsabile all'ex Capo della Protezione civile, dopo averne sporcato l'immagine, presentandolo come un funzionario corrotto, che prediligeva messaggi hot, nel circolo sportivo del costruttore Anemone, stangato dal tribunale di Roma, insieme a don Angelo Balducci (sei anni e mezzo all'ex presidente delle Opere pubbliche)?

SONO INNOCENTE. ANTONIO CARIDI.

“Non è mafioso”: Caridi scarcerato dopo 20 mesi di galera. L’ex senatore è libero per mancanza di indizi, scrive Simona Musco il 27 Marzo 2018 su "Il Dubbio". L’ex senatore Antonio Caridi, dopo 20 mesi in cella, è di nuovo un uomo libero. Lo ha deciso ieri il tribunale del Riesame di Reggio Calabria, che ha annullato la custodia cautelare riqualificando l’accusa di associazione mafiosa in concorso esterno. La vicenda era tornata al tribunale della libertà dopo due annullamenti da parte della Cassazione, che aveva censurato le motivazioni con le quali era stato confermato il carcere per il politico, coinvolto nell’inchiesta “Mammasantissima”, poi unificata assieme ad altri procedimenti nel maxi processo “Gotha”, per il quale è stato rinviato a giudizio. Per Caridi il Senato aveva votato l’arresto ad agosto 2016, con 154 senatori favorevoli, 110 contrari e 12 astenuti. Un voto preceduto da ampie polemiche e scontri, nonché dalla dichiarazione d’innocenza dello stesso Caridi, che aveva condensato su due pagine il proprio pensiero. «Io sono e mi dichiaro innocente e sono sicuro che questo mi verrà riconosciuto in sede giudiziaria», aveva affermato poco prima di lasciare l’aula alla volta di Rebibbia. Non aveva convinto dunque i suoi colleghi, persuasi invece dalla tesi della Dda di Reggio Calabria, secondo cui il senatore in quota Gal sarebbe stato al servizio della cosiddetta cupola grigia, una struttura riservata e invisibile – al cui vertice ci sarebbero l’ex deputato Paolo Romeo, l’ex sottosegretario regionale Alberto Sarra, l’avvocato Giorgio De Stefano ( condannato a 20 anni in abbreviato) e il funzionario Francesco Chirico ( che è stato assolto) -, capace di interloquire «drammaticamente» con la ‘ ndrangheta, «per consentire l’attuazione del programma criminoso anche negli ambiti strategici della politica, dell’economia e delle istituzioni». Caridi, dunque, sarebbe stato «soggetto strumentale rispetto alle finalità» della cupola, che ne avrebbe sfruttato la carriera politica sin dal 1997, quando si candidò comunali di Reggio Calabria, potendo contare sul sostegno del clan De Stefano per almeno 13 anni. E, una volta eletto, avrebbe operato «in modo stabile, continuativo e consapevole» a favore del gruppo criminale, facendo confluire ingenti risorse pubbliche su imprenditori “amici”. Ma tali accuse sono state ridimensionate ieri dal Riesame, che ha ritenuto insussistente l’ipotesi dell’appartenenza alla cupola, facendo venire meno le esigenze cautelari. La discussione era iniziata il 20 marzo ed è terminata ieri, dopo l’analisi di migliaia di pagine di atti prodotti dalla Procura. «È stata un’udienza lunghissima, approfondita – ha spiegato al Dubbio l’avvocato Valerio Spigarelli, suo difensore insieme al collega Carlo Morace -, che ha avuto come esito la restituzione della libertà a chi non doveva evidentemente esserne privato. Su tutto il resto interloquiremo nelle dovute sedi, ma l’ipotesi per cui è stato arrestato, in questo momento, non trova conferma. Siamo soddisfatti – ha aggiunto -. Questo processo si doveva svolgere senza la carcerazione di Caridi. Ci riserviamo ogni ulteriore commento a quando leggeremo la motivazione, annunciando che anche per ciò che residua faremo comunque ricorso per Cassazione. La cosa fondamentale per noi è che ora sia libero». La Cassazione nei mesi scorsi aveva chiesto al Riesame di ricostruire le questioni di «gravità indiziaria», «la condotta in concreto» di Caridi, la sua rilevanza penale e la corretta qualificazione giuridica, anche in termini di esigenze cautelari. Diverse le censure mosse dalla Suprema Corte, soprattutto sul ruolo di Caridi nella presunta associazione segreta (la cui esistenza è stata certificata dalla sentenza in abbreviato), ritenuto poco chiaro, a partire dai rapporti del politico reggino con il fulcro di tale cupola, Paolo Romeo. L’ipotesi secondo cui sarebbe stato a tempo indeterminato un esecutore del programma della struttura segreta, avevano obiettato i giudici, «non trova nessun riscontro in atti sul piano della gravità indiziaria». E ad eccezione di una conversazione intercettata nel 2014, su questioni relative alla costituzione della città metropolitana di Reggio Calabria, non è stato indicato nessun altro contatto tra Romeo e l’ex senatore da cui evincere «un collegamento fra la carriera politica di Caridi e la prospettata struttura segreta».

Il caso Caridi e quei senatori senza coscienza. Il Parlamento diede l’ok all’arresto del senatore, ora si scopre che non c’è uno straccio di indizio, scrive Piero Sansonetti il 27 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  Antonio Caridi è stato scarcerato. Il tribunale della libertà ha accertato che non è né il capo della mafia, né uno dei capi (come era stato ipotizzato al momento della prima richiesta di arresto) e neppure un docile strumento della cosiddetta “Cupola grigia” (come fu ipotizzato in un secondo tempo, visto che l’ipotesi che fosse il boss dei boss appariva un po’ comica). Il tribunale della libertà ha preso questa decisione dopo che la Cassazione, per ben due volte di seguito, gli aveva fatto notare che, lette e rilette le carte, non era saltato fuori neppure un indizio piccolo piccolo che suffragasse l’ipotesi di Caridi mafioso. Avendo accettato l’ipotesi della Cassazione che l’accusa non reggeva, il tribunale ha deciso di scarcerare Caridi e di accontentarsi di un’accusa più modesta: concorso esterno. Come sta la coscienza di quei senatori che hanno fatto arrestare Caridi? Diciamo che il capo della mafia comunque non faceva parte della mafia… E così ha potuto scarcerarlo. E scarcerandolo ha ammesso che Antonio Caridi, senatore della Repubblica fino a una settimana fa (e ora non più perché la sua condizione di detenuto gli ha impedito, di fatto, di presentarsi a nuove elezioni) è stato tenuto in prigione ingiustamente per venti mesi. Se adesso parlo di sopruso, di grandissima ingiustizia, di persecuzione, qualcuno mi dirà che cerco sempre lo spunto polemico? E cioè mi farà capire che in fondo tenere in prigione un senatore per venti mesi, senza avere un indizio in mano, sulla base di una accusa palesemente cervellotica (come questo giornale, solo soletto, sostiene esattamente da 20 mesi) non è una cosa scandalosa, fa parte della routine di una giustizia perfettibile ma comunque funzionante? Penso che qualcuno me lo dirà. E mi dirà che se Caridi non è più accusato di associazione mafiosa, comunque è accusato di concorso esterno, che è un reato grave. Già, infatti questa sentenza del tribunale della libertà – che giunge con un ritardo mostruoso e in nessun modo giustificabile visto che circa un anno fa la Cassazione dichiarò incomprensibile l’arresto di Caridi – sembra piuttosto ipocrita. Di fronte all’evidenza dei fatti, messa sul tavolo dalla Corte di Cassazione (e cioè l’assenza di indizi di colpevolezza) il tribunale della libertà, per non sbugiardare in modo clamoroso la Procura, ha deciso di derubricare l’accusa. Come dire: vabbé, non ci sono indizi di nessun tipo sui rapporti di Caridi con la “Cupola”, né su iniziative parlamentari che lui ha preso a favore della “Cupola”, né su favori che le ha fatto, né tantomeno su favori che ha ricevuto, e quindi, evidentemente non è mafioso; però, almeno un po’ di concorso esterno può restare in piedi… Sarebbe come se di fronte all’evidenza che il tal dei tali non ha commesso un omicidio, si dicesse: beh, però almeno lo avrà ferito… Lasciamo stare questo capitolo, sul quale la Cassazione dovrà pronunciarsi per la terza volta ( poi dicono che la macchina della giustizia si intasa…). Restiamo ai fatti di oggi. Possiamo tranquillamente affermare tre cose. La prima è che la Procura ha fatto arrestare una persona senza indizi. E che questa persona era un senatore. E che è abbastanza probabile che la Procura lo abbia fatto arrestare proprio perché era un senatore. La seconda è che il Senato della Repubblica, di fronte a una richiesta di arresto senza indizi, non si è domandato il perchè ma ha piegato la testa dinnanzi al volere dei giudici. Su che base la maggioranza dei senatori ha deciso che c’erano indizi sufficienti per dare il via libero alla carcerazione del loro collega? C’è uno solo dei senatori che 20 mesi fa votarono per l’arresto e sostennero che gli indizi erano sufficienti, che oggi saprebbe elencarmi quali erano questi indizi sufficienti? Cosa provano ora i senatori che mandano in carcere il senatore Caridi, e provocarono i venti mesi di detenzione, cosa provano di fronte alla notizia che fu un errore? La terza cosa chiarissima è che i giornali e le Tv e i talk show e la rete e tutto quanto vi piace definire con il termine “informazione”, tutto questo “circo” è del tutto inutile quando si parla di giustizia. Perché quando si parla di giustizia i giornali dicono una sola cosa: evviva il Pm. Non c’è stato un giornale (salvo il nostro) che in questi mesi si sia occupato del caso-Caridi, non c’è stato un singolo giornale o una singola Tv che abbia sollevato il problema della assenza di indizi contro di lui e della follia della concessione, da parte del senato, del mandato di arresto. Qualcuno sarà chiamato a rispondere di questo atteggiamento arrogante e immorale? Da parte dell’informazione, da parte di moltissimi senatori, da parte di alcuni magistrati? Beh, di tutte le domande che ho posto, quest’ultima è l’unica alla quale ho una risposta sicura: no, nessuno.

SONO INNOCENTE. HASHI OMAR HASSAN.

Caso Alpi, 3 milioni di risarcimento ad Hassan per errore giudiziario, scrive Damiano Aliprandi il 31 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Riconosciuto un risarcimento di oltre 3 milioni di euro per i 17 anni scontati da innocente. È quanto è stato disposto in favore di Hashi Omar Hassan, il somalo che ha scontato, da innocente, quasi 17 anni di carcere per gli omicidi di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin. Hassan, poi è stato assolto in un processo di revisione. La notizia, anticipata da Chi l’ha visto? – trasmissione che fece riaprire il caso -, è stata poi confermata all’Ansa dall’avvocato Antonio Moriconi, uno dei legali di Hassan. La Corte di Appello di Perugia, che il 19 ottobre 2016 aveva assolto Hashi Omar Hassan dall’accusa di aver ucciso nel marzo 1994 a Mogadiscio la giornalista Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin, gli ha riconosciuto un risarcimento di 3.181.500 euro per 6.363 giorni scaturiti da un errore giudiziario. Cinquecento euro per ogni giorno trascorso in carcere da innocente. Unico condannato (26 anni di reclusione) per l’omicidio della giornalista del Tg3, Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin, avvenuta a Mogadisco il 20 marzo del 1994, è stato scagionato nel 2016 e rimesso in libertà dalla Corte di Perugia che ha accolto la richiesta del sostituto procuratore generale Dario Razzi. «Se è vero che Hassan è stato condannato dobbiamo avere anche il coraggio di ammettere che possa essere innocente», aveva detto il magistrato. Convinta dell’innocenza di Hassan si è sempre detta la famiglia di Ilaria Alpi. Teste chiave del processo a suo carico era stato un altro somalo, Ahmed Ali Rage, detto Jelle, il quale però prima alla trasmissione “Chi l’ha visto”, andata in onda il 18 febbraio 2015, aveva ritrattato le sue accuse. In particolare sostenendo di non aver «detto a nessuno» che Hassan «faceva parte del commando» autore del duplice delitto e «nemmeno che è stato lui a uccidere». Spiegando di averlo collocato sull’auto degli assassini solo «per dare credibilità» al racconto, costruito su particolari raccolti da chi vide l’agguato. «L’ho fatto solo per andarmene via dal Paese», aveva ribadito. Rimane però senza colpevole l’agguato che costò la vita a Ilaria Alpi e l’operatore Miran Hrovatin. Sul caso si sono alternati negli anni ben cinque magistrati e tre procuratori. Eppure, nessuno è riuscito a porre fine ai troppi evidenti depistaggi che hanno caratterizzato questa vicenda. L’unica certezza è che a pagarne ingiustamente le spese è stato il somalo Omar Hassan. Nel 2000 venne arrestato e inserito nel circuito E. I. V. (elevato indice di vigilanza) sezione “protetti”, riserva d’appello a soggetti che temono per la propria incolumità personale. Nel 2009 venne poi assegnato nel circuito “Media Sicurezza” riservato ai detenuti comuni e trasferito presso la sezione “protetti” del carcere di Padova. Presso tale sede non si verificarono criticità e dal 30.04.2013 ha iniziato a fruire di regolari permessi premio concessi dalla locale magistratura di sorveglianza; in data 19.04.2015 è stato scarcerato per affidamento in prova al servizio sociale. Nessuno potrà ridargli i 17 anni di vita rubati, ma almeno ha avuto il giusto risarcimento per l’errore giudiziario. È necessario distinguere il risarcimento per l’ingiusta detenzione da quello per l’errore giudiziario. Nel primo caso si fa riferimento alla detenzione subita in via preventiva prima dello svolgimento del processo e quindi prima della condanna eventuale, mentre nel secondo si presuppone invece una condanna a cui sia stata data esecuzione e un successivo giudizio di revisione del processo in base a nuove prove o alla dimostrazione che la condanna è stata pronunciata in conseguenza della falsità in atti.

SONO INNOCENTE. MARIA GRAZIA MODENA.

Distrutta dalle accuse e trattata come una criminale: l'odissea giudiziaria della cardiologa. Maria Grazia Modena era Primario al Policlinico modenese dove aveva costruito un reparto di ricerca d'eccellenza. Poi le accuse infamanti. E i processi, scrive la Redazione di Tiscali il 28 gennaio 2018. La sua vicenda ha non pochi punti in comune con quella di Ilaria Capua, la virologa intervistata da TiscaliNews che fu accusata di voler diffondere virus e far scoppiare contagi in Italia per poi guadagnare con i vaccini che metteva a punto. E che in seguito è stata completamente scagionata dalle accuse. Sono stati sei anni infernali, quelli vissuti da Maria Grazia Modena, all'epoca dei fatti primario di Cardiologia del Policlinico di Modena. Accusata di essere alla testa di un gruppo di "camici sporchi" con cui secondo la accusa commetteva alcuni fra i più gravi reati: associazione a delinquere, truffa al sistema sanitario, corruzione, abuso d’ufficio, sperimentazioni illecite. Arrestata nel 2012 mentre gli elicotteri volavano su casa sua, neanche fosse un pericoloso boss della mafia. E solo qualche giorno fa assolta da tutte le accuse, anche quella di falso, dopo la sentenza della Cassazione.

"Resta la sconfitta morale". Secondo Maria Grazia Modena, che tuttora attende di essere reintegrata al Policlinico di Modena e che le si tolga la radiazione dall'Ordine dei Medici, quella contro di lei è stata una sentenza politica, con un quadro accusatorio montato per farla fuori. Come lei stessa ha raccontato in una intervista a Modena Today: "Se penso ai denari pubblici che, a partire dal costo degli elicotteri che hanno circondato casa mia e degli altri otto medici arrestati quell’indimenticabile 9 novembre del 2012 fino a tutte le spese occorse in questo accanimento processuale, hanno pesato sulle tasche dei cittadini, mi assale un grande dispiacere. Perché se quei denari, così sprecati, fossero stati investiti nella sanità pubblica, avrebbero sicuramente apportato a Modena un ulteriore salto di qualità. Questo è stato un processo politico, non penale. E questa è stata, da un lato, la mia salvezza perché sapevo che contro avevo i poteri forti. Davanti a un nemico titanico ho trovato quella forza che, altrimenti, probabilmente, non avrei avuto per portare avanti una battaglia nella quale non solo si ristabilisse la mia dignità di professionista e donna ma, soprattutto, quella dei pazienti e dei medici che hanno pagato con me. Alcuni di questi erano all’inizio della loro carriera e, questo processo, ha distrutto le loro vite. Altri si sono visti emarginati solo perché hanno continuato a credere in me. Resta la sconfitta morale". 

Come sopravvivere. La dottoressa Modena e Ilaria Capua si sono sentite proprio poco prima della pronuncia della Cassazione che ha completamente riabilitato la cardiologa: "Non le ho risposto perché attendevo la sentenza, ora lo farò. Lei schifata se n'e andata negli Usa, io voglio riprendermi il mio ruolo a Modena, in Italia" ha detto al Corriere della Sera. Era diventata potente e stimata: "Sì lo ammetto volevo creare una cardiologia d’eccellenza e ci sono riuscita. Ho dato la vita per il lavoro, uscivo alle 6 tornavo alle 9 di sera, niente figli per scelta". Ed ecco le accuse infamanti, i processi, gli arresti domiciliari, i titoli sui "camici sporchi" a tutta stampa. Ad aiutarla a sopravvivere a tanto sfascio, il marito già in pensione e costretto a rimettersi in pensione per mantenere la famiglia dopo la radiazione della moglie. E le cure del cagnolino Manhattan". La dottoressa Modena ha ripreso a insegnare, ma vuole tornare in ospedale, come primario, e riprendere le sue ricerche con i collaboratori fidati. 

La Cassazione la assolve: il processo era “sperimentale”…, scrive Valentina Stella il 23 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Sono le 5 e 18 dell’alba di sabato mattina quando mi giunge questo messaggio: “Ho vinto su tutti i fronti!!! È finito per sempre un incubo. Adesso vado a dormire!!”: a scrivermi è Maria Grazia Modena, professoressa di Cardiologia dell’Università di Modena e Reggio Emilia, già Presidente della Società Italiana di Cardiologia, che non ha smesso di combattere per dimostrare la sua innocenza, come vi avevamo già raccontato qualche mese sul Dubbio. Adesso che il suo camice è definitivamente pulito ha voglia di dirlo a tutti, a poche ore dalla sentenza della Cassazione che l’ha assolta da tutte le accuse dell’inchiesta che nel novembre 2012 la portò agli arresti domiciliari, dopo un arresto spettacolare con elicotteri in volo, e che riguardava le presunte sperimentazioni abusive sui pazienti inconsapevoli che, secondo l’accusa del pm Marco Niccolini, sarebbero avvenute nel reparto di cardiologia del Policlinico modenese. Venerdì notte intorno all’una e trenta è arrivato il giudizio da Roma: la sentenza annulla senza rinvio la disposizione di condanna per i reati di falso, che era l’unica condanna che era rimasta alla dottoressa Modena e dichiara inammissibili i ricorsi contro l’assoluzione in Appello per i reati di associazione a delinquere, corruzione, truffa ai danni dell’ospedale e abuso d’ufficio, del procuratore generale di Bologna e delle parti civili ossia Azienda ospedaliera, Regione Emilia Romagna e Associazione Amici del Cuore condannandoli alle spese processuali. «Adesso posso dire di credere nella magistratura giusta – racconta al Dubbio la professoressa – leale, fatta di giuristi veri. Ho vissuto sei anni di panico, però alla fine ho ottenuto piena giustizia, essendo stata assolta per tutto, grazie anche ai miei straordinari avvocati». Oggi la professoressa Modena è completamente libera di riprendere in mano la sua vita e forse di tornare a fare il primario. «Proprio oggi (ndr ieri) mi è arrivato il messaggio del Rettore dell’Università di Modena per cui la mia assoluzione è “motivo di grande soddisfazione e restituisce forza e credibilità all’ambiente universitario della Medicina modenese”».

Il procuratore capo di Modena Lucia Musti – il magistrato che tra l’altro è stato ascoltato nei mesi scorsi dalla prima commissione del Csm sui casi Cpl Concordia e Consip che sulla decisione dei supremi giudici ha detto: “La Cassazione non dichiara le persone innocenti o colpevoli. È un provvedimento che ha solo dichiarato inammissibile il ricorso del procuratore generale di Bologna. Rispettiamo tutte le pronunce, ma il nostro lavoro sperimentale di indagine è stato valido. È stata fatta una ‘ indagine sperimentale’, unica, al punto tale che lo stesso tipo di indagine è stata anche esportata all’estero perché è stata oggetto di studio in altri ordinamenti di altri Stati’. Il professore Luigi Stortoni, difensore con il collega Massimiliano Iovino della professoressa Modena, commenta: «Non è vero che la Cassazione non decide chi è innocente o colpevole. La Cassazione decide se le sentenze sono state fatte correttamente e in contrario le corregge. Nel caso della professoressa Modena la Cassazione ha dichiarato addirittura inammissibili i ricorsi della Procura Generale di Bologna, quindi ciò ha confermato la correttezza della sentenza di assoluzione arrivata in Appello e ha cassato senza rinvio la sentenza per quello che concerne la condanna per i falsi. Quando la Cassazione cassa senza rinvio significa che assolve. Quindi come hanno dimostrato tre giudici della Corte d’Appello e cinque giudici della Cassazione questa ipotesi accusatoria, questa grande inchiesta sul malaffare, è stata tutta una montatura».

La giustizia, secondo la dottoressa Musti, si amministra anche a colpi di ‘ esperimenti’: lei cosa pensa?

«Le dichiarazioni della Musti sono sconcertanti, io sono sbigottito prima come penalista e poi come cittadino e difensore. Esse sovvertono tutti i principi e tutti i valori del diritto e del processo penale che sono la presunzione di innocenza, il fatto che si possa punire qualcuno quando vi è la prova che abbia commesso un reato, che il diritto penale debba essere certo come dice la nostra Costituzione e la Carta Europea dei Diritti dell’Uomo. È terribile che un processo sia stato preceduto da una ‘ indagine sperimentale’: la sperimentazione del diritto penale è un assurdo, si applica la regola che già esiste, non si fanno tentativi sperimentali. La Musti è come se dicesse ‘ abbiamo provato ad applicare un diritto penale che non c’era prima’ ma allora i principi di certezza e di retroattività del diritto penale vanno a farsi benedire! È come dire che si fanno ‘ esperimenti penali’ in corpore vili: sperimentazioni pericolose e inammissibili in un ordinamento costituzionale che garantisce la libertà personale. Rischiamo di diventare delle cavie nelle mani delle Procure. Il mio timore è che la Musti stia confessando con candida ingenuità che si può sperimentare sulla pelle dei cittadini».

La Musti poi prosegue dicendo che quel loro tipo di indagine sperimentale è stato esportato all’estero.

«Spero che non sia così, quale immagine daremmo mai dell’operato dei nostri pubblici ministeri?»

Tutta una anomalia fin dall’inizio dunque?

«Nella fase delle indagini, si è verificata, da parte del pm Niccolini e dell’allora capo Zincani, una situazione paradossale contraria a tutte le regole e a tutti i principi. L’imputato deve essere messo nelle condizioni di sapere di cosa è accusato per potersi difendere. Invece in questo processo, nella fase delle indagini, gli indagati che, leggendo i giornali, venivano a sapere di un procedimento in atto, andavano ripetutamente a bussare alla porta della Procura per chiedere conferme e non veniva detto loro nulla. Addirittura quando chiesero un certificato sui carichi pendenti nei loro confronti fu risposto negativamente facendo un falso. E questo noi l’abbiamo denunciato. E mentre non si diceva nulla a chi aveva diritto ad essere informato sulla propria posizione, sui giornali e in tv si sbandieravano confusamente notizie false. Il dottor Zincani fece una serie di dichiarazioni alimentando una gogna mediatica inqualificabile».

SONO INNOCENTE. GIUSEPPE MELZI.

L’avv. antimafia arrestato per mafia: 10 anni per scagionarlo, scrive Valentina Stella il 17 gennaio 2018 su "Il Dubbio".  La vicenda giudiziaria di Giuseppe Melzi, che fu il legale dei risparmiatori del crack ambrosiano e del fallimento Sindona. Nel 2008 venne accusato di riciclaggio per i clan. L’avvocato Giuseppe Melzi venne arrestato a Milano, dinanzi il suo studio, l’8 febbraio 2008 insieme ad altre 8 persone a seguito di una indagine dei Ros dei Carabinieri di Milano, denominata “Dirty Money” (ex Tre Torri), avviata nel lontano 2001. Era accusato di “riciclaggio e agevolazione mafiosa”: secondo l’accusa aveva riciclato e reimpiegato capitali, attraverso un giro di società fittizie tra Svizzera e Italia, per un valore di circa 80 milioni di euro che erano il prodotto dei traffici illeciti della cosca della ‘ndrangheta Ferrazzo di Mesoraca (Crotone). L’avvocato Melzi ha scontato 291 giorni di custodia cautelare (89 in carcere e 202 a domicilio, quasi 10 mesi), e subìto la sospensione dall’attività professionale per 1.159 giorni ( 3 anni e 2 mesi). Nel 2009 la Procura chiese il rinvio a giudizio per gli imputati, ma il gup Paolo Ielo trasmise il procedimento a Cagliari per competenza territoriale. Melzi da allora sostiene di non aver avuto più aggiornamenti sulla sua vicenda giudiziaria. Il 4 aprile 2016 il procuratore capo di Cagliari, Gilberto Ganassi, e il sostituto Guido Piani chiedono al gip Mauro Grandesso Silvestri l’archiviazione di tutti gli indagati. Il 5 maggio giunge l’archiviazione ma nulla viene notificato all’avvocato Melzi che ne è venuto a conoscenza solo qualche giorno fa tramite un collega sardo. L’avvocato Giuseppe Melzi, che ha difeso i risparmiatori vittime del crack Ambrosiano e del fallimento della banca di Sindona, venne accusato nel 2008 di riciclaggio per i clan della ‘ ndrangheta. Vita privata e professionale rovinate. A dieci anni da quelle accuse il procedimento viene archiviato e non gli viene neanche comunicato.

Il primo febbraio 2008 inizia il suo calvario giudiziario.

«È stato uno “tsunami”. Non riuscivo neppure a realizzare che il provvedimento cautelare e le ipotesi accusatorie riguardassero me e non unicamente soggetti che richiedevano la mia assistenza professionale. Non sapevo nulla della maggior parte dei fatti esposti nell’ordinanza di 279 pagine che mi veniva notificata. Conoscevo solo alcuni degli altri indagati e non ero mai stato interrogato dal Pm».

Lei ha subìto ingiustamente 291 giorni di custodia cautelare.

«Nel carcere si perde la propria identità: una devastazione completa, che tronca improvvisamente la vita di relazione, gli impegni, gli interessi, la manifestazione degli affetti; in definitiva la propria realtà esistenziale».

Lei è passato da paladino dei piccoli risparmiatori ad imputato con l’aggravante della finalità mafiosa.

«La mia attività professionale è sempre stata in difesa delle vittime della criminalità economico- finanziaria. Sono stato l’unico che ha denunciato pubblicamente che il mandante dell’assassinio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli era Sindona, mentre l’Ordine degli Avvocati di Milano non partecipò ai funerali e mi interrogò sulla fonte delle mie affermazioni. Nessuno deve essere considerato “intoccabile”, ma l’identità e la storia personale e professionale di ogni cittadino non possono essere ignorate e calpestate, in base a ipotesi, “teoremi” accusatori infondati e strumentali di magistrati, territorialmente incompetenti e non solo. Purtroppo, “intoccabili” appaiono i giudici che non si confrontano con gli indagati e con i loro difensori, non rispettano le procedure e, in definitiva, non rispondono delle loro decisioni, né subiscono controlli e sanzioni».

Lei scrive “dell’irrisarcibile pregiudizio” subìto dal comportamento dei magistrati milanesi: cosa intende?

«Il “pregiudizio”, i danni subiti dalla mia persona, dalla mia famiglia, dalla mia attività sono incalcolabili e, appunto, irrisarcibili».

Sulla stampa lei è stato definito “la mente finanziaria e legale dell’organizzazione criminale” e anche il “deus ex machina della cosca Ferrazzo’.

«Il “processo mediatico” è stato non meno devastante. La stampa deve diffondere le notizie, ma non può prescindere da una verifica critica di ogni comportamento, anche di quello dei giudici. Nessuno allora ha proposto riserve, o dubbi sulle incredibili e folli accuse rivoltemi. Solo l’allora Assessore al Comune di Milano, On. le Tiziana Maiolo (che conoscevo appena) ha avuto la civiltà di scrivere sul proprio blog: “E se l’avvocato Melzi fosse innocente?… La storia non cambia, basta una informazione di garanzia, o un arresto per essere già colpevoli”».

Come è possibile che non ha mai ricevuto informazione dell’archiviazione?

«L’art. 409 c. p. p. prevede la notifica dell’archiviazione non solo alle eventuali parti lese, ma agli indagati che hanno subito un provvedimento cautelare. L’omissione della Cancelleria nel tardare la notifica del decreto di archiviazione è rimediabile e davvero, “veniale”, rispetto alla “mortale” gravità dell’errore e dell’abuso compiuto dai giudici che hanno malamente indagato dal 2001 al 2009, raccogliendo “la massa enorme di dati e di elementi” definitivamente inconcludenti».

Che giudizio complessivo dà di questa sua vicenda?

«Il giudizio complessivo riguarda il “sistema giustizia”: non si tratta solo di denunciare pubblicamente la “malagiustizia” che colpisce persone innocenti, ma di ottenere la modifica di un sistema che esercita poteri assoluti e purtroppo “irresponsabili”. Non a caso il “potere giudiziario” è stato definito una “casta”: i giudici non rispondono mai delle loro decisioni e non sono sottoposti a reali controlli. Quelli del C. S. M. (politicizzato all’eccesso), in realtà, sono inesistenti, o marginali: l’autoreferenzialità è assoluta. In 46 anni di professione non ho mai avuto la fortuna di incontrare un giudice che ha riconosciuto e modificato un proprio errato convincimento, neppure a seguito della smentita dei propri “teoremi”, ovviamente, confidando sulla sostanziale impunità. Di fronte ad un “sistema chiuso” e che si auto- seleziona in base solo ai risultati di un concorso e autogiustifica definitivamente i propri adepti (per l’intera vita professionale fino alla pensione), è indispensabile una modifica radicale. Perché non rendere elettiva anche la nomina dei giudici? Dovranno almeno rispondere periodicamente del loro operato, come i componenti gli Ordini Legislativo ed Esecutivo, caposaldi della nostra Costituzione?»

Nessuno pagherà i danni, scrive Piero Sansonetti il 9 gennaio 2018 su "Il Dubbio".  Anche il processo- Finmeccanica si è concluso con un flop. Ci sono voluti quasi cinque anni per arrivare alla conclusione che lo scandalo non c’era. Non è stata trovata nessuna traccia delle tangenti. Come del resto avevano già detto i giudici di primo grado, quasi tre anni fa, ma non erano stati ascoltati. I manager ora sono scagionati e possono riprendere a testa alta la loro attività. Anche se i danni che ha ricevuto la loro carriera ormai sono irreparabili. Anche se il trauma subìto quel giorno che arrivarono i carabinieri a casa e li trascinarono in prigione, la foto di fronte e di profilo, gli oggetti personali consegnati al piantone, e poi i tre mesi passati in cella, beh, tutto questo è impossibile da dimenticare. E anche da risarcire. Lo scandalo Finmeccanica non c’era Chi pagherà i danni (ingentissimi)? Lo scandalo non c’era. Non è la prima volta che succede. Cito a mente, senza neanche sforzarmi troppo e senza consultare gli archivi: lo scandalo tempa Rossa, che alimentò tutti i grandi giornali un paio d’anni fa, e che costrinse alla dimissioni una ministra, e che permise alla stampa di frugare in modo osceno nella sua vita privata, e di sbatterla in piazza con ferocia e un po’ di perversione, beh, lo scandalo Tempa Rossa si è concluso con un’archiviazione generale. Non esisteva: zero. Nessuno ha pagato. Lo scandalo di Sesto San Giovanni, che travolse il braccio destro di Bersani, Filippo Penati, figura emergente della sinistra italiana, beh, anche quello è finito in una bolla di sapone. Penati, invece, ha pagato. L’ha pagata cara. Oggi nemmeno più pensa alla lontana all’ipotesi di tornare a far politica. Un po’ non gli interessa più, un po’ forse ha paura, ha imparato sulla sua pelle che se un Pm ti punta ha il potere di fare di te quel che vuole, di sbranarti, e poi magari lasciarti sul selciato, vivo, ma distrutto e terrorizzato. Vogliamo parlare di Vasco Errani, ex presidente della Regione Emilia, anche lui travolto da uno scandalo, accusato di favoritismi e corruzione, costretto a uscire dalla politica per molti mesi, poi assolto? Errani non s’è dato per vinto, in qualche modo ha ripreso a lottare a a far politica, ma certo ripartendo da una posizione molto, molto svantaggiata rispetto alla posizione che aveva raggiunto prima che una Procura si interessasse a lui. Fermiamoci qui, sennò diventiamo noiosi (e tralasciamo i settanta processi a Berlusconi andati a vuoto). Appena appena citiamo il caso Consip, che non è ancora concluso ma si è già sgonfiato come un palloncino di plastica. Il caso Consip è stato ancora più clamoroso, forse. Perché è stata una inchiesta realizzata in collaborazione da Pm e giornalisti, che si sono scambiati volentieri i ruoli, e che hanno passo passo accompagnato con la copertura e il cannoneggiamento della “marina”, cioè dei giornali, l’attività sul terreno dei magistrati, la quale però – si è poi scoperto – era parecchio farlocca perché basata su informative dei carabinieri falsificate. Lì poi il candidato “vittima” – che si è salvato solo perché a un certo punto è intervenuta la Procura di Roma è ha scoperto che a Napoli stavano taroccando – era una preda parecchio appetitosa: il capo del partito di maggioranza e premier uscente. Torniamo al punto di partenza. Lo scandalo Finmeccanica ha avuto molte conseguenze: il cambio quasi totale del management di Finmeccanica, la rovina personale di alcune carriere, una perdita consistente economica e di prestigio per l’industria italiana. Difficile quantificare tutto questo, ma stiamo parlando probabilmente di miliardi. Naturalmente nessuno sostiene che se sono in ballo i miliardi è bene che la magistratura si tenga fuori. E’ chiaro che se ci sono indizi seri di un reato grave, la magistratura deve intervenire, senza opportunismi e senza guardare in faccia a nessuno. Il problema è che negli ultimi tempi si hanno pochissime notizie di inchieste che hanno portato alla condanna. Lo scarto tra il clamore, talvolta drammatico, provocato dall’apertura delle inchieste sui politici o nelle grande aziende e i risultati delle inchieste è uno scarto gigantesco. Sarebbe forse il caso di ragionarci. E di vedere se non è il caso di portare qualche correttivo. Non solo per rendere più giusto il funzionamento della nostra società, e più salde le garanzie di giustizia dei cittadini, ma anche per la credibilità della magistratura. La quale credibilità, se in questi vent’anni non fosse stata sostenuta con incredibile utilizzo di mezzi, da quasi tutto il fronte dell’informazione, oggi probabilmente sarebbe a livelli ancor più bassi da quelli raggiunti dalla politica. Il fatto è che finché chiunque può in allegria procedere in inchieste, anche in assenza di prove, e può costruire su queste inchieste il proprio successo mediatico, e se poi va tutto a carte quarantotto non succede niente, e chi ha avviato l’inchiesta non solo non paga in “euro” ( come succede a quasi tutti gli altri professionisti), ma neppure in carriera, in possibilità di avanzamento e di successo, voi capite che è difficile frenare la “pulsione” irrefrenabile ad aprire sempre nuove inchieste sui “Grandi Imputati”. E addirittura, succede, come nel caso Finmeccanica, che se il tribunale assolve, c’è una Procura che non si arrende, perché ha un’idea di uso personale della macchina della giustizia – non è in grado di interpretare l’interesse generale – e ricorre in appello sulla base di nulla. Ecco, di fronte a questa situazione dovrebbe essere interesse in primo luogo della magistratura ragionare, impegnarsi e trovare dei correttivi. Perché il rischio è che l’idea di onnipotenza, dominante in alcuni magistrati, mandi a scatafascio tutta la macchina della giustizia, a partire dalla magistratura.

SONO INNOCENTI. GIUSEPPE ORSI E BRUNO SPAGNOLINI.

Scandalo Finmeccanica, altro flop: tutti assolti, scrive Simona Musco il 9 gennaio 2018 su "Il Dubbio". L’ex presidente Orsi e l’ex ad Spagnolini erano innocenti. «Non vi è prova sufficiente» della corruzione messa in atto dagli ex vertici di Finmeccanica per assicurarsi la vendita di 12 elicotteri all’India. Lo hanno stabilito ieri i giudici della terza sezione della corte d’appello di Milano, presieduta da Piero Gamacchio, che hanno assolto Giuseppe Orsi, ex presidente di Finmeccanica (ora Leonardo) e Bruno Spagnolini, ex amministratore delegato della controllata Agusta Westland, nel corso dell’appello bis del processo. Orsi e Spagnolini erano accusati di corruzione internazionale e false fatturazioni per il presunto pagamento di una tangente a pubblici ufficiali indiani, che in cambio avrebbero assicurato loro una commessa da 556 milioni di euro. In primo grado, Orsi e Spagnolini erano stati assolti dal tribunale di Busto Arsizio dall’accusa di corruzione e condannati solo per le false fatture. Il processo d’appello aveva invece ribaltato la sentenza, con la condanna dei due manager per entrambi i reati: Orsi a 4 anni e 6 mesi e Spagnolini a 4 anni, con in aggiunta la confisca per equivalente dell’importo di sette milioni e mezzo di euro. «Non vi è prova sufficiente» della corruzione messa in atto dagli ex vertici di Finmeccanica per assicurarsi la vendita di 12 elicotteri all’India. Lo hanno stabilito ieri i giudici della terza sezione della corte d’appello di Milano, presieduta da Piero Gamacchio, che hanno assolto Giuseppe Orsi, ex presidente di Finmeccanica (ora Leonardo) e Bruno Spagnolini, ex amministratore delegato della controllata Agusta Westland, nel corso dell’appello bis del processo. Orsi e Spagnolini erano accusati di corruzione internazionale e false fatturazioni per il presunto pagamento di una tangente a pubblici ufficiali indiani, che in cambio avrebbero assicurato loro una commessa da 556 milioni di euro. In primo grado, Orsi e Spagnolini erano stati assolti dal tribunale di Busto Arsizio dall’accusa di corruzione e condannati solo per le false fatture. Il processo d’appello aveva invece ribaltato la sentenza, con la condanna dei due manager per entrambi i reati: Orsi a 4 anni e 6 mesi e Spagnolini a 4 anni, con in aggiunta la confisca per equivalente dell’importo di sette milioni e mezzo di euro. Una decisione che, a fine 2016, i giudici della Suprema Corte avevano nuovamente ribaltato, disponendo un nuovo processo davanti ad una differente sezione della corte d’appello di Milano e contestando ai giudici di secondo grado di non aver rinnovato l’assunzione delle prove dichiarative Secondo la Cassazione, dunque, Orsi e Spagnolini sarebbero stati condannati semplicemente sulla base di una diversa valutazione di attendibilità delle dichiarazioni rilasciate dai testimoni nel processo di primo grado. Una situazione che determina «un vizio della motivazione della sentenza», si legge nell’annullamento della prima sentenza di secondo grado. Il processo era dunque tornato in appello, dove il pg Gemma Gualdi, che ha sostenuto l’accusa assieme al collega Gianluigi Fontana, aveva ribadito la necessità di confermare le condanne già inflitte, tenendo conto però della prescrizione dell’accusa di false fatture per il 2008. Secondo l’accusa, ci sarebbe stata «un’imponente mole di prove documentali sul giro di denari» finalizzati alla corruzione delle autorità indiane. Prove che, secondo le difese sono state invece travisate, senza riuscire nemmeno, ha affermato l’avvocato Ennio Amodio, difensore di Orsi, a «stabilire la data dell’accordo corruttivo e quali sarebbero stati i denari arrivati al maresciallo Tyagi». Il processo d’appello bis si era aperto con la novità della costituzione di parte civile del Governo indiano e l’ammissione di nuovi atti chiesti dalla Procura generale e dal Ministero della Difesa indiano, tra i quali le procedure del bando di gara che, secondo l’accusa, sarebbe stato truccato a favore della società ita- liana. Ma i giudici hanno accolto la richiesta di assoluzione avanzata dai legali degli imputati, non ravvisando prove del passaggio di denaro utilizzato per la corruzione. Un’assoluzione tardiva «con tutto il danno che hanno fatto all’azienda, quello che hanno fatto a noi è il meno», ha commentato Bruno Spagnolini dopo la lettura della sentenza. Una decisione che «chiude una vicenda che doveva, fin dalle prime battute, essere chiara anche agli investigatori: non esiste alcun accordo corruttivo, non vi è prova alcuna che il denaro sia pervenuto a Tyagi, né si è mai dimostrato che i funzionari indiani abbiano in qualche modo interferito nella gara – ha commentato Amodio -. Si riafferma così che quella fornitura altro non è stata se non la manifestazione di un successo dell’industria elicotteristica italiana che aveva offerto all’India una delle sue macchine di maggiore efficienza, tanto da essere acquisita anche dall’amministrazione statunitense per i viaggi del presidente Obama». Orsi e Spagnolini furono arrestati nel febbraio 2013 e scarcerati a maggio dello stesso anno. Secondo l’accusa, gli imputati avrebbe- ro corrisposto somme di denaro non esattamente quantificate al maresciallo Sashi Tyagi, capo di Stato maggiore dell’Indian Air Force dal 2004 al 2007, per compiere un atto contrario ai doveri d’ufficio, con lo scopo di favorire la Agusta Westland nella gara per l’aggiudicazione dell’appalto per la fornitura al Governo indiano di 12 elicotteri Vvip. Orsi avrebbe incaricato Guido Ralph Haschke, amministratore e socio di Gadit S. A. e di Gordian Services s. a. r. I., e Christian Michel, titolare della Global Service Trade Commerce della Global service Fze, di condurre la trattativa in India. Haschke, assieme al suo socio Carlo Gerosa, per il tramite dei fratelli Juli Tyagi, Docsa Tyagi e Sandeep Tyagi, cugini del Maresciallo Tyagi, sarebbero intervenuti sul bando facendolo modificare in senso favorevole ad Agusta Westland, ottenendo così la riduzione della quota operativa di volo degli elicotteri e consentendo alla società di partecipare alla gara e, quindi, di vincerla. Orsi e Spagnolini avrebbero corrisposto inizialmente ad Haschke e Gerosa la somma di 400mila euro attraverso un contratto di consulenza, concludendo in seguito contratti di ingegneria con le società Ids India e Ids Tunisia, allo scopo di coprire l’intero pagamento, nell’ambito di una operazione commerciale nella quale erano vietati compensi per mediazioni. In primo grado, però, il tribunale di Busto Arsizio aveva stabilito che dal processo non erano emersi riscontri all’accusa di corruzione e che le prove consentivano di inquadrare la vicenda anche attraverso una ricostruzione alternativa e lecita. Non c’era, infatti, prova dell’accordo corruttivo con il pubblico ufficiale straniero, essendo il primo incontro tra Orsi ed Haschke successivo alla decisione favorevole alla Agusta Westland, e non c’era prova neppure della adozione, da parte del pubblico ufficiale straniero, dell’atto contrario ai doveri d’ufficio, essendo stata deliberata in precedenza e da altri la riduzione della quota operativa di volo richiesta per gli elicotteri. Nessun riscontro nemmeno del passaggio di denaro, in quanto la ricostruzione dei flussi finanziari non aveva consentito di riscontrare pagamenti diretti a favore del maresciallo Tyagi. I primi giudici di appello avevano deciso però di condannare i due imputati senza ascoltare nuovamente i testimoni, semplicemente valutando diversamente le prove. Decisione che, dopo la Cassazione, è stata bocciata anche dai colleghi di Milano: le prove di quella corruzione, se mai c’è stata, non sono mai state trovate. 

SONO INNOCENTE. ANGELO MASSARO.

Sono innocente. Angelo Massaro. Taranto. Il Foro dell’ingiustizia. Angelo Massaro, 20 anni di carcere da innocente in folta compagnia. Non erano colpevoli, chiedono 12 mln di euro. Giovanni Pedone, Massimiliano Caforio, Francesco Aiello e Cosimo Bello, condannati per la cosiddetta «strage della barberia» di Taranto, sono tornati in libertà dopo 7 anni di detenzione e vogliono un risarcimento. Domenico Morrone, 15 anni di carcere da innocente, risarcito con 4,5 milioni di euro. E poi ci sono le condanne dubbie in presenza di confessioni verificate, e ciononostante non credute: Faiuolo, Orlandi, Nardelli, Tinelli, Montemurro, Donvito per i delitti di Sebai, il killer delle vecchiette. Cosima Serrano e Sabrina Misseri per il delitto di Michele Misseri, il killer di Avetrana.

La storia di Angelo Massaro, che ha passato 20 anni in prigione per una parola fraintesa. L’incredibile odissea dell’uomo di 51 anni che è stato condannato a 30 anni per un delitto mai commesso. È stato scarcerato con revisione del processo, scrive Carlo Vulpio il 24 febbraio 2017 su "Il Corriere della Sera". Sua moglie Patrizia festeggia oggi (ieri, ndr) il compleanno, 43 anni, ventuno dei quali trascorsi ad aspettarlo, a crescere i loro due figli, Raffaele e Antonio, e a peregrinare da un carcere all’altro: Foggia, Carinola, Rossano Calabro, Melfi e infine Catanzaro. Lui, Angelo Massaro, 51 anni, di Fragagnano, Taranto, è appena uscito dal carcere di via Tre Fontane e ha trovato lì Patrizia, che lo ha abbracciato e in silenzio lo ha aiutato a caricare le sue poche cose su una station wagon molto usata. È già sera, ci allontaniamo da quei muri ostili, scegliamo un posto più defilato per parlare e finalmente lo troviamo nella sala del biliardo di un bar della frazione di Santa Maria, a Catanzaro Lido. Sappiamo, lo ha scritto il Quotidiano di Lecce, che Angelo Massaro, condannato ingiustamente per un omicidio mai commesso, quello di Lorenzo Fersurella, ammazzato a San Giorgio Jonico il 10 ottobre 1995, dopo ventuno anni di galera è stato riconosciuto innocente grazie alla revisione del processo, in cui hanno fermamente creduto i suoi avvocati, Salvatore Maggio e Salvatore Staiano. Ma non sappiamo che già un’altra volta Massaro è stato vittima di un altro clamoroso errore giudiziario, perché ritenuto l’autore di un altro omicidio, quello di Fernando Panico, avvenuto a Taranto nel 1991. Anche allora, Massaro fu arrestato, condannato a 21 anni, incarcerato per un anno e poi giudicato definitivamente innocente e risarcito dallo Stato con 10 milioni di lire. «Non pensavo che quattro anni dopo avrei vissuto lo stesso incubo — dice Angelo Massaro — per una intercettazione telefonica in cui dicevo a mia moglie, in dialetto, “tengo stu muert”, cioè “ho questo morto, questo peso morto”, un Bobcat che trasportavo nel carrello agganciato all’auto e che dovevo lasciare prima di andare a prendere mio figlio per accompagnarlo a scuola». Massaro era intercettato per fatti di droga — che lo stavano rovinando, perché la assumeva e poi l’ha anche spacciata —, ma paradossalmente proprio questa vicenda, conclusasi con la sua condanna definitiva a 10 anni, lo ha salvato dalla seconda ingiusta condanna per omicidio. «Ho sbagliato ed era giusto che pagassi, ma se non ci fosse stato il processo per spaccio di droga, dal quale abbiamo tratto gli elementi che mi hanno scagionato dall’accusa di omicidio, oggi per tutti io sarei un assassino». Certo, adesso Massaro chiederà il risarcimento per ingiusta detenzione, come fece undici anni fa, sempre a Taranto, Domenico Morrone, 15 anni di galera per un duplice omicidio mai commesso e poi riconosciuto innocente e risarcito con 4,5 milioni di euro, forse la cifra record per questo tipo di performance della giustizia italiana. «Ma nessun risarcimento mi ridarà i miei anni perduti — dice lui — e mi consolerà delle afflizioni patite. Non ho visto i miei figli per sette anni consecutivi, dal 2008 al 2015. Ho condiviso celle minuscole con detenuti ammalati di Aids, tubercolosi, epatite C, senza che nessuno mi avesse avvertito. Mi sono stati negati i permessi più semplici, come quelli per il battesimo e la prima comunione dei miei bambini. E ora anche la beffa finale. Appena avremo finito di parlare, devo presentarmi in Questura perché mi hanno anche imposto la sorveglianza speciale. È questo il carcere che rieduca? Dalla galera, esce carico di odio anche un cagnolino docile». Massaro in carcere si è diplomato da geometra e si è poi iscritto a Giurisprudenza, facoltà in cui ha già superato cinque esami con voti alti. «Studiare mi è servito tanto — dice —, ma sono stati lo yoga, la meditazione e lo sport a non farmi impazzire, a farmi chiudere un capitolo della mia vita sbagliata e a sopravvivere alla persecuzione giudiziaria, che non auguro a nessuno».

Condannato per una parola fraintesa viene assolto dopo 20 anni di carcere. L’incredibile odissea di Angelo Massaro, 51 anni, scarcerato con revisione del processo. Pena di 30 anni per un delitto mai commesso. Il suo avvocato: «E’ ancora sotto choc», scrive Michele Pennetti su “Il Corriere della Sera” il 23 febbraio 2017. «Ho sentito Angelo stamattina, appena uscito dal carcere di Catanzaro. Era ancora sotto choc, come se fosse in preda a una piccola crisi di panico. Comprensibile, dopo 21 anni passati ingiustamente in cella». Parola di Salvatore Maggio, l’avvocato tarantino che ha portato avanti (e vinto) la battaglia di Angelo Massaro, 51enne di Fragagnano, Comune a una quindicina di chilometri di Taranto, assolto dalla Corte d’Appello di Catanzaro «per non aver commesso il fatto» dall’omicidio di Lorenzo Fersurella, ucciso nell’ottobre del 1995, e dal reato di occultamento di cadavere. L’uomo era stato condannato in via definitiva a 30 anni di reclusione (per cumulo di pene). Poi, però, la Corte di Cassazione aveva accolto la richiesta di revisione del processo avanzata proprio dall’avvocato Salvatore Maggio. La storia di Angelo Massaro, arrestato sulla base di una intercettazione telefonica e di una dichiarazione di un collaboratore di giustizia che sosteneva di aver appreso da altri del presunto coinvolgimento dell’uomo nel delitto, era stata oggetto anche di una interrogazione parlamentare dei Radicali. Massaro, arrestato il 15 maggio 1996, è stato in carcere a Foggia, Carinola (Caserta), Taranto, Melfi e Catanzaro. Nei 20 anni di detenzione è stato spesso lontano dalla residenza di famiglia e quindi dalla moglie e dai due figli. Dal carcere Massaro ha scritto lettere di sensibilizzazione al blog “urladalsilenzio”, al ministero della Giustizia, al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, all’associazione `Antigone´ e all’associazione “Bambini senza sbarre”. Il difensore di Massaro è riuscito a dimostrare che il suo assistito si trovava in una località diversa da quella dalla quale scomparve la vittima, depositando atti, testimonianze e le intercettazioni di un altro procedimento giudiziario. Nel 2011 Massaro era stato assolto dall’accusa di un altro omicidio avvenuto nel 1991. Ora il legale presenterà domanda di risarcimento per ingiusta detenzione. Massaro è stato scarcerato dopo la sentenza, ma non ha ancora raggiunto la sua famiglia. Il legale ha dimostrato che Massaro era stato condannato per una parola equivocata. «A una settimana dall’omicidio, colloquiando con la moglie - spiega l’avvocato - aveva detto, in dialetto, “tengo stu muert”, ma in realtà voleva intendere "muers", cioè un materiale ingombrante attaccata al gancio di un autovettura e che stava trainando. Poi ho trovato un certificato da cui risultava che il mio assistito si trovava al Sert quando sparì Fersurella. Insomma, tutta una serie di elementi che non erano stati presi in considerazione. Sono contento per essere riuscito a dimostrare l’innocenza di una persona ed è una grande soddisfazione per lui, per la sua famiglia e per quello che è stato fatto».

Taranto, venti anni in carcere per un omicidio mai commesso. L'uomo fu ritenuto responsabile del delitto di Lorenzo Fersurella avvenuto a Fragagnano, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Febbraio 2017. Assolto per non aver commesso il fatto. Ieri mattina è finito un incubo lungo 20 anni per per il 51enne di Fragagnano, Angelo Massaro, assolto dalla corte d’appello di Catanzaro, così come sollecitato dall’avvocato Salvatore Maggio dall’accusa di aver ucciso Lorenzo Fersurella (morto il 22 ottobre del 1995), reato costato una condanna definitiva a 24 anni di reclusione per Angelo Massaro, 20 dei quali scontati ingiustamente, come ora si può serenamente affermare. L'uomo, arrestato il 15 maggio 1996, è stato in carcere a Foggia, Carinola (Caserta), Taranto, Melfi e Catanzaro. Il caso è giunto all’attenzione della corte d’appello di Catanzaro a seguito dell’istanza di revisione del processo presentata dall’avvocato Maggio, istanza che in un primo momento era stata rigettata dalla corte d’appello di Potenza che l’aveva giudicata inammissibile. L’avvocato Maggio aveva così proposto il ricorso in Cassazione e la Suprema Corte così ha inviato gli atti a Catanzaro. Massaro fu condannato a 24 anni di reclusione sulla base di una intercettazione telefonica e di una dichiarazione di un collaboratore di giustizia che sostenne di aver saputo da altri del coinvolgimento del Massaro nel delitto. L’avvocato Maggio ha invece documentalmente provato che l’imputato si trovava in una località diversa da quella dalla quale scomparve Fersurella (Manduria invece che Fragagnano), portando a sostegno della tesi dell’innocenza di Massaro anche alcune testimonianze e le intercettazioni del procedimento «Ceramiche» nel quale l’uomo si professa più volte innocente. Per Massaro oltre all’assoluzione è scattata contestualmente anche la scarcerazione. L’uomo, nel 2011, sempre difeso dall’avvocato Maggio, era già stato assolto, per non aver commesso il fatto, dall’accusa di omicidio di Fernando Panico, il corriere della droga ucciso nel marzo del ’91. A oltre cinque anni di distanza dalla sentenza di primo grado, che il 1° dicembre del 2005 lo condannò a 21 anni di reclusione, per Massaro era arrivata l’assoluzione in appello. Ora l’avvocato Maggio valuterà tutta la documentazione processuale per inoltrare domanda di risarcimento per ingiusta detenzione. Nei 20 anni di detenzione è stato spesso lontano dalla residenza famigliare e quindi dalla moglie e dai due figli. Dal carcere ha scritto lettere di sensibilizzazione al blog «urladalsilenzio», al ministero della Giustizia, al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, all’associazione Antigone e all’associazione Bambini senza sbarre. «Finalmente è emersa una verità, che poi è sempre la verità processuale che vorremmo tutti coincidesse con quella vera. Posso dire con amarezza che c'è una persona che non ha commesso il grave reato per il quale era stato condannato e che solo dopo 21 anni lascia le patrie galere. La giustizia è fatta da uomini e come tali possono sbagliare tutti. Faceva i colloqui - dice Maggio - con i familiari ogni 15 giorni. Penso che tornerà a Fragagnano. I suoi figli ora sono maggiorenni. Quando fu arrestato il secondogenito aveva appena 45 giorni. Questa è una storia molto particolare».

Lo arrestarono il 15 maggio 1996, aveva 30 anni. Un pentito, testimone "de relato" (riferiva cioè informazioni apprese da altri), lo accusava dell’omicidio di Lorenzo Fersurella, ucciso con colpi di pistola nel Tarantino per contrasti nell’ambito dello spaccio di sostanze stupefacenti facendo sparire il corpo. Una parola pronunciata in dialetto durante un colloquio con la moglie, che venne equivocata, convinse gli inquirenti della sua colpevolezza. Ma dopo quasi 21 anni di carcere Angelo Massaro, 51 anni di Fragagnano (Taranto), è stato assolto nel processo di revisione dalla Corte d’Appello di Catanzaro e scarcerato. E’ stato così ribaltato l’esito della sentenza definitiva che lo condannava a 24 anni di reclusione (diventati 30 per cumulo di pena comprensivo di una condanna a 11 anni per associazione finalizzata allo spaccio di droga) per un omicidio mai commesso. Angelo Massaro è tornato in libertà ieri, ma non ha raggiunto subito la sua famiglia nel paese di origine. «Si sente un pò spaesato. Non è facile - ha riferito l'avv. Salvatore Maggio, che ha difeso l’imputato con il collega Salvatore Staiano - vedere dopo 21 anni sempre in una cella le macchine, il bar, la strada. Il mondo è cambiato. Gli gira la testa, ha paura. Faceva i colloqui con i famigliari ogni 15 giorni. I suoi figli ora sono maggiorenni. Quando fu arrestato il secondogenito aveva appena 45 giorni». Non appena uscito dal carcere, secondo quanto riferito dai suoi legali, Massaro ha detto: «Sono felice, ma nulla potrà bilanciare le sofferenze che ho patito in questi vent'anni». «Adesso - ha detto Angelo Massaro, mentre, a Catanzaro, sbrigava le ultime questioni prima di tornare in Puglia - voglio giustizia. Se qualcuno ha sbagliato voglio che paghi». «Lotterò - ha aggiunto - perché ciò che è successo a me non capiti a nessun altro». Massaro, negli anni di detenzione, si è diplomato e si è anche iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Catanzaro sostenendo 5 esami nell’ultimo anno grazie ad alcuni permessi premio per buona condotta. Lezioni che gli sono servite dal momento che l’istanza di revisione del processo che ha portato poi alla sua assoluzione è stata curata anche da lui. La vicenda di Angelo Massaro era stata oggetto anche di una interrogazione parlamentare dei Radicali. Nel 2011 fu assolto dall’accusa di aver commesso un altro omicidio dopo l'annullamento con rinvio da parte della Cassazione. Anche in quella occasione era stato chiamato in causa da un pentito. L'uomo è stato detenuto a Foggia, Carinola (Caserta), Taranto, Melfi e Catanzaro, quasi sempre lontano dalla sua residenza famigliare. In uno dei testi inviati al blog "urladalsilenzio", Massaro (che avrebbe finito di scontare la pena il 20 aprile del 2022) ha scritto: «Lo Stato ci ha tolto da tempo la 'famosa palla al piede', ma in una detenzione come la mia che è disumana, che so i miei figli stare male a causa dei miei errori commessi in una vita sbagliata e che lo Stato mi impedisce di incontrare, quella 'palla' mi è stata posta nell’anima». Nel processo di revisione, i legali del 51enne sono riusciti a dimostrare che il suo assistito si trovava a colloquio con una assistente sociale in una località diversa da quella dalla quale scomparve Lorenzo Fersurella e ha contestato l’interpretazione di una intercettazione telefonica. «Ad una settimana dall’omicidio, parlando con la moglie - ha spiegato l’avvocato Maggio - Massaro aveva detto, in dialetto, "tengo stu muert", ma in realtà voleva intendere "muers", cioè un materiale ingombrante attaccato al gancio di un’autovettura e che stava trainando. Finalmente è emersa una verità, che poi è sempre la verità processuale che vorremmo tutti coincidesse con quella vera. Lui non è uno stinco di santo, ha i suoi trascorsi. Ma posso dire con amarezza che c'è una persona che non ha commesso il grave reato per il quale era stato condannato e che lascia le patrie galere solo dopo 21 anni, dieci in più di quanti ne avrebbe dovuti scontare in seguito alla condanna per droga. La giustizia - ha osservato il penalista - è comunque fatta da uomini e, come tali, possono sbagliare tutti». (di Giacomo Rizzo, ANSA) 23 Febbraio 2017.

Vent’anni dopo la condanna emessa dalla Corte d’assise di Taranto, il cinquantunenne Angelo Massaro è stato assolto dall’accusa di aver ucciso, il 10 ottobre 1995, Lorenzo Fersurella, scrive Lino Campicelli su "Il Quotidiano di Puglia”. «Per uno sgarro nell’ambito delle questioni di droga», fu la motivazione che sopravvisse alla causa di secondo grado con conferma in Cassazione. Per rendere giustizia all’imputato originario di Fragagnano, che ha passato tutti questi anni in carcere, è stata però necessaria un’altra pronuncia della Corte di Cassazione che nel 2015, accogliendo i rilievi mossi dall’avvocato Salvatore Maggio, prese una decisione non consueta: disse “sì” alla revisione del processo. Il placet era giunto agli inizi del maggio di quell’anno, dopo che l’avvocato Maggio aveva avviato la richiesta di revisione del processo, basata sull’esito di indagini difensive con le quali aveva puntato a scagionare l’imputato che era dietro alle sbarre. Quella richiesta di revisione, per la cronaca, era già stata bocciata dalla Corte d’appello di Potenza che l’aveva bollata come inammissibile. Contro quel verdetto, però, l’avvocato Maggio aveva proposto ricorso in Cassazione. E la decisione finale aveva premiato la sua tenacia. E quella dello stesso Massaro che sin dal primo grado di giudizio, regolato da una sentenza emessa nel novembre 1997, aveva gridato la sua assoluta estraneità all’omicidio. Nella circostanza, la Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso proposto dall’avvocato tarantino, aveva rimesso gli atti relativi alla richiesta di revisione ad altra sezione della Corte di appello. E il processo era sfociato all’esame della Corte d’appello di Catanzaro che, appunto, ha mandato assolto l’imputato per non aver commesso il fatto. Lorenzo Fersurella fu trovato privo di vita in una cava alla periferia di San Giorgio Jonico, dopo la denuncia di scomparsa presentata dal padre della vittima. Il giovane sangiorgese era stato ucciso a colpi di pistola. I primi accertamenti avevano acceso i riflettori sulla posizione di Massaro, del quale Fersurella era amico. Massaro, proprio in ragione di quella amicizia vantata con la vittima, aveva da subito preso le distanze da ogni responsabilità. Una intercettazione, il cui senso era stato evidentemente equivocato, aveva indotto gli inquirenti a pigiare l’acceleratore sulla sua presunta responsabilità. Nella intercettazione, l’uomo diceva alla moglie che avrebbe tardato a rientrare perché aveva “qualcosa” da portare. Il termine qualcosa, in realtà, aveva avuto una esplicitazione dialettale, il cui senso cambiava a seconda della consonante finale. Per gli inquirenti, Massaro doveva portare un “muert”: cioè il corpo privo di vita di Fersurella da far sparire. Per Massaro, al contrario, quel qualcosa era un ““muers” che in dialetto tarantino sta ad indicare un oggetto, un materiale particolarmente ingombrante. Infatti, nessuno volle credere che l’uomo si stava riferendo a un macchinario in panne. In aggiunta a quella interpretazione, però, a segnare la sua fine giudiziaria, nel processo di primo grado, spuntò la dichiarazione di un pentito secondo il quale «negli ambienti della malavita si diceva che ad uccidere Fersurella fosse stato Massaro per motivi di droga». Massaro, il cui difensore originario aveva rinunciato all’esame di alcuni testimoni che avrebbero potuto scagionarlo, fu condannato. E quella condanna a 24 anni Massaro se la trascinò sino a sentenza definitiva. Successivamente, però, grazie a quelle testimonianze reintrodotte agli atti, a una perizia che chiarì il senso del termine intercettato, cioè “muers” e non “muert”, e grazie soprattutto a un documento scovato negli archivi da cui emerse che Massaro, nelle ore in cui Fersurella fu ucciso, era nel Sert di Manduria per problemi personali, la Cassazione rilevò la valenza e la necessità di una revisione del processo. Chiusa ieri con l’assoluzione dopo vent’anni passati in carcere.

Angelo Massaro in cella per 21 anni da innocente, scrive Simona Musco il 25 Febbraio 2017, su "Il Dubbio". Angelo Massaro, 51 anni, ha passato la sua giovinezza a scontare una condanna per aver ammazzato il suo amico, Lorenzo Fersurella, ucciso il 22 ottobre 1995 in Puglia. Ventuno anni in carcere sui 24 inflitti dalla giustizia, dopo i quali è stato riconosciuto innocente. «Sono stato sequestrato dallo Stato italiano per un reato mai commesso». Angelo Massaro parla con il Dubbio dopo 21 anni passati in cella, cercando di farsi ascoltare ma ci hanno messo la metà degli anni che ha per dargli ragione. Oggi, a 51 anni, ha il resto della sua vita davanti. Ma la sua giovinezza l’ha passata a scontare una condanna per aver ammazzato il suo amico, Lorenzo Fersurella, ucciso il 22 ottobre 1995 in Puglia. Ventuno anni in carcere sui 24 inflitti dalla giustizia, dopo i quali è stato riconosciuto innocente. Il giorno dopo il processo di revisione celebrato a Catanzaro, Massaro racconta i suoi anni in cella, arrestato per una telefonata male interpretata dagli inquirenti. «Sette giorni dopo la scomparsa del mio amico ho telefonato a mia moglie, dicendole di preparare il bambino per portarlo all’asilo. Ho detto questa frase: «Faccio tardi, sto portando u muers» – racconta al Dubbio -. Portavo dietro alla mia auto una piccola pala meccanica per fare dei lavori edili per mio padre. Questa frase l’ho detta davanti ad un’altra persona ma nessuno l’ha mai sentita». E nessuno, quel giorno, verifica cosa effettivamente Massaro stia trasportando. Fosse stato lui, avrebbero potuto beccarlo con le mani nel sacco. Invece prima di interrogarlo passano quattro mesi. «Mi chiesero se ero mai stato a San Marzano, senza spiegarmi perché», dice. L’arresto scatta sette mesi dopo quella telefonata. «Era il 16 maggio 1996. Mi stavano arrestando per aver ammazzato una persona che consideravo un fratello, l’uomo che aveva battezzato il mio figlio più grande, che avrebbe dovuto battezzare anche il piccolo, il mio compare d’anello – racconta -. Sono stato privato dell’affetto dei miei figli, della possibilità di vederli sorridere, piangere, di una carezza. Ero incredulo ma avevo fiducia. Pensavo: ora ascolteranno la telefonata e capiranno». Invece prima che qualcuno capisca l’equivoco ci vuole molto tempo. Più la vicenda va avanti, più diventa grossa. «Come potevano pensare che qualcuno trasportasse un cadavere sette giorni dopo un omicidio alle 8.30 del mattino? Perché non mi hanno sentito subito? Avrei potuto di- mostrare tutta la verità subito». Nessuna risposta a queste domande. Massaro rimane fiducioso anche nel corso del processo. Al punto che la difesa rinuncia ad ascoltare testimoni, sapendo che nessuna prova può dimostrare la sua colpevolezza. «I testimoni dell’accusa non hanno dato elementi utili», spiega infatti. All’improvviso, però, l’accusa tira fuori un pentito. «Ci siamo opposti ma non è servito – racconta Massaro -. Il collaboratore ha soltanto detto che secondo lui avrei potuto ucciderlo io il mio amico, tutto qua. Può bastare questo? Non credo». Per tre gradi di giudizio, invece, è bastato. In appello i legali chiedono una nuova perizia sulla telefonata e l’audizione di altri testimoni, «ma ci è stato negato». E non serve nemmeno la testimonianza dei carabinieri di Roma, che hanno spiegato come il tono di voce, nella telefonata, fosse tranquillo e come quella parola incriminata – “muers” – possa avere diverse interpretazioni. Nemmeno le sentenze hanno chiarito cosa sia accaduto quel lontano giorno di ottobre, quando Fersurella venne ucciso. «Lo stesso procuratore generale di Catanzaro ha criticato la sentenza, definendola piena zeppa di errori», racconta. Il carcere. «Ho vissuto 21 anni di incredulità e rabbia. Non ho mai accettato questa condanna, tremendamente ingiusta. Ho sempre lottato, studiato sui codici e due anni fa mi sono iscritto a giurisprudenza a Catanzaro. Mi ha portato avanti la rabbia, la sete di giustizia e verità», racconta ora come un fiume in piena. Quelli in carcere sono stati anni di abusi di potere e violazione dei diritti umani. «Il ministero della Giustizia mi ha sempre considerato pericoloso e fatto girare per molte carceri. Mi hanno ritenuto insofferente nei confronti delle regole penitenziarie». E per sette anni, dal 2008 al 2015, non ha potuto vedere i suoi figli. «Il tribunale aveva certificato il loro stato di depressione causato dalla lontananza del padre da casa. Nonostante il magistrato di sorveglianza di Catanzaro abbia richiesto il trasferimento a Taranto, vicino ai miei figli – denuncia -, il Dap si è completamente disinteressato». Le condizioni di vita dietro le sbarre sono state a volte intollerabili. In cella, ad esempio, mancava l’acqua «e mi lavavo con quella delle bottiglie, che ero io a comprare. E cosa è successo? Mi hanno punito con l’isolamento per lo spreco d’acqua. Questa è solo una parte delle cose subite. Ho visto gente perbene ma anche tanta violenza». La vita fuori. Angelo Massaro oggi è nella sua casa. Spaesato, felice e arrabbiato al tempo stesso. E vuole capire, vuole sapere perché sono stati commessi degli errori. «Non do la colpa a nessuno, chiedo solo che vengano fatti degli accertamenti, perché privare della libertà una persona a 29 anni è crudele e in uno stato di diritto è immorale», dice. E invita a riflettere sullo stato della giustizia in Italia, alla luce anche dei numerosi processi di revisione partiti negli ultimi anni, sintomo di un sistema da rivedere. «Chi sbaglia è giusto che paghi ma un giudice prima di condannare una persona e privarla della vita e dei sui affetti deve chiedersi se lo fa oltre ogni ragionevole dubbio – evidenzia -. Non provo rancore, voglio solo capire se questo errore poteva essere evitato». Tornare a casa è stato strano, dice. Un’emozione che richiederebbe parole nuove. Anche perché alla gioia di rivedere la moglie – che all’epoca aveva solo 22 anni – e i suoi due figli, il più piccolo dei quali era nato soltanto da 45 giorni, aumenta la sua frustrazione. «Perché ho fatto questi 21 anni di carcere?», si chiede quasi ad intervalli regolari. Perché, ripete, è il carcere ciò che non riesce ad accettare, «ma la condanna per un crimine così efferato – ha concluso -. Non potevo sopportare che mi si accusasse della morte di un mio amico, non volevo che la mia famiglia venisse additata. Ho lottato, non mi sono mai arreso. Ma spesso mi chiedo: se fosse capitato a qualcuno meno forte di me e si fosse ammazzato, chi avrebbe reso giustizia per lui?».

Taranto, la moglie dell'uomo assolto dopo vent'anni: "Così ho atteso Angelo in carcere per errore". Patrizia Massaro aveva 22 anni quando nel 1996 il marito fu arrestato con l'accusa di omicidio, per un'intercettazione interpretata male. Ora è tornato in libertà: "Ha trovato un altro mondo", scrive Vittorio Ricapito il 25 febbraio 2017 su "La Repubblica". Angelo Massaro è ancora spaesato, sta imparando a usare lo smartphone. Entrò in carcere che aveva trent'anni, lasciando fuori l'Italia del 1996, quella di Romano Prodi premier, del Milan di George Weah, della Terra dei cachi di Elio e le storie tese per uscirne 21 anni dopo catapultato nell'era dei social network. Fu condannato a 24 anni per l'omicidio di un suo caro amico soltanto per la cattiva interpretazione di una frase dialettale intercettata al telefono. Diceva alla moglie che portava un "muers", un carico ingombrante attaccato all'auto. Gli investigatori pensarono si trattasse di un "muert", cioè del cadavere. Una maledetta consonante cambiò il senso della frase e della sua vita. La revisione dopo vent'anni in cella: non è lui il killer. Ieri per Angelo Massaro il primo risveglio tra le braccia di sua moglie Patrizia, che in tutti questi anni non lo ha mai abbandonato. E poi l'abbraccio con i figli Antonio e Raffaele. Quando fu arrestato avevano due anni e mezzo l'uno e 45 giorni l'altro. Ora sono adulti e lavorano.

Patrizia, ricorda la telefonata intercettata che è costata la condanna a suo marito?

"Non ho fatto che pensarci per vent'anni. Io capii cosa voleva dire Angelo e non replicai, ma per vent'anni mi sono detta che se solo avessi pensato per un attimo che la frase poteva essere ascoltata da altri e fraintesa gli avrei detto di chiarire, di precisare a cosa si riferiva e forse gli avrei evitato a lui la condanna e a noi tante sofferenze. Avevo soltanto 22 anni quando fu arrestato mio marito. Ero una ragazzina inesperta e concordai con gli avvocati di non parlare in aula. Durante il processo di revisione a Catanzaro il procuratore generale mi ha rimproverata per questo errore e ha voluto riascoltare la telefonata".

Suo marito aveva anche un alibi?

"Lorenzo Fersurella è stato nostro compare di nozze, ha battezzato il mio primo figlio, uscivamo insieme e veniva spesso a casa nostra. Il 10 ottobre passò a cercare Angelo e poi sparì. In serata accompagnai mio marito al Sert di Manduria e dopo andammo a una festa in famiglia. Ricostruendo questi movimenti i giudici hanno deciso che mio marito è innocente, ma ci sono voluti 21 anni. Angelo fu arrestato otto mesi dopo l'omicidio. Era il 15 maggio del 1996, due giorni dopo il nostro terzo anniversario di nozze. Ricordo la camera di consiglio del processo di primo grado: nel silenzio del tribunale mi sembrò anche di sentire un giudice che non se la sentiva di condannare solo perché un pentito aveva sentito dire, ma non andò così".

Dopo la sentenza definitiva suo marito le chiese di rifarsi una vita.

"Lo fece con una lettera dal carcere. Lo andai subito a trovare e gli dissi che non si doveva neanche permettere di pensare una cosa del genere. Credevo nella sua innocenza e avremmo affrontato insieme la battaglia".

Certo è stata lunga. Ci sono stati momenti difficili?

"La maggior parte. Lui era in carcere da innocente. Non ebbe il permesso neanche per partecipare al funerale del fratello morto in un incidente due anni fa. Io dovevo affrontare la vita di una donna sola con due bambini piccoli in un paese in cui ero guardata come la moglie di un assassino. Sono arrivata a fare quattro o cinque lavori in contemporanea per sostenere le spese legali".

Come si è comportata con i suoi figli?

"Li ho mandati a scuola lontano da Fragagnano, perché non volevo che fossero additati come i figli del killer. Finché ho potuto ho cercato di nascondergli la realtà, durante le visite dicevo loro che il carcere era il posto di lavoro del papà. Poi hanno iniziato a leggere e capire. Erano alle elementari e poco prima di Natale dissi la verità. Spiegai che il papà era accusato di una cosa brutta, ma che era innocente. Crescere senza un padre non è stato facile. Gli scrivevano sognando di andare al mare insieme al suo ritorno. Anche Angelo ci scriveva tante lettere".

Dopo vent'anni arriva la revisione del processo.

"Il giorno prima è stato il mio compleanno. Non potevo ricevere regalo più bello, anche se abbiamo dovuto aspettare vent'anni. Subito dopo la sentenza Angelo è scoppiato a piangere dicendo che finalmente l'incubo era finito. Poi siamo andati per la prima volta a pranzo fuori, come due fidanzatini, in un ristorante suggerito dalle guardie carcerarie".

E ora?

"Ora facendo la spesa in paese ho visto sguardi diversi. Possiamo tornare a vivere. Non chiedo altro che invecchiare con mio marito".

SONO INNOCENTE. ANNA MARIA MANNA.

Un altro caso trattato è stato quello di Anna Maria Manna avvenuto in Puglia, scrive "Il Corriere del Giorno" il 5 febbraio 2017. Nel 1999 il paese di Palagiano (Taranto) venne sconvolto da un’inchiesta giudiziaria: dei bambini di una scuola elementare confessarono alle proprie maestre di aver partecipato a dei festini a sfondo sessuale con degli adulti. Nell’inchiesta venne coinvolta anche Anna Maria Manna, una giovane trentenne, perché, sebbene confusamente, viene riconosciuta tra le foto mostrate dagli investigatori. La Manna passò 15 giorni in carcere, prima a Torino, dove si trovava per un concorso pubblico proprio in uno dei giorni in cui era svolto uno dei “festini”, poi trasferita a Taranto. Viene additata come una pedofila, emarginata e minacciata. “Non so assolutamente perchè sono finita nell’inchiesta ha dichiarato la Manna. Il suo legale Antonio Orlando ha evidenziato gli errori “In un passaggio viene chiesto ad un bambino se avesse toccato la donna e dove. Il bambino risponde: sul naso”. Ma nelle trascrizioni compare ben altro: “davanti”. Il difensore della Manna ha trovato molte altre incongruenze con le trascrizioni. Solo un bambino sostiene di aver visto la Manna fare l’amore con un uomo. “Mi accusarono di essere in una di queste feste. Mentre io ero a Torino. Ma questo non bastò agli inquirenti. Grazie all’incidente probatorio, richiesto dal suo legale, si riuscì a provare la sua innocenza.  Infatti i bambini non la riconoscono. E’ la fine di un incubo. Ma chi ha pagato per questo errore giudiziario? Solo la povera Anna Maria. Che è stata risarcita dallo Stato con 63mila euro. La sua storia venne trattata anche in un precedente programma della RAI “Presunto colpevole”. Guardando gli abusi e follie giudiziarie del magistrato che ha ordinato per ben 4 volte la carcerazione del povero Lattanzi, abbiamo pensato alla richiesta di arresti del nostro Direttore formulata da due pubblici ministeri  dalla Procura di Taranto sulla base del nulla (rigettata dal Gip del Tribunale ), entrambe evidentemente a caccia di protagonismo mediatico (soltanto ?), le quali adesso dovranno rispondere del loro operato  dinnanzi alle Magistrature ed Autorità competenti, ci viene spontaneo chiedersi: ma è questa la “giustizia” di cui parla l’ ANM – Associazione Nazionale Magistrati ? Quando avremo anche in Italia una “giustizia giusta”, e soprattutto quando i magistrati saranno chiamati a rispondere dei loro abusi, omissioni e soprusi. Nei Paesi civili tutto questo non accade…

SONO INNOCENTE. CLAUDIO RIBELLI.

La storia di Claudio Ribelli a Rai3, il giovane di Sinnai accusato ingiustamente di rapina a “Sono Innocente”. La storia di Claudio Ribelli a Rai2, il giovane di Sinnai innocente e accusato ingiustamente di rapina ai danni di una donna. Claudio Ribelli è stato il protagonista della puntata di sabato sera della trasmissione “Sono Innocente” andata in onda, scrive il 12 marzo 2017 La Redazione di Vistanet. La storia di Claudio Ribelli a Rai2, il giovane di Sinnai innocente e accusato ingiustamente di rapina ai danni di una donna. Claudio Ribelli è stato il protagonista della puntata di sabato sera della trasmissione “Sono Innocente” andata in onda su Rai3 e condotta da Alberto Matano. Un anno di carcere (sei dentro e sei ai domiciliari) per un reato mai commesso. Ha vissuto un incubo Claudio, operaio che sette anni fa era stato ingiustamente reso colpevole di un crimine mai commesso. Ribelli era stato accusato di aver rapinato una donna e di aver puntato un coltello alla gola del suo bambino. Chiamato in causa dai carabinieri del suo paese, Claudio dopo alcune titubanze da parte della donna era stato indicato come esecutore della rapina. «Prima dell’arresto avevo chiesto alle forze dell’ordine di confrontare le mie impronte digitali con quelle trovate sul posto. Mi ero reso disponibile a qualsiasi tipo di controllo, anche a quello del Dna. Mi risposero che non erano tenuti a farlo. Ho poi scoperto di essere finito in prigione soltanto perché quella mattina al bar avevo offerto un caffè alla persona che ha confessato il reato, mentre facevo una serie di commissioni tra l’orto di casa e il paese». Il 19 ottobre 2010 due uomini erano entrati a casa della donna fingendo di essere dei tecnici comunali. Uno di questi, Pierpaolo Atzeni, aveva confessato il reato. A scagionare Claudio un video realizzato dalla telecamera di una vicina stazione di servizio: qui è ripreso Atzeni, l’autore della rapina, in compagnia di un altro giovane che non era sicuramente Claudio Ribelli. La prova decisiva per la fine di un incubo. Un incubo che ha lasciato strascichi seri, comunque. Terapie, un’invalidità e molti pensieri. Una nota lieta: Claudio è un ragazzo per bene e non si è buttato giù. Ha conservato la voglia di vivere, lavora il suo orto e ha un amore, sua moglie, che gli vuole bene.

Sinnai, dopo un anno da innocente in carcere per Claudio Ribelli 91mila euro di risarcimento, scrive Radio Fusion. E' stato un anno da Incubo per Claudio Ribelli, l'operaio di Sinnai finito sotto accusa per rapina. Ha dovuto scontare sei mesi a Buoncammino e altri sei ai domiciliari, è stato scagionato grazie ad un video è riuscito ad ottenere un giusto risarcimento. Nel novembre 2012 è stato assolto dal giudice per le udienze preliminari per non aver commesso il fatto, e il Gup ha di sposto nuove indagini a carico di un'altra persona. Ma in attesa della sentenza lui ha scontato un anno di carcere con l'accusa gravissima di aver puntato un coltello alla gola di un bambino, per rapinare la mamma di 100 euro e una catenina d'oro. Claudio Ribelli, 28 anni, operaio edile di Sinnai, sarà risarcito dal suo "un incubo durato un anno". La Corte d'appello di Cagliari ha stabilito che lo Stato riconosca al ragazzo «91.082 euro» vista «l'ingiusta» privazione della libertà personale patita. "Prima dell'arresto avevo supplicato le forze dell'ordine di confrontare le mie impronte digitali con quelle trovate sul posto, mi risposero che non erano tenuti a farlo" - racconta Ribelli «Quando ero stato portato in caserma il giorno della rapina, non conoscevo il motivo. Ma non ero stato arrestato perché la signora aveva detto: Non è lui. Poi, dopo un mese aveva cambiato versione, così mi sono ritrovato in carcere da innocente, soltanto perché quella mattina al bar avevo offerto un caffè alla persona che ha confessato il reato. Essere risarcito mi sembra il minimo" Secondo l'accusa, il 19 ottobre 2010, due persone erano entrate a casa della donna fingendosi tecnici comunali per rapinarla. Uno di questi era Pierpaolo Atzeni, 34enne di Sinnai, ll quale aveva confessato ed era stato condannato in appello a cinque anni e 4 mesi. Ma il complice non era di certo Ribelli. Non lo dice soltanto la sentenza. C'è anche un video ripreso da una telecamera di una stazione di servizio che lo scagiona: si vede Atzeni in auto, pochi secondi dopo la rapina. con un ragazzo. E questo non era Claudio Ribelli. La detenzione «ingiusta» ha provocato «conseguenze familiari e personali», un «evidente clamore mediatico», l'offesa «alla reputazione» (è «ancora giovane»), la «lesione al patrimonio personale e morale».

SONO INNOCENTE. ANTONIO LATTANZI.

Ex assessore di Martinsicuro arrestato 4 volte:”Stavo per mollare…” (Sono innocente, 4 febbraio 2017). Antonio Lattanzi: a Sono innocente, su Rai Tre, la storia dell’ex assessore all’urbanistica di Martinsicuro arrestato ingiustamente per 4 volte. L’esperienza in carcere e il risarcimento, scrive il 04.02.2017 "Il Sussidiario". Antonio Lattanzi è il protagonista dell’errore giudiziario che verrà raccontato questa sera nel programma di Alberto Matano, Sono Innocente, su Rai Tre. L’ex assessore all’urbanistica del comune di Martinsicuro, all’epoca dell’assoluzione venne intervistato da Il Tempo, al quale non nascose come l’esperienza dietro le sbarre lo stesse portando quasi a mollare la presa:”Nei colloqui in carcere con mia moglie, davanti allo stillicidio delle diverse ordinanze, sentivamo di doverci aggrappare a qualcosa. E così abbiamo deciso che quando sarei uscito, finito quell’incubo, avremmo fatto un figlio. Da quel dramma è nata una nuova vita, che ci ha permesso di andare avanti”. L’unico aspetto positivo di una storia che avrebbe piegato chiunque, al netto di un risarcimento di 55mila euro che non può ripagare neanche in minima parte la sofferenza provata in questi anni. Questa sera a Sono Innocente, su Rai Tre, si parla dell’odissea giudiziaria di Antonio Lattanzi, ex assessore all’urbanistica del comune di Martinsicuro, in provincia di Teramo, finito in carcere 4 volte ingiustamente. L’incubo per Lattanzi ha inizio nel 2001, quando un’indagine della Procura di Teramo per una questione di tangenti all’interno dell’ente porta all’arresto di Pierluigi Lunghi, funzionario dell’ufficio urbanistica che nel 2004 patteggia una condanna a 2 anni di reclusione. Ed è proprio Lunghi, accusato di concussione, a chiamare in correità Lattanzi e Giulio Cesare Maté, allora capo della Polizia Municipale di Martinsicuro (poi assolto al pari dell’ex assessore). Lattanzi in particolare è chiamato a rispondere di concussione e abuso d’ufficio. Per lui le porte del carcere si aprono, purtroppo per la prima volta, il 22 gennaio del 2002. Una sentenza del Tribunale del Riesame lo riporta alla libertà, ma questa condizione dura poco: per altre tre volte Lattanzi esce e rientra in carcere su richiesta della Procura, trascorrendo in tutto 83 giorni di galera da innocente. La fine dell’incubo si intravede nel 2006, quando il Tribunale di Teramo lo assolve: una sentenza confermata successivamente in tutti i gradi di giudizio al termine di un iter giudiziario durato in tutto 10 anni. Un caso di errori giudiziari perfetto per il programma Sono Innocente.

SONO INNOCENTE. JOAN HARDUGACI.

Joan Hardugaci. Arrestato per aggressione: vittima di uno scambio di persona (Sono Innocente, 18 marzo 2017). Joan Hardugaci, il romeno arrestato nel 2009 per la rapina ad una 77enne della provincia di Empoli e vittima di uno scambio di persona (Sono Innocente, 18 marzo 2017), scrive il 18.03.2017  La Redazione de Il Sussuadiario. Si potrebbe riassumere così la storia di Joan Hardugaci, un uomo di origini romene, arrestato nel 2009 a Montelupo, in provincia di Empoli, perché indicato come l’aggressore di un’anziana. Una rapina brutale, da cui ha preso subito le distanze, ma che lo hanno portato dietro le sbarre per oltre un mese. Per le tre settimane successive, Joan Hardugaci ha dovuto presentarsi in Caserma per apporre la propria firma di presenza. Questa sera, sabato 18 marzo 2017, Sono Innocente racconterà il suo caso all’interno di una nuova inchiesta sulle vittime degli errori giudiziari del nostro Paese. Secondo le indagini dell’epoca degli inquirenti, Joan Hardugaci ha aiutato Gheorghe Sorin, un connazionale, a rapinare la 77enne Maria Mostardini. L’anziana viene legata con delle stringhe e messa a tacere grazie ad un cuscino sulla bocca. Come sottolinea La Nazione, la rapina appare subito strana agli occhi degli investigatori, dato che i ladri erano in possesso delle chiavi di casa della vittima.  Le indagini degli inquirenti risalgono subito a Joan Herdugaci. Per le autorità è lui che assieme ad altri tre connazionali, di origine romena, si è introdotto nella casa di Maria Mostardini e l’ha derubata. Il collegamento avviene grazie all’arresto di Subtirelu, individuato in base alle conoscenza della badante della vittima. Nonostante in tribunale Maria Mostardini non si mostra sicura dell’identificazione di Herdugaci, quest’ultimo viene interessato da una custodia cautelare. Più tardi, perderà anche il posto di lavoro. Si parla infatti di una percentuale di appena del 50%: questo era quanto consentiva alla vittima di dire con certezza che fra i rapinatori vi fose anche Joan Herdugaci. Sei anni più tardi, il romeno è stato dichiarato innocente e i giudici hanno valutato la detenzione ingiusta in un risarcimento di 253 euro per ogni giorno trascorso dietro le sbarre e quelli vissuti in provvedimenti restrittivo. Aggiunto alla perdita di lavoro, l’indennizzo è stato di circa 16 mila euro. 

SONO INNOCENTE. VITTORIO LUIGI COLITTI.

Vittorio Luigi Colitti. Quattordici mesi in carcere per omicidio e danni irreparabili. Assolto nel 2012 (Sono innocente, 25 febbraio 2017). Vittorio Luigi Colitti: quattordici mesi in carcere per omicidio e danni irreparabili. Assolto nel 2012, gli è stato negato il risarcimento di 500mila euro (Sono innocente, 25 febbraio 2017), scrive il 25.02.2017 La Redazione de Il Sussidiario. Non aveva nemmeno diciotto anni quando è stato arrestato Vittorio Luigi Colitti: l’accusa era di aver ucciso, insieme al nonno, Giuseppe Basile, un consigliere dell’Italia dei Valori. L’omicidio era avvenuto davanti casa del politico a Ugento, in provincia di Lecce, la notte tra il 14 e il 15 giugno 2008. Unica testimone una bambina: testimonianza poi giudicata inattendibile in fase di processo. Vittorio Luigi Colitti ha passato nel carcere di Bari quattordici mesi: quattordici mesi in cui ha riportato gravi danni fisici e morali e che gli sono costati, secondo un accertamento fatto dai consulenti dopo il rilascio, “un disturbo post traumatico da stress di grado severo, attualmente in fase cronica, e con sopraggiunti attacchi di panico senza agorafobia, con un danno biologico residuo pari al 35 per cento”. Gli viene però negato il risarcimento da parte dello Stato. L’impianto accusatorio di Vittorio Luigi Colitti, si basava su una presunta faida tra vicini, cosa che poi è stata smentita in fase di processo. Il ragazzo è stato assolto prima nel 2010 dal Tribunale per i minorenni per non aver commesso in fatto, e anche dalla Corte di appello nel 2012. Una vicenda che, pur se ormai finita, ha lasciato dei segni indelebili nella vita e nel fisico di Vittorio Luigi Colitti: vista la giovane età all’epoca dell’arresto, il ragazzo è rimasto traumatizzato dall’accaduto, e ancora oggi deve fare i conti con i danni causategli dall’ingiusta detenzione. Gli avvocati di Colitti avevano fatto richiesta di risarcimento allo Stato per 500mila euro: richiesta che gli è stata negata dalla Corte d’Appello perché avrebbe mentito sull’ora in cui si trovava a casa ma, secondo la motivazione presentata dai legali in Cassazione, “il ragazzo mentì solo all’inizio chiarendo poi subito dopo l’interrogatorio di garanzia l’esatto orario di rientro in casa la notte in cui fu ucciso il povero Basile spiegando le ragioni del mendacio iniziale dettato solo dalla paura di essere coinvolto in una terribile vicenda giudiziaria.

Ugento: Vittorio Luigi Colitti, minorenne accusato e in carcere per un omicidio mai commesso. L'assassinio di Giuseppe Basile, a metà giugno 2008. Se ne parla a "Sono innocente", scrive il 25 febbraio 2017Noi Notizie. La puntata di stasera del programma “Sono innocente” (Raitre) descrive due casi. Quello di Gerardo De Sapio, ad esempio: avellinese investigatore integerrimo, si fece un anno di carcere perché sospettato di legami con la camorra. Nel 2009 venne completamente riabilitato. C’è poi un caso pugliese, quello di Vittorio Luigi Colitti: in galera a diciotto anni per un omicidio mai commesso. Dopo la vicenda di Angelo Massaro di Fragagnano, alla ribalta in questi giorni (21 anni di carcere per un clamorosissimo quanto gravissimo errore giudiziario) ecco un altro caso sbagliato dall’amministrazione della giustizia. Di seguito il comunicato dello Sportello dei diritti: Vittorio Luigi Colitti ha trascorso oltre quattordici mesi presso l’istituto penale minorile di Bari per un omicidio che non ha mai commesso. Infatti, ancora minorenne, è stato accusato (in concorso con il nonno Vittorio) dell’omicidio di Giuseppe Basile, consigliere dell’Italia dei Valori, assassinato davanti alla sua abitazione a Ugento – in provincia di Lecce – la notte tra il 14 e il 15 giugno del 2008. Il giovane è stato assolto per ben due volte. La sentenza è diventata definitiva e irrevocabile il 28 maggio 2013. Una vicenda che ha segnato per sempre la vita del giovane e della sua famiglia. Vittorio, un ragazzo come tanti, ha visto sgretolarsi nei mesi i suoi affetti, gli studi, il lavoro e i legami più cari. Ha sviluppato, come accertato dai consulenti, “un disturbo post traumatico da stress di grado severo, attualmente in fase cronica, e con sopraggiunti attacchi di panico, con un danno biologico residuo pari al 35%”.

Omicidio Basile, sette anni di misteri e omertà in un delitto ancora senza colpevoli. Sono trascorsi oltre duemila giorni da quell'afosa notte in cui Peppino Basile fu massacrato con oltre venti coltellate. Non sono bastati tre processi a far emergere la verità. Appello del comitato civico "Io conto" affinché non si dimentichi la storia del consigliere comunale ucciso, scrive Andrea Morrone il 14 giugno 2015 su Lecce Prima. Ci sono vicende destinate a segnare per sempre la storia di una comunità, a raccontarne difetti e debolezze, paure e omertà. Quella dell’omicidio di Giuseppe Basile, il consigliere dell’Italia dei Valori assassinato a Ugento la notte tra il 14 e il 15 giugno del 2008, è divenuta prima un’inchiesta e poi un processo che, come spesso accade, ha proiettato sul palcoscenico di un’aula di Tribunale, la storia, i vizi e le virtù di un’intera collettività. Sono trascorsi ormai sei anni da quella notte d’inizio estate, era da poco passata l’una, in cui Peppino Basile fu massacrato con oltre venti coltellate. Da allora la macchina investigativa e quella della giustizia hanno lavorato incessantemente alla ricerca di una verità che dopo oltre duemila giorni da quel brutale omicidio appare ancora lontana. Piste alternative, criminalità, vendette, rancori, tradimenti e sospetti hanno tinto ancor più di giallo un delitto misterioso. Non sono bastati tre processi, tutti conclusi con un verdetto di assoluzione, a fare luce sul delitto. Un’intera famiglia è stata travolta da una vicenda giudiziaria in cui, lo dicono sentenze (di cui una già definitiva), no avevano colpe. L’omicidio Basile ricalca alla perfezione il più classico dei copioni di quella provincia addormentata, dove il delitto sembra la più semplice delle cose. Quelle coltellate e quel sangue rimangono, però, una ferita aperta nella voglia di giustizia e verità di tanta altra gente che non vuole dimenticare. A distanza di sette lunghi anni da quella brutale uccisione, il comitato civico "Io conto" definisce tutto ciò che è stato fatto una “farsa”. “Una farsa  - si legge nel comunicato – è stato l’intervento sulla “scena del crimine”, dove chiunque vi ha potuto accedere senza ostacoli e passeggiarvi dentro (basti vedere le immagini di repertorio dei telegiornali delle primissime ore che seguirono il fatto); una farsa sono stati gli appelli al silenzio per “non disturbare le indagini”; a nessuno è venuto in mente di bloccare la raccolta dei rifiuti per la ricerca dell’arma del delitto; molto breve ci è sembrato il tempo passato tra l’omicidio, le indagini autoptiche ed il funerale, il tutto nell’arcodi 52 ore circa, come se si volesse mettere subito un velo sulla vicenda. Chi ha spronato a parlare ha pagato di persona con minacce, insulti e accuse”. “Le indagini sottolineano gli esponenti di Io Conto – , durate ben 17 mesi e mezzo, hanno avuto come risultato l’arresto ed il processo a due vicini di casa con il movente dei “futili motivi”, assolti dopo quasi 5 anni per non avere commesso il fatto. Ed eccoci qui a chiederci ancora se mai sapremo perché, e per volontà di chi, è stato ucciso Peppino Basile, che amava spesso dire nei suoi comizi, in modi forse teatrali e coloriti, “…un sogno…il mio sogno… che questa terra cresca. Sarei pronto anche al sacrificio della mia vita pur di vedere crescere la mia terra, non per me ma per i nostri figli…”, oppure “…in Ugento non esiste la mafia … c’è il Sistema….”. Sarà stato un caso che dopo poco tempo spararono alla sua macchina e che lui parcheggiò in piazza, crivellata di colpi, come per dire a tutti “vedete che ho ragione!”. “Il momento storico in cui è avvenuto l’atroce delitto, può tranquillamente fare pensare ad intromissioni non gradite a sistemi affaristici locali e non, di cui purtroppo solo lui era a conoscenza, considerato l’agire solitario in cui si era trincerato e in cui noi tutti l’avevamo relegato”. Questo il pensiero del comitato civico. La morte di Peppino Basile, il muratore divenuto politico, metà Masaniello e metà Don Chisciotte, uomo dalle mille battaglie, osteggiato e spesso deriso, è sembrata quasi un peso fastidioso per la comunità ugentina e non solo. Quello sull’omicidio di Peppino Basile è diventato, udienza dopo udienza, molto più di un processo. Un viaggio attraverso il substrato sociale di un Sud profondo e pieno di contraddizioni, in cui la verità sembra cambiar forma in ogni istante. Un viaggio alla scoperta della vita di un piccolo paese del basso Salento, pieno di silenzi e verità sospese a metà. Non sono bastati due processi, centinaia di ore di dibattimento e decine di testimonianze per squarciare il velo di silenzi e omertà che da subito è calato sull’omicidio. Un processo che si è trasformato nel viaggio a ritroso dentro il ventre di un Salento arcaico e di una terra che Sciascia avrebbe descritto proprio come la sua Sicilia. Vittorio Luigi Colitti, il ragazzo accusato, in concorso con il nonno, dell’omicidio, è stato assolto in via definitiva. Quel ragazzone dalla faccia buona, travolto da una storia sembrata molto più grande di lui, ha subito il lungo calvario di due processi e undici lunghissimi mesi di detenzione prima di vedere riconosciuta la propria innocenza, grazie agli avvocati Francesca Conte e Roberto Bray (saranno i giudici ora a stabilire l’eventuale risarcimento). Il nonno, invece, è stato assolto in primo grado, in un processo pieno di dubbi e poche certezze. Rimangono, infatti, molti lati oscuri attorno alla ricostruzione fatta dall’accusa. Innanzitutto sul movente, quello dei contrasti vicini, apparso subito fragile e che non ha mai avuto riscontri. Così come la ricostruzione dell’omicidio e il ruolo dei presunti assassini, che continuano ad apparire piuttosto complessi. Labile e poco credibile anche la figura della presunta baby testimone del delitto, già smentita dai giudici. Al di là di ogni sentenza e ogni verdetto, restano le verità nascoste di chi ha visto e ha taciuto, di chi pur sapendo non ha parlato, di chi ancora considera la legge come una rete fastidiosa in cui è troppo facile  e scomodo rimanere impigliati. Quelle sulla morte di Basile, comunque, sono state indagini difficili e piene di ostacoli, che hanno cercato a fatica di squarciare il velo di ostilità e reticenze. Perché quella tra il 14 e il 15 giugno 2008 è una calda notte di giugno, afosa (proprio come quella appena trascorsa), in cui nessuno sente le urla disperate della vittima (letteralmente squartato), il cui corpo giace in mezzo alla strada, ben illuminato da un lampione. Una notte tragica in cui nessuno, però, sembra aver visto nulla. È questa una delle peculiarità di questa vicenda, avvolta da una fitta cortina di omertà e silenzi, che nemmeno gli inquirenti sono riusciti a diradare. “Ci troviamo dinanzi a un’omertà senza precedenti – ha detto il pubblico ministero Simona Filoni nel processo di primo grado a Colitti junior –, in un luogo dove tutti sanno e nessuno parla, pensando che forse è giusto così. In questo modo è come se Peppino fosse stato ucciso due volte: la prima dai suoi assassini, la seconda dai suoi concittadini”. Quelle coltellate e quel sangue rimangono, però, una ferita aperta nella voglia di giustizia e verità di tanta altra gente che non vuole dimenticare. Già, perché come ha scritto Voltaire: “Ai vivi dobbiamo rispetto, ai morti solo la verità”. In attesa che la giustizia concluda il suo percorso tortuoso, rimane il terribile sospetto che gli assassini di Basile siano liberi e impuniti e che quello del politico amato dalla gente comune sia stato un delitto molto più complesso di quello che si è immaginato. Peppino, forse, ha pagato a caro prezzo le sue battaglie e la voglia di non fare mai un passo indietro.

SONO INNOCENTE. VITTORIO RAFFAELE GALLO.

Prosciolto dopo 13 anni: non era il basista della Banda degli Onesti (Sono Innocente). Vittorio Raffaele Gallo, condannato per essere il basista della Banda degli Onesti, la gang di rapinatori che nel ’96 effettuò diversi illeciti (Sono Innocente), scrive il 24.06.2017 Morgan K. Barraco su "Il Sussidiario". Dopo diversi anni di onorato servizio alle Poste romane, Vittorio Raffaele Gallo viene condannato a 6 anni di carcere con l’accusa di essere il basista di una banda di rapinatori. Siamo nel novembre del 2004, quando il dipendente dell’ufficio postale Bravetta viene condannato come membro di quella che verrà chiamata la Banda degli Onesti. Nonostante l’accusa e relativa pena, Vittorio Raffaele Gallo viene prosciolto da ogni accusa alcuni mesi più tardi, dopo cinque mesi trascorsi in carcere e sette mesi che lo vedono agli arresti domiciliari. La sua storia verrà raccontata all’interno della puntata di Sono Innocente di questa sera, sabato 24 giugno 2017. I guai con la giustizia per Vittorio Raffaele Gallo non finiscono tuttavia con l’assoluzione. Nel 2013 la Corte dei Conti ha infatti condannato l’ex dipendente delle Poste ad un risarcimento di oltre 557 mila euro per danno erariale, una cifra pari al bottino sottratto dalla Banda degli Onesti nel 1996. La storia di Vittorio Raffaele Gallo sembra costellata da ingiustizie. Non solo la condanna per essere il presunto basista della Banda degli Onesti, a cui vennero attribuite due rapine nella Capitale, ma anche per via di tutto quello che ha perso a causa di quella pesante sentenza. Com’è facile immaginare, la condanna porta Gallo a perdere il lavoro alle Poste, che svolgeva da diversi anni. E non solo, perché nel 2004, quando i cancelli del carcere si chiudono dietro l’ex dipendente postale, la moglie decide di lasciarlo e di vietargli di rientrare in casa. Costretto quindi a condurre una vita fatta di stenti, Vittorio Raffaele Gallo può destreggiarsi solo fra lavoretti saltuari ed una pensione sociale accordatagli per via della dialisi, che lo rende un invalido del 100%. Una spada di Damocle che inizia tutta quel giorno, quando un gruppo di rapinatori entra nell’ufficio delle Poste in cui lavora Gallo. Siamo nel 1996 e Vittorio Raffaele Gallo lavora da diversi anni alle Poste di Roma. Un impiego sicuro, che svolge con passione e professionalità. Tutto cambia quando dalle porte dell’ufficio entra quella che in seguito verrà conosciuta come la Banda degli Onesti, un gruppo di rapinatori che decreterà la condanna al processo del dipendente postale e di altre tre persone. Apprezzato dai collegi per via del suo ruolo di sindacalista, Gallo non è l’unico che finisce nel mirino degli inquirenti. Al suo fianco ci sono infatti il 59enne Franco Fuschini, a cui verranno attribuite altre rapine effettuate a Bologna, il 42enne Giorgio mariotti ed un autista del trasporto pubblico di Livorno, Bruno Del Moro. Ricevono tutti una condanna in primo grado di giudizio fra i 4 ed i 6 anni. Come sottolinea Errori Giudiziari, per nessuno dei quattro ci sono prove sufficienti a stabilirne la colpevolezza e i sospetti si basano su intercettazioni particolari, prive della perizia fonica e quindi successivamente considerate irrilevanti.

SONO INNOCENTE. MICHELE TEDESCO.

Imprenditore rovinato dai pentiti: lo accusarono di essere uno spacciatore (Sono innocente). Michele Tedesco: l’imprenditore nel luglio del 1997 venne arrestato ingiustamente con l’accusa di acquisto, possesso, vendita e distribuzione di sostanze stupefacenti (Sono Innocente), scrive l'11.03.2017 La Redazione de Il Sussidiario. Michele Tedesco, imprenditore di Gravina di Puglia, è il protagonista di Sono innocente, il programma in onda stasera su Rai Tre. L’errore giudiziario che coinvolge Michele ha inizio nel luglio del 1997, quando Michele viene tratto in arresto nella sua abitazione dai carabinieri di Altamura, che lo ammanettano e lo confinano in una cella d’isolamento del carcere di Bari. I reati contestati a Tedesco, incredulo fin dall’arrivo dei carabinieri nella propria residenza, come riportato da aivm.it, sono “l’acquisto, il possesso, la vendita e la distribuzione di diverse sostanze stupefacenti, quali eroina, cocaina e hashish, sia in campo nazionale che internazionale”. In poche parole, Michele Tedesco viene accusato di essere uno spacciatore. Fin dai primi colloqui con il Gip, l’imprenditore dichiara la propria estraneità ai fatti e si dichiara innocente, ma passa un mese prima che gli vengano concessi gli arresti domiciliari. Questo provvedimento resta in vigore per 4 mesi, ma Tedesco è chiamato comunque a non allontanarsi dal proprio luogo di residenza con l’obbligo di firma giornaliera. La vicenda vede la propria conclusione, con l’assoluzione piena di Michele Tedesco, soltanto il 14 febbraio del 1998: ad incastrarlo furono le false accuse di alcuni pentiti.

Il Caso Di Michele Tedesco: Malagiustizia O Errore Giudiziario? Scrive Elisa il 13 Marzo 2013 su AIVM. L’esito: errore giudiziario o malagiustizia? All’udienza preliminare tenutasi il 14 Febbraio 1998, il GUP Dott.ssa Daniela Rinaldi dispose l’invio a giudizio di Michele Tedesco innanzi alla Corte di Assise di Bari. Durante il processo di primo grado la posizione di Tedesco venne a mano a mano chiarita fino a quando, a distanza di ben 9 anni dall’arresto, su richiesta avanzata dallo stesso P.M. Dr. Elisabetta Pugliese, la Corte di Assise adotta una sentenza di assoluzione dell’imputato con ampia formula di merito (allegato 3). Nonostante le sofferenze subite durante l’ingiusta prigionia e nonostante la sentenza che lo dichiara estraneo ai fatti, Michele Tedesco continua a pagare ancora oggi le conseguenze di un gravissimo errore giudiziario. Il caso di Michele Tedesco: vittima di un errore giudiziario che gli ha stravolto la vita. Michele Tedesco (Gravina di Puglia), all’epoca dei fatti imprenditore regolarmente iscritto alla Camera di Commercio di Bari, nato ad Altamura 41 anni fa, è stato vittima di un terribile errore giudiziario che ha completamente stravolto la sua vita. Era il 18 Luglio 1997 quando alle cinque del mattino i Carabinieri della Caserma di Altamura bussavano alla sua porta di casa per notificargli un’ordinanza di custodia cautelare in carcere adottata dal GIP Dott. Antonio Diella su richiesta del P.M. Dr. Leonardo Rinella. I reati di cui veniva accusato, nell’ambito del procedimento penale n. 53/95  R.G.N.R. Procura della Repubblica di Bari – DDA -, erano l’acquisto, il possesso, la vendita e la distribuzione di diverse sostanze stupefacenti, quali eroina, cocaina e hashish, sia in campo nazionale che internazionale. Il capo d’imputazione così recitava: “dei reati di cui all’art. 73 c. I, V,e VI, art. 74 c. I, III, V, art. 80 c. I lett. A) e c. II dpr 309/90 per avere, associandosi fra loro e con altre persone in associazioni distinte ma spesso fra loro di volta in volta collegate, acquistato, detenuto, venduto, ceduto e distribuito e, comunque, procurato ad altri sostanze stupefacenti del tipo eroina, cocaina ed hashish nei luoghi e nei tempi di cui al capo A), sia in campo nazionale che in campo internazionale”. “In Gravina in Puglia ed altre città limitrofe fino alla data della presente richiesta (08 marzo 1997).” Senza rendersi conto di quello che stava accadendo, Michele Tedesco venne portato in caserma per redigere i primi atti e quindi venne condotto presso il carcere di Bari, dove, dopo il disbrigo di tutte le formalità di ingresso di un detenuto, venne messo in una cella di isolamento. Durante i successivi interrogatori di garanzia Michele Tedesco rispose alle domande che il GIP gli pose non senza dichiarare ripetutamente la propria innocenza e la propria estraneità ai fatti di cui veniva accusato. In data 1° Agosto 1997 il GIP modificò la misura cautelare in custodia cautelare domiciliare (allegato 1) e così Michele Tedesco poté ritornare nella sua abitazione dove vi rimase per 4 mesi, fino al 13 Novembre 1997. Nonostante la revoca degli arresti domiciliari, Michele Tedesco ricevette il divieto di allontanarsi dal luogo di residenza con l’obbligo di firma giornaliera, fino al 23 Dicembre 1999 (allegato 2), presso la Caserma dei Carabinieri.

SONO INNOCENTE. ROBERTO GIANNONI.

Di Roberto Giannoni, febbraio 2003 su “Ristretti”. Roberto Giannoni è stato al centro di una terribile vicenda giudiziaria che ha sconvolto la sua vita e distrutto la sua famiglia. Bancario, direttore della filiale di Sassetta della Cassa di Risparmio di Livorno, viene arrestato il 10 giugno 1992 dagli uomini della DIA di Firenze con l’accusa di associazione a delinquere di stampo mafioso, usura, concorso in usura, estorsioni, riciclaggio, traffico di stupefacenti ed armi. Tutto si regge sulle dichiarazioni rilasciate da due collaboratori di giustizia. Gli vengono negati gli arresti domiciliari, resta in carcere per 12 mesi, di cui 10 sotto il regime del 41 bis in custodia cautelare. Viene assolto su richiesta della stessa procura al termine di un processo durato quasi quattro anni ed una vicenda durata sei anni sei mesi sei giorni. Nel frattempo ha perso il posto di lavoro, il padre è morto di crepacuore un mese prima dell’inizio del processo, la madre un mese dopo la sentenza, sfinita dall’angoscia. Su questa vicenda ha scritto un libro, Hotel Sollicciano - 12 mesi in una suite dello Stato a mezza pensione. Quella che segue è una testimonianza che Roberto Giannoni ci ha mandato, contattandoci attraverso il nostro sito. È difficile da spiegare, da capire, da far credere come un click possa cambiarti per sempre la vita. È quello delle manette che ti scattano ai polsi alle 4,15 di mattina nel bel mezzo di una vita passata a lavorare sodo e seriamente, prima di quel momento non si può immaginare cosa possa essere l’arresto, cosa significa perdere la libertà, non essere più padrone di te stesso. Oggi paragono le parole del mio avvocato che dopo aver parlato con i poliziotti mi disse: "Roberto, ti arrestano", alle parole che i medici mi dissero pochi istanti prima che mio padre e mia madre morissero: "Roberto, stanno per morire". Non sapevo cosa fosse la morte e fino a quando vedevo il respiro non riuscivo a capire, a spiegarmi come una persona potesse morire, così fino a quando non ho sentito quel click non sapevo cosa fosse un arresto. Ma soprattutto non ci credi: non credi che una persona a te cara possa andarsene per sempre e finché vedi un respiro speri che non muoia mai, e così fino a che non senti il click non credi che a te innocente possano toglierti la libertà

Dopo quel click ho lasciato la mia casa con i miei genitori atterriti e smarriti in mezzo al corridoio, un’immagine che rimarrà per sempre nella mia mente. Sconcerto e disperazione è stata la prima sensazione. Una vita distrutta in pochi minuti. Portato via sottobraccio dai poliziotti, il "mio mondo" è scomparso. Sono stato fatto salire su di un’auto ed ho iniziato un lungo viaggio, che mi ha portato ad attraversare due mondi nuovi. Non vedevo più nulla intorno a me, lo sguardo si perdeva nel vuoto, non focalizzavo più, sentivo le voci ma non vedevo le persone, una folle corsa a sirena spiegata fino ad arrivare in Procura, quindi "spinto" senza poter ragionare, rendermi conto di dove mi trovavo, interrogato per ore ed ore e poi di nuovo via di corsa sempre a sirene spiegate, fino ad arrivare al carcere, e qui con un lugubre rumore si è spalancato il grande cancello e sono entrato nel tunnel della carcerazione. Sono entrato come per incanto in un mondo che non conoscevo ma che è sempre esistito, ed in quel momento così disperato il detenuto che mi ha accolto era la persona che più capiva il mio dolore, perché chi soffre dietro quelle sbarre può capire veramente la sofferenza di uno che sta entrandoci. La sorpresa di aver trovato nel compagno di cella un’umanità semplice, povera ma sincera, non riusciva a togliermi il trauma della limitazione di spazio, dover dividere una cella di 12 mq. con un’altra persona con la quale non c’era nessuna affinità. Lo scandire concitato dei tempi e delle cose che si devono fare in veloce sequenza, con ogni giornata sempre identica alle precedenti, mi facevano arrivare rapidamente al momento in cui spegnevano la luce e rimanevo al buio con la disperazione che si faceva più grande. Parlavo, ascoltavo gli altri detenuti, ognuno di loro aveva una parola buona quando con il pianto cercavo di alleviare un po’ la sofferenza, rispondevo loro con dei cenni, annuivo accettando i loro consigli, ma dentro di me ero con il pensiero lontano da loro, da quel mondo, vivevo ora dopo ora pensando di tornare nel mondo che avevo lasciato, era lì che io ero sempre con la testa. Dopo pochi mesi sono stato trasferito sotto il regime del 41 bis, la massima restrizione carceraria, il carcere duro, quello dei mafiosi. Mi giravo intorno, assente con la mente, ma ero sempre in compagnia di un pensiero che non mi lasciava mai, la testa mi scoppiava, sentivo solo vuoto ed abbandono. Il passo delle guardie ed il tintinnio ferreo delle chiavi riuscivano a distrarmi un momento ed era come mi fermassi sull’orlo del precipizio: quel suono di chiavi era la voce che mi urlava l’istante prima di gettarmi nel vuoto. L’urlo del silenzio era assordante, più mi tappavo le orecchie e più si faceva forte. C’era il conforto della fede con il cappellano del carcere che aveva sempre una parola di aiuto per tutti, c’erano i medici, psicologi, psichiatri, assistenti sociali, persone civili che ti portavano negli incontri un pezzo di quel mondo che ricordavo ed al quale mi avevano ingiustamente strappato, ma io mi sentivo ed ero innocente e mi ritrovavo in un luogo dove si espiano le condanne, ed allora davanti a queste persone, ognuna delle quali svolgendo il suo lavoro cercava di aiutarmi, io mi sentivo in difficoltà, provavo disagio, vergogna, sarei tanto voluto sparire. Il tempo scorre rapido, può sembrare strano, sei spinto continuamente dalla conta del mattino fino alla sera quando ti chiudono il blindato, ma anche perché speri di correre incontro al processo e per un innocente l’assoluzione dovrebbe essere sicura, ma i dubbi, le angosce, il perverso evolversi della vicenda, ti mette tutto in discussione e ti pone terribili interrogativi. Passi le ore, abbarbicato al cancello con la faccia spiaccicata alle sbarre per avere un campo visivo maggiore.

L’angoscia di affrontare un processo con il terrore di non riuscire a dimostrare la mia innocenza. Sotto il regime del 41 bis, due colloqui al mese con i miei genitori, biancheria ridotta all’essenziale, pantaloni senza cintura, due ore sole di aria al giorno, nessuna possibilità di cucinare, a gomito e branda con i boss, quelli veri. Lì, mi sembrava di rivivere il film "Il Padrino". All’inizio nessuno di questi signori mi rivolgeva parola, poi piano, piano vengo avvicinato, mi si chiede il nome, la professione e perché mi trovo lì. Declinate le mie generalità dico: associazione a delinquere di stampo mafioso. Qualcuno mi guarda con sospetto, altri accennano un sorriso, un vecchio boss mi guarda dall’alto in basso e sentenzia: voi siete un coglione, altro che un mafioso. Questa sezione mi vedrà ospite per 10 mesi, per tutto questo periodo godrò delle gentilezze dei miei scomodi vicini di casa, ma non riesco, non mi è possibile sentirmi un inquilino di quei palazzi. Ed è arrivato dopo 365 giorni il giorno della scarcerazione. L’euforia di tornare libero è durata poco, quando la guardia mi ha comunicato che ero libero ho esultato, preparato in fretta le poche cose che avevo, salutato fugacemente gli altri detenuti e dentro di me ho pensato: sono libero, ritorno, finalmente, nel mio "mondo". Ma dopo l’abbraccio con i familiari e gli amici che erano ad attendermi, fatti alcuni passi mi sono fermato ed un pensiero mi ha subito assalito la mente: stavo entrando in un mondo del quale sentivo di non fare più parte. L’angoscia di affrontare un processo con il terrore di non riuscire a dimostrare la mia innocenza unito al fatto di incontrare persone, anche conoscenti, nelle quali leggere velatamente una forma di dubbio, avere la sensazione che chi ti parla non vede l’ora di finire la conversazione, bussare a tantissime porte e accorgerti che, con una scusa banale, tutti ti negano un lavoro, tutto ciò rafforzava in me la convinzione di essere in un mondo che non conoscevo, che non era più quello che avevo lasciato e per il quale avevo trascorso il mio tempo con il desiderio di ritornarci. Ora, libero, volevo fuggire da quel mondo e quando al mattino uscivo di casa, evitavo le strade del centro cercando di incontrare meno persone possibile, mi sentivo un oggetto misterioso motivo di curiosità. È il momento in cui scopri gli amici veri, quelli che non hanno aspettato l’assoluzione per credere in me e darmi il loro affetto, ed è così che comincia a maturare verso questo mondo un rapporto dove la fiducia non è più totale. Questo sentimento infatti non passa più per il cuore, ma attraverso le valutazioni più fredde e razionali della mente. Finivo per rifugiarmi nel retrobottega di tre amici, lì mi sentivo più tranquillo, ritrovavo un pizzico di serenità e speranza ed anche un po’ di quel mondo che avevo lasciato. Dopo aver ascoltato la sentenza che decretava l’ assoluzione, il mio pensiero è corso subito alla memoria di mio padre ed a mia madre che stava morendo in ospedale colpita da un tumore sconosciuto, ma anche ad Aldo, Carlo e Leoluca, i tre amici che mi accoglievano nel loro retro bottega aiutandomi infinitamente. In quel momento ho capito che forse avevo abusato della loro grande disponibilità e fraterna amicizia, mettendoli con la mia presenza in difficoltà, ed ero contento per loro della mia assoluzione che li gratificava, ma chissà quanta amarezza e dispiacere avrei dato loro se colpito anche solo da una piccola condanna. Continuavo comunque ad avere la sensazione che tutti mi guardassero, e camminavo a testa china evitando gli sguardi anche di chi non conoscevo, era un rigetto istintivo verso quel mondo dal quale mi sentivo abbandonato, tradito proprio da quei valori sociali e morali nei quali avevo sempre creduto.

ROBERTO GIANNONI. Il banchiere di Livorno, 12 mesi di calvario ingiustificato (Sono Innocente, 4 marzo 2017). Roberto Giannoni, l’ex banchiere di Livorno condannato a 12 mesi di carcere per presunta associazione a delinquere ed in seguito scagionato (Sono Innocente, 4 marzo 2017), scrive il 04.03.2017 La Redazione de "Il Sussidiario". Molteplici i casi di ingiustizia giudiziaria, che spesso portano i protagonisti a vivere un calvario fatto di calunnie e accuse, oltre ad una detenzione ingiusta. Uno dei casi più eclatanti è senza dubbio Roberto Giannoni, il direttore di banca di Livorno che nel giugno del 1992 è stato arrestato per divere accuse. Fra queste usssura, estorsione e affiliazione a organizzazioni criminali di stampo mafioso. Quattro anni di processo ed un anno in tero di detenzione: questa la pena scontata da Giovanni Giannoni, che ha dovuto ripartire da zero una volta conclusa l’inchiesta sul suo conto. L’indagine che ha gravato sul banchiere e sulla sua famiglia è scattata grazie alle dichiarazioni di due collaboratori di giustizia, che lo hanno portato a 2 mesi di carcere e 10 di custodia cautelare. Questa sera, sabato 4 marzo 2017, Sono Innocente affronterà la vicenda nella sua puntata, in onda su Rai 3. Di tutto quello che ha vissuto, sottolinea La Nazione, Roberto Giannoni ha parlato a lungo all’interno del suo libro “Hotel Sollicciano – 12 mesi in una suite dello Stato a mezza pensione”, con cui affronta stati d’animo e pensieri che lo hanno attraversato in quel periodo. Una volta conclusa la vicenda giudiziaria, Giannoni ha ingranato nuovamente, ricucendo gli strappi della propria vita. L’anno scorso è stato inolte ricevuto da papa Francesco, in occasione del Giubileo della Misericordia. Nel momento in cui Roberto Giannoni finisce in carcere, al suo fianco, simbolicamente, si trova tutta la sua famiglia. L’arresto, soprattutto alla luce dell’innocenza del banchiere livornese, gli vale subito la perdita del lavoro ed il tracollo emotivo. Il padre invece, a cui era molto legato, è deceduto un mese prima del processo, mentre la madre un mese dopo la sentenza di proscioglimento. “Sfinita dall’angoscia”, sottolinea in un’intervista recente a Il Tirreno, ma nonostante tutto, Roberto Giannoni è riuscito a risalire la china, aiutando tanti carcerati al meglio delle proprie possibilità. Allo stesso modo, durante la sua permanenza in carcere si era offerto di aiutare gli altri detenuti a fare i conti e scrivere lettere, dato che la maggior parte è analfabeta. Una possibilità per sopravvivere all’interno di una realtà difficile ed in cui fortunatamente è riuscito a ritagliarsi uno spazio di rispetto e solidarietà. 

SONO INNOCENTE. SANDRA MALTINTI.

Quando a cambiarci è un’ingiustizia, Sandra Maltinti. Libri: Quando a cambiarci è un’ingiustizia, Sandra Maltinti. In carcere ingiustamente: la storia di Sandra Maltinti. Intervista a cura di Cinzia Ficco Pubblicato lunedì 23 Nov 2009 in Libri su "Voglio Vivere Così". Due mesi e mezzo di carcere subito ingiustamente. Tanta sofferenza. Fango gettato sulla sua professionalità ed una dignità su cui c’è ancora qualcuno che sputa veleno. Dall’incubo si sta riprendendo, grazie all’amore della sua famiglia che non l’ha mai abbandonata in “quell’universo di donne urlanti”. Tanti i ricordi e i rimpianti. E’ la storia di Sandra Maltinti, architetto, residente ad Empoli, che ha trascorso settantadue giorni nel carcere di Sollicciano senza avere alcuna colpa. E’ stata arrestata con l’accusa di reati contro la pubblica amministrazione a Portoferraio. Maltinti aveva lavorato per diverse amministrazioni comunali come dirigente dei settori di assetto del territorio. Arrestata il primo giugno del 2004, è stata protagonista di Elbopoli. Da questa esperienza ha tratto un libro “L’Isola che non c’è” (Società editrice fiorentina). “Novanta pagine per non dimenticare – spiega- e mettere a nudo le illusioni e i miti ingannevoli sul mondo che sopravvive dentro le mura del carcere, quel mondo parallelo che da fuori è proibito vedere e immaginare”.

Dunque, architetto, una brutta storia.Come è cambiata la sua vita? E’ difficile rialzarsi?

«Quando non hai più niente ad un tratto scopri quali sono le cose più importanti della vita: la famiglia , gli amici, quelli veri che sanno fin dall’inizio che non può essere vero. Il mio libro è dedicato a loro. Sì, a quelli che non ci hanno mai creduto».

E il suo lavoro?

«Ah, quello è perso. Non riesco più a trovare una pubblica amministrazione e un sindaco che credano veramente che era una balla. Se uno è stato in galera - dicono - una ragione ci sarà pure stata».

Cos’è il carcere vissuto da un innocente?

«La galera è un universo di donne urlanti. Ma le loro voci giungono silenziose nel mondo che non le può sentire, che ignora la loro esistenza: dura, giorno dopo giorno».

Anche lei ha provato ad urlare?

«Sì, ma ho aspettato settantadue giorni perché la mi voce oltrepassasse la cortina impermeabile del carcere . Io ci sono riuscita. Ma poverette quelle che non hanno un bagaglio di cultura, forza e soldi. Dopo il carcere ingoiate in quell’inferno che ti porta di nuovo indietro. Il mio pensiero va spesso a loro».

Ci racconta in poche battute cosa è successo?

«Tutto è nato da un presunto abuso edilizio , una denuncia di inizio di attività redatta da un tecnico. Ci voleva la concessione, dice il consulente della Pubblico Ministero, o almeno un’autorizzazione comunale. Forse il consulente non era aggiornato sul fatto che la legge non prevedeva più l’autorizzazione , e le modifiche interne agli edifici erano soggette A Denuncia di Inizio di Autorità, come era stato fatto».

Strano questo errore dovuto ad ignoranza!

«Anche se una ragione in realtà non c’era dominavano pressapochismo e smania di notorietà. Tutta la mia storia e altre sono state pubblicate in un libro di un giornalista di sinistra che ha ricostruito i fatti secondo la sua logica».

La stampa ha dato un prezioso contributo!

«Eh sì, si veda il sito camminando.org di questo giornalista per capire quanto la stampa uccida piu che la spada».

Perché tanta cattiveria?

«La minoranza non ci dava pace, vedeva che il comune cominciava a funzionare e faceva di tutto per mettersi di traverso nei consigli comunali, sui giornali, denunce alla magistratura. Di tutto. Il motivo era che non si poteva permettere ad una giunta di destra di fare di più e meglio di una di sinistra con la Provincia e la Regione che remavano contro. Sempre la politica, anche quando non c’entra niente».

E ora? Ha avuto giustizia, anche se con ritardo!

«Ripenso spesso al tempo della galera con nostalgia».

Davvero?

«Non perché abbia voglia di riviverlo, giammai, ma perché l’amicizia con le mie compagne di cella e di tutte le donne senza voce è stata veramente toccante. Vorrei fare di più per loro, per quelle che non possono difendersi e non hanno un bagaglio di cultura e forza come il mio. Parlo anche di possibilità economiche. Il carcere annienta, non serve a riabilitarti».

Perché dice questo?

«Una delle due compagne di cella quando è uscita non aveva da mangiare e dopo tre giorni si è dovuta prostituire. Poi tutto torna inevitabilmente come prima se non c’è nessuno che ti aiuta».

Sandra Maltinti, una dirigente in piedi, scrive il 19 febbraio 2017 Eticapa. Sandra Maltinti, classe 1955 (vedi curriculum), non é una dirigente pubblica sugli altari delle cronache nazionali e di lei sapremmo poco se la sua vita professionale non fosse stata caratterizzata da due eventi contrastati e drammatici, il primo dei quali (una reclusione nell’anno 2004 per un fatto mai commesso) rischiò di piegare la sua stessa vita. Una trasmissione di ieri sera su RAI 3 (vedi podcast) ha rievocato la sua storia: laureata in architettura, vincitrice di un concorso pubblico, divenne Direttrice dell’Ufficio tecnico del Comune di Portoferraio (isola d’Elba) e, in questa veste, predispose il piano urbanistico comunale. Un esposto anonimo pervenuto alla Magistratura (nonché una furibonda campagna di stampa contro il sindaco dell’epoca) innescò un’indagine per presunto favoreggiamento e voto di scambio: l’indagine portò al suo arresto nel giugno 2004 – vedi qui articolo dell’epoca – per associazione a delinquere (gridò ai due figli, quando vennero ad arrestarla all’alba, “non vi vergognate perché io non ho fatto niente“) e a una successiva detenzione durata 70 giorni e terminata a motivo di una gravissima crisi depressiva accertata a livello medio-legale. Insieme a lei erano state arrestate 5 persone, fra le quali il Sindaco di Portoferraio, 71 anni, che morì poco tempo dopo essere stato rilasciato dal carcere. Nel luglio 2008 tutti gli imputati furono assolti “perché il fatto non sussiste”: il dibattimento aveva dimostrato che il castello di accuse era basato sulle maldicenze e ipotesi accusatorie espresse da oppositori politici di giunta, mai prima verificate con altre, opposte testimonianze. L’Architetto Maltinti ha ieri raccontato di essere stata remunerata per l’ingiusta detenzione con 30.000 euro, ma ciò non basta: dovette combattere (vedi qui sua conferenza stampa) per ottenere le retribuzioni arretrate che le erano dovute dal Comune di Portoferraio. E’ sempre bello rispondere che “sì, é giusto!” impegnarsi per uno Stato che non ti riconosce quell’onore che ci richiede l’articolo 54 della Carta costituzionale. Tuttavia, il tema della coerenza con i principi etici di un dirigente pubblico si è riproposto nella storia professionale di Sandra Maltinti circa 6 mesi fa, quando, dopo essere risorta a una nuova “vita” professionale come direttore generale del Comune di Livorno nominata nell 2014 dal sindaco Filippo Nogarin, é stata licenziata in tronco dallo stesso sindaco. Lungi dal voler entrare in aspetti politico/partitici di questa vicenda e premettendo che la figura del direttore generale dei comuni è prevista come incarico di capo  della struttura amministrativa – di fiducia del vertice politico, mette conto, comunque, di citare alcuni passi della nota che l’Architetto Maltinti ha inviato al sindaco lo scorso giugno 2016: “se un Dirigente pone a un atto un parere negativo, non è perché non è d’accordo con l’atto o esercita la propria opinione politica, ma è perché l’atto contrasta con le leggi in vigore, infatti si chiama: parere tecnico di legittimità“….”I Dirigenti sono tenuti per legge a TUTELARE l’azione dell’Ente, e sottoscrivere solo atti legittimi e ne rispondono personalmente“…..”Il Sindaco, gli Assessori ed anche alcuni membri del Consiglio Comunale mostrano di non aver capito la distinzione prevista dal TUEL (Testo Unico degli Enti Locali, ndr) tra indirizzo politico e gestione amministrativa e tendono a prendere decisioni operative e pretendere che i dirigenti appongano a valle delle loro scelte, il loro parere, sovrapponendosi di fatto all’azione dirigenziale” “alcuni assessori e consiglieri comunali, “per realizzare le loro personali iniziative, pongono in essere indebite ingerenze, rivolgendosi direttamente agli impiegati più accondiscendenti, che, molto spesso, non riferiscono ai Dirigenti preposti, con conseguenti sovrapposizioni, malintesi e disservizi”.  A quelle affermazioni il sindaco Nogarin ha prontamente risposto argomentando che “il comportamento tenuto dal direttore rappresenta un fatto di una gravità tanto rilevante da giustificare la revoca dell’incarico e il recesso dell’amministrazione dal contratto di lavoro“….”il direttore ha lanciato accuse gravissime nei confronti dell’amministrazione, accusando me, la giunta e i consiglieri di gravi ingerenze nei confronti della macchina amministrativa. Tutto questo senza però fare alcun riferimento a fatti specifici o procedimenti utili ad accertare la veridicità di quanto riportato”…. “Se davvero avesse avuto a cuore il buon funzionamento della macchina amministrativa, avrebbe dovuto chiedere un confronto con il sottoscritto. Così non è stato. Ha preferito lanciare pubblicamente le sue accuse”- vedi qui meglio. Questa seconda vicenda della storia professionale di Sandra Maltitnti, certo meno drammatica della prima, testimonia però della stessa posizione di debolezza della dirigenza pubblica, una sorta di anello debole in una catena di poteri pubblici che possono scaricare tensioni e responsabilità utilizzando il dirigente come una sorta di “parafulmine” istituzionale. il principio di separazione fra poteri di indirizzo politico-amministrativo e potere di gestione è ancora molto, molto lontano dal concretizzarsi nella realtà, proprio in quelle Amministrazioni che maggiormente necessiterebbero dell’assoluta neutralità e autonomia della macchina amministrativa. Continua a regnare, piuttosto, non la separazione, ma una completa incomunicabilità nei comportamenti, nel linguaggio e nell’orientamento operativo fra i due “ambiti”, politico e burocratico.

Sei condanne e 2 assoluzioni per Elbopoli. Dopo sei ore di camera di consiglio, nell’aula del tribunale di Genova entra il collegio con la sentenza di Elbopoli, una delle bufere giudiziarie che si è abbattuta sull’Elba in quella calda estate del 2003 e che ha coinvolto un giudice, alti rappresentanti delle istituzioni, imprenditori. A distanza di oltre 6 anni dalla bufera giudiziaria i giudici (presidente Dagnino, a latere Lepri e Panicucci) hanno accolto la ricostruzione dell’accusa sostenuta dal pm Paola Calleri anche se le condanne sono state inferiori rispetto alle richieste del pubblico ministero e due imputati sono stati assolti. Quando i giudici leggono la sentenza in aula c’è un solo imputato: Giuseppe Pesce, ex prefetto di Isernia e all’epoca dello scandalo commissario prefettizio di Rio Marina. L’ex capo dei gip livornesi Germano Lamberti - che era in aula prima che il collegio si ritirasse - è stato condannato a 3 anni per corruzione in atti giudiziari e assolto invece dall’accusa di peculato e dalla corruzione con gli imprenditori.

Un anno e 4 mesi a Vincenzo Gallitto, ex prefetto di Livorno, per favoreggiamento in corruzione e 8 mesi per peculato; due anni e 2 mesi per corruzione per Giuseppe Pesce che ha annunciato che andrà in appello ritenendosi estraneo alle accuse ("Voglio essere assolto e non mi basta la prescrizione", ha detto); 3 anni e 4 mesi per gli imprenditori pistoiesi Franco Giusti e Fiorello Filippi condannati per un solo episodio corruttivo che fa riferimento alla Costa dei Barbari; un anno e 8 mesi per abuso di ufficio e falso a Gabriele Mazzarri, ex responsabile dell’edilizia privata del Comune di Marciana.

Al centro delle indagini della Finanza partite da una segnalazione del Corpo Forestale due complessi edilizi: il centro servizi di Procchio nel Comune di Marciana e la ristrutturazione della Costa dei Barbari, un’ex discoteca a Cavo nel Comune di Rio Marina. Per gli inquirenti intorno a quei due complessi, sui quali lavorano Giusti e Filippi, si sarebbero scatenati interessi di vario tipo. L’allora prefetto Gallitto avrebbe fatto da intermediario tra i costruttori Giusti e Filippi, il progettista Coppetelli ed il giudice Lamberti perché quest’ultimo rigettasse la richiesta di sequestro preventivo del Centro Servizi. In cambio, per l’accusa, il giudice avrebbe avuto a prezzo di favore 2 case a Cavo e una a Procchio. Appartamenti a prezzo di favore, per l’accusa, anche per Gallitto e Pesce che da commissario aveva nominato consulente all’edilizia privata del Comune Coppetelli che era il progettista della ristrutturazione di Cavo.

A Genova c’erano alcuni familiari delle vittime del Moby Prince. "Avrei voluto guardarlo in faccia. Ho accolto questa condanna con rabbia", ha detto Loris Rispoli, presidente dell’Associazione 140, parlando di Lamberti che era presidente del Tribunale al processo che mandò tutti assolti. "La condanna in atti giudiziari del giudice Lamberti apre scenari anche sulla tragedia del Moby, scenari che la Procura di Livorno non potrà non considerare".

Un buco nero che si spalanca davanti a una delle vicende giudiziarie più controverse della storia italiana. Non si sono fatte attendere le reazioni dei familiari delle vittime della tragedia del Moby Prince, il traghetto che andò a fuoco dopo uno scontro con la petroliera dell'Agip Abruzzo, dramma nel quale la sera del 10 aprile 1991 persero la vita 140 persone di cui molti sardi, dopo la condanna dell'ex capo dei Gip del tribunale di Livorno durante il processo per la tragedia.

Il presidente della prima sezione penale del tribunale di Genova, Giuseppe d’Agnino, dopo oltre sei ore di camera di consiglio, aveva letto la sentenza di condanna per sei degli otto imputati nel procedimento riguardante vari scandali immobiliari nell’Isola d’Elba: tra questi c'è anche l’ex capo dei Gip di Livorno, Germano Lamberti, presidente del Collegio giudicante nel processo sul disastro della Moby Prince, in cui furono assolti tutti gli imputati perché «il fatto non sussiste».

La sentenza verrà però parzialmente riformata in appello: la terza sezione penale di Firenze dichiarò il non doversi procedere per intervenuta prescrizione del reato. Secondo le accuse, Lamberti, in concorso con altri due imputati, avrebbe ottenuto appartamenti in un residence di lusso in cambio di agevolazioni per la realizzazione di un centro servizi nel comune di Marciana. Secondo il pm, inoltre, il giudice Lamberti non sequestrò volutamente un cantiere irregolare.

Tra il pubblico, al processo nei confronti di Lamberti, erano presenti alcuni familiari delle vittime della Moby Prince. «La sentenza del tribunale di Genova che ha condannato per corruzione il Presidente del Collegio giudicante del processo Moby Prince amareggia ed inquieta». Sono le prime parole di Angelo Chessa, presidente dell’associazione “10 aprile”, che raccoglie alcuni familiari delle vittime morte nel 1991 nel traghetto che entrò in collisione con la petroliera Agip Abruzzo nella rada del porto di Livorno, nel commento dell’esito del processo genovese nel quale l’ex giudice Germano Lamberti era imputato per una vicenda diversa.

«Abbiamo - ha aggiunto Chessa - aspramente contestato il modo in cui il processo fu condotto e la sentenza successivamente emessa dal tribunale di Livorno. Ciò ci porta a tornare indietro con la mente e non siamo sereni».

Sono stati svolti due processi sulla tragedia della Moby Prince, dai quali non è emersa nessuna responsabilità precisa: la tragedia è quindi ufficialmente ascritta alla distrazione che sarebbe regnata a bordo del traghetto (si parlò a lungo anche del fatto che sia il personale di bordo sia i soccorritori sarebbero stato distolti dalle loro mansioni da un'importante partita di calcio che si stava svolgendo quella sera).

MAI DIRE ELBOPOLI.

La corte d'appello di Genova ha inflitto 4 anni e 4 mesi di reclusione all'ex prefetto di Livorno Vincenzo Gallitto e 4 anni e 9 mesi all'ex capo dei gip livornesi Germano Lamberti al processo d'appello per la vicenda di "Elbopoli" che aveva coinvolto otto persone, imputate a vario titolo di corruzione, peculato e favoreggiamento. E' stato invece assolto, ma solo per prescrizione dei reati l'ex prefetto di Isernia Giuseppe Pesce, già vice di Gallitto a Livorno. In particolare, secondo l'accusa Lamberti, Pesce e Gallitto avrebbero ottenuto appartamenti in un residence di lusso in cambio di agevolazioni per la realizzazione di un centro servizi nel comune di Marciana. I giudici, che sono rimasti in camera di consiglio per oltre quattro ore, hanno condannato a tre anni e sei mesi l'ex responsabile dell'ufficio tecnico del comune di Marciana (Livorno), Gabriele Mazzarri, a cinque anni ciascuno gli imprenditori edili pistoiesi Franco Giusti e Fiorello Filippi, a due anni l'immobiliarista Francesco Sinisgallo ed a un anno e sei mesi a Luigi Logi, nella sua qualità di sindaco di Marciana. Sinisgallo e Logi hanno beneficiato della sospensione condizionale della pena. Il processo di appello per "Elbopoli", gli scandali edilizi dell'isola d'Elba la cui pentola fu scoperchiata da Legambiente con un dossier sulla piccola isola di Cerboli, si è chiuso a Genova con una brutta sorpresa per quasi tutti gli imputati. Infatti le pene sono state aumentate rispetto alla prima istanza, con l'esclusione dell'ex vice prefetto dell'Elba dell'epoca (e poi prefetto di Isernia), ma solo per prescrizione dei reati, mentre gli è stata confermata l'assoluzione per il peculato. E' andata peggio agli altri imputati eccellenti: la Corte di appello di Genova ha inflitto 4 anni e 4 mesi di reclusione all'ex prefetto di Livorno Vincenzo Gallitto (2 anni in primo grado); 4 anni e 9 mesi all'ex capo dei Gip livornesi Germano Lamberti (3 anni in primo grado). La sentenza riguarda affari e scambi di favori edilizi che coinvolgono due complessi elbani l'ex discoteca "Costa dei Barbari" nella frazione di Cavo, Comune di Rio Marina (tornata al centro delle polemiche con il nuovo Regolamento urbanistico) da trasformare in appartamenti sul mare e il cosiddetto "ecomostro di Procchio" rimasto uno scheletro di cemento a pochi metri dal mare della frazione del Comune di Marciana e per il quale gli ambientalisti chiedono la demolizione. I giudici genovesi hanno condannato a 3 anni e 6 mesi l'ex responsabile dell'ufficio tecnico del comune di Marciana Gabriele Mazzarri (1 anno e 8 mesi in primo grado e Mazzarri aveva già ricevuto una condanna per un'altra vicenda edilizia) e a 5 anni ciascuno gli imprenditori edili pistoiesi Franco Giusti e Fiorello Filippi (3 anni e 4 mesi in primo grado), che risultano ancora i proprietari dell'isolotto di Cerboli dopo innumerevoli tentativi di vendita. 2 anni la condanna per l'immobiliarista Francesco Sinisgallo e 1 anno e 6 mesi per Luigi Logi (che si è sempre detto estraneo alla vicenda), l'ex sindaco di Marciana eletto in una lista civica sostenuta dal centro-sinistra, entrambi erano stati assolti in primo grado e hanno beneficiato della sospensione condizionale della pena.

Un’assoluzione e cinque prescrizioni. Teletirreno ha dato notizia così della conclusione di un’altra vicenda giudiziaria elbana. Una vicenda che suscitò grande impressione. Quella dei lavori alla piazza della Chiesa di Marciana Marina. Sette persone furono arrestate all’alba del primo maggio del 2004. Si parlò e si scrisse di un appalto "ammaestrato”. Sei anni dopo, all'esito del processo, il geometra portoferraiese Boris Gasparri è stato assolto perché risultato estraneo alle problematiche riguardanti il profilo del contratto d’appalto al centro del procedimento. Il giudice ha ritenuto di non dover procedere, per avvenuta prescrizione, anche nei confronti degli imprenditori Camillo Caldarera, Salvatore Pezzotta e Fiorenzo Batignani, e dell'archietto Lionello Balestrini, allora direttore dei lavori. Purtroppo non ha avuto il tempo di assistere alla conclusione della vicenda che l’aveva coinvolto l’architetto Luca Tantini. L’ex tecnico comunale di Marciana Marina, infatti, nei primi giorni di dicembre del 2005 è morto, a soli 56 anni, ucciso da un male improvviso e inesorabile. Una fine drammatica. La moglie e le figlie, in una lettera toccante piena di un dolore ancora incredulo pubblicata da Giovanni Muti nel suo “Affari e politica. Il caso è chiuso!”, hanno scritto di quanti sono “stati travolti, insultati, umiliati nel pubblico e nel privato, tanto colpiti che ne è risultata persa, non solo la serenità, la professione, la famiglia ma anche la vita”.

Ha pagato con la vita Tantini, come Giovanni Ageno. Entrambi travolti da quella che allora fu chiamata Elbopoli. Una serie di casi giudiziari fra loro legati solo da una lettura “politica”. Quella che voleva l’Elba - così alcuni dissero e scrissero – in preda “all’istinto predatorio”, all’“emergenza legalità”, a “intrecci pericolosi”, alla “perversa spirale del malaffare”. Coloro che furono coinvolti nel caso “Affari e politica”, politici e imprenditori, furono assolti perché il fatto non sussiste, perché la stessa pubblica accusa riconobbe la totale insussistenza delle accuse più gravi e infamanti, che allora furono addotte per giustificare il carcere, e misure restrittive lunghe e pesanti. A sei-sette anni da quelle vicende, dopo l’ennesima assoluzione, sarebbe giusto forse domandarsi cosa resta di quella “Elbopoli”. Qual è il bilancio giudiziario di quei casi, e quale il bilancio politico. E, se la storia insegna davvero qualcosa, sarebbe giusto chiedersi perché tutto ciò è successo, e come si può impedire che accada di nuovo.

Il fatto non sussiste un’altra volta. Un’altra assoluzione, doppia. Ma mentre ci rallegriamo per le ultime sentenze di proscioglimento che hanno riguardato l’ex vicesindaco di Campo, Enrico Graziani, non possiamo non rilevare che il suo non è un caso isolato, anzi è solo l’ultimo di una lunga serie. E riteniamo che l’Elba non possa più eludere una riflessione politica su cosa è stato e su quali effetti ha prodotto il giustizialismo, anche all’isola.

Molti anni sono passati, dai primi drammatici casi. Si coniò allora la parola Elbopoli, per marchiare l’isola con l’ombra di un sospetto: quello di un malaffare diffuso e generalizzato. Amministratori, professionisti, politici e imprenditori sono stati indagati o arrestati, sono rimasti in carcere per settimane e mesi. Hanno pagato un prezzo alto, hanno visto compromessa la serenità, la salute, a volte la loro vita. Le loro famiglie sono state distrutte o sottoposte a prove durissime. E a distanza di anni di quelle accuse, di quei teoremi non è rimasto niente. Fatti che non sussistono, accuse che non hanno retto alla prova del processo, anzi a volte sono state ritirate o derubricate dai magistrati incaricati della pubblica accusa.

 “Presunto colpevole”, la Rai racconta il caso Ageno. In onda alle 23,25 del 7 maggio 2012 la puntata del programma Tg 2 condotto da Fabio Bonini dedicato alla vicenda del 2004. Fra gli intervistati Nicola Ageno, Tiziano Nocentini, Sandra Maltinti, Alberto Fratti Paolo Chillè.

Ancora riflettori accesi sul caso giudiziario che nel giugno 2004 sconvolse Portoferraio e l’Isola d’Elba. Il programma del TG2 “Presunto colpevole”, condotto da Fabio Massimo Bonini, in onda domani alle 23 e 25, ripercorrerà la vicenda di Giovanni Ageno, sindaco di Portoferraio dal 1999 al 2004. Un fatto giudiziario che sconvolse Portoferraio, quello degli arresti del sindaco e di suo figlio Nicola, oltre che dell’assessore Alberto Fratti, del capo dell’ufficio tecnico Sandra Maltinti e degli imprenditori Tiziano Nocentini e Marco Regano. L'operazione fu condotta a una settimana dalle elezioni amministrative, ed evidentemente è ancora visto dalla stampa nazionale come esempio eclatante di errore giudiziario, anche per la maniera in cui si è conclusa la vicenda: l’ex sindaco morì dopo alcuni mesi dal suo arresto, gli imputati, dopo essere stati accusati di vari reati, tra cui l’associazione a delinquere e il voto di scambio, per un’intricata ipotesi di affari e urbanistica poi rivelatasi infondata anche agli occhi del pm, furono assolti “perché il fatto non sussiste” con la sentenza di primo grado arrivata nel 2008. Il programma Rai, che ogni settimana affronta i casi italiani di “malagiustizia”, ricostruisce la vicenda, dall’avvio delle indagini nel 2003 fino a quando - nel 2009 - la Procura di Livorno decise di non ricorrere in Appello facendo così calare il sipario sul caso. Per ricostruire il caso sono stati intervistati l’architetto Sandra Maltinti, l’ex assessore Alberto Fratti e il giornalista Paolo Chillè di Teleelba.

"AFFARI E POLITICA, IL FATTO NON SUSSISTE". E’ uscito il libro inchiesta di Giovanni Muti su una delle pagine più nere della storia elbana: il calvario di coloro che furono arrestati nel 2004 e dopo anni scagionati da ogni accusa. Cosa successe in quei giorni?

Riaprire le ferite. Scrivere altre pagine di una storia che finalmente poteva essere chiusa con quella sentenza di assoluzione “perché il fatto non sussiste”. Ma scrivere altre pagine e riaprire le ferite forse è inevitabile, per una questione di rispetto: della verità e della dignità. Per questo è uscito nelle librerie “Affari e politica a Portoferraio – Il fatto non sussiste” (ed. Forte Inglese). Un’inchiesta di Giovanni Muti che ripercorre una delle pagine più nere della storia elbana recente. Politici, imprenditori, tecnici, uomini, donne, mariti: arrestati all’alba come criminali comuni; spesso come tali trattati. Si scrisse di un “violento comitato d’affari” e di una “perversa spirale di malaffare”. Ingiustamente, si è visto molto tempo dopo, quando è stata lo stesso pm a smontare la gran parte delle accuse. E il giudice il resto. Allora però il caso era appetibile, come pochi: c’era il sindaco di Giovanni Ageno, medico di famiglia stimato, due lauree, colto, elegante, che in modo sorprendente aveva conquistato il Comune praticamente da solo, lui e gli uomini della sua lista civica. E da solo fu lasciato. Lo ricorda impietosamente Muti: a difendere pubblicamente la sua onorabilità solo pochi politici: Francesco Bosi, Pino Lucchesi, Elba 2000. Con Ageno fu arrestato un assessore, Alberto Fratti. E l'architetto Sandra Maltinti. E ancora il maggiore imprenditore dell’isola, Tiziano Nocentini e il suo stretto collaboratore Marco Regano. E altri ancora. Voto di scambio, associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e alla concussione, abuso d’ufficio: l’accusa era terribile, e arrivava a pochi giorni dalle elezioni. Il libro è uscito a pochi giorni dalle stesse elezioni Comunali, Provinciali ed Europee, questa inchiesta di Giovanni Muti: “Non è un caso – spiega l’autore – qualcuno me lo ha fatto notare e mi sono posto il problema se non fosse necessario un distacco maggiore. Invece no, perché il distacco non è possibile, e questo è anche un atto riparatore”. “Ci sono stati drammi incredibili, e danni collaterali. E’ successo qualcosa di molto grave in quei giorni, Io speravo che dopo l’assoluzione la stampa locale desse il giusto risalto all’esito della vicenda, come lo aveva dato agli arresti, e invece non è stato così. Si sono defilati. Non tutti, ma molti”. Tutti sanno come finì: Ageno fu eletto consigliere, tornò in Consiglio per dimettersi, ma non era più lui. Il suo calvario finì pochi mesi dopo. È morto per un infarto nel febbraio 2005. Prima di poter leggere quelle sentenze di completa assoluzione. Nel libro c’è anche la vicenda dell’architetto Luca Tantini, e la testimonianza toccante della moglie. Con un lavoro di archivio giornalistico meticoloso, Muti ricostruisce quelle vicende, e le inserisce in un contesto politico e storico ben preciso. Teletirreno ha intervistato Nocentini, Fratti e Regano (la loro testimonianza è nel video pubblicato insieme a questo articolo). “Io stavo male – ricorda Fratti – ma non per me, per chi era fuori. Io pensavo ai miei cari”. “Spero che questo libro - ha detto Regano – possa far capire davvero cosa è successo, cosa abbiamo passato e cosa ci hanno cucito addosso”. “Certe cose non si dimenticano – ha detto ai microfoni di Teletirreno Tiziano Nocentini – noi stiamo valutando come muoverci. Pochi ormai hanno dei dubbi su questa vicenda. Spero che leggendo capiranno cosa ci ha portato”.

“L’ISOLA CHE NON C’E’” è il libro di Sandra Maltinti. «Male non fare, paura non avere». Un assioma che accompagna le certezze di ognuno di noi. Fino a quando un evento imprevedibile, accaduto contro ogni logica evidente, arriva a sconvolgere tutto. In questo romanzo autobiografico, Sandra Maltinti racconta i settantadue giorni trascorsi, innocente, nel carcere di Sollicciano. Una denuncia aperta sul senso della giustizia. Un atto dovuto, alle compagne di cella e a sé stessa: per non dimenticare, per mettere a nudo le illusioni e i miti ingannevoli sul mondo che sopravvive dentro le mura del carcere, quel mondo parallelo che da fuori è proibito vedere, e immaginare. «Male non fare, paura non avere». Un assioma che accompagna le certezze di ognuno di noi. Fino a quando un evento imprevedibile, accaduto contro ogni logica evidente, arriva a sconvolgere tutto. Nel romanzo autobiografico L’isola che non c’è Sandra Maltinti racconta i settantadue giorni trascorsi, innocente, nel carcere di Sollicciano. Una denuncia aperta sul senso della giustizia. Un atto dovuto, alle compagne di cella e a sé stessa: per non dimenticare. La ricerca del proprio io, disperso e distrutto dagli avvenimenti, all’interno di un mondo diverso, un universo dove vivere e lottare per settantadue lunghi giorni, con persone tanto diverse, con loro, le recluse, così diverse da lei e da quello che era il suo mondo. Il carcere, un grido ruggente all’interno di un racconto struggente, un “altrove” reale, che vive intorno e dentro di noi, dimenticato da tutti. Tutta l’Italia ha parlato di lei: è la protagonista di “ELBOPOLI”. Una lunga carriera di architetto, con piani regolatori ed opere realizzate. È stata a capo di diversi comuni come dirigente dei settori di assetto del territorio ed al comune di Portoferraio, fino al suo arresto, il 1 giugno 2004. “ già signora dell’urbanistica portoferraiese, potente consulente del Sindaco e di fatto a capo di questo settore nella cittadina elbana”, travolta dall’azione della Magistratura avvenuta a pochi giorni dalle elezioni amministrative a Portoferraio, con il Sindaco arrestato in veste di candidato. Racconta nel suo primo romanzo la sua esperienza, la sua verità, senza veli. Una lunga carriera di architetto, con piani regolatori e opere realizzate. È stata a capo di diversi comuni come dirigente dei settori di assetto del territorio e al comune di Portoferraio, fino al suo arresto, avvenuto il primo di giugno del 2004. Nel romanzo autobiografico L’isola che non c’è Sandra Maltinti racconta i settantadue giorni trascorsi, innocente, nel carcere di Sollicciano. Una denuncia aperta sul senso della giustizia. Un atto dovuto, alle compagne di cella e a sé stessa: per non dimenticare. Già signora dell’urbanistica portoferraiese, potente consulente del Sindaco e di fatto a capo di questo settore nella cittadina elbana, viene travolta dall’azione della magistratura avvenuta a pochi giorni dalle elezioni amministrative a Portoferraio, con il Sindaco arrestato in veste di candidato. Racconta nel suo primo romanzo la sua esperienza, la sua verità, senza veli. «Male non fare, paura non avere». Un assioma che accompagna le certezze di ognuno di noi. Fino a quando un evento imprevedibile, accaduto contro ogni logica evidente, arriva a sconvolgere tutto. In questo romanzo autobiografico, Sandra Maltinti racconta i settantadue giorni trascorsi, innocente, nel carcere di Sollicciano. Una denuncia aperta sul senso della giustizia. Un atto dovuto, alle compagne di cella e a sé stessa: per non dimenticare, per mettere a nudo le illusioni e i miti ingannevoli sul mondo che sopravvive dentro le mura del carcere, quel mondo parallelo che da fuori è proibito vedere, e immaginare. Sandra Maltinti fu condotta in carcere, dove le furono prese le impronte digitali, gesto che l’ha marchiata. Accusata di reati verso la pubblica amministrazione e con 14 capi di imputazione nei suoi confronti, ha trascorso 72 giorni dietro le sbarre e si è vista negare per tre volte gli arresti domiciliari “perché sostenevano fossi socialmente pericolosa”, ha affermato in una intervista. Dopo quattro anni di processo è stata completamente assolta. “Non per non aver commesso il fatto, ma perché il reato non c’era”, ha spiegato. «Non basta essere innocenti – continua l’ex dirigente del Comune di Portoferraio – è difficile assumere una ex galeotta. Dopo aver presentato 22 domande sono ancora senza lavoro. Se sei stato in carcere sei marchiato a vita». Il processo oltre all’architetto Maltinti vide coinvolte altre persone, tra cui l’ex sindaco del comune dell’Elba Giovanni Ageno, deceduto per infarto pochi mesi dopo la scarcerazione. Due mesi e mezzo di carcere subito ingiustamente. Tanta sofferenza. Fango gettato sulla sua professionalità ed una dignità su cui c’è ancora qualcuno che sputa veleno. Dall’incubo si sta riprendendo, grazie all’amore della sua famiglia che non l’ha mai abbandonata in “quell’universo di donne urlanti”.

Tanti i ricordi e i rimpianti. E’ la storia di Sandra Maltinti, architetto, residente ad Empoli, che ha trascorso settantadue giorni nel carcere di Sollicciano senza avere alcuna colpa. E’ stata arrestata con l’accusa di reati contro la pubblica amministrazione a Portoferraio. Maltinti aveva lavorato per diverse amministrazioni comunali come dirigente dei settori di assetto del territorio. Arrestata il primo giugno del 2004, è stata protagonista di Elbopoli. Da questa esperienza ha tratto un libro “L’Isola che non c’è” (Società editrice fiorentina). “Novanta pagine per non dimenticare – spiega- e mettere a nudo le illusioni e i miti ingannevoli sul mondo che sopravvive dentro le mura del carcere, quel mondo parallelo che da fuori è proibito vedere e immaginare”. L’autrice del libro è stata intervistata da Cinzia Ficco.

Dunque, architetto, una brutta storia. Come è cambiata la sua vita? E’ difficile rialzarsi?

Quando non hai più niente ad un tratto scopri quali sono le cose più importanti della vita: la famiglia , gli amici, quelli veri che sanno fin dall’inizio che non può essere vero. Il mio libro è dedicato a loro. Sì, a quelli che non ci hanno mai creduto.

E il suo lavoro?

Ah, quello è perso. Non riesco più a trovare una pubblica amministrazione e un sindaco che credano veramente che era una balla. Se uno è stato in galera- dicono- una ragione ci sarà pure stata.

Cos’è il carcere vissuto da un innocente?

La galera è un universo di donne urlanti. Ma le loro voci giungono silenziose nel mondo che non le può sentire, che ignora la loro esistenza: dura, giorno dopo giorno.

Anche lei ha provato ad urlare?

Sì, ma ho aspettato settantadue giorni perché la mi voce oltrepassasse la cortina impermeabile del carcere . Io ci sono riuscita. Ma poverette quelle che non hanno un bagaglio di cultura, forza e soldi. Dopo il carcere ingoiate in quell’inferno che ti porta di nuovo indietro. Il mio pensiero va spesso a loro.

Ci racconta in poche battute cosa è successo?

Tutto è nato da un presunto abuso edilizio , una denuncia di inizio di attività redatta da un tecnico. Ci voleva la concessione, dice il consulente della Pubblico Ministero, o almeno un’autorizzazione comunale. Forse il consulente non era aggiornato sul fatto che la legge non prevedeva più l’autorizzazione , e le modifiche interne agli edifici erano soggette A Denuncia di Inizio di Autorità, come era stato fatto.

Strano questo errore dovuto ad ignoranza!

Anche se una ragione in realtà non c’era dominavano pressapochismo e smania di notorietà. Tutta la mia storia e altre sono state pubblicate in un libro di un giornalista di sinistra che ha ricostruito i fatti secondo la sua logica.

La stampa ha dato un prezioso contributo!

Eh sì, si veda il di questo giornalista per capire quanto la stampa uccida più che la spada.

Perché tanta cattiveria?

La minoranza non ci dava pace, vedeva che il comune cominciava a funzionare e faceva di tutto per mettersi di traverso nei consigli comunali, sui giornali, denunce alla magistratura. Di tutto. Il motivo era che non si poteva permettere ad una giunta di destra di fare di più e meglio di una di sinistra con la Provincia e la Regione che remavano contro. Sempre la politica, anche quando non c’entra niente.

E ora? Ha avuto giustizia, anche se con ritardo!

Ripenso spesso al tempo della galera con nostalgia.

Davvero?

Non perché abbia voglia di riviverlo, giammai, ma perché l’amicizia con le mie compagne di cella e di tutte le donne senza voce è stata veramente toccante. Vorrei fare di più per loro, per quelle che non possono difendersi e non hanno un bagaglio di cultura e forza come il mio. Parlo anche di possibilità economiche. Il carcere annienta, non serve a riabilitarti.

Perché dice questo?

Una delle due compagne di cella quando è uscita non aveva da mangiare e dopo tre giorni si è dovuta prostituire. Poi tutto torna inevitabilmente come prima se non c’è nessuno che ti aiuta.

Sandra Maltinti, architetto, parla della sua esperienza in carcere. “La galera è un universo di donne urlanti, ma le loro voci giungono silenziose nel mondo, che non le può sentire, che ignora la loro esistenza: dura, giorno dopo giorno''. Anche lei ha provato ad urlare, e, soprattutto, ad invocare giustizia. Ma ha dovuto aspettare settantadue giorni perché la sua voce oltrepassasse il mondo impermeabile della galera. Alla fine, con i suoi mezzi, ci è riuscita. Ma poverette quelle che, come lei stessa dice, non hanno un bagaglio di cultura, forza e soldi. Dopo il carcere ingoiate in quell’inferno che ti porta di nuovo dentro. La testimonianza è di Sandra Maltinti, architetto, residente ad Empoli che, per errore, ha trascorso due mesi e mezzo nel carcere di Sollicciano. E’ stata arrestata con l’accusa di reati contro la pubblica amministrazione a Portoferraio. Da questa esperienza è venuto fuori un libro: “L’Isola che non c’è'' (Società editrice Fiorentina), che rappresenta “un atto dovuto alle compagne di cella- spiega Maltinti- e a se stessa''. Novanta pagine per non dimenticare e “per mettere a nudo le illusioni e i miti ingannevoli sul mondo che sopravvive dentro le mura del carcere, quel mondo parallelo che da fuori è proibito vedere e immaginare''.

Ma perché questo titolo? “L'isola che non c'è'- chiarisce- è il carcere, un altrove così vicino, ma nello stesso tempo lontano anni luce dal mondo normale, dove vigono altre leggi. Ma è anche l'isola d'Elba, un mondo a parte''. Maltinti ha lavorato per diverse amministrazioni comunali come dirigente dei settori di assetto del territorio. Arrestata il primo giugno del 2004, è stata protagonista di Elbopoli. “E tutto- scrive a pagina 54- per un presunto abuso edilizio…una denuncia di inizio di attività redatta da un tecnico…ci voleva la concessione, dice il consulente del Pubblico Ministero , o almeno un’autorizzazione comunale. Forse il consulente non era aggiornato sul fatto che la legge non prevedeva più l’autorizzazione, era stata abrogata e le modifiche interne agli edifici erano soggette a Denuncia di Inizio di Autorità, come era stato fatto''. Dunque, ingiustizia e sofferenza derivate da sciatteria, ignoranza? Anche se una ragione in realtà non c'era- replica Maltinti- dominavano solo pressappochismo e smania di notorietà! (il fine giustifica i mezzi!). Tutta la mia storia (e altre) sono state pubblicate in un libro che è uscito in questi giorni all'Elba di un giornalista (di sinistra) che ha ricostruito la vicenda dagli articoli di giornale. E’ sul sito camminando.org. Ritengo che sia significativo come la stampa uccida più che la spada. L’esperienza in carcere l’ha cambiata, ma di certo non le ha tolto la voglia di rialzarsi e riprovare. Anche se non è semplice. Quando non hai più niente- spiega- ad un tratto scopri quali sono le cose più importanti della vita: la famiglia, gli amici, quelli veri che sanno fin da principio che non può essere vero... il mio libro è dedicato a loro... a quelli che non ci hanno creduto. Il mio lavoro è perso. Non riesco più a trovare una pubblica amministrazione e un sindaco che credano veramente che era una balla, se uno è stato in galera una ragione ci sarà pur stata, dicono''. Ma solo errori e sciatteria? O c’è stato dell’altro? “La minoranza- scrive a pagine 51 del libro- non ci dava pace, vedeva che il comune cominciava a funzionare e faceva di tutto per mettersi di traverso…nei consigli comunali, sui giornali, denunce alla magistrature…di tutto…il motivo era che non si poteva permettere ad una giunta di destra di fare di più e meglio di una sinistra ..con la Provincia e la Regione che remavano contro…sempre la politica, anche quando non c’entra niente…E ora, quali saranno i suoi impegni? La politica? L'amministratore non l'ho mai fatto, anche se ho vissuto per più di venti anni nelle amministrazioni pubbliche, è solo un salto di barricata''. Conclude: “Ripenso al tempo della galera con nostalgia, non perché abbia voglia di riviverlo, giammai!, ma perché l'amicizia con le mie compagne di cella e di tutte le donne senza voce è stata veramente toccante. Vorrei fare di più per loro, per quelle che non possono difendersi e non hanno un bagaglio di cultura e di forza come il mio...(vorrei aggiungere possibilità economiche). Il carcere annienta, non serve a riabilitarsi. Una delle due compagne di cella quando è uscita non aveva da mangiare e dopo tre giorni si è dovuta prostituire. Poi tutto torna inevitabilmente come prima se non c'è nessuno che ti aiuta.

SONO INNOCENTE. GAETANO MURANA.

"Nell'inferno del carcere di Pianosa capii perché Scarantino mi accusava". Parla Gaetano Murana, in cella dal 18 luglio 1994 fino a quarantotto ore fa. "A Voghera ho lasciato l'infinita tristezza per una falsa verità che non mi apparteneva e una pentola con il sugo di carne fatto con le mie mani", scrive Romina Marceca il 29 ottobre 2011. Dal 18 luglio 1994 e fino a quarantotto ore fa è stato uno degli ergastolani accusati della strage di via d'Amelio. Ha attraversato l'inferno di Pianosa, che lui chiama la discoteca perché "si ballava dalla mattina alla sera per le sevizie", è rimasto in isolamento al 41 bis, ha perso il suo lavoro al Comune come spazzino, portando addosso il marchio di essere uno dei mafiosi che ha preparato l'attentato al giudice Borsellino. Gaetano Murana, scarcerato con altri cinque, compie 54 anni il 4 novembre: il suo primo compleanno da uomo libero dopo 18 anni in cella. Si racconta nella sua prima intervista. Ha il viso scavato, adesso porta gli occhiali e ha le mani gonfie e rosse di chi ha maneggiato tanti detersivi per tirare a lucido le troppe celle in cui ha vissuto. Al polso l'unico "souvenir" che gli ricorda gli anni trascorsi in galera: un orologio Swatch di plastica, l'unico ammesso.

Da dove cominciamo signor Murana, dall'inizio o dalla fine?

"La conclusione dei miei giorni in carcere è assolutamente la parte più bella. A Voghera ho lasciato l'infinita tristezza per una falsa verità che non mi apparteneva e una pentola con il sugo di carne fatto con le mie mani, che, senza offesa, è uno dei migliori che si siano mai assaggiati nelle celle italiane. E io di carceri ne ho girate ben 8 in diciotto anni. È andata così: stavo arriminannu il sugo per non farlo appigghiare quando un agente è entrato nella mia cella di Voghera. Mi ha portato in infermeria dal capoposto che mi ha chiesto quale fosse la mia residenza. Lì ho capito e mentre già piangevo è stato il capoposto a dirmi: "Lei è liberante". A quel punto i miei compagni mi hanno aiutato a fare le valigie. Anche loro piangevano. I vestiti, le scarpe, le tute da lavoro li ho donati ai più bisognosi. Quando la porta carraia si è chiusa alle mie spalle ho cominciato a tremare. Mi sono guardato attorno, ero confuso. Mi sono seduto su un gradino e ho cominciato a piangere tutte le mie lacrime".

Andiamo indietro di 18 anni, al giorno dell'arresto. Come andò?

"Ancora ci penso e in certi momenti sorrido amaramente. Bisogna partire dal giorno prima per capire. Era il 17 luglio. Stavo guardando la finale Italia-Brasile del campionato mondiale di calcio Usa 94, abbracciato a mia moglie. Eravamo sposini. Mio figlio, Giuseppe, era nato un anno e un mese prima. Nell'intervallo tra il primo e il secondo tempo l'annuncio che ha cambiato la mia vita. Il giornalista del tg diceva che un nuovo collaboratore di giustizia, Vincenzo Scarantino, stava raccontando fatti e misfatti sulla strage di via d'Amelio. Non dimenticherò mai la sua foto in televisione. È rimasta impressa nella mia memoria per tutti questi anni maledetti. Conosco Scarantino, abitava a 50 metri da casa mia. La mattina seguente sono stato arrestato mentre andavo al lavoro. Con la mia auto avevo fatto un'infrazione. Un'auto civetta mi ha subito bloccato. Credevo di ricevere una multa. I poliziotti mi dissero che avrei perso tre minuti. Ebbene, questi tre minuti sono durati 206 interminabili mesi e una manciata di ore. Quando alla squadra mobile mi hanno consegnato l'ordine di cattura per strage, ero stupefatto. Ho chiesto perché. I poliziotti mi hanno risposto: "Questo è un regalo che ci ha fatto Scarantino"".

Lei è stato accusato di avere "bonificato e sorvegliato" il luogo dell'attentato a Borsellino. Ed è finito al 41 bis, il carcere duro. Come ha resistito?

"Pianosa è quello che ha lasciato nella mia anima le ferite più profonde. Dopo l'arresto mi hanno portato nella sezione Agrippa, quella riaperta proprio per il 41 bis. Botte e sevizie, come hanno denunciato alcuni detenuti, erano all'ordine del giorno. Sono stato costretto a fare flessioni nudo per 3 anni, a subire violenza con l'uso del metal detector sui genitali. Ma non dimenticherò nemmeno i profilattici dentro alle minestre, il peperoncino nelle bevande, le sbarre battute a tutte le ore per tenerci svegli. Il 17 luglio del 1997 sono stato l'ultimo a lasciare Pianosa. Ma anche Caltanissetta è stato un altro posto da dimenticare. Mi rendo conto, adesso, che negli anni a tutte quelle botte mi ero quasi abituato".

Nel "Borsellino I" lei è stato assolto, e dal 2002 al 2005 è tornato in libertà. In appello poi è stato condannato all'ergastolo, pena confermata in Cassazione. Libertà a parte, cos'altro ha perduto in questi anni? 

"La crescita di mio figlio: l'ho rivisto e l'ho potuto toccare dopo i primi 5 anni di carcere. È stato un supplizio. Poi ho perso i migliori anni di matrimonio. Ero un ragazzo, adesso mi sento stanco e vecchio. Ho perso una sorella, morta di tumore e che non ho potuto salutare. E ho perso il lavoro. Adesso pretendo di nuovo il mio impiego al Comune.

Credo mi spetti, no?".

C'è stato qualcosa di buono, nonostante tutto, nella sua lunga carcerazione? 

"Nel 2009, finalmente, dopo una lunga battaglia con l'avvocato Rosalba Di Gregorio, ho ottenuto la revoca del carcere duro. Ho potuto riprendere gli studi. Mi sono iscritto a ragioneria: andrò al terzo anno . Poi ho approfondito la mia fede. Ho letto e riletto i libri su San Francesco. Sono diventato anche un uomo più riflessivo e vorrei dedicarmi al volontariato".

Qual è il primo desiderio esaudito da uomo libero?

"Mi sono fatto preparare un piatto di pasta con le sarde, la mia preferita".

Se avesse Scarantino davanti cosa gli direbbe?

"Nulla, lo saluterei. È una vittima come me. Credo che le sue false dichiarazioni sono il frutto dei terribili anni a Pianosa. Vorrei solo chiedergli una cosa: "Chi ti ha detto di fare il mio nome?"

Gaetano Murana ha 44 anni e ha trascorso un terzo della propria vita dietro le sbarre per le accuse di Vincenzo Scarantino, che lo indicava tra gli esecutori della strage di via D'Amelio. La nuova verità sul 19 luglio 1992 lo ha portato fuori dalla cella: "Un'esperienza che non dimenticherò mai".

"Diciotto anni da incubo in carcere. Ero giovane ora sono un vecchio". Il racconto di Gaetano Murana, 54 anni, un terzo della propria vita trascorsa dietro le sbarre con l'accusa di essere tra i responsabili della strage di via D'Amelio. Una detenzione dura, in regime di 41bis: "Non dimenticherò mai le violenze e le umiliazioni subite. Ho perso i migliori anni del mio matrimonio". E chiede: "Ora almeno ridatemi un lavoro". L'ultimo "errore giudiziario" della giustizia italiana, riconosciuto nell'ottobre scorso dalla Procura Generale di Caltanissetta, riguarda gli ex imputati della Strage di via D'Amelio del luglio del 1992. Tra di essi, c'è Gaetano Murana, 54 anni, che ne ha trascorsi 18 in cella, in regime di carcere duro (il cosiddetto "41 bis" previsto per i mafiosi). Quando, nell'ottobre scorso, ha saputo nel carcere di Voghera dov'era rinchiuso che era diventato un "liberante" (cioè scarcerato in attesa della revisione del processo che, fra alcuni anni, lo dichiarerà definitivamente innocente) ha pianto per ore ed ore. Con il "Venerdì di Repubblica" ha accettato di rievocare la sua odissea e l'inizio di quei 18 anni trascorsi in carcere, senza colpa. "Non smetto di pensarci e, in certi momenti, riesco persino a sorridere, ma con amarezza. Per capire, bisogna partire dal giorno precedente il mio arresto. Era il 17 luglio 1994 e stavo guardando in tv la finale di Italia-Brasile dei Mondiali di calcio negli Stati Uniti, abbracciato a mia moglie. Ci eravamo sposati da poco. Mio figlio, Giuseppe, era nato un anno e un mese prima. Nell'intervallo tra il primo e il secondo tempo, giunse la notizia che ha cambiato la mia vita. Il giornalista del telegiornale disse che un nuovo collaboratore di giustizia, Vincenzo Scarantino, stava raccontando fatti e misfatti sulla strage di via d'Amelio. Non dimenticherò mai la sua foto in televisione. È rimasta impressa nella mia memoria per tutti questi anni maledetti. La mattina seguente sono stato catturato mentre andavo al lavoro. Con la mia auto avevo fatto un'infrazione. Un'auto civetta mi ha subito bloccato. Credevo di ricevere una multa. I poliziotti mi dissero che avrei perso tre minuti. Ebbene, questi tre minuti sono durati 206 interminabili mesi e una manciata di ore. Quando alla squadra mobile mi hanno consegnato l'ordine di cattura per strage, ero stupefatto. Ho chiesto perché. I poliziotti mi hanno risposto: "Questo è un regalo che ci ha fatto Scarantino (il falso pentito, anche lui scarcerato, che lo aveva accusato ingiustamente)"". E gran parte di questa ingiusta detenzione per un errore giudiziario incredibile, Murana l'ha trascorsa in uno dei carceri più duri d'Italia. "Pianosa, il luogo che ha lasciato nella mia anima le ferite più profonde. Dopo l'arresto mi hanno portato nella sezione Agrippa, quella riaperta proprio per il 41 bis. Botte e sevizie, come hanno denunciato alcuni detenuti, erano all'ordine del giorno. Sono stato costretto a fare flessioni nudo per 3 anni, a subire violenza con l'uso del metal detector sui genitali. Ma non dimenticherò nemmeno i profilattici gettati nella minestra, il peperoncino nelle bevande, le sbarre battute a tutte le ore per tenerci svegli. Il 17 luglio del 1997 sono stato l'ultimo a lasciare Pianosa. Ma anche Caltanissetta è stato un altro posto da dimenticare. Mi rendo conto solo adesso, che negli anni, a tutte quelle botte mi ero quasi abituato. La sofferenza maggiore è stata la crescita di mio figlio. L'ho rivisto e l'ho potuto abbracciare solo dopo i primi 5 anni di carcere. È stato un supplizio. Così, ho anche perso i migliori anni di matrimonio. Ero un ragazzo, adesso mi sento stanco e vecchio. Ho perso una sorella, morta di tumore e che non ho potuto rivedere. E non ho più un lavoro: adesso pretendo di nuovo il mio impiego in Comune". Murana, in realtà, quel lavoro non c'è l'ha ancora ricevuto e meno che mai il risarcimento per l'errore che gli ha rubato 18 anni di vita. Bisognerà infatti attendere che si concluda il processo di revisione: in primo grado, in appello e, infine, in Cassazione. Quanti anni dovranno ancora passare?

Strage Borsellino, i boss accusati da Scarantino chiedono i danni allo Stato. Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana, Gaetano Scotto e Natale Gambino si sono costituiti parte civile nell’udienza preliminare del processo al questore Mario Bo, agli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, cioè i poliziotti che secondo la procura di Caltanissetta hanno diretto le false dichiarazioni di Scarantino: per questo motivo sono accusati di calunnia, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 29 agosto 2018. Un milione di euro come provvisionale, cioè l’anticipo sul risarcimento complessivo. I boss accusati dal falso pentito Vincenzo Scarantino di essere colpevoli della strage di via d’Amelio chiedono i danni allo Stato. Cosimo Vernengo, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana, Gaetano Scotto e Natale Gambino si sono costituiti parte civile nell’udienza preliminare del processo al questore Mario Bo, agli ispettori Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, cioè i poliziotti che secondo la procura di Caltanissetta hanno diretto le false dichiarazioni di Scarantino: per questo motivo sono accusati di calunnia. Il procedimento – come racconta l’edizione palermitana di Repubblica – comincerà il 20 settembre prossimo al tribunale nisseno e i boss anche citato come “responsabili civili” la presidenza del consiglio e il ministero dell’Interno: istanza accolta dal gip Francesco Lauricella. “L’udienza preliminare che si celebrerà è un primo importante passaggio ma come dice la sentenza del Borsellino quater, dietro Scarantino non c’è stato un mero errore giudiziario, bisogna piuttosto scoprire le ragioni del depistaggi”, dice a Repubblica l’avvocata Rosalba Di Gregorio, che insieme ai colleghi Giuseppe Scozzola e Giuseppe D’Acquì rappresenta le parti civili “La presenza del responsabile civile è un atto dovuto da parte di chi ritiene di aver subito un danno. Ma anche un atto dovuto da parte delle istituzioni che devono tutelare i propri uomini”, controreplica l’avvocato Nino Caleca, legale di Mario Bo, indagato per gli stessi fatti e che ha poi ottenuto l’archiviazione. Bo avrebbe “diretto” le operazioni di condizionamento del falso pentito Scarantino, mentre Mattei e Ribaudo – che ne curavano la sicurezza – i pm contestano di averlo imbeccato “studiando” insieme a lui le dichiarazioni che avrebbe dovuto rendere nel primo dei processi sulla strage per evitargli incongruenze e di averlo indotto a non ritrattare le menzogne già affermate. Non tutte le persone condannate sulla base delle dichiarazioni di Scarantino e poi assolte nel processo di revisione si sono costituite parte civile. Sono rimaste fuori dal processo, infatti,  Salvatore Profeta e Giuseppe Urso: sono entrambi nuovamente finiti in carcere per fatti di mafia. Quello contro i poliziotti è solo l’ultimo troncono d’indagine di una storia giudiziaria infinita. Nell’aprile del 2017 la corte d’assise di Caltanissetta, presieduta da Antonio Balsamo,  fa condannò all’ergastolo i boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, imputati di strage e a 10 anni i “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia. I giudici dichiararono estinto per prescrizione il reato contestato a Scarantino pure lui imputato di calunnia. Resta ancora oscuro, però, almeno il movente del depistaggio. Solo due anni fa i pm sostennero di non avere elementi idonei per sostenere il giudizio a carico di Bo e di due altri funzionari Salvo La Barbera e Vincenzo Ricciardi e il caso venne chiuso. Dopo l’archiviazione le indagini, però, sono ripartite e si sono arricchite di nuove dichiarazioni di Scarantino e della moglie. Entrambi hanno raccontato le pressioni e le violenze subite dal falso pentito da parte dei poliziotti che pretendevano confermasse le loro versioni. Nel nuovo fascicolo è finita anche parte dell’attività istruttoria svolta nel corso dell’ultimo processo per la strage in cui Bo venne sentito come teste non potendosi più avvalere, dopo la archiviazione della sua posizione, della facoltà di non rispondere. Nelle motivazioni del quarto processo per la strage Borsellino i giudici della corte d’Assise hanno scritto che quello sulla strage di via d’Amelio è stato “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”. “È lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento ad alcuni elementi”, scrive la corte quando parla di “soggetti inseriti nei suoi apparati” che indussero Scarantino a rendere false dichiarazioni. Ma quali erano le finalità di uno dei più clamoroso depistaggi della storia giudiziaria del Paese? si chiedono i giudici. La corte tenta di avanzare delle ipotesi: come la copertura della presenza di fonti rimaste occulte, “che viene evidenziata – scrivono i magistrati – dalla trasmissione ai finti collaboratori di giustizia di informazioni estranee al loro patrimonio conoscitivo ed in seguito rivelatesi oggettivamente rispondenti alla realtà”, e, sospetto ancor più inquietante, “l’occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra Cosa Nostra e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del magistrato”.

Via d’Amelio, Fiammetta Borsellino a Salvini: "Incredibile che il Viminale non sia parte civile al processo su depistaggio". La figlia del magistrato ucciso il 19 luglio del 1992 fa notare come il ministero dell'Interno non si sia costituito al processo ai tre poliziotti accusati di calunnia aggravata: "Il ministro non dovrebbe avere bisogno del mio appello per capire che si dovrebbero prendere delle posizioni chiare e precise anche nei confronti di dipendenti dello Stato", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 2 ottobre 2018. Il ministero dell’Interno non si è costituito parte civile al processo per il depistaggio delle prime indagini sulla strage di via d’Amelio. E a farlo a notare a Matteo Salvini è direttamente Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso il 19 luglio del 1992. “Ritengo assolutamente incredibile che il Viminale non sia parte civile di questo processo. Una cosa che ha rilevato anche lo stesso pubblico ministero è che questi funzionari dello Stato non solo hanno anche fatto delle carriere, ma attualmente ricoprono comunque il loro posto di lavoro”, ha detto la figlia Paolo Borsellino, a ‘Uno nessuno 100Milan’ in onda su Radio 24. Venerdì scorso il giudice per l’udienza preliminare, Graziella Luparello, ha rinviato a giudizio per calunnia aggravata tre poliziotti: Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. “Il ministro Salvini – continua Fiammetta Borsellino – non dovrebbe avere bisogno del mio appello per capire che si dovrebbero prendere delle posizioni chiare e precise anche nei confronti di dipendenti dello Stato, perché non ci possono essere dipendenti di serie A o di serie B. Io penso, e tutti noi lo sappiamo, che chiunque sbaglia in questo ordinamento è oggetto comunque di provvedimenti, anche di sospensione, e in questo caso secondo me sarebbe lecita una cosa del genere”. Per l’accusa i poliziotti – Bo era stato già indagato e archiviato – avrebbero confezionato una verità di comodo sulla fase preparatoria dell’attentato e costretto il falso pentito Vincenzo Scarantino a fare nomi e cognomi di persone innocenti. Un piano dal movente non definito, con un regista ormai morto: l‘ex capo della task force investigativa Arnaldo La Barbera, comprimari come Bo e “esecutori” come Ribaudo e Mattei. Un piano costato la condanna all’ergastolo a sette innocenti scagionati, una volta smascherate le menzogne, dal processo di revisione che si è celebrato e consluo a Catania il 13 luglio 2017.  La svolta nell’inchiesta della Procura di Caltanissetta, che dopo anni di inchieste e grazie alle rivelazioni del pentito Gaspare Spatuzza, è riuscita ad individuare i veri artefici della fase preparatoria della strage, era arrivata a ridosso dal deposito della sentenza emessa nel corso dell’ultimo processo per l’eccidio di Via D’Amelio e le cui motivazioni sono state depositate il 1 luglio scorso. Nel provvedimento di chiusura indagine, sette pagine, la procura nissena aveva ricostruito il presunto ruolo di Bo, Mattei e Ribaudo nel depistaggio. Bo, prima che Scarantino mostrasse la volontà di collaborare con la giustizia, seguita poi da mille ritrattazioni, gli avrebbe suggerito, anche mostrando le foto dei personaggi da accusare, cosa riferire all’autorità giudiziaria. E avrebbe fatto pressioni imbeccando Scarantino in modo che riconoscesse alcuni indagati, istruendolo sulla verità da fornire e facendogli superare le contraddizioni con le  versioni rese da altri due pentiti: Salvatore Candura e Francesco Andriotta. Un piano che, nonostante la palese inattendibilità di  Scarantino protagonista di mille ritrattazioni anche in sedi giudiziarie, aveva retto fino alla Cassazione e aveva  portato alla condanna ingiusta al carcere a vita di Salvatore Profeta, Gaetano Scotto, Cosimo Vernengo, Natale Gambino, Giuseppe La Mattina, Gaetano Murana  e Giuseppe Urso. Poi tutti scagionati. A Mattei e Ribaudo che curavano la sicurezza di Scarantino dopo il falso pentimento i pm contestano di averlo imbeccato “studiando” insieme a lui le dichiarazioni che avrebbe dovuto rendere nel primo dei processi sulla strage per evitargli incongruenze e di averlo indotto a non ritrattare le menzogne già affermate. Bo avrebbe “diretto” le operazioni  di condizionamento del pentito.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su "Panorama". Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...) La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Un errore da 10 milioni di euro, da ilSud. Dieci milioni di euro. A tanto, ma anche di più, potrebbe ammontare il risarcimento che lo Stato italiano potrebbe vedersi costretto a pagare per risarcire l’eventuale ingiusta condanna subita e patita dai sette imputati per la strage di via d’Amelio condannati all’ergastolo e per i quali si prospetta la revisione del processo. La stima è dell’avvocato Marzia Maniscalco, autrice de L’errore giudiziario e L’ingiusta detenzione nel Trattato dei nuovi danni pubblicato da Cedam nel 2011. Le risultanze delle nuove indagini codotte dal Procuratore, Sergio Lari, sulla strage che sconvolgerebbero le verità processuali fin qui passate in giudicato, sono al vaglio della Procuratore generale di Caltanissetta, Roberto Scarpinato, che si appresta a far partire un processo di revisione, davanti alla Corte d’appello di Catania (o Messina se i giudici etnei dovessero astenersi), per i sette condannati all’ergastolo per l’eccidio Borsellino. Si tratterebbe del più grave errore giudiziario della storia della giustizia italiana considerato il numero di soggetti coinvolti. A mettere a soqquadro le verità giudiziarie rese definitive dalla Cassazione, sono stati i nuovi collaboratori di giustizia, Gaspare Spatuzza e Frabio Tranchina che con i loro racconti hanno consentito di individuare nuovi responsabili evidenziando l’estraneità di altri già condannati all’ergastolo Le dichiarazioni dei nuovi pentiti smentiscono – pare anche con riscontri oggettivi – quelle dei collaboratori di giustizia Salvatore Candura, Francesco Andriotta e Vincenzo Scarantino (che peraltro hanno ritrattato) e forniscono una chiave di lettura diversa della fase esecutiva della strage del 19 luglio 1992 rispetto a quella prospettata in aula alle Corti giudicanti – sulla base delle dichiarazioni dei pentiti e delle risultanze dell’epoca – dai pm Carmelo Petralia, Annamaria Palma, Nino Di Matteo, e dai Pg Giovanna Romeo e Dolcino Favi (ma non dal Pg Roberto Sajeva). In sette adesso sperano di veder cancellata la loro condanna al carcere a vita per l’uccisione di Paolo Borsellino e dei cinque agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Cusina, Claudio Tarina. Si tratta di Salvatore Profeta, che l’ergastolo se lo è visto infliggere nel primo processo per la strage di via d’Amelio, e gli altri sei, Giuseppe La Mattina, Natale Gambino, Gaetano Scotto, Giuseppe Urso, Gaetano Murana e Cosimo Vernengo, che la condanna l’hanno ricevuta a conclusione del processo d’appello-bis. Fra i sette per i quali si prospetta la revisione del processo – il cui esito, ovviamente, non è scontato – tre erano incensurati prima dell’inizio di questa tormentata vicenda processuale: Murana, Urso e Vernengo. Il Pg nisseno potrebbe chiedere per loro – e per gli altri quattro – la cancellazione solo dell’ergastolo per la strage ma non di quella per associazione mafiosa. In tal caso, gli avvocati Rosalba Di Gregorio, Giuseppe Dacquì e Pino Scozzola che li assistono, hanno già pronta la richiesta di revisione anche per quest’ultimo reato. Da “forse innocente”, Gaetano Murana, 53 anni, al primo ottobre scorso ha trascorso in carcere, complessivamente, 4724 giorni. Venne arrestato il 18 luglio del 1994 e poi scarcerato il 13 febbraio del 1999 (dopo ben 1671 giorni trascorsi al 41bis fra Pianosa e l’Asinara, così come tutti gli altri im-putati) con la sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta che lo ha assolveva per la strage, ma gli infliggeva 8 anni per associazione mafiosa. «Figlio di un pescatore, faceva lo spazzino all’Amia. Per via del processo – dice l’avvocato Rosalba Di Gregorio che lo assiste – è stato prima sospeso e poi licenziato. Ricordo che quando venne assolto in primo grado tornò in servizio e il primo incarico che gli diedero fu quello di andare a spazzare davanti all’Ucciardone». Murana dopo la sentenza con la quale i giudici d’appello lo condannarono all’ergastolo, il 18 marzo del 2002, si presentò spontaneamente in carcere. Con lui, adesso, sperano nel buon esito della revisione la moglie ed il figlio che quando il padre venne arrestato per la prima volta aveva appena 2 mesi. Giuseppe Franco Urso ha 52 anni ed in carcere, complessivamente, ha trascorso 4724 giorni (sempre al primo ottobre scorso). È stato arrestato il 18 luglio del 1994 e poi scarcerato il 13 febbraio del 1999 con la sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta che lo assolveva per la strage, ma gli infliggeva 10 anni per associazione mafiosa. Cugino di Francesco Marino Mannoia, al maxi processo, Franco Urso era stato peraltro assolto dal reato di associazione mafiosa. Quando il 18 marzo del 2002 i giudici d’appello lo condannarono all’ergastolo per via D’Amelio, si rese irreperibile fino al 23 maggio del 2003. Cognato di Cosimo Vernengo, gestiva con la sorella una rivendita di vini nella zona di ponte dell’Ammiraglio a Palermo che, oggi, non c’è più. Cosimo Vernengo, 47 anni, ha trascorso in carcere 4346 giorni. È stato arrestato il 18 luglio del 1994 e poi scarcerato il 13 febbraio del 1999 con la sentenza della Corte d’assise di Caltanissetta che lo ha assolveva per la strage ma gli infliggeva 10 anni per associazione mafiosa. Quando il 18 marzo del 2002 i giudici d’appello lo condannarono all’ergastolo si rese irreperibile fino 6 marzo del 2004. Figlio del boss Pietro Vernengo, Cosimo è sposato ed è padre di tre figli. Prima dell’inizio di questa vicenda aveva una impresa di rimessaggio barche che ora non c’è più. «Tenendo conto della notevole durata di restrizione subita, accompagnata dalle incisive modalità di esecuzione, nonché alle conseguenze personali e familiari che ineriscono alla salute ed ai pregiudizi lavorativi e affettivi – dice a il Sud l’avvocato Maniscalco a proposito delle posizioni dei tre incensurati – pur ritenendo che attribuire alla libertà lo stesso valore per tutti sia solo formalmente ed in apparenza rispettoso del principio di uguaglianza – portando, invero, ad una inaccettabile omologazione delle persone, quali individui privi di individualità – non si crede, comunque, potrà scendersi al di sotto della soglia base di un milione e duecentomila euro cadauno, prospettandosi importanti aggiustamenti, anche sino al doppio, sulla scorta delle allegazioni delle parti e senza considerare gli eventuali pregiudizi di tipo patrimoniale da demandarsi, nel caso di cessione di attività imprenditoriale, alla stima di un perito». Il record, per così dire, di detenzione “ingiusta” spetta (calcolando sempre come giorno ultimo il primo ottobre 2011) a Salvatore Profeta, cognato del pentito Vincenzo Scarantino. Arrestato il 9 ottobre del 1993 e condannato all’ergastolo nel primo processo per la strage in tutti i gradi di giudizio, Salvatore Profeta ha già trascorso in cella 6566 giorni. Profeta, però, così come Gaetano Scotto, Giuseppe La Mattina e Natale Gambino aveva altre pendenze con la giustizia, anche se, tutte, abbondantemente scontate. La revisione del processo potrebbe essere chiesta pure per l’ex pentito Vincenzo Scarantino, il “picciotto” della Guadagna che ha dato il via ad una vicenda giudiziaria oscura sotto molteplici aspetti, ed ha subito una condanna a 18 anni di reclusione con una sentenza di primo grado curiosamente non appellata. (da ilSud)

SONO INNOCENTE. GIUSEPPE SILLITTI.

News, chi è il Maresciallo assolto accusato di favorire clan mafiosi: il servizio di Pecoraro (Le Iene Show, oggi 28 aprile 2016). Giuseppe Sillitti, il maresciallo accusato nel 2012 di favorire i clan mafiosi, assolto perché il fatto non sussiste. Oggi a Le Iene l’incontro con Gaetano Pecorario e il carabiniere, scrive il 28.04.2016 "Il Sussidiario". A Le Iene Show si è da poco parlato del caso di Giuseppe Sillitti Maresciallo accusato di favorire alcuni clan mafiosi tre anni fa. L’inviato Gaetano Pecoraro si è recato a intervistare proprio Giuseppe Sillitti andando a cercare di capire quello che è successo a quest’uomo. Su Twitter proprio la Iena ha pubblicato un tweet legato proprio al servizio con scritto: “In Italia un carabiniere può finire in carcere sulla base di accuse strampalate che poi alla fine cadono dopo appena pochi giorni #LeIene”, clicca qui per la foto e per i tweet dei follower. Questa sera il caso di Giuseppe Sillitti viene raccontato nella nuova puntata de Le Iene Show: il maresciallo accusato e poi scagionato tre anni fa per accuse infamanti di concorso e favoreggiamento di clan mafiosi pugliese, racconta la sua storia alla Iena Gaetano Pecoraro con i vari dettagli dell’inchiesta incredibile e l’intero iter del processo che lo ha visto alla sbarra assieme a tre colleghi carabinieri. Come racconta il Giornale di Sicilia dell’epoca dei fatti, il processo ha avuto fin da subito molte sorprese: presunte vittime di pizzo hanno finito per gettare ombre sull’operato degli inquirenti, come se avessero subito in qualche modo “pressioni” per rivelare alcuni nomi, come quello di Silitti ad esempio. Sentite il caso di un testimone, un ristoratore Vincenzo De Santis, sempre sul quotidiano siciliano: «MI hanno chiamato in Procura e mi hanno tenuto lì sei ore, mi hanno quasi trattato come se fossi un delinquente e mi hanno detto che se non avessi fatto i nomi mi avrebbero arrestato». Testimonianze come queste sono state decisive durante il processo per arrivare alla completa assoluzione del maresciallo che questa sera racconterà nello specifico. Nella puntata di oggi a Le Iene Show si torna sul caso di Giuseppe Sillitti, un maresciallo dei carabinieri che nel 2012 fu protagonista di un increscioso fatto di malagiustizia, o quantomeno di una giustizia che ha funzionato nel uso ultimo grado di giudizio. Originario di Caltanissetta, nel 20120 fu accusato assieme a tre colleghi e poi arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione per delinquere, estorsioni e favoreggiamenti. In sostanza, la procura di Foggia che ha indagato sul caso, accusava Giuseppe Sillitti e i tre colleghi, di depistare le indagini sul clan mafioso dei Cenicola Riggi di Lucera, nel Foggiano. Dopo circa un mese di detenzione, la misura carceraria però è stata annullata per totale insussistenza di gravi indizi di colpevolezza. Anche i processi successivi hanno assolto completamente i quattro imputati, con l’appello che ha assolto tutti gli imputati dell’Arma perché il fatto non sussiste. Verdetto a suo modo clamoroso dopo che è stato demolito l’impianto accusatorio della procura che voleva il favoreggiamento mafioso di Giuseppe Sillitti e dei colleghi carabinieri. Da allora il maresciallo non solo è tornato a vestire la divisa dell’arma ma attualmente presta servizio come vicecomandante della Stazione Carabinieri di Foggia: oltre a ribadire la propria innocenza, il maresciallo oggi racconta alla Iena Gaetano Pecorario come secondo lui si sarebbero svolti i fatti. La Iena poi si recherà dal pubblico ministero che sviluppò l’indagine per avere spiegazioni in merito. All’epoca dell’assoluzione in appello, parlò per conto dI Giuseppe Sillitti il suo avvocato, Giacomo Grasso che sul Giornale di Sicilia dichiarò «È una sentenza che non ci sorprende, frutto di un’accusa infamante quanto evanescente sostenuta con prove antefatte dalla Procura di Lucera. È un riscatto social per il maresciallo Sillitti e i suoi colleghi che hanno lavorato a Lucera, contrastando duramente il crimine in questi anni, non favorendolo».

Le Iene ed il pm Marangelli. Il carabiniere Sillitti replica all’ ANM e conferma: “Il pm mi ordinò una rapina a mano armata”, scrive il 14 maggio 2016 "Il Corriere del Giorno". Il pm Alessio Marangelli, stando a quanto riportato durante la trasmissione Mediaset su Italia Uno, si sarebbe accanito contro alcuni carabinieri per semplice ripicca. Una vicenda che ha scatenato l’immediata replica dell’Associazione Nazionale Magistrati che a Foggia è presieduta da Antonio Buccaro. Dopo l’intervento dell’Anm che ha preso le difese del pm Marangelli accusando “Le Iene” di cattiva informazione, ecco l’immediata precisazione e replica all’ ANM di Foggia, da parte del maresciallo Giuseppe Sillitti dell’Arma dei Carabinieri, accusato dal pm di avere legami con il “clan lucerino” dei Cenicola-Ricci e persino incaricato dal magistrato di commettere una rapina. “Ho letto ed appreso, con sommo rammarico ed enorme stupore, la nota della A.N.M. (Associazione Nazionale Magistrati) – sottosezione di Foggia, del 09.05.2016, a firma del suo sig. Presidente, rilasciato all’indomani del servizio giornalistico realizzato da “Le Iene” (noto programma Mediaset), ed avente il seguente titolo: “Magistrati foggiani contro Le Iene, scontro sul caso del pm Marangelli.  Cattiva informazione”; ed ancora: “Buccaro: “‘Le Iene’ su Marangelli, chiarimenti non riportati nel servizio”.   Si esordiva stigmatizzando le modalità improprie della intervista televisiva realizzata, nonché “…l’intollerabile denigrazione mediatica a cui è stato sottoposto il collega (Alessio Marangelli) per l’attività svolta nell’esercizio delle sue funzioni…”.   In buona sostanza, si accusava quella trasmissione televisiva di aver operato cattiva informazione e, soprattutto, per aver arrecato un “grave danno alla credibilità della funzione giudiziaria”.   Si dichiarava, altresì, di essere stati autorizzati dall’assemblea a diffondere il testo a tutte le primarie testate giornalistiche locali, esprimendo solidarietà al collega, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Foggia. Il testo così diramato impone una replica, e la farò contestando, punto per punto, le asserzioni rilasciate in quel comunicato.   Vorrei dire (e dico) all’A.N.M. di Foggia e, per essa, al suo ill.mo sig. Presidente, che prima ancora di esprimere supina solidarietà al Collega per aver “subito” una intervista (certamente forte ed imbarazzante, ma decisamente vera e comprovata testualmente da una miriade di provvedimenti giudiziari), sarebbe forse il caso di leggere meglio, e con estrema attenzione, tutte le risultanze documentali pervenute alle mani degli intervistatori, altrimenti si corre davvero il rischio di fornire una “cattiva informazione”. E sarebbe pure il caso di ricordare – così, solo perché mi viene in mente in questo momento – che proprio a causa delle “discutibili” modalità investigative seguite dal dott. Marangelli (definite da un provvedimento giudiziario “…a dir poco, poco ortodosse”), io ho patito la più terribile ed umiliante delle misure: la detenzione in carcere, con isolamento diurno e notturno!   So già che Lei avrà risposta facile sul punto: “E allora? …è stato assolto da ogni accusa e scarcerato.   Son felice per lei. Tutto è bene quel che finisce bene”. Eh no, dott. Buccaro (a Lei mi rivolgo nelle specifiche funzioni di Presidente ANM di Foggia, e quale firmatario della nota indirizzata ai giornali), proprio non può licenziarmi in questo modo.   Non so per quale ragione ma “una stretta di mano” finale proprio non mi soddisfa.   Non mi appaga.   Non mi ristora.   Sono convinto del fatto che anche una sola ora di libertà, sottratta ad un innocente, rappresenta il più grave, il più incivile, il più crudele ed il più malvagio dei torti che possa infliggersi a qualunque essere umano.   Qui è il senso generale di Giustizia (e non soltanto il mio, mi creda) che viene ferito, sfregiato, trafitto a morte, specie quando – ottenuta la mia sacrosanta libertà – ho constatato quali e quante violazioni (in danno della Legge, prima ancora che in mio danno diretto) sono state perpetrate dal suo Collega, dott. Marangelli, verso il quale si riversa così tanta incondizionata solidarietà. Innanzitutto, è opportuno rilasciare un dato di fatto storico: io ed i miei colleghi, ingiustamente colpiti da ordinanza di custodia cautelare in carcere, siamo stati definitivamente assolti con sentenza passata in giudicato.   E se è lecito, ed anzi doveroso, commentare la sentenza totalmente assolutoria e restitutiva della mia/nostra dignità violata(ricordo che sono un maresciallo dei Carabinieri, con pluriennale anzianità di servizio ed innumerevoli encomi), mi pare un inopportuno “fuor d’opera”, mi sia consentito, parlare al di fuori delle sedi opportune di casi giudiziari ancora aperti, come quello del sig. De Fantis Vincenzo (al quale egli fa esplicito riferimento, così rivelando i procedimenti penali contro di lui pendenti presso il Tribunale di Lecce). E se, per puro amore di giustizia, la inviterei (contrariamente a quanto scriverò per il dott. Marangelli) ad attendere gli esiti giudiziali definitivi prima di commentare – a favore o contro qualcuno – i procedimenti penali in corso di svolgimento, era forse obbligatorio, e maggiormente consentito, commentare i provvedimenti “definitivi” (vedi sentenza Corte di Assise di Appello di Bari, passata in giudicato), che proprio in relazione al sig. De Fantis così testualmente si esprimeva: “…il De Fantis ha descritto un clima caratterizzato da palpabile tensione e da forti pressioni che, andate al di là del ragionevolmente ammissibile, erano finalizzate ad ottenere da lui una conferma di quella che era solo una convinzione degli inquirenti…una esperienza scioccante…non può ritenersi che la sua audizione avvenne in un contesto sereno e tale da garantire la genuinità delle dichiarazioni nell’occasione rese…trovando un oggettivo addentellato in innegabili anomalie del verbale di dichiarazioni in esame…Va innanzitutto evidenziato che il verbale di dichiarazioni del De Fantis risulta redatto nella data del 9 agosto 2011 e che la data così indicata non può essere rispondente alla realtà…quel che rileva è che si è in presenza di un verbale di dichiarazioni di cui non è neppure certa la data di formazione e non vi è dubbio che tale anomalia sia sintomatica di un modo poco ortodosso di conduzione dell’audizione del teste… – e quanto ai verbalizzanti che si dicono presenti e non firmarono il verbale si scrive – si è anche in questo caso in presenza di una anomalia che, di difficile comprensione, è però indicativa di modalità di conduzione dell’esame poco ortodosse…le evidenti anomalie ravvisabili nel verbale di dichiarazioni in esame, in uno all’abnorme tempo occorso per la sua redazione delineano un contesto connotato da innegabile tensione e rendono tutt’altro che inverosimile la verificazione della situazione descritta in dibattimento dal De Fantis…”. Ma aspetti dott. Buccaro, perché non ho ancora terminato.    Per dovere di cronaca, che assai poco efficacemente si tenta di ristabilire con la nota dell’ANM di Foggia, è opportuno che si sappia che pure il De Fantis ebbe a denunciare il dott. Marangelli, ed il documento posto a base della sua denuncia (un verbale di sommarie informazioni testimoniali a sua firma), recava evidenti e visibilissime anomalie (soggetti di cui si attestava presenza ma non firmatari del verbale, orari e date sicuramente infedeli, equivoche e “poco ortodosse” modalità di escussione), e tali numerosissime “anomalie” non mancarono di essere notate dalla Corte di Assise di Appello di Bari che, sempre per dovere di corretta informazione, commentava testualmente come sopra riportato.   Ed è pure giusto che lei sappia, egr. dott. Buccaro, che a differenza del sig. De Fantis (che, per quanto scritto sopra, risponderà più che agevolmente alle contestazioni elevategli in quel di Lecce), vi sono provvedimenti giudiziali (quelli sì definitivi!) che, invece, hanno interessato il suo Collega, dott. Marangelli, proprio presso il Tribunale di Lecce, e che di fatto spietatamente contraddicono la sua nota di solidarietà. Già perché di lui, il g.i.p. di quel Tribunale (in un tema così caldamente affrontato dalla A.N.M. di Foggia, ovvero, l’ordine impartito dal dott. Marangelli a fare una rapina a mano armata in danno di un privato cittadino!), così si esprime testualmente: “…sulla veridicità della descrizione dei fatti offerta dal m.llo Sillitti e dal Ten. Pozone non vi sono ragioni per dubitare, atteso che, nonostante l’apparente negazione dei fatti ad opera del dott. Marangelli…è lo stesso contenuto del decreto da lui sottoscritto che (sebbene con una formula meno eclatante) conferma quali fossero le azioni (illecite sia pur in forma simulata) che il magistrato aveva ordinato verbalmente e, poi, in forma scritta di compiere ai militari dei carabinieri…è evidente che nel caso di specie l’ordine dato dal dott. Marangelli esorbitasse dai confini tracciati con le massime della Suprema Corte sopra riportate. Quanto in concreto è avvenuto e sopra nel dettaglio descritto (oggetto delle specifiche doglianze del m.llo Sillitti) vale a dire l’ordine di compiere una (finta) rapina per poter disporre della vettura dell’indagato al fine di installarvi una microspia, certamente delinea un ordine non legittimo (e che, quindi, correttamente i militari non eseguivano)…deve ordinarsi l’archiviazione del procedimento con riferimento alla posizione del dott. Marangelli Alessio, la cui condotta certamente non conforme ai crismi della legittimità andrà valutata in altra sede…”. Non solo.   Mi si perdoni se sottolineo il fatto che, oltre allo scrivente, anche un Ufficiale dei Carabinieri, ascoltato alla pubblica udienza dibattimentale del 07.05.2013, ebbe a confermare l’ordine altamente ILLEGALE ricevuto da quel p.m.,prima a voce (in termini esatti di “rapina”) e poi per iscritto, sicchè l’affermazione contenuta nella nota dell’ANM di Foggia (…la delega ‘incriminata’, a firma di esso dott. Marangelli, assolutamente non prevedeva alcuna “autorizzazione alla rapina”…), non solo è palesemente contraddetta dalle risultanze del pubblico dibattimento penale, oramai caduto in giudicato e sul cui esito non è più lecito avere riserve, ma è pure smentita dal tenore testuale della delega scritta in cui si legge testualmente quanto segue: “…dispone l’intercettazione delle conversazioni o comunicazioni che intercorreranno all’interno dell’autovettura XXYY con installazione di apparato di rilevazione satellitare di posizione e con autorizzazione a compiere ogni atto che si renda necessario all’installazione degli apparati tecnici e, in particolare, a simulare l’illecita sottrazione dell’auto all’indagato ed il successivo rinvenimento della stessa”. E mi si perdoni ancora se, sul punto, mi sembra un pò zoppicante la debole osservazione rilasciata dall’ANM di Foggia che quella delega non conteneva, esattamente, un ordine alla rapina (come se fosse decisivo il termine utilizzato da quel p.m.?!), ma una intimazione assai più vasta – e per questo ben più illegale e pericolosa! – a compiere qualsiasi atto illecito (e dunque, anche una rapina! E perché non un furto? E perché non una “gambizzazione”? Un’aggressione? Un atto intimidatorio?). Ma quale differenza può mai fare, secondo lei, sul piano giuridico, se non esclusivamente etico e morale?!?   E su tale circostanza stimolo una banale considerazione: e se quell’ordine illecito (quello, cioè, che il dott. Marangelli si ostina a sostenere di non aver mai impartito), fosse stato effettivamente eseguito?   Cosa sarebbe potuto accadere?   E se si fosse scatenato un conflitto a fuoco per reazione?   Chi ne avrebbe giudizialmente risposto?   Cosa avremmo potuto dire alla vittima?   Me lo ha ordinato il dott. Marangelli?!   E se si fossero manifestate complicanze esecutive?   Come si sarebbe potuto spiegare un tale abominio commesso da Tutori dell’Ordine ai danni di un privato cittadino??   Non si vorrà davvero sostenere che “il fine giustifica i mezzi”?!? Veda, dott. Buccaro, io sollecito tali interrogativi poiché, con lei, condivido la necessità di fornire la più esatta ed obiettiva informazione ai mezzi di stampa, considerando tutti (ma proprio tutti) i dati documentali raccolti nella tristissima vicenda che mi ha direttamente colpito, anche quelli più scomodi ed imbarazzanti per il suo Collega, ma pur sempre veri, e ben capaci di far percepire ai lettori la realtà dei fatti narrati, e non soltanto un accorato e “solidale abbraccio” nei confronti di chi, di tali fatti, si è reso incontrovertibile autore.   Beninteso, probabilmente anche io, al suo posto, avrei espresso la stessa “piena solidarietà” al Collega raggiunto da arrembanti ed invasivi intervistatori, ma da qui a scendere in particolari di merito della vicenda di cui, all’evidenza, conosce la sola versione del dott. Marangelli, ce ne passa. E molto. Ed è pure giusto che si sappia che la gravità della vicenda giudiziaria da me patita è salita agli onori dell’attenzione governativa, con ben due interrogazioni parlamentari all’indirizzo del Ministro di Giustizia e degli Interni, oltre a numerose segnalazioni al C.S.M. ed alla Procura Generale presso la Corte di Cassazione, e che il dott. Marangelli è stato più volte denunciato (dal momento che proprio si deve parlare anche dei procedimenti penali in corso) per una moltitudine di reati, che vanno dalla istigazione a delinquere alla calunnia, dalla intercettazione abusiva al falso ideologico e materiale in atto pubblico, dall’abuso in atti di ufficio al sequestro di persona, ma debbo constatare, mio malgrado, che solo delle pendenze del De Fantis si è inteso parlare, ma non anche di quelle (e sono tante) del dott. Marangelli. E quanto alla “intollerabile denigrazione mediatica” presuntivamente patita dal suo collega a causa del servizio televisivo andato in onda su Italia 1, è appena il caso di ricordarle che il sottoscritto ed i suoi tre colleghi dell’Arma, all’indomani del proprio arresto, furono mediaticamente esposti alla feroce ed incontrollata “gogna mediatica” sollecitata, proprio, dal dott. Marangelli e dalle sue non più numerabili conferenze-stampa (se la memoria non m’inganna ebbi modo di contarne circa 18!), oltre ai servizi televisivi nazionali, net journal e quotidiani di levatura nazionale, sicchè – mi perdoni – ma proprio non riesco a provare solidarietà per chi, proprio col mezzo dei mass media (che oggi, paradossalmente, gli si ritorcono contro), disintegrò reiteratamente e senza alcuna umana compassione il mio onore, quello dei miei familiari e quello di tutti i miei amici più sinceri. Per me ha un valore enorme, mi creda, il doveroso (e decoroso) silenzio degli inquirenti sull’esito delle proprie indagini – e son sicuro che lei è d’accordo con me – e trovo che non ci sia alcuna moralità nel divulgare le “spoglie” degli arrestati al pasto osceno di tv e giornali prima ancora di un giudizio, prima ancora di una sentenza, e con inviti pubblici, addirittura, a costituirsi parte civile contro i carabinieri (pensi che il dott. Marangelli invitava a tanto il Comune di Lucera!).   Ma è proprio quello che è accaduto a me, e per dovere di cronaca e di corretta informazione, dott. Buccaro, è giusto che si sappia. Quanto alle omissioni informative che, a dire del dott. Marangelli, sono state realizzate in suo danno dagli intervistatori, vorrei sottolineare che anche le mie rivelazioni (benchè tutte dettagliatamente documentate), sono state enormemente “tagliate” e sfoltite dalla originaria intervista dedicatami poiché, mi dissero i giornalisti, non ci sarebbe stato spazio sufficiente per poter illustrare tutti i numerosi dettagli che andavo terribilmente dipanando, e che vi sarebbero state altre occasioni per narrare ogni particolare. Sul punto, dal momento che sono arcisicuro delle oscure e documentate verità che ho solo in parte narrato ai giornalisti, e visto che gli stessi (ed altri) han già promesso di tornare sul grave fatto di cronaca e renderne doverosa informazione, abdicherò il mio intero spazio televisivo in favore del dott. Marangelli che, in tal modo, avrà tutto il modo per spiegare dove, come ed in quale punto di quella intervista de “Le Iene” è stato affermato del falso o si è fornita ai telespettatori una “cattiva informazione”, ma sono più che persuaso del fatto che le solide ed incelabili prove documentali in mio possesso (ed in possesso degli intervistatori), daranno più d’un problema al dott. Marangelli in tema di oggettiva e semplice sua credibilità. Quanto al momento del mio arresto rispetto all’ordine illegale di effettuare una rapina, mi preme di evidenziare (giusto perché anche questo s’è scritto nella nota dell’ANM di Foggia), che io non ho mai sostenuto nella rilasciata intervista di essere stato raggiunto da ordinanza cautelare dopo tre mesi dal detto ordine illegale (questa fu una deduzione dell’intervistatore), ma è un dato oggettivo constatare – e chi mi legge sa bene la gravità di questo fatto – che la mia utenza cellulare, proprio dopo tre mesi, venne sottoposta ad intercettazione senza alcun presupposto legale e che, per tale fatto, il dott. Marangelli è stato pure formalmente denunciato presso la Procura della Repubblica di Lecce presso cui ancora pendono specifiche indagini. Esorto, pertanto, ad astenersi per il futuro dal rilasciare commenti o note che si propongono l’aspettativa di chiarire, ma che nulla chiariscono, o di criticare le oggettive risultanze documentali al di fuori degli ambiti giurisdizionali, emerse ed emergende nelle interviste o nei programmi televisivi nazionali che vogliano prestarne il più lecito interesse. A tale scopo, e nella solida onestà che mi caratterizza, voglio preannunciare che mi rivolgerò anche alla A.N.M. Sede Nazionale per chiedere un parere circa l’opportunità della sua Sottosezione di Foggia di fornire alle stampe un comunicato come quello oggetto della presente replica o se, invero, sia passibile di reprimenda una tale “presa di posizione” e “discesa nel merito”. È ovvio che sarà mia cura fornire, a chi voglia davvero leggerli, tutti i documenti di cui dispongo e ben abili a far intendere quanto è realmente avvenuto. Nessun intervento, individuale o di categoria, riuscirà mai nell’obiettivo che mi sono ufficialmente posto:  la discoperta e la divulgazione della verità, per quanto amara ed indigesta possa a molti sembrare.   Null’altro.   E non nego che mi aspettavo, francamente, piena solidarietà alla mia persona ed alla mia angosciosa vicenda (che, dalla sua, possiede l’incontrovertibile forza dei documenti, delle sentenze e dei provvedimenti), e non il compatto schieramento dall’altro, più debole ed assai meno documentato, fronte opposto.   Ma non fa nulla. Non mi abbatto, non mi ammutolisco. Anzi mi rafforzo, e di sicuro mi propongo – magari illudendomi – di sensibilizzare l’attenzione di tutti dinanzi alle Ingiustizie ed alle Illegalità che possono spietatamente colpire chiunque. Senza motivo. Senza pietà. Senza preavviso. D’altronde, prestai giuramento di fedeltà alla Repubblica Italiana e alle sue Leggi, ed oggi sono ancora più convinto che per prestare onore a quel sacro impegno non posso, non voglio,non debbo desistere, nonostante le avversità e le atroci delusioni ricevute.

SONO INNOCENTE. PIO DEL GAUDIO.

«Io, ex sindaco finito in carcere da innocente: la mia vita distrutta», scrive Marilù Musto Venerdì 27 Gennaio 2017 su Il Mattino. «Io rispondo alla mia coscienza». Inizia così il lungo sfogo dell'ex sindaco della città di Caserta, Pio Del Gaudio, eletto nel 2011 e arrestato il 14 luglio del 2015 nell'operazione della Dda di Napoli «Medea». Ieri, dopo un anno e mezzo di indagini sul suo conto, il gip di Napoli ha deciso di archiviare il caso. Pesanti le accuse contestate e poi ritirate dalla Procura: corruzione e finanziamento illecito ai partiti in campagna elettorale con l'aggravante di aver agevolato il clan dei Casalesi negli appalti. Accuse cadute prima al Riesame e poi in Cassazione, dove i giudici hanno demolito la prima ordinanza emessa a luglio del 2015. «Sapevo di non aver fatto nulla - dice ancora Del Gaudio - mi ha fatto male vedere mio figlio scegliere di partecipare alla selezione universitaria per Medicina solo al Nord, che ha poi superato. Ho pianto da solo a casa, senza farmi vedere da nessuno in questi anni, nemmeno da mia moglie. Ho perso un mio amico e collega che un giorno mi disse: scusami, ma tu sei seguito dai carabinieri, noi non possiamo camminare insieme. Alcune deleghe mi sono state ritirate. In carcere però ho scoperto la solidarietà umana, la vicinanza del mio amico di cella, Mirko, e degli altri detenuti che mi dicevano: ma tu cosa ci fai qui? Ora ringrazio i miei avvocati, Dezio Ferraro e Giueppe Stellato». «È finito un incubo», dice ancora sollevato Del Gaudio. «La mia fortuna - conclude - è che nel mio caso i magistrati sono stati molto veloci, decidendo in un anno e mezzo, ma penso alle tante persone accusate ingiustamente, specie a quelle che sono in carcere, ma che non hanno la possibilità di difendersi. Voglio battermi per loro. Non ce l’ho con i magistrati, fanno il loro lavoro, ma dico che prima di arrestare qualcuno bisogna pensarci molto bene. Questa indagine ha rovinato la mia vita personale e professionale; faccio il commercialista e il mio studio, dopo il mio arresto, ha avuto un crollo. La cosa positiva è che quasi tutta la città già mi aveva assolto. Per ora non penso però a tornare in politica, e soprattutto non in questa politica dove non contano il merito e la competenza».

ASSOLTO PIO DEL GAUDIO …Non È CAMORRISTA! Scrive il 26 Gennaio 2017 Caserta Keste. Il Gip di Napoli Egle Pilla ha prosciolto dall’accusa di corruzione e finanziamento illecito ai partiti, con l’aggravante mafiosa, l’ex sindaco di Caserta Pio Del Gaudio (Fi), arrestato nel luglio del 2015 nell’ambito dell’indagine della Dda partenopea “Medea”, sulle infiltrazioni e i condizionamenti del clan Zagaria negli appalti concessi da amministrazioni pubbliche. Pio Del Gaudio, accusato di aver intascato prima delle elezioni comunali del 2011, poi vinte, 30mila euro dall’imprenditore Pino Fontana, ritenuto vicino al clan Zagaria, restò in carcere per 14 giorni. Allora fece scalpore il fatto che per arrestare Del Gaudio, che in quel momento non occupava più da un mese la carica di sindaco, fosse stato utilizzato dai carabinieri un elicottero con cui sorvolare la sua abitazione. Nelle scorse settimane, la Dda di Napoli sostituti Alessandro D’Alessio e Maurizio Giordano, aveva notificato a Del Gaudio l’avviso di conclusione indagini, ma poi in seguito agli elementi a discarico presentati dal legale dell’ex sindaco, Dezio Ferraro, ha deciso di richiedere l’archiviazione, accolta oggi dal Gip. “È finito un incubo”, dice sollevato Del Gaudio. ” e scrive sulla sua pagina facebook:

DUE ANNI D’INFERNO. FINALMENTE I GIUDICI HANNO CAPITO. PENSO AI TANTI CONDANNATI O DETENUTI INGIUSTAMENTE. CHE DIRE. SONO CONFUSO. NON SONO FELICE. RABBIA? GIOIA? VENDETTA? NON LO SO HO IMPARATO TANTO. HO SOFFERTO E CON ME LA MIA FAMIGLIA, I MIEI COLLEGHI DI STUDIO, I MIEI AMICI. NON E’ ACQUA PASSATA. NON DIMENTICO. HO SUBITO MORTIFICAZIONI. HO VISSUTO DA "CAMORRISTA" SENZA ESSERLO. HO CONOSCIUTO IL CARCERE DIETRO E FUORI LE SBARRE. QUALCHE PERSONA MI HA ALLONTANATO E GIUDICATO SENZA SAPERE O CONOSCERE. HO PERSO CLIENTI IN STUDIO.TANTISSIMI. HO SEMPRE CAMMINATO A TESTA ALTA MA SPESSO HO FINTO. HO PIANTO E LA NOTTE NON DORMO E ALLE 4.00 …HO PAURA DEL CITOFONO…. RICORDO QUEI MOMENTI. UOMINI MASCHERATI. L’ELICOTTERO. MA NON HO SOFFERTO IN CARCERE HO SOFFERTO FUORI DAL CARCERE IN UN MONDO INFAME E FALSO. MI SONO AGGRAPPATO AL POPOLO, ALLA MIA CITTA’, AGLI AFFETTI, AI VALORI VERI. CREDO IN CASERTA. HO CORSO NELLA REGGIA, QUANTO HO CORSO. AMO LA REGGIA. HO CORSO NON PER DIMENTICARE MA X RIFLETTERE .PENSAVO AL PROCESSO , A COSA DIRE. A COME DIFENDERMI. BLUFF …ORA TUTTO FINITO. UN MIRACOLO. UNA FORTUNA. LA GIUSTIZIA ESISTE ED IO CREDO NELLO STATO. SI RIPARTE. CON SLANCIO? NON LO SO. CON LA COSCIENZA PULITA CERTO. COME SEMPRE. AVEVO QUASI 48 ANNI IL 14 LUGLIO 2015. OGGI IL 26 GENNAIO 2017 NE HO QUASI 50. HO PERSO DUE ANNI? FORSE. HO GUADAGNATO SAGGEZZA. MA NON LO AUGURO A NESSUNO. HO IMPARATO A NON GIUDICARE. RICORDO LA TV, LA RAI , IL TG3, CANALE 5. LE INTERVISTE DI QUALCHE POLITICO IDIOTA E CATTIVO. IO IN CARCERE. NON SAPEVO PERCHE’. LORO SAPEVANO TUTTO. PIO DEL GAUDIO = CAMORRISTA. ED ORA. ASSOLTO. INNOCENTE. ARRESTATO SENZA MOTIVO. NON DOVEVO ESSERE ARRESTATO. MA GRAZIE A TUTTI, AI GIUDICI, ALLE FORZE DELL’ORDINE, AI GIORNALI, ALLE TV. MA…”GUAI A CHI CI CAPITA”.

«Carcere senz'acqua, detenuti in doccia coi sacchi dell'immondizia», scrive Marilù Musto Mercoledì 5 Luglio 2017 su Il Mattino. «Per lavarsi i detenuti facevano il “canotto”. In sostanza, disponevano una busta di plastica nera a terra sostenuta da quattro bottiglie piene, il detenuto che doveva fare la doccia si poneva al centro della busta nudo e gli altri, con le bottiglie, gettavano acqua su di lui, in modo che questo poteva lavarsi e fare una sorta di doccia». Lo spiega bene l’ex sindaco di Caserta, Pio Del Gaudio, il piano di sopravvivenza dei detenuti. Lui, in carcere da innocente per 12 giorni, nel luglio del 2015, ha raccontato la vita dal di dentro, fra le quattro mura della casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere. La sua posizione è stata archiviata dalla Procura Antimafia di Napoli nel 2016, ma lui, Del Gaudio, ora parla del modo in cui si sopravvive. «In condizioni assurde», dice. Senz’acqua sin dalle prime luci dell’alba. Impossibile resistere. «Non mi piace parlare di ciò che ho subito - racconta Del Gaudio - ma lo faccio perché lo devo ai miei compagni di cella con i quali ho condiviso 12 giorni di inferno. Ho promesso che una volta uscito avrei spiegato all’esterno il mondo del carcere. Se “vivere” può essere un verbo adatto per definire il trascorrere inesorabile dei giorni in quel luogo senz’anima, allora vuol dire che fuori, oltre quelle mura, si sta da Dio. I detenuti chiedono sempre il trasferimento da Santa Maria Capua Vetere a Terni o ad Avellino perché in quelle case circondariali si vive umanamente, almeno così mi dicevano. Mentre a Santa Maria la lotta è continua per ottenere il minimo. Anche perché in carcere non sei nulla. Quando io sono entrato non avevo niente con me, nemmeno le lenzuola per il letto, ciò che sono riuscito a ottenere appena entrato in cella lo devo al mio compagno di stanza, un ragazzo che si chiama Mirko e che mi ha donato persino le federe dei cuscini». Del Gaudio spiega che l’acqua non arrivava al bagno fin dalle prime ore del giorno: «Alle ore 9 i rubinetti erano al secco, quindi nessuno poteva lavarsi. C’era l’acqua delle bottiglie con cui fare il famoso “canotto”, ma nient’altro. È orribile constatare che da quando sono uscito nulla è realmente cambiato lì. Se si toglie l’acqua stiamo parlando di una privazione essenziale durante l’arco dell’intera giornata». Le proteste dei detenuti iniziavano alle ore 20 di ogni sera, quando davvero non ne potevano più.

SONO INNOCENTE. ANTONIO COLAMONICO.

Estetista uccisa a Mola, assolto compagno in cella dal 2014. Antonio Colamonico, compagno di Bruna Bovino, è stato assolto, scrive il 7 Novembre 2018 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Ribaltando la sentenza di primo grado, la Corte di assise di appello di Bari ha assolto «per non aver commesso il fatto» Antonio Colamonico, accusato dell’omicidio della 29enne italo-brasiliana Bruna Bovino, uccisa il 12 dicembre 2013 nel centro estetico che gestiva a Mola di Bari. Colamonico sarà scarcerato oggi stesso, dopo oltre quattro anni e mezzo di detenzione in carcere. Fu arrestato nell’aprile 2014. In primo grado era stato condannato a 25 anni per omicidio volontario e incendio doloso. L’incendio doloso era stato appiccato dall’assassino - secondo l’accusa - per cancellare le prove del delitto appena compiuto. Il corpo della vittima, infatti, fu trovato semicarbonizzato sul pavimento del centro estetico, fra brandelli di indumenti e sangue, dopo essere stata uccisa con 20 colpi di forbici e strangolata. Alla lettura della sentenza hanno assistito i familiari della vittima, che hanno subito lasciato l’aula in silenzio, e i parenti di Colamonico, moglie, genitori, fratelli e amici, che hanno urlato e applaudito dopo aver appreso dell’assoluzione. "Adesso è stata fatta davvero giustizia», hanno detto abbracciandosi uscendo dal Tribunale. «Lo sapevamo dall’inizio che era innocente, - ha detto il padre Matteo - sono cinque anni che lottiamo e la prima cosa che farò quando andrò a prenderlo dal carcere, sarà portarlo da suo figlio, che oggi ha 7 anni». In lacrime la moglie, Rossella, e il gemello Giovanni, che ha detto di volerlo «portare in Chiesa, nel luogo dove in questi anni ho tanto pregato». Gli avvocati dell’imputato, Nicola Quaranta e Massimo Roberto Chiusolo, hanno spiegato di aver «trovato, grazie ad indagini difensive e un lungo lavoro con consulenti di parte, la prova dell’innocenza di Colamonico. Secondo la Procura - hanno spiegato - la ragazza era stata uccisa intorno alle 17, ma abbiamo trovato testimoni che l’hanno vista e salutata alle 18.20, quando Colamonico era in un altro luogo, come dimostrano le celle telefoniche».

Estetista uccisa a Mola, 4 anni in cella per un tabulato sbagliato: citata Wind3. Avvocati: errore su cella telefonica determinò accuse e arresto. Stando alle informazioni sui tabulati inizialmente fornite dalla compagnia telefonica, il testimone a quell'ora si trovava a 20 chilometri di distanza, scrive l'8 Novembre 2018 "La Gazzetta del Mezzogiorno". Intenteranno una causa per risarcimento danni nei confronti della compagnia telefonica 'Wind3' i difensori di Antonio Colamonico, assolto ieri dalla Corte di Assise di Appello di Bari - dopo quattro anni e mezzo trascorsi in carcere - dall’accusa di aver ucciso la sua ex compagna, l’estetista Bruna Bovino, il cui corpo fu trovato semicarbonizzato e con diverse ferite provocate da forbici, nel dicembre 2013, nel centro estetico che gestiva a Mola di Bari, a circa 20 chilometri dal capoluogo pugliese. Secondo gli avvocati Massimo Roberto Chiusolo e Nicola Quaranta, l’errore nell’individuazione di una cella telefonica sarebbe stato determinante per la ricostruzione dei tempi dell’omicidio fatta dalla Procura e posta a fondamento dell’arresto di Colamonico, che in primo grado era stato condannato a 25 anni di reclusione. I pm ritenevano che la donna fosse stata uccisa alle 17, mentre invece un testimone, un commerciante amico della vittima, ha sempre sostenuto di averla vista viva poco dopo le 18, orario in cui Colamonico era ormai a Polignano, a circa 37 chilometri da Bari. Stando alle informazioni sui tabulati inizialmente fornite dalla compagnia telefonica, il testimone a quell'ora si trovava a 20 chilometri di distanza e quindi le sue dichiarazioni erano state ritenute inattendibili, rafforzando l’ipotesi accusatoria e i sospetti su Colamonico. In realtà una perizia tecnica disposta nel processo di secondo grado, su richiesta delle difese, ha accertato l’errore causato dall’omonimia di due strade, dimostrando che il telefono del testimone, dopo le 18, agganciava effettivamente una cella telefonica non lontana da Mola. I legali annunciano che aspetteranno le motivazioni della sentenza per poi procedere alla richiesta di risarcimento.

ALTRI CENTO, MILLE, MILIONI DI INNOCENTI.

Beatrice Cenci, il fantasma dell’ingiustizia. Il suo processo fu una farsa, la sua barbara esecuzione l’11 settembre 1599 venne seguita da migliaia di persone, scrive Daniele Zaccaria il 13 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Il carro che porta i Cenci al patibolo si fa largo tra grappoli di folla; e grida, singhiozzi, ululati provengono dai marciapiedi, dalle carrozze, dai balconi dei palazzi, in un misto di compassione e ferocia, di eccitazione e paura, nobiltà e popolino a formare un unico, delirante branco. E mentre la processione attraversa Santa Maria di Monserrato, i Banchi, Tordinona, e si avvicina al luogo dell’esecuzione l’aria è satura di calore: quell’ 11 settembre 1599 a Roma fa un caldo torrido, l’estate sembra non voler finire più. C’è un momento però in cui la schiera si azzittisce, un istante sospeso, quasi a raccogliere pensieri e spiriti animali prima del supplizio: la figura sdegnosa di Beatrice appare sul ciglio di San Celso, neanche uno sguardo rivolto agli astanti, gli occhi dritti su ponte S. Angelo dove di lì a poco verrà decollata, ceppo e mannaia, l’ombra del boia già occhieggia sinistra sul palco. Sul carro, dietro di lei, la matrigna Lucrezia Petroni tremante e inebetita, e il corpo già afflitto ma ancora in vita del fratello Giacomo: durante il tragitto lo hanno mazzolato sul cranio, divelto con tenaglie roventi, alla fine morirà per squartamento nel più brutale dei martirii. Lucrezia non sopporta la scena e perde i sensi, Beatrice, che è già il suo fantasma, rimane muta e altera. Al fratello Bernardo, che ha appena 15 anni, viene risparmiato il patibolo ma non lo strazio di assistere alla morte dei suoi cari, anche lui perde i sensi per l’orrore e rimane svenuto per mezz’ora. La prima testa a cadere è quella di Lucrezia, tagliata di netto dallo spadone del boia. Poi tocca a Beatrice, la star, ha 22 anni, ed è di una bellezza rara. Le cronache raccontano di una preghiera sussurrata, di un bacio lieve al crocifisso e, anche qui, di un istante di esitazione da parte del carnefice prima che le vibrasse il colpo fatale: «Intimorito si trovò impacciato a vibrarle la mannaia. Un grido universale lo imprecava, ma frattanto il capo della vergine fu mostrato staccato dal busto, ed il corpo s’agitò con violenza. La testa di Beatrice fu involta in un velo come quella della matrigna, e posta in lato del palco; il corpo nel calarlo cadde in terra con gran colpo, perché si sciolse dalla corda». In piazza quel giorno c’erano migliaia di persone, tra di loro anche un giovane pittore lombardo, Michelangelo Merisi, in arte Caravaggio. In dodici persero la vita, chi per insolazione, chi schiacciato nella calca, chi affogato nel Tevere. Una cupa giornata di morte e di delirio, quell’ 11 settembre 1599. Erano stati condannati alla pena capitale direttamente da Papa Clemente VIII per l’uccisione del conte Francesco Cenci, padre di Beatrice, Giacomo e Bernardo e marito di Lucrezia, sua seconda moglie. Un delitto premeditato per porre fine alle violenze di quell’uomo malvagio di cui tutti dicevano un gran male. Francesco Cenci, ultimo esponente di una nobile e influente casata che acquistò i titoli del medioevo, era arrogante, brutale e perverso, coinvolto in risse e diversi fatti di sangue, finito più volte a processo per violenze sessuali e pedofilia (aveva violentato il figlio 12enne di un popolano) era sempre riuscito a comprarsi un’assoluzione, sfruttando la sua posizione e le sue ricchezze. Ma era con le donne della sua famiglia che riusciva a esprimere al meglio la sua crudeltà. La figlia maggiore Antonina scrive addirittura a Clemente VIII per sfuggire agli abusi paterni, il pontefice, che non aveva alcuna simpatia per Francesco, accoglie la richiesta combinandole un matrimonio con un nobiluomo di Gubbio. Costretto a pagare una ricca dote si sfoga su Beatrice che fa segregare assieme a Lucrezia in un castello in provincia di Rieti che appartiene alla famiglia Colonna, nel territorio del Regno di Napoli. È il 1595 e, fino alla morte avvenuta nel 1598, il castello sarà teatro di sevizie e percosse, di continue umiliazioni, accentuati dall’animo sempre più incarognito di Francesco, malato di gotta e di rogna e assediato dai debiti e dai creditori. Con l’aiuto dei domestici Olimpio Calvetti e Marzio da Fioran, Lucrezia, Beatrice e Giacomo tentano di ucciderlo per ben tre volte, provando ad avve- lenarlo, tentando di pagare dei briganti locali, stordendolo con l’oppio. Alla fine è Olimpio a ucciderlo nel sonno, a colpi di martello e a chiodate. Ufficialmente Francesco Cenci è morto per una brutta caduta da una balaustra, ma la messa in scena è goffa, amatoriale. Fanno ritrovare il corpo in un orto ai piedi del castello. Non ci vuole molto agli investigatori mandati sia dal viceré del Regno di Napoli che dal Vaticano per capire che quello non era un incidente, ma un delitto. Riesumano il cadavere, trovano i segni delle martellate sul cranio e alcuni buchi nel collo, due chirurghi certificano l’omicidio. Il movente è limpido: tutti sapevano delle brutalità del conte nei confronti dei familiari che avevano più di una buona ragione per liberarsi di lui. I Cenci vengono portati a Roma, in un primo momento ai domiciliari nel loro palazzo sotto la sorveglianza delle guardie pontificie. Si dichiarano innocenti, sono una famiglia molto in vista, dei “vip” e il loro processo, che oggi verrebbe definito uno show mediatico, calamita l’attenzione morbosa dell’opinione pubblica ed è condotto dai più noti giuristi dell’epoca. Il dibattimento vede affrontarsi infatti due autentici principi del foro, Pompeo Molella per la pubblica accusa e Prospero Farinacci per la difesa, il giudice è Ulisse Moscato che due secoli più tardi il francese Stendhal (grande appassionato della tragedia dei Cenci) descrive nelle sue Cronache Romane come «uomo dalla profonda sapienza e dalla superiore sagacità dell’intelletto». Ma Clemente VIII, lo stesso che l’anno successivo farà ardere vivo Giordano Bruno, non può accettare una sentenza che non si concluda con la morte per gli accusati. L’avidità, la cupidigia untuosa di Papa Aldobrandini, beneficiario naturale della confisca dei beni dei Cenci, rende il processo una farsa, fosse stato per lui non ci sarebbe stato nessun processo, li avrebbe fatti squartare tutti appena arrivati a Roma. Irritato dalla ragionevolezza e dalla moderazione di Moscato e preoccupato che possa venire colpito dalla grazia della giovane, lo fa sostituire dal giudice Cesare Luciani, noto per la facilità con cui spedisce gli imputati dal boia fin dai cupi tempi di Sisto V, soprannominato “il Papa della delazione e delle forche”. Ma soprattutto c’è Beatrice, superba e altezzosa, che rifiuta di ammettere le violenze e gli stupri del padre, un po’ per scongiurare il movente, un po’ per orgoglio e vergogna. A nulla servono le suppliche del suo avvocato, che la invita ad ammettere l’omicidio ma anche a elencare tutti gli abusi subiti da quell’orrendo genitore, abusi che potranno servire da altrettante attenuanti e a risparmiarle la vita. Niente da fare, lei rigetta con sdegno ogni accusa. Molella porta in aula a testimoniare il domestico Marzio che alla vigilia aveva confessato sotto tortura, ma alla vista di Beatrice, di cui era perdutamente innamorato, scoppia a piangere e ritratta tutto. Viene ucciso qualche giorno dopo a colpi di mazza dagli aguzzini del Papa. Olimpio, l’altro domestico che aveva partecipato alla congiura era invece riuscito a darsi alla macchia prima degli arresti, ma viene ritrovato da un simpatizzante dei Cenci che lo ammazza per impedirgli di testimoniare. La sentenza di condanna a morte è scontata, tanto che viene emessa in assenza di Farinacci, ancor prima che possa pronunciare l’arringa difensiva. Soltanto al piccolo Bernardo è risparmiato il supplizio, lo condannano ai “remi perpeutui” nelle galere delle Stato Pontificio (comprerà la sua libertà qualche anno dopo pagando un’ingente somma). Immediatamente i Cenci sono portati in prigione, Lucrezia e Beatrice rinchie nella Corte Savella, Giacomo e Bernardo nel carcere di Tordinona, prima dell’esecuzione ci sarà la tortura. Clemente VIII vuole infatti che i Cenci confessino e vuole eliminarli prima che la pietà possa far breccia nei sentimenti del popolo, incuriosito e appassionato da quella tragica vicenda. Confesseranno tutti, l’ultima a piegarsi è proprio Beatrice, sottoposta al trattamento della “corda” che consiste nel sollevare il corpo tramite una carrucola mentre delle grosse funi ti spezzano giunture e articolazioni. Si piega per il dolore fisico, insopportabile, ma anche perché capisce che tutto è ormai perduto, che i suoi familiari hanno confessato, che niente e nessuno potrà salvarla dallo spadone affilato del boia. Il suo processo e la sua esecuzione, il barbaro squartamento del fratello Giacomo, simbolo di una giustizia vendicativa e ancella del potere, ha colpito a fondo l’immaginario collettivo del popolo e degli artisti e intellettuali. E nei secoli ha ricevuto il tributo di scrittori come Stendhal, Shelley, Dumas, Artaud, Moravia, di pittori come Caravaggio, Artemisia Gentileschi (anche lei in piazza il giorno della morte), Guido Reni, di musicisti come Rota e Goldschmidt, di cineasti come Mario Camerini e Lucio Fulci. La leggenda vuole che ogni 11 settembre, annunciato da una gelida brezza, il fantasma di Beatrice Cenci appaia all’imbrunire sui balconi di Castel S. Angelo. La testa appoggiata sulle mani bianche come la luna, la camminata leggera e altezzosa, una luce malinconica nello sguardo, e un sorriso beffardo da regalare ai romani, proprio come quando era in vita.

Assolti dopo 27 anni. “E ora risarciteli!” Per quattro imputati la Corte d’Appello ha riconosciuto un indennizzo per l’irragionevole durata del processo, scrive Simona Musco il 20 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Vent’anni per arrivare ad un processo. E altri sette perché dei giudici stabilissero che il fatto non sussiste. È una storia paradossale quella della cosiddetta “banda della coca” di Alghero. Che non esiste, secondo i giudici, che si sono ritrovati a giudicare presunti trafficanti di cocaina, un affare che dalla Sardegna arrivava alla Calabria, passando per Roma e per la Colombia. Ma dopo quasi tre decenni, lo Stato si ritrova ora a dover risarcire i primi quattro imputati per l’irragionevole durata del processo di primo grado. Una strada che potrebbero seguire ora anche le altre persone coinvolte, assieme a quella della richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione. Tutto comincia nel 1991, quando 15 persone, dopo la soffiata di una fonte confidenziale e il lavoro di agenti sotto copertura, vengono coinvolte in un’indagine su un presunto traffico di sostanze stupefacenti. Per otto di loro l’accusa è di aver promosso, diretto e organizzato un’associazione per delinquere finalizzata allo smercio della droga e così finiscono in carcere, rimanendoci per circa un anno. L’udienza preliminare arriva nel 1995, ma il Gup di Sassari annulla la richiesta di rinvio a giudizio, rimettendo gli atti al pm, al quale chiede altre prove a carico delle persone coinvolte. Nel tornare in Procura, però, le carte spariscono. Non se ne accorge nessuno fino al 2010, quando dopo 19 anni di silenzio viene notificato l’avviso di conclusione delle indagini preliminari, con una nuova udienza preliminare fissata ad ottobre. Alcuni faldoni spariscono e per far iniziare il processo è necessario attingere da più parti: dai carabinieri per le intercettazioni, mentre altri documenti vengono forniti direttamente dalle difese. Con quanto ha in mano, l’accusa chiede il rinvio a giudizio e si arriva, dunque, a luglio del 2011, quando il gup decide di mandare tutti a processo. Ma dopo sei anni, a novembre del 2017, tutti gli imputati vengono assolti perché il fatto non sussiste. «Nonostante fossero decorsi i termini della prescrizione – spiega al Dubbio l’avvocato Paola Milia – i giudici sono entrati nel merito, spiegando che questa banda non è mai esistita. Si è trattato, invece, di una sorta di invenzione di alcuni confidenti e di agenti sotto copertura, che però non hanno mai portato le prove della sua esistenza». Secondo quanto si legge in sentenza, le testimonianze sono risultate vaghe e insufficienti e «nulla è poi emerso con riferimento al delitto associativo». Ma non solo: di alcuni dei soggetti indicati come promotori del traffico «non è emerso neppure il nome nel corso dell’attività istruttoria». La sentenza è diventata irrevocabile il 31 marzo del 2018, ma l’assoluzione non è bastata ai difensori di Salvatore Budruni, Giuseppe Ballone, Antonio Martiri e Gervasio Madeddu, gli avvocati Gabriele Satta, Franco Luigi Satta e Milia, che hanno presentato ricorso alla Corte d’appello, ottenendo un risarcimento di 600 euro per ogni anno successivo ai tre anni riconosciuti come periodo ragionevole di durata di un giudizio di primo grado. Ad ognuno di loro, adesso, andrà una cifra compresa tra i 16mila e i 18mila euro. «Questo caso sottolinea Milia – rappresenta il classico esempio di come la sospensione dei termini della prescrizione sia incostituzionale e illegittima e renderebbe discrezionale la trattazione dei processi in fase d’appello. Noi avvocati da domani (oggi, ndr saremo in agitazione. Molti degli imputati di questo processo hanno dovuto rinunciare a tutto, si sono visti togliere concessioni demaniali e le loro famiglie sono dovute andare via. Si parla sempre e solo dei colpevoli conclude – ma ci si dimentica che a processo ci finiscono anche gli innocenti».

«Confessa o resti in cella». Davigo dice che va bene così. Il consigliere del Csm rivendica l’uso del carcere come strumento di pressione, scrive Piero Sansonetti il 17 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Piercamillo Davigo – l’ex presidente dell’Anm, il giudice di Cassazione, l’attuale consigliere del Csm, insomma, una delle autorità della nostra magistratura – ieri, in Tv, intervistato da Goffredo Buccini del “Corriere della Sera”, ha rivendicato l’uso del carcere come strumento per far confessare gli indagati. Ha usato un giro di parole e un sorriso per affermare questo principio, ma lo ha affermato. «Confessa o resti in cella» Davigo dice che va bene così. Buccini lo ha portato a parlare del rapporto tra arresti e confessioni, riferendosi soprattutto ai metodi di indagine usati dal famoso pool mani- pulite negli anni novanta. Davigo, con una smorfia ironica, ha spiegato che loro non arrestavano per far confessare ma semplicemente scarceravano dopo la confessione. Dalla smorfia di Davigo si capiva che il magistrato sa benissimo che non c’è una gran differenza tra le due cose. Gli piace giocare un po’ sulle parole, con destrezza. I magistrati milanesi mettevano in prigione le persone e le tenevano lì finché non confessavano. Spiegando loro, durante gli interrogatori, che non potevano fare altrimenti, perché solo se confessavano si poteva star tranquilli che non ci fossero più rischi di reiterazione del reato. E in questo modo i Pm milanesi ottennero decine di confessioni, nessuno sa quanto spontanee e quanto veritiere (ma ottennero anche qualche suicidio, che ancora brucia). Non ci vuole molto a capire che se ti trovi in cella, magari da un mese, o da due, e sei disperato, impaurito, pieno di angosce – e forse anche innocente – e ti fanno intuire, o ti dicono esplicitamente, che o confessi qualcosa ( e magari ti fanno capire anche cosa) o resti dietro le sbarre, beh è abbastanza probabile che prima o poi tu confessi. Quanto è attendibile una confessione ottenuta in questo modo? Poco, molto poco. Quanto è rispettoso della Costituzione e dello stato di diritto e del codice di procedura penale, e dei diritti dell’uomo, questo metodo? Poco, forse niente. Vorrei fare una breve digressione, che potete pensare fuori luogo, ma io credo che invece c’entri qualcosa col ragionamento di Davigo. Nel diciottesimo secolo, in Francia, fu eliminata la tortura dal sistema penale. Prima la tortura era ammessa, anche se regolata da norme molto precise e piuttosto rigorose. Che tra l’altro davano al torturato un piccolo vantaggio: se resisteva alla tortura era definitivamente e incontrovertibilmente assolto e il magistrato accusatore aveva perso. Fu eliminata – questo è il dettaglio più interessante – non perché considerata un metodo crudele e inumano. No, per un’altra ragione, più di dottrina. Perché fu stabilito che non potevano mescolarsi gli strumenti di indagine e la pena. Dovevano restare assolutamente distinti e distanti. Mentre la tortura, indubitabilmente, era una pena. Quindi non poteva valere ai fini dell’indagine. Certo, la tortura fisica era molto molto dura e sanguinosa, e non è paragonabile alla detenzione in una prigione italiana del ventunesimo secolo. Quando si dice che la detenzione è una tortura si usa una metafora (o, almeno, per comodità di ragionamento, ammettiamo che sia così). Resta il fatto che indiscutibilmente la detenzione è una pena. Pena addirittura identica a quella che poi si deve scontare se si è riconosciuti colpevoli dopo il terzo grado di giudizio. La cella è quella, le condizioni della prigionia son quelle. Possibile che in Italia, nel ventunesimo secolo, non si sia ancora arrivati a comprendere, o a riconoscere, e ad attuare un principio che i francesi affermarono più di 250 anni fa? E possibile che una persona colta e sensibile come Piercamillo Davigo non avverta questo problema come problema serio e reale? Il problema generale è quello della liceità della detenzione preventiva, se non in casi estremi. Il diritto e le leggi prevedono che sia così. Prevedono che l’indagato sia considerato innocente e che il suo arresto possa avvenire solo per ragioni particolarissime. Però sappiamo che questo non avviene. La detenzione preventiva è molto, molto usata. Quasi il 40 per cento degli attuali detenuti non ha subito una condanna definitiva. Le statistiche ci dicono che più della metà di loro risulterà innocente. Parliamo di decine di migliaia di persone innocenti in prigione. Possibile che di fronte a questi problemi e a queste cifre indiscutibili, una personalità come quella di Davigo possa limitarsi, in una intervista Tv, a lamentarsi – come ha fatto – perché in Italia troppi pochi condannati scontano effettivamente la pena? Dopodiché devo ammettere che l’intervista di Buccini e di Formigli (si è svolta nel programma Piazza Pulita della 7) a Davigo è stata molto divertente. Davigo sicuramente è l’esponente più radicale dello schieramento giustizialista, ma è comunque una persona colta e anche spiritosa. Non solo: sicuramente è un uomo libero (sono quelli che finiscono sotto il suo martello, spesso, a non essere più liberi…) e infatti su molti argomenti ha picchiato duro sul governo e anche sul movimento dei 5 Stelle che pure, notoriamente, è un movimento davighista. Ha liquidato il condono, ha liquidato la “daspo” anticorruzione, ha liquidato la riforma della prescrizione, ha liquidato soprattutto la proposta di riformare le norme sulla legittima difesa. Ha fatto notare che se uno spara a qualcuno che scappa disarmato, e il proiettile entra dalla schiena e uccide il poveretto, non c’è legge che possa impedire di processare quel tale per omicidio. E ha anche ricordato che la legge sulla legittima difesa (prima ancora che fosse modificata e resa più lasca, nel 2006, quando ministro era un leghista) era stata scritta non da un pericoloso anarchico amico dei ladruncoli, ma da Alfredo Rocco, ministro della giustizia di Mussolini. Detto tutto questo, il problema del rapporto tra arresti e confessione resta drammaticamente in piedi. L’idea che un membro del Csm ritenga legittimo usare le manette per indurre gli indagati a “cantare”, getta un’ombra cupa, molto chupa, sul nostro stato di diritto.